Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LA GIUSTIZIA

 

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Processo sulla Morte.

Processo sul Depistaggio.

Federico Aldrovandi: "Non lo dimenticate".

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Condanne scontate.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Bossetti è innocente?

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Famiglia Sfortunata.

Solita Amanda.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tso: Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani.

Il punto su Bibbiano.

La Tratta dei Minori.

Tra moglie e marito non mettere…lo Stato.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Era Abuso…

Non era abuso…

Minorenni scomparso o in fuga.

Ipocrisia e Pedofilia.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Giustizia Giusta.

Comunisti per Costituzione.

Magistratura: Ordine o Potere?

Il Potere degli “Dei”.

“Li Camburristi”. La devono vincere loro: l’accanimento giudiziario.

L’accusa conta più della difesa.

«I magistrati onorari? Dipendenti».

Il Codice Vassalli.

Lo "Stato" della Giustizia.

La "scena del crimine".

Diritto e Giustizia. I tanti gradi di Giudizio e l’Istituto dell’Insabbiamento.

Testimoni pre-istruiti dal pm.

Le Sentenze “Copia e Incolla”.

Il Male minore. Condanna, spesso, senza colpa. Gli effetti del Patteggiamento.

Il lusso di difendersi.

Il Processo telematico.

Giustizia stravagante.

Giustizia lumaca.

Diffamazione: sì o no?

La Vittimologia.

A proposito di Garantismo.

A proposito di Prescrizione.

Prescrizione e toghe inoperose.

Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio.

Salute e carcere. 

Le Mie Prigioni.

L’ergastolo ostativo: il carcere per i Vecchi.

La Prigione dei Bambini.

Le Class Action carcerarie.

Gli scrivani del carcere.

A Proposito di Riabilitazione…

Le mie Evasioni.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Oltre ogni ragionevole dubbio.

La Giornata per le vittime di errori giudiziari.

La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo. La Cedu, il carrozzone inutile che costa 71 milioni all'anno.

L’Italia dei Ricorsi alla Corte dei diritti dell’Uomo.

Quelli che...sono Ministro della Giustizia: “Gli innocenti non finiscono in carcere”.

Invece gli innocenti finiscono in carcere. Ma guai a dirlo!

Le Confessioni e le Dichiarazioni estorte.

Storie di Ordinaria Ingiustizia.

Ingiustizia. Il caso dei Marò spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Vallanzasca spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Mesina spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Johnny lo Zingaro spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Manduca spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Luttazzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gulotta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ligresti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Carminati spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Rocchelli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Occhionero spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gino Girolimoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Formigoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso De Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cuffaro spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Armando Veneto spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Vincenzo Stranieri spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del delitto di Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del Delitto di Carmela “Melania” Rea spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del Delitto di Erba spiegato bene.

Nascita di un processo mediatico.

Processo Eni e Consip. Dove osano i manettari.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini.

La spazzacorrotti. Una norma giustizialista che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia.

I Garantisti.      

I Giustizialisti.

Gli Odiatori.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Concorso truccato per i magistrati.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

E’ scoppiata Magistratopoli.

Magistrati alla sbarra.

Gli intoccabili toccati.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caso Mattei.

Attentato alla sinagoga di Roma, una nuova pista trentotto anni dopo.

Il misterioso caso di Davide Cervia.

Il Mistero di Pier Paolo Pasolini.

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il Mistero di Ettore Majorana.

Il Mistero della Circe della Versilia.

Il Mistero di Gigliola Guerinoni: la Mantide di Cairo Montenotte.

Il mistero del delitto della Milano da bere.

L’Omicidio del Circeo.

Il Caso Claps.

Il Caso Vassallo.

Il Caso di Eleonora e Daniele: i fidanzati di Lecce.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Denise Pipitone.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero della morte di Sissy Trovato Mazza.

Vermicino: la morte di Alfredino Rampi.

Il mistero di Maddie McCann.

Il giallo della morte di Edoardo Miotti.

La morte di Emanuele Scieri.

La morte di Giulio Regeni.

Storia di Antonio Ciacciofera, il Regeni dimenticato tornato morto da Cuba.

I Ciontoli e l’omicidio Vannini.

Il Giallo di Alessio Vinci.

Il Giallo Bergamini.

L’omicidio di Willy Branchi.

L’Omicidio di Serena Mollicone.

Il Mistero di Rino Gaetano.

Il Mistero Pantani.

Il Mistero della morte di Marco Cestaro.

Il mistero della morte in auto di Mario Tchou. 

La morte sospetta del giornalista Catalano.

Il caso Wilma Montesi.

Miranda Ferrante, morte e misteri di una ballerina della Dolce vita.

Christa, delitto-scandalo della Dolce vita.

L'assassinio di Khashoggi.

Dal mare tre sub morti e cento chili di hashish.

L’Omicidio di Walter Tobagi.

Il Caso della Uno Bianca.

La Strage palestinese di Fiumicino.

Quante vie partirono da piazza Fontana…

Il Caso Pinelli – Calabresi.

L'omicidio di Mino Pecorelli.

I misteri della Strage di Ustica.

I misteri della Strage di Bologna.

I Misteri della Strage di Piazza della Loggia a Brescia.

Dubbi e bugie sulla morte di Mario Biondo.

Boulder, Colorado: il mistero della baby miss strangolata.

Racale, il mistero di Mauro Romano.

La Morte di Rosanna Sapori.

Il mistero di Fabio e Enzo spariti nel mare.

Il mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Lesotho e l’Affare di Stato. L’Omicidio di Lipolelo.

Marocco e l’Affare di Stato. Lalla Salma.

Ted Kennedy poteva essere assassinato da un piano ordito da un satanista?

La Storia di Robert Durst.

Il giallo della baronessa Rothschild.

Il caso Bebawi: il delitto di Farouk Chourbagi.

Storia del rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi.

L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.

La Morte di Marco Prato.

David Rossi: suicidio o omicidio?

Le Navi dei veleni. Il mistero della morte del capitano De Grazia.

Moby Prince, dopo 30 anni.

Il caso di Emanuela Orlandi.

Renatino De Pedis fu ucciso 30 anni fa.

I Suicidi di Carmagnola. Le tre sorelle Ferrero.

Il mistero dell’Eremita. La tragica fine di Mauro «Lupo grigio».

Massimo Carlotto e il delitto di Margherita.

Antonio De Falchi, morte a San Siro.

Il caso del sequestro Bulgari.

Il mistero irrisolto dell'uomo di Somerton.

Il Mistero del massacro di Columbine.

Il Mistero del jet malese MH370 scomparso.

Il Mistero Viceconte.

Il killer dell’alfabeto.

La banda di mostri, omicidio a Bargagli.

Antonietta Longo, la decapitata del lago.

Il mistero del naufragio del Ferry Estonia.

Il mistero della Norman Atlantic.

James Brown potrebbe non essere morto per infarto.

La saponificatrice di Correggio: una storia tra verità e leggende.

Delitto Casati Stampa, triangolo di sesso e morte.

Luciano Luberti il boia di Albenga.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

  

 

 

LA GIUSTIZIA

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini.

Il Coronavirus salva il governo, l’emergenza spazza via ogni dissenso. Piero Sansonetti de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Per l’asiatica, nel 1958, morirono circa un milione di persone. Me la ricordo, ero piccolo, andavo a scuola e facevo la terza elementare. Me la beccai anch’io. L’asiatica era una influenza tosta. Ci volle un po’ di tempo per trovare un vaccino. Poi sparì. Non chiusero le scuole e non fu interrotto il campionato di calcio (lo scudetto andò alla Juve, come al solito, e John Charles vinse la classifica dei cannonieri). I treni e gli aerei continuarono a funzionare e nelle vie di Milano – dicono –  la vita era intensa, laboriosa e allegra. Il pil volava. Certo che le cose oggi sono molto diverse, c’è una consapevolezza assai maggiore sia per il valore della vita umana sia per la difesa della salute. E dunque è giustissimo che le autorità intervengano per cercare di fermare o comunque di contenere l’epidemia. Quel che non mi convince è la solita logica dell’emergenza. Che da qualche decennio, qui in Italia, è diventata l’unica vera categoria politica. È solo l’emergenza a dettare le scelte del governo e dei partiti, a dominare l’economia, a influenzare le leggi. Mi ricordo l’emergenza lotta armata, l’emergenza mafia, poi la corruzione, gli omicidi stradali, le rapine in casa. Ciascuna di queste emergenze ha prodotto leggi e ha modificato l’andamento della vita civile. E anche dell’economia. L’emergenza Br, e poi l’emergenza mafia, hanno prodotto un pacchetto di leggi repressive e di riduzione dello Stato di diritto, che sono ancora lì. L’emergenza corruzione ha assetato un colpo micidiale alla nostra economia, che non si è mai ripresa, e ha prodotto nuove leggi repressive e illiberali. Adesso siamo all’emergenza virus, che ha bloccato la lotta parlamentare (dando il via libera a misure autoritarie volute dal governo) e che provocherà delle conseguenze gravi sull’economia. Perché succede questo? Davvero siamo dinanzi ad un’emergenza come quella dell’asiatica? Io mi fido poco dei politici e non sempre degli scienziati. Tendo però a fidarmi di alcuni scienziati che hanno sempre dimostrato grande sapienza. Ilaria Capua per esempio – quella che fu annientata da un errore dei Pm e da una vergognosa campagna stampa contro di lei, che ancora aspetta le scuse dei giornalisti – ci ha spiegato che ci troviamo di fronte a una ondata di influenza, appena un po’ più pesante delle normali influenze. Che va affrontata con rigore, saggezza, e senza panico. E allora? Cos’è che ha scatenato questo pandemonio, che probabilmente pagheremo caro? Io ho una idea. Questo pandemonio è una conseguenza inevitabile di una delle cose più preziose che ci siamo conquistati in questi anni: la libertà di stampa. La piena, assoluta, incontrollata libertà di stampa. La quale si esercita nei confini del mercato ed è condizionata dal mercato. Possiamo lamentarci dell’eccesso di libertà di stampa e di mercato? No, anche perché non risulta esistere niente di meglio sul vassoio delle libertà. Ma anche la libertà di stampa ha degli effetti collaterali che possono essere sgradevoli. E tra questi effetti c’è la cattiva informazione. La quale provoca un fenomeno molto conosciuto dai sociologi: l’allontanarsi della percezione di massa dalla realtà. Il divorzio tra percezione e realtà produce il grande allarme. Qui siamo noi. Non è la prima volta. Non sarà l’ultima.

Intercettazioni, sì alla fiducia. L’opposizione: così il Paese ai pm. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Incassata la fiducia, la maggioranza ha deciso di posporre il voto finale per il decreto sulle intercettazioni a domani, anticipando quindi l’esame del decreto sul coronavirus, come chiesto dall’opposizione. Nessun problema per la fiducia, che è passata con 304 sì, 226 no e un astenuto. Il nuovo calendario dei lavori messo a punto dalla conferenza dei capigruppo — per consentire l’approvazione del decreto legge coronavirus nella giornata di oggi — prevede il via libera definitivo al provvedimento, nel testo già votato dal Senato, per domani sera. Rivendicano la «vittoria» sia la Lega sia Forza Italia. Per il capogruppo del Carroccio alla Camera, Riccardo Molinari, «è una vittoria della Lega: una decisione logica e di buon senso che poteva essere assunta prima, invece di perdere tempo prezioso». Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia, scrive su Twitter: «Prima la salute. Finalmente accolta la richiesta che ho avanzato fin da domenica e che è stata condivisa da tutta l’opposizione. Ogni tanto prevale il buon senso». Diversi esponenti della maggioranza avevano sostenuto, fino a ieri, che l’inversione del calendario non era necessaria, visto che il decreto sul coronavirus è già stato emanato ed è operante. E che invece bisognava fare in fretta con la conversione del decreto sulle intercettazione, che scade il 29 febbraio. Ma il nuovo calendario, evidentemente, consente di contemperare le due esigenze. Restano tutte le distanze sul contenuto del decreto, fortemente osteggiato dall’opposizione. Per il deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, intervenuto durante le dichiarazioni di voto, «la gravità della contingenza che sta vivendo il Paese non attenua la portata di un provvedimento barbaro: baloccandosi con le norme costituzionali per puro spirito di sopravvivenza, il governo sta consegnando l’Italia ai pm. Il 1 maggio, giorno in cui entrerà in vigore la riforma, non sarà più solo la festa del lavoro ma anche quella delle Procure: mi aspetto cortei di pm che osannano questo scellerato esecutivo. Finora erano un optional straordinario, ora i processi avranno le intercettazioni di serie». In disaccordo, naturalmente Alessandro Zan, del Pd, che rivendica «una sintesi migliorativa» trovata in questi mesi: «Viene vietata la pubblicazione di quelle intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’oggetto delle indagini». Per raggiungere questo obiettivo, spiega, «abbiamo spostato dalla polizia giudiziaria al pm la rilevanza delle conversazioni intercettate. Consentendo ai difensori di accedervi». Il leghista Flavio Di Muro spiega invece: «Nei 200 emendamenti presentati dalle minoranze, cancellati col colpo di spugna della fiducia, c’erano molte proposte di buonsenso che avrebbero messo a riparo il decreto dai profili di incostituzionalità».

Intercettazioni, la Camera vota la fiducia con 304 sì. Giovedì il via libera finale. Opposizioni sul piede di guerra. L'emergenza coronavirus aveva indotto i forzisti e Fdi ad avere un atteggiamento più collaborativo. Ma adesso la linea è cambiata. E, Lega in testa, non si vuole fare sconti alla maggioranza: si chiede l'uso del trojan anche contro chi detiene materiale pedopornografico. Liana Milella il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. Il governo ha incassato oggi la fiducia della Camera sul dl intercettazioni con 304 sì, 226 no e 1 astenuto. Ma il voto definitivo sulle intercettazioni è stato rinviato a giovedì 27 febbraio. Lasciando spazio domani al decreto coronavirus. È su questo compromesso che, a Montecitorio, la maggioranza evita l'attacco del centrodestra sugli ascolti e la minaccia stessa che il decreto possa non essere convertito in tempo per sabato 29 marzo. È la conferenza dei capigruppo che, prima dell'inizio delle dichiarazioni di voto sulla fiducia, sblocca la situazione. Di fatto fermando la pioggia di odrini del giorno del centrodestra, quasi 260, che rischiavano di costringere il presidente della Camera a passare alla "ghigliottina". Soddisfatta Forza Italia, con la capogruppo Maria Stella Gelmini, che in verità da domenica aveva suggerito una soluzione di questo tipo. Sblocca così una situazione di stallo che rischiava di avere contraccolpi sulle intercettazioni. Perché sembrava proprio che il governo potesse rischiare nella conversione del decreto legge sulle intercettazioni. Sul quale già ieri aveva posto il voto di fiducia. Ma  il centrodestra - che ieri invece sembrava intenzionato ad assumere un atteggiamento più responsabile per via del coronavirus - ci aveva ripensato. Moltiplicando gli ordini del giorno che dovevano essere  approvati alla fine delle votazioni sulla fiducia, la cui conclusione è prevista per il tardo pomeriggio. Soprattutto la Lega non vuole fare sconti alla maggioranza rispetto a un decreto su cui ha già scatenato la guerra al Senato, tentando di bloccare il voto con l'emendamento su chi detiene materiale pedopornografico e chiedendo per questo l''uso del Trojan. Lunedì pomeriggio, quando la tagliola del presidente della Camera è caduta sugli interventi durante la discussione generale, c'erano già un centinaio di interventi in programma dei leghisti. Che sarebbero potuti tornare di attualità. Sembrava che la strategia aggressiva contro le intercettazioni fosse stata messa da parte, soprattutto dopo il passo indietro di Forza Italia. Il responsabile Giustizia Enrico Costa aveva già lanciato il primo segnale domenica in commissione Giustizia, quando aveva ritirato l'emendamento per rinviare di un anno la prescrizione. Ai collegi aveva detto: "Oggi non me la sento davvero di tenere impegnata la commissione per almeno un paio d'ore sulla prescrizione quando, fuori di qui, tutto il Paese è in allarme per la diffusione del coronavirus. Comunque resta in aula la mia proposta di legge che elimina del tutto la prescrizione e ci sarà tempo, all'inizio di marzo, per discuterne con calma". Infatti, superato il suo emendamento, il testo delle intercettazioni era passato. Allo stesso modo, proprio Forza Italia con la capogruppo Maria Stella Gelmini, aveva dato un altro segnale in aula. Priorità assoluta alla discussione sul coronavirus, lasciando da parte le polemiche su un decreto, quello delle intercettazioni, che pure i forzisti hanno contestato e avversato in tutti i modi. Tant'è che ancora ieri ecco Costa dichiarare in Transatlantico, proprio davanti all'ex Guardasigilli Andrea Orlando, il vero "padre" del decreto intercettazioni, portato da lui nello scorso governo, e poi fermato per ben due volte dal suo successore Alfonso Bonafede. Dice Costa: "La foga della maggioranza nel procedere a tappe forzate sul decreto intercettazioni, ponendolo come priorità assoluta, ha una sola spiegazione. Questo decreto è la merce di scambio che il Pd ha ottenuto di fronte al dietrofront sulla prescrizione. Se salta il decreto salta l'accordo''. Ma ieri sera, subito dopo il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità e appena il governo ha posto la fiducia, hanno cominciato a suonare di nuovo i tamburi di guerra. Perché la Lega, con Salvini in testa (no al decreto, si rinvii tutto), ha dato il là sull'ostruzionismo con gli ordini del giorno, visto che sulla fiducia i voti della maggioranza sono schiaccianti a Montecitorio. In barba al coronavirus, e nonostante proprio una deputata di Fratelli d'Italia ieri si fosse conquistata le foto su tutti i siti per via della mascherina indossata in aula, i deputati di Salvini hanno deciso per la linea dura. A questo punto, inevitabilmente, seguiti anche da Forza Italia e Fdi per non spaccare clamorosamente il centrodestra. Una sfida che avrebbe  comportato solo una strada per controbatterla per la maggioranza: mettere la cosiddetta "ghigliottina" sul dibattito e chiudere sulle intercettazioni. In tempo per venerdì visto che il decreto scade sabato. Ma alla fine la soluzione dei capigruppo ha risolto il, problema e chiuso la polemica. Voto sulla fiducia, poi coronavirus, di nuovo intercettazioni giovedì. A patto che il centrodestra non ci ripensi e non torni all'ostruzionismo. 

Maurizio Tortorella per “la Verità” il 26 febbraio 2020. Il Senato ha approvato il decreto legge sulle intercettazioni. Il decreto, sul quale il governo aveva posto la fiducia per evitare sorprese, era stato varato a fine dicembre dal ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, e ieri ha incassato 156 sì e 118 no. Hanno votato a favore tutti i partiti di governo: il Movimento 5 stelle, il Partito democratico, Liberi e uguali, e anche la senatrice a vita Liliana Segre. Alla fine ha detto sì anche Italia viva, il partitino di Matteo Renzi, che pure negli ultimi giorni aveva manifestato dissenso. Ad accendere gli animi nella maggioranza, che da mesi si scontra sulla parallela riforma della prescrizione, era stata una proposta d' emendamento presentata in commissione Giustizia dal senatore di Leu, Pietro Grasso, che voleva rendere sempre utilizzabili le intercettazioni che scoprano casualmente un reato diverso da quello sul quale si sta indagando. Va ricordato che il codice vieta che si faccia uso indiscriminato delle intercettazioni al di fuori del procedimento in cui sono state disposte. Ma questa norma non lo ha mai impedito concretamente. Sul tema, lo scorso gennaio, si sono pronunciate le sezioni unite della Cassazione: hanno stabilito che, se un' intercettazione rivela un nuovo reato, non può essere usata per far partire una nuova inchiesta, a meno che il reato scoperto sia così grave da prevedere l' arresto in flagranza. È un limite corretto, che dovrebbe evitare le cosiddette «intercettazioni a strascico», cioè quelle impropriamente usate per colpire un indagato andando alla ricerca di reati dei quali s' ignora l' esistenza. Alla fine, con una norma ambigua e pericolosa, pochi giorni fa la commissione Giustizia ha invece stabilito sia possibile l' utilizzo di un' intercettazione che scopre nuovi reati, a patto che la registrazione sia «indispensabile e rilevante» ai fini giudiziari. Italia viva evidentemente s' è accontentata, e ieri ha votato sì. Ora il decreto Bonafede passa alla Camera: per convertirlo in legge, i deputati hanno tempo fino a sabato 29 febbraio. Forse per non doversi «inchiodare» esteticamente a un voto di fiducia al governo di cui da mesi gioca a fare la spina nel fianco, ieri Renzi non è entrato nell' emiciclo. In base ai tabulati di Palazzo Madama, il senatore di Scandicci risultava ufficialmente «in congedo», anche se qualche ora prima del voto aveva tenuto una conferenza stampa in una sala del Senato. Adesso, mentre il decreto legge sulle intercettazioni sta per essere trasmesso alla Camera, l' opposizione annuncia una battaglia ostruzionistica contro la norma, che modifica la riforma varata nel 2017 dal Guardasigilli dem Andrea Orlando, adeguandola alla logica e al campo d' applicazione della «Spazzacorrotti», la legge che incarna il giustizialismo grillino. Il centrodestra ne critica soprattutto un risvolto: il decreto introduce infatti la possibilità d' impiegare tecnologie particolarmente invasive (i virus informatici «trojan») non soltanto quando s' indaga sui più gravi crimini di mafia e di terrorismo, ma anche nei reati contro la Pubblica amministrazione puniti con pene sopra i cinque anni e commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio. Questo significa che, se il decreto sarà convertito in legge, gli inquirenti potranno utilizzare con maggiore libertà e per un numero molto più ampio di reati una tecnologia particolarmente invasiva, che è in grado di penetrare segretamente in tutti i cellulari, nei computer, nelle email. Diverrà possibile trasformare qualsiasi smartphone in una microspia perennemente accesa, ma si potrà anche utilizzare al rovescio la telecamera di ogni computer, scrutando negli uffici o nelle case. Il decreto Bonafede prevede un' altra novità tecnologica, perché intende cambiare anche le modalità di conservazione delle intercettazioni: l' archivio riservato presso l' ufficio del pubblico ministero viene sostituito da un nuovo archivio digitale, gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica. La riforma attribuisce poi al pubblico ministero il compito di selezionare le intercettazioni, decidendo quali siano utili per le indagini e quali debbano essere considerate irrilevanti. Nel testo si stabilisce, in particolare, che «il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dai personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini». I difensori dell' indagato hanno diritto a partecipare a questo stralcio, e devono esserne avvisati almeno 24 ore prima. Ai difensori viene data la facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni, ma anche di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche. Potranno quindi estrarre copia di quanto depositato ed eseguire anche una copia integrale delle registrazioni. La riforma Bonafede, infine, libera i giornalisti da ogni rischio (peraltro minimo già oggi): chi pubblica un' intercettazione non potrà essere incriminato per violazione di segreto d' ufficio.

Barbara Acquaviti per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Il compromesso, alla fine, accontenta tutti: le opposizioni possono vantarsi di aver portato a casa il risultato, la maggioranza non deve rinunciare al suo provvedimento e il Parlamento si sottrae allo spettacolo di mostrarsi occupato in tutt'altro mentre in Italia non si parla che di coronavirus. La maggioranza ieri ha incassato con 304 sì e 226 no - il voto di fiducia della Camera sul decreto intercettazioni, ma per il via libera definitivo bisognerà aspettare giovedì. Perché - per accordo di tutti i gruppi oggi l'aula di Montecitorio sarà impegnata in un esame sprint del provvedimento varato da palazzo Chigi per fronteggiare l'emergenza sanitaria. Una richiesta, questa, fortemente sostenuta dal centrodestra che si preparava a fare ostruzionismo sul provvedimento attraverso la moltiplicazione degli ordini del giorno. Soprattutto la Lega. Il compromesso raggiunto in capigruppo, dunque, consente di evitare la decadenza del decreto, in scadenza il 29 febbraio, senza dover ricorrere a ghigliottine' dei tempi parlamentari. La contrarietà delle opposizioni rispetto ai contenuti, però, resta intatta. Tra le norme più contestate, c'è quella sull'uso dei cosiddetti trojan: i captatori informatici sono equiparati alle intercettazioni ambientali e sarà possibile utilizzarli non solo per i reati contro la pubblica amministrazione commessi dai pubblici ufficiali, ma anche per quelli commessi dagli incaricati di pubblico servizio, purché si tratti di reati punibili con la reclusione oltre i 5 anni. Vengono incrementate le funzioni dei pubblici ministeri: spetterà infatti a loro (poi ai gip), e non più alla polizia giudiziaria, stabilire quali ascolti siano rilevanti per le indagini. Il pm avrà anche un altro compito, ossia verificare che nella trascrizione delle intercettazioni non siano riportate espressioni sensibili'. Una sorta di norma salva privacy. Arriva anche una stretta alla pubblicazione sui giornali delle registrazioni telefoniche: quelle irrilevanti saranno coperte dal segreto istruttorio sempre, mentre quelle giudicate rilevanti potranno essere rese pubbliche ma solo dopo che l'indagato ne sarà venuto sa conoscenza.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione, che è un regalo all' ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan (potevano trovare un nome migliore, per esempio Putan), una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un' arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato, visto che Italia Viva, pur essendosi dichiarata garantista in materia giudiziaria, ha votato a favore del provvedimento liberticida. Complimenti vivissimi. Della vicenda riguardante le intercettazioni si discute da lustri, intanto esse vengono utilizzate praticamente in ogni indagine come se fossero, e non sono, affidabili. La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere. I politici, quasi tutti, sono più portati a consegnare alle toghe strumenti di tortura sempre più raffinati, che non ad aiutare gli italiani a non subire eccessi giustizialisti, dimostrando in modo eclatante di fottersene del bene comune. L' ultima cosa che sta a cuore a deputati e senatori, specialmente della maggioranza, è il nostro benessere. Poi si stupiscono che la gente preferisca andare al mare che a votare. Ma stiano attenti perché la pazienza ha un limite oltre il quale può scoppiare un casino.

C'è il virus, ma i giallorossi litigano su Mafia Capitale. Una deputata grillina cita le intercettazioni di Buzzi: scoppia il caos. 5s costretti a scusarsi. Domenico Di Sanzo, Sabato 29/02/2020 su Il Giornale. Il decreto sulle intercettazioni sembrava ormai una delle poche cose su cui tutti i partiti di maggioranza andassero d'accordo. Ma per colpa dell'intervento nell'Aula della Camera di una deputata grillina, si stava trasformando nell'ennesimo incidente diplomatico tra i gialli del M5s e le varie sfumature del centrosinistra di governo. La parlamentare in procinto di far scoppiare la zuffa verbale sul trojan libero risponde al nome di Elisa Scutellà, calabrese appassionata ai temi della giustizia. Giovedì sera, la solerte portavoce stellata ha preso la parola per annunciare il sì del Movimento alla legge sulle intercettazioni. Nell'arringa, tra le altre cose, ha trovato spazio una citazione, o per meglio dire un affondo, sulle conversazioni di Salvatore Buzzi, captate dagli inquirenti di Mafia Capitale. Apriti cielo. Il Pd e i renziani di Italia Viva, uniti per una volta, l'hanno presa per una provocazione. Il deputato dem Franco Vazio, intercettato dall'AdnKronos, ha sbottato: «Ma come, tra tutte le intercettazioni vai a citare proprio quelle che riguardano una persona identificata dai nostri avversari come uno del Pd? Così non si fa». E l'intervento della Scutellà ha fatto riaffiorare le solite divisioni interne ai Cinque Stelle. E le arcinote polemiche di un nutrito gruppo di parlamentari nei confronti dello Staff Comunicazione. Secondo alcuni deputati, i comunicatori hanno voluto rispolverare un antico cavallo di battaglia in funzione anti-Pd. In uno scenario in cui il piccolo incidente suona come dinamite sotto i ponti costruiti dai grillini «governativi» per favorire alleanze con i dem alle prossime regionali. Addirittura è partita la caccia a chi ha vidimato l'intervento della Scutellà con il passaggio incriminato. Una storia che sarebbe finita soltanto durante la nottata con le scuse dei vertici del M5s nei confronti del Pd per la citazione di Mafia Capitale da parte della malcapitata parlamentare. Molti eletti, soprattutto «fichiani» e filo-Conte potrebbero approfittare del disguido per provare di nuovo a far rotolare qualche testa nel gruppo della Comunicazione. Da mesi nel mirino di deputati e senatori. E lunedì i capigruppo delle Commissioni avranno un incontro con il deputato e facilitatore Emilio Carelli e i responsabili della comunicazione. Intanto i grillini hanno chiesto scusa al Pd per Mafia Capitale, chi l'avrebbe mai detto. 

DL intercettazioni, perché il Pd si è piegato. Eriberto Rosso de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. La fiducia posta dal Governo alla Camera dei Deputati non ha consentito lo sviluppo del dibattito parlamentare sulla disciplina delle intercettazioni. Strano destino quello del decreto attuativo di cui nessuno può dire quali siano le vere ragioni di urgenza. Approvata nel 2017 la nuova disciplina, qualcosa entrò immediatamente in vigore senza che, peraltro, nessuno ne sia rimasto sconvolto e consentendo a prassi giudiziarie di sterilizzare immediatamente le poche innovazioni di un qualche significato. Basti pensare che invocando la par condicio – tra i cronisti- sono nati protocolli che da allora consentono l’immediata consegna degli atti del procedimento ai giornalisti. Va ricordato che quella legge nata come costola della riforma del processo penale che porta la firma dell’allora Guardasigilli Orlando, aveva due obiettivi dichiarati: maggiori garanzie per il difensore in modo da impedire la prassi dell’ascolto e della trascrizione delle intercettazioni non casuali che lo riguardano; limiti ragionevoli all’utilizzo del cosiddetto Trojan Horse, che per via giurisprudenziale era divenuto strumento consegnato all’ordinarietà. Il decreto legislativo, esondante rispetto alla delega, aveva previsto l’archivio riservato ove il difensore si sarebbe dovuto recare per l’ascolto delle registrazioni. Niente copie, termine breve: attività impossibili. La ragionata protesta delle Camere Penali e delle Procure aveva determinato il differimento della operatività della normativa al fine di consentire ripensamenti e nuove interlocuzioni con gli operatori. Poi, il rinvio ha assunto un altro sapore. Con la spazzacorrotti, la stessa legge nella quale è stata inserita la riforma della prescrizione, si è esteso l’uso del Trojan ai reati contro la pubblica amministrazione. Oggi punti nevralgici della nuova disciplina sono in buona sostanza la reintroduzione della udienza stralcio al fine dell’attività di trascrizione delle conversazioni, un meno pregnante, in quanto residuale, intervento del Giudice nel momento della indicazione delle conversazioni da utilizzare. Il riferimento per l’acquisizione è al concetto di irrilevanza, così evidentemente privilegiando il diritto alla riservatezza dei soggetti non direttamente coinvolti nel procedimento rispetto al diritto di difesa. Una tutela eccessiva del primo che rischia di minare l’effettività del secondo. La nuova disciplina prevede che competa al Pubblico Ministero la determinazione del tempo nel quale la documentazione riguardante le intercettazioni deve rimanere depositata presso l’archivio “riservato”, la cui costituzione risulta confermata. È li che il difensore dovrà recarsi per l’attività di ascolto. Un’attività impossibile negli stretti limiti temporali che rimangono quelli dell’avviso di cui all’art. 415 bis cpp (venti giorni entro i quali ascoltare tutte le intercettazioni, indicare quelle ritenute rilevanti, chiederne ed ottenerne copia, per poi svolgere e proporre l’attività difensiva sulla quale interloquire con il Pubblico Ministero). Nessun rafforzamento dello statuto del difensore è previsto dalla riforma, le comunicazioni che lo coinvolgono potranno ancora essere ascoltate e virtualmente conosciute dal contradittore processuale, a nulla rilevando, su questo piano, i divieti di trascrizione e utilizzazione. A gennaio sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che hanno disegnato un argine alla “circolazione probatoria” delle intercettazioni al di fuori del procedimento in cui sono state disposte. In buona sostanza, il Giudice di legittimità ha individuato nella connessione ex art. 12 cpp il parametro di riferimento meritevole di valutazione, non ritenendo sufficiente all’estensione della utilizzazione dello strumento di indagine il mero collegamento investigativo. Avrebbe dovuto essere questa per il Legislatore l’occasione per una nuova definizione di una sorta di gerarchia nell’uso degli strumenti captativi stabilendone rigidi parametri autorizzativi. Invece il segno dell’ultima ora è stato un altro: estensione del Trojan Horse anche ai reati propri dell’incaricato di pubblico servizio, nessuna indicazione di regole per l’utilizzabilità in procedimento diverso, anzi, l’ambiguità dell’emendamento con cui si è intervenuti in punto di deroga sull’inutilizzabilità esterna, pare destinata a riaprire scenari regressivi. Insomma, immaginato quale intervento legislativo per rafforzare lo statuto del difensore, tutelare la riservatezza dei soggetti estranei al tema del processo, limitare l’indiscriminato uso del captatore informatico, il nuovo decreto si rivela uno strumento di impronta eminentemente inquisitoria. Stupisce che il Partito Democratico, già protagonista della proposta di riforma in materia di intercettazioni, abbia, unitamente alle altre forze oggi comprimarie nell’azione di governo, accettato un compromesso così al ribasso. La Corte Costituzionale sarà certamente chiamata ad occuparsi di una legge che consente l’abnorme utilizzo di strumenti di captazione nella vita privata delle persone e definisce un cattivo bilanciamento di diritti fondamentali.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 28 febbraio 2020. Toccherà mettere sull'avviso la Treccani: può esistere qualcosa di indispensabile («cosa assolutamente necessaria, di cui non si può fare a meno») e tuttavia di irrilevante. Almeno per il legislatore. Nel decidere come regolare la possibilità di usare i risultati di una intercettazione in procedimenti diversi da quello nel quale era stata autorizzata, la nuova legge - oltre a richiedere che il reato sia tra quelli per cui è già consentito questo mezzo di prova - ora aggiunge la condizione che l'intercettazione debba essere non solo «indispensabile» per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l' arresto in flagranza, ma anche «rilevante». Così come si disquisirà a lungo di cosa questa o quella Procura riterrà «espressioni lesive della reputazione delle persone», per «vigilare» (come pretende la legge) che non vengano trascritte (salvo siano rilevanti per le indagini); e di quanti equivoci e confusioni verranno fugati o causati dall'obbligo per pm e gip di riportare i «brani essenziali» nelle misure cautelari «quando è necessario». L'«archivio digitale», cassaforte di tutte le intercettazioni non rilevanti, perde la qualifica di «riservato», ma nel contempo guadagna il dover essere organizzato dal procuratore «con modalità tali da assicurare la segretezza». E qualche corto circuito si profila anche laddove la legge specifica che non è vietata la pubblicazione dell' ordinanza d' arresto (nella quale magari il gip tra i motivi ha riportato un brano essenziale intercettato), ma è «sempre vietata la pubblicazione anche parziale del contenuto delle intercettazioni non ancora acquisite» dall' apposita successiva procedura di selezione tra le parti (come magari l' intera frase, non riportata nell' ordinanza ma depositata alla difesa insieme a tutti gli atti posti a base dell' arresto, dalla quale il gip aveva estratto quello spezzone di brano riportato nell' ordinanza). Ancora niente a confronto del mal di testa che verrà a magistrati e avvocati nel raccapezzarsi fra tre differenti regimi di utilizzo del «captatore informatico» di comunicazioni (trojan) tra presenti in un domicilio privato: in generale lo si potrà infatti utilizzare solo se vi sarà fondato motivo di ritenere che nel domicilio o luogo di privata dimora si stia svolgendo l'attività criminosa; però si potrà sempre usare se si procederà per mafia, terrorismo e reati distrettuali come contrabbando o prostituzione minorile; e invece occorrerà la «previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l' utilizzo» se si investigherà un delitto di pubblici ufficiali (o da ora pure di incaricati di pubblico servizio) con almeno 5 anni di pena. Del resto sono contorcimenti inevitabili se, a partire dalla delega parlamentare ottenuta dall' allora governo Renzi-Orlando il 23 giugno 2017, a fine anno un decreto legislativo rimandò di 6 mesi al 26 luglio 2018 l' entrata in vigore delle norme, poi prorogata all' 1 aprile 2019 da un decreto legge, poi dilazionata ancora all' 1 agosto 2019 dalla legge di Bilancio (pur mentre da gennaio 2019 la legge «Spazzacorrotti» e da novembre 2019 la sentenza Cavallo delle Sezioni unite di Cassazione stratificavano già il panorama delle captazioni), poi di nuovo spostata all' 1 gennaio 2020 dal decreto sicurezza-bis, e poi ulteriormente prorogata all' 1 marzo 2020 dal decreto legge del 23 dicembre 2019 del governo Conte-Bonafede. Che cambia radicalmente la riforma Orlando, ma che a sua volta ora in sede di conversione viene modificato (con altra proroga all'1 maggio 2020) non da un dibattito in Parlamento, strozzato sia nelle commissioni sia in aula, ma da un maxiemendamento governativo interamente sostitutivo, per giunta fatto approvare con l'imposizione di due voti di fiducia alla Camera e al Senato. E pensare che sin dall' 11 luglio 2018 lo slittamento era stato motivato dal ministro con «ragioni tecniche relative ai tempi necessari per l'esecuzione nelle Procure dei lavori per i supporti logistici e informatici per gli archivi riservati e le sale ascolto per gli avvocati»: ora quanto non è stato fatto in altri due anni dovrebbe essere completato in due mesi (sempre sotto clausola di invarianza finanziaria). Senza peraltro, invece, che si affrontino questioni cruciali: l'esternalizzazione a società private delle intercettazioni, la subalternità sinora dell' amministrazione pubblica alle loro logiche tecniche ed economiche, la delocalizzazione dei loro sistemi «cloud» di archiviazione in Paesi non soggetti a giurisdizione italiana, l'attesa del software ministeriale e del decreto sui requisiti tecnici che dovranno avere i programmi proposti dalle società (vige ancora il decreto di aprile 2018, e due anni sono un' era geologica in questo settore). Fino alla scarsa consapevolezza negli stessi pm - denunciata il 12 febbraio dal procuratore di Napoli Gianni Melillo nella Scuola della Magistratura - della tendenza dei propri ausiliari consulenti tecnici a non cancellare i dati alla fine degli incarichi conferiti loro dalle Procure, e dunque così ad accumulare misconosciuti maxi-archivi "informali" (paralleli a quelli giudiziari "ufficiali" di cui tanto si occupa la legge) passibili di alimentare un mercato clandestino delle comunicazioni. Quello che - mentre le inchieste in media usano poi nel processo solo lo 0,2-0,7% del materiale intercettato, e i giornali pubblicano intercettazioni di estranei alle indagini solo nell' 1,6% degli articoli di cronaca giudiziaria (stima degli avvocati penalisti Ucpi su 7.273 articoli campionati in 6 mesi del 2015) - rumina tutto il resto.

«Non siamo un Paese normale, ecco perché ho detto sì ai trojan». Rocco Vazzana Il Dubbio il 27 febbraio 2020. Intervista a Francesca Businarolo (M5S), presidente della commissione Giustizia alla Camera. Francesca Businarolo, presidente della commissione Giustizia alla Camera, in quota Movimento 5Stelle, difende la riforma delle intercettazioni che oggi dovrebbe essere approvata definitivamente in Parlamento. «Abbiamo inserito l’uso dei Trojan in un sistema di regole, non lo abbiamo mica liberalizzato», spiega con convinzione.

Eppure, in caso di reati contro la pubblica amministrazione, da domani potrà essere spiato non solo il pubblico ufficiale ma anche l’incaricato di pubblico servizio. Bidelli, dipendenti comunali, dipendenti delle Asl, per intenderci: tutti potenziali obiettivi di Trojan. Non si rischia di allargare un po’ troppo la platea e creare una società di controllati?

«Mi rendo conto che l’allargamento della platea è uno di quei provvedimenti che suscitano controversia e forti dubbi i quali, tuttavia, sarebbero fondati in una società diversa dalla nostra, diciamo in una Italia ideale dove la corruzione fosse un accidente. Ma non è così. Il nostro paese è nella morsa della illegalità da troppi anni e, sebbene la prevenzione è sempre la misura “principe”, abbiamo bisogno di una stretta che possa far emergere fenomeni piccoli e grandi di comportamenti illeciti».

Piccoli e grandi tutti nello stesso calderone?

«Le due categorie sono già equiparate dal Codice penale rispetto a tutti i reati contro la pubblica amministrazione. Noi non facciamo altro che adeguarci al Codice, perché mai, dunque, dovremmo rendere possibili le intercettazioni solo per pubblico ufficiale e non per incaricati di pubblico servizio? E, infine, gli stessi dubbi che lei ricorda furono sollevati per la norma sul whistleblowing, per la quale io personalmente mi sono molto battuta: “Volete le spie ovunque? Volete la società degli spiati?” dicevano gli scettici. Oggi quella misura è una avanguardia che si sta facendo strada tra le misure anticorruzione con grande soddisfazione dell’Anac».

Sparisce l’obbligo del pm e del giudice di specificare le modalità d’attivazione del Trojan. Non bisognerà più definire in anticipo, in altre parole, tempi e luoghi per l’attivazione del microfono del cellulare. Qualsiasi momento della nostra vita è potenzialmente spiabile. Ma anche un indagato avrà diritto alla privacy…

«Guardi che noi l’uso del Trojan lo abbiamo inserito dentro un sistema di regole, non lo abbiamo mica liberalizzato! In Parlamento, grazie a noi, è avvenuto esattamente il contrario di ciò che sostiene certa propaganda falsamente garantista. Il Trojan è una modalità di intercettazione ambientale già consentita per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, questa legge la disciplina meglio. Per usare questo metodo di intercettazione bisognerà motivare la sua indispensabilità e se ci sarà un difetto di motivazione si potrà impugnare la questione e poi, a differenza delle normali intercettazioni telefoniche e ambientali, il Trojan potrà essere utilizzato solo per i reati connessi a reati di mafia, terrorismo e contro la PA. Perché volerlo dipingerlo a tutti i costi come l’invasione del Grande fratello nelle nostre vite?»

Le intercettazioni incidentali tra indagato e avvocato saranno possibili anche se non trascrivibili. È sufficiente questa accortezza a tutelare il diritto alla difesa?

«Il diritto alla difesa è sacrosanto ed io su questo giornale ho detto di essere favorevole all’inserimento del ruolo dell’Avvocatura nella Costituzione. Esso, tuttavia, non può prevaricare la sicurezza di tutti: di fronte ad inchieste di corruzione le attività dell’indagato sono centrali per capire la consistenza reale del presunto reato. Per non dire che esistono casi di finti avvocati, o meglio di difensori che in realtà svolgono in concreto altri ruoli organici al disegno criminoso: naturalmente si tratta di rarissimi casi che non ledono affatto un ordine professionale composto da persone dedite alla deontologia e che spesso svolgono il proprio lavoro in circostanze faticose, penso ai giovani avvocati. Eppure quei casi esistono».

Il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, chiede che le intercettazioni incidentali con i legali siano immediatamente interrotte, appena scoperta la natura della telefonata, e distrutte le registrazioni. Perché tenerle in archivio?

«Perché esiste un sistema di garanzia che vale per tutti: le intercettazioni irrilevanti vanno gestite secondo modalità stabilite e poi distrutte al momento opportuno. La regola vale per tutti. E nulla, proprio nulla, finirà nel fascicolo processuale».

Il rischio è che un pm, in modo scorretto, riascolti e utilizzi quelle intercettazioni per studiare la strategia difensiva dell’imputato. O dobbiamo affidarci fideisticamente alla buonafede dei magistrati?

«La strategia difensiva si fa una volta formulata l’accusa e dopo che una serie di passaggi stabiliscono la fondatezza di un procedimento. Non saltiamo le tappe pur di trovare le falle di una legge che è una buona legge, un buon compromesso tra diverse esigenze».

Secondo Forza Italia, il pacchetto intercettazioni fa parte di un accordo politico tra Pd e M5S, un compromesso per far digerire ai dem la riforma della prescrizione.

«A Forza Italia non va proprio giù la norma che interrompe la prescrizione dopo la sentenza di prima grado! E cerca in tutti i modi di screditare chi la ha promossa e chi la sostiene. Io considero un importante passo avanti del Pd quello di non ostacolare la norma Bonafede, il Movimento è stato in grado di far capire le proprie ragioni. Se ne prenda atto».

Paolo Sisto: «Queste intercettazioni sono una barbarie incostituzionale». Giulia Merlo su Il Dubbio il 27 febbraio 2020. Intervista all’avvocato e parlamentare Forza Italia: «Il decreto è una trappola inquisitoria che ci avvicina alla giustizia dei paesi antidemocratici”. «Una trappola inquisitoria, che rende la nostra giustizia sempre più vicina a quella dei paesi antidemocratici», è la drastica definizione del dl Intercettazioni di Francesco Paolo Sisto. Il deputato di Forza Italia, da sempre in prima linea sui temi legati alla giustizia, analizza criticamente i contenuti di un decreto che giudica «eufemisticamente incostituzionale», in particolare nell’allargamento dell’utilizzazione dei Trojan.

Quali profili di incostituzionalità rileva?

«Innanzitutto è violato l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la riservatezza, qui resa un mero fantasma. Per non dire del 24, 27, 111, tutti numeri che scandiscono la tutela della difesa, della presunzione di non colpevolezza, della parità delle parti nel processo. Questo decreto legge senza urgenza introduce norme che rendono l’Italia un paese sempre più a “Costituzione di mera apparenza”: il paradosso è che questo provvedimento che era nato, nella precedente legislatura, per limitare l’ipertrofia delle intercettazioni e renderle uno strumento di indagine non puramente esplorativo».

Invece ora cosa è?

«Questa maggioranza, guidata dal giustizialismo dei 5 Stelle per nulla arginato dalla disinvolta complicità del Pd, ha trasformato il dl Intercettazioni in uno strumento di percussione dei diritti del cittadino».

Con quali effetti negativi?

«Il primo è la consegna de facto del processo ai Pm, che acquistano nuovi poteri, per nulla attutiti da formule vuote e facilmente aggirabili, come il concetto di “rilevante”, legato a matrici prettamente soggettive. Il secondo è il “controllo incontrollabile” da parte di chi intercetta, grazie all’estensione allegra nell’uso dei Trojan horse».

Una estensione illegittima, secondo lei?

«Assurda e inaccettabile sul piano culturale. Trovo inconcepibile che il decreto parifichi i reati dei pubblici ufficiali e, innovativamente, degli incaricati di pubblico servizio a quelli di mafia. I Trojan verranno utilizzati senza regole e senza limiti di luogo, tempo e quantità di dati. Si tratta di un modo di intercettare talmente invasivo da poter tranquillamente essere inserito di diritto nella categoria degli strumenti “a strascico”, più volte bacchettati dai Giudici di Legittimità. Ovvero: la giornata del “trojanizzato” sarà registrata, anche nei dettagli più intimi, senza che la Legge garantisca la reale eccezionalità della deroga».

Insomma, lei dice che i Trojan sono uno strumento per cercare anticipatamente gli indizi?

«Sì, con i Trojan applicati come nel decreto si permette l’autolegittimazione esplorativa delle procure, rendendo strutturale l’incertezza della privacy dei cittadini. Di fatto, non si intercetterà per trovare la prova di un reato già ben individuato, ma si creeranno i presupposti formali per scandagliare le vite e intercettare di tutto e di più. Questa è inquisizione allo stato puro. Se poi si aggiunge tutto questo alle pene accessorie perenni, ai processi eterni, alle spaventose prospettive del diritto penale griffato Bonafede & co., la diagnosi/ prognosi è terrificante. Un paese che si accinge a diventare giuridicamente invivibile».

Esiste un filo conduttore che collega tutte queste misure in materia di giustizia?

«E’ la logica pentastellata e piddina di raggiungere l’efficienza del processo con il sacrifico delle garanzie difensive. Il fine evidente è quello di demolire la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino a sentenza definitiva: l’indagato diventa, anzi “è”, colpevole senza nemmeno bisogno che si eserciti l’azione penale, non serve nemmeno che sia formalmente imputato. Basta una iscrizione, il resto lo decide il processo mediatico; con la conseguenza che si può fare a meno anche del giudice, perchè la condanna pubblica arriva molto prima, con una sentenza terribile perchè non impugnabile. Le liste di proscrizione erano più democratiche».

La maggioranza sostiene che il decreto prevede misure restrittive contro la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti.

«Io sono convinto che il quadrante penale non si nutre di sanzioni. Serve una logica di sistema, di equilibri veri fra le parti processuali, non solo a parole. Gli argini ai poteri delle Procure non appaiono nè chiari, nè solidi. Il testo usa le solite parole standardizzate: “intercettazioni rilevanti”, per esempio, una sorta formula magica ad effetto desolatamente placebo . Quanta discrezionalità, a rischio arbitrio! Stessa musica per la motivazione per disporre intercettazioni nel luoghi di privata dimora: saranno “standard” che in realtà, uguali per tutti, non tuteleranno nessuno».

Quali saranno i prossimi passi del governo in materia di giustizia?

«Non è un mistero che i 5 Stelle, con i loro inseparabili fratelli giustizialisti per interesse del Pd, puntino a minare i gradi di giurisdizione, a colpire il divieto di reformatio in peius, e chissà che altro ancora. Per esorcizzare tutto questo, serve una lotta corale di avvocati, magistrati, giuristi e, soprattutto, la sensibilizzazione dei cittadini tutti: in gioco c’è il cuore della nostra democrazia, perchè la civiltà di un paese, come insegnava Renato Dell’Andro, si misura dalla qualità del processo penale».

Lei dice che è le norme del decreto sono incostituzionali, aspetta un intervento della Consulta?

«Sì, ma la domanda è: quanto tempo ci vorrà? Con l’articolo 4 bis della legge Bonafede ci siamo arrivati rapidamente, con la dichiarazione di incostituzionalità della folle pretesa di “galera retroattiva”. Diciamolo chiaramente: oggi i giudici, proprio per la debolezza imbarazzante del Legislatore, incompetente e ignavo, sono stati costretti a diventare Legislatori essi stessi. Non più supplenti dei vuoti parziali, ma estensori in toto. La sentenza Cappato della Consulta, le decisioni delle Sezioni Unite su rilevanti profili del processo penale e del diritto sostanziale penale ne offrono esempi. Tanto perché in questa legislatura la qualità della produzione delle leggi ha un virus mortale».

E quale sarebbe?

«Iniziative come il dl Intercettazioni hanno come unico obiettivo il risultato politico nell’immediato, a prescindere da competenze e diritti. È la terrificante lezione del diritto penale del consenso, costruito sull’incompetenza strutturale dei 5 Stelle e sulla deliberata correità del Pd. Una stagione inaugurata da Matteo Renzi con la memorabile la genesi dell’omicidio stradale».

I dem hanno maggiori responsabilità?

«Il Pd conosce esattamente i danni che sta arrecando al Paese con questo decreto. Ma stesso discorso vale per Italia Viva, “garantista per caso”, che simula dura lotta sulla prescrizione e poi vota la fiducia al dl Intercettazioni. Questa alternanza scientifica tra giustizialismo e garantismo la dice lunga sulla loro serietà e marca tutta la differenza tra loro e noi di Forza Italia, garantisti per Dna, sempre al fianco di chi, come le Camere penali, ha a cuore la tutela delle radici giuridiche».

Non resta che aspettare la Consulta, dunque?

«Oppure un governo diverso dal Conte 2. Basterebbe una notte per scrivere un decreto legge che cancelli queste ignominie e restituisca all’Italia certezze e al Parlamento dignità».

DL intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Sulle intercettazioni si possono fare complicati discorsi tecnici, e li lasciamo ai tecnici. Si può poi fare una riflessione, diciamo così, storico-statistica. E questa, che è semplice semplice, possiamo farla tutti e si esaurisce in una domanda: in quali ordinamenti lo Stato più fa ricorso a sistemi di controllo della vita dei cittadini, pedinandoli, fotografando i loro movimenti e appunto intercettandone le conversazioni? Nei sistemi autoritari e di polizia. E quali giustificazioni adottano quei sistemi, quando devono rendere conto dei motivi per cui organizzano un simile apparato di controllo pervasivo? Spiegano che si tratta di proteggere la società, il popolo, la rivoluzione. Non sono giustificazioni pressoché identiche, anche se diversamente denominate, rispetto a quelle che qui si adoperano a sostegno delle norme sulle intercettazioni? Sono identiche, e identicamente denunciano l’idea comune che le sorregge: che sia legittimo perseguire l’ordine sociale tenendo esposti i cittadini all’occhio inquirente del potere. Quando si fa osservare che una pratica di intercettazione come la nostra non ha eguali in nessun Paese civile, si risponde che qui da noi esiste una realtà criminale senza eguali. Già. Come dire che siccome in Calabria si delinque molto, allora bisogna smontarla come un Lego e procedere con i rastrellamenti pubblicizzati in mondovisione. Ne arresti trecento e qualcuno che l’ha fatta sporca lo trovi, così come becchi qualcuno che la dice brutta quando ne intercetti centomila. Ma è su quel che si diceva all’inizio che bisognerebbe riflettere: la vita dei cittadini è intercettata nei Paesi arretrati, dove si sta peggio, dove la democrazia non c’è o è soltanto un nome. Nei Paesi in cui il potere è in divisa. E non è meglio se la divisa è una toga.

DL intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà. Giorgio Spangher de Il Riformista il 23 Febbraio 2020. Decreto intercettazioni. Confermati gli ampi poteri al Pm sotto tutti i profili, con sottrazione degli stessi alla polizia giudiziaria, come richiesto dai Procuratori della Repubblica; ampio uso del captatore informatico, anche nei luoghi di privata dimora per i reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio per i reati contro la pubblica amministrazione, parificati in tutto ai reati di criminalità organizzata; diritto di accesso dei difensori delle parti all’ascolto e alle copie delle registrazioni solo nel caso del venir meno del segreto investigativo, che è rimesso alle determinazioni della Procura. La conversione risolve un dubbio interpretativo, confermando – quanto deciso dalla Corte costituzionale – relativamente al diritto della difesa di avere copia delle registrazioni che il Pm ha trasmesso al giudice con la richiesta delle misure cautelari. Si precisano le condizioni per l’accesso all’archivio delle registrazioni. Mentre va valutata positivamente la previsione per la quale l’intercettazione nei luoghi riservati con il trojan per i reati contro la pubblica amministrazione dovrà indicare le ragioni di questa intrusione che aggredisce la tutela costituzionale del domicilio, va valutata negativamente la disciplina dell’utilizzazione dei risultati intercettativi in altri procedimenti, diversi da quelli nei quali l’intercettazione è stata disposta. Si prevede, infatti, che i risultati siano utilizzati come prova – in violazione della regola del divieto – se si tratta dei reati per i quali l’arresto è obbligatorio, nonché per tutti i reati che consentono il ricorso alle intercettazioni, con la specificazione della loro indispensabilità e rilevanza. A parte l’elasticità di questi criteri, si autorizza – in questo modo – la cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati. Il dato trova una ancora più ampia estrinsecazione nel caso dei reati di criminalità organizzata e di criminalità economica: tutto ciò che emergerà dall’uso del trojan sarà utilizzabile come prova o ai sensi di quanto appena delineato, ovvero per quanto attiene ai reati della stessa natura, sempre alla luce del canone della indispensabilità da valutarsi dagli organi investigativi. Peraltro, ciò che non sarà direttamente utilizzabile, potrà costituire notitia criminis, avviando una autonoma attività di intercettazione, che sarà possibile anche nei casi appena indicati avviando una attività di captazione con il virus informatico a catena, cioè, senza fine. Già questo basterebbe per allarmare in ordine alla lesione dei diritti di libertà che in questo modo si pregiudicano e che sono tutelati dalla Costituzione. La materia si presta a qualche considerazione più ampia in considerazione del fatto che su questo tema si erano appena pronunciate le Sezioni unite che, alla luce dei presidi della materia (principio di legalità e tutela giurisdizionale) avevano dato una lettura costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata del tema. Si vuole, cioè, sottolineare come ormai le forze politiche e il Governo, non riescano più a tener conto di quanto la giurisdizione nel suo massimo livello indica. In altri termini, il senso di inquisitorietà ha pervaso a tal punto le forze di governo che ritengono di poter calpestare anche le sentenze della Suprema Corte.

Tutto il potere ai pm. Ecco cosa dice il nuovo testo sulle intercettazioni. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 febbraio 2020. La legge voluta dai 5Stelle approvata anche alla Camera. Maggiori poteri ai pm, forte estensione dell’utilizzo dei “captatori informatici”, sanzioni pressoché simboliche per chi viola il divieto di pubblicazione fuori dai casi consentiti. In estrema sintesi, sono questi i punti centrali della riforma delle intercettazioni telefoniche che troverà applicazione per i procedimenti penali iscritti a partire dal prossimo mese di maggio. Per tutti i procedimenti in corso continuerà ad applicarsi la disciplina attuale. La norma stravolge completamente la disciplina del 2017, voluta dall’allora ministro Andrea Orlando (Pd), e mai entrata in vigore in quanto oggetto di numerose proroghe. La novità più rilevante riguarda, come detto, l’incremento del poteri dei pm. Saranno loro, e non più la polizia giudiziaria come previsto nella riforma Orlando, a determinare e scegliere cosa è rilevante per le indagini e cosa non lo è. Sarà consentita, poi, la possibilità di usare i risultati delle intercettazioni in procedimenti penali diversi rispetto a quello nel quale l’intercettazione è stata autorizzata. Oltre che per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, tale possibilità è prevista anche per l’accertamento dei reati indicati nell’art. 266 del cpp qualora le intercettazioni siano ritenute “indispensabili e rilevanti” per l’accertamento della responsabilità penale. Questo in dettaglio. Per quanto attiene l’esecuzione delle intercettazioni, il testo ripropone sostanzialmente la formulazione antecedente la riforma del 2017 per la trasmissione dei verbali delle intercettazioni, la comunicazione ai difensori (che avranno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni), il procedimento incidentale finalizzato alla cernita ed alla selezione del materiale probatorio nell’ambito di una apposita udienza. Lo stralcio potrà riguardare, oltre alle registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione, anche quelle che riguardano dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Vengono ripristinate le disposizioni relative alla possibilità che alle operazioni di stralcio partecipi il pm ed il difensore; quest’ultimo potrà estrarre copia delle trascrizioni integrali delle registrazioni disposte dal giudice e potrà far eseguire copia. Come in passato, il gip disporrà la trascrizione integrale delle registrazioni, o la stampa delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, da acquisire poi con le forme della perizia tecnica. I verbali e le registrazioni, e ogni altro, saranno conservati integralmente nell’apposito “archivio delle intercettazioni” gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica. Non sarà, comunque, un archivio “riservato”. Le attività di intercettazione ambientale mediante utilizzo dei cd virus Trojan, già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, saranno estese anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio. Sono esclusi i delitti contro la pubblica amministrazione da quelli per i quali sarà necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Viene consentita l’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate per mezzo del captatore anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, a condizione che si tratti di reati contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o di delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale. I risultati delle intercettazioni dovranno essere indispensabili per l’accertamento di tali delitti. Nulla, invece, viene specificato circa le società private che forniranno le dotazione tecnologiche alla Procure. Essendo la riforma a “costo zero”, non è prevista una gara per l’identificazione di un fornitore unico nazionale o la creazione di un albo a cui rivolgersi. Un tema, dunque, molto delicato, quella della tenuta dei dati sensibili appaltati ai privati, su cui non è stata fornita alcune risposta chiara. Anche le conversazioni fra l’avvocato e il suo assistito, pur restando inutilizzabili, potranno continuare ad essere ascoltate dal pm meno “corretti”, svelando di fatto la strategia difensiva. Sparisce definitivamente l’ipotesi di “carcere” per chi viola il divieto di pubblicazione delle intercettazione, rimanendo in vita le sanzioni dell’articolo 114 cpp.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione, che è un regalo all' ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan (potevano trovare un nome migliore, per esempio Putan), una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un' arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato, visto che Italia Viva, pur essendosi dichiarata garantista in materia giudiziaria, ha votato a favore del provvedimento liberticida. Complimenti vivissimi. Della vicenda riguardante le intercettazioni si discute da lustri, intanto esse vengono utilizzate praticamente in ogni indagine come se fossero, e non sono, affidabili. La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere. I politici, quasi tutti, sono più portati a consegnare alle toghe strumenti di tortura sempre più raffinati, che non ad aiutare gli italiani a non subire eccessi giustizialisti, dimostrando in modo eclatante di fottersene del bene comune. L' ultima cosa che sta a cuore a deputati e senatori, specialmente della maggioranza, è il nostro benessere. Poi si stupiscono che la gente preferisca andare al mare che a votare. Ma stiano attenti perché la pazienza ha un limite oltre il quale può scoppiare un casino.

Renzi, non eri garantista? Come fai a votare i provvedimenti più forcaioli della storia della Repubblica? Piero Sansonetti de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Il Senato ha dato il via libera all’abolizione di fatto dell’articolo 15 della Costituzione. Quello che garantisce la riservatezza delle comunicazioni. Il decreto sulle intercettazioni, che è stato approvato ieri pomeriggio, rende quell’articolo (che era un pilastro della struttura liberale dello stato) un orpello inutile. L’Italia era già un paese a spionaggio diffuso. Molto più simile ai paesi ad autoritarismo conclamato che a quelli democratici. In nessun Paese a democrazia avanzata esiste niente di simile al sistema di intercettazioni a tappeto che esiste da noi. Quando il decreto diventerà operativo, il sistema delle intercettazioni sarà ancora più vasto, la possibilità di usare i Trojan (microspie che si installano come virus nei cellulari e nei computer) estesissima, e diventeranno pienamente legittime (in contrasto con una sentenza della Cassazione) le intercettazioni a strascico, cioè quel modo di fare le indagini che non parte dal reato ma dal soggetto che si vuole condannare. Per capirci: puoi chiedere di intercettare tizio accusandolo di omicidio, anche se sai che è innocente, poi accertare che l’omicidio non lo ha commesso ma ha preso, per esempio, una tangente, o ha trafficato qualche influenza (chissà poi che vuol dire trafficare un’influenza…) o ha commesso qualche altra malvagità di questo genere. E lo condanni. Saremo più o meno tutti sotto osservazione. Da mattina a notte. Sotto l’occhio dello Stato. Non dello Stato di polizia ma dello Stato dei Pm. Ai Pm sarà dato potere assoluto sull’uso delle intercettazioni. Loro le chiederanno, loro le ascolteranno e decideranno quali parti utilizzare. Loro, se vorranno, le manipoleranno, come hanno fatto con quelle dei ragazzi americani. Loro potranno violare la segretezza dei rapporti con gli avvocati. Loro decideranno cosa far sentire ai difensori e cosa no, e come archiviarle. Loro, se vorranno, le potranno distribuire ai giornalisti amici. Questo governo Conte è uno dei più illiberali della storia della Repubblica. I vecchi ricorderanno il governo Tambroni, spazzato via dalle manifestazioni di piazza, nel 1960. Beh, siamo lì. Ieri la ministra Lamorgese ha chiesto di realizzare le retate dei ragazzi che fumano gli spinelli e di sbatterli in prigione. Neanche Almirante lo pretendeva. Chiediamo a Renzi: e tu? Hai rivendicato tante volte il tuo garantismo. Cosa ci fai a votare insieme allo schieramento più forcaiolo della storia della Repubblica? Renzi risponderà: ma io ieri non ho votato. Già, ma il tuo partito sì. È ragionevole questo? La libertà si sacrifica a una sconclusionata ragion di Stato? Il decreto ora va alla Camera: possiamo sperare che Italia Viva lo faccia saltare? Che difenda il diritto?

Intercettazioni, la libertà di spiare che piace tanto al giornalismo moderno. Angela Azzaro de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Le intercettazioni non colpiscono solo i diritti della persona e per una giustizia giusta. Hanno lasciato per terra un’altra vittima: esangue, umiliata, senza più un filo di voce autorevole. Questa vittima si chiama informazione: di carta, web e televisiva. Decenni di intercettazioni sbattute sulle pagine dei giornali, hanno cambiato anche il modo di fare informazione, hanno modificato il rapporto che i giornalisti hanno con le notizie. Invece di indagare, approfondire, verificare la fonte, tutto è di colpo più facile: basta prendere le intercettazioni fatte delle procure, non preoccuparsi della privacy o della dignità delle persone e pubblicare tutto, sperando di vendere di più. L’apice lo abbiamo raggiunto con Berlusconi: tutto, ma proprio tutto, è stato ripreso da media. Spesso il penale non c’entrava per nulla. E con la scusa della morale, molti giornali hanno proposto pagine e pagine che di morale avevano poco, trasudavano invece moralismo, perbenismo. E ferocia. In nome della libertà di espressione, ormai è passata l’idea che si possa e debba mettere in piazza la vita privata delle persone e se, dicono qualcosa di sbagliato, le si sottopone al pubblico ludibrio. Inutile ricordare come una parola fuori contesto assume un significato diverso da quello originale, ancora più inutile sottolineare come una dichiarazione fatta in privato non ha la stessa valenza di una dichiarazione pubblica. Ciò che conta è spiare, osservare gli altri dal buco della serratura come davanti alla scena primaria, quella che secondo Freud mette tutti davanti alla scoperta della sessualità dei propri genitori. E qui troviamo una seconda vittima di questa messa in scena che sa tanto di gogna, lettori, spettatori e quindi cittadini e cittadine che in questi anni si sono nutriti di questi racconti. Abbiamo letto le vite degli altri, abbiamo sorriso, a volte anche riso, delle altrui debolezze, abbiamo fatto processi sommari sulla base di un dialogo, di una frase, di un altrui risata. Siamo diventati spietati. Le intercettazioni non ci hanno reso più sensibili, più attenti, più solidali. Al contrario hanno spezzato la possibilità di identificarci nell’altro: nei suoi errori, nelle sue debolezze, nelle sue paure. Quando leggiamo questi racconti, trascritti quasi sempre malamente e ora scopriamo anche distorcendo il significato, dimentichiamo d’un colpo millenni di cultura, di storia, di letteratura. Se con Fëdor Dostoevskij abbiamo avuto la possibilità di entrare nella testa e nel cuore di un assassino, di perdonare il suo gesto, leggendo i resoconti dello spionaggio delle procure, siamo diventati solo più cattivi, insensibili, pronti a giudicare e condannare l’altro. Nel romanzo La Panne di Friedrich Dürrenmatt un pm, un giudice, un avvocato e un boia si divertono a rifare i grandi processi del passato oppure si accaniscono su persone prese a caso, convinte, come Davigo “che tutti abbiano una colpa da nascondere”. I quattro un giorno incontrano un commesso viaggiatore, a cui si è rotta la macchina e a cui danno ospitalità, che viene processato e condannato. A morte. Lo scherzo finisce in maniera tragica, perché l’imputato per gioco si toglie la vita per davvero. Il terribile gruppo oggi è composto anche da giornali e tv. E da tutti noi. Finché quelle intercettazioni non sconvolgono anche le nostre vite, la nostra privacy. Ma c’è chi continua a chiamare la loro pubblicazione libertà di espressione. Almeno cambiamogli nome e chiamiamola, più precisamente, libertà di spiare e di linciare, con la benedizione dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa che o non dicono nulla o difendono questa barbarie. Il romanzo di Dürrenmatt, che è anche un film con Alberto Sordi, ha come sottotitolo: una storia ancora possibile…

Caiazza: “La riforma delle intercettazioni è figlia del giacobinismo giudiziario”. Il Dubbio il 28 febbraio 2020.

La denuncia del presidente delle Camere penali: “Hanno anche approvato il trojan, un virus informatico che trasforma il tuo cellulare nel tuo microfono, e che ti segue ovunque tu vada”. “L’allora ministro della Giustizia Orlando aveva inteso mettere mano alle norme sulle intercettazioni telefoniche ed ambientali. L’intenzione era quella di porre un freno alla pubblicazione indiscriminata ed incontrollata divenuta abituale sui media nostrani di uno degli atti più intimi della persona: una conversazione privata. Dei buoni propositi del Ministro Orlando non vi è traccia in questo ennesimo capolavoro di questo governo giacobino”. Parole del presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza. “Un po’ di freno alla Polizia Giudiziaria, ipertrofia dei poteri del pm, nessuna sanzione seria per gli sputtanatori – lamenta Caiazza – Invece, ampliamento della pesca a strascico dei reati, per cui ti autorizzo per il reato A, ma se scopri anche B e C prendi pure, non si butta nulla, anche mediante trojan, un virus informatico che trasforma il tuo cellulare nel tuo microfono, e che ti segue ovunque tu vada, facendosi finta di accendere e spegnere se vai alla toilette o in camera da letto, come se fosse mai davvero possibile”. Per Caiazza, “sono decenni che rigorosi principi vengono erosi da norme e da interpretazione di norme sempre nel segno di ampliarne e garantirne la violazione. I reati per i quali sono consentite intercettazioni sono in numero sempre crescente; le motivazioni autorizzative sempre meno stringenti e sempre più generiche e stereotipe; l’impunità degli sputtanatori conclamata”. 

Giovanni Maria Flick: «Intercettazioni, qui si colpisce la base della nostra civiltà». Errico Novi su Il Dubbio il 29 febbraio 2020. Per il presidente emerito della Consulta, l’uso dei trojan a strascico nega l’inviolabilità delle comunicazioni, cioè la base della civiltà. «Sa, in una democrazia è importante stabilire le regole del gioco. Invece a me sembra che da un po’, anche con il decreto intercettazioni, si indulga troppo nel gioco delle regole». Non è un calembour, no, se si pensa che persino il presidente Giovanni Maria Flick, nello sfogliare i prospetti comparativi delle nuove, vecchie e vecchissime norme sulle intercettazioni, è sconcertato dall’ «incredibile, sconcertante intreccio di modifiche, tale da prefigurare un chiarissimo rischio di confilitti interpretativi. E guardi», dice il presidente emerito della Corte costituzionale, fin dal principio di un’ampia e per certi versi appassionata riflessione sul decreto legge e su alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione, «che le difficoltà non saranno solo dei miei bravissimi colleghi ricercatori, destinati a misurarsi con questo groviglio nelle loro attività universitarie, ma innanzitutto dei magistrati e degli avvocati che quel groviglio dovranno applicare». Ma un po’ l’azzardo del legislatore colto da Flick è il riflesso, il correlativo oggettivo, per così dire, della tendenza a scherzare col fuoco dei diritti, «una tendenza giustizialista che è tra le ragioni, se non la ragione ultima del Movimento 5 Stelle, ma temo sia anche radicata, seppur in modo meno profondo, nel Partito democratico, che non è mai riuscito a liberarsi davvero di quella matrice». Non che gli interessi soffermarsi su valutazioni del genere, ma è a una simile rischiosa iperbole giustizialista che il presidente Flick riconduce «il grave tradimento della libertà di comunicazione sancita dalla nostra Carta non solo nella sua declinazione pubblica, e politica, all’articolo 21, ma anche al troppo poco evocato articolo 15, quale libertà del singolo di comunicare con chi vuole nella garanzia della segretezza, che può essere limitata solo in virtù di previsioni di legge. Tassative previsioni. Non approssimative, indefinite e confuse quali sembrano anche le norme contenute nel decreto sulle intercettazioni appena convertito in legge dal Parlamento».

Insomma, quest’ultimo provvedimento è un colpo pesante ai diritti?

«Aspetti un momento. Il colpo davvero decisivo, e pesante, non è tanto nel decreto appena convertito in legge. È nella cosiddetta legge spazza corrotti. È lì che si decide di introdurre un uso delle intercettazioni, in particolare di quelle acquisite con i trojan, anche per i reti di corruzione. Si è trattato dell’intervento normativo che forse più di tutti ha realizzato la pretesa assimilabilità fra mafia e reati contro la pubblica amministrazione. Una correlazione sbagliata, perché la mafia si basa sulla violenza, la corruzione su un accordo illecito. Sbagliata proprio in radice. Se vogliamo, il difetto più grave dell’ultimo provvedimento è nel metodo prima ancora che nel contenuto».

Si riferisce alla sovrapposizione fra le norme appena convertite in legge e il decreto Orlando?

«Mi riferisco al fatto che la riforma Orlando, contenuta, attenzione, in un decreto legislativo e non in un provvedimento d’urgenza, era stata rinviata nella sua entrata in vigore assai numerose volte. Ora, mi saprebbe dire dove sarebbe la “straordinaria urgenza”, dichiarata nel testo dell’ultimo decreto, di intervenire su una materia rimasta congelata per due anni? Me lo dice dov’è l’urgenza?»

E poi c’è la contorsione tecnico normativa, così esiziale da condurre alla nevrosi il malcapitato costretto a leggere il testo.

«E sì, ma come le ho detto tra i malcapitati ci saranno magistrati e avvocati che dovranno applicarlo. Si figuri quanti conflitti d’interpretazione ne potranno nascere».

È di queste ore una polemica sul rapporto della Commissione europea in materia di giustizia, che approva la riforma della prescrizione e ha perciò suscitato l’esultanza dei deputati cinque stelle: perché allora non ci si ricorda pure che in Europa siamo quelli che usano di più le intercettazioni?

«Non lo deve chiedere a me, almeno su questo non credo di poter rispondere. Credo solo di poter ricordare che sul consistente, forse eccessivo ricorso alle intercettazioni sono venuti richiami in numerose inaugurazioni dell’anno giudiziario, così come ne sono venute sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare: le sembra che la cosa abbia avuto conseguenze? Il problema del ricorso eccessivo, a mio giudizio, ha rilievo però soprattutto rispetto al rischio della pesca a strascico».

Che viene innalzato, dall’ultimo decreto?

«Credo si debba rispondere a partire da un percorso giurisprudenziale. Si è discusso per molto tempo, lo si fa da diversi anni, sul legittimo uso di intercettazioni autorizzate per un determinato procedimento anche per l’accertamento di reati diversi. Da molto tempo è stato acquisito in modo pacifico il ricorso per reati diversi che comportino l’arresto in flagranza. In quel caso si tratta di esigenze di politica criminale e non c’è contestazione. Poi però il conflitto ha coinvolto chi ritiene insuperabile il limite della connessione fra i reati e chi invece lo ritiene superabile. Nell’ultimo caso si pone un problema enorme, perché l’uso per reati non collegati lascia sguarnita la necessità di una autorizzazione. Si pretende di far riferimento alla categoria dell’indispensabile. Ma come si fa a valutare se l’acquisizione delle captazioni in un procedimento diverso sia davvero indispensabile per la prosecuzione di quest’ultimo? Salta del tutto il principio per cui il pm domanda al giudice il via libera sulla base di quella irrinunciabilità per l’indagine».

Chiarissimo. Ma allora perché con l’ultimo decreto si è esteso così allegramente l’uso per reati diversi?

«Va segnalato un aspetto forse decisivo, senz’altro illuminante sul modo in cui si ritiene di poter legiferare. Poco prima che l’ex presidente del Senato Pietro Grasso proponesse l’emendamento estensivo sull’uso delle intercettazioni per reati diversi da quelli per i quali sono autorizzate, era stata depositata una sentenza di straordinario rilievo della Cassazione, la sentenza Cavallo, che definiva una volta per tutte quel conflitto giurisprudenziale. La pronuncia ha stabilito che i reati diversi devono essere comunque collegati a quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Vale a dire, ritiene insuperabile il limite che si riferisce all’articolo 12 del codice di procedura penale, dov’è definita la nozione di reato connesso. Deve trattarsi di un illecito compiuto per nascondere il precedente, di un reato attribuito a una persona che ha agito in concorso con l’autore del reato precedente oppure di un reato riconducibile al medesimo disegno criminoso. Da qui non si scappa. Non si dovrebbe, almeno. Perché tale logica regge, seppur forse con uno sforzo di buona volontà, in quanto la prima autorizzazione può essere considerata implicitamente riferibile anche agli altri reati».

Benissimo, chiaro, solare: e allora com’è che il legislatore se n’è infischiato?

«È grave che se ne sia infischiato. La sentenza in questione è stata pronunciata dalla Suprema corte a sezioni unite. E appunto, tali pronunce hanno valore nomofilattico, vale a dire che è opportuno pensarci bene prima di discostarsene. I giudici difficilmente se ne sarebbero discostati».

Il legislatore lo ha fatto.

«E qui rispondo alla sua domanda iniziale: la sola possibile logica di una simile scelta normativa si spiega nella volontà di venire incontro alle spinte dei pm affinché fosse di fatto consentita la pesca a strascico dei reati tramite intercettazioni. Della serie: noi caliamo la rete, poi vediamo cosa ci resta impigliato. Vorrei ricordare che l’estensione all’uso delle captazioni per l’accertamento di reati diversi, e non collegati, riguarda specificamente le intercettazioni ambientali effettuate con i trojan, anche per i reati di corruzione. Oltre a quelle fatte con altri strumenti se relative a reati gravi di cui all’articolo 266 primo comma».

La nuova norma dice che l’uso delle intercettazioni fatte coi trojan è consentito anche per reati diversi, compresi quelli di corruzione, se però si tratta di materiale indispensabile per accertare quegli illeciti.

«Ecco, e allora noi veniamo al nodo chiave. La categoria dell’indispensabile rischia di non soddisfare l’esigenza di tassatività della previsione di legge, che invece è richiesta dall’articolo 15 della Costituzione, quando consente solo nelle forme garantite dalla legge di violare la libertà di comunicazione privata. Vede, qui parliamo di un bene primario parallelo alla libertà di manifestazione del pensiero sancita all’articolo 21, dov’è la base della democrazia. All’articolo 15 è consacrato il diritto alla diversità e all’identità della persona, che deve poter comunicare privatamente con chi vuole, in condizioni di segretezza. Adesso le dirò una cosa che potrà sembrare sconvolgente».

Cosa?

«Ha presente la sentenza Cavallo che ho citato prima, che definisce il limite dei reati connessi? In quella sentenza le sezioni unite fanno ampio riferimento all’articolo 15. A un principio a cui si può, sì, contrapporre un altro interesse, quello della collettività all’accertamento delle condotte illecite, ma solo in modo proporzionato. Vuol dire che a un giudice deve essere assicurato lo strumento di legge in grado di verificare che, nel singolo caso, davvero ci sia un interesse superiore a quello dell’inviolabilità delle comunicazioni private, e cioè alla identità e diversità della singola persona. E come fa un giudice a bilanciare quegli interessi se non può autorizzare l’uso di un’intercettazione per reati diversi da quelli per i quali l’aveva inizialmente autorizzata?»

Il presidente del Cnf Mascherin ha denunciato il rischio che la tecnologia dei trojan sfugga di mano.

«E non dovremmo lasciarcela sfuggire. La tecnologia è madre, perché spalanca nuovi diritti, ma può essere anche matrigna, perché ne può soffocare altri ancora. Vede, è sorprendente davvero che si parli tanto della reputazione, delle intercettazioni diffamanti da non sbattere in prima pagina, del dovere di informazione a tutti i costi da parte dei media, del diritto di conoscere i dettagli privati della vita della persona pubblica, e così poco della libertà di comunicare il proprio pensiero nella segretezza di una relazione privata. È strano perché, se è vero che tale diritto attiene al libero manifestarsi di una identità e di una diversità della persona, ci si dovrebbe forse ricordare che proprio di fronte a una tecnologia così pervasiva, proprio in una società in cui la comunicazione e l’informazione sono tutto, dovremmo essere ancora più preoccupati dal rischio che una conoscibilità così assoluta comprometta l’identità della persona, la travolga. Ecco, in questo senso davvero l’uso di uno strumento come i trojan, se consentito in modo indiscriminato come avviene con l’ultimo decreto, può sfuggire di mano».

Ma in ogni caso, lei dice, l’argine è saltato con la “spazza corrotti”, non con questo decreto.

«Sì, la deriva è in quell’estensione dei trojan, anche nel luogo del domicilio privato, ai reati di corruzione. Va detto che nel decreto intercettazioni appena convertito in legge si colgono anche aspetti condivisibili. Innanzitutto il ripristino del controllo del pm sulla selezione delle intercettazioni rilevanti, che invece il decreto Orlando aveva affidato in maniera quasi esclusiva alla polizia giudiziaria. Viene restituito al difensore il diritto ad estrarre copia del materiale intercettato, viene restituita la necessaria centralità all’udienza stralcio. Però vede, credo sia legittimo porsi comunque degli interrogativi sul metodo, a prescindere dai contenuti più o meno condivisibili».

La scelta del decreto legge dopo anni di rinvio?

«Pensi a come può reagire il privato cittadino di fronte al fatto che, in piena emergenza coronavirus, si ritenga “straordinariamente urgente” intervenire su una riforma vecchia di due anni in materia di intercettazioni. Oppure si provi a immaginare cosa pensa un cittadino dell’affannarsi sulla prescrizione, con quello che gli capita intorno. Diciamo che se per caso potesse dire quello che pensa a un parlamentare incontrato per strada, il rischio che lo mandi a quel paese è elevato. Poi sa, certe tempistiche sono sempre un po’ sospette».

Cioè, ha fatto comodo nascondersi all’ombra dell’emergenza?

«Ricorda un certo decreto in materia di custodia cautelare emanato nel 1994 in coincidenza con un’attesa gara dei Mondiali di calcio? Devo proprio tornare a quanto le ho detto all’inizio. Si dovrebbe avere non una simile disinvoltura, ma un’idea sacra delle regole del gioco. E invece ci si diletta nel gioco delle regole, ed è una cosa pericolosa quanto le intercettazioni a strascico».

Umberto Rapetto per infosec.news l'1 marzo 2020. La contaminazione più pericolosa di questi giorni è in realtà quella informatica su cui poggia il funzionamento dei Cavalli di Troia utilizzati legalmente dalla magistratura, e illegalmente da chissà chi, per entrare nelle vite degli altri. Parliamo (o meglio non parliamo, o lo si fa troppo poco oppure senza conoscere la questione) di un’infezione per la quale non esistono mascherine protettive e nemmeno gel disinfettanti, una pandemia il cui propagarsi è incentivato dal fatto che quel genere di bacillo serve per il nobile scopo di assicurare alla giustizia malfattori e furfanti. Il non mai abbastanza vituperato “trojan” è un sistema che si basa sul contagio informatico di un dispositivo (personal computer, tablet o smartphone) per acquisirne il controllo da remoto. In elementari termini pratici, l’apparato infettato finisce con l’essere dominato da un soggetto esterno che – approfittando di tutt’altro che immaginari “super poteri” – è in grado di carpire qualunque contenuto sia stato memorizzato e di spiare qualsivoglia comportamento. Se questo “trailer” sembra già poco rassicurante, è bene mettere in guardia chi recita la giaculatoria “male non fare, paura non avere” nell’erronea convinzione di andare esente da brutte sorprese. Il trojan è una grana che fa precipitare il quisque de populo in condizioni lacoontiche, stritolato dalle spire di un mostro digitale la cui efferatezza va ben oltre mitologiche metafore. Non è semplicemente uno strumento di ausilio alle indagini, come è stato dipinto da certe distratte pennellate, ma un potentissimo grimaldello la cui produzione e commercializzazione dovrebbe essere oggetto di rigoroso controllo da parte dello Stato e dei governi degli altri Paesi. E’ un tema che non si liquida in poche righe e così ritengo un dovere civico affrontarlo a margine delle improduttive lagnanze che si sono susseguite dai banchi dell’opposizione, nelle discussioni parlamentari sul tema nel doloroso tentativo di fermare l’approvazione delle relative norme. L’incompetenza tecnica (non me ne vogliano gli interessati) non ha consentito a deputati e senatori di assumere il ruolo del cosiddetto “Wángwéi lín”, ovvero “l’uomo del carrarmato”, diventato l’icona della rivolta di Tien-an-men e della capacità di fermare i cingoli della prepotente tirannia. Il braccio di ferro tra volenti e nolenti è stato appannaggio di quelli cui è bastato sapere che potevano coadiuvare le investigazioni. Ma se onorevoli e senatori – si fosse mai trattato della somministrazione di un farmaco – avessero avuto tra le loro mani il “bugiardino” del medicinale da prescrivere al Paese, è facile immaginare che la lettura delle possibili (e tutt’altro che improbabili) controindicazioni avrebbe indotto a riflettere sull’opportunità di rivedere la terapia del contrasto a certi crimini. Anche la dissertazione sull’argomento rischia una frastornante overdose e quindi ritengo necessario osservare una posologia misurata, che permetta anche a tutti (nessuno escluso) di acquisire gradualmente la capacità di comprendere le troppe sfaccettature del problema. Se queste righe sono una sorta di “prova allergica” (indispensabile per accertare il non verificarsi di reazioni del tipo “Ma che stai a ‘ddì?” di romanesca espressione), la prima pillola da ingurgitare si limita a spiegare cosa altro può fare il “trojan” rispetto quel che è stato annunciato. La possibilità di controllare a distanza uno smartphone non esclude (se non a chiacchiere) che chi ha progettato il sistema abbia inserito funzionalità debordanti il semplice “ascoltare e copiare”. Il trojan può teoricamente consentire di eseguire mille altre operazioni, come dar luogo a spericolate navigazioni online (magari a caccia di materiale pedopornografico) e al caricamento e memorizzazione di file (documenti, immagini, video, contatti, agende…) mai posseduti dal legittimo utente del dispositivo. E’, se vogliamo, la versione odierna del poter mettere un pacchetto di sostanze stupefacenti o una pistola con la matricola abrasa sotto al sedile dell’auto del tizio da incastrare. Non andiamo oltre, ma limitiamoci a far capire a chi ha minor confidenza con questo genere di cose che non parliamo di novità tecnologiche dell’ultim’ora. Mi permetto di segnalare un mio articolo uscito quattordici anni fa, il 21 marzo 2006 su Italia Oggi, intitolato “Il virus che pedina le mosse del mouse”. Probabilmente ho scritto di queste cose anche prima di allora, ma complice il weekend tocca accontentarsi e prendere atto di questa piccola testimonianza. In questi giorni si avrà modo di vedere da vicino una serie di prospettive della “questione trojan” che magari sono sfuggite ai più distratti. L’argomento merita di essere degustato. Come diceva la réclame di un noto liquore beneventano, “il primo sorso affascina, il secondo strega”. Tornate a leggere. Vi aspetto.

Umberto Rapetto per infosec.news il 4 marzo 2020. “Porca Trojan!” si lascerà scappare qualcuno al pensiero che si torni sull’argomento. Siccome “melius est abundare quam deficere”, riprendiamo il discorso. E’ opportuno, forse indispensabile, saperne di più. E non è semplice questione di curiosità, ma necessità di generare anticorpi culturali che sono fondamentali in un’epoca in cui sembra non bastare l’invisibile dittatura di Amazon, Google, Facebook & C. Tutti si trincerano dietro all’emergenza virale. L’informazione è monopolizzata dalla cronaca di contagi, decessi e (fortunatamente) guarigioni, da commenti di improbabili opinionisti, da consigli pratici preventivi affidati a virologi del calibro di Barbara D’Urso che – meno male! – ha spiegato agli italiani come ci si lava le mani, da previsioni catastrofiche che nemmeno “l’ottimismo è il profumo della vita” dell’indimenticabile Tonino Guerra riuscirebbe a capovolgere. In un clima di ipnosi crescente, credo sia necessario pensare anche alla salute dei diritti civili e della democrazia. Anche la libertà è problema di sanità pubblica, perché – se mai le si potesse fare il tampone o misurare la temperatura – le sue condizioni cliniche imporrebbero senza dubbio iniziative non procrastinabili. La legittimazione di determinate metodologie investigative ha innescato una evidente “domanda” sul mercato, solleticando gli appetiti degli imprenditori del settore dell’innovazione ma anche quelli del crimine organizzato sempre pronto ad afferrare al volo avvincenti occasioni di profitto. Un manager (dimentichiamoci lo stereotipo del boss con la coppola) delle più industrializzate associazioni a delinquere sa di poter contare sulla committenza delle Procure della Repubblica all’affannata caccia di soluzioni tecnologiche idonee ad accelerare il perseguimento degli obiettivi di Giustizia. La creazione di una software house mirata e competitiva non richiede grossi sacrifici alla mafia o alla ‘ndrangheta. Il momento, poi, è particolarmente favorevole per l’abbondanza di imprese decotte pronte ad abbassare la saracinesca e di straordinari professionisti lasciati a casa dalla “riorganizzazione aziendale” che in un periodo di crisi permette impietose epurazioni. Il prodotto, confezionato per essere ragionevolmente “adottabile” dall’Autorità Giudiziaria sul territorio, potrà non corrispondere a quel che si profila all’acquirente o a chi opta per il noleggio di certi sistemi. Il “trojan” potrebbe risultare inaffidabile (e “risultare” è improprio, visto che probabilmente mai nessuno si accorgerà di nulla) e tenere comportamenti difformi rispetto le aspettative di chi lo ha comprato e le caratteristiche tecniche dichiarate su depliant, brochure e slide da videoproiettore. Il trojan – sappiamo o lo stiamo imparando – prende il controllo dello smartphone o del computer della persona sottoposta ad indagine, consentendo tra l’altro (e non è dato conoscere la vastità del cosiddetto “altro”) di copiare quanto memorizzato e di acquisire conversazioni in voce e corrispondenza via mail e in chat. Il “malloppo” viene spedito ad un archivio elettronico che affianca i faldoni delle investigazioni “tradizionali”. Il trasferimento si concretizza nel passaggio telematico di file dal dispositivo “target” (cioè preso di mira) ed un server sicuro a disposizione della Procura operante. Il software in questione, però, potrebbe anche mandare (complice una specie di carta carbone virtuale) le medesime informazioni anche ad un altro sistema informatico governato dall’azienda produttrice per un reimpiego diretto o su commissione. Qualcuno è pronto ad alzare un dito e a dire che un simile traffico anomalo di dati non passerebbe inosservato, ma dimentica che l’unico punto in cui è possibile rilevare un incremento dei flussi di trasferimento delle informazioni non è nelle mani del magistrato ma in quelle dell’ignaro (si spera) bersaglio della “captazione informatica”. Il tizio non si accorgerà di nulla e il trojan (nel rispetto della mitologia dei film di spie) distruggerà ogni traccia…E’ fin troppo ovvio che il fornitore non consegnerà mai i “codici sorgente” del proprio software, giustificato dal timore che prima o poi qualcuno ne riesca a carpire le istruzioni fuoriuscite dal ben protetto perimetro del contesto in cui sono state sviluppate. Al pari di uno chef – geloso delle prelibate ricette e dei relativi ingredienti e dosaggi – nessuno metterebbe in gioco il frutto dei sacrifici dell’attività di ricerca per la realizzazione di un siffatto programma. In ogni caso, poi, il committente non sarebbe in grado di eviscerare il software per individuare e rimuovere eventuali bocconi avvelenati. La stessa fase di “inoculazione” è affidata ai tecnici del produttore del trojan, che hanno quindi visibilità sull’identificazione anagrafica dei destinatari dello “scherzetto”…Chi lavora per l’azienda di software in questione è affidabile? Oppure è un vecchio lupo di mare, avvezzo alle burrasche della vita, magari con le cicatrici di un licenziamento ingiusto o di un mancato pagamento degli emolumenti spettanti? Non è da escludere che chi ha messo il proprio ingegno nello sviluppo del trojan abbia interesse a cautelarsi, magari piazzando qui e là una “backdoor”. Backdoor? Sì, parliamo della possibilità di predisporre invisibili “ingressi sul retro” con cui accedere non solo per più agevoli operazioni di manutenzione e miglioramento del software. In parole povere, non è da escludere che l’indagato più sfigato debba fare i conti con la Procura, con la software house e con il dipendente animato da spirito di revenche. Interrompiamo la chiacchierata per non fare indigestione di timori e di assilli. Abbiamo perso (o comunque stiamo perdendo) l’abitudine a pensare, quasi le risposte fossero davvero già pronte e basti un motore di ricerca online per trovare sempre quelle giuste. Torniamo presto sull’argomento. Giusto il tempo per digerire il mattone di oggi.

·         La spazzacorrotti. Una norma giustizialista che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia.

La spazzacorrotti è uno schifo, una sfida a Falcone e a chi combatte la mafia. Piero Sansonetti de Il Riformista il 12 Febbraio 2020. La spazzacorrotti, come l’hanno chiamata con un linguaggio da trivio, è una delle leggi peggiori e più reazionarie mai approvate dal Parlamento della Repubblica. In due parole spieghiamo cos’è. Una norma che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia. Dal punto di vista di principio, questa legge ha stabilito che Roberto Formigoni – per esempio – deve essere trattato non come tutti gli altri condannati per reati vari (rapina, stupro, omicidio o cose così) ma come un mafioso: come Riina, o Provenzano, o Bagarella. Non solo in linea di principio, ma anche in linea pratica. Formigoni non può godere dei benefici penitenziari riservati a un assassino qualunque, perché lui – anche se non ci sono le prove – ha commesso un reato molto, molto più grave di quello commesso da chi – in un momento di confusione – ha – mettiamo – massacrato la moglie o sgozzato una figliola: Formigoni si è fatto ospitare in barca da un amico col quale – forse – aveva avuto rapporti politico-professionali nel suo ruolo di amministratore. Abuso: al rogo. Perché la spazzacorrotti è una pessima legge? Per tre ragioni.

La prima è abbastanza evidente. Equiparare un reato, anche piccolo, di corruzione, a un reato di mafia, è un atto evidente di insolenza e di sfida a tanta gente che ha dedicato la vita a capire e a combattere la mafia. Penso sempre a Falcone e a tanti che lavorarono con lui, e impiegarono anni, e tanta della loro credibilità, per spiegarci cosa fosse la mafia, come funzionasse, quanto e perché fosse pericolosa. Poi sono arrivati questi ragazzi a 5 Stelle e hanno deciso che mafia o traffico di influenze sono la stessa cosa.

Seconda ragione. Proclamare una nuova gerarchia di reati nella quale abuso d’ufficio è molto più grave di stupro è qualcosa di orribile, di atroce, che può provocare – anzi, che provoca – una ferita difficile da rimarginare nel senso comune.

Terza ragione, ma questa è più complessa e non riguarda i 5 Stelle ma chi ha governato prima di loro e ha aperto loro la strada: la giustizia, in un vero Stato di diritto, è uguale per tutti. Ci sono i reati più gravi e quelli meno gravi, ma ci dovrebbe essere un solo binario della giustizia. Il doppio binario è uno sgarro anche alla ragionevolezza. Sia il doppio binario nelle procedure e nei metodi di indagine, sia il doppio binario nelle punizioni. Riusciremo mai ad abolire questa anomalia? Intanto noi proviamo a chiederlo. E facciamo scandalo.

Severino e Spazzacorrotti hanno fallito, processi ai singoli non come deterrente. Alberto Cisterna de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Un’indagine di corruzione, come altre, come tante. Un’indagine all’apparenza anche ben condotta e capace di incidere in un ganglio di malaffare di un certo livello. Sin qui nulla da dire, anzi non si può che essere soddisfatti. Poi, come un’ombra che rannuvola, le parole del pubblico ministero. Si duole la toga della circostanza che «i numerosi provvedimenti restrittivi emessi» in altri procedimenti «non abbiano esercitato alcun effetto deterrente rispetto alle analoghe condotte contestate agli odierni indagati nella presente vicenda». Parole che schiudono, con una certa schiettezza e sincerità, uno scenario non certo imprevisto o eccentrico, ma tenuto sempre in disparte e in ombra dai tempi di Tangentopoli in poi. Ossia che le manette dovessero avere anche un «effetto deterrente» per i consociati. Si badi bene non per gli stessi indagati – magari arrestati in altre indagini e incalliti recidivi – ma per tutti coloro i quali operano come loro in quel mondo, si muovono in quell’amministrazione consumando altre corruzioni e altro malaffare. E qui si impone una riflessione. Non sta scritto in nessuna norma del codice che si possa rimproverare a un indagato di non aver subìto l’effetto deterrente di altre misure emesse in altri processi. Non sta scritto perché ogni misura restrittiva costituisce o dovrebbe costituire l’esito di una rigorosa valutazione “personalizzata” dei fatti in cui a rilevare dovrebbero essere solo le condotte dell’arrestato, non la sua insensibilità al monito pubblico che deriva dall’enfatizzazione mediatica di precedenti catture. Appare chiaro, non nelle parole ora ricordate, in sé marginali, ma nell’ideologia dell’uso della custodia cautelare che esse evocano che il ricorso alle manette risente (ancora e in modo prepotente) della volontà dell’inquirente di imprimere un monito, una deterrenza nella comunità in modo da frenare ogni malintenzionato dall’idea di commettere lo stesso reato. Non è una volontà obliqua o illecita quella dell’inquirente, si badi bene, ma piuttosto appare direttamente coerente a una radicata visione della giurisdizione investigativa intesa come strumento per realizzare e affermare il controllo di legalità. Se il fine dell’attività inquirente è quello di vigilare sulla legalità/moralità (si vedano le insuperabili parole di Filippo Sgubbi in «Diritto penale totale») dei consociati e dei pubblici amministratori in particolare, allora è necessario, anzi indispensabile che ogni tintinnar di manette susciti una deterrenza ovvero la paura di subire la stessa sorte se si commetteranno gli stessi reati. E questo a prescindere da ogni “personalizzazione” e da ogni adeguamento della misura al singolo fatto in modo da affermare un’uguaglianza cieca che equipara tra loro i sudditi, senza considerarli cittadini. Alla pena esemplare si sostituisce, anticipandola, la misura esemplare quale conseguenza diretta proporzionale e proporzionata alla callidità del reo non per ciò che ha commesso, ma per il fatto che subdolamente ha anche ignorato l’ammonimento impartito agli altri e non si è preoccupato di modificare repentinamente le proprie condotte per non incorrere nello stesso rigore. Certo traspare in questa posizione un senso di impotenza e di sconsolato pessimismo sulla condizione della società, ma questo non può giustificare un fallo da frustrazione sul reprobo di turno. Se non si vince la partita non si può certo azzoppare il lesto attaccante avversario che continua a fare goal, pensando così di intimidire tutta la squadra avversaria e tutte le altre formazioni delle dispute a venire. Il processo ha delle regole, efficaci o inefficaci non tocca ai magistrati stabilirlo, che devono essere osservate sempre e comunque quanti reti segni l’avversario e quanto pesante possa sembrare la posizione di classifica. Semplicemente perché non esiste un campionato e non sono previsti bilanci consuntivi per l’inquirente, ma ogni processo è una partita singola, irripetibile e unica da giocare sempre con lealtà e senza rancori o accanimenti di sorta. Non si mandano segnali agli avversari, né li si intimidisce con messaggi trasversali, avvantaggiandosi degli immancabili coreuti del manettarismo (ulteriore degenerazione del giustizialismo). Infine, trattandosi di corruzione e di appalti, proprio le considerazioni da cui ha preso avvio questa breve riflessione inducono a un ulteriore punto di analisi circa l’efficacia che la legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno avuto sul versante della prevenzione del malaffare. Innanzitutto pare evidente il sostanziale fallimento in Italia dei sistemi di prevenzione della corruzione nel settore sia pubblico che privato. Le inchieste svelano mercimoni non occasionali o episodici, ma sistemici e profondamente radicati nel business che coinvolge la pubblica amministrazione. Se ne desume che i modelli di prevenzione sono praticamente carta straccia e che nessuno in verità riesce a vigilare efficacemente su quanto accade negli uffici di spesa del Moloch amministrativo del Paese. Secondariamente par chiaro che se l’intento del legislatore era quello di coltivare l’inasprimento delle pene per esercitare un «effetto deterrente» sui rei, la strada scelta sta consegnando risultati scarsi e di gran lunga distanti dall’obiettivo prefisso. Restano, invece, in ombra strumenti importanti come l’agente sotto copertura e il whistleblowing (ossia la segnalazione anonima delle condotte illecite) e si continua ancora a puntare tutto sulle intercettazioni con un’auspicata, ulteriore agevolazione nell’uso dei trojan informatici nella conversione in legge del decreto intercettazioni. Una strada palesemente inefficace e, ormai, di corto respiro che consente di incastrare i soliti voraci “pesci piccoli” e che non riesce a colpire i protagonisti delle reti complesse della corruzione sistemica. Gli uni e gli altri, però, sembrano così somiglianti a quell’indimenticabile scena di “Guardie e ladri” in cui un ansimante Aldo Fabrizi, in divisa da poliziotto, vuole costringere a un pari esausto e riluttante Totò de Curtis, ladro incallito, a farsi ammanettare; con il secondo che, alla minaccia del primo di sparare in aria un colpo di pistola a scopo intimidatorio, gli risponde “fai pure tanto io non mi intimido”.

Legge spazzacorrotti:  è incostituzionale  la sua applicazione  sui vecchi reati. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. La Corte Costituzionale ha stabilito che l’applicazione retroattiva della Legge «Spazzacorrotti» è incostituzionale. La decisione è giunta dopo che ieri, martedì, con una iniziativa di cui non si ricordano precedenti, era stata la stessa Avvocatura dello Stato a «bocciare» la legge — fiore all’occhiello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dei Cinque stelle — proprio nella parte in cui vieta retroattivamente ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere. La riforma era stata varata un anno fa dal governo Cinque stelle-Lega, e aveva introdotto l’equiparazione della corruzione e altri reati simili a quelli cosiddetti «ostativi» (come mafia, terrorismo e traffico di droga), per i quali sono precluse le misure alternative alla detenzione normalmente applicate ai condannati a pene inferiori ai quattro anni di carcere. La norma è entrata in vigore il 31 gennaio 2019: ma non essendo previsti regimi transitori è stata applicata anche a tutti coloro che, prima di quella data, erano state condannate a pene per le quali avrebbero potuto beneficiare dell’affidamento ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, senza dover entrare in prigione. A partire dal primo febbraio 2019 quei condannati sono stati invece portati in cella. Tra i casi più noti di applicazione c’è quello relativo all’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Contro l’applicazione retroattiva della legge erano giunti alla Corte costituzionale ben 17 ricorsi di tribunali e corti che – sollecitati dai difensori dei condannati – ne ipotizzavano l’incostituzionalità, perché in contrasto con l’articolo 25 della Carta secondo il quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Martedì, l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi aveva spiegato che «questa norma non può essere retroattiva».

Stop alla Spazzacorrotti: l’imputato che ha evitato  il carcere in extremis. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 da Corriere.it. «Per un mese sono rimasto in casa aspettando l’arrivo dei carabinieri. Ogni volta che sentivo un’auto avvicinarsi alla mia abitazione mi affacciavo alla finestra pensando “sono venuti a prendermi”. Non è successo. E adesso so anche che non accadrà, che non finirò in carcere. È una vittoria di Pirro per chi come me ha sempre sostenuto la propria innocenza, ma è comunque un risultato importante». Carlo Alberto Masia, l’ex dirigente dell’Ufficio tecnico delle Molinette condannato a 2 anni e un mese di reclusione per corruzione, ha da poco saputo che la Consulta ha dichiarato incostituzionale la retroattività della cosiddetta Spazzacorrotti, la legge targata Cinque Stelle con la quale si impediva agli amministratori colpevoli di reati contro la pubblica amministrazione di accedere a misure alternative alla detenzione. Masia, 58 anni, avrebbe dovuto finire in carcere lo scorso 9 gennaio, ma la sua esecuzione è rimasta «in attesa». Complice anche un’istanza presentata dal suo avvocato, Caterina Biafora, con la quale si avanzava la questione di legittimità costituzionale. Ma prima ancora che il suo caso venisse istruito, è arrivata la sentenza della Consulta. «Ho tirato un sospiro di sollievo. Non voglio sottrarmi ai verdetti dei Tribunali, ma una persona deve essere giudicata secondo regole certe», sottolinea Masia. La storia giudiziaria dell’ex dipendente delle Molinette inizia il 15 marzo del 2010, quando la Guardia di Finanza si presenta a casa sua con una misura cautelare. Quel giorno Masia finisce ai domiciliari, mentre Francesco Chiaro, il capo dell’Ufficio tecnico, viene portato in carcere. L’accusa è di corruzione e falso ideologico per aver intascato una tangente da 52 mila euro da una ditta titolare di un appalto per la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’ospedale. Masia e Chiaro (assistito dall’avvocato Ferdinando Ferrero) vengono condannati in primo grado, nel 2013, rispettivamente a 2 anni e 10 mesi e a 6 anni e 6 mesi. Il verdetto è riformato dalla Corte d’Appello nel 2018: 2 anni e un mese per Masia e 3 anni e 8 per Chiaro. Manca ancora lo scoglio della Cassazione e nel frattempo, nel gennaio del 2019, entra in vigore la Spazzacorrotti. Trascorrono i mesi e si arriva al 9 gennaio di quest’anno, quando la Corte Suprema conferma la sentenza di secondo grado. «Quella sera mi ha chiamato il mio legale dicendomi di fare la valigia. Mia figlia più piccola ha cercato su internet cosa potessi portarmi in carcere e ho preparato la borsa — spiega Masia —. La mattina dopo mi sono presentato dai carabinieri di Giaveno, ma mi hanno rispedito a casa. Mi hanno spiegato che serviva un ordine di esecuzione. È cominciata così una lunga ed estenuante attesa. Con la valigia sempre pronta in un angolo». A quel punto, l’avvocato Biafora presenta preventivamente un’istanza. «Ci siamo mossi d’anticipo — sottolinea il legale —. Ma era chiaro che avrebbero potuto arrestarlo in qualsiasi momento». Il 29 gennaio finisce in carcere Chiaro. «A quel punto pensavo che sarebbe toccato anche a me — racconta Masia —. Ho smesso di uscire di casa per paura che mi dichiarassero latitante. Ma ho sempre sostenuto la mia innocenza e spero che un giorno la verità emerga. Rispetto le istituzioni e sono pronto scontare la mia pena. Chiederemo una misura alternativa al carcere e farò quanto mi verrà detto di fare. Non finire in cella è una vittoria di Pirro. La vera sconfitta sono stati i dieci anni di processo. Troppi, in un paese civile. Troppi, che tu sia colpevole o innocente. È un calvario che non auguro al mio peggior nemico». E oggi potrebbe tornare in libertà anche Chiaro. «Presenteremo un’istanza — spiega l’avvocato Ferrero —, contiamo che venga accolta. Il mio cliente non deve stare in cella un giorno di più».

Spazzacorrotti, Formigoni: bene così ma ho trascorso mesi di carcere ingiusto. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. La dichiarazione è formale: «Apprendo oggi con soddisfazione che la Corte ha ritenuto incostituzionale la retroattività della Spazzacorrotti in forza della quale, purtroppo, ho subito alcuni mesi di ingiustificata detenzione». Roberto Formigoni non esulta più di tanto, sa che, se non ci fosse stata la legge voluta dal M5S, sarebbe uscito dal carcere «solo» qualche mese prima. Molte altre persone non ci sarebbero mai neanche dovute entrare. Condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione nel caso Maugeri, l’ex presidente della Regione Lombardia varcò la soglia di Bollate il 22 febbraio dell’anno scorso, meno di un mese dopo l’entrata in vigore la Spazzacorrotti che avrà un’influenza relativa sulla sua posizione. Come tutti coloro che hanno più di 70 anni, entrato in carcere avrebbe potuto chiedere immediatamente la detenzione domiciliare. Incensurato, senza legami con criminali, l’avrebbe ottenuta in qualche settimana se non ci fosse stata la Spazzacorrotti che nega questo e altri benefici ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione. I suoi legali, gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni,puntarono subito al superamento di questo divieto sostenendo (era già accaduto in un caso a Venezia) il principio di non retroattività della norma penale, e cioè che la nuova legge non potesse essere applicata ai reati commessi prima della sua entrata in vigore. Sostennero anche la «collaborazione impossibile», quella che permette di concedere i benefici penitenziari anche ai condannati che non ne avrebbero diritto, se i giudici accertano che non sono in grado di dare nuovi elementi che facciano luce sulle vicende che li riguardano. Il Tribunale di Sorveglianza concesse la detenzione domiciliare e Formigoni uscì cinque mesi dopo. «C’è da augurarsi che il pronunciamento della Consulta freni una linea di politica penale giustizialista presente nei governi di questa legislatura», aggiunge l’ex presidente le cui prospettive prossime sono un’eventuale richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e l’affidamento in prova ai servizi sociali, che potrà chiedere all’incirca tra un anno quando la pena residua scenderà sotto i quattro anni. Cosa che avrebbero voluto fare coloro che, condannati a meno di 4 anni, senza la Spazzacorrotti non sarebbero finiti dentro perché l’ordine di carcerazione sarebbe stato sospeso in attesa della decisione dei giudici sull’affidamento. Sono in cella ingiustamente, vista la decisione della Corte costituzionale. Potrebbero essere qualche decina di detenuti in tutta Italia (un solo caso sarebbe comunque troppo) che già da oggi avrebbero diritto alla libertà.

·         I Garantisti.         

Il garantismo cura la persona, non il sistema. Alberto Abruzzese su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Penso e dico l’impossibile? Parlo anche a Piero Sansonetti che ha compiuto la scelta di fare un quotidiano di battaglia garantista su due piani difficilmente accostabili e conciliabili: garantire una onesta applicazione delle leggi esistenti e garantire la qualità della vita dei carcerati, la loro salute, gli affetti della loro carne qui e ora. Il carcerato in quanto concreto referente di ogni altra concreta forma di reclusione della persona. Del suo corpo. Scelta per me assai ardita in quanto questi due campi di intervento mi sembrano essere in contraddizione o meglio in urto tra loro. E avere in sé, ciascuno per il proprio verso, qualcosa di distopico. C’è o no un circolo vizioso o addirittura un vuoto incolmabile nella convinzione e speranza che l’orizzonte di valori in cui, da esseri umani, continuiamo ad abitare possa davvero garantire i risultati che si pretendono dal garantismo? Oppure, nella sua sostanza, lo stesso garantismo ha al suo fondo proprio la uguale barbarie delle guerre e dei delitti compiuti per buona o cattiva causa o inevitabile necessità di sopravvivenza? In tanto affascinante straparlare del progressivo esodo d’ogni cosa vivente dalle strette vie della scrittura, si dimentica o rimuove troppo spesso il fatto che leggi e carceri dipendono da protocolli alfabetici stampati sulla carta come un tempo lo furono sulla pietra. Lo stesso perverso intreccio tra protezione e insieme negazione della vita che il Covid 19 rivela essere ora in azione. Sempre ancora di nuovo dentro i pretesi regimi di felicità delle società civili. In questa ottica coscienziale è in discussione l’efficienza di giusti principi, giuste investigazioni e giusti processi nel campo della “sorveglianza”, ma – come negarlo? – lo sono parimenti le giuste “punizioni”: basta una sfumatura per entrare nella letteratura anti-concentrazionaria da Foucault ad Agamben (ma anche in quella sorta di bizzarro “uomo qualunque” che oggi sbraita contro l’impostura che sarebbe dietro ai provvedimenti emanati dalle autorità in nome di una emergenza di fatto inesistente). Dunque come si può riuscire a combinare equamente il rapporto tra delitti e pene appena ci si lasci sfiorare dall’idea che la civiltà dei regimi di penitenza usa la medesima violenza dei suoi trasgressori? Vecchia storia mi direte. Irrisolvibile (tantomeno quando a proporla è uno come me: digiuno o quasi delle complesse letture che di tale dilemma costituiscono una lunga e solida tradizione). Eppure…Sono un convinto garantista, lo ho detto, ma sono altrettanto certo che dare alla persona la piena garanzia di non subire violenza potrebbe accadere solo per mezzo di una permutazione radicale dei valori che la governano – ovvero la assoggettano ad altro da sé – all’interno e dall’interno della propria stessa coscienza o forse sarebbe meglio dire della propria sensibilità.. Se è così, allora è la persona a dovere trascinarsi altrove dalla condizione di subalternità e dunque sofferenza in cui è costretta e si costringe per educazione ricevuta, per necessità e per sua stessa natura, istinto. Operazione che essa può realizzare soltanto facendo esperienza della propria doppia identità di persona in sé, organismo vivente, e di persona assoggettata, cioè soggetto sociale (non ditemi che vi è sconosciuta questa schizofrenica esperienza quotidiana!). L’unico campo possibile per tale sostanziale trapasso da soggetto a persona può quindi essere la formazione. Per quanto le sue istituzioni, i suoi apparati, le sue discipline siano in tutt’altra direzione orientate, essa è tuttavia il luogo e il tempo in cui una cultura potrebbe forse modificarsi ed essere modificata. Ecco perché ritengo che il nodo culturale e sociale della scuola, e più vastamente della formazione ad ogni grado e livello, debba essere affrontato non lateralmente ma dritto al centro della battaglia garantista che costituisce il merito e la fatica di Il Riformista. Voglio dire che, a dover trovare il fulcro politico, la giusta causa, di tale battaglia, non basterà mai – come infatti non è mai bastato – l’umanesimo di nessuna ideologia, religione e partito. Nessuna democrazia o nessun liberalismo. Nonché tecnologia. Per sperare in qualche effettivo risultato, ci vuole un salto netto da praticare ben oltre la siepe della civilizzazione antica e moderna. Ci vuole un contenuto che, paradossalmente, è stato sempre vivo e sensibile nella nostra carne di esseri umani (la verità del dolore che percepisco nel ferire me stesso o altri). Un contenuto, quindi, presente alla nostra naturale condizione di sofferenza psicofisica in quanto singole persone. Ma che ci è sottratto – abbiamo lasciato ci fosse carpito di pari passo con la civilizzazione – ad opera delle stesse forme culturali e politiche di socializzazione di per sé comunque necessarie alla sopravvivenza umana nel mondo. Per opera loro il contenuto reale della persona (carne viva sotto la nostra pelle) è schermato – forse sempre più ma certamente come prima – dai linguaggi identitari impartiti e appresi nelle istruzioni imposte e subite in ogni agenzia di socializzazione (dalla famiglia alla scuola), prima ancora di entrare, una volta istruiti, nella dimensione del lavoro e dunque dei modi di produzione e riproduzione della società, delle sue necessità. Così da diventare il contenuto maggiormente rimosso nelle nostre stesse capacità di pensiero, di conoscenza e persino desiderio. Ecco perché penso che, contrariamente ai modi in cui la si travisa, strumentalizza e umilia, la questione della educazione e istruzione dei giovani non venga dopo ma prima di effettivi “buon governi” – amministrazione di giuste leggi rese efficaci da giusti professionisti – in quanto tale domanda e la capacità di darle una risposta costituiscono la sola possibilità di operare alla mutazione di ogni valore culturale, istituzionale e politico della nostra civiltà e della sua storia. In nuce le strategie e tattiche del garantismo già hanno – ma assai più radicalmente dovrebbero avere – la pura e semplice cura della singola persona al di là di ogni altro valore. Dovrebbero considerare la sua sofferenza un tabù senza alcun alibi possibile. O quanto meno dovrebbero avere tragica consapevolezza di ciò che divide l’eccezione dalla regola.

Sorprese in magistratura. Il Fatto stupisce: Woodcock contesta pentitismo e 41 bis, Travaglio apre un dibattito…Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Novembre 2020. Henry John Woodcock, Pubblico Ministero presso la Procura di Napoli, protagonista di inchieste quasi sempre – mi limito a dire – almeno controverse, ci sorprende per i contenuti del suo articolo sul regime penitenziario del 41 bis, appena pubblicato su Il Fatto Quotidiano. L’articolo ha una tale sua singolare forza che il direttore Travaglio ha sentito l’esigenza di integrarlo con una postilla, nella quale, quasi a spegnere possibili incendi, si dice certo che le considerazioni del Pm napoletano «susciteranno un dibattito…. che Il Fatto ospiterà volentieri». Per parte mia, non so se stupirmi più delle cose che scrive il dott. Woodcock, o di questa iniziativa del quotidiano. Non so neppure se e quanto pesi, in tutto ciò, la arcinota vicenda Bonafede–Di Maio–Giletti, che ci ha noiosamente tormentato negli ultimi mesi dagli schermi di LA7, ma non mi sembra nemmeno giusto chiederselo. Prendiamo atto con piacere che si sia voluto rilanciare questa importante riflessione, a maggior ragione se questo avviene dalle colonne del Fatto Quotidiano e per mano di un Pm non certo indulgente verso i temi delle garanzie di indagati ed imputati. In realtà, il dott. Woodcock pone con molto garbo ma con chiarezza le riflessioni critiche sull’istituto del 41 bis che da sempre sono proprie dell’avvocatura italiana, ed in genere dei liberali e dei garantisti di questo Paese, perciò additati come fiancheggiatori, nemmeno inconsapevoli, delle cosche mafiose che avvelenano la vita sociale ed economica del Paese. In sintesi: non pertinenza delle molte e durissime regole del 41 bis rispetto alle finalità di sicurezza di quel regime detentivo speciale; trasfigurazione in ordinarietà di un regime penitenziario dichiaratamente di natura eccezionale; indiscriminata sua applicazione ad un numero esagerato di destinatari. Nessuno ha mai dubitato che legittimamente lo Stato possa graduare il rigore del regime penitenziario in misura proporzionale alla pericolosità sociale del detenuto, tanto più se quella pericolosità fa sì che la detenzione in carcere non riesca ad interrompere la catena di comando della organizzazione criminale, ed anzi non di rado addirittura ne rafforzi l’efficacia. Il punto è sempre stato la proporzione e la congruità delle misure adottate a quel fine, da subito orientate verso una finalità diversa, cioè quella di organizzare un regime detentivo terrorizzante, per sfuggire al quale viene esplicitamente indicata la sola strada della collaborazione con l’autorità giudiziaria. Il dott. Woodcock si chiede giustamente cosa abbia a che fare con le esigenze di sicurezza che il detenuto al 41 bis non possa scegliere liberamente quali abiti indossare. Giusto. Tanto meno, aggiungo io, che non possa scegliere i libri o i giornali da leggere; o che gli sia preclusa la possibilità di cucinare in cella, e potremmo proseguire all’infinito nel catalogo di queste assurde e torturanti insensatezze. Altro è un regime detentivo di sicurezza – per di più irrogato allo stesso modo al condannato come all’indagato di mafia – altro è l’annientamento della dignità stessa della persona, il cui rispetto è odiosamente condizionato alla collaborazione. E bene fa il PM partenopeo a snocciolare tutti i ben noti deragliamenti e le anomalie della “professione” del pentitismo nel nostro Paese. Certo, viene da chiedersi come mai se queste cose le diciamo noi avvocati, nella migliore delle ipotesi si viene ignorati, ma più spesso – ed uso ancora le parole di Woodcock– “si rischia di essere additati come fiancheggiatori delle mafie”; se le scrive un Pubblico Ministero, si apre il dibattito, perfino su Il Fatto Quotidiano. E tuttavia, come suona il detto popolare? Meglio così che un calcio nei denti. E allora: dibattito! 

Dualismi equivoci: giustizialismo e garantismo. Dario Fumagalli, Legale specializzato in data protection e privacy, su Il Riformista il 9 Luglio 2020. I dualismi, si sa, entusiasmano. Quando è possibile ridurre la complessità del reale in una partita a dama tra il bianco e il nero, il nostro inconscio gode profondamente. Dalla religione alle partite di calcio, il richiamo del “noi” contro “loro” è irresistibile. Del resto, il noi contro loro è scritto nel nostro DNA culturale fin dall’alba dei tempi. Pare, come ricorda spesso il bravissimo storico-divulgatore Alessandro Barbero, che quasi tutte le popolazioni primitive definivano loro stesse “gli uomini”. Gli altri, manco a dirlo, erano “loro”, i non uomini. Il mondo era ordinato, semplice, diviso tra bene e male. Di dualismi è infarcita la storia politica del mondo. Greci e Barbari, Guelfi e Ghibellini, Cattolici e Protestanti, fino ai due blocchi ideologici novecenteschi. Per meglio dire, di questi dualismi sono infarcite le narrazioni – politicamente ispirate – della storia. Semplificazioni efficaci, utili a orientare la volontà collettiva a seconda degli interessi contingenti. Il tutto mentre, sulla scacchiera reale, la trama storica si nutre di alleanze e inimicizie stabili quanto la vita di una farfalla, guidate solo dall’interesse. Se questa è la realtà da secoli, può forse fare eccezione la politica contemporanea? Può la politica del consenso, tipica degli ordinamenti democratici di massa, lasciarsi sfuggire l’occasione di capitalizzare un espediente narrativo così ghiotto? Nemmeno per sogno. Così, da trent’anni, media e partiti ci tengono al palo, facendoci fare come i mosconi coi vetri, con la storia del “giustizialismo” contrapposto al “garantismo”. Lungi da me ironizzare sulle diverse sensibilità personali in campo, a volte ideologiche, a volte condizionate da esperienze drammatiche personali. La diversità è ricchezza e contribuisce a caratterizzare l’offerta politica, quindi ben venga. Quando emergono spunti articolati, utili a vagliare criticamente tutti i profili controversi del sistema, la collettività ha solo da guadagnare. Inutile negare, infatti, che di ombre sulle quali far chiarezza ce ne siano a volontà. Ciò, in primo luogo, poiché ogni articolazione del potere pubblico è composta da esseri umani ed eredita, perciò, i loro vizi. In secondo luogo, per quanto ci si sforzi di negarlo, la politica è, essenzialmente, conflitto aperto tra interessi contrapposti. A volte questi interessi sono vitali per qualcuno, alle volte incarnano valori ai quali è attribuito valore assoluto. Il risultato è che per gli attori in campo, spesso, la vittoria ha un valore tale da oscurare ogni questione di metodo. La posta in palio, purtroppo, è spesso tale da minimizzare ogni afflato di cavalleria, tanto più in una civiltà come la nostra, che definirei spiritualmente nuda. Così, da un lato, è evidente che la lotta politica non rinunci affatto alla carta del “colpo di toga”, laddove possa avvalersene proficuamente. Dall’altro, è auto-evidente il carattere grottesco della narrazione opposta. Che la classe politica sia – al netto di mele marce – scevra da malizie, vittima sacrificale delle ambizioni eversive dei togati, è ridicolo. I tentativi di forzatura del meccanismo democratico, infatti, sono tutto fuorché unilaterali:  piovono a fiotti da ogni direzione. Chiunque accumuli un minimo di potere, checché se ne dica, sviluppa all’istante allergie ai paletti tipici dello stato di diritto. Qualcuno tenta di sottrarsi alle regole del gioco con la forza, qualcuno usa i soldi, qualcuno l’abuso di potere mediatico, altri creano sodalizi occulti. Ognuno a modo suo, i bari si annidano ovunque. Non esistono dualismi se non quello che vede contrapposto chi cerca di giocare secondo le regole e chi di forzarle. Ma, infondo, anche questo è fisiologico. Le regole del gioco non sono, infatti, scolpite nella fisica dell’Universo. Quando gli equilibri politici lo consentono, gli uomini si danno regole per limitare il caos naturale, che però non scompare. I tentativi di fondare i rapporti sociali su principi diversi dalla legge del più forte sono frutto della volontà umana, non di una qualche volontà trascendente. Ed eccoci dunque a giustizialismo e garantismo. Cosa significa essere garantisti? Il termine è mutuato dal mondo forense. In ambito giudiziario, particolarmente in quello penale, il garantismo (la presunzione d’innocenza) è una fondamentale misura di sicurezza ed equità. In un processo, infatti, esiste una parte debole (l’imputato) e una forte (lo stato). Lo stato può usare legittimamente la forza, l’imputato no. Per questo è essenziale prevedere degli strumenti che bilancino l’asimmetria, perseguendo quella che chiamiamo giustizia. La Costituzione prevede numerosi contrappesi: si pensi ad esempio ai limiti posti all’utilizzabilità delle prove. Tra questi vi è anche la presunzione d’innocenza. Fermiamoci un attimo sui limiti probatori. Capire che esistono prove che – onde evitare drammatici abusi (si pensi alla tortura) – non possono essere utilizzate, è molto importante. Infatti, da questo come da altri fattori, deriva che la verità processuale non coincide sempre con quella fattuale. Qui si separano, razionalmente e incontestabilmente i due mondi: quello giudiziale e quello politico. Qui si separano, dunque, anche i due giudizi. Da una condanna penale derivano effetti dirompenti per la vita dell’imputato. Le sue libertà fondamentali, i suoi diritti umani, vengono sospesi con la forza. Per questo, è essenziale che, per arrivare ad una condanna, sia necessaria una certezza particolarmente solida. Meglio liberare un colpevole che sanzionare un innocente, onde evitare che gli innocenti vivano nel terrore e la pace sociale ne risulti compromessa. Per questo, le semplici massime d’esperienza, le prove raccolte illecitamente, le sensazioni, non possono contribuire a formare la verità processuale. Diverso è il discorso in politica. Nessuno ha il “diritto” di governare. Nessuno, a maggior ragione, ha il “diritto” di rappresentarmi in un’assemblea parlamentare (o in altri organi analoghi). Il giudice, qui, è ciascuno di noi. Qui non ci sono regole processuali, se non il nostro fiuto. Ognuno di noi valuta se un individuo (o una parte politica) è idoneo a rappresentare nei consessi decisionali i suoi interessi e i suoi valori. Il sospetto basta eccome, come in tutti i rapporti di fiducia. Sta alla sensatezza di ognuno, come accade nei rapporti privati, filtrare il sospetto infondato da quello fondato. Allo stesso modo, sta alla sensatezza di ognuno cercare di non cadere in trappola di false rappresentazioni, brandite da nemici dei nostri amici. D’altro canto, qui un fatto è un fatto, anche se giunto alla nostra attenzione per vie poco trasparenti o interessate. Non è possibile, dunque, mutuare il “garantismo” (sacrosanto nelle aule di tribunale), all’interno dei seggi elettorali. Non sarebbe sano, né saggio. Peraltro, in politica occorre anche – come si suol dire – essere come la moglie di Cesare. L’apparenza, purtroppo, è essa stessa un fattore della capacità di proiezione di potere. Un governante su cui gravano sospetti di disonestà è debole, ricattabile e precario. Il giustizialismo, ovviamente, è anch’esso una patologia. Un giudice può sbagliare, una sentenza può – in alcuni casi – essere condizionata da fattori politici. Non solo, ma alle volte una condanna può essere politicamente irrilevante. Il giudizio politico non è un giudizio morale assoluto e tanto meno può essere ridotto ad un giudizio sulla liceità della condotta.  La retorica dell’onestà è riduttiva e, a volte, dannosa. L’onestà può, al massimo, essere un pre-requisito, ma serve ben altro per poter svolgere il compito al quale la politica chiama i suoi esponenti. Si tratta di capire chi è idoneo a comandare rappresentando interessi e valori condivisi. In alcuni casi, contravvenire alla legge penale non rende automaticamente inadeguati ad espletare il compito descritto.

Il punto, quindi, non è schierarsi da una parte o dall’altra. Occorre schierarsi sempre e solo con sé stessi, per cercare di sfuggire alle numerosissime trappole manipolatorie che la macchina dell’audience e del consenso ci lancia contro quotidianamente. Schierarsi con sé stessi non significa però essere egoisti, disinteressati e apatici. Significa entrare in armonia con coloro con i quali condividiamo reali interessi e valori profondi. Vuol dire decidere se identificarci in una delle mille squadre che giocano secondo le regole o tra coloro, anch’essi tutt’altro che omogenei, che intendono forzarle. In secondo luogo, significa accettare la complessità del mondo e rassegnarsi ad usare il senso critico ogni singola volta, rifiutando riduzioni macchiettistiche della realtà. Schierarsi con sé stessi significa combattere le proprie battaglie e non abdicarle, anche quando non possono essere combattute solo nel privato e in solitudine, ma presuppongono una virtù politica. Diversamente, saremo sempre complici di quelli che consideriamo essere i nostri peggiori nemici, siano essi le toghe rosse o i cavalieri blu.

La giustizia non è vendetta. la rivoluzione si fa col perdono. Mons. Vincenzo Paglia su Il Riformista il 10 Giugno 2020. In queste settimane siamo stati capaci di altruismo e rispetto delle regole: tutelando noi stessi abbiamo tutelato anche gli altri. Una prova dura per tutti noi che ha smentito il più forte luogo comune che ci descrive come un popolo di egoisti e anarchici. Siamo stati capaci di compiere un passo avanti! Il problema è ora la capacità di imboccare strade nuove, sicuramente difficili e piene di conseguenze civili positive. Vorrei fermare l’attenzione su una dimensione che richiede una riflessione e soprattutto una decisione più audace. Può sembrare una domanda peregrina. In realtà è parte essenziale di un nuovo umanesimo da realizzare. Ed anche, di un cristianesimo davvero evangelico da vivere. Insomma, diventiamo capaci di perdonare? Guardando alle “risse” che punteggiano la vita politica, pane quotidiano per i media che sulle «risse» aumentano (o credono di aumentare) gli indici di ascolto; guardando alle «risse» a volte tra le nostre Regioni; oppure alle “risse” europee tra Paesi “virtuosi” e altri no, per finire ai litigi in famiglia e magari anche nella vita quotidiana in strada (tra auto, scooter, pedoni, ciclisti…). Ebbene possiamo immaginare una società avviata sulla strada del “perdono”, abbandonando quella tristissima consuetudine al conflitto permanente, alla vendetta illimitata? Non è un tema (solo) religioso; è un tema politico e sociale di ampia portata. Insomma, di vero umanesimo. E per questo diventa anche economico: si risparmierebbe molto in quantità di tempo personale, di tempi della giustizia, se ci fosse maggiore capacità di dialogo, ascolto, “perdono”. Perché l’altro comunque è una persona fallibile. E a ben guardare me stesso, sono fallibile anch’io allo stesso modo. Perdono e giustizia sono inestricabilmente collegati. Anzi rappresentano l’uno l’altra faccia della medaglia dell’altra. La giustizia è l’aspirazione di tutti noi, auspicando una società dove situazioni e persone vengano valutate in maniera equa ed imparziale. Questo è davvero un processo lungo: coinvolge le leggi – sempre migliorabili – e le istituzioni da queste scaturite – migliorabili sempre anche loro – e infine coinvolge le persone il cui compito è applicare e discernere. È un tema attualissimo nell’Italia di oggi: ha a che fare con le risorse da investire per snellire i tempi dei processi e per fornire risposte rapide ai problemi del cittadino, migliorando la «qualità» della sua vita. La giustizia in questo senso è un cantiere sempre aperto; non basta mai e tutti abbiamo il compito di fare qualcosa per includere tutti gli uomini e tutte le donne in un “grande disegno” di giustizia: uomini e donne di ogni età, ceto, condizione sociale, italiani o nati non in Italia. Per diventare cittadini a pieno titolo. La giustizia da sola non basta. Ci vuole un “di più” per contrassegnarci come paese davvero “civile”. È necessaria la capacità di “perdonare”. Dico subito – per evitare equivoci – che questo discorso è ben differente dal propugnare un universale “buonismo”. Le regole vanno rispettate e fatte rispettare ovunque e per tutti. Non ci debbono essere “moratorie” o “zone franche” esenti. Questo sarebbe davvero il Paese dell’anarchia e della discrezionalità. No! Penso piuttosto al perdono come stato d’animo di persone che conoscono prima di tutto i loro limiti e dunque accettano i limiti degli altri, attribuendo prima di tutto buone intenzioni, fino a prova contraria. Altro equivoco da scardinare: il perdono – sconfina nella cristiana caritas, cioè amore per l’altro, il primo comandamento di Gesù: amerai il prossimo tuo come te stesso – non è devozionismo o, peggio, segno di debolezza; è un atteggiamento politico. Di più: rivoluzionario. Chi conosce la caritas – diceva Dostoevskij – sa spingersi sino agli estremi territori della pietà e della compassione: è disposto a perdersi, pur di salvare una sola scintilla umana dalla rovina. Farsi prossimo agli uomini e donne mezzi morti del mondo contemporaneo significa scardinare quella egolatria che sta portando all’imbarbarimento della vita dei singoli e delle società. Il perdono ci fa cambiare l’ordine dei santi del calendario: togliamo san Narciso dal primo posto! Il perdono non significa cancellare le responsabilità dei colpevoli e neppure far finta che non sia successo nulla. Il perdono suppone la consapevolezza del male compiuto e lo sdegno per quanto è accaduto, accompagnato dalla decisione di sradicarlo in radice. L’esercizio del perdono, sia chiederlo sia concederlo, è un atto di maturità spirituale e sociale. Il perdono è un atto di grande spessore culturale: ognuno, perdonando, sa che il confine tra azione giusta e azione sbagliata è (anche) all’interno della coscienza, della consapevolezza; è radicato nelle universali debolezze, nelle paure, soprattutto la paura di scoprirci fragili e indifesi e deboli. Proprio all’indomani di una esperienza forte come il lockdown sappiamo tutti molto bene quanto siamo fragili. Lo abbiamo sperimentato con gli anziani morti nelle «case di riposo» dove non sono stati tutelati. Lo sanno le famiglie degli anziani, le famiglie dei 34 mila morti di Coronavirus in Italia. Ognuno chiede giustizia e dovrà venire ascoltato. Dopo la giustizia, dopo le sentenze (speriamo rapide ed eque!) cosa accadrà? Ognuno dovrà fare i conti con i propri sentimenti, e pensare al futuro con speranza e fiducia. Il perdono non cancella le responsabilità del male compiuto. Non giustifica il male. Anzi pretende di sradicarlo ripristinando la giustizia. La giustizia riparativa, di cui si parla sempre di più in anni recenti, mira esattamente a introdurre anche nel diritto penale questa logica. Essa intende promuovere la rinuncia all’idea di una pena subita passivamente dal condannato con il solo fine di rendere manifesta la gravità dell’illecito. Attuando per di più uno spirito di vendetta. In tal modo si valorizza la capacità della sanzione di esprimere, riaffermandoli, valori antitetici a quelli contraddetti dal fatto criminoso e quindi ricomporre sul terreno dei rapporti intersoggettivi – e non appagando supposti bisogni di ritorsione – la frattura rappresentata dal fatto criminoso. È importante ricordare san Giovanni Paolo II: nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002 collegava l’educazione alla legalità alla convivenza pacifica nella società. Parlava in proposito di fragilità della giustizia umana. «Poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale e internazionale». Come il Papa suggerisce, è strettissimo il legame tra giustizia e perdono. Per sanare in profondità le ferite che lacerano la convivenza tra gli uomini sono necessari ambedue: sia la giustizia sia il perdono. E allora chiediamoci: la nostra è una società capace di perdono? Chiediamoci ancora: sono capace di perdono? Non sarebbe più vivibile una società in grado di prendersi carico di tutte le persone e dei loro problemi, individuando risposte istituzionali da dare – attraverso il concreto e fattivo esercizio responsabile della giustizia – e capace di prendersi carico dei bisogni delle persone a partire dai più deboli e fragili? Il perdono non si impone; si propone. È sincero quando scaturisce da un’esigenza interiore e intima di ricomporre una frattura e non una vendetta. Allo stesso tempo deve esistere una educazione alla capacità di perdonare. Ed è un grandissimo spazio di azione per le professioni che impattano sulla società civile. È un compito per la Chiesa che deve instancabilmente proporre la coniugazione di misericordia e giustizia, senza dare spazio a coperture di persone o di interessi. È uno spazio grande per la vita politica che potrebbe davvero testimoniare una capacità alta di guardare all’interesse di tutto il Paese e dunque di tutti noi. Soprattutto è un compito per ognuno di noi: trovare – riflettendo – lo spazio per sentirci vicini, non rivali, non antagonisti, ma tutti esseri umani, arricchiti dalla diversità.

Il garantismo è un criterio non una circostanza per mantenere la poltrona. Deborah Bergamini su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Ieri quindi è successa una cosa alquanto singolare: dopo aver mandato a processo Salvini sul caso Gregoretti, la maggioranza al Senato non ha dato l’autorizzazione a procedere contro di lui sul caso Open Arms, gemello del Gregoretti. Praticamente un doppio avvitamento con carpiato. Salvini al momento è salvo dal processo (ma ci sono le forche caudine dell’Aula, ben più minacciose della giunta per le autorizzazioni a procedere che ha deciso ieri) e chissà se è stato graziato per ragioni tattiche o strategiche. Certo è che il contestuale terremoto che sta scuotendo il potere giudiziario e il potere mediatico in Italia deve aver avuto delle ripercussioni sulle scelte della maggioranza. Scelte alquanto contraddittorie, per la verità. Gli stessi che qualche tempo fa hanno mandato a processo Salvini per sequestro di persona, ieri lo hanno salvato perché agì “per interesse pubblico con la condivisione del governo”. E anche se questa volta la giustizia è apparsa in forma di carota anziché di clava, non si possono non vedere nel caso dell’ex ministro dell’Interno tutte le incongruenze di una confusione fra poteri che è balzata proprio in questi giorni agli onori delle cronache con il caso Palamara. Come ben spiegato da Piero Tony, ex procuratore di Prato e autore del libro “Io non posso tacere” in un’intervista con Maria Latella e Simone Spetia su Radio 24, “l’unico processo che funziona in Italia è il processo mediatico”. Lo dice un magistrato, e così è. Tanto che bisognerebbe chiedersi quanto è distorto un sistema in cui vige la separazione dei poteri ma in cui la politica, e cioè la faziosità al suo apice, viene incaricata di assolvere o condannare un imputato – quindi ad agire come giudice – per fargli subire un processo giudiziario quando quello vero, quello mediatico, si è già celebrato. Dispiace ricordare che solo al Riformista il fatto che la maggioranza politica usasse arbitrariamente la giustizia per mandare a giudizio il capo dell’opposizione era parso quantomeno bislacco. Il punto però è un altro. Se Salvini agì nell’interesse pubblico con la condivisione del governo sul caso Open Arms, nel caso Gregoretti i parlamentari che votarono a favore dell’autorizzazione a procedere hanno reso falsa testimonianza? La risposta a questa domanda è senz’altro sì. Non perché ci sia una qualche prova in proposito, ma per il semplice fatto che le diverse decisioni su Open Arms e Gregoretti dimostrano che in un atto ufficiale (una votazione) si può affermare una cosa e il suo esatto contrario, fregandosene del merito e pensando solo a garantirsi una sopravvivenza politica in barba persino all’evidenza. E’ un giustizialismo à la carte, così come esiste il garantismo à la carte, quello che si applica sempre agli amici e mai ai nemici. Quando difendevamo le prerogative di Berlusconi presidente del consiglio accusavano noi di Forza Italia di essere proprio questo, garantisti à la carte. Io credo che nel tempo abbiamo dimostrato il contrario. Il garantismo o è o non è, non può avere sfumature. è un criterio, non una circostanza. Nel comportamento assunto su Salvini dalla maggioranza invece di sfumature ce ne sono state troppe, tutte quelle che servono per tenere ben salde le terga sulla poltrona che le ospita.

Liberali e cattolici sono l’illuminazione baluardo del garantismo. Vincenzo Improta su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Cesare Beccaria avvisava che «il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali». Escludeva cioè la possibilità che la giustizia si facesse vendetta e lo faceva definendo il reo un “essere sensibile” dotato di coscienza. L’uomo punisce, ma non umilia il reo. Una visione intimista dell’uomo e della giustizia. Anche Benedetto Croce ricordava ai liberali che pur volendo, non potevano non dirsi cristiani ponendo così fine alla sterile contrapposizione tra libertà e fede, basata sul riconoscimento del cristianesimo come di un evento rivoluzionario. Sul cristianesimo, il filosofo partenopeo scriveva: «Operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità». Croce, in sostanza, riconosceva che la libertà della coscienza rappresenta un autentico baluardo alla tirannide perché proprio nella manipolazione della coscienza individuale si realizza il massimo dell’oppressione. Il tema è ancora oggi molto attuale in ragione della moltiplicazione dei centri di manipolazione delle coscienze (social, radio, tv, nuovi media) che agiscono apertamente o in modo occulto nella dimensione mediale e politica. Vigilare sul possibile ripresentarsi della tirannide diventa un obbligo intellettuale e morale. E senza dubbio, il garantismo rappresenta un argine contro ogni forma di tirannide. Se questo è vero, è possibile allora porsi la seguente domanda: i cristiani e i cattolici, proprio loro che sono influenzati dall’insegnamento del Nazareno e che considerano la giustizia come misericordia, possono non dirsi garantisti? Il garantismo è il prodotto originale del pensiero liberale, il suo contributo alla civilizzazione della società fondato proprio sul rispetto dei diritti e della libertà di ogni individuo, di ogni persona. Eppure, in occasione del Venerdì Santo, la Chiesa cattolica e il Papa hanno voluto riaffermare, ed è avvenuto in modo eclatante, che al fondamento della nostra civiltà (possiamo dire dal 313 d.c, cioé dall’editto di Milano voluto dall’imperatore Costantino), il cristianesimo ha posto la necessità che in conseguenza di un reato non si debba cercare vendetta ma si debba, ma al contrario garantire che un giusto processo eviti la condanna di un innocente. In ricordo dell’ingiusto processo subito da Gesù, è risuonato potente il monito del Papa contro ogni decisione giudiziaria ingiusta. La civiltà occidentale si fonda sulla misericordia e sul rispetto dei diritti degli imputati. Senza misericordia e processo giusto si sprofonda nella barbarie dove la coscienza e la persona possono essere annichilite dalla forza del potere. Il paradosso è che lo Stato pur essendo democratico può tuttavia calpestare in nome della maggioranza, i diritti dei singoli. Lo Stato per essere la casa di tutti deve essere uno stato di diritto e non uno Stato etico! Il messaggio di civiltà, l’appello alla umanità e al diritto giusto, risuonati come non mai a Piazza San Pietro, sembrano però essere caduti nel vuoto. Il silenzio assordante che ha accompagnato il messaggio papale è stato sconcertante. Né la politica italiana, né i media ne hanno tratto elementi di riflessione che potessero aiutare a ben operare nel campo della giustizia, sottraendola alla barbarie della “vendetta”, della Nemesi dove la forma della maggioranza sopprime le garanzie individuali. La lezione di Croce e la potente parola del Vicario di Cristo sembrano incontrarsi sul comune intento di creare una società a misura d’uomo che punisca e riabiliti, piuttosto che vendicarsi e annichilire la speranza. Si tratta di un’inedita alleanza tra liberali e cristiani, non credenti e cattolici che in nome della misericordia e del garantismo, scelga senza esitazioni la pratica della giustizia giusta. Se ne avvantaggerebbero la nostra società, il diritto e ciascuno di noi.

Gherardo Colombo: “Da magistrato credevo nel carcere, ora dico: va abolito”. Nicola Campagnani di Lorem Ipsum, collettivo giornalisti indipendenti su Il Dubbio il 26 giugno 2020. L’ex magistrato di mani pulite: “Ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio commesso da due persone. Per fortuna però il tribunale non l’ha inflitto. Ma oggi, se facessi ancora quel mestiere, direi che un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale”. “L’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà”. “Io credo che sia essenziale testimoniare”, così l’ex magistrato Gherardo Colombo commenta il progetto Sui pedali della libertà del Dubbio, che porterà Roberto Sensi a incontrare e raccontare il carcere in tutte le sue sfaccettature, dell’estremo Nord all’estremo Sud del Paese, sui pedali della sua bicicletta. Chi incontra il carcere per la prima volta, si trova spesso a riformulare radicalmente la sua idea a riguardo, allora è per questo che diventa fondamentale raccontarlo. “Noi facciamo esperienza direttamente o attraverso quello che ci viene riportato da altri – spiega Colombo, che il carcere lo ha lungamente vissuto in prima persona da magistrato e oggi riporta la sua esperienza di questa istituzione – La testimonianza è proprio questo riportare a chi non ha visto direttamente”.

Gherardo Colombo cosa rappresentava per lei il carcere all’inizio della sua professione? E cosa ha capito poi?

«Il carcere per me era uno strumento. Credevo, come si impara all’università, che fosse uno strumento di prevenzione speciale e di prevenzione generale, cioè che servisse a evitare che una persona commettesse un reato per la paura della minaccia della pena. Per quanto non lo vedessi comunque bene, pensavo che fosse uno strumento necessario per educare le persone a rispettare le regole. Ma in 33 anni di magistratura, dal 1974 al 2007, progressivamente ho cambiato idea su questo punto. Sempre più ho interiorizzato la differenza tra l’articolo 27, che richiede che le pene non siano in contrasto con il senso di umanità, oltre a dover tendere alla rieducazione del condannato, e la situazione effettiva del carcere. E ormai sono convintissimo che la pena non serva a dissuadere dal commettere reati. Peraltro l’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà. Mi sono dimesso con 14 anni di anticipo sulla scadenza naturale di allora, quando i magistrati andavano in pensione a 75 anni. Poi ho intensificato un’attività che facevo già da un po’ di tempo: girare per le scuole a parlare ai ragazzi di regole e di giustizia. Perché io credo che per osservare le regole sia necessario condividerle».

Da magistrato ha chiesto l’ergastolo una volta sola. Anche questa è stata una scelta?

«Sì, ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio commesso da due persone. Per fortuna però il tribunale non l’ha inflitto, credo si stabilì una pena di 28 anni di reclusione. Sotto il profilo tecnico gli elementi per chiedere l’ergastolo a mio avviso c’erano. Ma oggi, se facessi ancora quel mestiere, direi che un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale».

Qual è la funzione del carcere oggi? Serve a educare o a punire?

«Ci sono delle eccezioni: qui in Lombardia abbiamo Bollate, che è un carcere particolare rispetto a quasi tutte le altre carceri che ci sono in Italia. Però generalmente il carcere è un luogo in cui le persone restano a scontare la pena, con degli interventi talmente minimali in senso rieducativo da essere molto spesso paragonabili al nulla».

Cos’è che manca soprattutto?

«Manca un complesso di cose: più o meno dappertutto manca lo spazio vitale; manca il diritto all’igiene; è molto compromesso il diritto alla cura della salute; il diritto all’istruzione; il diritto all’informazione; il diritto, perché anche quello è un diritto, all’affettività. Dovremmo riflettere in modo approfondito sul senso di quell’espressione che si trova nell’articolo 27, ovvero che non si può essere contrari al “senso di umanità”. Che cos’è questo “senso di umanità”? Cosa vuol dire un carcere “umano”? Un carcere umano a mio parere è un carcere in cui tutti i diritti della persona, che non confliggono con la sicurezza della collettività devono essere garantiti. Ma proprio tutti. E possono essere ridotti e ridimensionati soltanto quei diritti il cui esercizio impedisce la sicurezza della collettività, che sono però molto pochi. Se così fosse nel nostro Paese il carcere sarebbe chiamato dall’opinione pubblica un albergo a cinque stelle».

Dunque si dovrebbe smettere di pensare al carcere come una punizione che restituisce il male che si è fatto?

«Seconde me non dovrebbe essere restituito il male che si è fatto. Anche se esiste una filosofia retribuzionista, secondo cui il male si elide attraverso l’inflizione del male, a me sembra che matematicamente uno più uno faccia due, non faccia zero. Quindi se al male commesso aggiungiamo un altro male inferto, il male lo raddoppiamo invece di annullarlo. Il male costituisce l’espressione di un desiderio di vendetta che viene soddisfatto non direttamente dalla vittima, ma dall’istituzione nel suo complesso. Io credo che il desiderio di vendetta sia un desiderio negativo, che non dovrebbe essere soddisfatto, ma dovrebbe invece essere elaborato, perché si possa utilizzare, nei confronti di chi ha commesso un reato, un percorso che riporti la persona che si è allontanata dalla società, all’interno della società».

Lo Stato dovrebbe porsi al di sopra, non inseguire la vendetta come farebbe un criminale.

«Quasi tutto quello che fa un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, se fosse commesso da lui privatamente o da un altro cittadino, costituirebbe reato. Dispongo una misura cautelare in carcere, si tratterebbe di sequestro di persona; intimo a un teste di presentarsi, sotto minaccia di essere accompagnato dalla forza pubblica, è violenza privata; una perquisizione è violazione di domicilio ; un sequestro è rapina aggravata dal numero delle persone e dall’uso delle armi. Secondo la Costituzione, non è una violenza rilevante, sotto il profilo giuridico, soltanto quella minima che serve a impedire la commissione di reati. Tant’è che l’articolo 13, al penultimo capoverso, dice, usando un’espressione fortissima che compare una volta sola in tutta la Costituzione, “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. La violenza nei confronti di una persona che sta in carcere è punita dalla Costituzione. La nostra Costituzione inibisce l’uso di violenza da parte delle istituzioni, se non nel momento in cui questa sia rigorosissimamente necessaria per evitare che altri diritti di pari dignità siano posti in dubbio. E comunque vengono stabiliti tre limiti fondamentali: senso di umanità, rieducazione e assoluta mancanza di violenza».

Con l’emergenza coronavirus i carcerati hanno vissuto come una violenza l’interruzione dei colloqui con i parenti e hanno risposto con le sommosse.

«Premesso che la violenza non si deve usare, io credo che vada considerato che generalmente i detenuti hanno la possibilità di vedere i parenti solo sei volte al mese, per un tempo non superiore a un’ora in totale, per tutti i parenti. Con la pandemia il tutto è stata ridotto a un’unica telefonata di 10 minuti a settimana. Il tutto in una situazione in cui c’è un virus che si sta espandendo. Saltano i colloqui visivi, c’è soltanto una telefonata di 10 minuti alla settimana. Così sale la preoccupazione, perché sei in carcere e non sai nulla di quello che succede ai tuoi cari, pur ricevendo il segnale televisivo in cui i notiziari e il resto hanno quasi esclusivamente come oggetto questa pandemia. I rischi delle persone che stanno fuori, le immagini dell’esercito che porta via le bare, questo crea un’ansia e un’angoscia notevoli».

Il coronavirus ha almeno contribuito a sensibilizzare sulle condizioni sanitarie dei carcerati?

«Io penso che il tema delle condizioni di vita già fosse all’attenzione delle istituzioni e, per chi avesse voluto, anche della pubblica opinione. Il tema è da sempre sotto gli occhi delle istituzioni, ma non si è fatto molto. Una vera e propria riforma non c’è stata».

Cosa si potrebbe fare oggi?

«Secondo me per mettere una persona in carcere devi aver provato cosa è il carcere. Ma dovresti averlo provato per davvero, non averlo visto da turista, da operatore che arriva interroga e se ne va. Una settimanina dentro sarebbe necessario starci per capire che cos’è il carcere. È necessario capire che cos’è veramente il carcere. Oggi la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere non è pericolosa. Abbiamo una popolazione credo di circa 56 o 57mila detenuti, dopo che sono scesi un po’ con l’emergenza covid, e di questi credo che ci saranno al massimo 20mila persone pericolose, volendo esagerare. Capirete che passare da 57mila a 20mila e occuparsi degli altri attraverso misure alternativa come l’affidamento in prova ai servizi sociali, vorrebbe dire anche rendere la vita di chi è detenuto più coerente con il principio costituzionale».

Soluzioni alternative al carcere esistono già.

«Credo che siano più le persone che oggi scontano la pena fuori dal carcere, di quelle che scontano la pena dentro il carcere. La recidiva di chi sconta la pena fuori dal carcere è notevolmente inferiore di chi la pena la sconta dentro. Quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ritornano in carcere; per chi è stato sottoposto a un affidamento in prova ai servizi sociali si parla di una recidiva al 19%. La differenza è notevole».

Si parla anche di giustizia riparativa.

«Generalmente chi agisce il male non sa che ciò che agisce sia male. Per una serie di motivi, soprattutto culturali, di educazione e così via. Per evitare che una persona faccia male è necessario in primo luogo che sappia che quel comportamento provoca dolore. La strada forse più utile per arrivare a questa percezione è proprio quella del percorso di giustizia riparativa. Con la mediazione di una persona che se ne intende, la vittima e il responsabile sono accompagnati lungo un percorso che si conclude con un incontro, che serva al responsabile a rendersi conto del male che ha fatto, senza per questo essere distrutto dai sensi di colpa, e alla vittima di ripararsi del male che ha subito e di riacquistare il senso di dignità che aveva smarrito proprio per il male che era stato inferto».

Qual è la sua testimonianza del carcere?

«Ci sono delle associazioni che portano gli studenti in carcere facendogli fare lo stesso percorso che fanno i detenuti, l’ho fatto anche io una volta e forse quello è il ricordo più vivo del carcere. Poi ci sono dei ricordi terribili, perché qualcuno si è suicidato in carcere e a me è successo di andare a vedere. E gli interrogatori, per 28 anni ho fatto il giudice o il pubblico ministero investigativi, era usuale per me frequentare San Vittore per interrogare delle persone che erano detenute. In quei momenti c’è l’incontro della faccia che sta fuori e della faccia che sta dentro, che sono estremamente diverse, ma tanto diverse da essere sostanzialmente incomparabili. Non ho visto solo le carceri italiane, lavorando a uno dei tavoli degli Stati Generali mi è capitato di visitare le carceri norvegesi e poi quelle boliviane, esperienze radicalmente diverse: in Norvegia sembra davvero un albergo a cinque stelle, mentre in Bolivia è un paese circondato da mura. Di esperienze ne ho avute molte e sono tutte esperienze che confermano la mia convinzione ormai sicura che, così com’è qui da noi, il carcere dovrebbe essere abolito».

Da repressori a illuminati, Violante e Colombo: “Aboliamo il carcere”. Tiziana Maiolo su Il Garantista il 13 Maggio 2020. «Il carcere così come è oggi in Italia è da abolire». «Possiamo, anzi dobbiamo, liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria». Non è una discussione immaginaria tra Michel Foucault e Cesare Beccaria, ma tra due ex magistrati, Gherardo Colombo e Luciano Violante. Sono stati due accusatori, due repressori. Hanno svolto ruoli politici importanti, anche nel loro impegno di magistrati. Lo negherebbero con forza, qualora fosse loro attribuita quella veste. Ma è difficile non ricordare all’uno le modalità nelle inchieste di Mani Pulite e all’altro la vicenda di Edgardo Sogno. Ma oggi non è il momento delle contestazioni. Al contrario, ci pare importante dare valore a quel che due importanti intellettuali vanno pensando e dicendo. Pubblicamente. In due separate interviste rilasciate a Nicola Mirenzi per l’Huffington Post osano lanciare il sasso in una piccionaia di quella subcultura che attraversa disordinatamente il mondo politico, quello giudiziario e gran parte del sistema di informazione. Quello del “devono marcire in galera”, “buttare la chiave”, “sbattere dentro i mafiosi scarcerati”, quello stesso mondo che poi si dà appuntamento la domenica sera da Giletti su La7. L’argomento non è di gran moda, neppure tra gli intellettuali, si sa. Ma proprio per questo la provocazione val la pena di essere ascoltata e rilanciata. Con l’occhio della memoria. Dai discorsi di Montesquieu sulla pena fino a tutto il settecento illuministico e al pensiero di Foucault negli anni Settanta del Novecento, il carcere è stato interpretato come violenza in sé, con la sua sola esistenza. Ma, fuori dai cenacoli degli intellettuali e dei filosofi, il pensiero di una pena che non fosse di necessità legata alla restrizione, alla privazione della libertà, alla mortificazione del corpo prima ancora che della personalità, non ha mai attraversato il mondo dei “carcerieri”. Già nella scelta di indossare la toga di pubblico ministero o di giudice c’è un dogma violento: la presunzione di poter disporre del corpo e della mente di altri esseri umani attraverso l’uso di una pena corporale, la detenzione in carcere. Pena di morte, ergastolo e carcere -scriveva in un prezioso libretto (Delitto, pena e storicismo, Marco editore) nel 1994 un grande giurista, Luigi Gullo– in fondo rispondono alla stessa esigenza, quella di privare la persona della libertà, quindi della vita. Gherardo Colombo ha avviato una lunga macerazione personale nel corso degli anni. Un percorso da credente, (anche se oggi si definisce solo “cristiano filosoficamente”), da persona che ha sempre provato disagio nel dare o nel chiedere la reclusione. Pure ci credeva, nella funzione rieducativa della pena, anche attraverso il carcere. Poi ha capito che l’unica funzione della detenzione è in realtà l’asservimento della persona: «in una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire». Certo, sorvegliare e punire. Riecco Foucault che si insinua tra i due ex magistrati. «Il carcere non educa a niente. Instaura solo una rapporto di soggezione tra il detenuto e il potere», gli fa eco Luciano Violante. Il quale non parla mai di perdono, al contrario di Colombo. Usando criteri che oggi paiono un po’ arcaici, quello virtuale tra i due pare il dialogo tra un cattolico e un marxista. Ma tutti e due trattano la persona che commette un reato come colui che spezza il rapporto con la comunità. Ed è quello strappo che occorre ricucire. Non mettendo l’uomo o la donna in cattività, ma con altri strumenti. Ferma restando la necessità comunque di isolare chi è pericoloso per l’incolumità altrui, l’ex pm di Mani Pulite vede il perdono come il recupero della relazione tra il trasgressore e la società. Ma continua a mancare un pezzo, nella sua analisi, quasi avesse lui timore a distaccarsi del tutto da una visione della “società dei puri” che permea oggi più che mai la mentalità di tanti pubblici ministeri (e non solo) e che fu in passato anche la sua. Non per rinfacciare (questo mai), ma solo per aiutare la memoria: come dimenticare quella sua intervista al Corriere nel 1998 in cui aggredì la Bicamerale presieduta da D’Alema ricostruendo la storia d’Italia come storia criminale? «C’è in Italia una società del ricatto-aveva sillabato- frutto degli opachi compromessi degli ultimi vent’anni della Repubblica». Una visione moralistica, prima ancora che morale. Luciano Violante, che ha sulla coscienza la proposta di impeachment nei confronti del presidente Francesco Cossiga, nel suo percorso va al galoppo. Sentite questa: «Negli ultimi anni ha preso piede, non solo in Italia, una cultura politica che concepisce la società come un mondo da purificare. Dal quale gli impuri, le persone che commettono reati e i sospettati vanno radiati, con il diritto penale e con il carcere. La purezza però è un fantasma che si sporca facilmente. Questo alimenta il sospetto e intorno a esso costruisce un apparato di repressione capillare. Un dispositivo autoritario pericoloso». Sta pensando al procuratore Nicola Gratteri o al consigliere del Csm Nino Di Matteo, presidente Violante? O a qualche leader politico, di maggioranza o opposizione, magari anche del suo ex partito? Ringraziando i partecipanti alla tavola rotonda, i signori Montesquieu, Voltaire, Beccaria, Foucault, Colombo e Violante, ci permettiamo di lasciare l’ultima parola a Luigi Gullo, nella conclusione del suo libro: «Riflettiamo per un attimo: anche uomini di specchiato sentire accettarono tanti secoli fa la schiavitù. Chi sarebbe oggi d’accordo con loro? Proprio allo stesso modo si può ragionare per il carcere e la carcerazione».

Duello avvocati-Davigo: ecco 10 domande garantiste. Viviana Lanza de Il Riformista il 18 Febbraio 2020. L’appuntamento è per oggi pomeriggio alle 17. La biblioteca “Alfredo De Marsico” di Castel Capuano ospiterà l’atteso confronto tra il magistrato Piercamillo Davigo e gli avvocati napoletani, nato a seguito delle reazioni dell’avvocatura alle dichiarazioni che il giudice di Cassazione e componente del Csm rilasciò in un’intervista pubblicata un mese fa dal Fatto Quotidiano. Nel testo si affrontavano i temi della prescrizione e le proposte per la riforma della giustizia e la durata dei processi. Temi e reazioni raccontate in questo mese dal Riformista e che oggi pomeriggio troveranno nuovo terreno di confronto in occasione della tavola rotonda alla quale parteciperanno, oltre il giudice Davigo, gli avvocati Antonio Tafuri, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, Alfredo Sorge, consigliere dell’Ordine degli avvocati partenopei, Ermanno Carnevale, presidente della Camera penale, Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale all’Università Federico II, e il magistrato Marcello Amura, presidente della giunta napoletana dell’Associazione nazionale magistrati. Il dibattito sarà moderato dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. C’è grande attesa attorno a questo evento, nato come una sorta di provocazione. Mentre infatti dai vari ordini forensi sono state avanzate proteste (come a Milano in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario) o richieste di un procedimento disciplinare a carico di Davigo (richieste respinte dal Csm che le ha ritenute irricevibili), da quello di Napoli è arrivato l’invito che il magistrato di Cassazione ha accettato. Non tutti gli avvocati partenopei hanno però approvato l’iniziativa o le modalità con cui è stata organizzata. Il Riformista ha chiesto a dieci penalisti di proporre una domanda per Davigo. Nell’elenco manca il professore Alfonso Furgiuele, titolare della cattedra di Diritto processuale penale all’Università Federico II: contattato, ha fatto sapere di non avere alcuna domanda da porre.

1 – Domenico Ciruzzi – Caso Bachelet. Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio ucciso dalle Br nel 1980, sula scarcerazione degli assassini di suo padre ha detto: “Hanno completato il percorso rieducativo, papà se ne rallegrerebbe e lo stesso farebbe Aldo Moro”. Che cosa ne pensa?

2 – Arturo Frojo – Spazzacorrotti. Qual è l’opinione di Davigo sulla decisione della Corte Costituzionale che, proprio nelle scorse ore, si è espressa sulla irretroattività della norma?

3 – Marinella De Nigris – Prescrizione. Dinanzi all’eternità processuale che finirà per tutelare gli imputati colpevoli e i magistrati che non hanno voglia di lavorare, come si pensa di tutelare i diritti delle vittime dei reati che non arriveranno mai alla conclusione del processo?

4 – Saverio Senese – Tutti colpevoli. Cosa intendeva dire Davigo quando ha affermato che non esistono innocenti ma colpevoli non scoperti? E andrebbe Davigo a fare il ministro della Giustizia nella Turchia di Erdogan o la ritiene un Paese troppo democratico?

5 – Riccardo Polidoro – Ingiusta detenzione. Il guardasigilli ha dichiarato che “gli innocenti non finiscono in carcere”. È d’accordo con questa affermazione? E come spiega che lo Stato paga circa mille risarcimenti l’anno (circa tre al giorno), per milioni di euro, per ingiusta detenzione?

6 – Elena Lepre – Parti civili. Ha mai considerato l’incidenza che la riforma della prescrizione ha sulle pretese delle parti civili e delle parti offese? Ha mai pensato a quali conseguenze personali, professionali e umane ha questa riforma sulla vita delle persone?

7 – Carmine Foreste – Ricorsi inammissibili. Non ritiene che la proposta di rendere l’avvocato responsabile in solido in caso di ricorso per cassazione inammissibile sia incostituzionale? Ancorare un diritto fondamentale a una valutazione di economica non viola il diritto di difesa?

8 – Alfonso Stile – Reformatio in Peius. L’abolizione del divieto della reformatio in peius, pur ipotizzando una diminuzione del numero delle impugnazioni, non comporterà un maggiore aumento della durata dei giudizi di appello dovendosi rinnovare l’istruttoria?

9 – Bruno von Arx – Riforme. Perché insistono su riforme che delegittimano la magistratura e l’intero organismo dell’attività giudiziaria? Probabilmente perché non credono nell’attività giudiziaria e credono che ogni inquisito sia da considerare colpevole?

10 – Gennaro Demetrio Paipais – Non colpevolezza. Quali sono, secondo Davigo, le implicazioni processuali della presunzione di non colpevolezza? Come può l’idea di giustizia prescindere dal principio di non colpevolezza, sancito e tutelato dalla nostra Carta Costituzionale?

·         I Giustizialisti.

Sfilata di assoluzioni, ma tutti zitti sul potere dei magistrati. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. Che cos’è successo dopo la sfilza di assoluzioni registrate nelle ultime settimane in favore di politici, amministratori e uomini d’industria fatti fuori dalla giustizia ingiusta? È successo che gli ex colleghi (ma alcuni, mica tutti) hanno elogiato la capacità di sopportazione dimostrata da quelle vittime della violenza di Stato, mentre i giornali (ma ancora una volta soltanto alcuni) si sono limitati a incolonnare qualche considerazione di pietà solidaristica per questa gente che non meritava il colpo di sfiga di un processo campato per aria. È il trattamento di simpatia e compassione che si dimostra alla persona colpita dall’ingiustizia di una brutta malattia: si allargano le braccia quando arriva la diagnosi, dunque si resta in trepidazione e poi, quando infine quello la scampa, baci e abbracci e il riconoscimento del vigore che il poveretto ha saputo opporre all’aggressione della patologia. Il guaio è che l’ingiustizia di anni o decenni, redenta da un’assoluzione che non restituisce la vita perduta e non ripristina la reputazione distrutta, appartiene a un altro rango: non è il coccolone arrivato chissà perché, è invece l’effetto di un dispositivo di potere lasciato libero di schiacciare la vita delle persone senza che in qualunque modo ne rispondano coloro che lo amministrano. È insopportabile che la classe politica – perlopiù proprio quella che durante il “calvario” dei finalmente assolti girava la testa dall’altra parte – rivolga i sensi della propria partecipazione al contegno delle vittime anziché denunciare i fatti che le hanno rese tali: e i fatti sono i processi intrinsecamente ingiusti che hanno inchiodato per anni gli imputati a ipotesi accusatorie evidentemente infondate. Perché un’assoluzione dopo sette, dopo quindici, dopo trent’anni non è la giustizia che infine si compie: è l’ingiustizia che si ferma troppo tardi, quando ormai il danno è fatto.

Inchieste flop ed errori giudiziari, perché non si può giudicare il lavoro di un magistrato? Nemmeno davanti a questa lugubre rassegna di vite e carriere giustiziate si sente non dico l’impellenza di interrompere lo scempio, ma anche solo un vago stimolo civile a denunciarne le cause evidenti. E, alle solite, ciò avviene in forza della più micidiale caratteristica che purtroppo accomuna il grosso delle classe dirigenti di questo Paese, cioè a dire una irrimediabile confusione tra la necessità di salvaguardare lo Stato di diritto e la opportunità, cioè la convenienza, di assolvere le aberrazioni del potere giudiziario. Da qui, da questa confusione, promanano i luoghi comuni del corso giustizialista: che “le sentenze non si commentano”, come se si trattasse di esternazioni oracolari; che “bisogna avere fiducia nella magistratura”, come se la giustizia fosse rispettabile per il lustro di chi la sbriga anziché per quel che dice; che “la giustizia deve fare il suo corso”, come se andasse bene il corso accelerato della prigione prima del processo o, appunto, quello pluridecennale che riconosce infine l’innocenza di una vita massacrata. Le pagine dell’ingiustizia italiana recano in calce nomi e cognomi degli esecutori. Nessuno ha il diritto di metterli alla berlina. Ma tutti avrebbero il dovere di ricordare che la loro ingiustizia è stata fatta in nome del popolo italiano. E le loro vittime sarebbero meglio tutelate in questo modo, piuttosto che con l’ipocrisia della solidarietà tardiva.

«Le montagne dei pm partoriscono topolini». Il pentimento postumo di Ingroia e Di Pietro. Il Dubbio il 19 dicembre 2020. Dopo Di Pietro, anche Ingroia ha cambiato opinione in tema di giustizialismo. «Che ci siano stati e ci siano spesso provvedimenti di qualche pm un po’ avventati che rubano la scena mediatica e poi si rivelano inconsistenti, purtroppo è una realtà». Trovarsi dall’altro lato della “barricata” deve aver allargato gli orizzonti agli ex pm Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia. Dismessa la toga per intraprendere, dopo alterne esperienze politiche, l’attività forense, i due magistrati hanno cambiato opinione in tema di giustizialismo “spinto”, di cui Di Pietro, in particolare, è stato il più celebre portabandiera. Il primo a intervenire nei giorni scorsi sull’argomento era stato proprio l’ex pm di Mani pulite: “Io ho fatto politica sulla paura che le manette incutono agli altri – aveva dichiarato in una intervista ai microfoni di Radio Cusano – purtroppo, spesso, nel nostro Paese, chi sbaglia non paga, anche perché tante volte il magistrato parte con la montagna di accuse, per poi partorire il topolino”. “Io sono consapevole di avere creato dei “dipietrini” nella magistratura e me ne pento”, aveva poi aggiunto, evidentemente consapevole dei danni che il populismo giudiziario, quello per intenderci del “non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca”, ha causato in questi decenni nella società italiana. Sul punto è quindi intervenuto ieri l’ex procuratore aggiunto di Palermo, il magistrato che ha incardinato la discussa indagine sulla “trattativa Stato- mafia”. “Che ci siano stati e ci siano spesso provvedimenti di qualche pm un po’ avventati che rubano la scena mediatica e poi si rivelano inconsistenti, purtroppo è una realtà cui assistiamo in questi ultimi anni, che sono anni, obiettivamente, di declino e non di progresso della magistratura. “Non so se Di Pietro si riferisca a qualcuno in particolare – ha poi aggiunto Ingroia – non faccio l’interprete delle sue intenzioni più o meno occulte, però non credo sia lontano dalla verità, lo vedo oggi nella pratica quotidiana mia di avvocato. Forse c’erano in nuce anche quando facevo il pm, per carità, ma oggi sono più eclatanti”. A dire il vero Ingroia da tempo, da quando è diventato avvocato, ha avviato un percorso di “resipiscenza”. In una intervista di qualche anno fa a questo giornale, infatti, aveva affermato che “da avvocato” vede “cose che prima faticavo ad immaginare”, criticando il fatto che i gip accoglievano nella quasi totalità dei casi le richieste del pm. “Il giudice ormai svolge una funzione notarile rispetto alle Procure”, aveva precisato Ingroia, forse dimenticandosi che il “copia& incolla” è una prassi – purtroppo consolidata da molto tempo.

TENSIONI “POSTDATATE” E TRA LE TOGHE IN SERVIZIO. I pentimenti tardivi, che giungono anche in una età matura – Di Pietro ha recentemente compiuto i settanta anni – possono essere letti come conseguenza di una perdita di autorevolezza della magistratura, perdita che ha comunque come positivo risvolto uno sforzo autocritico a cui in passatoi si è assistito raramente. E per rispondere alla profonda crisi delle toghe, messa in luce dal caso Palamara, si segnala la risposta, tutta interna alla magistratura, del gruppo “Articolo 101”, la lista nata per andare contro il sistema delle correnti e che è all’opposizione nel Comitato direttivo centrale dell’Anm. La disaffezione per l’associazionismo giudiziario, invece, è un fenomeno in crescita nell’ultimo periodo. Dopo l’astensione circa il 30 per cento degli aventi diritto non ha votato alle recenti elezioni dell’Anm – il dissenso contro l’attuale compagine associativa è l’ultima frontiera. Secondo una lettera aperta, che sta facendo molto discutere, di alcuni magistrati in servizio al Tribunale di Napoli, che hanno deciso in questa settimana di lasciare l’associazione, l’Anm sarebbe incapace di andare “oltre il bla bla sulla questione delle correnti, sul caso Palamara e sulla moralizzazione del fenomeno dei fuori ruolo”.

Dopo anni arrivano le assoluzioni ma per i Pm l’innocenza è una sconfitta. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Nelle ultime settimane c’è stata una pioggia di sentenze assolutorie: personaggi cosiddetti eccellenti hanno visto infine dichiarata la loro estraneità ai fatti che, secondo l’accusa pubblica, avrebbero denunciato la loro responsabilità. Si è trattato spesso di tribolazioni durate anni: sette anni, quindici anni, trent’anni… Ma questo perché? Perché era difficile raccogliere le prove? Perché era complicato istruire i processi? Perché eserciti di garantisti pelosi disseminavano di ostacoli il corso della giustizia? No. In molti casi l’irrevocabilità di quelle assoluzioni tardava a venire perché l’accusa pubblica, già responsabile di aver accusato senza fondamento, si incaparbiva nel suo intento persecutorio impugnando i provvedimenti favorevoli all’imputato. E infatti sono stati questi i titoli di giornale a descrizione e dell’esito: “La Cassazione conferma l’estraneità…”, “Riaffermata l’innocenza…”, e simili. Vuol dire che all’ultimo grado di giudizio non si è arrivati per il ricorso del colpevole che tentava di farla franca, ma per la pervicacia punitiva dell’accusa pubblica che non si arrendeva davanti agli accertamenti di giustizia del giudice di merito. È ben strano che il diritto di confidare nella valutazione di un giudice superiore sia trattato come un espediente da mascalzoni quando a ricorrervi è la vittima di una condanna, mentre rappresenta una sacrosanta affermazione di giustizia quando l’impugnazione è fatta dal candore togato del pubblico ministero. Ed è anche più strano considerando il ruolo che l’accusa pubblica rivendica a sé nell’amministrazione della giustizia, vale a dire il ruolo di contribuzione giurisdizionale che obbliga a tenere conto degli elementi di prova a favore dell’imputato e anzi persino a ricercarne. Un compito di portata più che altro teorica nel sistema della giustizia militante che non riconosce innocenti ma solo colpevoli ancor da scoprire. Di fatto, il cittadino che nei giorni scorsi abbia appreso di quelle definitive riabilitazioni e dei massacri umani che le hanno precedute, sappia che una simile giustizia, che interviene così tardi a denunciare di essersi esercitata malamente per così tanto tempo, è l’effetto dell’impuntatura inquirente che resiste, resiste, resiste pur quando è evidente l’inconsistenza dell’accusa, e quindi impugna e ricorre perché vuole carcere, carcere, carcere anche se vi si rinchiude l’innocenza. Perché quello, il carcere, è la loro vittoria e l’altra, l’innocenza, è la loro sconfitta.

"Confessione o morte". Caselli si scaglia contro Woodcock e detta la bibbia della giustizia secondo i 5 Stelle. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Novembre 2020. Gian Carlo Caselli dice di essersi stufato delle critiche dei benpensanti che contestano la legittimità e la modernità del carcere duro, cioè del 41 bis. Caselli rivendica il suo diritto ad inveire contro i garantisti perché ritiene di avere conquistato questo diritto sul campo, facendosi “un mazzo tanto e maturando una esperienza concreta di contrasto alla mafia”.  La sua idea è molto chiara: se vuoi parlare di mafia, o anche semplicemente di Diritto, puoi farlo solo in quantità “proporzionale” alla intensità della battaglia che hai condotto contro la mafia. È l’idea del “potere dei giusti”, la “giustocrazia”, che in fondo è la base fondamentale sulla quale, in tutti questi anni, è stata costruita la famosa “società dell’antimafia”, quella che – solo lei – può distribuire titoli, prebende, diritti, credibilità, prestigio. Chi non fa parte di questa società dei giusti deve tacere, o parlare pochissimo e sottovoce. Caselli è perfettamente interno a questa logica, però si esprime, rispetto ad altri, in forme più estremiste, oppure – se vogliamo essere oggettivi – in forme più chiare, meno ipocrite. È da questa idea, estesa oltre le praterie dell’antimafia, che è nato il grillismo che oggi domina, in gran parte, il paese e la sua (scarsa) cultura politica. La polemica contro i nemici del carcere duro e i fanatici della Costituzione (e della dichiarazione dei diritti umani del 1948) stavolta il dottor Caselli la scaglia contro un suo collega. Diciamo pure un suo collega che non ha fama di liberal. Precisamente Henry John Woodcock, noto come lo sceriffo italo-inglese di Napoli. Woodcock due giorni fa ha scritto sul Fatto Quotidiano uno dei pochissimi articoli ragionevoli comparsi su quel quotidiano dal settembre 2009 (scherzo…), criticando il 41 bis e la legislazione sui pentiti. Dell’articolo di Woodcock abbiamo riferito sul giornale di sabato scorso. È vero che Caselli può rivendicare il suo “essersi fatto un mazzo tanto nella lotta alla mafia”? È vero. Sicuramente è vero (anche se io ho sempre pensato che il compito della magistratura sia quello di scoprire e perseguire i reati, e non quello di lottare contro fenomeni sociali, o politici, o anche criminali). Giovanni Falcone, cercando e perseguendo i reati, diede scacco matto, o quasi, alla mafia. Quando Falcone fu ucciso dal colpo di coda di Cosa Nostra, nel 1992, altri rappresentanti dello stato si trovarono nella sua trincea, per completare la sua opera. Ad esempio i carabinieri del generale Mori, che portarono a casa il risultato migliore possibile per i loro compiti: la cattura di Totò Riina, cioè il capo di Cosa Nostra, e la decapitazione della mafia siciliana. Poi arrivò Gian Carlo Caselli – arrivò proprio il giorno della cattura di Riina – e lavorò ventre a terra per proseguire l’opera di Falcone e di Mori. Quando lui era Procuratore di Palermo la mafia subì nuovi colpo micidiali, con l’arresto di personaggi di grande calibro, come Bagarella, Brusca, Spatuzza. Dopo di lui arrivò Piero Grasso, e fu all’epoca di Grasso, nel 2006, che Renato Cortese, ufficiale di polizia (diretto da Giuseppe Pignatone) mise le manette all’ultimo grande capomafia, Bernardo Provenzano detto Binnu. Da quel giorno Cosa Nostra non è più la terribile organizzazione che aveva dominato, non solo in Sicilia, per decenni. In questo corpo a corpo tra Stato e Mafia Caselli ha avuto sicuramente un ruolo importante. Come lo hanno avuto il generale Mori e il dottor Cortese, Piero Grasso, lo stesso Pignatone e molti altri. Oltre naturalmente ai due “giganti”, e cioè Falcone e Borsellino, che lavorarono nonostante mezza magistratura e un bel pezzo di mondo politico remassero contro di loro. Purtroppo oggi alcuni di questi uomini di valore – di valore come Caselli – navigano in cattive acque. Forse travolti dall’invidia. Pensate che i due poliziotti che hanno preso Riina e Provenzano sono tutti e due sotto processo e hanno subito tutti e due, in primo grado, condanne a molti anni di prigione. Mori addirittura è stato accusato di avere trattato con la mafia. Con chi? Beh, con Riina. Ma non fu lui a catturalo? Si, però… Come si fa ad accusarlo di aver trattato con la sua “preda”? Non so, è illogico, però lo accusano, e nessuno dice loro di smetterla con questa sceneggiata…Credo che su questo Caselli sarà d’accordo con me. Se lui ha maturato dei meriti sul campo, come è vero, certo non negherà i meriti dell’allora colonnello Mori. Caselli però protesta perché dice che i benpensanti sono contro di lui perché – sempre i benpensanti – vorrebbero abolire il 41 bis, cioè il carcere duro, dal momento che lo giudicano – adoperando semplici e logici ragionamenti – in aperto contrasto con la Costituzione.  Cos’è il 41 bis? Un regime di detenzione speciale, riservato a circa 600 persone, che vengono tenute in isolamento per decenni, senza Tv, senza giornali, senza contatti coi loro compagni di prigione, con regime alimentare duro, solo un’ora d’aria, limitazione fortissima dei colloqui coi parenti, insomma, situazione da medioevo. Fino a quando? Finché non si pentono. Si chiama carcere duro. Qualcuno – io per esempio – lo chiama tortura. È evidente che è tortura. Ora, con tutto il rispetto per la cultura e la saggezza di Caselli, mi vedo costretto a fargli notare che i benpensanti non sono quello 0,2 per cento della popolazione Italiana che contesta il 41 bis, ma quel 99,8 per cento che vorrebbe renderlo ancora più duro. E infatti poi Caselli, nell’articolo di polemica con Woodcock, elenca i benpensanti: “Nessuno Tocchi Caino”, le Camere Penali e i media “schierati su questi fronti”. Che una associazione di militanti radicali, intitolata a Caino, sia contro il carcere duro, a me sembrava abbastanza prevedibile. Altrimenti avrebbero chiamato la loro associazione “Buttate la chiave”… Stesso discorso vale per le Camere Penali, che si ispirano a Beccaria, non a Salvini. Quanto ai media schierati contro il 41 bis, gli unici che conosco sono questo giornale sul quale sto scrivendo e radio radicale. Detto tutto questo, e pur conoscendo molto bene la filosofia dei fautori della repressione come strumento fondamentale di governo di una società democratica, alcune delle frasi contenute nell’articolo di Caselli mi hanno colpito per la loro ferocia. Anche perché Woodcock, nel suo articolo, non aveva esposto tesi particolarmente estremiste. Si era limitato a dire che le leggi di emergenza non possono essere eterne, che il 41 bis è legale se risponde a esigenze di sicurezza ed è invece illegale se diventa uno strumento di indagine, cioè un modo per produrre confessioni, e aveva chiesto che si facesse più attenzione nell’uso dei pentiti, non solo per garantire l’equità della legge, ma anche per evitare cantonate. La storia dei pentiti che imbrogliano i Pm, e provocano cantonate dei Pm, del resto, è ricca di esempi, a partire da Palermo, dove un pentito ha mandato a monte le indagini sull’uccisione di Borsellino. Quali sono gli argomenti di Caselli per contestare Woodcock? Essenzialmente tre. Il primo è che il 41 bis non deve essere considerato un provvedimento di emergenza perché la mafia non è un’emergenza ma è un fenomeno ordinario. Il secondo è che senza 41 bis le carceri tornano ad essere Grand Hotel (ha scritto proprio così). Il terzo è che la mafiosità è “una realtà che può cessare o con il pentimento o con la morte”. Non ho forzato questa frase. Seppure un po’ tremando, l’ho copiata esattamente nella forma nella quale l’ha scritta Caselli: “pentimento o morte”. Non ricordo di avere mai letto frasi di questo genere, così lontane da qualunque idea del diritto degli ultimi due secoli, al di fuori degli stati autoritari, pronunciate da un magistrato (nel nostro caso un ex prestigiosissimo magistrato che è stato Procuratore, è stato nel Csm, è stato giudice di Cassazione…). Mi chiedo se questa idea patibolare della giustizia, e del diritto (e dello Stato) sia solo una fuga per la tangente di Caselli. O se invece risponda, nel profondo, al modo di pensare di un pezzo, maggioritario, del paese, e della sua cultura recente, quella che ha prodotto il fenomeno dei 5 stelle, lo slittamento su posizioni reazionarie del PD, l’insalvinimento della destra. Temo che questa mia seconda ipotesi non sia infondata. E torno a tremare.

P.S. 1. Quanto al Grand Hotel carcere, evito commenti. È triste leggere queste parole. E sul 41 bis non emergenziale va detto solo che se è così è chiaro che nessuno al mondo può negare il suo essere totalmente anticostituzionale.

P.S. 2. Gian Carlo Caselli è una persona che per svolgere il suo mestiere nel modo che riteneva giusto, ha messo decine di volte a rischio la sua vita (all’epoca di Caselli era così). Io non ho mai messo a rischio la mia. Eppure sono convinto di avere esattamente lo stesso diritto che ha lui di esprimere le mie idee.

P.S. 3. Mai e poi mai, nella mia vita, avrei pensato di poter difendere Henry John Woodcock. E addirittura di apprezzare un suo articolo sul giornale di Travaglio. Spero solo che non mi capiterà, un giorno, di dover difendere Davigo…

Caro Luca Telese, le carceri non sono tombe…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 7 Novembre 2020. «È tutto nella legge». Così ha detto l’altra sera il giornalista Luca Telese, discutendo con il direttore di questo giornale durante la trasmissione “Non è l’Arena”. Si riferiva alla situazione delle carceri, replicando a Sansonetti il quale, ripetutamente interrotto, tentava di ricordare come le galere siano piene di innocenti e di malati gravi gratuitamente afflitti da una detenzione che prescinde da qualsiasi esigenza di sicurezza. A questo Telese – e ai tanti che in argomento, per disinformazione o malafede, la raccontano come lui – bisognerebbe far osservare in primo luogo che il sistema delle pene e carcerario non è tutto nella legge: al contrario, è proprio tutto fuorilegge. E non per idea di qualche stralunato amico dei mafiosi che vuol liberali mettendo nel nulla la militanza antimafia dei giudici eroi e oltraggiando i diritti delle vittime (questo è il palinsesto canonico di TeleForca): piuttosto, quel sistema è fuorilegge a lume di Costituzione e per la giurisprudenza europea che fa del nostro Paese un delinquente abituale per come tratta gli indagati e i detenuti. Reclamare galera a oltranza per i “mafiosi”, pur quando il fatto di mafia è l’incostituzionale concorso esterno e pur quando il mafioso è un relitto devastato dalle metastasi, rappresenta un modo appena più ripulito per dire che devono marcire in galera: una sostanza uguale anche se non la si mette in slogan; una concezione che prende tutti: dall’ex ministro leghista, che almeno la dice chiara e tonda, al senatore Matteo Renzi che tenta di girarci intorno ma poi con fierezza illustra l’esemplarità della morte in carcere di Riina e Provenzano e rivendica il merito di quella macabra inflessibilità. Secondo questa concezione, non si tratta di tenerli in carcere affinché non nuocciano: si tratta di tenerceli affinché vi muoiano; devono rimanerci per giungere alla morte, con la pena che – come la tortura – deve imperativamente proseguire finché un’altra vita finisce di palpitare nel chiuso di quelle tombe provvisorie. Questo lugubre finalismo vendicativo e sicario non serve alla sicurezza comune e non omaggia i diritti delle vittime: perché la sicurezza comune non è messa a rischio se un condannato muore nel proprio letto, e perché tra i diritti delle vittime, fino a prova contraria, non c’è quello di vedere un detenuto trattato come una cosa, con il carceriere che tiene in vita il recluso come il torturatore sorveglia lo stillicidio per evitare che lo spettacolo si interrompa presto. Ma esattamente questo suppone l’unanimismo giustizialista quando ringhia che «Se proprio serve può essere curato anche in carcere!»: suppone il dovere del carcere e il dovere della morte in carcere, non il dovere della cura, proprio come l’aguzzino smette per un attimo di frugare nella carne del torturato non per dargli sollievo ma per prolungare la possibilità di torturarlo. E questo schifo non è “tutto nella legge”: è tutto nei fatti, dei quali preferiamo non occuparci perché è più facile raccontare che una società minacciata dalla criminalità è provvidenzialmente protetta dallo Stato che butta le chiavi.

Italiani forcaioli, quasi 4 su 10 sono per la pena di morte…Chiara Viti  su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. La pena di morte è stata ufficialmente abolita nel 1947 e definitivamente cancellata dalla nostra Costituzione nel 2007, eppure gli italiani non sembrano essere così contrari. I dati che emergono da un recente sondaggio elaborato da Swg (e offerto all’Huffington Post) raccontano un Paese pronto a somministrare, senza pietà, iniezioni letali. Il 37% degli intervistati si è dichiarato favorevole, tre anni fa la percentuale era del 35%. Nel 2010 eravamo al 25%. Il dato cresce di più di un punto all’anno e se questo trend forcaiolo continuerà, con questi ritmi, chissà se fra meno di dieci anni saremo pronti a organizzare esecuzioni in diretta streaming. Basta con la pietà e con il buonismo, sì alle sedie elettriche, magari di ultima generazione. Ma di chi è la colpa? Degli immigrati! Qualcuno è già pronto a twittare. L’Italia è uno dei paesi europei più sicuri, ma fra i casi di cronaca nera raccontati sui giornali, le opinioni di improvvisati opinionisti nei salotti tv, ecco che gli italiani sono pronti a invocare punizioni esemplari e a improvvisarsi criminologi, mentre si diffonde un sentimento collettivo di paura e sospetto che altera la realtà. Eccolo qua il punto di partenza di un legislatore pigro che inasprisce le pene, acconsente a uno scellerato uso dei trojan e sospende la prescrizione. Ma non saranno allora i ritardi e le disfunzioni del sistema giustizia il problema? Tra innocenti in carcere e colpevoli a piede libero, restiamo tutti sotterrati sotto agli enormi faldoni stipati, da anni, nelle procure. Mentre più di qualcuno è pronto a mettere in piedi veri e propri plotoni d’esecuzione, nel mondo sono ben 142 gli stati che hanno abolito la pena di morte o che comunque non eseguono condanne da molti anni. L’Oceania è l’unico continente libero dalla pena di morte. Lo sarebbero anche l’Europa e le Americhe, se non fosse per la Bielorussia e gli Stati Uniti d’America dove dopo 17 anni “grazie” al presidente Donald Trump sono ripartite le esecuzioni. Discorso a parte va fatto per la Cina che continua a considerare i dati sulla pena di morte un segreto di stato. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International in medio Medio Oriente Iran, Iraq e Arabia Saudita sono poi tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni. Qualche passo avanti lo ha fatto l’Africa sub-sahariana, dove alla fine dell’anno scorso la Corte africana dei diritti e dei popoli si è pronunciata contro l’obbligatorietà della pena capitale e dunque in favore del principio della discrezionalità del giudice. Lo scorso anno nel mondo sono state però almeno 657 esecuzioni. Per fortuna l’orientamento delle nostre istituzioni non sembra allinearsi con la sempre più invocata “pancia del paese”. Qualche giorno fa la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, intervenendo in video conferenza in occasione del decennale della nascita della Commissione internazionale contro le pena di morte ha dichiarato: «Nel corso degli anni abbiamo contribuito attivamente a diverse iniziative per sensibilizzare le opinioni pubbliche sull’applicazione della pena di morte a persone vulnerabili, ma anche sulle tantissime altre ragioni che devono spingerci a fermare le esecuzioni». Ma i dati ci sono e parlano chiaro. Forse invece di sperare inerti di non regredire alla legge del taglione dovremmo ripensare seriamente il sistema giustizia. Rendere più agile il lavoro dei tribunali, senza rinunciare però al diritto di un processo giusto.  È tempo di smetterla di accettare, a prescindere, discorsi del tipo “chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave, deve marcire in carcere” o peggio “si merita la morte”. Non è la soluzione.  Per invertire la tendenza c’è bisogno di riformare il sistema giustizia e migliorare il sistema carcerario, così che i discorsi sulla pena di morte restino chiacchiere da bar e che non si possano tramutare in una spaventosa realtà.

Manconi: “Ma io dico, oggi l’Italia è più garantista di 30 anni fa”. Valentina Stella su Il Dubbio il 15 ottobre 2020. Intervista a Luigi Manconi dopo l’uscita di “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale”, il nuovo libro del sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi e della studiosa di filosofia e letteratura Federica Graziani. Per il tuo bene ti mozzerò la testa Contro il giustizialismo morale è il titolo del nuovo libro del sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi e della studiosa di filosofia e letteratura Federica Graziani, edito da Einaudi. È la rappresentazione di un Paese in cui l’emotività e la paura hanno il sopravvento sull’analisi dei fatti, l’angoscia collettiva reclama pene sempre più severe nonostante i crimini siano in calo, e dove processi pubblici e gogne mediatiche hanno perfettamente preso il posto delle tricoteuses settecentesche. Con questa intervista doppia vi diamo un assaggio del libro che termina con un test per i lettori: 11 casi esemplari per capire se siamo giustizialisti o garantisti.

Scrivete che oggi «lo scontro tra il populismo penale e una concezione garantista del diritto e della pena è in pieno svolgimento. E l’esito è del tutt’altro che scontato». Sarò pessimista ma a me sembra che almeno a livello di dibattito pubblico stiamo in minoranza. Secondo lei come si delineerà questa battaglia in un futuro prossimo?

Luigi Manconi ( LM) – Sappiamo che è una battaglia cruciale e destinata a durare a lungo e a condizionare non i prossimi mesi, bensì i prossimi decenni. Se la consideriamo dentro questa lunga prospettiva, innanzitutto dobbiamo osservare che la situazione è molto migliorata rispetto a trent’anni fa: oggi la minoranza seriamente garantista è assai più ampia di quanto lo fosse all’epoca. Si può immaginare, di conseguenza, che crescerà e si allargherà e che le prossime controversie potrebbero avere anche risultati positivi e comunque favorire un cambiamento nei rapporti di forza. Non tutto è perduto.

Nel libro condividete anche una serie di dati importanti per smontare, ad esempio, la narrazione distorta che soprattutto in passato ha fatto Matteo Salvini del fenomeno migratorio. Perché l’evidenza dei dati non ha alcuna efficacia nella formazione dell’opinione pubblica?

Federica Graziani ( FG) – I dati sono univocamente a favore delle nostre tesi e non solo per quanto riguarda l’immigrazione, che non costituisce l’invasione di cui blaterano i sovranisti. I dati smontano anche, e impietosamente, il paradigma della sicurezza. Nei primi anni 90 si commettevano ogni giorno più di cinque omicidi volontari, nel 2019 gli omicidi volontari sono stati assai meno di uno al giorno. Ma perché questi dati risultano inefficaci al fine di contenere l’ansia collettiva e ridimensionare l’allarme per la sicurezza? La ragione potrebbe consistere nel fatto che la società italiana, e non solo quella, oggi è immersa in una condizione di insicurezza assai grave, profonda e diffusa. Ed è un’insicurezza materiale, concreta e dovuta alla crisi economico- sociale, che inquieta rispetto al futuro proprio e dei propri cari e provoca un generale smarrimento. È da questo stato che discende la paura rispetto alla minaccia della criminalità e che si tende a identificare, sempre e comunque, l’autore del reato nello sconosciuto, nell’ignoto, nello straniero. Personalmente su questo giornale ho seguito molto il caso di Marco Vannini di cui scrivete per evidenziare le criticità e le conseguenze di quel giustizialismo televisivo come una sorta di “populismo sputtanante” È solo uno dei tanti casi di quella che chiamate “glamourizzazione” dei crimini prendendo in prestito John Pratt. E mi ha fatto molto sorridere la caricatura che avete fatto di Giulio Golia delle Iene, «proiezione grottesca della maschera di Antonio Di Pietro». Come possiamo invertire la rotta? È il Tribunale del Popolo che chiede questo spettacolo o sono gli editori, i mass media che lo alimentano? Ci vorrebbe un intervento dell’Ordine dei giornalisti?

LM – Pensiamo che qualsiasi intervento “esterno”, come quello dell’Ordine dei giornalisti ma anche qualunque codice di autoregolamentazione – e già ci sono, non avrebbe alcuna efficacia. Il corto circuito tra opinione pubblica e informazione brucia ormai da moltissimi anni e non è reversibile. D’altra parte, l’ennesima e moralistica lamentazione contro i mass media ci sembra vana, anche per una ragione troppo spesso sottovalutata. Pure nel caso in questione, l’eterna domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina ci sembra futile. Siamo in presenza, appunto, di un circuito chiuso dove quello che lei chiama il Tribunale del Popolo alimenta il sistema dell’informazione, e quest’ultimo incentiva gli umori e i rancori del Tribunale del Popolo. L’uno giustifica l’altro. Il primo asseconda e accende, eccita e rinfocola il secondo, e ne viene, a sua volta, stimolato e blandito. Senza sottovalutare nemmeno per un attimo le responsabilità dei media, non si deve dimenticare che una domanda di giustizia sommaria e di rivalsa sociale cova nel profondo dell’animo umano. E si alimenta di relazioni private e scambi domestici, di frustrazioni personali e di sentimenti familiari persino prima di entrare in rapporto con il sistema dell’informazione.

Mi ha molto colpita l’analisi del termine “giustizialista” nell’accezione tedesca: «qualcosa di simile alla nevrosi tale da trasformare l’amore per la giustizia in ingiustizia». Ormai difendere la tutela delle garanzie individuali è diventato difficilissimo, soprattutto quando si parla di carcere. Come sanare questa situazione?

FG – Rispetto al carcere, siamo immersi in una fitta nebbia di equivoci. Equivoci che sono diventati prima luogo comune, poi emozione dominante – sono diverse le balle che reclamano attenzione pubblica – e infine si sono consolidati come modello di interpretazione egemonico. Il più diffuso è forse quello che riconosce l’esistenza nel nostro Paese di una sostanziale impunità dei criminali: sono pochi i delinquenti che vengono scoperti e inquisiti, ancora meno quelli che sono condannati e, per quei rarissimi che in carcere ci finiscono davvero, ci sono mille trucchi e mille inganni tutti strapaesani per uscirne e compiere nuovi reati. E c’è una lunga serie di efferate vicende di cronaca che sta lì a testimoniarlo. Ecco la distorsione. Non solo in Italia le pene detentive sono più lunghe rispetto alla media europea, si rimane insomma in carcere di più che negli altri Paesi, ma le misure grazie a cui le persone recluse, a vario titolo, escono di cella finiscono con una revoca perché si commette un nuovo reato nello 0,63 per cento dei casi. Esiste quindi più del 99 per cento di vicende in cui ciò non accade, ma chi mai ha visto un servizio televisivo o un articolo di prima pagina su questo? Nell’analizzare il Movimento 5 Stelle dite tre cose a parer mio significative. Sono segnati da una matrice antiscientifica, non inseguono l’onestà quanto piuttosto la punizione della disonestà, sono connotati da un profondo nichilismo: “Per essere, l’altro deve redimersi”, come ha reclamato Di Maio nei confronti del Pd prima dell’accordo per il governo "giallo- rosso". Molti sostengono, anche all’interno del Pd stesso, che ad esempio sulla questione immigrazione il Pd si sia snaturato. Ma non solo. Lei come giudica questa alleanza e fin quando durerà?

LM – Si può dire che il Partito Democratico e i 5 Stelle siano costretti all’alleanza e, probabilmente, a una coalizione di lungo periodo. Nello spazio politico italiano, la recente polarizzazione impone un’intesa non solo occasionale tra i due partiti ( diciamo due partiti perché 5 Stelle adotta, pressoché da sempre, la forma partito secondo tutti i crismi della politologia). D’altra parte, è inevitabile che l’alleanza finisca con lo "snaturare" entrambi: e come questo vada a vantaggio o a svantaggio dell’uno o dell’altro dipende e dipenderà dai rapporti di forza. Dopo un primo anno in cui ha prevalso la povera cultura politica dei 5 Stelle, con il voto del 20 settembre le cose sono andate modificandosi e la riforma dei decreti sicurezza ne è stato il primo e concreto risultato. Ma siamo soltanto all’inizio. Quello che è certo è che le distanze, per così dire ideologiche, tra i due partiti sono davvero ampie e solo un radicale processo di rinnovamento culturale e politico potrà portare a un programma che non sia semplicemente una sommatoria di obiettivi disparati e di omissioni sui punti controversi, ma una vera prospettiva comune. Il mio scetticismo sull’esito di questa prospettiva nasce esattamente da quell’analisi profondamente critica, che lei riporta, sui 5 Stelle come soggetto anti-politico, giustizialista e nichilista, che tanti danni ha fatto alla mentalità collettiva del nostro paese.

Ultima questione: Marco Travaglio, desiderato da Beppe Grillo come Ministro della Giustizia, è alla guida del partito giustizialista. A contrapporsi alla sua linea – scrivete – Il Dubbio, Il Foglio, Il manifesto, il Riformista. Come mai la scelta di dedicargli un’analisi così approfondita?

FG – Abbiamo scelto Marco Travaglio come figura paradigmatica della mentalità giustizialista innanzitutto perché gli è capitato di essere tra i front- man più aggressivi, sgraziati e onnipresenti di tutte le battaglie più furiose in campo giudiziario. E poi perché incarna in modo puntuale quella sorta di ideologia per cui la società è dominata dal male e dalla corruzione. Non si può dunque che guardare dall’alto ai fatti del mondo, da un presidio di virtù e di intransigenza che perde il contatto con la realtà e si ritrova a descriverla in tinte sempre forti e ben marcate. Ricordate il titolo del Fatto sull’” Italia a delinquere” o il nomignolo inventato per il sindaco di Bergamo, la città più colpita dalla pandemia: Giorgio Covid? Ecco, se l’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni e le forme di comunicazione sono sempre immerse in iperboli, se le sole virtù apprezzate si basano sulla forza e sulla repressione del crimine, se i fatti sono interrogati solo perché svelino contraddizioni e raggiri, che tipo di giustizia ne viene fuori?

Carlo Nordio a Quarta Repubblica contro Piercamillo Davigo: "Frasi gravissime, contro la presunzione di innocenza". Libero Quotidiano il 06 ottobre 2020. A Quarta Repubblica di Nicola Porro, il programma di Rete 4 nell'edizione di lunedì 5 ottobre, sale in cattedra Carlo Nordio, l'ex magistrato, che ha parecchio da dire su magistratura e dintorni. Si spazia dal caso Gregoretti a Luca Palamara, e Nordio punta il dito: "Un magistrato non deve fare politica attiva né durante né dopo il servizio, soprattutto se ha condotto inchieste importanti che hanno avuto conseguenze politiche". Un chiaro messaggio a tutte le toghe che scelgono di "saltare" dalla magistratura alla politica. Dunque, nel mirino ci finisce Piercamillo Davigo, secondo cui chi subisce una ingiusta detenzione nella maggior parte dei casi "è un colpevole che l'ha fatta franca". Roba da brividi, insomma. "Quella di Davigo è una frase molto grave perché confligge col principio costituzionale di presunzione d'innocenza. Spero che sia stato un momento di emotività in presenza della telecamera perché un magistrato non può esprimersi così", picchia duro Nordio. E ancora: "La carcerazione preventiva dovrebbe essere rivista interamente, abbiamo un sistema che non da adeguate garanzie, è più devastante per i colletti bianchi, perché hanno più da perdere", conclude l'ex magistrato la sua lezione di diritto.

La cultura giustizialista. Caiazza contro Giletti, lo sfogo: “Avvocati sotto attacco, siamo persone per bene”. Angela Stella su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Avvocato Caiazza, durante la puntata di domenica di “Non è l’Arena” appena lei ha citato il codice penale e la Costituzione per spiegare perché anche per i condannati per mafia è possibile accedere alla detenzione domiciliare per motivi di salute Massimo Giletti ha sbottato: «Mi sono rotto le balle di giocare con i numeri, con i dati e con gli articoli…. Vedere i mafiosi a casa mi dà lo schifo». Intanto ci tengo a dire una cosa: Giletti ha detto con molta lealtà che era rimasto molto male per il mio articolo sul vostro giornale. Nonostante ciò ha scelto di invitarmi nella sua trasmissione. Ed io ho apprezzato questo suo gesto. Detto questo, è evidente che la trasmissione è stata impostata su un piano emotivo e suggestivo, quindi indifferente agli argomenti che ho pacatamente cercato di proporre. Si sta facendo una campagna su un certo numero di provvedimenti dei tribunali di Sorveglianza che pochissimo hanno a che fare con l’emergenza covid e con la circolare del Ministro Bonafede. Però poi alla fine parliamo sempre di quei due o tre detenuti che erano al 41 bis. Anche per loro vale il diritto alla salute. Il diritto alla sospensione della pena in caso di gravi condizioni di salute vale per tutti, anche per i detenuti per fatti di mafia; è chiaro che se a queste argomentazioni si contrappone il ricordo di Carlo Alberto dalla Chiesa, la storia degli attentati a Rino Germanà, e l’intervista a Di Matteo che racconta la sua vita sotto scorta si sceglie di non confrontarsi con gli argomenti razionali e giuridici. Qualche anno fa il professor Daniele Giglioli in “Critica della vittima” ha scritto: «La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato». È d’accordo nel dire che politica e stampa spesso strumentalizzano le vittime e il loro dolore per chiedere sempre più carcere e pene più severe? Sicuramente questo è un problema cruciale che nasce da un equivoco di fondo: il reclamare il rispetto di principi costituzionali basilari – umanità della pena, diritto alla salute senza distinzione rispetto alla gravità dei reati – viene inteso e rappresentato come una forma di distanza dal dolore delle vittime di quei reati. Questo è quanto di più ingiusto, gratuito e per certi versi violento si possa fare nei confronti di chi ha una cultura liberale del diritto e della garanzie. Il richiamo alle regole non ha nulla a che fare con il giudizio sociale sul crimine e sulle vittime del crimine. Giletti l’ha accusata di attaccare i giornalisti indipendenti come lui. La stessa cosa ha fatto Nino di Matteo qualche giorno fa quando ha detto che l’avvocatura ha attaccato i magistrati liberi. In questa cultura populista e giustizialista, che fa un uso strumentale del dolore delle vittime, l’avvocato diviene un fiancheggiatore dei suoi assistiti. E infatti ad un certo punto Giletti le ha detto: «Noi siamo persone oneste». Lei ha risposto: «Anche gli avvocati». Esatto, in quella esclamazione sincera e convinta di Giletti la categoria che rappresento viene percepita come estranea al mondo delle persone perbene. Secondo lui abbiamo una morale borderline perché c’è un equivoco clamoroso, grossolano per cui veniamo sovrapposti ai nostri assistiti.

Il tribunale speciale. Giletti si traveste da Falcone e celebra in tv il processo Stato-Mafia2. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Non è l’Arena. Infatti è un Tribunale speciale, dove si celebra il processo “Trattativa-due” dello Stato con la mafia. I soggetti sono sempre gli stessi, per lo meno quelli che rappresentano l’accusa, cioè tutti meno uno. C’è il pm che urla “mi sono rotto le balle”, Massimo Giletti. C’è il pm politico, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. C’è il pm più puro e più eroe di tutti, Nino Di Matteo (intervista registrata). Ci sono, un po’ più defilate, le giornaliste Sandra Amurri e Rita Dalla Chiesa. Il gruppone dei pm è anche giudice, svolge le due parti in commedia, come si conviene nei tribunali speciali, fin da prima che si ponesse il problema della separazione delle carriere. Durante il fascismo il tribunale speciale era stato voluto da Mussolini, quindi stava dalla parte del governo. Nei processi-trattativa invece lo Stato, o una sua parte, sta sul banco degli imputati, per di più nello scomodo ruolo del contumace. In questo caso il ministro Bonafede era stato invitato a sedere anche fisicamente sul banco degli imputati. Ma, un po’ perché reduce da una sfortunata telefonata in una precedente udienza del processo, un po’ perché conosce bene, per esserne lui stesso stato artefice, la subcultura delle forche, fatto sta che si tiene ben lontano da quest’aula dove gli accusatori e i giudici sono le stesse persone e gliel’hanno giurata. Ma è presente il suo difensore, si dirà. Ecco, più che avvocato di Bonafede, Gian Domenico Caiazza (che considera il guardasigilli “una sciagura”) pare un prigioniero politico. Apparentemente è stato invitato perché si è permesso di criticare Giletti sul Riformista, e questo al conduttore-pm-giudice deve parere intollerabile. Infatti non lo lascia parlare, lo interrompe, gli urla addosso. Intanto si crea il clima, sempre più fosco, teso a mostrare un Paese in cui i delinquenti e i mafiosi comandano e dispongono a proprio piacimento degli uomini dello Stato. Lo schema è il medesimo del processo Stato-mafia sugli anni 1992-1993. Pare una pièce scritta e sceneggiata dallo stesso autore. Del resto chi era il principale pubblico accusatore del primo processo se non Nino Di Matteo? Allora si diceva che uomini dello Stato, militari e politici, per salvaguardare la propria incolumità, o anche per altri inconfessabili motivi, favorirono la mafia liberando dai vincoli del carcere duro e impermeabile del 41 bis una serie di esponenti della criminalità organizzata. Più picciotti che boss, a onor del vero. Ma non importa. Quel che conta, per celebrare processi e riscrivere la storia, è denunciare complotti, con il massimo della fantasia. E uscirne puri, sempre più puri. La storia di oggi parte apparentemente il 21 marzo scorso, il giorno in cui emanata una circolare. Non bisogna dimenticare il clima, angosciante e ansiogeno di quei giorni, non solo in Italia. Eravamo in piena sindrome da coronavirus, chiusi nelle case e con la paura che ci teneva distanti gli uni dagli altri. In tutta Europa, a un certo punto, i governi si erano posti il problema delle carceri, perennemente sovraffollate e con l’impossibilità di avviare alcuna forma di prevenzione che non comportasse un certo numero di scarcerazioni, cosa che fu fatta, dalla Francia persino fino alla Turchia. C’erano state anche manifestazioni e devastazioni nelle carceri. Nacque così il decreto governativo “Cura Italia” che prevedeva la possibilità che la pena detentiva non superiore a 18 mesi potesse essere scontata presso il proprio domicilio. Cosa che nel giro di pochi mesi ebbe un notevole effetto deflattivo, con il ritorno a casa di circa diecimila detenuti. Con l’eccezione di coloro che fossero condannati, o anche solo imputati, per i reati più gravi. In questo clima di preoccupazione, di ansia e di paura per la salute di tutti, e con il terrore che scoppiasse una colossale epidemia all’interno delle carceri, il governo assunse anche un’altra iniziativa. Fu il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a inviare, sulla scorta del parere dei sanitari, una circolare nelle carceri perché venissero segnalate le situazioni di gravi patologie come i tumori e le cardiopatie e allertati i pericoli di contagio delle persone più fragili. La segnalazione viene presa molto seriamente e diversi giudici e tribunali di sorveglianza cominciano a disporre il differimento pena nei confronti di una serie di detenuti gravemente malati, pur se condannati o imputati di reati gravi. I quali vengono mandati provvisoriamente a casa. Pare quasi un segnale, un vero drappo rosso agitato davanti al toro. Succede di tutto. Il quotidiano Repubblica si scatena, il presidente della Commissione Antimafia comincia a fare pressioni perché vuole l’elenco dei “mafiosi scarcerati”, che poi regolarmente viene pubblicato, anche con numeri sbagliati, per meglio drammatizzare. Ma lo si saprà in seguito. Il capo del Dap Basentini è costretto alle dimissioni. Ed è a questo punto che spunta l’uomo del processo-trattativa. Il dottor Nino Di Matteo, ormai membro del Csm, in una delle tante puntate di Non è l’arena, comincia a processare il ministro Bonafede perché, due anni prima, gli aveva promesso e poi sottratto, in seguito a minacce mafiose, proprio la presidenza del Dap. Si comincia così a collegare le manifestazioni delle carceri dei primi di marzo di quest’anno con le intercettazioni in cui nel 2018 i mafiosi si erano lamentati per la prospettiva che Di Matteo diventasse il capo delle carceri. Si trascura il fatto che le “scarcerazioni dei boss” fossero in realtà solo differimenti pena provvisori legati a motivi di salute e al timore di contagi letali. Tutto diventa complotto e ricatto. Lo Stato, nelle figure del dottor Basentini e di altri suoi collaboratori del Dap, si sarebbe piegato al ricatto del boss, e rimandandoli nelle loro case avrebbe mandato un messaggio molto chiaro alla mafia. E insieme a lui il ministro. In questo scenario che si è ripetuto ogni domenica per mesi e che è ripreso due sere fa con lo stesso schema, che cosa c’entrava la presenza dell’avvocato Caiazza, se non in veste di prigioniero politico di un processo da tribunale speciale? Il presidente delle Camere penali ha tentato invano di spiegare che di quei famosi 223 detenuti ai domiciliari la metà era fatta di persone in custodia cautelare, quindi non ancora processata, quindi innocente secondo la Costituzione, e che la sospensione della pena per motivi sanitari per i condannati non può fare distinzione tra detenuti. Niente da fare. Ci pensa de Magistris, che ostenta alle sue spalle la foto di Falcone e Borsellino pur essendone lontano anni luce, a rispolverare l’avverbio preferito dai processi staliniani. Qui si è “oggettivamente” favorita la criminalità organizzata, dice. Ecco il processo trattativa-due.

Ego te absolvo. Marco Travaglio archivia l’honestà e "assolve" Chiara Appendino. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Mettere la parola “onestà” al posto di “innocenza”. E tutto quadra. Si potrebbe persino modificare l’articolo 27 della Costituzione (che in realtà parla di non colpevolezza, non di “innocenza”), nel mondo di Marco Travaglio e dei suoi cari. Che in realtà non credono nella giustizia. Nel mondo in cui Chiara Appendino dovrebbe essere ricandidata a sindaco di Torino, secondo il direttore del Fatto, «non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Schiuma di rabbia, il povero Marcolino, quasi qualcuno gli avesse disobbedito, facendo deporre la fascia tricolore al sindaco di Torino. Che Chiara Appendino sia una persona per bene, un sindaco “normale”, e che non abbia fatto disastri come la sua collega Virginia Raggi a Roma, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. È sotto gli occhi di tutti. Ma in questi quattro anni la prima importante sindaca grillina, pur appoggiata inizialmente dal mondo produttivo torinese, non è riuscita a scrollarsi di dosso il suo mondo d’origine, quello dei No-Tav e della purezza da decrescita più o meno felice che l’ha portata a rinunciare alle Olimpiadi della neve e a perdere il salone dell’auto, oltre che a chinare la testa di fronte alla più combattiva Milano, concorrenziale su grandi mostre e salone del libro. Motivi politici, e difficoltà d’incontro dei due mondi – quello grillino con il ditino alzato e i grandi rifiuti, e quello della tradizione di sinistra, da Mirafiori fino all’intellighenzia snob con la puzza sotto il naso – prima ancora che la “questione di coerenza” per motivi giudiziari, hanno portato la sindaca al passo di lato. Così lei stessa ha definito il suo abbandono della fascia tricolore. Il che toglie un bel po’ di castagne dal fuoco all’alleanza rossogialla. Per lo meno a Torino, viste le difficoltà nella città di Roma con la ricandidature spontanea di Virginia Raggi. Nel mondo “normale”, come avrebbe potuto essere quello di un sindaco normale come Appendino, non peserebbe più di una piuma quella condanna a sei mesi per falso ideologico che accomuna il primo cittadino di Torino a quello di Milano Beppe Sala e a tanti altri sparsi per l’Italia. Sono gli assurdi “incidenti sul lavoro” dei pubblici amministratori. Quegli stessi soggetti che la piccola sub-cultura di Marcolino e del suo amico Bonafede ha voluto, per esempio con la legge “spazzacorrotti”, equiparare agli assassini mafiosi e ai trafficanti internazionali di droghe. Ma nel mondo di onestà-onestà ogni sospiro, ogni piccolo gesto di attenzione di un pubblico ministero conta più di un premio Nobel. A volte, e in questo il Fatto quotidiano è insuperabile maestro, gli uffici della procura vengono addirittura sollecitati. È il caso dell’assessore lombardo alle politiche sociali Giulio Gallera, per sua fortuna non sottoposto a nessuna indagine giudiziaria, ma il cui cognome viene ogni giorno storpiato con la cancellazione di una “L” in modo da evocare e sollecitare le manette. Ovvio che, nel piccolo mondo di Marcolino, quella condanna in primo grado di Chiara Appendino bruci come una bestemmia in chiesa. Un affronto. Ma anche una realtà che cozza con le strampalate regole del grillismo e del travaglismo. Basterebbe rileggere quell’accozzaglia di insulti che ogni giorno viene stampata sul colonnino laterale destro nella prima pagina del Fatto. Quel che è stato sparato, con la forza di pallottole, per esempio nei confronti del sindaco milanese Sala o del governatore lombardo Fontana. Amministratori “normali” proprio come Appendino. Di cui però Marcolino non auspicherebbe mai la ricandidatura, soprattutto per motivi giudiziari. Ecco perché non riesce a ingoiare la rinuncia della sindaca di Torino al secondo mandato. Se la prende con il partito di Grillo e Di Maio perché non aggiorna immediatamente il Codice etico, «ancora troppo rigido e dunque inefficace». Poi inciampa, ricordando come sia giusto allontanare i condannati, specie se per reati gravi come il falso. Però l’ultima parola, suggerisce, andrebbe ai probiviri. Sembra quasi dire che non conta tanto la decisione della magistratura quanto quella del partito. Complimenti per il doppiopesismo, Marcolino! Per uno che è campato sulle vicende giudiziarie di Roberto Formigoni non è male come giravolta. Che cosa dice di Chiara Appendino? «Non ha rubato, “mafiato”, truffato, sperperato, abusato del suo potere a fini personali». Sai, Marcolino quanti esempi di pubblici amministratori, da Tangentopoli in avanti, potremmo farti, anche di persone che si sono suicidate per la vergogna di insinuazioni ingiuste fatte da persone come te? Persone per bene che, proprio come Chiara Appendino, non avevano rubato o truffato o “mafiato” e hanno dovuto subire magari il carcere e la gogna quotidiana sparsa a piene mani dalla sub-cultura che a te è sempre piaciuta finché le condanne non hanno colpito i tuoi cari. Non stupisce il finale del tuo colonnino laterale destro di ieri. Uso volutamente il termine “laterale destro”, con cui viene definito, nei tribunali, il giudice più anziano che siede alla destra del presidente. Perché tu oggi hai emesso una sentenza. Hai stabilito che non ti importa niente della giustizia. Tu invochi il Movimento Cinque Stelle, cioè un partito, in favore di Chiara Appendino: «Un movimento che ha a cuore l’onestà dovrebbe annullare la sua autosospensione e spingerla a ricandidarsi. Non malgrado la sentenza, ma alla luce della sentenza». Ed ecco lo squillo di trombe, la vera anima del giacobino che in realtà non crede nelle decisioni dei giudici (del resto ha sempre preferito i pubblici ministeri): «Non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Ego te absolvo.

Il “verginello” Travaglio guru pluricondannato vuole aiutare Emiliano e diffama Fitto. Poverino…Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 20 Settembre 2020. Non è con i consigli di Travaglio che Michele Emiliano riuscirà a far dimenticare i suoi 5 anni disastrosi anni di presidenza della Regione Puglia ed i 10 anni del suo predecessore Nichi Vendola! C’era una volta un giornalista piemontese tale Marco Travaglio cresciuto alla “corte” di Furio Colombo ed Antonio Padellaro, che deve il suo successo esclusivamente alla sua partecipazione ed ai programmi televisivi di Michele Santoro in onda su RAIDUE all’epoca dei fatti diretta dal leghista “maroniano” Antonio Marano. Leggere oggi questo arrogante e presuntuoso giornalista mentre pretende di influenzare gli elettori sul referendum, criticare uno dei “leader” del M5S Alessandro Di Battista, per essersi permesso di “arringare bla folla pentestellata di Bari contro il mio consiglio agli elettori di ‘turarsi il naso e votare disgiunto’ mette tristezza“, induce le persone intelligenti a fare esattamente il contrario. Non è con i “consigli” di Travaglio che Michele Emiliano riuscirà a far dimenticare i suoi 5 anni disastrosi anni di presidenza della Regione Puglia ed i 10 anni del suo predecessore Nichi Vendola ( imputato a Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” !) Perchè chi mette tanta tristezza, in realtà è proprio il travagliato direttore del Fatto Quotidiano, giornale in crisi indebitato e con oltre un milione e mezzo di perdite nell’ultimo bilancio “salvato” da un finanziamento di Unicredit Banca garantito dallo Stato (fidejussione del Medio Credito Centrale, grazie all’emergenza Covid19), che si affanna a fare il ventriloquo di Rocco Casalino e “Giuseppi” Conte, il premier non eletto dagli italiani! Travaglio scrive il falso, attaccando Di Battista perchè”per Di Battista Emiliano e Fitto pari sono. Anche se uno faceva il magistrato, e l’altro l’imputato“. Ancora una volta il giornalista “travagliato” dimostra di essere poco informato sulle vicende pugliesi. Infatti mentre l’imputato in realtà è Michele Emiliano, e non Raffaele Fitto assolto dalla Suprema Corte di Cassazione! Il “manettaro-gistizialista” Travaglio dimentica la sua lunga serie di condanne subite che potete trovare e leggere grazie a questo link. Per vostra comodità ve le riassumiamo noi qui di seguito:

Nel 2000 Travaglio è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio aveva definito Previti «futuro cliente di procure e tribunali» su L’Indipendente, Previti era effettivamente indagato. Il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.

Il 4 giugno 2004 Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per quanto contenuto nel libro “La Repubblica delle banane” scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all’allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L’errore era poi stato ripubblicato anche su L’Espresso, il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché alla Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15 000 euro.

Il 5 aprile 2005 Travaglio è stato condannato in sede civile dal Tribunale di Roma , assieme all’allora direttore dell’Unità, Furio Colombo, al pagamento di 12.000 euro più 4.000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito. Travaglio in un articolo per giustificarsi…. dichiarerà che aveva scritto che “era coimputato con Berlusconi, ma usando un’espressione giudicata insufficiente a far capire che lo era per un reato diverso da quello contestato al Cavaliere“.

Il 20 febbraio 2008 questa volta è stato il Tribunale di Torino in sede civile a condannare Travaglio a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26 000 euro, a causa di una critica ritenuta «eccessiva» nell’articolo Piazzale Loreto? Magari pubblicato nella rubrica Uliwood Party su l’Unità il 16 luglio 2006[senza fonte][94]

Il 21 ottobre 2009 Travaglio viene condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato da lui definito «più volte inquisito e condannato» nel suo libro Il manuale del perfetto inquisito, affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l’idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l’idea di una pluralità di condanne)».

Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a “Che tempo che fa” il 10 maggio 2008.

L’11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del “figlioccio di un boss” all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello. Travaglio è stato condannato a pagare 15 000 euro. 

Il 23 gennaio 2018 è stato condannato per diffamazione dal Tribunale di Roma in merito ad un editoriale su Il Fatto Quotidiano contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammonta a 150.000 euro. Il 15 ottobre 2013 in un articolo intitolato “La cluster-sentenza”, Travaglio scrisse: “…nelle prime 845 (pagine) non parlano del reato contestato ai loro imputati: cioè la mancata cattura di Provenzano” e aggiunge: “Si avventurano invece nella storia delle stragi e delle trattative del 1992-’93, oggetto degli altri due processi”.

Travaglio è stato recentemente citato in giudizio per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi (il padre di Matteo Renzi), per due editoriali su Il Fatto Quotidiano riguardanti un processo penale per bancarotta che ha visto lo stesso imputato assolto con formula piena.Nel primo articolo, parlando dell’indagine in corso a Genova sulla azienda Chil Post controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi , Travaglio aveva usato il termine “fa bancarotta“; nel secondo articolo Tiziano Renzi era stato accostato per “affarucci” a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il 22 ottobre 2018, il tribunale civile di Firenze lo ha condannato in solido con la giornalista Gaia Scacciavillani e con la Società Editoriale Il Fatto), al pagamento di una somma di 95.000 euro a titolo di risarcimento per diffamazione.

Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Firenze il 16 novembre 2018, in un procedimento (relativo alle parole pronunciate nel corso di un’ospitata nella trasmissione “Otto e mezzo“), al pagamento di 50.000 euro per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi. Travaglio disse che “Il padre del capo del governo si mette in affari o s’interessa di affari che riguardano aziende controllate dal governo” .Travaglio scrisse nel suo editoriale su Il Fatto Quotidiano del 17 novembre 2018 che “Tiziano Renzi era ed è indagato dalla Procura di Roma per traffico d’influenze illecite con la Consip, società controllata dal governo, ai tempi in cui il premier era il figlio Matteo” e che “Tiziano Renzi si era messo in affari con un’altra società partecipata dal governo, Poste Italiane, ottenendo per la sua “Eventi 6” un lucroso appalto per distribuire le Pagine Gialle nel 2016“.

Ma cosa aspettarsi da un giornalista passato dalla redazione torinese del quotidiano LA REPUBBLICA, al quotidiano comunista L’UNITA’, per finire al FATTO QUOTIDIANO dove i giornalisti veri , quelli che hanno fondato il giornale) rimpiangono ancora il giornalismo serio equilibrato e non fazioso dell’ ex direttore Antonio Padellaro? Ma esiste ancora qualcuno che vuole dare credibilità giornalistica e politica a questo signore ? Pensate cari lettori, che per colpa sua oggi mi tocca persino difendere il “grillino” Di Battista… ! Quindi cari lettori votate secondo coscienza e soprattutto coerenza. E senza tapparvi il naso.

Ed erano anche socialisti...Per Marco Travaglio la Costituzione è stata scritta da ex galeotti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Il nostro vecchio amico Marco Travaglio ieri ha scritto un articolo molto rigoroso, sul Fatto, nel quale ci ha criticato (a noi del Riformista che lui continua a chiamare Il Riformatorio, senza peraltro offenderci neppure un pochino) perché abbiamo ospitato un appello per votare No al referendum, firmato da un buon numero di ex dirigenti o militanti del partito socialista, e poi addirittura abbiamo fatto un’intervista a Claudio Martelli, che del partito socialista è stato vice segretario e segretario reggente. Travaglio ha scritto tutti i nomi dei firmatari, e vicino ad alcuni di loro ha messo il numero dei mesi o degli anni di galera ai quali sono stati condannati, per lo più durante gli anni terribili di Tangentopoli. A qualcuno invece ha messo, un po’ a malincuore, la parola “incensurato”, perché non ha trovato niente al casellario giudiziario con il quale il suo computer ha un collegamento diretto. Vicino agli anni di carcere ha scritto anche la motivazione, che per la maggior parte di loro era finanziamento illecito dei partiti (in quegli anni i partiti non erano stati ancora aboliti dal travaglismo a 5 Stelle). Il motivo per il quale Travaglio ha pubblicato tutti questi elenchi, riempiendoci una colonna intera della prima pagina, è la sua feroce polemica contro chi vorrebbe che al referendum vincano i No al taglio del Parlamento. Tra queste persone ci sono tra l’altro una moltitudine di costituzionalisti che la Costituzione la conoscono abbastanza bene ma che Travaglio non ama molto. Forse non li ama proprio per il fatto che conoscono e difendono la Costituzione. Anche perché tutti ne parlano sempre come di una bella cosa, di questa Costituzione, ma tanto bella mi sa che non è. Perché sono andato a spulciare nell’elenco di quelli che l’hanno scritta e mi sono accorto che gran parte di loro è gente poco raccomandabile. Trascrivo qui un breve elenco dei principali autori della Carta: Alcide De Gasperi (incensurato), Pietro Nenni (8 anni di carcere, uno scontato, cinque di confino, e poi latitante), Sandro Pertini (13 anni di galera e poi attivo nell’attività terroristica), Giuseppe Saragat (13 anni di galera, poi evaso, poi latitante e impegnato nell’attività di fiancheggiamento al terrorismo), Palmiro Togliatti (fuggiasco all’estero), don Luigi Sturzo (fuggiasco all’estero), Giovanni Leone (incensurato), Giuseppe Di Vittorio (2 anni di galera e poi confino), Giancarlo Pajetta (17 anni di galera), Vittorio Foa (13 anni di galera), Umberto Terracini (13 anni di galera), Lelio Basso (8 anni), Eugenio Colorni (3 anni e 5 di confino), Pietro Mancini (2 anni), Giuseppe Romita (5 anni). E questi sono solo i più famosi. Va bene essere garantisti – dico – però c’è un limite. Come puoi non dare ragione a Travaglio di fronte a un elenco così inquietante? Voi magari mi chiederete: cosa c’è in comune tra l’elenco di Travaglio e questo? Beh, che una buona metà dei condannati, di un elenco e dell’altro, erano socialisti. Come fai a difenderli, di fronte a tante coincidenze?

Lo stato sceglie la repressione. Il garantismo a modo loro dei grillini: liberate la No Tav, ma arrestate Formigoni. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Dopo Nicoletta Dosio, che aveva più di settant’anni, ora è toccato a Dana Lauriola, trentottenne. L’hanno presa di notte, ammanettata e trascinata in prigione. Ha ucciso qualcuno? Ha scassinato una gioielleria? Ha sparato, ha picchiato dei bambini, ha turlupinato dei vecchi? No, insieme ad un altro centinaio di suoi compagni di lotte (tra i quali Nicoletta) ha aperto per una mezz’oretta i caselli dell’Autostrada, in Val di Susa, qualche anno fa, lasciando che le automobili uscissero senza pagare. Neanche un ferito, neanche una persona spintonata o graffiata o contusa, neanche un danneggiamento a qualche oggetto. Niente di niente. Era una manifestazione politica contro la Tav. Innocua, assolutamente non violenta. Ripeto: una manifestazione politica. I giudici hanno deciso che manifestare contro la Tav e aprire i caselli per mezz’ora è un crimine molto grave. E non solo hanno rifilato un anno di prigione a Nicoletta Dosio e addirittura due anni a Dana Lauriola, ma hanno anche negato la condizionale e persino la pena alternativa. A Nicoletta non hanno concesso la pena alternativa perché lei non l’ha chiesta. Dana invece l’ha chiesta ma gliel’ha negata perché – hanno detto – non aveva abiurato. Non ci credete? E invece è così. Sì, qui, in Italia – non in Cina o in Turchia, o in Iran – qui in Italia nel 2020. Ti chiedono di abiurare per attenuare la pena. una cosa fascista? Beh, non so, ci sono anche altri termini in politologia per descrivere decisioni di questo genere, ma più o meno è quello. Io dico fascista perché è un provvedimento che mi ricorda molto quelli che si prendevano in Italia, verso i dissidenti, tra il 1922 e il 1945. Contro questo folle provvedimento dell’autorità giudiziaria si sono scagliati, per fortuna, diversi rappresentanti politici. Purtroppo tutti di sinistra. Così come si scagliarono contro l’incriminazione di Salvini diversi rappresentanti politici: purtroppo tutti di destra. Oltre ai rappresentanti della sinistra radicale (perché il Pd è molto più prudente visto che è favorevole alla Tav, e quindi non gli va di prendersela tanto coi giudici) si sono scagliati stavolta contro la magistratura anche i 5 Stelle. Deo Gratias. Per esempio è stato molto polemico il senatore Alberto Airola, che ha anche chiesto l’intervento di Mattarella. Giusto. Solo che il senatore dei 5 Stelle è riuscito, nel suo intervento garantista verso Dana Lauriola, a mettere una buona dose del tradizionale forcaiolismo del suo partito. Cioè che ha detto? Che bisognerebbe fare uscire Dana e mettere in prigione Formigoni (73 anni). Ecco, in questa richiesta sta la chiave di tutto. Cioè si spiega perché poi alla fine, su qualunque fronte, vincono sempre i magistrati. Perché nessuno vive l’arresto di un avversario politico come una ferita alla democrazia e al diritto. Tutti vivono come una ferita solo l’arresto degli amici. E chiedono la liberazione degli amici e l’arresto dei nemici. In questo modo i magistrati non troveranno mai una opposizione politica. E faranno carne di porco dei pochissimi garantisti che ci sono ancora in circolazione. E che gridano, ascoltati da nessuno: «Liberate Dana, non arrestate Roberto». Secondo voi c’è bisogno di essere No-tav per indignarsi della follia turca di chi l’ha arrestata? E c’è bisogno di essere di Comunione e Liberazione per capire che i magistrati tesero una trappola a Formigoni, e poi provarono perfino a far scattare contro di lui una legge retroattiva (una legge schifosa, la cosiddetta spazzacorrotti, che è meglio chiamare manette-facili)? Pensavo di no. Invece temo di si. Né gli uni né gli altri, temo, capiranno mai che per difendere dai soprusi i loro amici bisogna cominciare a difendere dai soprusi i propri avversari. Guardate la vicenda Battisti: avete letto qualche riga sui giornali, o ascoltato qualche dichiarazione politica,o di intellettuali, in favore dell’applicazione pure per lui dello Stato di diritto? No. E non la leggerete mai.

Il caso di Bologna. Beppe Severgnini, la cocaina e le liste di proscrizione. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Settembre 2020. “Abbiamo o no il diritto di sapere se chi vive e lavora con noi, per noi o intorno a noi è un cocainomane?”. Alla domanda, posta sul Corriere della sera sabato scorso da Beppe Severgnini, si può e si deve dare una sola risposta: no, non abbiamo questo diritto. Intendiamoci, la domanda è molto seria e non va sottovalutata, anche perché posta con un filo di angoscia all’interno di un ragionamento che mette alcuni punti fermi, non moralistici. Si parte dalla vicenda, che strazia un po’ il cuore, di quella casa di Bologna dove un gruppo di uomini così insicuri da aver bisogno di misurarsi con ragazzine, le nutriva a coca e porno per esibirsi in pubblico sui social. Posta fine alla doverosa indignazione e con la consapevolezza del fatto che, con i regimi proibizionistici di tutto il mondo, nessuno ha sconfitto il narcotraffico e anzi, dato l’abbassamento dei prezzi, anche la cocaina è ormai alla portata di chiunque la desideri, come intervenire sul piano sociale? Severgnini sa bene che l’inasprimento delle pene non ha mai fatto diminuire i reati, figuriamoci i comportamenti individuali. Perché come tale è considerato in Italia il consumo di sostanza psicotrope, sanzionato solo in via amministrativa. Se non vogliamo quindi dire la cosa più stupida e inutile evocando la galera per ogni comportamento borderline, dobbiamo affrontare il problema in un altro modo. Severgnini vorrebbe il pubblico sputtanamento del cocainomane. E non perché anche di coloro che abusano di psicofarmaci o di alcolici? Sappiamo bene che per i comportamenti pericolosi, come mettersi al volante strafatti o ubriachi, le norme esistono già. Per coloro che hanno nelle mani la vita degli altri, come i piloti di aereo, ci sono i controlli preventivi. Che forse andrebbero estesi anche ai magistrati. Forse tutto ciò non basta. Ci vorrebbero più campagne di informazione sulle conseguenze psico-fisiche che ogni smodata assunzione di sostanze chimiche o alcoliche comporta. Ma lo sputtanamento sarebbe lesivo e inutile. Come lo fu la proposta di sanzionare i clienti delle prostitute.

Il giustizialismo è il facile sfogo dei leoni da tastiera. Nicola Quatrano su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Non mi è mai troppo piaciuta l’espressione “garantista”, perché mi sembra voglia significare troppo, o troppo poco. Il giudice deve essere “garantista” a prescindere, è il suo mestiere. Se non lo è, non è un giudice “non garantista”, semplicemente non è un giudice. Al contrario, il pubblico ministero e l’avvocato non devono essere “garantisti”: entrambi sostengono una tesi, accusatoria o difensiva, e l’unico limite è il rispetto della legge e della deontologia; sarà poi il giudice “garantista” a decidere. I cittadini normali possono essere “garantisti” o meno, sono fatti loro. Qui il limite è soprattutto di ordine logico, perché l’esperienza di centinaia di processi finiti con il riconoscimento dell’innocenza di persone a suo tempo arrestate fa seriamente dubitare della ragionevolezza di chi oggi si accontenta di un avviso di garanzia o di una misura cautelare per bollare qualcuno come colpevole. La cosa si complica ulteriormente quando si confonde tra giudizio morale e vicenda giudiziaria che dovrebbero essere tenuti ben distinti. Si può essere infatti “innocenti” e moralmente spregevoli, perché le regole morali sono molto più esigenti di quelle giuridiche. E può accadere il contrario, come dimostrano i tanti “pregiudicati” di epoca fascista (da Pertini a Terracini) che hanno fatto onorevolmente parte dell’Assemblea Costituente. Anche il recente avviso di garanzia al governatore Vincenzo De Luca dovrebbe ragionevolmente essere accompagnato da un giudizio di attesa. Eppure l’opinione pubblica si è divisa tra colpevolisti per professione e innocentisti per vocazione. In questo caso, peraltro, non c’è nemmeno “giustizia a orologeria”, perché “a orologeria” è stata piuttosto la notizia giornalistica, in campagna elettorale, di un’indagine nata anni fa. No, la questione non si esaurisce mai nella contraddizione tra “garantismo” e “giustizialismo”, c’è sempre qualcosa di più profondo che sfugge a simili semplificazioni. E si tratta, credo, dell’uso che del “garantismo” e del “giustizialismo” viene fatto, che è un uso eminentemente politico. Negli anni 1990, la sinistra riuscì ad approdare finalmente al governo, cavalcando l’ondata giustizialista di Tangentopoli. Un risultato che non aveva mai prima ottenuto con metodi schiettamente politici. E oggi le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si giocheranno probabilmente sulle contrapposte sponde del “Law & Order” (Legge e Ordine) agitato dal presidente repubblicano uscente, Donald Trump, e delle proteste del movimento Black Lives Matter contro il razzismo della polizia, cui si sono allineati i democratici. In ballo, ancora una volta, non ci sono i grandi valori, ma qualcosa di molto più concreto: la presidenza degli Stati Uniti. Il problema è che l’uso politico del giustizialismo tenderà inevitabilmente ad accentuarsi. L’Occidente (e non solo) deve confrontarsi con una situazione di grave fragilità sociale e una crisi economica di impreviste dimensioni, la gente vive una situazione di grave incertezza, tra Covid e disoccupazione, impaurita dalle fibrillazioni internazionali e i rischi di guerra sempre incombenti. In questo quadro, la canea giustizialista è una formidabile occasione di sfogo ed è facilissima: prende di mira persone in carne e ossa, messe a disposizione dalla cronaca giudiziaria, esonerando dalla fatica di analizzare le cause e di individuare i veri responsabili del disastro che stiamo vivendo. Nei social network possiamo urlare tutta la nostra rabbia contro il catalizzatore di turno del rancore sociale, sia esso il presidente della Regione, raggiunto da un avviso di garanzia, o i ragazzi del “branco”, protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca di Colleferro. Possiamo chiederne l’impiccagione o lo squartamento immediato e senza processo, vendicandoci dei successi elettorali del primo o anche solo del fastidio che ci provocano le immagini da stupidi bulli che i secondi hanno postato sui loro account di Facebook. Tutto questo serve in realtà al Potere, dà sfogo a frustrazioni che potrebbero altrimenti pericolosamente dirigersi contro obiettivi più concretamente politici. Garantisce in qualche modo il mantenimento della stabilità. Ebbene non è una novità né un’invenzione recente, è solo la versione (nemmeno tanto 2.0) del panem et circenses di cui scriveva Giovenale e che trova oggi una variante post-moderna nell’intreccio tra sussidi di Stato (fatti a debito) e l’incanalamento del rancore sociale verso il capro espiatorio di turno. In quel Colosseo moderno che sono i social network.

Da Tortora a Pittelli, il giustizialismo italiano che ricorda la Russia degli anni Trenta…Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Agosto 2020. «Uccidete questi cani rabbiosi. Morte a questa banda che nasconde al popolo i suoi denti feroci, i suoi artigli d’aquila! Abbasso questi animali immondi! Mettiamo fine per sempre a questi ibridi miserabili di volpi e porci, a questi cadaveri puzzolenti!». È la conclusione della requisitoria di un grande magistrato del Novecento. Si chiamava Andrey Vysinskij ed era il Procuratore generale della Russia negli anni 30. Il passaggio che ho trascritto, in cui Vysinskij offre un saggio della sua prosa, fa parte dell’arringa finale nella quale il Procuratore chiese la condanna a morte di due alti dirigenti del partito comunista russo, anzi, di due dei leader della rivoluzione leninista del 1917: Kamenev e Zinoviev, vicinissimi durante la rivoluzione a Lenin, poi vicini anche a Stalin ma poi caduti in disgrazia e accusati di trotzkismo. Accusa estrema. Eravamo nell’estate del 1937, la richiesta di Vysinskij è del 19 agosto, fu accolta subito e la settimana successiva la sentenza fu eseguita. Vysinskij era uno di quei magistrati sempre a metà strada tra Procura e politica, un po’ come molti magistrati italiani di oggi. Finì la sua carriera di giurista come ministro degli Esteri. Da Pm era specialista nell’ottenere le confessioni dell’imputato. Con metodi vari, di solito non molto gentili. Anche Kamenev e Zinoviev confessarono il loro tradimento trotzkista. E così confessò l’anno dopo Nikolaj Bucharin, il teorico, il pupillo di Lenin: era famoso come il ragazzo più amato della rivoluzione bolscevica. Fucilato anche lui. Anche lui metà volpe e metà porco, anche se certo non era trotzkista. Da noi no. Per fortuna non siamo a questo punto. Non si fucila nessuno. Il peggio che ti può capitare, se cadi in disgrazia e se un Pm bravino posa su di te il suo sguardo e le sue attenzioni, è quello che sta succedendo in questi giorni, per esempio, a Giancarlo Pittelli, avvocato calabrese, ex parlamentare, catturato in dicembre e spedito al carcere duro di Badu ‘e Carros, quello dei mafiosi e dei terroristi. Sta lì, Pittelli, in fondo a una cella, da otto mesi: le accuse stanno cadendo tutte, una ad una, lui vorrebbe parlare con il Pm che lo ha imputato per spiegare le sue ragioni, dire perché è innocente. Non gli concedono questo colloquio. Non è suo diritto. È in prigione da quasi un anno e non ha potuto parlare mai con il magistrato che lo accusa. La politica lo ha abbandonato, perché la politica, quando vede che uno dei suoi è stato preso, preferisce battersela ed evitare guai. Lo mollano subito. I giornali, di solito, dipendono dalle Procure e quindi, anche se volessero, non potrebbero mai difendere un imputato. Voi forse ricordate qualche campagna giornalistica a favore di un imputato? Ci fu quella per Tortora, sì, che unì tutti, anche Travaglio: però iniziò dopo l’assoluzione. Prima erano tutti lì a fare il tifo per dei Pm incapaci che avevano perseguitato Tortora e lo avevano mandato al macello. Comunque Pittelli non rischia di essere fucilato. Perché sta lì in un buco di cella, isolato e senza che si degnino di interrogarlo? Beh, in questo la somiglianza con la Russia c’è. Vogliono che confessi e possibilmente che accusi qualche altro politico. La chiave per ottenere la libertà, quando ti sbattono dentro senza prove, non è quella di dimostrare la tua innocenza: è la confessione. Per fortuna qui da noi, se confessi – vera o falsa che sia la confessione – ti liberano. Perché a Mosca la beffa era che prima ti facevano confessare e poi ti fucilavano. Però Pittelli non vuole confessare. C’è qualche altra similitudine tra la requisitoria di Vysinskij e noi? Sì, la carica d’odio e la ricerca spasmodica di colpevoli da colpire e da annientare. Fatte tutte le proporzioni tra il loro regime sanguinario e il nostro traballante ma ancora ampio stato di diritto, la mobilitazione politica è molto simile. È scattato quell’equilibrio tra strategia politica dell’establishment e ricerca della perfidia del nemico, che è il cemento di tutte le dittature ma che ha – per quel che riguarda la nostra cultura politica – radici molto robuste soprattutto nello stalinismo. Sono i toni della nuova campagna moralizzatrice – aperta dalla corazzata Inps più 5 Stelle più Lega – che fanno impressione e che ricordano la Russia degli anni Trenta. La ricerca della parola più odiosa, dell’oltraggio, dell’umiliazione del sospetto o del colpevole. L’idea che solo trovando una filiera di colpevoli infami, non ha importanza colpevoli di cosa, si possa garantire la nostra propria onestà e la stabilità di un potere molto fragile. È esattamente da qui che nasce il partito “della caccia”. Che poi sbanda senza problemi da sinistra a destra, e che qui da noi ha origini indiscutibili: nella vecchia tradizione fascista della destra e nello stalinismo che non è mai morto. Lo stalinismo è stata la grande tara che ha frenato le capacità riformatrici della sinistra italiana. La sinistra italiana, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, aveva una potenzialità di pensiero e di progettazione sociale mostruosa. Ma aveva il piombo nelle ali, perché non riusciva a rompere con lo stalinismo. Poi ci fu l’89 e lo stalinismo scivolò rapidissimamente in giustizialismo. Ci mise pochi mesi a camuffarsi. Non è mai morto lo stalinismo della sinistra italiana, anzi si è rafforzato perché ha perduto il freno che gli veniva dal pensiero di sinistra e si è facilmente fuso col populismo post fascista e reazionario. È nata questa ideologia del colpevolismo e dell’infamismo. In queste ore è al diapason. Lo abbiamo già detto ieri, ricorda maledettamente i mesi bui del ‘93, costellati di sopraffazioni di Stato e di suicidi. Ora forse è peggio. Perché è un giustizialismo di governo. Più forte, più sicuro di sé, più arrogante. Proprio come fu lo stalinismo. Ed è sostenuto da una magistratura che ha superato in bellezza lo scandalo Palamara, protetta dall’azione potente e magistrale della stampa. E ora sta per tornare in tutta la sua grandiosità e spietatezza. Cosa vuole? Ve lo dico io: “Metter fine per sempre a questi ibridi tra volpi e maiali…”

Casalino, Fontana e Marini: il garantismo a dondolo è la vera questione morale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Luglio 2020. Ogni tanto qualcuno pone la questione morale. Richiamando Berlinguer. Ha ragione? Bisogna intendersi su cosa significa questione morale. Berlinguer – se capii bene il suo messaggio, consegnato a Scalfari in una celeberrima intervista del 1981 – si riferiva alla moralità nel fare politica. Lui pensava che per fare politica ci volesse una idea politica: che non bastasse un interesse amministrativo, o di piccolo gruppo, o personale. Se è così, io credo che sia aperta una grandissima questione morale. In parte del tutto nuova: quella del tradimento dei principi, e della trasformazione della battaglia politica da battaglia delle idee in guerra del puro e semplice consenso. Non è una cattiva cosa, il consenso. È il pilastro della democrazia. Se però diventa una variabile indipendente delle idee, e degli interessi collettivi, e del diritto, allora è una pessima cosa. Oggi i leader politici pensano di poter sostenere con passione un principio, e negarlo, o rovesciarlo, dopo 15 giorni. E pensano che non ci sia niente di male, in questo, se corrisponde a esigenze della campagna elettorale e della conquista del consenso e del potere. Io invece credo che questo atteggiamento introduca un elemento di immoralità profondissima nella struttura della politica – e anche del giornalismo – e di conseguenza nel cuore della società. È un modo di fare politica che corrompe profondamente il popolo. È il nocciolo duro, l’anima nera del populismo moderno. Mi riferisco in particolare alla questione del rapporto tra giustizia e politica. Esistono due idee (parlo di vere e proprie idee) su questa delicatissima questione. C’è chi pensa che la politica debba prevalere, e non possa sottomettersi alle dinamiche della giustizia, cioè della magistratura, e debba difendere la propria autonomia con tutti i mezzi (lo credeva Aldo Moro, e io penso che avesse ragione); e chi invece pensa che la giustizia sia al di sopra della politica, e la politica debba sottomettersi, anche rinunciando alla propria autonomia in nome di un’etica superiore, e della garanzia di pulizia e di trasparenza (lo credeva Pasolini, e io penso che avesse torto). La prima posizione è quella garantista. La seconda è quella giustizialista. Io, siccome sono garantista, spesso uso la parola “forcaiolo” al posto della parola giustizialista, forse con un eccesso di polemica. Ma qui non voglio fare nessuna polemica coi giustizialisti. Li rispetto, se lo sono davvero, in modo totale. Voglio farla con chi riesce a spostarsi da una all’altra posizione con l’agilità di una scimmia tra i rami della giungla. Ecco qui tre casi, recenti o recentissimi, di intreccio tra politica e giustizia. Caso Fontana, il governatore della Lombardia sospettato di aver fatto pasticci con una donazione di camici e di avere avuto dei capitali in Svizzera e di averli poi “scudati”. Le opposizioni chiedono che si dimetta. In particolare i 5 Stelle, il Pd sembra più cauto. Fontana ha ricevuto un avviso di garanzia. Caso Casalino. Il portavoce del premier ha un compagno che ha giocato in borsa delle cifre altissime, molto superiori alle sue possibilità economiche. Ha giocato in borsa utilizzando informazioni riservate? Non ci sono avvisi di garanzia. La destra chiede le dimissioni di Casalino I 5 Stelle lo difendono. Il Fatto, domenica, ha dato la notizia piccola piccola a pagina 15.  Caso Marini. La presidente della regione umbra, un anno fa, ricevette un avviso di garanzia per un reato non molto conosciuto: “concorso in abuso di ufficio”. L’abuso di ufficio era attribuito al dirigente di una Asl, per alcune assunzioni.  Marini fu considerata complice. L’inchiesta non si è ancora conclusa con un rinvio a giudizio, più di un anno dopo. All’epoca la destra fu inflessibile. Anche i 5 Stelle. Salvini andò a Perugia e tenne un comizio oceanico per chiedere le dimissioni della Marini. Il Pd, come spesso gli succede, ebbe paura e impose le dimissioni alla Marini. Aggiungiamo un quarto caso, che serve per capirci meglio: circa quattro anni fa Matteo Renzi, all’epoca premier, incontrando De Benedetti sulla porta di un ascensore, rispose a una sua domanda sostenendo che pensava che la riforma della banche popolari si sarebbe fatta. Da quel giorno Il Fatto di Travaglio almeno una volta al mese pubblica in prima pagina un articolo per chiedere che Renzi e De Benedetti siano processati per aggiotaggio. Domanda: e Casalino? Salvini voleva la cacciata con infamia di Catiuscia Marini. Domanda: e Fontana? I Cinque Stelle vogliono cacciare Fontana. E Casalino? La destra vuole cacciare Casalino. E Fontana? Volete che continuo? Sapete come si chiama questa posizione ideologica che prevede il giustizialismo feroce con gli avversari e il più rigoroso garantismo coi propri amici? Si chiama “Garan-forchismo”. È una posizione politica intollerabile. Provoca guasti inauditi nell’opinione pubblica e rende impossibile lo stato di diritto, corrompe profondamente i partiti e i gruppi parlamentari. Quali partiti riguarda? Direi tutti, forse escluso un pezzettino piccolo di Forza Italia (ma non tutto il partito). È uno dei drammi dell’Italia.

Giancarlo Caselli e quella nostalgia per il sistema inquisitorio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Ha proprio ragione il dottor Giancarlo Caselli. Se si attuasse la separazione delle carriere tra giudici e rappresentanti dell’accusa, questi ultimi finirebbero con l’acquisire un potere tale da rafforzare quel Partito dei pm “di cui taluno favoleggia”. Potrebbe essere così, in effetti. A meno che. È proprio in “quell’a meno che” che si sviluppano le differenza tra i paesi liberali, in cui l’indipendenza e la terzietà del giudice sono sacre, ma per il rappresentante pubblico dell’accusa non può esserci autonomia senza responsabilità, e i Paesi dove vigono i regimi e le caste senza controllo. Come è purtroppo l’Italia. Scrive parecchio, in questo periodo, il dottor Caselli. Il suo ragionamento, come quello di ieri sul Corriere della sera, fila sempre diritto, con uno schema hegeliano ricco di certezze. Anche quando si esprime sul Fatto, non è mai grillino, piuttosto esprime la cultura tradizionale di quei magistrati italiani che rimpiangono le inchieste segrete del sistema inquisitorio e che hanno mal digerito il nuovo codice di procedura penale di tipo accusatorio. Che è però rimasto incompleto, purtroppo, proprio perché la commissione che l’aveva elaborato non ha potuto o voluto completarlo con la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Né il Parlamento, nella prima, nella seconda e giammai nella terza repubblica ha osato farlo. Così, in quell’ “a meno che” dell’ex procuratore Caselli c’è la bestia nera dei magistrati conservatori o reazionari, la famosa dipendenza del pubblico ministero dal ministro di giustizia. Come se fosse uno scandalo il fatto che un governo – è quel che succede nella gran parte dei Paesi occidentali – possa elaborare un programma di politica criminale, con le proprie priorità e i propri metodi di intervento. Ed affidarne ai pm la sua esecuzione. Non è quello che fa per esempio il procuratore nazionale antimafia? Nella stessa sua definizione di “anti” non c’è un suo modo di essere Stato, governo, più che magistrato nell’accezione italiana? Di chi è il compito di lottare contro i crimini, del magistrato o del governo con i suoi apparati di sicurezza? La giurisdizione (juris dicere) è compito del giudice, non dell’avvocato dell’accusa. Non esiste Paese occidentale in cui il pubblico ministero abbia un potere in cui l’indipendenza prevalga sulla responsabilità come è in Italia. Il pm appartiene allo stesso ordine dei giudici, nessuna istituzione gli può dare istruzioni, il suo status è regolato esclusivamente da quel Consiglio superiore in cui ormai i pm la fanno da padroni, nessun ministro può interferire sulle valutazioni della sua professionalità, che del resto nessuno metterà mai in discussione, visti i ridicoli risultati della commissione disciplinare. A meno che non ci si chiami Luca Palamara e non si sia cascati all’interno di uno scontro politico-giudiziario più grande di lui. E a questo punto, considerando anche gli eventi dell’ultimo anno, non possiamo non citare altre due specialità dell’anomalia italiana: la potenza di un sindacato che ormai fa barba e capelli alla confederazione Cgil-Cisl-Uil, l’Associazione nazionale magistrati, e la visibilità mediatica che, da Di Pietro in avanti, può rendere un semplice sostituto più potente dei suoi stessi capi. Potente e intoccabile. Giancarlo Caselli, un po’ obtorto collo, conviene sulla separazione delle funzioni, che già esiste, se pure in forma molto limitata in termini logistici e geografici. Ma non riesce a levarsi dalla testa quello che è un po’ il tarlo che avvicina una parte della sinistra al Movimento cinque stelle, quel moralismo che ha sempre tenuto insieme in Italia, le due vere chiese, quella cattolica e la comunista. Se il pm prende ordini dal ministro, è il solito ragionamento, chi potrà più fare le inchieste sulla corruzione? Come se nel Paese non esistessero più la mafia e la ‘ndrangheta, e gli omicidi, gli stupri e le rapine. Come se i ministri guardasigilli (Bonafede, può ringraziare) fossero tutti corrotti o impegnati a proteggere gli amministratori disonesti. Vien da dire: caro dottor Caselli, fosse solo questo il prezzo da pagare per poter vivere in un Paese veramente libero e liberale, chissenefrega dei corrotti!

Il ripristino della pena di morte durante il Fascismo: “Non ci sono prove, ma qualcosa avrà fatto…” Alberto Cisterna su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Lunedì 27 ottobre del 1930 (anno VIII dell’era fascista). Entrava in vigore il codice penale tuttora vigente. Con quell’opera monumentale il ministro della giustizia, Alfredo Rocco, portava a compimento anche il suo progetto di ripristinare la pena di morte per i reati comuni, abolita nel Regno d’Italia sin dal 1890. L’uomo era un giurista raffinato e, sapendo di dover far di conto con la dottrina penalistica italiana ancorata alla lezione di Cesaria Beccaria, scriveva nella “Relazione a Sua Maestà il Re” per la presentazione del Codice: «Egli è considerato generalmente come il primo e più celebre avversario della pena di morte. E poichè il Beccaria fu italiano, da molti si considera la teoria abolizionista come una gloria italiana, che i progetti tendenti al ristabilimento della pena di morte condurrebbero ad offuscare. Nulla di più falso… Nel suo libretto Dei delitti e delle pene egli così scrive: “La morte del cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando, anche privo di libertà, egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione… e quando la sua morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti”» (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, 26 ottobre 1930, n.251, p. 4450). Ci sarebbe da tornare su questo passo del Beccaria e ragionare su come si acconci per quei casi di ergastolo ostativo, vigenti nel nostro Paese, quando il carcere a vita viene dispensato senza la possibilità di alcun beneficio penitenziario nella convinzione che il condannato «anche privo di libertà… abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione». Nel decennio 1931-1940 le condanne a morte comminate dalle corti italiane per delitti comuni furono 118 e 65 furono effettivamente eseguite (G. Tessitore, Fascismo e pena di morte. Consenso e informazione, Franco Angeli, 2000). Tre di queste pene capitali furono eseguite a Reggio Calabria, in una giornata piena di sole, in una vallata a ridosso della città, dove si accalcarono migliaia e migliaia di persone per assistere alle fucilazioni ordinate dalla corte d’assise il 18 agosto 1936. Un processo che aveva scosso la città quello delle “tre fosse”. Nel greto di uno dei torrenti che tagliavano in due la città erano state scoperte tre fosse, due delle quali erano servite “per occultare i cadaveri” di due giovani vittime, mentre la terza, trovata vuota, era stata preparata in vista di un prossimo, terzo omicidio. A scuotere la città era stato la morte di una giovane ragazza, Maria Teresa Ferrante, uccisa nella notte tra il 6 e il 7 maggio 1933. Una giovane assassinata dopo essere stata violentata e una fossa ancora vuota erano un’ombra terribile, il panico rischiava di assalire la popolazione impaurita. C’era quanto bastava per indurre il federale fascista di Reggio Calabria, un abruzzese caparbio e inflessibile, a pretendere che si facesse giustizia e pure in fretta. Le indagini giunsero alla conclusione che la morte della giovane non era da ricondurre a contese all’interno della malavita locale, ma che era maturata nell’alveo della sua famiglia. Era stata la matrigna di Maria Teresa Ferrante a volerne l’uccisione perché la giovane aveva sospettato che fosse stata costei la mandante del tentato omicidio del padre, maturato a seguito di dissidi coniugali. La donna, Artuso Antonietta, aveva richiesto l’esecuzione dell’omicidio a un piccolo camorrista reggino, tale Antonino De Stefano, il quale secondo l’accusa, prima di uccidere la ragazza, aveva chiesto l’autorizzazione al suo capo società, tale Francesco Mandalari. Mandalari, per quel che si sapeva della criminalità organizzata, non poteva non essere stato messo al corrente dal suo subordinato di un’azione del genere . Secondo la sentenza, Mandalari non si era limitato ad approvare l’omicidio, ma abbastanza inspiegabilmente aveva affiancato al De Stefano un suo uomo di fiducia, tale Amedeo Recupero. A fronte del successivo tradimento del Recupero, Mandalari ne aveva decretato l’uccisione, andando così a riempire la seconda delle fosse. Scrisse la corte d’assise: «L’esecuzione del Recupero è ripetizione di quella precedente della Ferrante, due colpi alla nuca alla prima, due colpi alla nuca al secondo; il terzo colpo finale alla prima vittima abbattuta, il terzo colpo finale all’altro; denudata l’una, denudato l’altro, buttata nella fossa l’una, buttato l’altro». Il dato macabro – e invero inusuale per un capo dell’onorata società calabrese – era che Mandalari, nell’autorizzare l’omicidio della ragazza, avesse «espresso il desiderio di possederla e tenerla a sua disposizione due o tre giorni». Un dato anomalo. Una ricostruzione che poteva costare la pena capitale per Mandalari e i suoi complici. Era il primo caso da condanna a morte dopo la riforma di Alfredo Rocco anche in quella terra. Tre in una volta dovettero sembrare un’enormità ai giudici popolari che facevano parte della corte d’assise. Certo Francesco Mandalari era un fior di mascalzone, un delinquente incallito, un maneggione collegato alla bassa politica locale. Il regime fascista voleva un risultato eclatante e pretendeva una prova di forza contro la picciotteria reggina, rea di molti delitti e soprattutto di una pervicace ostinazione al nuovo corso d’ordine imposto dal duce. In quella camera di consiglio, rimasta segreta e inviolabile, un distinto professore di antica cultura liberale, e fascista per necessità, guardava perplesso il presidente della corte d’assise che con fervore sosteneva la colpevolezza degli imputati e di Mandalari per primo, il peggiore del gruppo diceva. Quel minuto professore si fece forza e, nel silenzio tombale di quella stanza del tribunale reggino, cominciò a snocciolare i propri dubbi. Quello stupro anomalo, l’affiancamento al killer di una povera ragazza addirittura di Amedeo Recupero, il pupillo preferito del capo che «in giovane età era stato accolto in casa del Mandalari e assunto da questi come operaio» non lo convincevano. Certo qualcuno aveva indirizzato la polizia alle tre fosse e aveva fatto scoprire i due cadaveri. Ma perché denudarli entrambi, perché marcare in questo modo così esplicito e inequivoco la tesi della violenza sulla povera ragazza di cui non si aveva, ovviamente, alcuna prova a distanza di tanto tempo dalla morte. Erano incoerenze che gli attraversavano la mente. Non era un giurista, quel professore, insegnava in un liceo classico. Sapeva dei processi quel che aveva imparato dalla storia e dai libri, ma soffriva di una malattia inguaribile: aveva dei dubbi. All’ennesima obiezione, nell’aria afosa dell’agosto reggino, in quella stanza piena di giudici popolari sudati, con il caldo che assaliva la mente e sfibrava il corpo, il presidente poggiò le mani sul tavolo e si chinò sulle carte. Poi, quasi piegato in due, neanche fosse il duce chino sul balcone di Palazzo Venezia, volse lo sguardo al professore seduto al suo fianco e concluse: «Professore se non hanno fatto questo hanno fatto altro questi delinquenti, vanno fucilati». Alfredo Rocco era morto esattamente un anno prima, il 28 agosto 1935. Ma il ministro nelle sue convinzioni sulla pena di morte non era isolato: «Il ripristino della pena capitale non sconvolse né scandalizzò gli italiani, ma fu sorprendentemente quasi imposto ad un tentennante Mussolini non solo dagli atteggiamenti intransigenti dei duri del regime, ma anche dal coro quasi unanime degli addetti ai lavori, magistrati, docenti e persino avvocati, formatisi culturalmente in periodi in cui del fascismo non potevano avvertirsi nemmeno le più lontane avvisaglie» (Tranchina–Fiandaca nella prefazione a G. Tessitore, op. cit., p.14). Quanto a Mandalari, una sbrigativa annotazione lo inserisce nella macabra storia della pena di morte in Italia: «non si esitò, peraltro, a comminare la pena di morte ad uno dei capi della ‘ndrangheta calabrese, Francesco Mandalari, fino ad allora ritenuto intoccabile, per violenza carnale e concorso in duplice omicidio, di cui era stato identificato come mandante» (G. Portalone, La politica giudiziaria del fascismo, 2000). Se non aveva fatto quello, aveva certo fatto altro.

Così il giustizialismo diventò religione di Stato. Alessandro Barbano su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito un ampio stralcio de “Il Paese e la Luna”, uno dei due importanti capitoli che Alessandro Barbano dedica alla questione giustizia all’interno del suo nuovo saggio, “La visione – Un’altra politica per guarire l’Italia” (Mondadori, 120 pp.) La prescrizione è il dito del populismo frapposto tra gli occhi del Paese e la luna. Tutti lo guardano, e si dividono sul giudizio. E tutti ignorano la luna, la madre di tutte le emergenze, il buco nero della nostra democrazia. […] La luna è un sistema malato, che fa male al Paese. Perché troppe cose sono andate fuori posto. Il ruolo del pm è senza dubbio la prima, ma non l’unica, ad avere scarrocciato dai binari di una fisiologia sana, per diventare un fattore di turbativa del sistema giudiziario e di quello democratico, in cui il primo è iscritto. Nel nostro sistema l’indipendenza del pm coincide con la sua irresponsabilità. Non solo rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche rispetto al suo stesso ufficio, dove opera esercitando un pieno controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle sue indagini. In un sistema accusatorio incompiuto, dove il ruolo dell’accusa è andato via via crescendo rispetto a quello della difesa, il pm si muove per tutta la lunga fase delle indagini preliminari come un poliziotto totalmente indipendente. Ciò rappresenta un unicum rispetto alla maggior parte delle democrazie liberali, dove non esiste una figura processuale dotata di poteri di polizia tanto ampi quanto non soggetti a controllo. Manca anzitutto un controllo gerarchico, perché l’azione di ogni singolo magistrato inquirente è ancora sottratta, in nome dell’indipendenza, a un vaglio di merito da parte del capo dell’ufficio. Non è un caso che quando il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, chiede di essere preventivamente informato dell’iscrizione nel registro degli indagati di persone coinvolte nelle indagini, si scateni la protesta dei suoi sostituti. E manca un controllo giurisdizionale connesso a una effettiva responsabilità rispetto all’appropriatezza dell’azione penale. Perché, se pure a distanza di anni il giudizio di appello o di Cassazione certifica che questa è stata avviata per motivi penalmente irrilevanti o addirittura inesistenti, nessuna responsabilità concreta sarà mai imputata al pubblico ministero, né sotto il profilo disciplinare né ai fini di una valutazione della sua professionalità. Ogni tentativo di configurarla s’infrange contro il muro dell’obbligatorietà dell’azione penale, in nome della quale è sempre possibile invocare l’esistenza di indizi di reato che il pm era tenuto a verificare. Così questo principio costituzionale compie il miracolo di trasformare la più spregiudicata discrezionalità in un atto dovuto per legge. Come ci ricorda uno dei più autorevoli studiosi dei sistemi penali, Giuseppe Di Federico, il pericolo dell’arbitrarietà è tanto più grande in un Paese dove i reati commessi sono molto più numerosi di quelli che concretamente possono essere perseguiti. Ciò significa lasciare al pm, attraverso la sua insindacabile scelta, l’esercizio della politica criminale, cioè l’indirizzo degli strumenti predisposti dal sistema per contrastare la criminalità. Ma in nessuno dei Paesi a consolidata tradizione democratica la politica criminale è sottratta alla responsabilità di organi che rispondono politicamente ai cittadini. Questo sconfinamento in un ambito propriamente politico si specchia in quel fenomeno di irrituale investitura popolare che la magistratura in Italia ha ricevuto in alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e che rappresenta una prima turbativa rispetto alla separazione dei poteri su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm) riflette tutte le contraddizioni qui raccontate. È un organo politico-corporativo a cui spetta il delicato compito di decidere gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in assenza di un sistema gerarchicamente organizzato, cioè in assenza di una subordinazione che rifletta una gerarchia dei saperi e delle esperienze a cui far corrispondere coerenti valutazioni di merito. A cos’altro appendere allora il destino delle carriere, se non ai rapporti di forza e agli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le aggregazioni in cui la magistratura si divide e si articola? Ci sono procure che sono rimaste scoperte per più di un anno per il mancato accordo tra i diversi cartelli della magistratura associata, altre che sono state coperte solo dopo una spartizione concordata, con reciproche concessioni, di tutti i posti vacanti. […] La seconda asimmetria della giustizia italiana è l’ampiezza della custodia cautelare. Più di un detenuto su tre, cioè il 34,5 per cento contro una media europea del 22,4, è in carcere in attesa di giudizio, cioè in assenza di una sentenza definitiva che ne certifichi la colpevolezza. Ed è sintomatico che questa percentuale sia rimasta altissima nonostante che i presupposti per l’adozione delle misure cautelari siano stati modificati in maniera più stringente, incentivando anche il ricorso alla detenzione domiciliare. Ciò vuol dire che le riforme garantiste scivolano sul corpo di un sistema dove sono i rapporti di forza tra i vari attori a fare in concreto la legge. Il terzo fattore di squilibrio del sistema è il più grave ma anche il più sottovalutato, perché più tecnico e più difficilmente comprensibile dai cittadini. Riguarda lo slittamento da un diritto penale fondato sul reato a un diritto penale centrato sulla figura del reo. Un diritto penale di marca liberale mette al centro il fatto tassativamente descritto dalla norma, in quanto lesivo di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Il reato di omicidio persegue l’atto di uccidere che attenta al bene, massimamente protetto, della vita umana. Ciò implica due conseguenze: la prima è che la gravità del reato si collega alla sua offensività, cioè alla sua capacità di danneggiare il bene, oggetto di tutela […] La seconda conseguenza riguarda il rapporto dell’azione penale con il reo: se persegue l’assassino, lo fa in quanto colpevole, cioè autore del fatto che costituisce il reato. Il comportamento o, addirittura, la personalità dell’omicida valgono per valutare la gravità del reato nel contesto in cui si compone il fatto, non come elementi penalmente rilevanti in sé. In un diritto liberale è la colpevolezza, non la pericolosità, il presupposto dell’azione punitiva dello Stato. Perché la pericolosità è potenzialmente insidiosa. Implica un giudizio dell’autorità sul presunto reo che non rispetta i confini di tassatività della norma penale e il più delle volte sconfina nel soggettivismo. Il diritto penale in Italia sta sposando in modo molto rischioso la pericolosità. Anzitutto con una serie di reati inoffensivi in sé, cioè privi di una lesione del bene giuridico. Pensate per esempio al traffico di influenze, una fattispecie introdotta dalla legge Severino il cui confine con l’attività lecita del lobbismo è del tutto indeterminato e, quindi, soggettivamente determinabile. La tendenza a fare della pericolosità – o anche del semplice pericolo di un pericolo – il fondamento dell’accertamento penale e della sanzione è specchio dell’influenza che ha il processo mediatico nel processo penale e della confusione che tra i due livelli si determina. Con l’effetto che l’oggetto del contendere non sono più i fatti costituenti reato, le azioni per compierli e gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, ma le mere intenzioni non qualificabili come elementi della colpevolezza, e perfino i desideri irrealizzabili dei soggetti che entrano nel radar dell’indagine. Ciò che rende intenzioni e desideri legittimamente ostensibili non è la fondatezza probatoria, ma l’intensità del sospetto, desumibile dal numero di associazioni e collegamenti che è possibile stabilire tra le notizie acquisite. È in questa valutazione quantitativa che la captazione informatica di una microspia diventa centrale, per la sua capacità di condensare la grande mole di dettagli, indizi, associazioni e richiami presenti in una sezione di relazioni personali. Ma la raccolta e l’esibizione indiscriminate di reperti umani si rivelano invasive oltre ogni limite. Non solo perché ignorano qualunque distanza spaziale tra noi e gli altri, liquefacendo nell’iperpubblicità dell’indagine preliminare la privatezza e perfino il pudore di una confidenza. Ma perché, costipando la dimensione del tempo in un presente fatto di attimi captati, riducono la volontà delittuosa a un’espressione, riavvolgono la colpevolezza in un frammento in cui si perde ogni differenza tra un piano e un’intenzione, tra un’intenzione e un desiderio, e tra un desiderio e un’emozione. Il processo mediatico prevale sul processo penale, e un metodo, che non fa onore a chi scrive definire «giornalistico», tipico del primo, si insinua nel secondo, alimentando una confusione pericolosa. Così si realizza quello slittamento da una giustizia che punta ad accertare la colpevolezza a una che si contenta di rappresentare una pericolosità desumibile da un giudizio sulle intenzioni e sulle relazioni. La confusione non opera solo sovrapponendo un giudizio mediatico a un giudizio penale, e oscurando quest’ultimo a vantaggio del primo. […] Ma c’è ancora uno spazio amplissimo in cui la democrazia italiana ha sdoganato la pericolosità come il fondamento della pretesa punitiva dello Stato: è la legislazione speciale antimafia, interamente fondata sul sospetto, e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische. Il suo libro sacro è il codice per l’applicazione delle cosiddette «misure di prevenzione», che consente allo Stato di acquisire patrimoni finanziari, immobili e aziende in assenza di un giudicato penale, cioè prima che sia intervenuta una sentenza di condanna. La sottrazione della proprietà avviene con un procedimento in camera di consiglio, che valuta la pericolosità sociale dei titolari dei beni e l’inspiegabile sproporzione tra la ricchezza conseguita e i mezzi professionali e finanziari diretti a produrla. Queste misure di prevenzione sono il sistema normativo più illiberale dell’Occidente. Sono figlie di un diritto cosiddetto «del doppio binario», un diritto autoritario e senza garanzie, che scorre parallelamente a quello ordinario. Fu adottato dopo l’Unità d’Italia dalla Destra storica per debellare i briganti, usato in seguito dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, poi fatto proprio dal fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l’intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. È la legge dei cattivi, delle regole spicce, del fine che giustifica i mezzi. Lo abbiamo eternato per combattere la mafia. E lo abbiamo difeso contro ogni evidenza e ogni censura, come quella della Corte di giustizia europea, che ha invano esortato l’Italia a circoscriverne le fattispecie di pericolosità sociale, perché ritenute troppo generiche. Da qualche anno il diritto del doppio binario si è esteso a una enorme serie di ipotesi accusatorie, che vanno dalla mafia al peculato semplice, passando per la corruzione e l’abuso d’ufficio. Così la giustizia somiglia a un luogo dove si può entrare inconsapevolmente ben vestiti e uscirne dopo anni nudi, senza sapere perché. Se quello fin qui compiuto è, a grandi linee, il racconto della luna, da questa complessità il riformismo deve partire. Con un disegno organico, capace di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, di rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, di riformare il Csm, ridefinendo i confini di un’indipendenza a vantaggio di principi di efficienza organizzativa, di limitare l’abuso della custodia cautelare, di riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, di cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia, di ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando e riducendo i tempi dei processi, e da ultimo di restituire concretezza ed effettività alle garanzie difensive, mortificate da una prassi inquisitoria che si afferma contro gli stessi codici. Questo progetto riformatore non ha nessuna possibilità di superare le resistenze corporative di un sistema refrattario a qualunque modifica, se non è sostenuto da una retorica autenticamente liberale, alternativa e opposta a quella del giustizialismo. Contro questa trincea difensiva si sono infranti tutti i tentativi di rimetterlo in discussione negli ultimi tre decenni. Ma prima ancora che nel Parlamento e nell’universo del diritto la riforma va costruita nel Paese. C’è un punto della nostra storia repubblicana in cui la notte della giustizia ha gettato l’Italia in un buio asfissiante, in cui l’indagine, il sospetto, l’ansia della punizione sono diventati la grammatica di una «democrazia penale». Questo non ha coinciso con un singolo provvedimento legislativo, ma con il prevalere di un’idea nel corpo sociale: che conoscere il contenuto delle intercettazioni penalmente irrilevanti fosse giusto e doveroso per illuminare il lato oscuro del potere. Quando un simile convincimento si afferma come una religione civile, di marca illiberale, perfino il valore della trasparenza muta in ipersorveglianza e la stanza di vetro della democrazia somiglia a una stanza dell’orrore. La riforma della giustizia coincide perciò, più di ogni altro obiettivo politico, con una convincente pedagogia civile, diretta a ricostituire nell’opinione pubblica le ragioni dello Stato di diritto.

Intervista ad Alessandro Barbano: “Tribunali ridotti a macchine del dolore dagli ultras della morale”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Luglio 2020.

Alessandro Barbano ha scritto un vero manifesto politico. Come è nata l’idea de “La visione”?

«È nata perché credo che la funzione del giornalismo debba essere anche quella di provare ad anticipare e non solo raccontare quel che è già accaduto, ma ipotizzare una prospettiva. Con questo libro volevo parlare di cosa si muove nella società, di quali sono le domande sociali e di quali possono essere le riposte».

Muovendo da un assunto di partenza: al populismo si può e si deve contrapporre un ritorno alla politica, alle culture politiche riformiste.

«Sì, prendo le mosse dalla constatazione che la democrazia italiana, a differenza di tutte le altre democrazie, ha conosciuto e conosce una quota di populismo strisciante che si aggiunge al populismo consapevole, dichiarato e rivendicato. Una quota di populismo inconsapevole che ne porta il tasso nella classe dirigente e nell’opinione pubblica intorno se non sopra al 50%: un unicum in Europa».

Un quadro a tinte fosche a carico dei “populisti per caso”.

«Sono convinto che esiste spazio per una scelta diversa. Oggi abbiamo un’offerta politica segnata da un bipolarismo contrappositivo tra una destra egemonizzata da Salvini e una sinistra in cui l’alleanza incompiuta tra Zingaretti e Cinque Stelle consegna il Pd al populismo ideologico del M5s, rendendolo subalterno e con questo venendo meno alla natura stessa del loro patto fondativo».

Quale conseguenza trae?

«L’idea che questa offerta politica possa essere esaustiva non è credibile. Dobbiamo fare ricorso alla cultura politica liberale, quella riformista/socialista e quella popolare per ritrovare le radici che hanno dato forza al nostro Paese nelle scelte più difficili della sua vicenda storica repubblicana».

Tanto più oggi, nel mezzo di una crisi inedita, per molti versi.

«La polarizzazione del quadro politico, con una destra sovranista che tutto semplifica e una sinistra frantumata ancora alla ricerca di un’identità, ha imposto una visione «virologica» della crisi, in cui la classe dirigente ha abdicato alla sua funzione di filtro delle decisioni. Il terzo polo e i progetti di centro in Italia non hanno più funzionato, nella Seconda Repubblica. Eppure vale la pena di interrogarsi se esista lo spazio per un riformismo alternativo capace di sanare la frattura che si è creata fra libertà e responsabilità, uno spazio dove recuperare la complessità del reale che il populismo e un certo giornalismo d’assalto mirano a banalizzare. Un contenitore capace di dare risposte complesse ma credibili a problemi specifici. “Visione” ha due accezioni. “Vision” indica in politolinguistica una strategia, una visione prospettica. Ma avere una visione significa anche prendere un abbaglio, avere un’allucinazione visiva. Io cerco di studiare i fenomeni, dati alla mano. E quella di cui parlo è una visione alternativa alla destra e alla sinistra, estranea ai vecchi contenitori e autonoma rispetto alle future alleanze; capace di chiamare alla responsabilità una leadership autorevole e un quadro dirigente plurale, e di attuare scelte ispirate a una visione strategica e non solo tattica».

Intanto però scivoliamo verso l’assolutismo giudiziario.

«Io nel libro parlo di integralismo moralistico. Lo stesso che ci ha fatto pensare che il Covid fosse una condanna divina degli eccessi del capitalismo. Si leggeva ovunque che dovevamo espiare, fermare il mondo. Il compito che certa politica affida alla giustizia, appunto quello di fermare il mondo. Questa idea del giustizialismo non è di oggi. Arriva in perfetta linea di continuità dopo dieci anni di governo giallorosso, gialloverde e prima ancora, del centrosinistra. La prescrizione sine die non l’ha inventata Bonafede, l’ha inventata uno dei tanti magistrati imbarcati dal Pd per sfidare Berlusconi, Casson. Durante i governi precedenti il guardasigilli Orlando aveva tenuto una politica che aveva aumentato il tasso di giustizialismo in maniera assoluta. Di fronte all’emergenza le democrazie più fragili slittano verso l’illiberalismo».

Forse la riforma della giustizia non si può affidare a chi l’ha affossata.

«La giustizia in questo Paese è una macchina del dolore non giustificabile. Ha un impatto sulla vita delle persone che è un grandissimo carico di dolore non giustificabile, che contraddice i valori della democrazia liberale. Prendiamone atto. La giustizia è stata concepita alla pari con il potere esecutivo e il potere legislativo. Ed è sbagliato. C’è bisogno di una gerarchia diversa. In una democrazia parlamentare il legislativo deve essere il primo dei poteri. E sottoporre a un controllo democratico il potere giudiziario».

Da dove nasce il vulnus del nostro diritto?

«Da un gigantesco equivoco che ha visto slittare il diritto penale dal fatto al reo. Non si condanna più un delitto accertato, si condanna la pericolosità sociale di chi è accusato o anche solo sospettato di aver commesso un reato. Si procede per sospetti preventivi generalizzati e per condanne sociali e mediatizzate. I nazisti facevano lo stesso: incolpavano genericamente gli ebrei di tradire la patria, gli zingari di rubare, condannandoli tutti senza accertare i fatti. Il diritto diventa così illiberale e crea i presupposti per il cosiddetto “secondo binario”, che è il diritto dell’antimafia, qualcosa di orrendo. Pervade la democrazia italiana, freno lo sviluppo delle imprese, confisca patrimoni in assenza di elementi di colpevolezza».

A chi si rivolge questo libro?

«A chi crede che sia oggi necessaria una fase di rifondazione del sistema-Paese. A tutti coloro che non si arrendono, e spero siano tanti».

La passione di Gratteri e del trio-manetta Travaglio, Lillo e Barbacetto per le carceri. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Giugno 2020. È una attrazione irresistibile quella di Nicola Gratteri per il carcere. Lui considera il carcere il dono più prezioso che ci è stato consegnato dalla modernità. Lo coltiva. E condivide questa sua passione coi ragazzi del Fatto Quotidiano, in particolare con loro tre, gli inseparabili: Travaglio, Lillo e Barbacetto. Articoli e distintivo.  L’altro giorno i tre hanno dedicato una parte importante del Fatto Quotidiano alla loro battaglia preferita. Hanno scoperto, grazie a una lettera segreta di una dirigente del Dap (dipartimento penitenziario) ai direttori delle carceri, che i detenuti in regime di Alta Sicurezza soffrono troppo poco. Per ore vengono lasciati liberi per i corridoi e questo non è un bel modo per tenere la gente al carcere duro. Le celle allora a che servono? E a che serve mantenerle sovraffollate, in modo che il detenuto possa soffrire ben bene, se poi dei direttori di carcere mollaccioni gli aprono le porte per ore e ore e gli permettono di sgranchire le gambe nei corridoi? Dove sono finiti letto di pietra, pane ed acqua? Marco Lillo (che dei tra inseparabili è sempre il meglio informato, spesso informato meglio dello stesso Gratteri) fa capire che la colpa di tutto è di quel poco di buono di Santi Consolo, ex magistrato che per quattro o cinque anni ha diretto il Dap, scelto – manco a dirlo – da quei libertini-libertari del centrosinistra, tipo il ministro Orlando, un debosciato che se non proviene da Lotta Continua poco ci manca. Consolo ha trasformato i reparti di Alta Sicurezza, dove vivono circa 10 mila detenuti, in centri estivi. Stabilito che tutto ciò è indecente, Barbacetto si è incaricato di andare a chiedere a Gratteri, il Procuratore di Catanzaro, cosa bisogna fare per porre fine a questa vergogna. E Gratteri – preso in contropiede – come al solito ha commesso un po’ di errori nelle risposte, perché le cose le sa ma non tutte bene. Ha cominciato col definire il 41 bis “carcere duro”. Vaglielo a spiegare che non si deve usare questo termine. Lo usiamo noi garantisti, polemicamente, non lo devono usare i magistrati. Il carcere duro in Italia è proibito dalla Costituzione, articolo 27. Fior di magistrati e di politici e di giornalisti ci hanno messo la faccia nella campagna per sostenere che il 41 bis è solo una misura di sicurezza e non è carcere duro, poi arriva lui e rovina tutto. Dopodiché Gratteri ha spiegato qual è la sua soluzione per evitare il sovraffollamento nelle carceri. Voi sapete che se chiedi a qualunque giurista come si può evitare il sovraffollamento, lui vi risponderà o proponendo l’amnistia (una minoranza) o la depenalizzazione di molti reati, soprattutto di quelli che hanno portato in prigione decine di migliaia di ragazzi tossicodipendenti, o, infine, la scarcerazione anticipata di chi deve scontare ancora solo pochi mesi. Beh, queste soluzioni a Gratteri ovviamente non piacciono (e tanto meno al trio-manetta del Fatto). E lui propone allora di costruire quattro maxi carceri da 5000 letti ciascuno. Con ventimila posti nuovi, hai voglia ad arrestare! L’idea è quella di dare vita a vere e proprie cittadine-gattabuia. E Gratteri, per dare forza a questa tesi, spiega che in America, nel regno delle libertà, le carceri hanno migliaia e migliaia di posti, mentre da noi sono piccole piccole. Ci sono un paio di osservazioni da fare – con gentilezza, in modo da evitare che Gratteri si offenda e ci quereli… La prima è questa: gli Stati Uniti non sono proprio un esempio di liberalità carceraria. In proporzione hanno quasi dieci volte più prigionieri dei paesi europei. In Occidente hanno il record inavvicinabile del forcaiolismo, da questo punto di vista, e superano persino parecchi paesi arabi.  La seconda cosa è che questo carcere di New York del quale lui parla non è vero che ha 18mila posti ma ne ha circa 9 mila. Sempre molti, certo, ma perché un magistrato deve essere così impreciso? Se lo è pure nei processi – speriamo di no – stiamo freschi! Ma c’è un’altra questione che Gratteri non sa: a New York è stato approvato un piano per smantellare questo carcere-mostro e sostituirlo con quattro piccole prigioni da 900 posti ciascuna. L’obiettivo è rendere le carceri più piccole e quindi più umane e di ridurre drasticamente il numero dei detenuti. Si è arrivati a questa decisione, e la città di New York ha stanziato 7 miliardi per realizzarla, dopo grandi battaglie da parte dei movimenti dei diritti civili. È bello discutere dei problemi carcerari senza saperne molto. Purtroppo queste discussioni non restano platoniche, ma ci va di mezzo un sacco di gente. I detenuti. È così: nella magistratura c’è una minoranza assai combattiva che è felice solo se può essere aumentato il numero dei detenuti e peggiorata la loro condizione di vita. Anche nel giornalismo è così. Da che dipende? È una lunga storia, che probabilmente ha parecchio a che fare anche con le condizioni nelle quali molte persone hanno vissuto l’infanzia…

Gratteri’s version: Chiù carcere pe’ tutti e pugno duro…Il procuratore contro la “gestione allegra” delle carceri: le regole e il rigore rieducano. Davide Varì su Il Dubbio il 14 giugno 2020. L’ultima apparizione risale al giorno in cui aveva presentato a reti tv unificate la sua ultima operazione antimafia. Ma allora, più che le centinaia di arresti – era l’operazione RinascitaScoot – , fece scalpore la sua frase: “Voglio smontare la Calabria come un treno Lego”, ammise  il procuratore nel corso del suo sermone davanti ai media adoranti. Insomma, Gratteri torna a parlare dopo mesi di silenzio, e lo fa a modo suo.  Stavolta ci parla di carcere, anzi, di carcere duro che, a dispetto di quel che continuano a raccontare i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, è un vero toccasana per i detenuti. In una lunga intervista al Fatto quotidiano – e dove sennò? – il procuratore Gratteri spiega infatti che “lasciare le celle aperte non c’entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti”. Insomma, a chi si ostina a pensare che le misure alternative al carcere siano la strada da seguire, Gratteri contrappone il pugno duro dello Stato che deve rieducare, sì, ma con rigore e le celle ben sigillate. Perché secondo Gratteri, “una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell’ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole”. Certo, Gratteri non chiarisce il significato di “gestione allegra”, ma c’è da presumere che intenda la concessione dei domiciliari a chi è malato. E per quel che riguarda le rivolte, Gratteri è convinto che siano state possibili perché, dice “le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza”. E ancora: “Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti”. Ma la soluzione per Gratteri è una e una sola: “Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario”. Come dire: “Cchiu carcere pe’ tutti!”

Amnistia e indulto resi impraticabili per rispondere alla sete di giustizialismo. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 14 Giugno 2020.

1. Riformare una Costituzione per sua natura destinata a durare nel tempo è impresa difficile quanto scriverne una nuova: ciò rende le sue modifiche strutturali evento raro, spesso destinato al fallimento (citofonare Berlusconi e Renzi). Più utile è porre mano a singole disposizioni, se incoerenti con l’ordito costituzionale. Tale è il suo art. 79 che disciplina l’approvazione di amnistia e indulto, già oggetto di sciagurata revisione nel 1992. Un caso esemplare di riforma sbagliata da riformare di nuovo.

2. L’attuale art. 79 richiede per una legge di clemenza la «maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». È un mostruoso procedimento rafforzato. Le sue soglie superano quelle richieste per leggi costituzionali, così da risultare più agevole modificarne l’art. 79 che approvare un’amnistia o un indulto. Sono quorum che regalano, gratis, paralizzanti veti incrociati: basta che un terzo dei votanti si sfili o minacci di farlo, e il ricatto avrà successo. Risultato? A parte l’indulto del 2006, da trent’anni l’Italia non conosce provvedimenti di clemenza. È un copione andato in scena anche in pieno lockdown. Per disinnescare in tempo la bomba epidemiologica di carceri sovraffollati, serviva un calibrato indulto. Non lo si è preso neppure in considerazione (preferendo scaricare oneri e responsabilità sulla magistratura di sorveglianza). Invocarlo, peraltro, sarebbe stato tecnicamente vano: la maggioranza dolomitica necessaria, calcolandosi sugli aventi diritto al voto, era preclusa in partenza per ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, in un Parlamento che ha scelto di lavorare a ranghi ridotti.

3. Amnistia e indulto, dunque, non si possono né si debbono concedere. Eppure rientrano tra gli strumenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana mette a disposizione del legislatore. Perché, allora, questo tabù? Contro di essi pesano radicate riserve ideologiche, cioè pregiudizi. Nell’ordine: il loro abuso in passato, quando tra il 1953 e il 1990 vennero approvati – in media – ogni triennio. L’essere una cura palliativa per problemi strutturali, destinati a riproporsi. L’enfasi sulla paura collettiva per la messa in libertà di detenuti (che non hanno finito di scontare la pena) e di imputati (che l’hanno fatta franca). La retorica della vittimizzazione secondaria di chi ha subìto il reato. La preoccupazione di non mostrare uno Stato debole, preferendolo tutto chiacchiere e distintivo. Soprattutto, essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Scritta in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, la formulazione ostativa dell’art. 79 fu (anche) una risposta a tali pulsioni giustizialiste. Qui, però, demagogia e intransigenza fanno a pugni con il ripristino della legalità. Quando costringe gli imputati in un limbo processuale infinito, e i condannati in carceri inumani o degradanti, lo Stato vìola la sua stessa Costituzione e i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. A ciò deve porre obbligatoriamente riparo, e presto, esercitando tutte le sue prerogative. Tra queste, la Costituzione annovera anche la clemenza quale strumento di deflazione giudiziaria e carceraria. Il vero problema, allora, è come restituirle agibilità politica e parlamentare. Il che ripropone la necessità di mettere nuovamente mano al suo art. 79. Ci prova ora il disegno di legge costituzionale n. 2456, presentato alla Camera il 2 aprile scorso, per iniziativa di quattro spiriti liberi: i deputati Magi (+Europa), Giachetti e Migliore (Iv), Bruno Bossio (Pd). La premessa da cui muove la riforma è che amnistia e indulto rientrino nell’orizzonte costituzionale di un diritto punitivo rieducativo e mai contrario al senso di umanità. Le leggi di clemenza, infatti, agiscono sempre sulla punibilità, estinguendola: dunque, partecipano della duplice finalità cui la pena deve sempre guardare, da quando nasce «fino a quando in concreto si estingue» (come insegna la Corte costituzionale). Come contenerle entro questo perimetro? Condizionandone l’approvazione a “situazioni straordinarie” o “ragioni eccezionali”. Le prime rimandano a eventi imprevedibili, le seconde a valutazioni collegate all’indirizzo di politica criminale della maggioranza parlamentare. In presenza dell’uno o dell’altro presupposto, debitamente motivato nel preambolo della legge, le Camere approvano l’atto di clemenza secondo l’iter legislativo ordinario, garanzia di massima pubblicità della loro deliberazione. Sulla coerenza tra presupposti motivati in preambolo, contenuto normativo e finalità costituzionalmente orientata, diventa così possibile un duplice controllo di legalità per linee interne alla legge: a monte, da parte del Quirinale in sede di promulgazione; a valle, da parte della Corte costituzionale. Controlli oggi solo teoricamente possibili, ma mai efficacemente esercitabili.  Entro questa cornice, si ipotizza un abbassamento ragionevole dell’attuale quorum deliberativo alla «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella [sola] votazione finale».

4. Ci sono ottimi motivi per sostenere il cammino parlamentare di una simile riforma. Dei tanti che si possono squadernare, ne illustro solo alcuni. Il primo è il disvelamento dell’ipocrisia che l’attuale art. 79 cela: la sua rigidità normativa, infatti, è solo apparentemente virtuosa. In realtà, fu il prezzo pagato all’approvazione della legge di amnistia e indulto del 1990, che estingueva reati riguardanti (anche) comportamenti politici e di partito: quel parlamento, «vergognandosene un po’, se ne assolse firmando un impegno a non farlo più in futuro» (Adriano Sofri). Questo è il contesto rimosso della revisione costituzionale intervenuta nel 1992. Un falso movimento che va invece denunciato, perché da cattive coscienze nascono solo cattive regole che impediscono buone pratiche. Al contrario, la proposta di legge n. 2456 trasforma l’art. 79 da norma sterile, perché interamente difensiva, a norma feconda, perché capace di modellare amnistia e indulto in strumenti di buon governo.

5. Farisaica è anche la granitica contrarietà a leggi di clemenza. È facile dimostrarlo. Quelle misure che – anche nell’attuale legislatura – prendono il nome di rottamazione delle cartelle esattoriali, voluntary disclosure, pace fiscale, saldo e stralcio, altro non sono che condoni fiscali, cioè sospensione per il passato della legge penale, dunque strumenti di impunità retroattiva. Ogni condono altro non è che un atto di clemenza atipica, una “oscena amnistia”, per la concessione della quale però ci si serve della legge ordinaria (approvata a maggioranza semplice) senza temere né il dissenso della pubblica opinione, né la crisi di governo, né la vergogna che pure dovrebbe accompagnare l’ipocrisia di chi, a parole, è incondizionatamente contrario ad atti di clemenza.  La proposta di legge n. 2456 ha anche il merito di squarciare il velo che copre questa doppia morale.

6. Altra ragione a suo favore è nel valorizzare la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Un diritto penale esclusivamente retributivo e vendicativo, applicato in modo meccanico e impersonale, mostra un’arcaica origine veterotestamentaria. La logica degli atti di clemenza è invece quella evangelica, spiegata da Luca con la parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza «l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono», consapevole che «la Legge è fatta per gli uomini», mai viceversa (il copyright è di Massimo Recalcati). Vale in psicanalisi, vale nel diritto. La clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua autentica matrice. Condannata come rifugio del potere arbitrario, oggi è disprezzata dalla doxa dominante, per la quale l’indulto è un insulto e l’amnistia un’amnesia. La clemenza è stata uccisa dalla sua storia, passata e presente: abusata allora, cancellata ora. Questo circolo vizioso è finalmente spezzato dalla proposta di legge n. 2456, capace di sottrarre amnistia e indulto alla falsa alternativa tra bulimia e anoressia (perché, entrambi, sono comportamenti patologici).

7. È una facile previsione: l’iniziativa legislativa in esame sarà accusata di colpire a morte la certezza della pena. Ma chi pensa questo ha una mente che mente. La certezza della pena, oggi, è (fra)intesa come indefettibilità della detenzione in carcere, fino all’ultimo giorno: perché, per i più, pena vuol dire sanzione ma, prima ancora, sofferenza. Nasce da qui lo stigma verso leggi di clemenza, accusate di inaccettabile perdonismo. Tutto verosimile, ma non vero. Perché non è questo il modo in cui la Costituzione intende la certezza della pena. Costituzionalmente, la pena è certa quando è predeterminata dalla legge a evitare che sia il frutto, ex post, dell’arbitrio del potente. Adoperarla come clava contro una riforma dell’art. 79 che rende praticabili leggi di clemenza significa essere ignoranti, nel senso etimologico di chi non sa ciò di cui pure parla. Significa aver letto non la Costituzione, ma gli editoriali del Fatto Quotidiano, confondendo questi con quella.

8. Da ultimo, riformare di nuovo l’art. 79 restituirà potere e responsabilità a un Parlamento sempre più a bordo vasca, marginalizzato dal governo e dai suoi comitati tecnico-scientifici. Su questo obiettivo possono convergere trasversalmente deputati e senatori che conservino ancora coscienza del proprio ruolo, rivendicandolo orgogliosamente. Torneranno, poi, a dividersi sul se, quando e come deliberare una legge di clemenza. Ma, prima, andrà revocata quella cessione unilaterale di sovranità fatta nel 1992, che molto assomiglia ad una resa indecorosa alle piazze popolate da cappi, gogne e tricoteuses.

Magistratopoli, il "dondolismo" di Marco Travaglio e i Pm che se ne sbattono. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Giugno 2020. In gergo si chiama garantismo a dondolo. Oppure giustizialismo a dondolo. Quando questi due fenomeni sono presenti contemporaneamente si assiste a giravolte politiche talvolta imbarazzanti per un osservatore neutro, considerate invece naturali ed eleganti da gran parte della stampa e del mondo politico italiano. In cosa consiste il garantismo a dondolo, o a pendolo, o a saliscendi? Nell’alternarsi di impeti libertari a improvvise fiammate autoritarie. L’alternanza, in genere, non avviene in modo causale. Funziona così: se un tuo amico finisce sotto accusa da parte della magistratura tu sei garantista, se invece finisce sotto accusa un tuo avversario vieni colto da indignazione forcaiola. Nella politica italiana tutto funziona così. E ancora di più nei giornali italiani. Se si esclude un drappello piccolissimo di giornalisti e di parlamentari, tutti gli altri sono del partito del dondolo. Persino tra i forcaioli più forcaioli vincono in alcune occasioni degli empiti garantisti. Per esempio proprio ieri Il Fatto Quotidiano pubblicava ben due articoli garantisti. Quello di Travaglio, a difesa di Basentini, nel quale si giungeva addirittura ad esprimere opinioni rispettose verso il magistrato di Sassari Riccardo De Vito (quello che ha scarcerato Zagaria, con un provvedimento umanitario e in linea con la legge e la Costituzione) allo scopo di difendere Bonafede e un po’ persino Basentini (ex Dap) dalla furia di Giletti. E poi un altro articolo a difesa del carabiniere Scafarto, nel quale l’articolista si spingeva su posizioni estreme, contestando le intercettazioni e – per la prima volta in dieci anni di vita – spiegando quello che chiunque, se pensa, sa, ma che mai si dice: che le intercettazioni possono essere manipolate a piacere e senza difficoltà (talvolta persino senza dolo) dal Pm. Davvero sorprendente questa ammissione che manda al macero un decennio di tradizioni giornalistiche di Travaglio. (Ammenochè il motivo vero di questa giravolta non sia qualche diffamazione da risarcire, per esempio verso Luca Lotti…). Il “dondolamento” sta raggiungendo vette altissime con la questione coronavirus. La lotta è tra chi sostiene che la colpa di questa epidemia sia del governatore lombardo Fontana e chi pensa che sia invece tutta colpa del premier Conte e del ministro Speranza. Le due posizioni si ritrovano unite su un punto: la caccia all’untore. Se leggete la Colonna Infame di Manzoni, vedrete che gli argomenti sono cambiati solo un po’ rispetto ai giorni della peste del ‘600. Comunque c’è una opinione pubblica, sostenuta dall’establishment, che ritiene che se c’è una epidemia ci sono anche gli untori. E vuole metterli alla ruota della tortura, questi untori, e poi farli squartare dai cavalli in corsa. Successe così anche col terremoto dell’Aquila, qualche anno fa, quando furono processati gli scienziati. La magistratura ci sguazza, in questo clima, e apre indagini su indagini. E se qualche giudice temerario archivia, i sostenitori di Fontana o di Conte – o viceversa – si scagliano contro di lui. Volete sapere perché la magistratura è così potente oggi in Italia ed è riuscita a trasformare questo paese da Stato di diritto a Repubblica delle toghe? Esattamente per questa ragione. Nessuna forza politica (tranne, ma non in modo compatto, Forza Italia e piccole frange del Pd e i radicali) rinuncia al forcaiolismo come strumento di lotta politica. E in queste condizioni vincono sempre i Pm. Che possono anche sbattersene di magistratopoli e continuare a farla da padroni.

Il Pd giustizialista figlio della sua storia. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'11 Giugno 2020. La storia della sinistra comunista e postcomunista è una lunga teoria di negazioni mal riuscite, una vicenda inesausta di faticosi e mai soddisfacenti tentativi di quella sinistra di liberarsi da se stessa, di essere qualcosa rinunciando a essere ciò che è sempre stata e ha continuato a essere lungo un secolo. Si è trattato di negazioni mal riuscite e di tentativi insoddisfacenti perché nessuna fase di quel processo di accreditamento tramite auto-disconoscimento ha mai preso corso spontaneamente e in forza di un’autonoma capacità di iniziativa, ma sempre obtorto collo e cioè su sollecitazione altrui o quando la realtà delle cose squadernava l’inattualità, l’inaderenza, l’inadeguatezza essenziale di quella sinistra rispetto a ogni appuntamento notevole sul percorso civile di questo Paese. Il Pd non è il Pci ma un osservatore democratico chiederebbe oggi al Pd quel che si è sempre chiesto al Pci: di non essere se stesso. La presentabilità politica e democratica del Partito Comunista avrebbe supposto il sistematico rinnegamento di pressoché tutte le caratteristiche identitarie della tradizione con cui si era giustapposto: lo stalinismo, il rapporto irrisolto con la verità storiografica, la noncuranza per i diritti individuali, la irrevocabile propensione a criminalizzare le democrazie liberali che commettono errori e a giustificare la criminalità dei sistemi illiberali, infine ed emblematicamente la meccanica degradazione del dissenso, dell’idea contraria, dell’impostazione diversa, a realtà delinquenziali o patologiche. Questo rinnegamento non c’è mai stato, o non è mai stato compiuto, e a colmarne la mancanza è intervenuto, nel solco del solito procedimento contraffattorio, l’assunto secondo cui quel processo non sarebbe stato necessario non perché la tradizione comunista non fosse contrassegnata da quelle caratteristiche, ma perché dopotutto non era veramente comunista (l’avvicendamento delle denominazioni dissociato da qualsiasi progresso culturale effettivo e le serissime dichiarazioni di un personaggio come Walter Veltroni, che di sé dice di non essere mai stato comunista, descrivono in modo esemplare l’indisponibilità di quella storia a comporsi nella verità di un riconoscimento credibile). Oggi non è diverso. Perché ancora oggi, per il Pd, si tratterebbe di non essere ciò che è. Di non essere giustizialista. Di non essere statalista. Di non essere illiberale. E, soprattutto, di non confondere la sussistenza democratica del Paese con la propria partecipazione al potere, spacciando questa come garanzia di quella con i risultati che vediamo: i diritti individuali devastati, l’amministrazione della giustizia consegnata alla sopraffazione del potere inquirente, i decreti di stampo razzista mantenuti in purezza, la demagogia populista costituzionalizzata nell’esautoramento della democrazia rappresentativa e col trionfo del vaffanculo di piazza che si formalizza nel taglio dei parlamentari. La sinistra offrirebbe un’alternativa al Paese se fosse alternativa a sé stessa anziché competere con il proprio doppio, la componente di destra dell’identico complesso illiberale italiano.

Il giustizialismo fagocita i suoi stessi sostenitori. Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Antonio Pentangelo, deputato di Forza Italia, è indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare. La Procura di Torre Annunziata ne ha chiesto l’arresto sul quale sarà la Camera a pronunciarsi. Su Facebook Teresa Manzo, deputata del M5S e originaria di Castellammare al pari di Pentangelo, ha detto che il collega “avrà modo di chiarire la sua posizione”. Tanto è bastato perché Manzo venisse travolta dalle invettive degli attivisti del Movimento. Ogniqualvolta vi è un arresto “eccellente” – in modo particolare se si stratta di uomini della politica o delle istituzioni – riemergono come un mantra i rigurgiti giustizialisti che inquinano il dibattito pubblico da almeno tre decenni. Ormai, ad eccezione degli avvocati penalisti e di non molti altri garantisti che con pazienza, energia e passione continuano a difendere i capisaldi della democrazia costituzionale, la folla indistinta sembra volere la gogna, la pena esemplare e possibilmente perpetua. Le ragioni di questo decadimento culturale, politico e soprattutto etico sono molteplici e non tutte sufficientemente esplorate (manca, ad esempio, un’analisi seria e rigorosa sul perché, in questo determinato momento storico, le istanze punitive e securitarie facciano così tanto presa sulla pubblica opinione, mentre i principi garantisti siano quasi del tutto oscurati, non potendosi addebitare ogni colpa soltanto alla politica inetta o all’informazione, come si dice, embedded). Senza dubbio la responsabilità di questa esplosione compiaciuta delle pulsioni giustizialiste è, in parte rilevante, della politica. Non solo e non tanto perché in molte occasioni singoli esponenti o interi gruppi politici hanno dato pessima prova di sé, indugiando in comportamenti non consoni ai ruoli ricoperti e talvolta commettendo veri e propri reati. Ma soprattutto la politica – che può essere la più alta tra le “arti” umane – ha, e non soltanto in Italia, abdicato al suo ruolo essenziale: favorire i cittadini ad esprimere la propria personalità, le proprie capacità ed i propri talenti, rimuovendo quegli ostacoli che impediscono a ciascuno di realizzare il massimo delle sue possibilità. Sì, sto parlando proprio di quell’articolo 3 della Costituzione che deve costituire la bussola essenziale dell’agire politico e, nel contempo, la stessa ragione fondativa di una democrazia costituzionale. Ormai la politica si cura sempre meno di abbattere quegli ostacoli, di consentire ai cittadini di avere ciascuno pari e concrete possibilità. Venuto meno nel suo compito essenziale, il potere prova a celare le proprie gravi inadempienze con la terribilità dei poteri punitivi, con i tribunali, con le carceri, affermando attraverso l’uso distorto della giustizia penale – vera e propria scorciatoia del consenso – la sua stessa legittimazione. Si entra così in un circolo vizioso in cui, la macchina infernale repressiva in parte creata dalla stessa politica finisce per fagocitare il suo stesso creatore. Il tutto amplificato dalla cassa di risonanza di molti mezzi di informazione – il famigerato circuito mediatico-giudiziario – che sovente abdicano al loro ruolo di “cani da guardia della democrazia”. Da questo punto di vista viviamo indubbiamente in un’epoca oscura se finanche le esortazioni e l’attivismo del Papa sul tema restano lettera morta o addirittura sono oggetto di dure critiche che mai in passato avevano interessato la figura del Santo Padre. In questo contesto, va tuttavia registrata la recente dichiarazione di Teresa Manzo, deputata del M5S che, nel commentare la richiesta di arresto dei parlamentari di Forza Italia Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo, si è augurata che i due esponenti politici sapranno chiarire le proprie posizioni, riconoscendo al Parlamento il ruolo di difensore dei principi garantisti su cui si fonda la nostra Repubblica. Parole semplici, rispettose dei principi costituzionali che, tuttavia, oggi addirittura appaiono quasi come una rivoluzione culturale, un cambio di paradigma. L’auspicio è che simili parole, nel rispetto degli accertamenti giurisdizionali, diventino la normalità e che la presunzione di innocenza valga sempre per tutti gli indagati, di tutti i ceti sociali.

Da huffingtonpost.it il 29 maggio 2020. “L’errore italiano è stato sempre quello di dire aspettiamo le sentenze”. Così Piercamillo Davigo, ospite a Piazza Pulita, La7, accusato di giustizialismo. “Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”, ha aggiunto il togato del Csm. Davigo ha commentato il caso Palamara difendendo la gran parte dei magistrati non coinvolti dalle intercettazioni. “La maggior parte dei magistrati italiani è perbene, poi ce ne sono ‘permale’, il compito è distinguere”, ha detto. “Ho difficoltà a parlare di casi singoli perché altrimenti mi ricusano”, ha affermato Davigo (che fa parte del collegio disciplinare di Palazzo dei Marescialli) sottolineando che “la sezione disciplinare non può procedere d’ufficio, ma viene investita da richieste. La procura generale sta lavorando su un immenso materiale, se e quando arriveranno richieste, giudicheremo”. Quindi, l’ex magistrato di Mani pulite, ha raccontato un episodio: “Una sera ho partecipato a un dibattito qui a Roma, tra i relatori c’era Palamara: alla fine ho chiesto quale mezzo pubblico passasse di lì, lui ha sentito e mi ha dato un passaggio. Immagino avesse già il trojan attivato, ma non ci sono intercettazioni contro di me, perché io non faccio queste cose, e come me migliaia di magistrati seri non le fanno”.

Il "manifesto" del magistrato. La giustizia secondo Davigo: “L’errore italiano è dire aspettiamo le sentenze”. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2020. “L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”. Sono le parole del magistrato Piercamillo Davigo, ospite giovedì sera della trasmissione di La7 Piazzapulita, che hanno alzato un vero e proprio polverone. Il membro del Csm conferma così la sua nota visione della giustizia. Per ribadire il concetto Davigo, che si è confrontato con Gian Domenico Caiazza, il presidente dell’Unione delle Camere penali, ha fatto due esempi. “Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, per invitarlo a cena non sono costretto ad aspettare la sentenza della Cassazione. Smetto subito di invitarlo a cena”, ha detto il magistrato. Ma non solo. Davigo fa un secondo esempio ancor più grave: “Se il mio vicino di casa è stato condannato solo in primo grado per pedofilia, io in omaggio della presunzione di innocenza gli affido mia figlia di sei anni affinché l’accompagni a scuola? No, perché la giustizia è una virtù cardinale, ma anche la prudenza è una virtù cardinale. Il punto è: se l’opinione pubblica e soprattutto la politica decidesse autonomamente, non ci sarebbe tutta questa tensione sulla magistratura”. L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo.

Palamara, Edmondo Bruti Liberati contro Piercamillo Davigo: "Concetti giusti ma espressi male". Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. "Ha detto in modo sbagliato una cosa giusta, ma non spetta mai alla magistratura dare una valutazione sulla moralità politica". L'ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati bacchetta Piercamillo Davigo e le sue parole sul caso Palamare e, in una intervista a Repubblica, Bruti Liberati spiega il perché non sia d'accordo sulla frase di Davigo che ha scatenato le polemiche ("Non si dimette mai nessuno per la notizia di essere indagato, l'errore italiano è aspettare le sentenze"). "Davigo dice: una cosa è la responsabilità penale, altra e diversa quella politica", spiega Bruti Liberati, "che può indurre a dimissioni a prescindere dagli esiti giudiziari. Tenere distinti i due aspetti è un principio garantista e rispettoso della presunzione di innocenza. Il problema è che Davigo si lascia talora trascinare dall'amore per la frase a effetto, a rischio che il contenuto sia inteso all'opposto. Nei talk show buttarsi nella polemica e indulgere alle battute brillanti crea solo confusione", lo bacchetta Bruti Liberati. 

Maraco Travaglio, il direttore del Fatto ricorda come nacque la sua "infatuazione" professionale per Piercamillo Davigo. Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. Marco Travaglio, nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, racconta del suo colpo di fulmine per Piercamillo Davigo, il famoso pm del pool di Mani Pulite assieme a Antonio Di Pietro e Gherardo Colobo. Il giornalista ricorda, "la prima volta che conobbi Piercamillo Davigo era il 1997: presentavamo a Milano il mio libro-intervista al procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena Meno grazia, più giustizia, a cui aveva scritto la prefazione. Era ancora pm del pool Mani Pulite. Il suo intervento fu uno show di battute taglienti e aforismi fulminanti, come quelli a cui poi assistetti negli anni successivi in tanti convegni e dibattiti insieme". Travaglio poi spiega cosa lo ha fatto appassionare alle tesi del magistrato. Pensieri e tesi con cui ha poi costruito anche la sua fortunata carriera gionalistica: "La frase che più mi colpì illuminava la differenza fra responsabilità penale e responsabilità politico-morale: la prima la appura la magistratura, nei modi, nei tempi (biblici) e nei limiti previsti dalla legge; la seconda la accerta chiunque legga le carte giudiziarie, quando emergono fatti incontrovertibili (confessioni, intercettazioni, filmati, documenti, testimonianze oculari) che dimostrano una condotta sconveniente e consentono di farsi subito un'idea sulla correttezza o meno dell'autore. Che, se è un pubblico ufficiale, deve adempiere le sue funzioni "con disciplina e onore" (art. 54 della Costituzione), può essere tranquillamente dimissionato su due piedi, senza attendere la sentenza definitiva. Per spiegare questa fondamentale differenza, Davigo se ne uscì con uno dei suoi cavalli di battaglia: 'Se vedo il mio vicino uscire da casa mia con la mia argenteria in tasca, non aspetto la condanna in Cassazione per smettere di invitarlo a cena. E non lo invito più nemmeno se poi lo assolvono. Non è giustizialismo: è prudenza'".

Le barzellette da brividi di Piercamillo Davigo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Senza il pubblico in sala è tutta un’altra cosa, anche se l’arbitro continua a pendere da una parte come la torre di Pisa. Così Piercamillo Davigo nella partita di ritorno del match contro l’avvocato Gian Domenico Caiazza non prova neanche a portare a casa il punto. È già uscito soccombente nella partita di andata, lo scorso due febbraio, pur giocando in casa, con ventidue giocatori contro undici e il pubblico e l’arbitro dalla sua. Non rinuncia comunque a fare le faccine e a roteare le braccia, pur se verso il nulla, perché il pubblico è solo quello del divano di casa. Per non farci annoiare qualche barzelletta ce l’ha comunque concessa giovedì sera su La7 all’ultima puntata di stagione di Piazza Pulita condotta da Corrado Formigli. Che il “dottor sottile” di Mani Pulite abbia insofferenza nei confronti del processo e ancor di più verso le sentenze lo sapevamo. Ma non lo aveva detto mai in maniera così chiara: «L’errore italiano è dire aspettiamo le sentenze». Fa il furbo, ricordando che negli Stati Uniti i processi sono pochissimi perché in genere l’imputato patteggia prima e rinuncia al dibattimento. Con pazienza certosina l’avvocato Caiazza glielo ha già spiegato che in Usa non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e che in Italia comunque le pene patteggiabili sono solo quelle al di sotto dei cinque anni. Ma lui ribadisce, e non è che non capisca (ha reputazione di ferrea preparazione giuridica), è che proprio lui vorrebbe ogni volta avere tra le mani l’imputato nudo e crudo, possibilmente privo di difensore, che si inchina, chiede scusa e se ne va difilato in galera. In modo che il bene trionfi sul male. E giustizia sia fatta. Così, mentre l’avvocato Caiazza, che come sempre non cerca l’applauso (che in questo caso non potrebbe esserci per mancanza di materiale umano) cerca di spiegare che ormai siamo in presenza di veri squilibri costituzionali, con una pervasività massiccia dei Pubblici Ministeri nell’amministrazione della giustizia, tant’è che si finisce con il giudicare sulla base delle indagini piuttosto che della sentenza, Davigo coglie l’occasione per passare alla sua veste preferita, quella di intrattenitore umoristico. La prima barzelletta è quasi casta. «Se invito a cena il mio vicino di casa – narra – e al termine lo vedo andarsene con le tasche piene di argenteria, devo aspettare la sentenza della Cassazione per sapere che lui è un ladro e non invitarlo più?». Caiazza cerca invano di spostare il discorso sulla necessità di riforme strutturali, prima di tutto la separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa, cioè i pubblici ministeri. Non perde neanche il tempo a spiegare che, relativamente al vicino di casa di Davigo, tanti possono essere i dubbi. Siamo sicuri che il magistrato lo abbia veramente visto con la tasche piene di argenteria? E gli oggetti erano stati davvero trafugati ed erano davvero di proprietà di Davigo e non del vicino stesso? E se per caso si fosse trattato di uno scherzo? No, perché per il “dottor sottile”, «gli indizi sono dati oggettivi», confermando in questo modo quel che aveva detto l’avvocato Caiazza. In fondo basta poco per condannare, o rovinare una reputazione, nel bel mondo di Davigo e Travaglio. Così, dopo la barzelletta “casta” si può agevolmente passare a quella osé. Pericolosa, potremmo dire, dopo le vicende di Bibbiano. L’ex pm di Mani Pulite deve avere un vicino di casa che gli sta molto antipatico. Eccolo infatti protagonista di qualcosa di ben più grave di un furto in appartamento. Lo immaginiamo sul pianerottolo dopo che è stato inquisito per pedofilia e Davigo che scappa giù dalle scale trascinando con sé la propria bambina. «Volete che affidi mia figlia a un pedofilo?» Sentenzia. Ecco il mondo di Davigo: indizi e crocifissioni definitive. Che bisogno c’è della Cassazione e prima ancora dell’appello e del processo di primo grado e di un rinvio a giudizio? Se il Presidente degli avvocati gli fa notare quel che è sotto gli occhi di tutti, e cioè che Luca Palamara è visto come il rappresentante di una magistratura che ha da tempo esondato in un ruolo politico, Davigo si limita a rispondergli che la sua è una visione “da fantascienza”. E se si pone il problema di quei 200 magistrati che occupano i ministeri, con una bella contraddizione sulla divisione dei poteri, lui replica che i ministri hanno bisogno di tecnici. «Anche noi avvocati siamo tecnici»; «Lo dica al ministro», e qui il tono si fa leggermente beffardo. Separare le carriere? E perché mai, visto che l’ordinamento italiano è il migliore del mondo e tutti ce lo invidiano. Infatti, potremmo concludere, nessuno ce lo ha mai copiato. Non esiste una questione giustizia nel nostro Paese, a quanto pare. Si abbassa il sipario, anche sulle barzellette. Siamo passati da «il sospetto è l’anticamera della verità» a «gli indizi sono dati oggettivi». Da padre Pintacuda e Leoluca Orlando a Travaglio e Davigo.

L’appello di Cartabia: “La Costituzione è la bussola, il sacrificio dei diritti sia proporzionato e temporaneo”. Il Dubbio il 28 aprile 2020. La relazione della presidente della Corte costituzionale: “Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività”. “La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza. La Costituzione, infatti, non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”. E’ uno dei passaggi della relazione della presidente Marta Cartabia sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, in cui si possono leggere le principali linee di tendenza della giurisprudenza costituzionale. La relazione integrale (con gli allegati), da oggi sul sito online della Corte costituzionale, insieme a una versione ridotta, anche in Podcast: “Il nuovo anno – osserva la presidente della Consulta – è stato aperto da una contingenza davvero inedita e imprevedibile, contrassegnata dall’emergenza, dall’urgenza di assicurare una tutela prioritaria alla vita, alla integrità fisica e alla salute delle persone anche con il necessario temporaneo sacrificio di altri diritti”. La Costituzione, ricorda Cartabia, “non è insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di emergenza, di crisi, o di straordinaria necessità e urgenza, come recita l’articolo 77 della Costituzione in materia di decreti-legge. La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi, dagli anni della lotta armata a quelli più recenti della crisi economica e finanziaria, e tutti sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando al suo interno – sottolinea – gli strumenti idonei a modulare i principi costituzionali in base alle specifiche contingenze: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela “sistemica e non frazionata” dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ponderando la tutela di ciascuno di essi con i relativi limiti”. Un pensiero di sentita partecipazione al dolore per la scomparsa di migliaia di nostri concittadini” e di “sincera gratitudine per tutti coloro, e penso in particolar modo al personale medico e infermieristico, che in questo non facile frangente assicurano i servizi essenziali della Repubblica con competenza, coraggio e generosità”, aggiunge la presidente Cartabia che, lo scorso 30 marzo, era risultata positiva al test sul coronavirus, poi guarita nei giorni scorsi. “Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete”, spiega Cartabia proprio nei giorni in cui i giudici di sorveglianza sono al centro di polemiche per le scarcerazioni di boss della mafia.

 «Chi è molto malato deve uscire dal carcere. Anche se è accusato di mafia. Lo dice la nostra Costituzione”». Valentina Stella su Il Dubbio il 28 aprile 2020. Brandimarte, ex Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto: “Il differimento di una pena per grave infermità fisica è una misura che riguarda indistintamente tutti i detenuti e risponde all’esigenza di salvaguardare un diritto soggettivo primario tutelato dalla Costituzione, quello alla salute”. «Il sergente Marco Galli, interpretato da Raf Vallone, nel film del 1949 Riso amaro diceva “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”». Questo riferimento cinematografico è uno dei passaggi migliori di questa nostra intervista a Massimo Brandimarte, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto. Lo abbiamo contattato per commentare le polemiche nate a seguito della concessione dei domiciliari a Pasquale Zagaria decisa per motivi di salute da parte del Tribunale di Sorveglianza di Sassari.

Cosa pensa di tutte queste polemiche?

«È giusto che se ne parli perché la giustizia è amministrata in nome del popolo. Ma se poi il dibattito deve trasformarsi in uno scarica barile non serve a niente. Per giudicare bisogna conoscere i fatti. Ma soprattutto esistono dei principi cardine dell’ordinamento penitenziario: il differimento di una pena per grave infermità fisica è una misura che riguarda indistintamente tutti i detenuti, indipendentemente dal reato commesso, e risponde all’esigenza di salvaguardare un diritto soggettivo primario tutelato dalla Costituzione, quello alla salute. L’altro principio secondo me importante è che tutte le misure alternative al carcere sono dinamiche: oggi posso ritenere che ci sia una situazione tale da dover predisporre i domiciliari, ma se domani la situazione cambia posso tornare indietro sulla mia decisione. Poi c’è il principio dell’autoresponsabilità del magistrato: qualunque magistrato nel momento in cui ha preso una decisione ponderata e vagliata può stare tranquillo senza temere nulla».

A lei è mai capitato di non ricevere risposte dal Dap?

«In merito a possibili trasferimenti di detenuti, capitava spesso che il Dap rispondesse in ritardo o non rispondesse proprio. Il Dap è comunque una grande struttura burocratica e credo che il capo del Dipartimento non possa interessarsi di ogni singolo caso. Comunque quando ero in servizio, per i casi urgenti alzavamo il telefono per sentire direttamente i funzionari del Dap. E se non c’era risposta, io mi rivolgevo direttamente al ministro, perché i magistrati di sorveglianza rispondono direttamente a lui».

Il ministro Bonafede sta valutando di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative ad istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia.

«Credo che sia un modo per cautelarsi a futura memoria. La mia esperienza mi dice che questi organismi investigativi sicuramente possono fornire elementi di valutazione di primissimo ordine. Sarebbero fondamentali. Il fatto è che le informazioni che andrebbero a fornire, essendo di carattere investigativo e non giudiziario, potrebbero avere una forza prevalente rispetto all’elemento che bisogna considerare in questi casi che è quello della salute che è appannaggio del magistrato di sorveglianza. Quindi potrebbe diventare una forzatura che andrebbe ad inficiare la tutela del diritto alla salute, specialmente se il magistrato di sorveglianza che deve decidere non è esageratamente coraggioso».

Quindi potrebbe minare l’indipendenza della magistratura di sorveglianza.

«Da un punto di vista legale assolutamente no. Da un punto di vista psicologico il pericolo potrebbe essere una certa pressione che si andrebbe a riflettere nei confronti del Tribunale di Sorveglianza».

Lei che soluzione propone?

«Si potrebbe ricomporre il quadro con armonia e tranquillità senza scaraventare colpe nei confronti di qualcun altro. Tutti lavorano al servizio della giustizia. Se c’è stata una valutazione non del tutto perfetta si può ricominciare dall’inizio, si può rivedere la decisione. Mi piacerebbe che tra tutti tornasse la concordia e mi aspetterei che da parte degli organi requirenti, cioè la Procura Generale, si acquisissero degli elementi seri e fondati, che una volta comunicati ai Tribunali di Sorveglianza possano servire per far riesaminare i casi».

In questi giorni Di Matteo, Ardita, Maresca, De Raho hanno rilasciato numerose interviste dicendo che lo Stato è debole, cede al ricatto dei mafiosi. Ne esce una magistratura debole e irrispettosa delle vittime di mafia.

«Queste prese di posizione possono avere un effetto boomerang perché si riflettono in negativo sulla indipendenza di tutta la magistratura. Credo che a nessuno convenga avere una magistratura di sorveglianza che sia avvolta dal timore di dover prendere certe decisioni giuste ma che non le prende perché ha paura di assumere provvedimenti impopolari».

Quando si parla di 41 bis, è facile dipingere tutti i detenuti come mostri, come mafiosi sanguinari tralasciando le singole storie processuali e anche i possibili percorsi rieducativi fatti in tanti anni di carcere.

«Bisogna parlare con dati alla mano e non come se stessimo al bar dello sport. Parlare in maniera generica agevola le confusioni: ci può essere un boss che non si è mai macchiato di reati di sangue come Pasquale Zagaria. Ogni posizione va valutata singolarmente. E poi come diceva il sergente Marco Galli, interpretato da Raf Vallone, nel film Riso amaro, “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”».

 “Csm mi mette alla gogna, alcuni Pm intoccabili”, il grido del consigliere Lanzi. Paolo Comi de Il Riformista il  23 Aprile 2020. «Siamo alle solite: in questo Paese quando si toccano certe Procure si attiva immediatamente una rete di protezione», dichiara Alessio Lanzi, il consigliere del Csm in quota Forza Italia finito ieri mattina nel mirino dei togati di Area, il gruppo di sinistra della magistratura associata. Casus belli, una intervista rilasciata dal professore milanese di diritto penale al quotidiano La Stampa dove si stigmatizzava la spettacolarizzazione con cui la Procura milanese sta conducendo le indagini sui decessi per Covid-19 nelle case di riposo. «C’è un attacco strumentale al modello politico di centrodestra della Regione Lombardia», aveva affermato Lanzi, criticando il modus operandi dei pm milanesi: «La perquisizione del Pirellone è avvenuta in diretta tv: se si vogliono acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità». Parole che hanno immediatamente scatenato la durissima reazione di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e attuale capo delegazione di Area a Palazzo dei Marescialli. «Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente», l’attacco di Cascini, secondo cui il professore forzista avrebbe dovuto «evitare di avventurarsi in una polemica così fuori luogo e fuori tempo». Per poi aggiungere: se Lanzi non smentisce le «dichiarazioni rese, oggi chiederemo l’apertura di una pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano». La risposta di Lanzi non si è fatta attendere: «Premesso che il Csm non è l’Anm, io non ho mai delegittimato nessuno. Nelle mie parole non c’è nessun attacco alla magistratura, ma opinioni espresse nell’ambito della libera manifestazione del pensiero. Credo sia anche questo il compito di un consigliere laico». Ma non solo: «Trovo veramente stucchevole questo doppipesismo da parte di certi magistrati per i quali quando si critica il centrodestra va sempre bene tutto». «La dichiarazione del Consigliere Cascini – ha sottolineato Lanzi – è un atto politico; la critica dovrebbe intervenire unicamente sul merito delle mie dichiarazioni». Quindi la stoccata: «Il consigliere Nino Di Matteo ha attaccato durante il Tribunale di sorveglianza che questa settimana ha scarcerato per motivi di salute un boss detenuto al 41 bis (l’ottantenne Francesco Bonura, ex capo mandamento dell’Uditore di Palermo, ndr), affermando che «lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. Bene, perché nessuno ha espresso solidarietà all’ufficio di sorveglianza di Milano?». «Io ho voluto solo evidenziare che è in atto, soprattutto da parte di alcuni organi d’informazione, una campagna mediatica violentissima contro la Lombardia. Ci sono tanti dibattiti televisivi mirati con personaggi che sparano sentenze senza conoscere nulla e dove passano sotto silenzio comportamenti analoghi in altre regioni», aggiunge il professore milanese. «E nessuno – ricorda – ha commentato la divulgazione anticipata dei provvedimenti dello scorso otto marzo che ha determinato un assalto ai treni favorendo la diffusione del contagio dal Nord al Sud». Insomma, un film già visto che ci riporta agli anni “spumeggianti” del primo berlusconismo: alcuni uffici giudiziari si possono criticare altri no. Fra quelli per tradizione non criticabili, la Procura di Milano, ‘feudo’ storico della magistratura di sinistra. Dal Procuratore Francesco Greco all’ultimo degli aggiunti, esponenti storici delle toghe progressiste. Tiziana Siciliano, il procuratore aggiunto che sta conducendo le indagini sulle morti nelle Rsa, si era anche candidata, poi non eletta, alle ultime elezioni del Csm nelle liste di Area. «Comunque ho ricevuto tante telefonate e messaggi di solidarietà e vicinanza. Anche da parte di diversi magistrati», conclude soddisfatto Lanzi.

L’appello degli avvocati per i magistrati controcorrente: “Lasciati soli dal governo”. Redazione de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Mentre la pandemia imperversa e diffonde in ciascuno di noi un senso profondo di fragilità e di insicurezza, una informazione deformante esaspera gli animi scossi ed in modo subdolo e strisciante fomenta la paura. Da giorni i Magistrati, lasciati soli da un Governo immobile a custodire la vita delle persone nelle carceri, subiscono gravi attacchi che menomano la loro libertà e indipendenza, che vulnerano la separazione tra poteri dello Stato, che ledono l’essenza stessa della nostra Carta Costituzionale. Non sono eroi né martiri i Giudici che decidono di disporre gli arresti o la detenzione domiciliari per quelle persone ristrette gravemente malate o molto anziane la cui vita sarebbe a rischio in caso di contagio da Covid. Sono tutori della legge, applicano la legge, eseguono il loro sacro mandato costituzionale. Siamo accanto a loro, a chi ha rispetto del proprio compito di garanzia della vita, di qualunque individuo,come valore assoluto cui ogni altro presidio sociale cede il passo, a chi non teme le commissioni di inchiesta scatenate da pulsioni giustizialiste perché sa di avere agito in coscienza nel rigore della sua alta funzione. Maria Brucale, Stefano Giordano, Michele Passione, Maria Luisa Crotti, Daniele Caprara, Andrea Mitresi, Andrea Niccolai, Stefania Amato, Andrea Vigani, Pasquale Bronzo, Antonella Calcaterra, Michele Sbezzi, Luisa Brucale, Lina Caraceni, Monica Gambirasio, Monica Murru, Viviana Torreggiani, Annamaria Marin, Fabio Varone, Dario Lunardon, Massimo Brigati, Andrea de Bertolini, Valentina Alberta, Luana Granozio, Attilio Villa, Andrea Cavaliere, Enrico Pelillo, Ivan Vaccari, Marina Cenciotti, Claudia Prioreschi, Francesca Garzia, Annamaria Alborghetti, Mauro Danielli, Valentina Tuccari, Renata Petrillo, Marco Palmieri, Francesco Tagliaferri, Massimiliano Annetta, Marco Siracusa, Valerio Spigarelli, Maria Mercedes Pisani, Enrico Faragona, Turi Liotta, Costanza Tancredi, Roberta Boccadamo, Giuliana Falaguerra, Patrizia Bonaccorsi, Marika Rossetti, Teresa Loriga.

Che scandalo il silenzio sulle parole del Pm Di Matteo. Gian Domenico Caiazza de Il Riformista il 25 Aprile 2020. La polemica pretestuosa e mistificatoria sulla scarcerazione per gravissime e conclamate ragioni di salute, di un detenuto per fatti di mafia, peraltro anticipatoria solo di pochi mesi della totale espiazione di una pesante pena detentiva, ha di gran lunga superato i limiti della decenza. L’Unione delle Camere penali ha già espresso solidarietà e vicinanza ai giudici di Sorveglianza di Milano, fatti oggetto di questa indegna gazzarra. Ma il vero scandalo è il silenzio calato sulle parole del dott. Di Matteo, membro del Csm, che liquida lo scrupoloso lavoro dei suoi colleghi milanesi come cedimento dello Stato al ricatto mafioso delle rivolte carcerarie, senza che nessuno abbia nulla da dire. Un silenzio tanto più scandaloso nel giorno in cui dallo stesso Csm provengono censure sulle valutazioni espresse, in modo certamente meno scomposto, da un membro laico dello stesso organismo, su altri magistrati milanesi, ma questa volta appartenenti all’Ufficio di Procura. Il nostro è proprio il paese dei due pesi e delle due misure, purtroppo. 

 Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Domani è il compleanno di Nino Di Matteo. E’ nato a Palermo il 26 aprile del 1961. Quell’anno Leonardo Sciascia compiva sessant’anni e pubblicava Il giorno della civetta, il romanzo che, sotto le vesti del poliziesco, svelò al mondo quel che lo Stato ancora nascondeva, l’esistenza della mafia. I compleanni, specie dopo una certa età, e a maggior ragione se le candeline poco riescono a illuminare il buio dei giorni difficili come quello dell’oggi infestato dal virus, sono spesso momento di riflessione. Il momento in cui si fa il punto della situazione. Del magistrato Di Matteo si dice sempre che era giovane, che era troppo giovane per potersi assumere responsabilità, per esempio sulla più grande falsificazione della storia, la costruzione a tavolino di un falso pentito di mafia, quel tal Scarantino, “convinto” alla calunnia da un carcere speciale dove si torturavano i detenuti. Era sicuramente giovane quel 10 gennaio del 1987 (entrerà in magistratura nel 1991), quando sul Corriere della sera uscì l’articolo di Sciascia sui “professionisti”, coloro che, in politica come nella magistratura e nel giornalismo, si pavoneggiavano sul palcoscenico dell’antimafia di facciata. Era sicuramente troppo giovane per mettersi al riparo della tentazione di diventare “professionista” e anche “antimafia”. Quindi sarebbe stato al fianco di coloro che, punti sul vivo, prepararono il rogo allo scrittore di Racalmuto. Quelli come il sindaco Leoluca Orlando, per intenderci. Coloro che, con l’eroismo di chi sta sempre da un’altra parte quando c’è da combattere, si fregiano del titolo dell’”antimafia”, e questo loro basta. Certo, quel tipo di vanità non manca, al giovane Di Matteo, e neppure la parola pronta. Lo ha dimostrato in questi ultimi giorni, quando ha accusato lo Stato di «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». Una frase roboante e fuori proporzione rispetto al semplice fatto che una sua collega magistrato del tribunale di sorveglianza di Milano avesse disposto gli arresti domiciliari per un vecchio boss malato. Se il compleanno di domani sarà occasione per rivedere un po’ della sua vita, forse gli bruceranno le parole di Fiammetta Borsellino, figlia di un magistrato ucciso dalla mafia cui lui e i suoi colleghi non hanno saputo dare giustizia. Perché sarà anche stato giovane nel 1992 e nel 1993 e nel 1994, il dottor Di Matteo, ma il processo-farsa è andato avanti con la sua presenza fino al 2017, fino a quando non i giudici, ma un “pentito” di nome Spatuzza gli ha risolto il caso. Risolto per modo di dire, perché dopo la morte di Borsellino è stata buttata nel cestino l’inchiesta mafia-appalti, probabile movente dell’uccisione del magistrato. Su cui neppure lei, dottor Di Matteo, neanche nelle sue tante interviste, ha mai mostrato curiosità. O forse ricorderà quando sognava di diventare ministro, intorno al 2018, e non escludeva di poter entrare in politica mentre in politica c’era già, con l’evanescenza delle sue dichiarazioni e la realtà di due fallimenti processuali. Non aver saputo contribuire, insieme ai suoi colleghi, a fare giustizia per Borsellino, e aver puntato tutte le sue fiches su quel processo Stato-mafia che si sta sgretolando un pezzetto per volta. Ogni tanto, mentre ripensa alla sua vita, vada a rileggere le 500 pagine della sua collega giudice Marzia Petruzzella, quella che prima ha assolto Calogero Mannino e che aveva liquidato tutta la vostra inchiesta come “fantasiosa storiografia” e ricerca accanita di inesistenti complotti. Complotti già archiviati nel 2001, nel 2002 e ancora nel 2003 e nel 2004. E poi, di pensiero in pensiero, ne rivolga uno anche a Silvio Berlusconi che lei ritiene di poter calunniare ogni volta in cui rilascia un’intervista. Cioè continuamente. Lei crede veramente che Marcello Dell’Utri, condannato per un reato che non esiste nel codice, fosse “garante” per conto della mafia nei confronti di un presidente del consiglio vittima di un ricatto? Non può crederlo, eppure lo dice. Il suo mantra è sempre lo stesso. Nella sua visione da “professionista” c’è sempre il “cedimento dello Stato che subisce un ricatto”, oppure lo Stato che tratta con la mafia. Ma chi è “Lo Stato” nella sua fantasia? Lo Stato sono tutti gli altri. I colpevoli. Mentre lei non ha mai peccato. Così si ribaltano le responsabilità, quando nel 2018 si è convocati davanti al Csm e dopo le accuse della famiglia Borsellino, si può impunemente affermare che lei non c’era, che era giovane e che comunque i parenti della vittima sono stati “strumentalizzati”. Così non si è fatto niente di male quando si parla a ruota libera e per 42 minuti in una trasmissione televisiva parlando di indagini in corso sulle stragi e rivelando qualche particolare di troppo. E quando il capo dell’Antimafia ti caccia per la caduta del rapporto di fiducia, tu puoi fare spallucce e riuscire, per un fortuito caso di dimissioni di colleghi e con l’aiuto dell’amico Davigo, a infilarti al Consiglio Superiore della magistratura. Ma anche da lì continuare a farsi “professionista”. E parlare. Anche contro il governo che cerca timidamente di sfollare un pochino le carceri per impedire le stragi da coronavirus. Forse è arrivato il momento di riflettere, dottor Di Matteo. Ministro non è diventato, e vista la triste situazione del Movimento cinque stelle, difficilmente lo diventerà. Le sue interviste –ripetitive e noiose, diciamo la verità- ormai escono solo sul Fatto quotidiano. I maxiprocessi sono ormai nell’ombra. Non sarebbe ora di fare il semplice magistrato che non lotta, che non è “anti”, ma si limita a fare indagini in silenzio e a onorare la toga che indossa? Buon compleanno, Nino Di Matteo. E rilegga Sciascia, ogni tanto. C’è sempre da imparare.

Passato remoto. Michele Passione de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Nei giorni scorsi un Magistrato di Sorveglianza milanese è stato scompostamente attaccato, inverando la realtà, per aver concesso la detenzione domiciliare ad un detenuto gravemente malato cui mancavano pochi mesi al fine pena. Ovviamente, pur essendo stato applicato l’art.47 ter, comma 1 ter o.p., e sebbene sussistessero tutti i requisiti di legge (e di umanità), si è sostenuto che la decisione è un favore alla Mafia, una cessione dello Stato, il frutto dei provvedimenti governativi, e altre amenità del genere. Invece, qualche giorno dopo, ecco che arrivano due provvedimenti di segno opposto, sui quali nessuno fa sentire la sua voce.

Lo facciamo qui. Col primo, il Magistrato di Sorveglianza di Verona ha respinto analoga richiesta (anni tre di reclusione), malgrado la dichiarazione di incompatibilità al regime detentivo del condannato, trasmessa dal Direttore della Casa Circondariale, attesa l’allegazione sanitaria dalla quale risulta che il condannato è risultato positivo alla SARS – CoV2. Nell’occorso, si segnalava l’asintomaticità dell’interessato, il pericolo di insorgenza repentina di insufficienza respiratoria anche grave che non è certamente gestibile in carcere, l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale, dal che consegue una seria minaccia per la salute degli altri detenuti, della polizia penitenziaria e degli altri operatori in genere.

Testuale. A tali considerazioni il Magistrato ha opposto come non sia scontato che la grave infermità sopraggiunga, a causa dell’asintomaticità, e che comunque una eventuale crisi respiratoria risulta meglio fronteggiabile in carcere che non al domicilio, laddove un soggetto abitasse da solo e non fosse perciò in grado di chiamare l’ambulanza. La normativa evocata, ancora, sarebbe posta a tutela della salute del condannato, e non della salute di altri. Una strana concezione della salute come bene pubblico, nel dispregio assoluto sul punto dei dicta convenzionali, che impongono l’apprestarsi di tutele in via preventiva a salvaguardia della salute. L’art.3 della C.edu è diritto inderogabile, uno dei quattro core rights cui non è consentito mai fare eccezione, neanche in tempo di guerra.

Ancora. Il Magistrato di Sorveglianza di Bari ha dichiarato inammissibile l’istanza di detenzione domiciliare proposta negli stessi termini, con specifico riferimento all’esigenza di contenere i rischi connessi alla diffusione del Covid – 19, nella quale erano diffusamente segnalate le comorbilità del detenuto, i precedenti giurisprudenziali ammissivi di analoghe richieste, le indicazioni dell’OMS, la corretta lettura del bene della salute, presidiato dalla Carta costituzionale e da quella di Nizza.

Motivo: l’assenza di firma digitale da parte del difensore. Inutile segnalare che neanche il protocollo del Primo Presidente della Suprema Corte per l’invio degli atti prevede ciò, e così anche il decreto della Presidente della Corte Costituzionale. Un’istanza trasmessa via pec, firmata dal difensore, allegata in pdf, con procura speciale del detenuto. E vogliono il processo in remoto. Di remoto c’è un retrogusto di vuoto; di umanità, di empatia, di lungimiranza.

Domiciliari ai boss: lo Stato di Diritto vittima degli attacchi mediatici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2020. Dovrebbe arrivare giovedì in Consiglio dei ministri la stretta del ministro della Giustizia che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. I mass media hanno fatto la loro parte e alla fine dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri giovedì la stretta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla concessione degli arresti domiciliari, che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il culmine del bombardamento mediatico è stato raggiunto con la trasmissione “Non è l’arena”, condotta da Massimo Giletti. Un programma tv dove sono stati invitati al dibattito tutte persone che sulla questione hanno un’opinione simile (non erano presenti né giuristi, né magistrati di sorveglianza e nemmeno il Garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto, però, la sfortuna di diventare capro espiatorio del presunto scandalo.

Tutto è partito da un articolo de L’Espresso relativo ai domiciliari per motivi di salute concessi a un recluso al 41 bis. Parliamo di Francesco Bonura, passato dal regime speciale alla detenzione domestica nei giorni scorsi proprio per le sue gravi condizioni. Un provvedimento della magistratura di sorveglianza limpido e motivato. Ma si è fatto leva sull’emotività e anche sull’ignoranza del tema per creare polemiche. A questo si è aggiunta anche il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria. Eppure anche questo provvedimento non dovrebbe rappresentare nulla di scandaloso visto che, alla luce dei principi costituzionali, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha concluso ritenendo sussistenti i presupposti di operatività dell’articolo 147 c. 1 n. 2 c.p. – tali da giustificare il differimento della pena per grave infermità fisica – essendosi in presenza di una patologia grave e qualificata che richiede al detenuto un iter diagnostico e terapeutico che viene definito “indifferibile”. Come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, il differimento della pena è dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati. Alla luce di ciò, «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza – equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano». Ma oramai la valanga ingiustificata di indignazioni ha sortito i suoi effetti. Il ministro Bonafede, per assecondare gli animi, ha promesso che farà di tutto per rendere più difficile la concessione dei domiciliari a chi attualmente si trova al 41 bis. Non importa sapere, come detto, che i provvedimenti che hanno creato indignazione sono stati concessi per gravi motivi di salute. Per chi si è macchiato di reati mafiosi, il diritto alla salute diventerà un optional. Le norme, che potrebbero essere contenute in un prossimo decreto legge, dovrebbero limitare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Ovvero che tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia saranno sottoposte, per il via libera, sia alla Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sia alle singole Procure distrettuali Antimafia e Antiterrorismo. Tradotto, chi è al 41 bis o in alta sorveglianza difficilmente potrà ottenere un via libera da chi lo ha tratto in arresto. C’è da ricordare però che l’articolo111 della Costituzione stabilisce che il legislatore deve garantire la celebrazione del “giusto processo” affidando la decisione ad un giudice assolutamente neutrale. La terzietà del giudice penale è una terzietà diversa da quella dei giudici di sorveglianza: rendere vincolanti i pronunciamenti del Procuratore distrettuale o nazionale Antimafia significherebbe snaturare la terzietà del giudice di sorveglianza. Il problema, di fondo, è che è inimmaginabile, per un governo, muoversi a seconda delle indignazioni del momento. Non si possono fare interventi normativi in base a degli articoli di giornale o le trasmissioni televisive che hanno anche il potere di fuorviare e veicolare l’opinione pubblica. Altrimenti l’esercizio del potere esecutivo rischierebbe di diventare il terreno d’intervento privilegiato dei gruppi di pressione di ogni parte. La democrazia rischia di collassare e quindi di sostituirsi con la “dittatura della maggioranza”. Ed è così che lo Stato di Diritto muore e avanza sempre di più quello di Polizia.

Giletti: il “piccolo Travaglio” che processa chi mette ai domiciliari i mafiosi malati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2020. Il conduttore di “Non è l’Arena” parla a nome delle vittime di mafia e processa chi vuole salvare i cittadini detenuti dal Coronavirus. «I poveretti che sono in carcere non li fanno uscire, i boss che comandano vengono accompagnati a casa!», ha tuonato Massimo Giletti, il conduttore di Non è L’Arena. Lo ha detto durante la trasmissione di ieri sera trattando il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria, invitando però al dibattito tutti coloro che la pensano allo stesso modo (infatti non era presente nessun giurista, nessun magistrato di sorveglianza, nemmeno il garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto però la sfortuna di essere preso come capro espiatorio del presunto scandalo. Giletti, in modo decisamente populistico, ha contrapposto i detenuti “comuni” che restano in carcere – quasi che il loro destino gli stesse davvero a cuore – ai boss che escono per chissà quale arcano motivo. Ma si tratta dello stesso Giletti che solo poco tempo fa attaccava chiunque chiedesse una riforma che puntasse alle misure alternative, tuonando come un “Travaglio minore” – ne ha ancora di strada da fare per raggiungere la “caratura” del fondatore del Fatto – contro lo “svuotacarcere”. Ovviamente, giocando sulla facile dialettica populista, Giletti ha fatto leva sull’emotività. «Io italiano – ha sbottato in diretta -, che ho perso amici nella lotta contro la criminalità organizzata, ho negli occhi un carabiniere che è morto caduto da una scogliera per mettere una microspia, io come cittadino italiano mi vergogno, è un fatto inammissibile e intollerabile». Come per dire che aver concesso il differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica per un arco temporale di 5 mesi (poi Zagaria dovrà ritornare al 41 bis), significhi piegarsi alla logica mafiosa e dare uno schiaffo alle vittime della mafia. Da sempre funziona così.  La Corte Europa ha decostruito alcuni meccanismi (in seguito dichiarati incostituzionali) dell’ergastolo ostativo? Subito si innalzano i cori indignati parlando a nome dei familiari delle vittime della mafia. La stessa Fiammetta, figlia del giudice Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo a via D’Amelio, l’anno scorso ha partecipato al “Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato dalla “Conferenza nazionale volontariato giustizia” e nel suo intervento ha parlato delle inchieste sulla morte del padre, definendole il «depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo paese». Ma ha anche parlato della sentenza sull’ergastolo ostativo e si è detta d’accordo e ha stigmatizzato i titoloni di alcuni giornali del tipo “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. Inoltre, alla domanda se è giusto parlare a nome dei famigliari delle vittime della mafia, Fiammetta ha risposto che è assolutamente sbagliato perché «ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti». Una bella lezione, quella di Fiammetta, che però è rimasta inascoltata proprio da coloro che usano i nomi di Falcone e Borsellino per criticare il provvedimento come quello emesso nei confronti del boss Pasquale Zagaria. Un provvedimento, come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati.  Alla luce di ciò,  «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza – equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano».

Libero Quotidiano il 5 maggio 2020. Oggi, puntuale come le tasse, scontata, prevedibile e per questo ancor più risibile, in prima pagina sul Fatto Quotidiano ecco piovere la difesa d'ufficio di Marco Travaglio, impegnato a schivare i colpi per conto di Alfonso Bonafede e impegnato a dettare la linea ai grillini dopo quanto accaduto a Non è l'arena domenica sera, dove il pm Nino Di Matteo aveva rievocato il momento in cui fu vicinissimo al Dap, salvo poi vederlo "sfuggire" poiché, ha spiegato, il suo nome era "inviso" ad alcuni boss mafiosi. Tutto ciò ovviamente accadeva quando Alfonso Bonafede era ministro della Giustizia. E nel goffo editoriale di Travaglio, con ancor più veleno e insulti del solito, c'è un passaggio che lascia veramente interdetti. Già, perché Marco Manetta scrive: "L'altra sera l'ex pm (Di Matteo, nda) ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministero sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Massimo Giletti l'ha dato per scontato". Insomma, Travaglio accusa di Giletti di aver dato "per scontato" il nesso causale tra quanto detto da Di Matteo e il ruolo di Bonafede. Ma è serio? Roba, davvero, da ridere: come se, in una vicenda del genere, il Guardasigilli non c'entrasse nulla. Una singola frase, nel contesto di un articolo di rara violenza e che fa acqua da tutte le parti, che la dice lunghissima su Travaglio e sulla sua missione: difendere sempre e comunque i grillini, anche a costo di tuffarsi per intero nel ridicolo.

Non è l'Arena, insulti e attacchi a Giletti. Dopo lo scontro con Dino Giarrusso sulle scarcerazioni e lo sciame di insulti che ne è scaturito, Massimo Giletti ha ricevuto la solidarietà di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, mentre l'europarlamentare parla di "agguato televisivo". Francesca Galici, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. Massimo Giletti è nel mirino. Il giornalista di La7, conduttore della trasmissione domenicale Non è l'Arena, nella puntata andata in onda ieri è tornato a parlare della scarcerazione di alcuni pericolosi boss mafiosi per effetto dei provvedimenti in materia di contenimento del contagio da coronavirus. Una dura presa di posizione da parte del giornalista, che ieri in diretta si è scontrato con Dino Giarrusso, europarlamentare del Movimento 5 Stelle. Uno scambio di opinioni acceso che ha scatenato violenti attacchi contro il giornalista, "colpevole" di aver fatto inchiesta nel suo programma. Da ormai diversi giorni il ministro Alfonso Bonafede è nell'occhio del ciclone per aver avallato decisioni incomprensibili sulle scarcerazioni, che hanno portato alla remissione del mandato da parte di Francesco Basentini, ex-direttore del Dap. Inevitabile la presa di posizione di Dino Giarrusso a Non è l'Arena in favore del suo collega di partito Bonafede e altrettanto inevitabile lo scontro con Massimo Giletti, che da giorni porta avanti questa inchiesta. Sono volate parole molto forti, soprattutto da parte di Massimo Giletti che ha accusato il governo di aver trattato i boss mafiosi come "ladri di polli." Il clima in studio si è surriscaldato velocemente ma non quanto quello sui social, dove il termometro dell'indignazione popolare contro il conduttore di La7 è salito vertiginosamente. Per ore, e tutt'ora, Massimo Giletti è stato fatto oggetto di insulti e provocazioni. Servo, pagato, vergognoso, viscido sono solo alcuni degli epiteti rivolti al conduttore di Non è l'Arena nel corso della serata di ieri. Non è la prima volta che i due arrivano allo scontro. Non è la prima volta che il lavoro di Massimo Giletti viene messo in discussione da una certa opinione popolare, quando si tratta di inchieste di questa levatura. Durante la puntata di ieri, il conduttore ha snocciolato nomi e cognomi di personaggi legati alla criminalità organizzata che da qualche giorno si trovano in regime di detenzione domiciliare. Un fatto gravissimo, denunciato dalle opposizioni e pubblicamente ribadito da Massimo Giletti, che ha ricevuto la solidarietà di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. "Attacchi e insulti a Massimo Giletti dolo la trasmissione Non è l'Arena di ieri sera. Il tutto per aver semplicemente svolto con professionalità il suo lavoro da conduttore e giornalista. Forza Massimo, gli insulti e gli attacchi gratuiti non ti fermeranno", ha scritto Giorgia Meloni in un tweet particolarmente apprezzato dalla rete. Pochi minuti fa è intervenuto anche Matteo Salvini, che ha ribadito la sua stima nei confronti del professionista di La7: "Tutto il mio sostegno a Massimo Giletti, uomo e giornalista libero." Resta da sciogliere il nodo delle scarcerazioni, in attesa che vengano forniti chiarimenti precisi sulle decisioni assunte in merito. Intanto, sui suoi social, Giarrusso si gioca la carta del vittimismo, accusando Giletti di avergli teso un "agguato televisivo."

Intervista a Franco Coppi: “Bonafede disastroso, Davigo fa rabbrividire”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Maggio 2020. Per l’enciclopedia Treccani è l’avvocato più famoso d’Italia. Decano dei penalisti italiani, Franco Coppi – che per tutti è “il Professore” – in vita sua ne ha viste tante, assistendo anche Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, solo per citare due nomi. Raggiunto dal Riformista, attacca con ironia: «Ne ho viste tante, ma non avrei mai immaginato di finire io stesso ai domiciliari». Iperattivo, abituato a calcare le scene in tribunale, mal digerisce di dover stare chiuso in casa, nell’attesa che passi l’emergenza coronavirus. Classe 1938, lavora attivamente su alcuni dei casi recenti più spinosi, dall’omicidio del carabiniere Cerciello alle due ragazze investite in corso Francia a Roma.

Siamo tutti ai domiciliari, professore.

«Mi dicono che ne avremo per un anno o forse più. Per questo studiano misure di lungo corso».

A gestire questa fase, un premier avvocato. Che opinione ha di Conte?

«Se la sta cavando abbastanza bene, per uno che non aveva alcuna esperienza precedente in politica. Sta imparando il mestiere giorno per giorno. Ha avuto la fortuna e la sfortuna insieme di vivere questo momento particolarissimo, che comunque sarebbe stata una prima volta per chiunque. Detto questo, non ho mai avuto una predilezione per i politici dalla preparazione giuridica: i giuristi sono formali, l’uomo politico deve avere una elasticità diversa».

E dunque?

«Giudizio sospeso, in attesa di poter valutare i risultati».

Veniamo alla riforma del processo penale.

«Ecco, su questo un giudizio chiaro vorrei darlo: un disastro. Non si possono improvvisare le grandi riforme, altrimenti si ottengono risultati fallimentari. Chiunque assista a un’udienza si accorge che vengono ripetute le testimonianze e i documenti che tutti già conoscono, a eccezione del giudice, dai verbali investigativi del pm a quelli del dibattimento. Un meccanismo caotico, per di più aggravato dalla pretesa di ridurre la durata processuale complessiva, cosa che la riforma della prescrizione impedisce di fatto».

Tutta colpa del ministro Bonafede?

«È un periodo in cui occorrerebbe un ministro della Giustizia con il coraggio di fare un bilancio attuale sul pianeta giustizia. Nuovo processo penale, prescrizione, gestione delle carceri: siamo alla débâcle. Il ministro che vorrei vedere oggi deve saper prendere di petto la situazione. Invece abbiamo trenta udienze per ciascun processo, e per questo ministro non c’è nessun problema».

Glielo ha mai detto?

«Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo e di parlargli».

La riforma della prescrizione porta il suo nome.

«Questa di Bonafede è la peggiore riforma possibile. Renderà i processi eterni, senza fine. Aumenterà la discrezionalità dei processi tra quelli da trattare prima e quelli da trattare dopo. Bisogna rendersi conto che in un Paese dove arrivano a dibattimento tutti i processi, non si possono applicare regole aleatorie. Ma ho la sensazione che certi decisori di cultura giuridica ne abbiano poca».

Tra le ultime decisioni, la rimozione del capo del Dap che aveva mandato a casa due boss mafiosi.

«Per me lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità, senza farsi trascinare dalle grida isteriche della piazza.  Espressioni tipo “buttate le chiavi”, “marcire in carcere”, non devono appartenere a uno Stato di diritto, a una democrazia vera. A una persona anziana e malata deve essere accordata la detenzione domiciliare. I diritti fondamentali vanno garantiti. Non si deve ridurre la persona allo stato di cosa, altrimenti abbiamo dimenticato tutte le lezioni di Beccaria».

Quali soluzioni indicherebbe per l’emergenza carceraria?

«Partire dalla base. Mandare a casa chi ha un residuo di pena inferiore a un anno. Ed è il momento di pensare a una vera amnistia. Sarebbe opportuno accordare una amnistia di particolare ampiezza, perché ci sono processi penali che hanno fatto patire già sin troppe sofferenze. E c’è un eccesso di custodia cautelare, troppa gente in attesa di giudizio, con tempi inammissibilmente prolungati».

E per il pianeta carcere?

«Costruire carceri moderne, nuove, con la capacità di affrontare la popolazione carceraria. Oggi si vive in condizione disumana nelle carceri. E la popolazione carceraria corre il rischio di subire un supplemento di pena: se vanno evitati gli assembramenti, oggi tutte le celle delle prigioni sono fuorilegge. Qualcuno si assuma la responsabilità: cinque persone stipate in una cella piccola, non è dignitoso».

Magari anche usando i braccialetti elettronici.

«È davvero imbarazzante, uno dei simboli di una giustizia imbrigliata. Ci sono, ci sarebbero. Ma non si usano, e si fatica ad averne. Parlo di casi che conosco: ho ottenuto l’ammissione di una persona ai domiciliari, ma è rimasta in carcere perché il braccialetto elettronico non si trova. Siamo davanti a una lesione quotidiana del diritto».

Lei ha capito che fine abbiano fatto?

«Che fine abbiano fatto è un mistero. Deve esserci qualcosa dietro. Io so per certo che dal provvedimento alla disponibilità del braccialetto, passa troppo tempo».

Si scontrerebbe con i magistrati duri e puri alla Davigo.

«Quando sento un magistrato dire che un imputato assolto è un delinquente che l’ha fatta franca, rabbrividisco: vuol dire che ha giudicato per anni con pregiudizio».

Perché secondo lei certe figure finiscono per piacere così tanto alla pancia del Paese?

«Perché canalizzano la rabbia su capri espiatori facili da attaccare, non rendendo un gran servizio alla giustizia. Nella mia carriera mi sono sempre dedicato a far capire quali e quanti sono i rovesci della medaglia. Perché un giovane siciliano diventa mafioso, quali responsabilità ha la collettività. Se un giovane di 15 anni smette di andare a scuola e entra nelle file della malavita, bisogna andare alla radice, capire come avvengono certi processi. Invece siamo alla ricerca spasmodica del nemico, forti dell’idea che la colpa è sempre di qualcun altro».

Succede, se la classe dirigente è debole.

«La politica ha grandi responsabilità. Investire nella cultura e nell’educazione, curare i giovani, accogliere la sofferenza: questo bisognerebbe fare, prima di pensare alla repressione e alla punizione. Più musei si fanno visitare, meno reati si compiono».

Se finalmente vi incontraste, cosa suggerirebbe al ministro Bonafede?

«Metta mano a una revisione dei disastri cui assistiamo. Ci vuole un programma di riforma immediata, dei ritocchi presto attuabili. Metta insieme una commissione di saggi con pochi giuristi di fama per gli aggiustamenti immediati del processo penale».

Giuseppe Alberto Falci per huffingtonpost.it il 29 Aprile 2020. “Nessuna isteria, nessuna emotività ma princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”. Nei giorni del coronavirus succede anche questo: Pasquale Zagaria, super boss della Camorra esce dal carcere per motivi di salute, a casa pure il capomafia di Palermo, Francesco Bonura. Su questo tema ascoltiamo il parere di Franco Coppi, professore emerito di diritto penale, nonché illustre avvocato di imputati come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. “Per me - insiste - lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità e senza lasciarsi condizionare dalla isteria del momento. Ripeto, ci sono dei princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”.

Franco Coppi: “Uno Stato è forte e autorevole quando rispetta i diritti. Anche quelli di un mafioso…” Valentina Stella su Il Dubbio l'1 maggio 2020. Secondo l’avvocato e giurista, «il processo da remoto non garantisce l’oralità, l’immediatezza del contatto tra le parti e la cross examination. Tutte caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere». In un periodo così delicato per l’amministrazione della giustizia, in cui i principi fondamentali dell’ordinamento vengono messi in discussione, l’analisi del professore e avvocato Franco Coppi è una utile bussola che ci aiuta ad orientarci nella giusta direzione.

In questi giorni hanno suscitato molte polemiche le scarcerazioni di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Secondo alcuni magistrati lo Stato si è indebolito. Qual è il suo punto di vista?

«Se non sbaglio tutti questi personaggi vengono “scarcerati” per motivi di salute. Non è che ad un certo momento vengono mandati a spasso perché le carceri sono piene o lo Stato cede al ricatto di qualcuno. Sono persone le cui condizioni sono incompatibili con il regime carcerario. Il nostro ordinamento è pieno di disposizioni che stabiliscono che se una persona si trova in uno stato di salute tale da renderla incompatibile con la reclusione in carcere viene sospesa l’esecuzione delle pena o si concedono i domiciliari. La regola è questa, anche se si tratta di un boss mafioso, e la forza dello Stato sta proprio nel rispettare le regole, piacciano o non piacciano».

Sul fronte politico quasi tutti sono contro queste concessioni di misure alternative a carcere. Matteo Renzi ha detto: “Io sono un garantista convinto. Ma essere garantisti non significa scarcerare i superboss”.

«Se il boss si trova in una situazione di salute tale per cui non risulta più curabile in carcere, trattenerlo lì dentro significa trasformare la pena in un trattamento disumano che l’articolo 27 della Costituzione vuole sia bandito dal nostro sistema».

Si può essere garantisti con il “ma” davanti?

«O si è garantista o non lo si è: non esiste il garantista a metà soprattutto rispetto a delle situazioni che sono puntualmente previste dall’ordinamento e che devono portare a certe determinate soluzioni».

Queste affermazioni vanno ad alimentare quel populismo penale per cui i mafiosi sono dei sanguinari (non sapendo ad esempio che Pasquale Zagaria non si è mai macchiato di reati di sangue) che non hanno più diritti e per cui dobbiamo buttare la chiave. Come rispondere?

«Espressioni come “buttare la chiave” o “deve marcire in carcere” non dovrebbero far parte del vocabolario di uno Stato forte che amministra la giustizia con equilibrio. Il vecchio Beccaria avvertiva e ammoniva che mai una persona può essere trasformata in cosa. I diritti fondamentali sono riconosciuti dall’ordinamento penitenziario a tutti i detenuti, anche ai responsabili di reati di mafia. In questo a mio avviso c’è la dimostrazione della forza dello Stato».

In questi giorni si discute molto anche del processo da remoto. Il decreto legge presentato due giorni fa ha scongiurato il peggio. Secondo lei, come originariamente concepito, avrebbe offerto un buon servizio ai cittadini e alla macchina della giustizia?

«Ritengo di no. In passato è stato compiuto uno sforzo per dare al Paese un processo tutto fondato sull’oralità, sull’immediatezza del contatto tra le parti e sulla cross examination, mentre il processo da remoto, così come concepito inizialmente, contraddiceva tutte queste caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere. Aggiungo che mi sarebbe parso di difficile praticabilità un processo di quel genere quando ci si trova di fronte ad un procedimento con una pluralità di imputati, con decine di testimoni. Non dobbiamo dimenticare che in ogni grosso tribunale – pensiamo a Roma o Milano – si celebrano decine di processi al giorno. Si figuri l’organizzazione che sarebbe necessaria per mettere in atto qualcosa del genere».

Per come era immaginato, il processo da remoto non avrebbe permesso la pubblicità dell’udienza e la presenza della stampa. Su questo punto cosa pensa?

«La pubblicità dell’udienza è un fatto che viene spesso sottovalutato. Ma rappresenta il controllo della collettività su come si amministra la giustizia, è partecipazione ad essa, quindi è un dato che non può essere sottovalutato».

In questo momento che ministro della Giustizia vorrebbe?

«Mi piacerebbe avere un ministro della Giustizia capace di valutare i risultati conseguiti con il cosiddetto nuovo codice di procedura penale e che sappia prendere atto anche dei suoi fallimenti disastrosi, per poi avere il coraggio di riesaminare la situazione, eventualmente rivalutando qualche cosa del passato. Non è detto che tutto quello che è passato sia cattiva merce».

A cosa si riferisce?

«Questa idea della prova che si deve formare nel contraddittorio delle parti, per cui tutto quello che è stato raccolto in fase istruttoria non deve essere messo a disposizione del giudice prima del dibattimento perché si teme che l’organo giudicante possa formarsi un pre-giudizio, ha fatto sì che processi che con il vecchio codice si potevano concludere in due/tre udienze, oggi vengono trattati in venti/trenta udienze, con distacchi temporali incredibili tra l’una e l’altra. Ciò arreca uno svantaggio enorme, ad esempio, al principio dell’oralità e della formazione del giudizio aderente agli atti processuali. Ecco, questo sarebbe proprio il momento in cui ci si dovrebbe mettere attorno a un tavolo per esaminare freddamente e lucidamente qual è lo stato dell’arte».

Scarcerare è legittimo, il consenso non serve. Alessandra Dal Moro su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato al Plenum del Csm dalla consigliera Alessandra Dal Moro a nome di tutti i togati della corrente Area (corrente di sinistra dei magistrati). Voglio esprimere, anche a nome degli altri consiglieri che si riconoscono in AreaDG, la mia preoccupazione per le reazioni e i commenti suscitati dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali e per questo sottoposti al regime dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, che, per i toni violenti od impropri, rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione nei confronti della magistratura di sorveglianza. Una magistratura che – con le note difficoltà dovute alla carenze di organico e di personale che la drammatica contingenza non può che aggravare – è oggi impegnata a fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri notoriamente e drammaticamente sovraffollati, valutando con attenzione le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute e ai trattamenti sanitari indifferibili. Si tratta di decisioni difficili che implicano il necessario bilanciamento di interessi di rilevanza costituzionale, che deve avvenire nel rispetto delle norme del codice penale, dell’Ordinamento Penitenziario e, innanzitutto, dell’art. 27 della Costituzione, che, sancendo il principio di umanità della pena ed imponendo che la stessa sia tesa al recupero e alla rieducazione del condannato, ricorda che i detenuti anche i più pericolosi, sono persone, rispetto alle quali in nessuna fase la giurisdizione può abdicare al proprio ruolo di tutela dei diritti, e di quelli fondamentali innanzitutto. Naturalmente ogni singola decisione deve valutare in concreto, volta per volta, ogni vicenda, e decidere attuando un difficile bilanciamento dei valori in gioco, sentiti tutti gli interlocutori coinvolti. Ed ogni decisione è suscettibile di essere verificate dal Tribunale di sorveglianza e poi nei successivi gradi di giudizio. Perciò, come bene ha sottolineato il Presidente dell’ANM, ogni magistrato sa che le proprie decisioni possono essere discusse, riformate, non condivise e criticate, anche aspramente. Ma sa anche che in nessun modo il consenso sociale o politico può condizionare l’esercizio della giurisdizione, e che al consenso – così come al dissenso – non può che essere indifferente nell’esercizio delle sue funzioni, perché in ciò si realizza, primariamente, la prerogativa costituzionale della sua indipendenza. Ogni critica è legittima, quindi. Ma legittimi non sono gli attacchi e le offese o addirittura la richiesta di espulsione dall’ordine giudiziario che pure abbiamo sentito avanzare in questi giorni. Questi costituiscono violente delegittimazioni che ledono l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione ed al contempo la serenità che sempre deve assistere – ed in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario – l’esercizio del compito difficilissimo di giudicare. Aggiungo, che, come abbiamo spesso ricordato in quest’aula anche in omaggio ad un grande Vicepresidente quale fu Vittorio Bachelet in un contesto per altre ragioni di grande emergenza democratica, lo Stato dimostra la propria forza proprio nel non abdicare mai al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda. Di fronte all’esecuzione della sanzione penale, che non è una vendetta ma uno strumento per realizzare la sicurezza sociale e tendere alla rieducazione della persona condannata, lo Stato mostra la sua forza proprio nel trattare chi delinque, chiunque egli sia, come un essere umano, rispettandone la dignità ed i diritti inviolabili come valore assoluto anche se si tratti del peggiore degli assassini. Ed in questo sta la sua grandezza. Non la sua debolezza.

Diktat dei signori della forca: vietato dare diritti ai mafiosi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Ho capito solo adesso (sono tardo) il motivo per cui alcuni magistrati perdono completamente le staffe quando è in discussione un qualsiasi provvedimento che riguardi “i mafiosi” e che non sia di puro e semplice accanimento afflittivo. Può essere una sentenza che assolve o un’ordinanza che scarcera, può essere una proposta di legge che osa immaginare l’attenuazione dei rigori detentivi, cioè il regime incostituzionale del cosiddetto “carcere duro”, insomma qualsiasi cosa che non sia pura e semplice giustizia piombata: puntualmente, quei magistrati insorgono denunciando che in quel modo lo Stato viene meno ai propri doveri, cede al ricatto della criminalità organizzata, rinuncia a combatterla e via di questo passo. In realtà la ragione vera e profonda del loro disappunto rabbioso è un’altra: ed è che la loro funzione è travolta quando un “mafioso” è destinatario di trattamenti alternativi alle manette e alle sbarre. C’è solo un caso in cui il criminale può godere di attenuanti e sperare di non essere esposto alla gogna sempiterna, e cioè quando decide di affiliarsi al sistema di pentimento e collaborazione: allora va bene, perché così si celebra comunque l’immagine del giustiziere che sottomette il crimine al proprio duro comando e anzi ne riceve riconoscimento. Altrimenti, niente. Perché quella giustizia, per esistere, ha bisogno che il mafioso delinqua o marcisca in carcere. Se ne esce, pur quando ne ha diritto, o se smette di essere torturato, l’immagine e appunto la funzione di quella giustizia è compromessa. Ma non è lo Stato di diritto a risentirne: sono loro, quei magistrati, e l’anti-Stato che essi rappresentano.

Persone con un nome, ecco perché non dovete chiamarli “mafiosi”. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Aprile 2020. È perfettamente legittimo protestare irritazione se il responsabile di gravi delitti è scarcerato per ragioni di salute. Si può legittimamente ritenere che debba marcire in galera, come legittimamente ritiene il capo del primo partito italiano in felice accordo con l’ex alleato di governo nonché, in bella unità nazionale, con il ganzo di Pontassieve. Quello è malato, ha scontato quasi tutta la pena, rischia di morire “di galera”, non “in galera”, perché la prosecuzione della detenzione carceraria mette in pericolo la sua vita: e tu vuoi che ci rimanga, perché siccome ha commesso delitti importanti deve rimanerci – letteralmente – fino alla fine. E va bene: urli vergogna vergogna, e magari ci infili che mentre i vecchietti perbene muoiono di Coronavirus quelli lì, i mafiosi, se ne vanno a casa e noi gli paghiamo pure il biglietto (questo schifo l’abbiamo visto l’altra sera su TeleSalvini, ovvero la trasmissione di quel Giletti, Non è l’Arena, l’enclave leghista di Telecinquestelle ovvero la7). Tutto bene, per modo di dire. Ma la protesta cessa di essere solo discutibile e diventa illegittima quando pretende di imporsi sulla legge che quella scarcerazione consente, e se in modo sedizioso denuncia alla riprovazione pubblica i magistrati che l’hanno disposta. Perché allora non si tratta più dell’incensurabile, per quanto ripugnante, manifestazione dell’idea barbara secondo cui chissenefotte se un cittadino crepa di carcere: si tratta piuttosto della pretesa che lo Stato diserti la propria legalità e che i magistrati siano lo strumento di quella sovversione. Non basta. Perché tu puoi ancora menare tutto lo scandalo che ti pare se la giustizia carceraria non funziona proprio come vuoi, se cioè si limita alla tortura dell’isolamento, alla vergogna del sovraffollamento, alla regolarità del suicidio, e non prevede la sacrosanta pena supplementare della morte per assenza di cure. Ma in un Paese appena decente, che non è quello in cui siamo e non è quello che tu desideri, nessuno avrebbe diritto di rivolgersi a quegli esseri umani chiamandoli “mafiosi”. Dice: ma sono mafiosi! Come dovremmo chiamarli? Non così: perché il delitto che hanno commesso conferisce alla società il potere di punirli, non il diritto di degradarli a una cosa senza identità esposta allo sputo della folla. È un piccolo dettaglio di decoro civile che forse sfugge ai più, o almeno a quelli che fanno chiasso se un ottantenne in metastasi fruisce del diritto di curarsi: ma non è giusto revocargli persino il diritto al nome, istigando il pubblico a farsi coro – “Mafioso! Mafioso!” – di quella specie di lapidazione verbale. Perché è una persona quella che lo Stato rinchiude in un carcere, ed è una persona quella che ne esce quando ne ha diritto.

Professore Coppi, dunque ci sono delle regole generali che garantiscono la salute di tutti i detenuti. Ma qui il punto è: è giusto o non è giusto che anche capi della mafia o della camorra usufruiscano di queste garanzie?

«Certo che è giusto, non c’è una limitazione sotto questo punto di vista alla eventuale gravità dei reati commessi o meno. E’ un principio di carattere generale. D’altra parte, non deve dimenticare l’articolo 27 della Costituzione che stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità. Ora lasciare in carcere una persona che è affetta da malattia, che nel carcere non può essere curata, e potrebbe portare alla morte, trasformerebbe quella pena in un trattamento disumano. Quindi si deve tener conto di questi princìpi fondamentali. E lo stesso ordinamento penitenziario vuole che vengano rispettati i diritti fondamentali dell’imputato detenuto, e fra i diritti fondamentali c’è il diritto alla salute. Anche se può dispiacere che un boss di quel calibro possa riavere “la libertà” sta di fatto che la legge è questa e va rispettata nei confronti di tutti».

Però il 41-bis prevede che si possa anche fare in un regime ospedaliero. Non a caso c’è una frase presente nell’ordinanza dei giudici di sorveglianza di Sassari, che hanno consentito l’uscita dalla prigione sarda di Zagaria, che ha sollevato polemiche: “Il tribunale ha chiesto al Dap se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale, […], ma non è pervenuto alcuna risposta, neppure interlocutoria”. Dunque, la colpa è del capo del Dap, Francesco Basentini?

«Il problema è di verificare se correvano le condizioni per adottare il provvedimento. Se ricorrevano le condizioni, doveva essere adottato il provvedimento e non vedo perché possano essere affermate responsabilità di questo o di quello».

Nel frattempo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si dice pronto a intervenire per correre ai ripari, e Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia, rincara la dose: “Stiamo tutti piangendo la morte a Napoli di un agente di polizia morto sul dovere. [...] Ma è devastante assistere alla scarcerazione di boss mafiosi contemporaneamente oggi con la morte di  agenti di polizia”. Si tratta di una reazione emotiva di un certo tipo di giustizialismo che continua a portare voti e soffia forte nel Paese?

«Bene, queste sono quelle cose che si possono dire sotto la spinta dell’emozione del momento. Bisogna ragionare a mente fredda. Se anche un boss mafioso sta morendo in carcere perché lì non ci sono le condizioni per poterlo curare, a quel punto va trasferito in un posto dove essere curato. Comunque la detenzione può essere trasformata in detenzione ai domiciliari per il periodo necessario a che lui recuperi un grado accettabile di salute».

Anche alcuni magistrati, tra cui Nino Di Matteo e Cafiero De Raho, sbottano: “Lo Stato è debole e cede ai ricatti dei mafiosi”. Qualcuno arriva a paventare una pax tacita tra lo Stato e la mafia.

«Lo Stato dimostra la sua forza proprio anche nell’amministrare la giustizia con equanimità. Lo Stato non è lì per vendicarsi o per castigare ciecamente. Il suo distacco e la sua distanza dal delinquente sta proprio nel trattare quest’ultimo come essere umano. E in questo sta proprio la grandezza dello Stato. E’ la stessa ragione per la quale non si applica la pena di morte all’assassino: il rispetto per la vita è tale che lo Stato lo tutela perfino nei confronti di chi ha tolto la vita ad altri. Questo è il princìpio».

Così facendo però si reinserisce nel suo ambiente originario un super boss. Non crede che siano necessarie delle misure di sorveglianza e cautela per la tutela della popolazione?

«Certo poi il giudice può disporre delle eventuali misure, penso allo stesso braccialetto elettronico che permette di controllare gli spostamenti».

Quando si parla di 41 bis i detenuti sono tutti uguali, o si fanno delle distinzioni fra chi ha commesso crimini sanguinari e chi ha comportamenti meno efferati? Zagaria è uguale a Cutolo?

«Il problema è che uno, Zagaria, è affetto da una malattia e da uno stato di salute incompatibile con il regime carcerario rispetto a Cutolo o altri che non si trovano in questa situazione. Ecco per loro i rimedi per porre i termini a una carcerazione che sia particolarmente lunga, rispetto alla quale non ha più una senso una prosecuzione, ci sono. Ad esempio, si potrebbe pensare al rimedio della grazia. Non è scritto da nessuna parte che a un certo momento una persona non possa ottenere una riduzione della pena. O un provvedimento favorevole. Qui, nel caso di Zagaria, stiamo parlando sì di un superboss ma che si trova in uno stato di salute non compatibile con il regime carcerario».

Insomma dopo quarantacinque anni di carcere anche uno come Raffaele Cutolo, ribattezzato “Don Rafè”, capo della “Nuova Camorra Organizzata”, ha  chiuso la partita con lo Stato?

«Senta, io con riferimento a casi specifici non mi pronuncio. La pena deve tendere alla rieducazione. Sono dell’idea che nella misura in cui fosse riconosciuto il raggiungimento di questa finalità, la pena non avrebbe più ragione di essere eseguita. Mi rendo conto che sono valutazioni molto difficili, molto delicate, è scritto nella Costituzione che la pena deve tendere a quel risultato. Se lo ha raggiunto, è legittimo chiedersi se ha un senso la prosecuzione della pena».

Per concludere questa intervista la riporto all’inizio dell’emergenza Covid, a quando ci sono state le rivolte carcerarie. Ecco, quale ruolo possono avere avuto? Qualcuno paventò una regia.

«Spero che non abbiano avuto nessuna influenza».

Tutti con Travaglio: Renzi, Zingaretti e Berlusconi sono diventati forcaioli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Si è scatenata la tempesta perfetta. Ha una forza bestiale: destra, sinistra, giornali, Tv e un pezzo – probabilmente ancora minoritario ma fortissimo – della magistratura. È un susseguirsi di grida feroci. Ciascuno cerca di essere più feroce dell’altro. Qual è l’obiettivo? Direi che gli obiettivi sono due. Il primo, politico, sono i voti. Voti da rastrellare in cambio di giustizialismo a buon mercato (potremmo perfino definirli “voti di scambio”). Il secondo obiettivo è quello che indicavano sul Riformista di sabato scorso: intimidire la parte più seria e scrupolosa della magistratura, quella più legata ai principi del diritto, e fargli capire che non è più aria di discorsi e di Costituzione: la magistratura è giustizialismo o non è. La Costituzione è anticaglia. L’offensiva è condotta con grande intelligenza da quella che abbiamo chiamato la magistratura “rosso-bruna”, perché unisce i reazionari di Di Matteo e Davigo con un pezzo di “Magistratura democratica” (credo, spero, non tutta), cioè la corrente di sinistra. Tanto rosso-bruna da essere, alla fine, riconducibile alla leadership del giornale rosso-bruno per eccellenza, e cioè il Fatto di Travaglio. È da lì che è partita la campagna. Da lì la si dirige. La cosa impressionante è che a questa offensiva si son piegati tutti. In magistratura i pochi elementi rimasti a combattere sul fronte del diritto sono isolatissimi e indicati come bersagli da colpire. Pensate alla giudice di Milano che ha deciso la scarcerazione di un signore che una ventina d’anni fa si macchiò di alcuni reati di estorsione, e che oggi, quasi ottantenne, combatte per la vita contro un cancro: avete ascoltato voci in sua difesa? Cioè in difesa di una magistrata molto seria ed esperta, con trent’anni di servizio? Sì, ci sono tre magistrati che ieri hanno presentato una richiesta di apertura di una cosiddetta “pratica a tutela” a suo favore. Però, curiosamente, i tre hanno presentato la richiesta in polemica con Maurizio Gasparri, deputato, senza neppure accennare alla figura del loro collega Nino Di Matteo. È vero che l’uscita di Gasparri, che addirittura ha chiesto la rimozione del giudice, è gravissima e ingiustificata. Ma Nino Di Matteo aveva fatto molto di peggio. Aveva parlato di “cedimento al ricatto mafioso”. Cioè, in pratica, aveva accusato la sua collega di favoreggiamento, o forse di concorso esterno in associazione mafiosa. Hanno protestato gli avvocati, le Camere penali. Stop: le Camere penali e basta. In politica non si è sentita una voce. Nella magistratura silenzio, silenzio, silenzio. Come è possibile: è solo paura? Paura di che, di chi? Di Travaglio, della sua capacità di trascinarsi dietro gli altri giornali e praticamente tutto l’apparato televisivo italiano? Possibile che Travaglio sia così potente? Sembra proprio di sì. Lo scenario che abbiamo davanti è duplice, e terrificante. Da un lato la possibilità concreta che invece di avviarci verso la separazione delle carriere – cioè l’avvicinamento del sistema italiano ai sistemi di tutto il mondo democratico – si compia un passo nella direzione inversa: quella di costringere la magistratura giudicante a sottomettersi alle Procure. Cioè all’accusa. Non sarà un passaggio leggero, né semplicemente formale. Ridurrà ai minimi termini il potere della magistratura giudicante e renderà quasi onnipotente il potere delle accuse. La sorte di un detenuto, in pratica, durante il periodo nel quale sconta la pena, non dipenderà più da un giudice terzo ma dal suo accusatore, che qualche volta, magari, è esattamente il suo persecutore. Sarà lui ad avere in mano il destino del detenuto per tutto il periodo della condanna. Se è ergastolo, per tutta la vita. Il detenuto sarà un oggetto alla sua mercé. E la magistratura sarà sempre di più un potere e sempre di meno un ordine. La sua arma non sarà più il diritto ma la forza politica. Dilagante. Il secondo scenario che si apre è quello della vittoria definitiva del giustizialismo. La resa senza condizioni dell’Italia liberale. In queste ore abbiamo assistito a cedimenti spaventosi da parte delle forze che si ispirano a idee liberali. A partire da Italia Viva, per non parlare del Pd. E persino settori di Forza Italia. A me una cosa pare chiarissima. Garantismo non vuol dire difesa dei politici dai magistrati. Vuol dire difesa dei diritti, di tutti. Dei politici e dei miserabili, dei migranti e dei mafiosi, degli innocenti e dei colpevoli. Non ci sono santi: è così. Chi oggi si scaglia contro la magistrata che ha scarcerato Bonura e contro quello che ha scarcerato Zagaria deve però farci un favore. In futuro non dica più: io sono garantista. Non lo dica più: non è vero.

Su Cutolo Salvini ha annunciato una sentenza che non c’è…Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Aprile 2020. «Sono le 19 e finora non ho ricevuto alcuna notifica. Non conosco il giudice e il personale della cancelleria dell’ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia ma ritengo che siano persone perbene e credo che una decisione così delicata non la comunicherebbero prima a Salvini». Con queste parole l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore di Raffaele Cutolo, smentisce l’ex ministro Matteo Salvini che, secondo un’agenzia di stampa, in un post su Facebook aveva scritto «Poche ore fa per fortuna hanno negato la libera uscita a Raffaele Cutolo». Bisognerà quindi ancora attendere per la decisione sulla sospensione dell’esecuzione della pena richiesta dallo storico capo della Nuova Camorra Organizzata dopo oltre 40 anni di ininterrotta detenzione. E il clima che accompagna questa attesa non è privo di commenti e interventi che spaccano l’opinione pubblica su cosa debba prevalere: se il diritto alla salute del detenuto o il peso del nome che porta.

«Cutolo ormai è una bandiera da sbandierare sulla torre della lotta alla criminalità organizzata senza pensare che è un uomo di quasi ottant’anni con seri problemi di salute» afferma l’avvocato Aufiero che ieri, con una memoria di 9 pagine, ha rinnovato al magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia la richiesta di concedere a Cutolo gli arresti domiciliari nella sua casa, a Ottaviano. «Perché – scrive l’avvocato – le patologie di cui è affetto Cutolo sono di assoluta gravità, certamente suscettibili di inevitabile e ulteriore peggioramento a causa della pandemia e quindi difficilmente fronteggiabili in regime detentivo». E lo dimostrerebbe, per l’avvocato, anche il documento con cui l’8 marzo scorso l’ospedale di Parma dimise Cutolo dopo settimane di ricovero, dichiarando che «il paziente è stato dimesso per eventi legati al coronavirus». «Quindi se dovesse ripresentarsi la necessità di un nuovo ricovero in ospedale così come avvenne lo scorso 19 febbraio, il rischio di morte per il condannato sarebbe altissimo», sostiene la difesa dell’ex capo della Nco che in tema di pericolosità, anticipando un tema che si prevede tra quelli in esame per il nuovo decreto atteso per domani e in cui si potrebbe ritenere necessario per le scarcerazioni anche il parere della Direzione nazionale antimafia, aggiunge che «Cutolo Raffaele è sottoposto a regime di 41bis dal 1992, sei dei quali trascorsi da solo all’interno del carcere dell’Asinara per lui appositamente riaperto. Commise il suo ultimo reato nel 1981, quindi 39 anni fa. Non ha familiari o prossimi congiunti che abbiano commesso negli ultimi 40 anni reati o semplici infrazioni di legge. Non ha più contatti con l’esterno da circa 40 anni» aggiunge l’avvocato citando fra l’altro l’ultimo decreto in ordine di tempo con cui a Cutolo è stato rinnovato il 41bis. «Sono trascorsi 7 mesi dal deposito del reclamo e ancora si è in attesa di fissazione della relativa udienza. Quel decreto ancòra il giudizio di pericolosità attuale e qualificata a un colloquio in carcere avuto da Cutolo con un volontario della Comunità di Sant’Egidio, colloquio regolarmente autorizzato dalle competenti autorità penitenziarie». Fin qui tutte quelle che l’avvocato Aufiero definisce «inevitabili e ineludibili considerazioni a seguito di recenti e sempre più pressanti polemiche da parte dell’opinione pubblica, organi di stampa, rappresentanti della politica locale e nazionale nonché di taluni magistrati che pure ricoprono ruoli istituzionali di assoluto rilievo». Basteranno a rendere il diritto alla salute del detenuto prevalente su tutto quello che il nome di Cutolo ancora evoca? C’è grande attesa per le sorti di colui che con gli occhiali dalla sottile montatura in oro e il sorriso sempre a labbra strette è stato protagonista non solo della storia criminale campana ma anche di una buona parte di quella più controversa del Paese. Lui, l’ingegnere, il Vangelo, il camorrista che ispirò il romanzo di Giuseppe Marrazzo e il film d’esordio del regista Giuseppe Tornatore, don Raffaè come nella canzone di Fabrizio De Andrè, il professore per quella capacità comunicativa che fece la forza del suo potere criminale negli anni Ottanta e che oggi pesa sulla possibilità di lasciare il carcere.

Renzi e Gasparri garantisti a targhe alterne: su Zagaria e Bonura diventano giustizialisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Che cosa unisce Matteo Renzi e Maurizio Gasparri, oltre al fatto che sono ambedue senatori della repubblica? Il garantismo per esempio, verrebbe da dire, visto che militano in due partiti che non amano alzare le forche: non Italia viva, men che meno Forza Italia. Invece accade proprio il contrario. Così si buttano tutti e due, con sprezzo del pericolo, nella discussione feroce su alcuni “differimenti di pena” ordinati da tribunali di sorveglianza. Si buttano, e chiedono radiazioni e licenziamenti di chi ha scarcerato. A casa devono andare i magistrati e i responsabili del ministero, magari anche lo stesso Guardasigilli, strillano. Chiariamo subito che i provvedimenti che più hanno destato scandalo, quello del giudice milanese nei confronti di Francesco Bonura e quello del tribunale di Sassari in favore di Pasquale Zagaria, sono ineccepibili. Forse tardivi, a guardare la personalità dei due reclusi e il loro quadro clinico. Il primo era arrivato al termine della pena, che scontava nel regime previsto dall’articolo 41 bis, che vuol dire carcere impermeabile all’esterno, benché non fosse stato condannato per fatti di sangue. Ha 78 anni, una gravissima forma di tumore già operato e con recidiva in corso, oltre a tutte le altre patologie tipiche dell’età. Tra nove mesi sarà comunque libero, piaccia o non piaccia ai senatori Renzi e Gasparri. In ogni caso l’ordinanza del giudice di Milano ne ha disposto i domiciliari solo fino a giugno. È ovvio che non gli convenga darsi alla fuga, ma che desideri semplicemente curarsi in un luogo più sicuro di un carcere dove il personale si muove tra tutti i reparti, compresi quelli isolati. Il caso di Pasquale Zagaria, cui il tribunale di sorveglianza di Sassari ha concesso cinque mesi di detenzione domiciliare in un paesino del bresciano dove risiede la moglie con i figli, è apparentemente frutto di qualche discrasia tra magistratura e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, cioè un’emanazione del Ministero di giustizia. I cui ritardi ne hanno impedito il trasferimento in un centro clinico di detenzione. Ma in realtà è molto ben motivato. Anche in questo caso si tratta di una persona che non si è macchiata di reati di sangue, che si è spontaneamente costituita nel 2007 e che ha ammesso le proprie responsabilità. In questo momento è gravemente malato e non può continuare le sue cure chemioterapiche (ha un carcinoma papillifero di alto grado) nell’ospedale di Sassari, perché questo è stato trasformato in centro per i malati di Covid-19. Il magistrato che ha steso l’ordinanza scrive esplicitamente che neppure nella cella singola il recluso è indenne dal rischio di contagio da coronavirus, perché non si può garantire un isolamento totale dal personale di polizia penitenziaria e dagli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere. Ineccepibili tutti e due i provvedimenti. C’è quindi da domandarsi se i vari Catello Maresca, pm napoletano che l’altra sera in una trasmissione tv ha aggredito il capo del Dap Francesco Basentini come se questi avesse avuto l’intenzione di far ricostruire il clan dei casalesi, e poi don Ciotti, ma anche politici attenti come Gennaro Migliore, e Mirabelli e Verini e Giusi Bartolozzi abbiano letto e si siano informati. Ripetiamolo: si tratta di “differimenti pena” di pochi mesi in favore di persone che a questo punto della loro vita desiderano solo potersi curare e non vedersi comminare una pena accessoria, cioè la pena di morte da coronavirus. Che cosa hanno scritto nei loro tweet Renzi e Gasparri? Il leader di Italia viva se la prende con il ministro Bonafede. “La scarcerazione dei superboss di camorra e ‘ndrangheta – scrive -è INACCETTABILE. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna”. Chiunque sia il “responsabile” a dover essere cacciato, un magistrato (che non può certo esser licenziato da un ministro) o il capo del Dap, quel che è chiaro è che Matteo Renzi ha deciso di spogliarsi della veste di garantista ( del resto un po’ appicicaticcia) per indossare quella più consona a Gasparri, da sempre il volto forcaiolo di Forza Italia. Il quale ha fatto di peggio, rendendo pubblico il nome del magistrato milanese che ha disposto i domiciliari per Bonura e ne ha chiesto la radiazione dalla magistratura, insieme ai colleghi del tribunale di sorveglianza di Sassari. Venendo immediatamente preso di mira da alcuni consiglieri del Csm, che lo citano come “un noto politico” e chiedono l’apertura di una pratica a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati colpiti. Ma al di là dei singoli casi, c’è un altro problema che dovrebbe allarmare chi ha a cuore la divisione dei poteri e i diversi ruoli all’interno dell’amministrazione della giustizia. L’ha ben individuato la giunta dell’Unione delle camere penali e riguarda l’ipotesi prospettata dal ministro Bonafede di mettere le decisioni dei tribunali di sorveglianza sotto la tutela delle Direzioni Distrettuali antimafia quando si trattano pratiche che riguardano determinati reclusi. Sarebbe gravissimo, dicono i penalisti, che un organo di giurisdizione dovesse essere controllato da un organo di investigazione, cioè il giudice sottoposto al Pm. Forse anche il Csm farebbe bene a essere allarmato, aggiungiamo noi, non solo quando viene toccata la corporazione. La commissione bicamerale antimafia, infine, che nella riunione di domani avrebbe un compito molto importante, perché esaminerà il tema dell’ergastolo ostativo dopo la sentenza della Corte costituzionale, ma che probabilmente finirà con il perdere il suo tempo a scandalizzarsi perché quattro malati andranno a casa per qualche mese. Ritenendo di essere a “Non è l’arena” invece che nel Parlamento della Repubblica.

Le polemiche. La trovata di Bonafede, giudici sottoposti all’accusa. Giovanni Fiandaca su il Riformista il 28 Aprile 2020. Il fenomeno della legislazione «motorizzata» (per dirla con Carl Schmitt), se si manifesta con particolare evidenza in questo periodo di emergenza sanitaria, è tutt’altro che nuovo nel nostro paese. Esso è in vigore da non poco tempo e già un quindicennio fa, per stigmatizzare la tumultuosa e confusa produzione continua di norme in quasi tutti i settori della vita associata, non si è esitato a utilizzare metafore di tipo medico-psichiatrico: si è così di volta in volta parlato di «psicopatologia» delle riforme quotidiane, di legislazione «compulsiva», di «nomorrea» o «sanzionorrea» et similia. A ben vedere, questa pulsione nevrotica ad aggiungere nuove norme (o a modificare norme preesistenti) nasce, spesso, da un vuoto sostanziale di elaborazione e strategia politica: prima ancora di comprendere le cause reali dei problemi sul tappeto, e di riflettere sui più efficaci strumenti di intervento, si ricorre in fretta all’espediente di creare nuove disposizioni normative (sempre più spesso di natura penale) come comodo e temporaneo tappabuchi, o come mero “ansiolitico” per rasserenare una opinione pubblica allarmata. La novità di questi ultimi tempi consiste in un ulteriore aggravamento del fenomeno, che potrebbe indurre ormai a parlare di normazione “ad horas” o “all’impronta”. Una esemplificazione emblematica la individuerei nella celerissima proposta normativa che trae spunto dalla polemica recentemente esplosa in seguito alla scarcerazione per motivi di salute (e per prevenire il rischio di contagio da Covid-19) di alcuni boss mafiosi anziani e gravemente malati. Com’è noto, da alcuni fronti politici e da alcuni settori della magistratura inquirente si è obiettato che è pericoloso rimandare in detenzione domiciliare nelle zone d’origine mafiosi di grosso spessore provenienti dal regime carcerario del 41 bis, dal momento che ciò rischia di riconsegnare un pezzo di paese alla criminalità organizzata. Inoltre, secondo il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, equivarrebbe a un segnale di debolezza consentire che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi e terroristi, perché «sarebbe come ammettere di non sapere gestire le carceri. E questo non è vero. Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza necessaria». Con tutto il rispetto per la professionalità e la competenza di Cafiero De Raho, personalmente non sarei altrettanto sicuro che l’attuale e mal funzionante sistema penitenziario nostrano riesca a garantire ai detenuti quella piena protezione dal contagio che egli sembra troppo ottimisticamente dare per scontata (la mia concreta esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti mi induce, purtroppo, a nutrire in proposito un certo pessimismo). Ma neppure mi sentirei di esprimere certezze, in termini di prognosi empirica, sul fatto che il ritorno di boss vecchi e malati nelle dimore originarie comporti, pressoché automaticamente, il ripristino del loro antico potere: darlo aprioristicamente per sicuro rischia di perpetuare una concezione mitica del mafioso quale essere onnipotente, e perciò esentato da tutti i limiti umani e dalle forme di fragilità cui sono soggette le persone comuni. Più realisticamente, penso – e credo di non essere il solo a pensarlo – che la valutazione preventiva del pericolo concreto di riassunzione di ruoli di comando andrebbe effettuata caso per caso, in rapporto alle diverse caratteristiche dei personaggi e dei contesti. Fatte queste premesse, passiamo a considerare il tipo di atteggiamento che il ministro Bonafede ha assunto per reagire alle polemiche di cui sopra. Per prima cosa, egli ha chiesto agli ispettori ministeriali di compiere accertamenti sulle scarcerazioni di boss già disposte dai magistrati di sorveglianza competenti, pur ribadendo – non senza ambigua ipocrisia istituzionale – che tali scarcerazioni «vengono adottate in piena indipendenza e autonomia dalla magistratura» (messaggio politico sottointeso: «io non c’entro niente, spetta ai magistrati decidere; ma poiché hanno deciso in una maniera che anche a me pare inopportuna, come ministro mi riservo di sanzionarli!»). Nel contempo, ecco riemergere in Bonafede la tentazione compulsiva del miracoloso rimedio normativo: egli ha cioè subito annunciato di concordare col presidente della Commissione Antimafia sulla necessità di introdurre al più presto una nuova norma, che «mira a coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia in tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia» (ed ha aggiunto di avere già emanato una circolare che va in questa direzione). Orbene, sorge spontanea una domanda: che vuol dire «coinvolgere» i magistrati delle direzioni antimafia nelle decisioni sulle misure extracarcerarie da concedere ai mafiosi? Si ipotizza di attribuire loro un potere di interlocuzione (sotto forma di parere o qualcosa di simile a un preventivo concerto con i magistrati di sorveglianza), o un vero e proprio potere interdittivo (che darebbe, peraltro, luogo a possibili obiezioni di legittimità costituzionale)? In effetti, è da escludere che i magistrati d’accusa siano i più adatti a farsi carico di un bilanciamento equilibrato fra tutti i valori, i diritti e le esigenze di tutela che richiedono di essere contemperati nella materia penitenziaria: essi, per specializzazione (per non dire “deformazione”) professionale, sono infatti portati a privilegiare in maniera unilaterale – direi quasi “totalizzante” – la sicurezza collettiva e l’efficacia del contrasto alla criminalità organizzata (per cui passano in seconda linea, ai loro occhi, la tutela dei diritti dei condannati, come appunto lo stesso diritto fondamentale alla salute e persino il diritto alla rieducazione). Mentre un orientamento tecnico e culturale incline a tenere conto di tutta la complessità delle diverse esigenze in campo è appunto tipico, tradizionalmente, dei magistrati di sorveglianza. Se le cose stanno così, prima di emanare nuove norme urgenti, il potere politico-governativo dovrebbe avere bene chiaro che esiste una connessione stretta tra le possibili forme di coinvolgimento della magistratura antimafia nelle decisioni giudiziarie sui boss che chiedono di uscire dal carcere e i possibili modelli di bilanciamento tra la rispettiva tutela della sicurezza collettiva e della salute individuale: nel senso che enfatizzare il ruolo valutativo delle direzioni antimafia equivarrebbe – inevitabilmente – a porre in primo piano la tutela della sicurezza; mentre attribuire loro un ruolo meno determinante lascerebbe maggiore spazio – come ritengo sia più giusto – a soluzioni giudiziarie di ragionevole compromesso tra i concorrenti valori in gioco. È, in ogni caso, da scongiurare una nuova disciplina dai connotati così generici o dal contenuto talmente pasticciato, da produrre ancora una volta l’effetto di trasferire sulla magistratura lo scioglimento di un nodo problematico che la politica non riesce – da sola – a risolvere.

L’attacco dei magistrati di sorveglianza: “Un pezzo di magistratura ci delegittima”. Il Dubbio il 29 Aprile 2020. La dura nota del Coordinamento: «contro di noi attacchi ingiustificati, anche da parte dei colleghi». Una «campagna di sistematica delegittimazione, che in alcuni casi si è spinta fino al dileggio», perfino ad opera di magistrati e, quindi, di colleghi. È un attacco durissimo quello del coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, che con una nota – a firma del coordinatore Antonietta Fiorillo e del segretario Marcello Bortolato – replica alle polemiche dei giorni scorsi, nate a seguito delle scarcerazioni di alcuni boss sottoposti al 41 bis per motivi di salute. Decisioni prese dai magistrati di sorveglianza, valutando atti e documenti, e che hanno spinto la politica – ma anche le toghe antimafia – a criticare aspramente il ministro della Giustizia, chiedendo la testa dei responsabili. E Alfonso Bonafede, accogliendo le richieste, ha subito proceduto a commissariare, di fatto, il Dap, annunciando un coinvolgimento delle Procure antimafia nelle future decisioni di competenza dei tribunali di Sorveglianza. L’ultima polemica, in ordine di tempo, è quella che ha riguardato la scarcerazione di Pasquale Zagaria, detto “Bin Laden”, considerato la mente economica dei casalesi. I magistrati di sorveglianza parlano di «un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni». I magistrati fanno riferimento all’articolo 27 della Costituzione, che impone una detenzione mai contraria al senso di umanità. Disposizione che vale per qualsiasi detenuto, «anche il più pericoloso», valutando caso per caso, in collaborazione – «come avvenuto in questi casi» – con tutte le autorità coinvolte, «che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati». Nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, si legge nella nota del coordinamento, «non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio». Decisioni prese sulla base di norme contenute nel codice penale che «prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Ogni decisione «è destinata ad essere discussa nel pieno contraddittorio delle parti pubbliche e private ed è ricorribile nei successivi gradi di giudizio». Da qui l’inutilità delle polemiche. «Il coordinamento ribadisce che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione – conclude la nota – e che continueranno ad avere come proprio riferimento null’altro che non sia la Costituzione e le leggi cui unicamente si sentono sottoposti».

Bonafede difende i giudici di sorveglianza ma li mette sotto tutela. Davide Varì su Il Dubbio il 29 Aprile 2020. Dopo i domiciliari concessi all’ex boss Zagaria, il ministro grillino prepara un decreto legge che limita i poteri del tribunale di sorveglianza. Con una mano rivendica l’indipendenza della magistratura di sorveglianza e con l’altra la mette sotto tutela. Insomma, il caso Zagaria – l’ex boss a cui sono stati concessi i domiciliari per gravissimi motivi di salute – sembra aver mandato in tilt il ministro della Giustizia Bonafede e con lui un pezzo di governo. Di fronte agli attacchi dell’antimafia militante, tv comprese, e quelli di Meloni, Salvini e financo Renzi – tutti indignati per la scelta di mandare a casa il boss malato – il Guardasigilli ha dovuto per forza di cose difendere i giudici salvo poi annunciare un decreto legge che toglie loro ogni potere. Colpito al cuore del giustizialismo – il core business politico del grillismo – il ministro ha infatti deciso che prima di scarcerare i detenuti al 41bis,  il tribunale di sorveglianza dovrà sentire anche il parere del procuratore nazionale antimafia.  Una decisione che ha fatto saltare dalla sedia mezza magistratura italiana – la metà più garantista, naturalmente – la quale ha parlato senza mezzi termini di grave atto di delegittimazione. A quel punto Bonafede, nel suo question time alla Camera, ha cercato di mettere una pezza: “Non c’è alcun governo che possa imporre o anche soltanto influenzare le decisioni dei giudici”, ha tuonato il ministro della giustizia dallo scranno che fu di Moro, Vassalli, Conso e Flick. E ancora: “La Costituzione – ha continuato -non lascia spazio ad ipotesi in cui la circolare di un direttore generale di un dipartimento di un ministero possa dettare la decisione di un magistrato. Le scarcerazioni richiamate sono decisioni giurisdizionali di natura discrezionale impugnabili secondo la relativa disciplina”. Punto. Insomma, il ministro Bonafede ha preso due piccioni con una fava: da un lato ha scaricato sui giudici del tribunale di sorveglianza tutte le responsabilità del caso Zagaria e dall’altro ha preparato una legge che toglie loro ogni potere futuro.

Anche per la visita a un familiare in punto di morte servirà il parere della procura Antimafia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 Aprile 2020. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, in un comunicato, denuncia di sentirsi «colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione». Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha presentato al Consiglio dei ministri un decreto ad hoc per scongiurare i domiciliari ai detenuti al 41 bis. Tutti erano in attesa di sapere in quale modo, visto che le decisioni spettano alla magistratura di sorveglianza in completa autonomia e dopo un’attenta valutazione. Ed è proprio questo il punto: come può intervenire il potere esecutivo senza incidere sull’indipendenza della magistratura di sorveglianza? Il ministro Bonafede è stato chiaro durante il question time alla Camera. «I principi e le norme della nostra Costituzione sono univocamente orientati ad affermare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ciò vuol dire che non c’è nessun governo che possa imporre e anche soltanto influenzare sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza», ha detto il guardasigilli. Ha anche sottolineato che le scarcerazioni al centro della cronaca «sono decisioni giurisdizionali, di natura discrezionale e impugnabili secondo la relativa disciplina». Poi è passato all’intervento normativo. «Approveremo un decreto legge che stabilisce, per questo tipo di scarcerazione, che debbano essere obbligatoriamente acquisiti il parere della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo e delle Direzioni distrettuali Antimafia». Il guardasigilli ha precisato che «non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo, ma si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto». Il decreto, infatti, non aggiunge nulla di vincolante, presenterrebbe degli aspetti di incostituzionalità. Però qualcosa cambia e di molto. L’autorità competente, prima di pronunciarsi, ha l’obbligo di chiedere il parere del procuratore della Repubblica del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, anche quello del procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Inoltre il procuratore generale presso la Corte d’Appello deve essere informato dei permessi concessi e del relativo esito con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati. La parte che potrebbe però creare qualche problemino è il passaggio nel quale si prevede: «Il magistrato di sorveglianza ed il tribunale di sorveglianza decidono non prima, rispettivamente, di due giorni e di quaranta giorni dalla richiesta dei suddetti pareri, anche in assenza di essi». Nei casi di urgenza, come quelli in cui il detenuto è gravemente malato, se un parere non arriva, aspettare quaranta giorni può voler dire non fare in tempo. Forse è questo il punto in cui il magistrato di sorveglianza può non sentirsi di libero di prendere una decisione urgente. Ma c’è di più. Oltre per i domiciliari, anche per il permesso di necessità c’è bisogno del parere della procura Antimafia e in questo caso di massima urgenza il magistrato deve comunque aspettare un giorno dalla richiesta del parere. Cosa significa? Se la moglie del recluso al 41 bis sta morendo, quest’ultimo fa richiesta urgente per il permesso di necessità. Il magistrato ha l’obbligo di chiedere il parere dell’Antimafia e attendere la risposta entro le 24 ore. A quel punto poi può concederla. Ma un giorno potrebbe essere fatali. La moglie del recluso al 41 bis potrebbe morire nel frattempo e quindi non si potrebbero più vedere per l’ultima volta. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza è intervenuto, con un duro comunicato per difendere il loro lavoro, sottolineando che «si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni». Ma non solo. Significativa la presa di posizione dei magistrati di sorveglianza a favore del Dap e in particolare per la famosa circolare, criticata da più parti, che darebbe l’impressione di una sorta di “tana libera tutti” per chi è al 41 bis. «Nel contesto della grave emergenza sanitaria da Covid19 – si legge nel comunicato dei magistrati di sorveglianza a firma della dottoressa Antonietta Fiorillo – non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio». «Solidarietà ai magistrati di sorveglianza» è stata espressa anche dai consiglieri di Unicost: in particolare, il togato Mancinetti, intervenendo in plenum ha sottolineato che «ogni provvedimento giurisdizionale può essere criticato, ma non si può cadere negli attacchi personali». Gli esponenti di Magistratura indipendente hanno chiesto al Csm l’apertura di una pratica a tutela per la magistratura di sorveglianza. Nel plenum è intervenuta anche la togata di Area, Alessandra Dal Moro, esprimendo, a nome del suo gruppo, «preoccupazione per le reazioni suscitate dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali sottoposti al 41 bis». Secondo Dal Moro, «i toni violenti rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione verso la magistratura di sorveglianza, impegnata nel fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri sovraffollati, valutando le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute». Il paradosso è che sono stati proprio i mass media a far credere ai detenuti al 41 bis di poter uscire grazie a alla circolare del Dap, difesa dal coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza. Un indizio, forse senza volerlo, lo ha dato il Fatto Quotidiano con un articolo di ieri. Racconta di un boss recluso a Rebibbia che invita un parente a chiamare l’avvocato perché dalla tv ha saputo che ci sono novità sui domiciliari anche per i 41 bis.

Il partito dei Pm sta infangando la magistratura, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Qualcosa si muove dentro la magistratura. Timidamente, timidamente. Il discorso pronunciato l’altro giorno al Plenum del Csm da Alessandra Dal Moro a nome di Area (la corrente di sinistra della magistratura) è finalmente una boccata d’aria, dopo giorni e giorni di silenzio asfissiante e di scatti di ira reazionari che ci stavano fornendo un’immagine terrificante del potere giudiziario. Ho scritto potere consapevolmente. Negli ultimi giorni la magistratura – guidata dai davighiani, da Di Matteo, Gratteri e poi Caselli, Travaglio e tutti gli altri ufficiali di complemento – non si è presentata all’opinione pubblica come un Ordine, qual è, ma come un potere: un potere arrogante e tiranno. Con l’esclusione, naturalmente, di alcuni suoi settori, come i magistrati di sorveglianza, che sono stati presi a bersaglio dai loro colleghi, vilipesi, insultati e alla fine massacrati e messi fuori gioco da un decreto che il partito dei Pm ha imposto al suo ministro – sempre piuttosto obbediente – il quale mercoledì notte lo ha varato, sebbene sia un decreto irrazionale e del tutto estraneo ai principi della Costituzione (ma anche dello Statuto Albertino del 1848) e a qualunque perimetro democratico. Il punto debole del discorso di Alessandra Del Moro è l’assenza di un vero e proprio atto d’accusa verso la stessa magistratura. La dottoressa Dal Moro, in modo assai efficace, ha demolito le sparate reazionarie dei politici e dei giornalisti che in questi giorni hanno fatto a gara nel chiedere che i principi della giustizia e i codici fossero messi da parte per dare spazio ai tribunali del popolo e delle Tv e ai linciaggi mediatici, o anche reali. La dottoressa Dal Moro ha spiegato molto bene quali siano i principi del diritto da rispettare e il recinto costituzionale dentro il quale magistratura deve muoversi. Però non ha denunciato esplicitamente due cose. La prima è la presa di posizione di magistrati, ex magistrati e anche membri autorevoli del Csm (mi riferisco ovviamente a Di Matteo), i quali si sono uniti alla campagna del linciaggio, anzi l’hanno guidata. Di Matteo, in particolare, ha accusato la sua collega del Tribunale di sorveglianza di Milano di collusione con la mafia. Ha detto che la sua collega milanese ha ceduto al ricatto della mafia. Possibile che il Csm non prenda posizione contro questa inaudita e orrenda calunnia lanciata da un suo membro? Eppure, con la partecipazione attiva proprio dei consiglieri di Area, il Csm aveva messo sotto accusa il consigliere professor Lanzi per molto meno. Solo per avere criticato genericamente la magistratura milanese per le inchieste sul Trivulzio. Come si spiega questa pratica dei due pesi? Come è possibile che l’incredibile uscita del consigliere Di Matteo resti così, senza che nessuno la censuri, la condanni, che almeno ne prenda le distanze? La seconda mancata denuncia riguarda il nuovo decreto Bonafede. Quello che prevede la delegittimazione della magistratura di sorveglianza e la concessione dell’onnipotenza alle Procure e ai Pubblici ministeri. È chiaro che è un decreto che viola non solo la Costituzione, ma ogni criterio di legalità. È una guappata, uno spavaldo colpo di maglio al diritto. Mi chiedo come mai il Csm, sempre così attento a giudicare e spesso condannare tutte le iniziative dei passati governi sui temi della giustizia, lasci passare senza obiezioni questa follia che mette in discussione in modo plateale e senza precedenti ogni principio di indipendenza del giudice. Chi scrive non è un tifoso dell’indipendenza della magistratura. Io penso che non ci sia niente di male nello schema francese o americano che non prevede l’indipendenza del Pubblico ministero ma lo subordina all’esecutivo. Però in quello schema è l’accusa che non è indipendente, non certo il giudice. Nessuno mai ha pensato di poter mettere in discussione l’indipendenza del giudice e addirittura di sottometterlo all’accusa. È una cosa evidentemente dissennata, dovuta probabilmente a pulsioni illegali e autoritarie, e a scarsa conoscenza della giurisprudenza e del diritto e della logica formale. Succede, quando uno vale uno. Le due cose – mancata denuncia della magistratura e mancata protesta contro il governo – sono in realtà molto legate tra loro. Per una ragione semplice: questo governo è in grandissima parte subalterno non alla magistratura in quanto tale, ma al cosiddetto partito dei Pm. E questo è un problema molto serio. Perché in questo modo si ferisce l’autorevolezza della magistratura, e la sua autonomia, e si delegittima il governo. Non è autonoma una magistratura che permette a un suo settore (il più visibile, il più attivo, il più televisivo) di adoperare la propria funzione per interferire o per egemonizzare, o per sottomettere, o per ricattare il potere politico. In queste condizioni non ha più senso parlare di indipendenza della magistratura. Tanto più quando le pressioni politiche della magistratura, paradossalmente – come nel caso dell’intervento contro i tribunali di sorveglianza – avvengono per delegittimare e per far perdere indipendenza a un settore della magistratura stessa. Su questi temi ci sono settori della magistratura disposti ad alzare la voce? A fermare la deriva autoritaria e reazionaria che oggi sembra inarrestabile? A uscire dal coro, a riprendere in mano le battaglie per il diritto, opponendosi al dilagare del corporativismo che da 30 anni ha preso il sopravvento nella categoria?

Antonietta Fiorillo: “Giudici di sorveglianza sotto tiro di politici, stampa e colleghi”. Giovanni Altoprati su Il Riformista il  30 Aprile 2020. «In questo Paese, purtroppo, sui temi del carcere, della magistratura di sorveglianza, della devianza in genere, si fa sempre molta spettacolarizzazione e poca informazione», afferma Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza (Conams). I magistrati di sorveglianza, dopo giorni di polemiche violentissime, hanno diramato ieri un comunicato per respingere «la campagna di delegittimazione», in alcuni casi spintasi fino al “dileggio”, suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati sottoposti al regime del 41 bis. Un attacco “ingiustificato” che rischia di ledere «l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione» e la “serenità” che quotidianamente deve assisterli nelle “difficili decisioni” in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito il mondo penitenziario. «Le norme applicate, quindi la sospensione della pena per chi si trovi in stato di grave infermità fisica, si rinvengono nel codice penale ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana», sottolineano i magistrati di sorveglianza, ricordando a tutti che continueranno a svolgere il proprio dovere senza pressioni o condizionamenti esterni.

Presidente, vi sentite sotto tiro?

«Io alle polemiche sono abituata da tempo. Non è la prima e non sarà l’ultima volta. Dopo tanti anni che svolgo questa funzione (prima di Bologna, la dottoressa Fiorillo è stata presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, ndr) sono ormai “corazzata”».

Non ho dubbi, però questa volta mi sembra che “l’assedio” venga da più fronti: commentatori, editorialisti, politici, Tv, anche qualche suo collega pm…

«Guardi, mi sono laureata con una tesi sui limiti dell’articolo 21 della Costituzione nelle sentenze della Corte costituzionale. Sono da sempre per la massima libertà di espressione da parte tutti. Nei limiti, ovviamente, della continenza».

Va bene, ma non crede comunque che si stia esagerando?

«Il discorso è molto complesso. Nessuno ha mai avuto l’interesse di dire al cittadino quali sono i compiti e le funzioni della magistratura di sorveglianza».

Forse perché è una magistratura molto specializzata (sono circa centocinquanta i magistrati di sorveglianza) e quindi poco conosciuta al grande pubblico?

«Non solo. Il dibattito sulla nostra funzione è sempre stato polarizzato: o la si ama o la si odia. E questo non va bene. In entrambi i casi, naturalmente».

Si può affermare che sul vostro ruolo esiste condizionamento ideologico?

«Può darsi. Ma ciò non toglie il fatto che le nostre decisioni vengono sempre prese in “scienza e coscienza”, senza pregiudizio alcuno».

Nel comunicato avete ricordato che il vostro riferimento è la Costituzione.

«Esatto. Ad iniziare dalla tutela del diritto alla salute della collettività. Abbiamo questa visione che tanti non hanno».

Alcuni commentatori, a proposito dei rischi di contagio da Covid-19, dicono che il carcere è oggi il luogo più sicuro che ci sia.

«Non è vero. È un errore. Nel carcere non esiste un dentro o un fuori ma c’è un dentro che è collegato al fuori. Mi spiego: anche se i detenuti non escono, gli agenti della polizia penitenziaria, i medici, gli operatori, entrano ed escono. Il carcere non è impermeabile dall’esterno. E noi dobbiamo considerare proprio questo aspetto».

Non vuole, allora, replicare a qualche suo collega che ha attaccato la magistratura di sorveglianza in questi giorni? C’è chi ha addirittura parlato di un cedimento alla mafia.

«Ripeto, noi magistrati di sorveglianza cerchiamo di garantire una risposta di giustizia. E comunque i provvedimenti, che sono pubblici, si impugnano, non si “aggrediscono”. Inviterei tutti a leggerli prima di criticarli».

Forse, e torniamo alla domanda iniziale, c’è stato un deficit di comunicazione?

«Gli organi d’informazione su questo punto hanno una grande responsabilità. Un’informazione corretta deve far capire cosa effettivamente sta succedendo. Se l’informazione rinuncia a questo importantissimo ruolo è finita.

Antonietta Fiorillo: «Noi giudici di sorveglianza seguiamo la Costituzione: se un detenuto rischia la vita deve uscire». Valentina Stella su Il Dubbio il 30 aprile 2020. Intervista ad Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza. La misura deve essere colma se la dottoressa Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza, insieme al collega Marcello Bortolato ha firmato un duro comunicato per respingere «con forza la campagna di sistematica delegittimazione» portata avanti anche da «autorevoli esponenti della Magistratura e delle Istituzioni» e suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati al 41 bis. «I magistrati di sorveglianza – si legge nella nota del Conams – si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni».

Dottoressa Fiorillo, scrivete che alcuni si sono spinti fino al dileggio nei vostri confronti.

«Quello che chiediamo, come fatto anche in altre occasioni, è che si affronti il problema partendo dai dati reali: le norme applicate nei casi in oggetto si rinvengono nel codice penale che, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, all’art. 147 prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Questo può piacere o non piacere ma è la scelta di politica giudiziaria che ha fatto il Legislatore molti anni fa. I magistrati che si occupano dell’esecuzione della pena sono chiamati ad applicare questa legge in scienza e coscienza e a motivare le loro decisioni. Poi esistono dei rimedi tecnici da applicare alle decisioni prese, come le impugnazioni, che spettano agli organi competenti, come la Procura».

Un riferimento importante nel comunicato è all’articolo 27 della Costituzione.

«Noi ci muoviamo nel solco della Carta Costituzionale che ha guidato il legislatore nell’emanare una legge sull’ordinamento penitenziario. Le nostre interpretazioni delle norme si muovono nell’ambito dei paletti posti dalla Costituzione e dalle sentenze della Consulta. La Magistratura di sorveglianza è stata sempre consapevole della rilevanza degli interessi in gioco e del loro, quando possibile, bilanciamento ed ha sempre operato, nel pieno rispetto delle norme, in particolare dell’art. 27 della Costituzione che impone venga assicurata a qualunque detenuto, anche il più pericoloso, una detenzione mai contraria al senso di umanità, valutando caso per caso previa interlocuzione, come avvenuto in questi casi, con tutte le Autorità coinvolte, che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati. Noi non applichiamo le nostre idee. Una legge una volta emanata deve essere applicata, secondo le corrette regole di interpretazioni. Le norme prevedono la tutela del diritto alla salute come diritto primario anche per le persone detenute condannate per reati di grave allarme sociale, valutando altresì l’attualità della pericolosità del soggetto attraverso il compendio di informazioni che la magistratura di sorveglianza richiede».

Dopo giorni di polemica avete deciso di scrivere la nota soprattutto per parlare a chi non conosce i meccanismi.

«Il nostro obiettivo è che chi non ha le conoscenze specifiche capisca il giusto inquadramento del problema. In una fase così delicata del Paese in generale, alle persone vanno forniti i dati che ognuno poi può valutare liberamente. La nostra attenzione verso la situazione sanitaria degli istituti di pena in questo periodo di emergenza sanitaria va inquadrata in una attenzione generale verso tutto il mondo penitenziario: detenuti, agenti di polizia penitenziaria e tutti gli operatori che entrano e escono dal carcere. Ci interessiamo anche della salute della collettività: se si diffondesse l’epidemia all’interno delle mura carcerarie ciò potrebbe portare alla diffusione del virus fuori, un problema per tutta la collettività».

Concludete il comunicato scrivendo che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione e continuerete a lavorare come sempre fatto.

«Il problema non è solo della magistratura di sorveglianza. Il giudice è una persona che deve sentirsi libero di poter garantire un giudizio terzo ed imparziale al cittadino, e applicare in scienza e coscienza ciò che è scritto nelle norme».

Scarcerazioni Bonura e Zagaria, il partito dei Pm diffama i magistrati di sorveglianza. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Lungi dal placarsi, l’inverecondo linciaggio di magistrati di Sorveglianza che fanno solamente il loro dovere, il loro difficilissimo ed ingrato mestiere, aggiunge ogni giorno sassi scagliati senza il benché minimo sentimento di misura, di rispetto della verità, e di senso del pudore. Stando alla solita filiera mediatico-giudiziaria dei guardiani della ortodossia politica, etica e legalitaria che imperversa senza freni nel nostro Paese, dobbiamo allora necessariamente presumere che magistrati di Sorveglianza da sempre ansiosi di sguinzagliare liberi ed impuniti per il Paese mafiosi, ndranghetisti, terroristi e criminali di ogni genere e natura, abbiano colto la ghiotta occasione della pandemia per realizzare finalmente la turpe missione alla quale hanno votato la propria toga. Occorrerebbe almeno che ci venisse data una spiegazione. Chi sarebbero, costoro? Giudici imbelli? Ricattati? Corrotti? Intimoriti? Sodali di quei criminali? Mi rendo conto che riuscire a ottenere una risposta, o almeno avviare una riflessione, mentre fischiano i sassi di questa indignazione berciante, protetta da un conformismo protervo e stomachevole, è impresa impossibile. E tuttavia, mentre puntuali giungono le notizie di ispezioni e tonitruanti riforme normative di stampo poliziesco, nemmeno è possibile rassegnarsi, tacendo di fronte a questo spettacolo indecoroso, indifferente ai fatti. Che sono due. Il primo riguarda un signore che ha espiato pressoché per intero la pena inflitta di poco più di 14 anni di reclusione, per gravi fatti di estorsione e altri reati connessi di stampo mafioso. Detratta l’ultima quota di sicura liberazione anticipata (ha già fruito legittimamente delle precedenti), sarebbe uscito dal carcere tra otto mesi. Senonché, ha un cancro al colon in uno stadio che -apprendiamo- il Tribunale di Sorveglianza ha accertato essere talmente avanzato da determinare una condizione di incompatibilità con il permanere (per quei residui otto mesi) in carcere. Gli indignados che straparlano di inaudito cedimento al ricatto mafioso hanno dunque notizia che tale condizione sia falsa, o pretestuosa, o ingigantita ad arte? Non ho letto nulla del genere; non una tra quella pioggia di vituperanti e fiammeggianti parole di sdegno si è soffermata su questa senz’altro allarmante ipotesi. Nemmeno ci viene spiegato cosa cambierebbe, per la sicurezza sociale messa così irresponsabilmente in pericolo, l’anticipazione di qualche mese di quella libertà che il detenuto avrebbe comunque e definitivamente riguadagnato tra una manciata di settimane. Perché vi comunico una notizia su come funzionano le cose: perfino un mafioso, quando ha scontato la pena inflittagli, ritorna libero tra di noi. Oddio, i guardiani della pubblica moralità potrebbero cogliere l’occasione per proporre il carcere a vita per qualunque reato di mafia, e questo – mi diano retta – è il governo giusto per provarci con successo. Nel frattempo tuttavia le cose funzionano come vi ho detto. Il secondo è un condannato per fatti di camorra che ha un cancro alla vescica, giunto a uno stadio che richiede cure specialistiche indisponibili nel carcere dove attualmente è ristretto. Il Tribunale chiede formalmente al Dap di indicargli altra struttura detentiva attrezzata all’uopo, dove trasferire il malato. Il Dap non risponde, e dopo oltre venti giorni di silenzio il Giudice di Sorveglianza, al quale non possiamo chiedere né di cancellare d’imperio il diritto alla salute del detenuto, né di assumersi responsabilità gravissime e personali, lo scarcera perché possa curarsi.In quale modo, per quale ragione minimamente seria e credibile si deve immaginare che un Paese civile possa crocefiggere quei giudici? Occorre allora rassegnarsi a un dato di fatto: esistono magistrati di serie A e magistrati di serie B. Magistrati che quando arrestano 400 persone vengono portati in trionfo, senza attendere di sapere (e sarebbe decisamente il caso) se e quanti di quegli arrestati saranno poi giudicati effettivamente colpevoli; e magistrati che amministrano la giustizia convinti di dover rispettare anche quella regola secondo la quale il diritto alla salute di un detenuto per mafia vale quanto il diritto alla salute di chiunque di noi. Se osi dire una parola sui primi, sarai crocefisso; se lanci la prima pietra sui secondi, seguirà linciaggio di massa, e l’immancabile decreto-legge: per aumentare il potere dei primi, guarda caso.

Chi è Roberto Tartaglia, il "commissario" Dap che a 10 anni indagava su Riina…Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Il capo del Dap, Francesco Basentini, ormai è delegittimato. Messo alla porta prima da Renzi, poi da Giletti, poi dai davighiani, poi da Bonafede. Renzi aveva chiesto che fosse rimosso per via dei 13 morti in carcere durante la rivolta. È caduto invece per ragioni opposte: hanno scaricato su di lui la colpa di avere consentito la scarcerazione di due detenuti in fin di vita. Si sa che i moribondi si tengono in cella, che diamine! ‘Sto Basentini deve aver confuso l’Italia con un Paese civile. Sciò.  Non lo hanno ancora sostituito ma lo hanno commissariato. La biografia del commissario, cioè di questo ex Pm Tartaglia, è riassumibile in poche parole: allievo di Di Matteo. Di Matteo sarebbe quel membro del Csm che ha accusato la sua collega milanese che aveva scarcerato un detenuto ottantenne, più o meno, di “intelligenza con la mafia”. Cioè di avere ceduto al ricatto. Diciamo, a occhio, favoreggiamento. Di Matteo è l’ex Pm che credette al pentito Scarantino, che si era inventato tutto (o era stato imbeccato) e in quel modo mandò a puttane le indagini sull’uccisione di Borsellino. Di Matteo è quello che ha dato l’anima per mandare a processo il generale Mori, cioè uno dei pochi che dopo la morte di Falcone ha proseguito la sua opera di lotta alla mafia, giungendo, dopo 30 anni di latitanza, all’arresto del capo della mafia, cioè di Riina. A Tartaglia non possono essere addebitate le responsabilità del suo maestro, ovvio. Ma se volete indovinare la sua dottrina serve conoscere il suo maestro. È quella squadra lì. E infatti un altro grande eroe dell’antimafia professionale, Nicola Morra, 5 Stelle doc, ha esultato per la sua nomina, peraltro avvenuta per decisione del ministro cinquestellissimo, Bonafede. Per la verità, nella biografia ufficiale di Roberto Tartaglia, diffusa anche dall’Ansa, c’è scritto che ha indagato sui corleonesi di Totò Riina e ha svolto indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. Vabbè: Riina è stato catturato (dal generale Mori, cioè quello che Tartaglia ha contribuito a mettere sotto processo) nel gennaio 1993: Tartaglia aveva 10 anni. Quinta elementare. E Messina Denaro, se non siamo male informati, è ancora libero. Ecco: le carceri ora sono in mano a questo qua. Al “piccolo Di Matteo”. Chi di noi mai avrebbe pensato che dopo nemmeno due anni avremmo rimpianto lacrimando i tempi di Orlando come tempi di ipergarantismo? Quante critiche ingiuste a quel povero ministro! (Magari, se oggi dicesse qualche parola liberale anche lui non sarebbe male…). Oggi la situazione è questa. I rosso-bruni marciano trionfanti nei palazzi della politica e in quelli della Giustizia. Sembrano inarrestabili. Avanzano senza paura di nessuno, e la gran parte di quelli che in passato si era un po’ opposta, ora gli va dietro. Tartaglia negli ultimi tempi ha fatto il consulente di Morra all’antimafia. Volete che vi parli due minuti di Morra? Beh, basta dare un’occhiata all’auto-intervista (1) che ha fatto pubblicare ieri dalla Stampa. In questa auto-intervista ci sono due perle. La prima, di tipo squadrista, sono le minacce ai pochi giornalisti, agli avvocati, e ai pochissimi politici che si sono battuti per l’indulto o per qualche misura di riduzione del numero dei carcerati (forse nella lista dei nemici Morra ha segnato anche il Papa e il Presidente della Repubblica). Minacce generiche ma pesanti. Sembra di capire che Morra voglia usare l’antimafia per indagare su di loro (su di noi). Indagare per che cosa? Beh, un concorso esterno non si nega a nessuno. La seconda perla è clamorosa. Morra dice che i mafiosi non devono essere scarcerati mai perché sono prigionieri di guerra. Oddio, prigionieri di guerra? Ma lo sa Morra che se sono prigionieri di guerra vanno trattati da prigionieri di guerra? Che vuol dire? Innanzitutto che è proibito chiedergli informazioni, e dunque tutte le dichiarazioni dei pentiti dal 1981 a oggi sono illegali e prive di valore e tutti i processi di mafia vanno annullati. Quelli passati, quelli presenti, quelli futuri. Il pentitismo è finito. Bisogna tornare a fare indagini e raccogliere prove. Un vero disastro. Poi che i detenuti per mafia non possono essere isolati, e quindi salta il 41 bis. Devono essere trattati alla stregua di ufficiali dell’esercito regolare. E sul loro trattamento deve vagliare la Croce Rossa Internazionale. È anche possibile la richiesta che siano consegnati a uno stato neutrale. Questo povero Morra, diciamo la verità, di politica e di storia ne sa poco (insegnava filosofia, credo…), è finito lì in Parlamento un po’ per caso nell’andata degli uno-vale-uno. Ne può combinare di guai. Il problema è che uno degli aspetti più delicati nella vita di una nazione democratica, e cioè l’aspetto carcerario – e anche quello della giustizia – sono affidati a lui, a Bonafede, a Tartaglia e a gente così. Capite? 

Roberto Tartaglia è l’erede di Francesco Di Maggio, il magistrato del "pentitificio". Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Aprile 2020.

2020. Un governo debole, un guardasigilli debolissimo, un capo del Dipartimento penitenziario inesistente. Che si fa? Si mette un uomo forte al fianco di uno debole. Ecco spuntare dal cilindro del ministro di giustizia Alfonso Buonafede il nome del pubblico ministero Roberto Tartaglia, uomo forte perché proviene dalla cantéra del prode Di Matteo e perché ha partecipato al banchetto del farsesco processo “trattativa” Stato-mafia. Tartaglia viene nominato al Dap come vice di Francesco Basentini, cui il ministro non vuol rinunciare, ma che viene messo a balia perché si faccia una cultura “antimafia”, in cui evidentemente è deboluccio. Il che significa non scarcerare più nessuno che sia sfiorato dai reati di mafia, neanche i vecchi moribondi. Chissà se tra 25 anni, al prossimo processo “trattativa” istruito dai nipotini di Di Matteo, Bonafede, Basentini e magari anche Tartaglia saranno immeritatamente ricordati come quelli che hanno scarcerato i boss per fare un favore alla mafia. Impossibile? Ma è quel che è capitato venticinque anni fa al più duro e intransigente vicepresidente del Dap, il più entusiasta applicatore del 41bis, Francesco Di Maggio.

1993. Il 29 aprile aveva votato il governo Ciampi, debole perché tecnico e destinato a segnare la fine della prima repubblica dopo nove mesi. Guardasigilli era un altro tecnico, Giovanni Conso, giurista raffinato ma inadatto a gestire la giustizia nei momenti tragici che seguirono la stagione delle stragi di mafia e il circo di tangentopoli. Alla presidenza del Dap un altro tranquillo magistrato, Alberto Capriotti. La confusione era totale, quando arrivò nella veste, solo apparente, di vice, Francesco Di Maggio, preceduto da un grande successo milanese, la resa del Talebano, quell’ Angelo Epaminonda che diventerà il primo pentito di mafia a Milano. Il pm milanese sapeva giocare con le carceri speciali e il 41bis come su una scacchiera. Dopo il suo arrivo al Dap, ben presto ci fu un uso spropositato dei “colloqui investigativi”, incontri riservati di funzionari di polizia con singoli detenuti, senza nessun controllo di magistratura. Quelli di Di Maggio si svolgevano in totale riservatezza, in locali con vetri affumicati e porte sprangate. Dopo l’incontro il detenuto cambiava velocemente luogo e regime di detenzione, scappava quasi senza i suoi vestiti e presto conquistava la libertà.

Francesco Di Maggio costruì un vero “pentitificio”. Pure, nella storiografia di chi apparentemente ha vinto, cioè quella di Travaglio-Ingroia-Di Matteo, e anche di Tartaglia che all’epoca aveva undici anni, il duro diventa il molle, quello che – e non se ne capisce il perché – il gentiluomo Conso avrebbe collocato al Dap per scarcerare i mafiosi. Bisognerebbe conoscerla bene la storia. E magari esserci stati. Successe che, verso la fine di quell’anno, un governo agli sgoccioli, fece quel che da tempo chiedeva non la mafia, come pensano gli imberbi storiografi, ma decine di giudici di sorveglianza e cappellani carcerari, oltre che un’opinione pubblica sconvolta dai racconti sulle torture perpetrate nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Non furono rinnovati 373 casi di 41bis. Non c’era nessun boss trai detenuti che fruirono del provvedimento, ma in gran parte reclusi che non appartenevano neanche ad associazioni mafiose ma che erano stati rastrellati e gettati nelle carceri speciali nel furore disordinato e un po’ impazzito del dopo-stragi. Una sorta di compensazione a qualche ingiustizia, insomma. Ma che è diventata la base del processo “Trattativa”. Di Maggio non c’entrava niente in quell’iniziativa del ministro Conso. E solo la morte nel 1996 a soli 48 anni lo salverà da una gogna che lo aspettava nella passerella del processo. La sua permanenza al Dap del resto durerà poco, perché dopo lo scioglimento delle Camere e l’arrivo del governo Berlusconi, alla giustizia si troverà il ministro Alfredo Biondi e l’incompatibilità tra i due sarà subito palese. Lo scontro arriverà nell’estate, al meeting di Comunione e Liberazione. Dove Di Maggio, nell’annunciare le proprie dimissioni, lascerà una sorta di testamento al cui centro pose proprio l’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario come fondamentale. In quaranta minuti di discorso attaccherà con forza “garantisti vecchi e nuovi” e ricorderà a proprio merito «il rapporto tra detenuti sottoposti a regime differenziato ex articolo 41 bis e numero di collaborazioni processuali in delitti di mafia importanti». Il pentitificio, insomma. E citerà a titolo di esempio proprio il pentimento di due indagati per l’assassinio di Paolo Borsellino. Uno dei due è il falso collaboratore Enzo Scarantino.

2020. Il Csm ha convalidato la vicepresidenza al Dap del pubblico ministero Tartaglia che, proprio nei giorni in cui si ha notizia che in breve tempo nelle carceri sono quadruplicati i casi di detenuti positivi al Covid-19, avrà il compito di fare il duro, di sorvegliare che qualche magistrato non disponga la liberazione di vecchi e malati. Ma sarà difficile che, essendo cresciuto nella bambagia del “processo trattativa”, possa mai raggiungere la statura di un vero repressore quale è stato Francesco Di Maggio.

Dap, Roberto Tartaglia "commissaria" lo sfiduciato Basentini. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2020. È la mossa della disperazione: “commissariare” Francesco Basentini in vista del suo avvicendamento e salvare la propria poltrona a via Arenula. Dopo giorni di polemiche ferocissime, Alfonso Bonafede ha dunque scelto la linea dura per tranquillizzare l’elettorato giustizialista e Marco Travaglio che temono un cedimento nella gestione delle carceri. Il “commissario” è il pm del pool del processo Trattativa Stato-mafia Roberto Tartaglia. 38enne, napoletano, dieci anni di servizio in magistratura e zero esperienza in tema di sorveglianza. Ieri da via Arenula è partita la richiesta al Csm per il suo collocamento fuori ruolo con l’incarico, al momento, di “vice capo” del Dap. Con la nomina di Tartaglia, Bonafede spera di allentare la tensione su Largo Daga. Basentini, infatti, era stato graziato il mese scorso quando nelle carceri erano scoppiate sanguinose rivolte che avevano provocato 13 morti fra i detenuti, centinaia di feriti, maxi evasioni. Il Dap, e il Ministero della giustizia, erano stati accusati di non avere avuto un piano, scoppiata l’emergenza sanitaria, per contrastare la diffusione del Coronavirus con misure idonee per ridurre il sovraffollamento carcerario, coinvolgendo anche la magistratura di sorveglianza. Bonafede aveva scaricato la responsabilità di quanto accaduto sui singoli direttori, su alcune circolari, sulla burocrazia. La stessa burocrazia che, ad esempio, avrebbe impedito al Guardasigilli e a Basentini di conoscere le determinazioni dei Tribunali di sorveglianza a proposito dei recenti differimenti pena per motivi sanitari di alcuni detenuti al 41bis. Quella di Basentini, già procuratore aggiunto di Potenza, fu una delle prime nomine del Guardasigilli grillino appena insediatosi. Senza alcun trascorso specifico in materia penitenziaria, il magistrato lucano aveva allora uno sponsor potentissimo: Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm e ras di Unicost, la corrente di centro delle toghe di cui Basentini era il plenipotenziario in Basilicata. Legato al pm Luigi Spina, togato del Csm vicinissimo a Palamara e poi travolto nello scandalo sulle nomine dell’anno scorso, Basentini è stato “scaricato” dalla sua corrente. I vertici di Unicost, all’indomani degli attacchi al Dap, si sono limitati a diramare un generico comunicato stampa in cui invitavano la politica a risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. Dopo lo tsunami della scorsa estate, con due consiglieri dimissionari su cinque (Spina e il giudice Pierluigi Morlini), Unicost ha iniziato a perdere pezzi, subendo i diktat della nuova maggioranza al Csm, il binomio Area-Davigo, per non rimanere con la bocca asciutta nella partita delle nomine. L’obiettivo è contenere i “danni” nei prossimi due anni, fino a quando si tornerà a votare per il rinnovo del Csm. Sotto assedio da mesi, Unicost sta vedendo cadere, per vari motivi, molti dei propri esponenti di punta. Fra le toghe di centro costrette a lasciare recentemente l’incarico, il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Il terrore per i togati di Unicost è che la mannaia possa abbattersi anche su coloro che, nominati nella scorsa consiliatura del Csm, devono essere a breve valutati a Palazzo dei Marescialli per la riconferma nell’incarico. Ma la debolezza di Unicost, che sotto la gestione Palamara riusciva a imporre i vertici dei più importanti uffici giudiziari, rischia di penalizzare Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, molto esposta in questi giorni per impedire la diffusione del coronavirus nelle carceri lombarde. Fino a qualche mese fa il suo nome era in pole position per sostituire Marina Tavassi, presidente della Corte d’Appello di Milano, in procinto di andare in pensione per raggiunti limiti di età. Difficile, però, che nel clima di caccia alle streghe che si sta creando intorno alle carceri, Di Rosa possa essere votata dal Csm. Di Matteo, il magistrato preferito dai grillini e da Travaglio, ha sparato a zero, nel silenzio delle toghe di sinistra di Area, contro i provvedimenti di scarcerazione dei detenuti al 41bis disposti dalla Sorveglianza di Milano, paragonandoli a un cedimento “alla mafia”. L’ultima parola in questa complessa partita spetterà, ancora una volta, al tandem Davigo-Cascini a cui il nome di Tartaglia come prossimo capo del Dap potrebbe comunque andare bene.

Scarcerazioni, Travaglio e Bonafede impongono la linea al PD che china la testa. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Maggio 2020. Il Pd si allinea perfettamente ai 5 Stelle sulle carceri. Ieri ha diffuso una nota congiunta dei suoi tre massimi esponenti, nel campo della giustizia, nella quale china la testa in modo plateale alla prepotenza degli alleati. Sia per quel che riguarda il decreto che delegittima i giudici di sorveglianza, ponendoli sotto la supervisione della Procura antimafia e dei Pm, sia per la nomina del nuovo vice del Dap, scelto da Bonafede e Morra (cioè dai due leader dei Cinque stelle in tema di giustizia), e allievo prediletto dell’ex Pm Di Matteo. Si chiama Roberto Tartaglia ed è un giovane magistrato che non ha nessuna esperienza di carceri e che nella sua carriera può vantare solo la partecipazione al processo sulla trattativa Stato-mafia, quello basato sulla teoria complottista (di Ingroia e Di Matteo) che già è stata smontata in almeno altri tre processi. Gli autori della nota congiunta del Pd – Verini, Mirabelli e Bazzoli – non reagiscono in nessun modo neanche alle dichiarazioni gravissime di Di Matteo (che ha accusato il tribunale di sorveglianza di Milano di essere sotto il ricatto della mafia) e accettano con tranquillità il nuovo corso, con tutto il potere ai Pm in nome della lotta alla mafia. È un passaggio molto impegnativo per il Pd, che negli ultimi anni aveva avuto qualche tentazione “garantista”. In questo frangente fa la scelta opposta: sacrifica ogni principio del diritto sul tavolo del compromesso coi 5 Stelle. I quali hanno partita vinta e dimostrano di avere carta bianca sul terreno della giustizia, così come l’hanno avuta qualche mese fa quando si era aperto il fronte della prescrizione. Sull’altro versante, diciamo sul versante della difesa della Costituzione, le forze schierate sono pochine. Ieri sono tornate in campo le Camere penali con una nota durissima di condanna per il decreto che blinda le porte delle carceri e delegittima la magistratura di sorveglianza. Per il resto è un gran silenzio. L’impressione è che Travaglio e Bonafede abbiano vinto la partita.

Dap, Basentini non accetta commissariamento di Tartaglia e sbatte la porta. Redazione su Il Riformista l'1 Maggio 2020. Francesco Basentini ha presentato ieri le dimissioni da Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). La notizia, non ancora confermata dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede, è iniziata a circolare ieri, in tarda serata, quando, su Facebook, il senatore della Lega Stefano Candiani ha postato un video in cui ha annunciato le dimissioni del capo dell’amministrazione penitenziaria. “Siamo riusciti a ottenere oggi le dimissioni del direttore del Dap. È il primo che paga il conto che ora deve passare a Bonafede“, dice il ricordando la vicenda delle scarcerazioni dei boss. In mattinata arrivano anche le reazioni di Italia Viva: “Si rincorrono voci, non confermate, sulle dimissioni del Capo dell’amministrazione delle carceri, Basentini. Italia Viva le ha chieste pubblicamente da tempo. Sarebbero un gesto necessario anche se tardivo. Bonafede proponga come nuovo capo una figura saggia e autorevole”, scrive Maria Elena Boschi. Di segno uguale anche il commento di Gennaro Mgliore: “Sono sempre più insistenti le voci delle possibili dimissioni del Capo Dap Basentini. Come Italia Viva le chiediamo da tempo. Si risponda alle urgenti necessità di sicurezza e affidabilità di una amministrazione che merita, oggi più di ieri, una guida autorevole e qualificata“. Più tardi arriva una nota del capo della Lega Matteo Salvini, che chiede un passo indietro del Guardasigilli: “Le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera. Il ministro Bonafede è il primo responsabile: dimissioni! Secondo notizie circolate negli ultimi giorni la scelta del successore di Basentini potrebbe ricadere su Nino Di Matteo, una decisione anticipata dalla nomina di Roberto Tartaglia come vice di Basentini.

Massimo Giletti ha vinto: Basentini si dimette dal Dap. Il drammatico scontro telefonico a Non è l'Arena. Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. "Ma ci prendiamo in giro?". Massimo Giletti, nell'ultima puntata di Non è l'Arena, arrivò al punto di aggredire verbalmente Francesco Basentini, capo del Dipartimento di Amministra penitenziaria, a tal punto era indignato per la serie di ritardi burocratici e reticenze nel Dap che hanno portato alla scarcerazione del camorrista Pasquale Zagaria, boss dei Casalesi. Uno scandalo che ha portato a sviluppi clamorosi: anche a seguito del caso sollevato da Giletti, Basentini si è dimesso. A confermarlo è il Corriere della Sera, ricordando come a scatenare le polemiche sul caso sia stato proprio il ritardo con cui il Dap ha risposto alla richiesta del Tribunale di Sorveglianza di Sassari su come comportarsi di fronte all'aggravamento delle condizioni di salute del boss con conseguente richiesta di scarcerazione. Le alternative al ritorno a casa c'erano, ha ricordato Giletti in puntata, prima di lasciarsi andare a un devastante sospetto proprio col Corriere: "Non penso a trattative, ma mi colpisce il silenzio dei mafiosi in cella". "Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate ma fanno male al dipartimento", avrebbe detto Basentini in un incontro avvenuto ieri col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, secondo fonti di via Arenula riportate dal Corsera. Basentini di fatto era già stato commissariato dal ministro, che ora potrebbe affidare la sua poltrona a Nino Di Matteo, anche perché il vice di Basentini  Roberto Tartaglia è molto vicino al magistrato siciliano. 

Giustizia, Basentini si è dimesso dai vertici del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il fuoco di fila sull'ormai ex capo del Dap era iniziato a marzo con le rivolte nelle carceri che hanno portato alla morte di 14 persone e una clamorosa evasione di massa a Foggia. Leo Amato su il Quotidiano del Sud l'1 maggio 2020. Si è dimesso ieri sera dai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’ex pm potentino Francesco Basentini. Il passo indietro è maturato ieri sera dopo che anche il Pd si è accodato alle pressanti richieste di rimozione partite dall’opposizione e cavalcate, all’interno della maggioranza, dall’ex premier Matteo Renzi e i suoi fedelissimi, mai dimentichi della sua firma sull’inchiesta Tempa Rossa, che nel 2016 segnò l’inizio del declino per il politico fiorentino. Il fuoco di fila sull’ormai ex capo del Dap era iniziato a marzo con le rivolte nelle carceri che hanno portato alla morte di 14 persone e una clamorosa evasione di massa a Foggia. Quindi si è intensificato a seguito degli arresti domiciliari concessi dai Tribunali di sorveglianza di mezza Italia, per il rischio sanitario, a diversi detenuti in condizioni precarie, tra i quali diversi nomi “eccellenti” del crimine organizzato come il casalese Pasquale Zagaria, fratello del più noto Michele. Scarcerazioni accompagnate da un duro scambio di accuse tra il Dap, a cui è stato contestato di aver emanato una circolare in cui si invitavano i direttori delle carceri a segnalare i detenuti in condizioni sanitarie a rischio, e i magistrati di sorveglianza. Basentini era stato scelto due anni fa dal ministro M5s della giustizia Alfonso Bonafede per guidare l’amministrazione penitenziaria. Martedì, dopo che le polemiche per le scarcerazioni erano tornate ad accendersi in televisione dalle frequenze di La7 con una violenta invettiva di Massimo Giletti, era arrivata la nomina di un vice alla guida del Dap, Roberto Tartaglia, per 10 anni in servizio nell’antimafia di Palermo. A gennaio Basentini si era conquistato la fama di “punitore” anche tra alcuni sindacalisti della polizia penitenziaria dopo aver licenziato 5 agenti scoperti a suonare al matrimonio di un noto cantante neo-melodico napoletano e della vedova di un boss di camorra. “Le dimissioni di Basentini sono tardive ma giuste”. E’ stato il commento a caldo alla notizia dell’ex ministro renziano Maria Elena Boschi, che ha rivendicato come Italia viva le avesse invocate “pubblicamente in tutte le sedi”. “Le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera”. Così il leader della Lega Matteo Salvini, che ha rilanciato la richiesta di dimissioni anche di Bonafede. “Con le sue dimissioni da responsabile del Dap il dottor Basentini ha compiuto un gesto giusto e non inatteso, di cui gli va dato atto”. Ha scritto in una nota il deputato e responsabile giustizia del Pd Walter Verini. “Nel momento drammatico delle rivolte e delle morti in carcere e delle pericolosissime punte di sovraffollamento non ci eravamo accodati alle voci di chi chiedeva dimissioni immediate. In quel momento bisognava solo lavorare per spegnere gli incendi. Oggi i detenuti sono circa 53.000. Anche se ancora troppi, non sono i 61.000 di un mese fa. Poi c’è stata la brutta vicenda delle scarcerazioni di alcuni boss mafiosi e anche in questa vicenda il Dipartimento ha mostrato alcune lacune. Per questo anche come Pd abbiamo da qualche giorno posto il problema di una riflessione seria sul funzionamento del vertice del Dap. Le dimissioni del dottor Basentini possono aiutare il lavoro di rafforzamento per una gestione dell’Ordinamento Penitenziario fondata sui principi fissati dalla Costituzione: pena certa, trattamenti umani, percorsi di recupero e reinserimento per non tornare a delinquere. Dopo la significativa nomina a vice del dottor Tartaglia, ci aspettiamo adesso per il ruolo di Responsabile una figura autorevole, capace e all’altezza della delicata situazione”.

Dimissioni Basentini, Nessuno Tocchi Caino: “Ha pagato l’essere un antimafioso poco furioso". Redazione su Il Riformista l'1 Maggio 2020. L’associazione Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem, sulla notizia delle dimissioni da capo del DAP di Francesco Basentini, con gli esponenti Rita Bernadini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti ha dichiarato quanto segue: “Con Francesco Basentini non abbiamo mancato di polemizzare, aiutandolo, durante il tempo della sua presidenza del DAP, né di segnalare i casi più gravi legati alle condizioni di detenzione nelle carceri sovraffollate del nostro Paese. Detto questo, le sue dimissioni non sono altro che il risultato dell’inasprimento di una linea, sempre più sguaiata e compulsiva, che in questi ultimi mesi si vorrebbe imporre su tutto e a tutti. Troppo anche per Francesco Basentini, da sempre ‘antimafioso’, ma non abbastanza furioso quanto lo sono quelli in voga oggi, per i quali la lotta alla mafia deve essere una guerra senza quartiere, da condurre all’insegna della terribilità e anche in deroga a principi costituzionali fondamentali e diritti umani universali, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona. Le Erinni dell’Antimafia, della Certezza della Pena, del Fine Pena Mai, non abitano solo in via Arenula, popolano anche il mondo della politica e dell’informazione. In quest’ultimo, fanno eccezione Il Riformista diretto da Piero Sansonetti totalmente dedito a una straordinaria campagna politica e culturale garantista; fanno eccezione anche Carlo Fusi, Errico Novi e Damiano Aliprandi per la loro meritoria opera di informazione dalle pagine de Il Dubbio. Consola poi leggere e ascoltare gli interventi, a tutela della Costituzione e a garanzia dei diritti di giustizia e libertà, di alte magistrate come Marta Cartabia, Presidente della Corte Costituzionale, Giovanna di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano e, ancora, di Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di Sorveglianza, così come di Alessandra dal Moro, componente del CSM, tutte donne capaci, nel dialogo anche con le Erinni, di contenerle, porre loro un limite e volgerle al bene, preservando così il senso autentico del Diritto che è volto a evitare che l’individuo, detenuto o libero che sia, sia ridotto a mero oggetto di consumo, da usare e di cui abusare”.

E’ Dino Petralia il nuovo capo del Dap. Il Dubbio il 2 maggio 2020. Magistrato antimafia amico di Giovanni Falcone, è stato scelto oggi dal ministro Alfonso Bonafede in sostituzione del dimissionario Basentini. A sorpresa il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha scelto Dino Petralia come nuovo capo del Dap. La nomina arriva dopo le dimissioni del precedente vertice, Francesco Basentini, travolto dalle critiche dopo la messa ai domiciliari di alcuni boss. Dino Petralia, magistrato antimafia che era con Giovanni Falcone nel Movimento giustizia, è stato pm a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Dal 2006 al 2010 è stato membro del Csm, con la corrente che oggi è nel gruppo Area insieme a Magistratura democratica. L’anno scorso era stato accreditato come possibile successore alla Procura di Torino di Armando Spataro, ma Petralia ha rinunciato alla candidatura quando il suo nome è finito nelle carte del caso Palamara che ha sconvolto il Csm. In quell’occasione ha dichiarato: “Per me è insieme un momento di grande amarezza ma anche un recupero di serenità. Al danno si è aggiunta la beffa, ma non sono disponibile a sporcare la mia dignità”.

È Dino Petralia, da sempre toga antimafia, il nuovo capo delle carceri scelto da Bonafede. Dino Petralia con la moglie Alessandra Camassa anche lei magistrato. Amico di Falcone, con lui nel Movimento giustizia, Petralia ha lavorato a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Al Csm ha contestato le leggi di Berlusconi. L'anno scorso ha ritirato la sua candidatura a procuratore di Torino perché Palamara, Lotti e Ferri avevano fatto il suo nome. Liana Milella il 02 maggio 2020 su La Repubblica. En plein antimafia al vertice delle carceri. Come segnale netto contro chi addebita al governo la responsabilità di aver messo ai domiciliari dei boss. A sorpresa il Guardasigilli Alfonso Bonafede sceglie come nuovo capo Dino Petralia, una vita spesa nella lotta alle cosche e, nello stesso tempo, nell'approfondimento giuridico per garantire una giustizia giusta. La vita di Petralia va tutta in una direzione, dalla parte dello Stato contro chi ne viola le leggi. Contro la mafia, senza indulgenze di sorta, ma nel pieno rispetto della Carta e delle leggi che ne originano. Bonafede, che ormai da giorni rifletteva sul nuovo incarico, ha chiuso la partita il primo maggio. Il Guardasigilli ha incontrato e insediato al Dap il vicedirettore Tartaglia. Su Petralia dice solo poche parole dopo la conference call con il premier Giuseppe Conte: "In attesa della risposta del Csm (che deve autorizzare il suo fuori ruolo, ndr.) posso solo dire che si tratta di un magistrato che ha speso la sua vita per la giustizia e la lotta alla mafia". A Petralia arrivano anche le lodi da ex collega di Piero Grasso che parla di "ottima scelta" e di un magistrato "serio e competente" che, con il vice Tartaglia, "saprà affrontare con rigore e nel rispetto dei diritti il delicato tema delle carceri". En plein perché accanto a Petralia ci sarà come vice l'ex pm antimafia Roberto Tartaglia, già scelto da Bonafede tre giorni fa. Un team che sostituisce il dimissionario Francesco Basentini e che taglia le polemiche politiche sulle recenti scarcerazioni dei boss (Zagaria, Bonura, Iannazzo e altri) decise dai magistrati di sorveglianza, ma addebitate politicamente allo stesso Bonafede. Il quale ha comunque avviato, per il via libera a Zagaria, un'indagine ministeriale. Stamattina Tartaglia prende ufficialmente possesso dell'incarico di vice direttore, e subito dopo la stretta di mano con il Guardasigilli andrà al Dap. Tra i due, Petralia e Tartaglia, il rapporto è ottimo, perché entrambi hanno lavorato a Palermo, Tartaglia pm e Petralia procuratore aggiunto. Di più: Tartaglia lavorava nel pool sulla corruzione, di cui Petralia era il diretto coordinatore. È la prima volta che la scelta di un vertice cade su due figure già in stretto rapporto tra di loro, che quindi possono garantire una guida concordata.  Ma vediamo chi è Petralia e qual è stata la sua carriera. Sempre elegantissimo e curato nei dettaglia, Bernardo Petralia, Dino per gli amici e di fatto per tutti, classe 1953, è un siciliano ma di madre ligure. Inizia il suo lavoro di magistrato a Trapani dove lavora in procura con Giacomo Ciaccio Montalto, il magistrato ucciso dalla mafia. Come racconta il sito nonsiamofannulloni, it, che pubblica la sua biografia e anche la foto che vi proponiamo, assieme alla moglie Alessandra Camassa, anche lei magistrato e oggi presidente del tribunale di Marsala, Petralia proprio a Trapani "scopre la più grande raffineria di droga di cui si servivano le famiglie mafiose". Nel 1985 si trasferisce a Sciacca dove, come giudice istruttore, istruisce il primo processo contro le cosche in cui utilizza i pentiti storici di Cosa nostra, da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno a Pietro Calderone. Nel 1990 eccolo al tribunale di Marsala come giudice, prima civile e poi penale, dove presiede il collegio dei primi processi di mafia celebrati con il nuovo codice. A soli 43 anni, nel 1996, diventa procuratore di Sciacca, dove resta per dieci anni fino alla sua nomina nel 2006 a consigliere del Csm. Di quel periodo si ricordano le misure patrimoniali, in particolare una da 400 miliardi di vecchie lire, tra le più cospicue che siano mai state fatte. Al Csm la corrente di Petralia è il Movimento per la giustizia, il gruppo che aveva tra i fondatori Giovanni Falcone e che nell'attuale Consiglio figura nel gruppo di Area assieme a Magistratura democratica. Dal 2006 al 2010, al Csm negli anni caldi delle leggi ad personam di Berlusconi e Angelino Alfano. Petralia non si tira indietro dai richiami alla Costituzione e alla necessità di rispettarla. Quando il suo quadriennio finisce non cerca un posto di vertice negli uffici giudiziari che pure gli spetterebbe visto che è stato procuratore, ma torna a fare il semplice pubblico ministero a Marsala, per poi passare a Palermo nel 2013 come procuratore aggiunto. Tre anni fa eccolo conquistare il ruolo di procuratore generale a Reggio Calabria. Poi, a giugno dell'anno scorso, quando era il più accreditato possibile successore al posto di procuratore a Torino dopo Armando Spataro, ecco la sua immediata rinuncia e il ritiro della candidatura quando il suo nome finisce nelle carte di Perugia del caso Palamara e le intercettazioni svelano che proprio Palamara, Cosimo Maria Ferri, parlamentare Pd oggi renziano ed ex leader di Magistratura indipendente, e il renziano e oggi Pd Luca Lotti, ovviamente a sua insaputa, erano a suo favore.  In quell'occasione ad Alessandra Ziniti di Repubblica Petralia dice: "Per me è insieme un momento di grande amarezza ma anche un recupero di serenità. Al danno si è aggiunta la beffa, ma non sono disponibile a sporcare la mia dignità".  Basentini ha salutato i suoi collaboratori giovedì sera dicendo che "tornava a Potenza", la città dov'è stato pm  e dove ha seguito anche l'inchiesta Tempa rossa. Questo ha fatto trapelare ieri mattina la notizia, annunciata dal segretario del Sappe Donato Capece. Una decisione assunta dopo un colloquio con Bonafede, che si è concluso con le sue dimissioni. Subito dopo le rivolte di febbraio in ben 27 penitenziari italiani, concluse con il tragico bilancio di ben 14 morti e 35 milioni di euro di danni, nonché il carcere di Modena completamente distrutto e inagibile, Bonafede aveva cominciato a pensare a una sostituzione di Basentini, non realizzata subito, nonostante le pressioni dell'opposizione di centrodestra e le richieste espresse dei renziani, perché riteneva di non mettere mano al vertice in un periodo di crisi. Poi il Covid e le scarcerazioni dei boss dopo una circolare sugli over 70 del vertice del Dap, hanno fatto precipitare la situazione. In particolare a far rumore è stato, a Sassari, il caso della concessione dei domiciliari al boss della camorra Pasquale Zagaria. Petralia arriverà a Roma la prossima settimana. Tartaglia è già al Dap da oggi. E oggi comincia una sfida sulle prigioni italiane dopo le rivolte di febbraio, le scarcerazioni di numerosi mafiosi, le polemiche su Basentini. Conoscendo i due magistrati si può già immaginare quale sarà la loro linea: nessuna concessione ai mafiosi e ai detenuti al 41 bis, ma un carcere comunque giusto, senza soprusi, né violenza.

Il governo dà le carceri al magistrato anti Cav che incriminò i 5 Stelle. Al posto di Basentini (licenziato) arriva il procuratore generale di Reggio Calabria. Luca Fazzo, Domenica 03/05/2020 su Il Giornale.  Sessantamila detenuti sull'orlo della crisi di nervi, i sindacati degli agenti in polemica permanente, il coronavirus contenuto a fatica nei reparti di isolamento, penitenziari dove i malavitosi si fanno recapitare i telefonini col drone all'ora d'aria. Insomma: per andare a dirigere le carceri italiane in un momento come questo serviva un magistrato dotato di attributi particolari. D'altronde un nuovo capo era necessario, perché la posizione di quello in carica, Francesco Basentini, si era fatta insostenibile, tra rivolte e scarcerazioni di cui non era certo il principale responsabile: ma qualche testa doveva saltare. Così Basentini viene costretto a dimettersi, e arriva Dino Petralia, palermitano, 67 anni. Ieri mattina, quando dal ministero della Giustizia esce l'annuncio che sarà lui il nuovo capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è difficile trovare all'interno della magistratura qualcuno che non condivida la scelta compiuta dal ministro Alfonso Bonafede. Qualche malumore, piuttosto, ci sarà stato nel partito del ministro: i grillini non amano Petralia, perché proprio lui quando era procuratore aggiunto a Palermo incriminò lo stato maggiore dei 5 Stelle per lo scandalo delle firme false, dando il via al processo che si è concluso a gennaio con una raffica di condanne. Oggi Petralia fa il procuratore generale a Reggio Calabria, gli mancano tre anni alla pensione, insomma poteva godersi la fine della carriera in un posto confortevole. Invece quando gli arriva la chiamata dal ministero non ha esitato un secondo ad accettare. Questione di carattere, stiamo parlando di uno che quando cessò la carica al Consiglio superiore della magistratura, invece che accomodarsi come i suoi colleghi in un ufficio di prestigio chiese e ottenne di venire spedito a fare il sostituto a Marsala, una Procura sciagurata da cui le toghe fuggivano in massa, alla fine era rimasto un solo pm. Petralia fece le valigie e da Roma scese nel disastro di Marsala a dare la caccia a Matteo Messina Denaro. Al Csm era arrivato nel 2006, da Sciacca dove era procuratore: nome sconosciuto al grande pubblico, ma sorretto nelle urne dalla corrente che allora andava per la maggiore, il Movimento per la giustizia, fondato da Armando Spataro. Oggi il Movimento è alleato di Magistratura democratica, ma allora faceva - e con un certo successo - una dura concorrenza alla corrente delle toghe rosse. Piombato al Csm Petralia si distinse per la durezza con cui difendeva i colleghi e la categoria negli scontri con il potere politico, soprattutto a partire dal 2008, quando a Palazzo Chigi tornò Silvio Berlusconi. Nelle polemiche con il governo, Petralia era in prima fila. Come quando insorse a difesa dell'amico Spataro, accusato dal centrodestra di avere creato il clima d'odio che spinse un poveretto a lanciare un souvenir di pietra in faccia al Cavaliere. E a costo di sposare cause sfortunate: c'era la sua firma in testa all'appello in difesa dei pm dell'Aquila che avevano incriminato Guido Bertolaso come complice del terremoto. L'inchiesta finì con un buco dell'acqua, ma intanto aveva decapitato la Protezione civile. Depurata dalla vis con cui tutela la casta delle toghe, la figura di Petralia è quella di un duro e di un indipendente. Rispetto a Basentini, ha un surplus: conosce il mondo delle istituzioni, sa come muoversi, sa come fare la voce grossa. Ce ne sarà bisogno se le carceri torneranno ad esplodere.

Di Matteo contro Bonafede: “Mi ha offerto Dap ma dopo reazioni boss ha cambiato idea”. Redazione de Il Riformista il 4 Maggio 2020. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. È l’accusa arrivata dal magistrato Nino Di Matteo, intervenuto telefonicamente a "Non è l’arena" su La7 domenica sera. Di Matteo si inserisce così nella polemica sulle dimissioni di Francesco Basentini, l’ormai ex numero uno del Dap che si è dimesso dopo il caso delle scarcerazioni dei boss mafiosi (sostituito da Dino Petralia). Ma il magistrato e consigliere del Csm ha fatto riferimento anche ad un particolare allarmante: Di Matteo ha parlato infatti di alcune intercettazioni di colloqui tra boss reclusi in carcere che avevano manifestato timori per il suo arrivo al vertice del Dap. Una ricostruzione dei fatti smentita dallo stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede, intervenuto a sua volta telefonicamente durante la trasmissione: “L’idea per cui io avrei ritrattato una proposta a Nino di Matteo non sta né in cielo né in terra”, ha detto il ministro della Giustizia. “Io ho chiamato di Matteo – ha sottolineato Bonafede – parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Nella stessa telefonata di Matteo mi chiarisce che ci sono state intercettazioni nelle carceri”. Bonafede quindi chiarisce che quando Di Matteo è andato al ministero, “tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli affari penali che era il ruolo di Giovanni Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrata che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi e lì mi ha detto che non poteva accettare quel ruolo e che voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”. Il Guardasigilli ha anche negato i timori di reazioni dei boss sulla nomina di Di Matteo a capo del Dap: “Quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata”.

Il pm Di Matteo "travolge" il ministro Bonafede: «Mi propose di guidare il Dap, ma i boss non volevano». Saverio Puccio il 4 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Un magistrato antimafia, in prima linea e tra i più esperti, alla guida del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il nome proposto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, fu quello di Nino Di Matteo, attuale consigliere del Csm, ma quando il magistrato decise di accettare, lo stesso ministro ritirò la proposta. A ricostruire questa versione non è una terza persona, ma direttamente il magistrato Di Matteo, durante la trasmissione “Non è l’arena”, condotta su La7 da Massimo Giletti. Le parole di Di Matteo hanno squarciano il silenzio e aperto una questione molto più ampia, legata alle scarcerazioni facili degli ultimi mesi. «Bonafede – racconta al telefono Di Matteo – mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta», ma «quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini». Una ricostruzione non di poco conto, se si considera che lo stesso Basentini si è poi dimesso proprio a causa delle polemiche sulle scarcerazioni di diversi detenuti, alcuni anche al 41bis, avvenute in questi giorni. Ma ad aggravare la situazione è una seconda parte della ricostruzione fornita dal magistrato che ha ricordato alcune intercettazioni dei boss che avrebbero espresso “fastidio” e contrarietà per il possibile incarico a Di Matteo: «Se nominano Di Matteo è la fine», avrebbero detto i boss intercettati. Giletti ha incalzato il magistrato legando la mancata nomina e le intercettazioni («lei ci fa capire che il timore che a sua nomina potesse portare reazioni è stata messa da parte per un personaggio meno invasivo e forte, rispetto a lei») e il magistrato ha risposto: «Io sto riportando un fatto». In poche tempo le reazioni alle affermazioni del magistrato si sono moltiplicate. In tanti hanno chiesto le dimissioni di Bonafede, chiedendo anche al ministro di riferire in Parlamento. Lo stesso Bonafede ha, però, smentito la ricostruzione attraverso un comunicato: «L’idea che io abbia ritrattato la proposta a Di Matteo non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor Di Matteo». «Sono esterrefatto nell’apprendere che viene data un’informazione che può essere grave per i cittadini – ha spiegato il ministro – perché fa trapelare un fatto sbagliato cioè che io sarei andato indietro rispetto alla mia proposta perché avevo saputo di intercettazioni». Il ministro ha puntualizzato la ricostruzione dei fatti: «Ho chiamato di Matteo parlandogli della possibilità di fargli ricoprite uno dei due ruoli, direttore affari penali o capo del Dap . Gli ho detto “venga a trovarmi e vediamo insieme”. Lui – ha aggiunto Bonafede – mi disse delle intercettazioni di detenuti che in carcere dicevano “se viene questo butta le chiavi”. Sapevo chi stavo per scegliere, e sapevo di quella intercettazione, perché ne dispone anche il ministro. Quando di Matteo è venuto gli dissi che tra i due ruoli era più importante quello di direttore affari penali, ruolo che era stato di Falcone, molto più di frontiera in lotta a mafia, non gli ho proposto un ruolo minore. Questa è la verità. A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d’accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già fatto».

Il pm Di Matteo: "Mi offrirono il Dap, ma Bonafede non mi ha voluto". Le dichiarazioni del magistrato, intervenuto durante la trasmissione Non è l'arena: "I capi mafia dicevano: 'Se nominano Di Matteo è la fine'". La replica del ministro: "Sono esterrefatto". Francesca Bernasconi, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. "Non ho mai fatto trattative politiche con nessuno". Così, il magistrato Nino Di Matteo interviene a Non è l'arena, programma di La7, condotto da Massimo Giletti, per raccontare un episodio del 2018, relativo alla nomina di Francesco Basentini come capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Il magistrato dice di essere intervenuto in trasmissione perché qualcuno "parlava di trattave tra me e Bonafede". E racconta la sua versione dei fatti: "Venni raggiunto da una telefonata del ministro Alfonso Bonafede che mi chiese se ero interessato ad accettare il ruolo capo del Dap o in alternativa prendere il posto di direttore generale degli affari penali". Di Matteo sostiene di aver chiesto al ministro 48 ore di tempo, per pensare alle offerte che gli erano state fatte. Nel frattempo, spiega il magistrato, erano venute alla luce alcune informazioni sulle reazioni di importantissimi capi mafia all'indiscrezione della possibile nomina del magistrato a capo del Dap: "Quei capi mafia dicevano: Se nominano Di Matteo è la fine". "Dopo meno di 48 ore andai trovare il ministro- racconta Di Matteo, specificando di aver deciso di accettare la nomina a capo del Dap- ma mi disse che ci aveva ripensato e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli affari penali del ministero. Il giorno dopo gli dissi che non avrei accettato. Nel giro di 48 ore mi sono ritrovato a essere designato come capo del Dap e quando accettai mi trovai di fronte a questo cambio". Incalzato da Massimo Giletti, il magistrato precisa; "Al ministro dissi 'Mi consenta di parlare con i miei famigliari prima di decidere' e quando andai per dire che avrei accettato Dap, il ministro ci aveva ripensato o qualcuno l'aveva indotto a ripensarci questo non lo posso sapere". Poco dopo, nel corso della trasmissione è intervenuto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per replicare alle dichiarazioni di Di Matteo. "Sono esterrefatto nell'apprendere che viene data un'informazione che può essere grave per i cittadini, nella misura in cui si lascia trapelare un fatto sbagliato- dice il ministro- cioè che la mia scelta di proporre a Di Matteo il ruolo importante all'interno del ministero sia stata una scelta rispetto alla quale sarei andato indietro perché avevo saputo di intercettazioni". E precisa:"Gli ho parlato della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui, gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia ed era stato il ruolo ricoperto da Giovani Falcone". Per questo, sostiene Bonafede, si era mosso per offrire il Dap a Basentini: "A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d'accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già fatto". E riguardo alle intercettazioni relative alle reazioni del capi mafia, Bonafede afferma che "quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata". Sulla vicenda sono intervenuti anche i parlamentari leghisti Giulia Bongiorno, Nicola Molteni, Jacopo Morrone e Andrea Ostellari. "Rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa e il capo del Dap sostituito: come se non bastasse tutto questo, ora arrivano le parole di un magistrato come Nino Di Matteo in diretta tv- hanno commentato i parlamentari della Lega-È vero che non è stato messo alla guida del Dap perché sgradito ai mafiosi?". "In ogni caso- aggiungono- anche senza le parole di Di Matteo, Bonafede dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori". Toni duri anche da parte della deputata di Fratelli d'Italia, Carola Varchi: "O Bonafede si dimette o faremo le barricate", ha tuonato. E riferendosi al botta e risposta del ministro con il pm Di Matteo, aggiunge: "Le accuse del dottor Di Matteo sono state molto gravi ed io avrei voluto la certezza che, nelle istituzioni, nessuno si lasci intimidire da quello che ascolta nelle intercettazioni captate in carcere. Purtroppo l'intervento del ministro Bonafede ha lasciato tutti noi nello sconforto e nel dubbio che effettivamente la mancata nomina del dottor Di Matteo sia conseguenza del contenuto di quelle intercettazioni".

Di Matteo accusa Bonafede: “Mi offrì il Dap poi ci ripensò”. Il Guardasigilli: “Non è vero”. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Scontro tra il magistrato della presunta Trattativa e il ministro della Giustizia che nega e parla di “percezione sbagliata”. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. La confessione del magistrato Nino Di Matteo, arriva direttamente negli studi di a Non è l’arena, su La7, che ormai sembra divenuto una sorta di Plenum ufficioso del Csm così come Porta a Porta di Vespa è la terza Camera dello Stato. Fatto sta che la dichiarazione del magistrato Nino Di Matteo arriva al pochi giorni dalla bufera che ha travolto il Dap a causa della scarcerazione – del tutto legittima in termini di legge e di Costituzione – del mafioso Zagaria al quale sono stati concessi i domiciliari a causa delle sue gravi condizioni di salute. In ogni caso il ministro ha negato la ricostruzione del magistrato della trattativa: “L’idea per cui io avrei ritrattato una proposta a Nino Di Matteo non sta ne’ in cielo nè in terra”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, intervenuto a “Non è l’arena” su La7. “Io ho chiamato Di Matteo – aggiunge – parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Nella stessa telefonata Di Matteo mi chiarisce che ci sono state intercettazioni nelle carceri”.  “E’ una percezione di Di Matteo. Quando è venuto al ministero  tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli affari penali che era il ruolo di Giovanni Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrata che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi e lì mi ha detto che non poteva accettare quel ruolo e che voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”.

Ora Bonafede finisce nel romanzo sulla Trattativa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2020. Da tifosi a vittime: anche i 5Stelle finiscono nel tritacarne mediatico dove riaffiora la trama della presunta trattativa Stato-mafia. Se uno dovesse inventarsi un teorema giudiziario su una trattativa Stato-mafia odierna, ci sono tutti gli ingredienti giusti per creare suggestioni. Il 7 marzo scoppiano le rivolte nelle carceri italiane, alcune davvero devastanti con tanto di evasione spettacolare e lasciando una scia di 13 detenuti morti, la maggior parte stranieri e con problemi di tossicodipendenza. Dietro le rivolte – come ha detto recentemente il sociologo Nando Dalla Chiesa e adombrato anche dal presidente della commissione antimafia Nicola Morra – ci sarebbe stata una regia mafiosa per fare pressione sul governo per ottenere le scarcerazioni dei boss mafiosi al 41 bis. Detto, fatto. Spunta la circolare del Dap che raccomanda alle direzioni del carcere di segnalare ai giudici tutti i detenuti che presentano patologie letali in caso di Covid 19. Esce un articolo de L’Espresso nel quale si denuncia che la circolare avrebbe fatto un favore ai boss al 41 bis, i quali ne avrebbero approfittato per chiedere la detenzione domiciliare. Si crea mistero, inquietudine e aleggia nell’aria il famoso “terzo livello”. Il giorno dopo l’allarme viene scarcerato il boss Francesco Bonura per gravi malattie e messo in detenzione domiciliare. Spunta fuori la lista di centinaia di boss che avrebbero o potrebbero beneficiare della scarcerazione. Poco importa che di un centinaio di nomi, solo tre del 41 bis sono coloro che hanno usufruito della detenzione domiciliare. Ma il dado è tratto. La presunta nuova trattativa avrebbe quindi dato i suoi frutti. Lo stesso Nino Di Matteo – membro togato del Csm e tra coloro che imbastirono il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia – all’indomani delle scarcerazioni si era espresso così: «Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato- mafia». Gli ingredienti ci sono tutti. Ma durante l’ultima trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti se n’è aggiunto un altro che ha mandato in tilt i seguaci delle “agende rosse”, tutta una certa antimafia che crede alle “entità” e alle regie occulte del fantomatico (Giovanni Falcone non a caso stigmatizzava questa fandonia) “terzo livello” e soprattutto il Movimento 5Stelle, che attualmente è al governo e che del teorema trattativa ne ha fatto un caposaldo della sua narrazione politica. Di Matteo è intervenuto durante la trasmissione affermando che nel 2018 il guardasigilli Alfonso Bonafede gli aveva offerto di dirigere il Dap, offerta che sarebbe poi venuta meno, dopo la reazione di alcuni boss detenuti al 41 bis, che in alcune intercettazioni si sarebbero detti preoccupati per la sua nomina al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Ovviamente Di Matteo ha raccontato solo i fatti che sarebbero accaduti, non aggiungendo altro né dando alcuna interpretazione. Ma chi ha ascoltato ha avuto inevitabilmente la percezione che Bonafede stesso avrebbe avuto paura delle pressioni mafiose. Una sorta di minaccia psicologica a un corpo politico dello Stato (reato contestato agli ex Ros per la presunta trattativa). Il ministro della Giustizia ha replicato smentendo quella ricostruzione. Ricorda qualcosa? Ma certo. La stessa narrazione suggestiva e priva di fondamento sulla presunta trattativa Stato-mafia. Anche in quel caso è stato omesso un elemento non trascurabile: viviamo in uno Stato di Diritto e soprattutto c’è la magistratura di sorveglianza che opera secondo legge e in maniera del tutto indipendente. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza hanno fatto il loro dovere. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Analoga vicenda è accaduta nel 1993 e c’entra sempre il 41 bis. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa, per la quale sono stati condannati in primo grado gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ’92 e il ’ 94, non c’è ombra di dubbio. L’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa. Il 41 bis sarebbe stato il fulcro di tali iniziative. In realtà c’è stata una sentenza della Corte costituzionale scaturita grazie al ricorso – udite udite – dei magistrati di sorveglianza. Tale sentenza ha invitato il governo a valutare caso per caso il rinnovo o meno del 41 bis (all’epoca il rinnovo avveniva automaticamente e indistintamente per tutti). Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, il quale non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente” del ’93.I giudici che hanno assolto l’ex ministro Calogero Mannino, che nel processo trattativa ha scelto il rito abbreviato, hanno sottolineato come dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».

Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere «a tratti – scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità». Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, «che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano». Ed ecco qua. Si parla di tutela della dignità dei detenuti, Costituzione, Stato di Diritto. In soldoni nessuna manovra oscura, come oggi non c’è stata alcuna regia occulta dietro la concessione della detenzione domiciliare (di cui tre del 41 bis, non centinaia come hanno fatto un po’ credere) odierne. Chissà se il ministro Bonafede, che adesso è anche capodelegazione del M5S nel governo, si sia ora accorto di quanto è facile cadere nell’equivoco. Il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle (o addirittura uno strumento di potere) che condiziona il governo nel fare qualsiasi scelta politica. Soprattutto nel campo giudiziario e penitenziario.

Fuoco amico su Bonafede: “Io condizionato dai boss? Accuse infamanti”. Simona Musco Il Dubbio il 4 maggio 2020. Il Guardasigilli sotto accusa dopo la mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap. E Italia viva chiede le dimissioni. «L’idea trapelata nel vergognoso dibattito di oggi, secondo cui mi sarei lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso è un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda. D’altronde, se mi fossi lasciato influenzare dalle reazioni dei mafiosi non avrei certo chiamato io il dottor Di Matteo per valutare con lui la possibilità di collaborare in una posizione di rilievo». Rigetta ogni illazione Alfonso Bonafede, la cui poltrona, a seguito delle clamorose rivelazioni del pm Nino Di Matteo sulla nomina sfumata al Dap, traballa. E a chiedere la sua testa sono quasi tutti, con una timida levata di scudi da parte del M5s e del Pd, che però chiede chiarezza. In un post su Facebook il ministro prova a fare il punto: sapeva di quelle intercettazioni prima di chiamare Di Matteo, fu lui stesso a dirlo al pm, ciò nonostante pensò comunque a lui. E pensò di dargli un altro incarico, «in qualche modo equivalente a quello che era stato di Giovanni Falcone», proprio per mandare un segnale «chiaro e inequivocabile alla criminalità organizzata». Rivendicando la Spazzacorrotti e la lotta per l’inasprimento del 41 bis, con la stretta sulle scarcerazioni, Bonafede ribadisce la sua assoluta tranquillità su una vicenda che a distanza di 24 ore Di Matteo conferma tale e quale. «I fatti che ho riferito ieri li confermo e non voglio modificare o aggiungere alcunchè nè tantomeno commentarli», ha riferito il pm ad Affaritaliani.it. E intanto il grido che arriva dalla politica è quasi all’unisono: «Bonafede si dimetta», affermano le opposizioni. Ma non solo: anche Italia Viva, attraverso il deputato Cosimo Maria Ferri, ex componente del Csm, ha chiesto al Guardasigilli spiegazioni sul «perché ha prima offerto l’incarico di Capo del Dap a Di Matteo e poi revocato la proposta», chiedendo le sue dimissioni. «Dove è finita la sua trasparenza, perché non lo ha mai raccontato, ora venga in Parlamento a dire cosa è successo?». Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, secondo cui si tratta di «un regolamento di conti» tra «giustizialisti», ha chiesto «trasparenza», invocando un intervento del Csm al fine di chiarire la posizione di Di Matteo, «perché è evidente che se dice queste cose deve avere degli argomenti». Dall’altra parte, «deve chiarire il ministro Bonafede, perché ha avuto un atteggiamento discutibile». Una condizione essenziale prima di discutere una possibile mozione di sfiducia. Per Azione, movimento politico guidato dall’ex ministro Carlo Calenda, lo scontro tra Di Matteo e Bonafede «è stato semplicemente grottesco. Dire che un Ministro ha preso una decisione importante come la nomina del capo del Dap facendosi condizionare dalle reazioni dei boss soltanto due anni dopo i fatti è abbastanza assurdo – ha commentato Andrea Mazziotti, membro del comitato promotore -. Bonafede dovrebbe chiarire davanti al Parlamento». Più secche e decise le opposizioni, come Fdi, che attraverso la sua leader, Giorgia Meloni. «Fossi Alfonso Bonafede, domani mattina rassegnerei le mie dimissioni di ministro della Giustizia», ha commentato con un post su facebook pubblicato nella tarda sera di domenica, dopo le rivelazioni di Di Matteo a “Non è l’Arena” di Giletti. Per la Lega, si tratta, invece, dell’ennesimo «errore» di Bonafede, del quale chiede, come gli alleati di FdI, le dimissioni. «Rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa e il capo del Dap sostituito: come se non bastasse tutto questo, ora arrivano le parole di un magistrato come Nino Di Matteo in diretta tv. È vero che non è stato messo alla guida del Dap perché sgradito ai mafiosi? In ogni caso, anche senza le parole di Di Matteo, Bonafede dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori», affermano i parlamentari Giulia Bongiorno, Nicola Molteni, Jacopo Morrone e Andrea Ostellari. Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia, parla di «senso dello Stato calpestato», puntando il dito sia contro Di Matteo – «dopo quasi due anni dai fatti sente l’impellente necessità di raccontare al Paese un episodio che lo ha scioccato. Ma perché aspettare così tanto tempo, manco fosse equiparabile a un pentito della criminalità organizzata?» – sia contro Bonafede – «anche in questo caso dimostra di essere totalmente inadeguato al suo ruolo». E mentre la collega forzista Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, chiede chiarezza, Enrico Costa, ex ministro di Forza Italia, replica le parole di Renzi, parlando di «cortocircuito forcaiolo», chiedendo una discussione in parlamento. Timida la reazione del M5s. «È davvero inqualificabile la sfacciataggine con la quale minoritarie porzioni della politica e del giornalismo politicamente orientato a destra strumentalizzino vicende inattuali ed ampiamente spiegate dal ministro Bonafede per un attacco ingiusto ed inveritiero al Governo, senza considerare le misure predisposte in questi giorni in materia di articolo 41 bis e le prestigiose e qualificate nomine appena fatte al Dap cui sono stati preposti magistrati di grande coraggio ed esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata – ha commentato il senatore Giorgio Trizzino -. Nel volgare palcoscenico che è diventata la trasmissione di Giletti, viene costantemente messa in discussione l’azione del Governo. Questo modo di gestire l’informazione non corrisponde al sentimento della stragrande maggioranza degli italiani che ormai riesce a distinguere con chiarezza il giornalismo qualificato da quello improvvisato ed arrogante. Quando lo capirà Giletti?». Ma una parte dei grillini è in subbuglio: «Tutto questo è irreale – dice alla AdnKronos Piera Aiello,  testimone di giustizia e componente della Commissione parlamentare Antimafia -. Devo essere sincera, non so più cosa pensare. Aspetto una risposta concreta, certa, su come sono andate le cose. Si deve fare luce: se Bonafede ha sbagliato, è giusto che ammetta le sue colpe». Chiede chiarimenti Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, secondo cui «il sospetto non può mai essere anticamera della verità», mentre il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini e il senatore e capogruppo in commissione antimafia Franco Mirabelli, parlano di «confusione», definendo «irresponsabile l’atteggiamento di chi usa un tema come la lotta alle mafie per giustificare l’ennesima richiesta di dimissioni di un ministro, approfittando di queste dichiarazioni estemporanee. Siamo certi che il ministro al più presto verrà a riferire in commissione e in parlamento sull’impegno del governo contro le mafie». E il vicesegretario dem Andrea Orlando, predecessore di Bonafede, ha aggiunto: «So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma se un ministro dovesse dimettersi per i sospetti di un magistrato, si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l’anticamera della verità, sinchè non verificato resta un sospetto». A chiedere le dimissioni è anche il Partito Radicale, ma non per la vicenda Di Matteo. Ora che «il ministro Bonafede è sotto il fuoco incrociato per lesa maestà del dottor Di Matteo, anche se le cose fossero andate come le ha raccontate il dottor Di Matteo si potrebbe configurare un gesto di scortesia, ad essere feroci di maleducazione. Nulla di più né di meno. Ci auguriamo che questa sia l’occasione per il ministro Bonafede di rivedere le sue politiche sulla giustizia e sul carcere con l’occhio antimafista, e si faccia guidare dalla Costituzione».

Scontro Di Matteo-Bonafede, il boomerang giustizialista. Alessandro Rico, 4 maggio 2020, su Nicola Porro.it. Siamo ormai allo squadrismo sanitario. Il virus ha infettato il loro ego. Perciò voglia Dio, nella fase 2, liberarci dai ducetti della pandemia. Abbiamo bisogno di leader che ci trattino da cittadini maturi e responsabili, non da ragazzini minchioni da sottoporre a minacce e umiliazioni. Prendete la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Già si era esibita sotto Pasquetta: se andate a fare le grigliate «vi becchiamo», «vi pizzichiamo», avvertiva i romani. Un linguaggio da poliziotto penitenziario, più che da primo cittadino di una capitale. Evidentemente, entrare nella «cabina di regia» con Giuseppe Conte deve averle montato la testa. E così, la Raggi, alla vigilia di questa falsa ripartenza, ha rincarato la dose, reclamando i pieni poteri per i sindaci e presentando in questi termini la riapertura dei parchi: «Sono una concessione che ci viene fatta dal presidente del Consiglio, ma dobbiamo meritarcela». Chiara la filiera? Se possiamo mettere il naso nella natura è per bontà del caudillo. La caudilla però ci mette sull’attenti, come all’asilo: se non fai il bravo, ti tolgo il giocattolo. D’altro canto, la scuola d’illibertà del Movimento 5 stelle non ha nulla da invidiare alla scienza della reclusione del Pd. Il circolo Litorale dem di Ostia, ad esempio, per la stagione balneare aveva lanciato una brillante idea: il braccialetto elettronico contro gli assembramenti. Bello: andare in spiaggia come i condannati ai domiciliari. Per fortuna, i gestori degli stabilimenti hanno riconsegnato l’idea al mittente. Il circoletto piddino potrà rivendersela a una delle varianti del totalitarismo asiatico: dal regime di Xi alla tecnocrazia populista di Singapore. A proposito di tecnici. Al coro delle minacce agli italiani s’è aggiunto il superesperto del ministero, Walter Ricciardi. Quello che era dell’Oms ma non è dell’Oms. Quello che attaccava il Veneto per i tamponi a tappeto, però aveva torto marcio, perché i tamponi a tappeto hanno consentito alla Regione di Luca Zaia di spegnere i focolai infettivi. Ebbene, il consigliere di Roberto Speranza, con un passato da attore, già rimprovera «le tante persone viste in giro»: «Voglio ricordare che come si è aperto, si può anche richiudere». Siamo ormai allo squadrismo sanitario: noi vi abbiamo ridato un pezzetto di libertà, noi ve lo possiamo togliere. Perché «abbiamo ancora bisogno di un cambiamento culturale forte, permanente». Scusi Ricciardi, ma lei chi è per imporcelo a suon di intimidazioni? Chi l’ha eletta? Chi la controlla? In virtù di quale autorità dovremmo sposare le sue convinzioni? Solo lavate di capo. Nessuno è sfiorato dal sospetto che gli italiani non siano anarchici e smidollati, che sappiano regolarsi da soli, che i loro diritti fondamentali non dipendono dai comitati tecnico-scientifici o dalle manie di protagonismo di politicanti di secondo piano, poiché sono scolpiti della Costituzione e nel diritto naturale. Abbiamo preso in giro Boris Johnson e la Svezia, Donald Trump e Jair Bolsonaro. Ma noi siamo sotto il tiro dei «lanciafiamme» di Vincenzo De Luca, identico alla sua caricatura, personaggio più che persona. Il sospetto è che qualcuno, qui, stia mischiando le carte per poter mettere le mani avanti: se le cose vanno storte, dannato sia chi va a correre, chi va al parco, chi fa al bagno al mare o la passeggiata sotto i portici con i bambini. Lo si legge nelle parole di Conte al Corsera: «La ripartenza del Paese è nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se vogliamo che sia risolutiva e definitiva». Loro sono stati bravissimi: se poi finisce male, la colpa è nostra.

Giletti aveva ragione: "Sulla scrivania di Bonafede...". Boss mafiosi fuori dal carcere, altro documento bomba per il ministro. Antimafia e Dap, carteggi di fuoco: cosa non torna sulla scarcerazione dei boss mafiosi al 41 bis. Renato Farina Libero Quotidiano il 07 maggio 2020. Chi ha ragione nella contesa a mazzate tra il ministro della Giustizia e il magistrato eletto nel Csm? Chi dei due deve perciò andarsene? La risposta più comoda e ovvia sarebbe: tutt' e due, ne hanno combinate troppe, prima, durante e dopo. Hanno dato vita a baruffe chiozzotte da comari meridionali, con graffi sul naso e ciocche di capelli nel water, e proprio nel tempio dell equilibrio dove i piatti della bilancia dovrebbero essere immuni dagli sputazzi di chi dovrebbe reggerla. A che serve dar ragione all' uno o all' altro. Tanto è sicuro: resisteranno indomiti ai loro posti, si accomoderanno, del resto è già intervenuto come paciere e sarà sicuramente bravissimo anche come crocerossina Marco Travaglio, che porterà brodino di piccione e ne sorveglierà la convalescenza. Ci tocca prima un po' di cronaca dell' attualità spicciola. Ribadendo il concetto sopra esposto, che cioè rispetto all' enormità del disastro giudiziario trattasi di una pinzillacchera. La contesa fra un tremebondo Alfonso Bonafede (ministro della Giustizia) e un prepotente Nino Di Matteo (pm ora al Csm) verte su due opposte versioni di un unico fatto. Nel 2018, l' allora pubblico ministero Di Matteo, famoso ideologo della trattativa Stato-Cosa nostra, avrebbe ricevuto dal neo-ministro Bonafede l' offerta di dirigere il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, il luogo da cui un magistrato dirige le carceri, con uno stipendio sontuoso, circa il triplo di quello di un deputato). Di Matteo era pronto per dire di sì, è andato a trovarlo per comunicarlo di persona, e quello gli ha contro offerto un incarico da portaborse ministeriale, direttore degli affari generali. Sarebbe sì il posto esatto occupato da Giovanni Falcone, come sostenuto da Bonafede, peccato che nel frattempo la legge avesse ridotto alla metà della metà il rango di quel posto. Un no scontato - Logico che Di Matteo dicesse no, e ha giurato di vendicarsi, con il solito animo sereno delle toghe. Passano neanche due anni, e Bonafede sloggia il capo del Dap, Francesco Basentini, ritenuto poco adatto, avendo dato l' ok alla liberazione di trecento e passa boss per ragioni di salute legate al Covid. Non interveniamo nel merito. Ma un fatto simile è la negazione del dogma più-galera-per-tutti che sta alla base della politica giudiziaria dei grillini. Questo sentimento del M5S ha sospinto a furor di popolo manettaro negli uffici di via Arenula l' unico avvocato lieto del gabbio per i suoi clienti, e sollevato al rango di divinità in toga Nino Di Matteo, famoso per considerare i politici per lo più venduti alla mafia. Di Matteo ha rivelato di essere stato scartato per «l' interferenza di boss mafiosi», che avrebbero minacciato vendette nel caso fosse stato nominato lui, come risulterebbe da intercettazioni dove il boss Graviano dice: «Se nominano Di Matteo è la fine», pubblicate dalla Pravda quotidiana, cioè il Fatto. Bonafede si è difeso, ovvio. Ha prima dichiarato «infami» le accuse. Ieri in Parlamento ha negato «interferenze». Non può dire di aver ceduto ai boss, e neppure appare francamente verosimile. Ma ha il dovere di essere sincero, confessando come in quei giorni ha funzionato il mercato politico. Chi ha scartato la vacca Di Matteo? Per un posto così delicato, uno schierato così radicalmente è possibilissimo abbia suscitato contestazioni. Per la Lega accettarlo senza scalciare, sarebbe stato come mettere un dito nell' occhio a Berlusconi, viste le accuse rivolte dal pm a Dell' Utri, e sullo sfondo allo stesso Cavaliere. Il Quirinale davanti a un candidato che ha portato in tribunale fior di carabinieri considerati eroi, avrà fatto presente che presentare un candidato unico e volerlo a tutti i costi per un posto delicatissimo, sarebbe stato un brutto precedente, poco dialogico. Oltretutto nel corso di questo processo, Di Matteo aveva insieme con Ingroia trattato il predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, come un complice reticente. È andata così? Che male c' è? Il nome di Dio non è mica Nino, almeno per ora. Normali compromessi - Cose normali, quante promesse abbiamo tutti ricevuto, poi andate in discarica e nel silenzio. Il fatto è che Bonafede non può dire la verità, perché com' è noto negli statuti di costoro chi tratta è un Giuda, e se dicesse di questo o quel niet e di aver ceduto, sarebbe impiccato fuori dalla Casaleggio e associati. Eppure si fa, la politica è compromesso, non esiste nessuno che abbia un potere da autocrate, e per fortuna. Ora Di Matteo, dopo che il suo contendente vittorioso ha spedito fuori di galera dei mafiosi, gongola e morde, Bonafede sta cercando di rimediare, non per giustizia, ma per salvarsi la faccia. E li vuole tutti dentro, fossero moribondi, o anche morti, purché di tre giorni soltanto, perché poi li resusciterebbe senz' altro per consegnarli al rigore il divino Di Matteo. Ben altro che per la bugia diplomatica detta a Di Matteo, e per la reticenza con il naso lungo detta oggi alla Camera, andrebbe rimandato nel suo studiolo da paglietta di provincia. Questo ministro da anni sta perpetrando una tortura da maniaco contro lo Stato di diritto. Ha abrogato la prescrizione, ha infilato il trojan nelle vite di sessanta milioni di italiani, dando da gestire miliardi di dati a tecnici perché poi siano filtrate dai pm. Rifiuta l' indulto, e poi non si accorge di circolari che scremano per la libertà il peggio (a torto o nel giusto non sappiamo: di sicuro lui non se n' è accorto). Non riusciremo a cacciarlo. Uno così incapace lascia però aperta la speranza che mandi con la sua insipienza a gambe all' aria oltre che lo Stato di diritto anche quello di rovescio.

376 mafiosi e trafficanti fuori dal carcere per l’emergenza virus. La chiamano giustizia…Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2020. Il ministro Bonafede questa mattina si è recato presso il carcere di Rebibbia a Roma, fermandosi nell’ariosissimo ingresso, evitando di andare a vedere le celle. Nessuno rivela dice che era anche prevista una conferenza stampa all’interno del carcere ma c’è stata la protesta dei detenuti… che hanno indotto a sospendere l’incontro con i giornalisti e le telecamere, proseguendo il tutto fuori sulla Tiburtina. Sulla scrivania del ministro di giustizia Alfonso Bonafede (M5S) c’è un documento con elenco di 376 nomi che ha generato non poichè tensioni anche all’interno della stessa maggioranza. Un elenco in cui spiccano i nominativi di boss di “peso” come Francesco Bonura, Vincenzo Di Piazza, Vincenzo Iannazzo, Antonino Sudato e Pasquale Zagaria, che sono stati posti agli arresti domiciliari per decisione dei magistrati di sorveglianza per l’emergenza CoronaVirus.  E non solo. Compaiono in quell’elenco anche quelli degli altri 372, diventati di fatto ex detenuti nonostante siano legati alle criminalità organizzate mafiose ed ancora oggi operativi sul piano criminale, considerato che nessuno di loro si è mai dissociato. Le procure antimafia sono molto preoccupate del ritorno dei mafiosi nei territori ove operavano . “Gli arresti domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità” commentano i pm della Dda di Palermo, ricordando che comunicano spesso con le loro truppe mafiose persino dal carcere, figurarsi cosa potranno fare dalle loro abitazioni. E tutto ciò adesso comporta un superlavoro per le forze dell’ordine che dovranno monitorare e controllare tutti i mafiosi ai domiciliari, per assicurarsi che rispettino l’obbligo di non incontrare o comunicare telefonicamente con nessuno. L’elenco con i 376 nomi è stato trasmesso tre giorni fa dal DAP, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia, che sovrintende alle carceri, alla Commissione Parlamentare Antimafia, che l’aveva espressamente richiesta, e che spiega le conseguenti ragioni della fretta del guardasigilli Bonafede nel nominare i nuovi vertici delle carceri italiane. E spiega anche come mai ieri, e per giunta di sabato il ministro ha fatto insediare immediatamente al Dap il nuovo vice capo Roberto Tartaglia ed ha comunicato alla maggioranza di governo il nome di Dino Petralia (entrambi noti magistrati antimafia) attuale procuratore generale a Reggio Calabria, come nuovo direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria posto del dimissionario Basentini. Sulla limitata competenza ed operativa di Basentini ha influito non poco che non sia riuscito al Dap ad organizzare e predisporre soluzioni alternative agli arresti domiciliari, disponendo il loro trasferimento non a casa ma nei centri medici penitenziari, come quelli di Roma, Viterbo, Milano. Nona caso tale ipotesi era stato espressamente richiesta dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari per il camorrista Pasquale Zagaria, ma la risposta sollecitata più volte, è arrivata dal Dap solo il giorno successivo del provvedimento “leggero” dei giudici che lo avevano già mandato a Brescia a casa dalla moglie. Bonafede ha di fatto indotto alle dimissioni Francesco Basentini l’ex Direttore generale del DAP al quale viene addossata la colpa di aver malgestito le rivolte di febbraio ed ancora peggio le scarcerazioni del CorionaVirus, soprattutto per le scarcerazioni dei mafiosi. Il nuovo capo Petralia arriva dalla procura generale di Reggio Calabria mentre il suo vice Tartaglia arriva dalla Commissione Parlamentare Antimafia e dopo una lunga stagione a Palermo come pm, dove ha lavorato insieme con il procuratore aggiunto Petralia. Dino Petralia a parte un incarico come membro del Csm , aderendo alla stessa “corrente” di Giovanni Falcone, ha prestato servizio come magistrato in procure ad alto rischio come quelle di Marsala , Sciacca e Trapani. E’ stato in corso per la guida della Procura di Torino l’anno scorso dopo il pensionamento di Armando Spataro, ma quando seppe che la “cricca” di Palamara e compagni di merende lo sponsorizzavano, chiaramente senza dirglielo, ritirò immediatamente la propria candidatura, dimostrando spessore ed etica non comuni. Il ministro Bonafede ha anche assegnato a Tartaglia il primo incarico, cioè quello esaminare uno ad uno i fascicoli degli scarcerati , per una preliminare analisi che, qualora fosse necessario, proseguirà con gli ulteriori accertamenti. Non a caso ieri pomeriggio, la nuova reggenza del Dap ha emanato una circolare con cui viene disposto ai direttori delle carceri italiane l’obbligo di comunicare immediatamente al Dipartimento tutte le istanze presentate dai detenuti al 41 bis o comunque inseriti nei circuiti carcerari di massima sicurezza. Ma chi compare nella lista dei 376 scarcerati ? Un elenco dei boss di vario livello peso che sono stati scarcerati dai giudici negli ultimi due mesi per il rischio Covid o per altre patologie, e che oggi sono detenuti ai domiciliari, nelle loro abitazioni e quindi nei loro territori di dominanza malavitosa. Sono capi e gregari delle associazioni mafiose, esattori del pizzo e persino narcotrafficanti. Nei giorni scorsi la polemica era già scoppiata per la concessione dei domiciliari a quattro mafiosi detenuti 41 bis: il camorrista Pasquale Zagaria, fratello di Michele Zagaria al vertice del potente e spietato “clan dei Casalesi”, i mafiosi siciliani Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza, e lo ‘ndranghetista calabrese Vincenzo Iannazzo. Il monitoraggio del DAP ha portato alla luce un numero che non ha precedenti che comprende anche l’ergastolano Antonino Sudato detenuto nel reparto più rigido della cosiddetta “Alta sorveglianza 1″. Nessuna detenzione domiciliare concessa invece per l’ “Alta sorveglianza 2” dove sono ristretti i terroristi. Tutti gli altri scarcerati erano nell’ “Alta sorveglianza 3“, il settore che ospita 9.000 detenuti, le truppe al servizio di mafie ed organizzazioni specializzate nel traffico della droga. Duecento circa dei 376 scarcerati erano comunque ancora in attesa di giudizio, e sui quali il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza. Il ministro Bonafede questa mattina si è recato presso il carcere di Rebibbia a Roma, insieme al ministro degli Affari regionali Francesco Boccia ed il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, fermandosi nell’ariosissimo ingresso, evitando di andare a vedere le celle. Nessuno rivela dice che era anche prevista una conferenza stampa  nella sala teatro della Casa circondariale romana, ma c’è stata la protesta dei detenuti… che hanno indotto a sospendere l’incontro con i giornalisti e le telecamere, proseguendo il tutto fuori sulla Tiburtina. Bonafede parlando con stampa ha definito “un grande successo” le decisioni prese in materia delle carceri durante l’emergenza coronavirus. “Adesso uno sforzo in più: abbiamo deciso, con una sinergia importantissima tra il ministero della Giustizia, la Protezione Civile, il ministro Boccia e quello della Salute Speranza”. Il ministro ha presentato a Rebibbia i 62 operatori socio-sanitari che entreranno in servizio a partire da domani presso gli istituti penitenziari per adulti e le strutture minorili del Lazio. Fanno parte della task force dei mille operatori selezionati con il bando emanato dalla Protezione civile di concerto con i ministeri della Giustizia, della Salute e degli Affari regionali e che opererà nelle carceri italiane fino al 31 luglio 2020 in ausilio al personale sanitario. Il vero dramma per la giustizia italiana è che lo chiamano anche “Guardasigilli”…..

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Ogni giorno, per le forze dell' ordine, è un lavoro complicato controllarli tutti nelle loro abitazioni. Più volte, anche di notte. Sono 376 fra mafiosi e trafficanti di droga. A Palermo, 61. A Napoli, 67. A Roma, 44. A Catanzaro, 41. A Milano, 38. A Torino, 16. Tutti mandati ai domiciliari per motivi di salute e rischio Covid, nell' ultimo mese e mezzo. Una lista riservata che il Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria ha inviato solo mercoledì scorso alla commissione parlamentare antimafia, che l' aveva sollecitata più volte al capo del Dap Francesco Basentini, che alla fine si è dimesso, travolto dalle polemiche per le scarcerazioni. Una lista che preoccupa anche i magistrati delle procure distrettuali antimafia, dalla Sicilia alla Lombardia, che continuano ad opporsi al ritorno dei boss nelle loro abitazioni, sollecitando piuttosto il trasferimento in centri medici penitenziari, che peraltro sono strutture di eccellenza della nostra sanità. «Il diritto alla salute è sacrosanto - hanno ribadito nei giorni scorsi i pm di Palermo in un' udienza in cui si discuteva dell' ennesima richiesta di scarcerazione - ma i domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità». Perché resta forte il rischio che i mafiosi continuino a comunicare con il clan. Soprattutto quando così tanti, all' improvviso, si ritrovano nei propri territori. Ecco perché i controlli delle forze dell' ordine continuano senza sosta, come disposto dal ministro dell' Interno Luciana Lamorgese.

L' elenco Le cinque pagine della lista riservata del Dap svelano che adesso si trova ai domiciliari uno dei boss più pericolosi di Palermo: Antonino Sacco, l' erede dei fratelli Graviano, gli uomini delle stragi del 1992-1993, per i magistrati faceva parte del triumvirato che ha retto di recente il potente mandamento di Brancaccio. Ai domiciliari è tornato anche Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli che fino a gennaio dettava legge sui Nebrodi: dopo aver finito di scontare un' altra condanna aveva messo in piedi una rete di insospettabili professionisti per una maxi truffa all' Unione Europea, così ha razziato finanziamenti per milioni di euro.

Ai domiciliari, per motivi di salute, è tornato anche Francesco Ventrici, uno dei principali broker del traffico internazionale di cocaina, che trattava direttamente con i narcos colombiani. Come un altro manager a servizio della 'Ndrangheta, Fabio Costantino, della famiglia Mancuso di Limbadi. L' elenco del Dap è ordinato per carcere e per giorno in cui è stato emesso il provvedimento del giudice. Dall' inizio di marzo a qualche giorno fa. Alcuni detenuti stanno scontando una condanna definitiva, dunque la decisione è stata dei tribunali di sorveglianza.

Altri sono ancora in attesa di giudizio, su questi il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza, tutte le valutazioni spettano a gip, tribunali e corti di d' appello. Ma sono i numeri a fare impressione. Anche se dal 41 bis sono usciti solo in tre: il camorrista Pasquale Zagaria, il palermitano Francesco Bonura e lo 'ndranghetista Vincenzo Iannazzo.

Tutti gli altri erano però inseriti nei reparti della cosiddetta "Alta sicurezza 3", il circuito che ospita l' esercito di mafie e gang della droga, 9.000 detenuti in totale. Fra loro, i "colonnelli" che secondo le procure e le forze dell' ordine hanno in mano gli affari e i segreti dei clan.

La circolare La lista arrivata alla commissione parlamentare antimafia svela anche un altro numero destinato ad alimentare le polemiche di questi giorni: per 63 detenuti dell' Alta sicurezza sono stati i direttori degli istituti penitenziari a sollecitare la magistratura ad adottare provvedimenti, così come disponeva la circolare del Dap del 21 marzo, quella che voleva preservare i detenuti con alcune patologie dal rischio Covid. E in assenza di un piano di trasferimenti predisposto dal Dap nei centri medici penitenziari i giudici non hanno potuto far altro che disporre i domiciliari per tutti. E, ora, resta quell' elenco dei 376.

Dietro ogni nome, le storie di uomini e donne con problemi di salute e il loro diritto a essere curati. Ma anche le storie di uomini e donne che hanno segnato le pagine più drammatiche delle nostre città. Storie che spesso si intrecciano con quelle di chi ha trovato il coraggio di ribellarsi alle mafie.

Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, anche lui adesso ai domiciliari, fu denunciato da un ambulante del rione Forcella, stanco di pagare il pizzo. Anche Emilio Pisano, il cognato del boss di Arena ora tornato in Calabria, venne denunciato da un cittadino coraggioso: un imprenditore che non voleva pagare la tassa mafiosa del 5 per cento sull' appalto che si era aggiudicato. A Reggio Emilia, un commerciante aveva invece denunciato gli esattori del clan Grande Aracri, fra loro c' era Marcello Muto, un altro nome segnalato dal Dap.

Nella lista adesso al vaglio dell' Antimafia ci sono soprattutto i nomi di chi continua a conservare tanti segreti. Giosuè Fioretto era uno dei cassieri dei Casalesi. Rosalia Di Trapani non era solo la moglie del boss della Cupola Salvatore Lo Piccolo, era la sua consigliera. Nicola Capriati era un manager della droga inviato in missione dalla Sacra Corona Unita a Verona. Vito D' Angelo è uno degli anziani della nuova Cosa nostra dell' imprendibile Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Eccola, la preoccupazione più grande di magistrati e investigatori. Ognuno di questi uomini tornati a casa conserva un pezzo di segreto. Più o meno grande. Su patrimoni mai trovati, su relazioni mai scoperte. I segreti che potrebbero diventare il terreno della riorganizzazione delle mafie.

Alessia Candito, Dario Del Porto, Salvo Palazzolo per ''la Repubblica'' il 9 maggio 2020. La lista dei 376 mandati ai domiciliari per motivi di salute connessi al rischio Covid non è solo un pezzo di storia delle mafie. È, soprattutto, la cronaca attualissima di boss manager, uomini e donne, che con i loro affari si sono infiltrati nel tessuto economico del nostro Paese, da Sud a Nord. Si tratta, in parte, di detenuti arrestati nei mesi scorsi, e dunque ancora in attesa di giudizio. I loro nomi richiamano recenti operazioni di procure e forze dell' ordine. Altri sono stati invece già condannati, negli ultimi anni. Repubblica è tornata a riesaminare la lista degli scarcerati finiti agli arresti domiciliari perché quei nomi indicano storie di clan-aziende spesso in piena attività. E, magari, affari non del tutto bloccati. Mentre altri complici potrebbero essere ancora sul territorio, lo stesso dove i detenuti ai domiciliari sono stati trasferiti. C' è di più: molti dei proventi realizzati da questi boss potrebbero non essere stati sequestrati. È la ragione per cui i mafiosi usciti dal carcere rappresentano un potenziale pericolo. La lista dei 376 posti ai domiciliari è ora all' attenzione delle procure distrettuali antimafia, che tengono sotto controllo le dinamiche delle cosche. Sono soprattutto i boss manager tornati nelle loro abitazioni a preoccupare chi indaga. I boss manager che conservano la chiave di relazioni, affari e patrimoni, il vero capitale delle mafie.

Gino Bontempo. Il ras dei fondi Ue nella zona di Messina. Gino Bontempo, il ras della mafia dei pascoli in provincia di Messina, aveva messo in campo una schiera di insospettabili professionisti per razziare i contributi europei destinati ai Nebrodi. E, tutti insieme, avevano trovato un sistema quasi perfetto per evitare i controlli. Bastava non indicare l' Iban delle loro società, così le pratiche venivano temporaneamente accantonate. Per prassi, in questi casi, le liquidazioni avvenivano soltanto in un secondo momento. E, a quel punto, i controlli non venivano più fatti. È un grande baco quello scoperto di recente dalla procura di Messina con le indagini di Finanza e carabinieri. Fra il 2010 e il 2017, l' Ue ha versato 5 milioni a 151 aziende agricole della provincia in mano ai boss dei Nebrodi.

Santa Mallardo. La vedova di camorra al centro degli affari. La sua posizione processuale è apparentemente secondaria, una lieve condanna per intestazione di beni con l' aggravante mafiosa. Ma è la tragica storia familiare di Santa Mallardo a renderla quasi suo malgrado un personaggio di rilievo: vedova di camorra, perché il marito fu ucciso 30 anni fa in una delle faide più cruente della periferia settentrionale di Napoli, sorella di Feliciano Mallardo, esponente della cosca egemone a Giugliano e madre di Giuseppe e Carlo Antonio D' Alterio, accusati di aver tessuto trame imprenditoriali di spessore, con interessi tanto nel mondo dell' edilizia quanto in quello della distribuzione del caffé. Affari nei quali è rimasta imbrigliata anche Santa fino al ritorno a casa nei giorni del Covid.

Pio Candeloro. Il re di Desio dall'aria anonima. A Desio lo chiamavano Tonino o Tony, non di certo Pio come nella Melito Porto Salvo da cui decenni fa era partito. E prima dell' inchiesta Infinito Crimine, nessuno lì mai avrebbe pensato che dietro quell' aspetto anonimo si celasse il capo di uno dei più attivi locali dell' hinterland milanese, pronto a convincere gli imprenditori a pagare o cedere appalti e subappalti a forza di teste d' agnello lasciate in auto e bombe carta «che mezza casa gli vola». Però Pio Candeloro con i politici ci sa fare, trova anche la strada per discutere a tu per tu con l' amministrazione comunale e la macchina burocratica che governa lavori e appalti e non solo nella sua Desio. Rimedia una condanna pesante, le accuse contro di lui reggono a tutti i gradi di giudizio e i magistrati ne sono convinti. È lui il capo di Desio.

Carmela Gionta. La donna del clan denunciato da Siani. Palazzo Fienga, la roccaforte del clan che Giancarlo Siani denunciava nei suoi articoli, il Fortapasc del film di Marco Risi, oggi fa parte finalmente patrimonio dello Stato. Ma il nome Gionta, a Torre Annunziata, continua a pesare. E Carmela Gionta, sorella del boss Valentino, sul territorio si faceva sentire, come racconta l' inchiesta del procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli, che l' aveva arrestata per usura dopo la denuncia di un imprenditore riguardante prestiti da 10mila e 15mila euro al tasso del 10 per cento. Ma anche in una famiglia storica come quella dei Gionta, le donne litigavano, sembra proprio per la gestione della cassa: Carmela infatti entrò in contrasto con figlia, moglie e suocera del nipote, all' epoca reggente dell' organizzazione e fu accoltellata al viso.

Antonio Romeo. Il Gordo della rotta San Luca-Medellin. Antonio Romeo è nato e cresciuto a San Luca, poche migliaia di anime fra cui i nomi si tramandano per tradizione e strategia. Ma rispetto alle decine di omonimi parenti lontani e vicini, "el Gordo" era speciale. Dalla Locride ha fatto strada, è diventato uno degli emissari abilitato a trattare con i narcos dei cartelli di Medellin, gestire prezzi e spedizioni, assicurare garanzie. Uno affidabile, riconosciuto. Forse per questo, lui è uno di quelli che il parroco di San Luca, don Pino Strangio, e il suo braccio destro, chiedono di "salvare" dalla galera in cambio di precise informazioni su Giovanni Strangio, il killer della strage di Duisburg all' epoca latitante. Offerte rispedite al mittente, "el Gordo" si è dovuto rassegnare alla cella. Fino a qualche settimana fa.

Domenico Pepè. L'uomo del pizzo del clan Piromalli. Domenico Pepè, fidato del clan ndranghetista dei Piromalli, si poneva con modi gentili nei confronti degli imprenditori del porto di Gioia Tauro a cui imponeva le estorsioni per l' ingresso dei container.

«Potete sempre fare delle false fatturazioni per pagare». L' uomo dell' Ndrangheta dispensava consigli, come se la tassa mafiosa - «un dollaro a container» - fosse una cosa normalissima. Pepè, arrestato nel 2017 dopo un periodo di latitanza, provava a guardare avanti e a dare consigli anche al vertice della storica cosca dei Piromalli. Aveva così aperto la strada per una maxi truffa su alcuni fondi statali. Perché il traffico di droga porta tanti soldi, ma anche la macchina dei contributi pubblici può far realizzare grandi profitti alle cosche.

Francesco Ventrici. L'erede del narco che ama investire. Non è nato 'ndranghetista, ma quella vita, di soldi e di lussi grazie alle grandi importazioni di coca, a Francesco Ventrici piaceva. La scopre grazie a Vincenzo Barbieri, ufficialmente imprenditore del mobile di San Calogero, in realtà grande narco al servizio dei Mancuso. I due sono tanto diversi quanto inseparabili. Elegante e distinto Barbieri, un ragazzone obeso Ventrici, che gli diventa amico, socio, alla fine persino parente, per averne sposato una cugina. Ma soprattutto erede, dopo l' agguato in cui Barbieri è stato ucciso. E sulla scia del suo mentore, il giovane narco importa fiumi di bianca da Ecuador e Colombia e poi investe. Soprattutto nel bolognese, ma senza dimenticare la Calabria.

Diego Guzzino. Da autista a capo col tesoro nascosto. Diego Guzzino era negli anni Ottanta solo l' autista del capomandamento di Caccamo, Francesco Intile, autorevole componente della Cupola. «A un certo punto cominciò a fare affari con la droga a Palermo - ha raccontato il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè faceva palate di soldi, ma non mandava niente alla famiglia». Per questo, Giuffrè, il successore di Intile, aveva chiesto l' autorizzazione a Bernardo Provenzano per uccidere Guzzino. E il padrino di Corleone aveva autorizzato. Ma poi Giuffrè venne arrestato, nel 2002. E Guzzino ha continuato la sua scalata nel clan, con affari fra Palermo e la provincia. Ma il tesoro accumulato in tanti anni di attività non è stato ancora sequestrato.

Giosuè Fioretto. Il custode dei segreti dei Casalesi. Giosuè Fioretto conosce tanti segreti del clan dei Casalesi: era uno dei cassieri addetti al finanziamento delle operazioni più riservate. E, naturalmente, curava anche l' approvvigionamento della cassa, attraverso forme nuove di estorsione. È forse quel tesoretto accumulato in tanti anni di attività criminale ad averlo convinto a non aprire mai bocca davanti ai magistrati della direzione distrettuale antimafia di Napoli. Fioretto non ha voluto seguire neanche la scelta di due esponenti di spicco del clan, Francesco Schiavone e Bernardo Cirillo, che quattro anni fa avevano annunciato di volersi dissociare dal clan. Tornato ai domiciliari continua a custodire il segreto del patrimonio di famiglia.

Francesco Grignetti per “la Stampa” l'8 maggio 2020. l'8 maggio 2020. Una lunga litania di nomi da brivido, quella dei 376 detenuti pericolosi scarcerati, preparata dall' amministrazione penitenziaria e inviata alla commissione parlamentare Antimafia. Ma ce n' è un' altra in preparazione, con quelli scarcerati tra il 25 aprile e oggi: potrebbero essere altri due o trecento boss inviati a casa (e tra questi c' è Franco Cataldo, il custode del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi sciolto nell' acido). E poi c' è un' altra lista ancora, di quelli che hanno presentato istanza e aspettano risposta dalla magistratura di Sorveglianza: ne hanno contati 456, ma potrebbero essere molti di più. Il più conosciuto di tutti è il fratello di Totò Riina, Gaetano, 87 anni, in carcere a Torino: respinta la sua domanda in prima istanza, ora spera nel ricorso al Tribunale di Sorveglianza. Tra quelli già a casa, i più noti sono il camorrista Pasquale Zagaria, il mafioso Francesco Bonura e lo 'ndranghetista Vincenzo Iannazzo. Gli unici tre che erano al 41 bis. Per promemoria: Zagaria era la mente dei casalesi, Bonura il luogotonente di Bernardo Provenzano, Iannazzo il capo della cosca di Lamezia Terme, protagonista di una faida che ha causato decine di morti, l' implacabile boss che ha preteso tangenti all' infinito sulla modernizzazione dell' autostrada. Ora sono a casa perché si temeva per la loro salute. Poliziotti e carabinieri, che hanno rischiato la vita per arrestare ciascuno di loro, sono senza parole. L' elenco è lungo. Antonino Sacco, considerato erede dei fratelli Graviano, mandamento di Brancaccio. Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli nei Neobrodi. Francesco Ventrici, broker della cocaina. Fabio Costantino, della 'ndrina Mancuso di Limbadi. Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, terrore del rione Forcella. Giosuè Fioretto, un cassiere dei Casalesi. Rosalia Di Trapani, moglie del boss Salvatore Lo Piccolo e sua ascoltata consigliera. Sbalordisce che 63 di questi scarcerati nemmeno avesse fatto domanda: ci hanno pensato i direttori dei penitenziari, sulla base della circolare del Dap, a sollecitarne la scarcerazione. Erano tutti nel circuito Alta Sicurezza 3, dove finiscono quelli che hanno terminato il periodo di 41bis. Si vede che non vedevano l' ora di mandarli a casa. La circolare del Dap risale al 21 marzo. Da quel momento è stata una corsa a presentare domanda di scarcerazione. Uno dei principali boss del clan Traiano a Napoli, Salvatore Perrella, è tornato a casa accolto dai fuochi artificiali. È uscito anche Placido Toscano, in carcere dal 2014 per associazione mafiosa ed estorsione, di Biancavilla (Catania). E Francesco Manno, di Marina di Gioiosa ionica (Reggio Calabria), ergastolano condannato per omicidio, danneggiamento e illegale detenzione di armi. Tutti personaggi pericolosi. Saverio Capoluongo, boss dei Casalesi che aveva coordinato l' infiltrazione in Veneto. Lorenzo Cono, condannato per aver gestito piazze di spaccio a Torre Annunziata e comuni limitrofi e altresì fuori provincia, oltre a smerciare droga anche negli istituti penitenziari di Lanciano e Salerno: ben 700 le contestazioni di spaccio di stupefacente. Il 10 aprile è tornato a casa persino Rocco Santo Filippone, del clan Piromalli, imputato in Corte d' Assise nel processo «'Ndrangheta stragista» con il palermitano, ex capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano.

Da leggo.it il 7 maggio 2020. Cataldo Franco ha ottenuto il trasferimento agli arresti domiciliari per il rischio di contrarre il Covid-19. L'uomo, stava scontando una condanna all'ergastolo. Per circa due mesi fu il carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, che venne rapito il 23 novembre 1993 - quando non aveva ancora compiuto 13 anni - per intimidire il padre del bambino che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Fu tenuto sotto sequestro per 779 giorni, ucciso e sciolto nell'acido per indurre il padre a ritrattare per volontà di Giovanni Brusca. Cataldo Franco, anziano (ha 85 anni) e malato, è tornato nella sua casa di Geraci Siculo, a Palermo, trasferito ai domiciliari per il pericolo di poter contrarre il coronavirus. È uscito dal carcere di Opera lo scorso 28 aprile. C'è anche il suo nome nell'elenco dei 370 detenuti finiti agli arresti domiciliari per "motivi di salute". Tenne segregato il piccolo Giuseppe Di Matteo dalla fine dell’estate all’inizio di ottobre del 1994. Il bambino fu successivamente trasferito per la richiesta di Cataldo Franco di liberare il capannone dove era rinchiuso perché l'inizio della stagione della raccolta delle olive. Fu poi arrestato e condannato all’ergastolo.

'Ndrangheta, ecco tutti i nomi dei boss scarcerati per l'emergenza Covid19. Nell'elenco letto da L'Espresso i pezzi da novanta della mafia calabrese. Narcotrafficanti ai domiciliari e autorizzati per due ore giorni a uscire per «accudire gli animali». Altri finiti in storie di trattative parallele con pezzi dello Stato. Il fratello del capo dei capi dell'organizzazione. Il boss della Lombardia. E quelli implicati nei sequesti di persona degli anni 80-90. Giovanni Tizian il 7 maggio 2020 su L'Espresso. Oltre 40 i detenuti di 'ndrangheta scarcerati. Boss, colonnelli, soldati semplici, complici del sistema. Nomi pesanti, con condanne definitive o in attesa di giudizio. Giovani leve o anziani padrini che hanno attraversato la storia criminale della mafia calabrese. Scorrendo l'elenco riservato del Dipartimento dell'amministrazione pentitenziaria, una cosa è certa: le disposizioni dell'emergenza Covid19 hanno garantito alle cosche di 'ndrangheta di rimpolpare i ranghi con pezzi da novanta della gerarchia mafiosa. Tralasciando le polemiche e i giudizi di valore sulle scarcerazioni, c'è da fare una premessa: tutti, nessuno escluso, hanno diritto alle migliori cure. L'antimafia si pratica con i codici e seguendo la Costituzione. E non brandendo clava. È interessante, però, partire dai nomi. Molti dei quali condannati in via definitiva. Altri invece in attesa di giudizio. Cominciamo allora da questo piccolo esercito fino a poco tempo fa recluso e da qualche settimana a casa dopo che i tribunali di sorveglianza gli hanno concesso i domiciliari sulla base del rischio contagio da coronavirus. Scorrendo l'elenco troviamo la geografia criminale della 'ndrangheta. Dalla Calabria fino alle Alpi, passando per la Capitale. Dalle anguste celle dei reparti Alta Sorveglianza, un gradino sotto al più temuto 41 bis, alla gabbia domestica, nei regni, cioè, dove un boss esprime tutto il proprio potere senza doversi neanche spostare dalla poltrona. I provvedimenti di scarcerazione sono diversi, alcuni prevedono delle cautele disponendo, per esempio, l'uso del braccialetto elettronico, altri, invece, lasciano la massima libertà anche a figure centrali nello scacchiere del sistema criminale. C'è da scommetterci: quanti padrini affiancheranno alla fede per la madonna e san Michele Arangelo la devozione per quel virus chiamato Covid che gli ha concesso di lasciare gli spazi inumani della galera? Solo il tempo darà il responso.

Il narco e gli animali. Il caso di Sebastiano Giorgi, classe '67, è l'emblema di questo caos giurisprudenziale che ha provocato polemiche a non finire: sulla base di cosa vengono scarcerati i boss? Va dato a tutti il braccialetto elettronico? Che tipo di vigilanza va prevista? Insomma, grande confusione e poche linee guida certe. Giorgi è affiliato all'omonima cosca, conosciuta anche con il nomignolo “Suppera”. La sua carriera è scritta nelle sentenze che lo hanno condananto in via definitiva a 21 anni per traffico di droga e di armi, «in ossequio alle disposizioni in materia di contenimento del contagio da Covid19» gli è stato concesso il 23 marzo scorso di trasferirsi nella sua San Luca, il paese dell'Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, ricosciuto dagli affiliati di tutto il mondo come la “mamma” della 'ndrangheta. Dalla massima sicurezza del carcere di Sassari al luogo in cui tutto è cominciato. Il narco-boss della 'ndrangheta è però più fortunato di altri. Chi ha disposto la scarcerazione non ha previsto particolari obblighi, anzi: a L'Espresso risulta, infatti, che oltre a non dover indossare il braccialetto elettronico, potrà( con un permesso giornaliero) assentarsi due ore. Un permesso valido non per prendersi cura di un familiare ammalato o in difficoltà, ma per prendersi cura degli animali alle pendici della montagna. Si spera dotato di mascherina. Sarà l'occasione giusta per scambiare due chiacchiere con l'attuale boss del paese. Perché no?

Dai sequestri agli affari. San Luca si ripopola grazie all'emergenza Covid19. Anche grazie all'arrivo di un padrino della vecchia guardia 'ndranghetista tuttavia ancora molto influente: Francesco Mammoliti classe 1949. Colonnello della famiglia che porta il suo cognome conosciuta anche con l'alias “Fischiante”. Un'autorità a San Luca, i Mammoliti “Fischiante”. Don Ciccio Mammoliti è stato coinvolto in numerose vicende giudiziarie, era un boss della famigerata Anonima sequestri. Il suo nome, infatti, lo ritroviamo nelle inchieste sul sequestro di persone dell'ingegnere Carlo De Feo. Tra le doti di don Ciccio quella di farsi passare per morto: vent'anni fa un'inchiesta iniziata sulle dichiarazione del nipote venne archiviata per «morte del reo». Ma lui stava benissimo, tanto che dopo aver scontato la pena e rimesso ai domiciliari non è sceso dal trono. Poi un'altra inchiesta, il carcere. E ora di nuovo i domiciliari.

Il Gordo e quella trattativa dopo Duisburg. A San Luca è tornato anche Antonio Romeo, detto il “Gordo”. Narco della' ndrangheta di primissimo piano. Contatti internazionali, con emissari dei cartelli colombiani di Medellin, e una condanna definitiva a 17 anni per traffico di droga. Il nome del “Gordo” spunta in una vicenda mai chiarita di una presunta trattativa per l'arresto dell'allora latitante Giovanni Strangio, super ricercato, poi catturato in Olanda, per la strage di Ferragosto 2007 a Duisburg, in Germania. Una trattativa che sarebbe stata condotta da un carabiniere, un avvocato e il parroco don Pino Strangio di San Luca. Il Gordo all'epoca latitante doveva essere una pedina di scambio in uno scacchiere di favori e cortesia per poi arrivare il ricercato del momento, il killer di Duisburg. Vicenda che non ha avuto alcun risvolto penale, ma gli atti sono stati depositati nel più importante processo ai clan di Reggio Calabria in corso in questo momento nella città dello Stretto. Dove nel frattempo è tornato Demetrio Serraino, nato nel '47, fratello di don Ciccio Serraino, tra i padrini più influenti della vecchia 'ndrangheta.

Il fratello del capo dei capi. E del gotha della mafia calabrese fanno parte anche i Morabito, guidati da Giuseppe Morabito, detto “u Tiradrittu”, rietnuto uno dei capi supremi della 'ndrangheta. Suo fratello Rocco, detto “u Pilusu”( il peloso), è tornato a casa ad Africo. Il gruppo del Tiradrittu ha ramificazioni all'estero e in Lombardia, dove vanta business illegali ma soprattutto legali: sono stati i primi a infiltrare l'ortomercato di Milano. I “Tiradritti” sono imparentati con il latitante e narcotrafficante Rocco Morabito, evaso dal carcere uruguaiano dopo l'arresto che aveva fermato una fuga che durava da anni. Con Rocco “u Pilusu” è uscito dalla massima sicurezza anche il suo braccio destro: Domenico Antonio Moio. La coppia seppure a distanza si è riformata. Chi ha lasciato il carcere per i domiciliari è anche Pasquale Lombardo: di Brancaleone, in attesa di giudizio, è stato arrestato in un'inchiesta sulle nuove leve della mafia calabrese. É ritenuto un vero capo dagli inquirenti. E negli atti di quell'inchiesta un episodio, tra gli altri, indica quanto conta la sua presenza fisica sul territorio. Con il fratello e i sodali organizzano una vera e propria caccia all'uomo per scovare un rapinatore e fargliela pagare per aver violato il territorio.

Gli uomini dei Piromalli. Pure la piana di Gioia Tauro si ripopola di boss al tempo del covid. È tornato a casa Domenico Longo: 53 anni, condannato per associazione mafiosa, è considerato il reggente della 'ndrina Longo di Polistena. E sempre di queste zone è anche Vincenzo Bagalà, che però è in attesa di giudizio: secondo i pm è soggetto di massima fiducia dei Piromalli, del gotha della 'ndrangheta dunque. Della stessa “famiglia” è anche Domenico Pepè, adesso ai domiciliari grazie alla pandemia.

I boss del Nord. Risalendo la penisola, arrivamo in Lombardia, nella regione che più di tutte ha pagato un prezzo altissimo per la pandemia. Anche qui ci sono state scarcerazioni nell'ambiente alto della 'ndrangheta. Tra questi c'è Pio Candeloro: 56 anni, detenuto a Siena, capo della cosca di Desio e personaggio centrale nelle dinamiche della 'ndrangheta lombarda, quella svelata dalla maxi inchiesta “Crimine – Infinito” del 2010. Altro nome eccellente è Domenico Natale Perre, uno dei sequestratori delll'imprenditrice Alessandra Sgarella. Boss originario di Platì, il paese da cui sono partite le cosche Perre-Barbaro-Papalia per conquistare il mondo: da Buccinasco, in Lombardia, fino in Australia. Non sono i soli. Ci sono altri “lombardi” delle 'ndrine scarcerati: Saverio Catanzariti e Alfonso Rispoli. E c'è pure Leonardo Priolo della cosca di Mariano Comense. Profondo Nord. Come l'Emilia. Dove uno dei capi del gruppo legato alla potente cosca Arena di Isola Capo Rizzuto è uscito dal carcere e si trova ai domiciliari: Paolo Pelaggi. Dall'inchiesta sugli affari di Pelaggi, l'architetto di una truffa carosello milionaria, è nata l'inchiesta Aemilia, tra le più imporanti indagini contro la 'ndrangheta settentrionale. Il gruppo di Pelaggi è stato condananto oltreché per il business delle truffe anche per aver messo una bomba davanti all'agenzia delle entrate di Sassuolo, che si era permessa di interferire sugli affari oscuri del clan. L'elenco dei nomi che compongono l'esercito delle 'ndrine fuoriuscito dai penitenziari è ancora lungo. Sono storie di soldati e gregari, di giovani che gestiscono piazze di spaccio enormi come quella di San Basilio a Roma. Tutti uniti dal silenzio, nessuno che tradisce i capi. Fedeli ai mammasantissima che li hanno arruolati.

Massimo Giletti, la terrificante vignetta sul Fatto Quotidiano di Travaglio: schizzi di cacca e insulti. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Marco Travaglio ordina, i suoi soldatini eseguono. Il bersaglio del momento è Massimo Giletti. La ragione? Presto detto: ha "disturbato" i grillini con la bomba su Alfonso Bonafede, sganciata da Nino Di Matteo a Non è l'arena. E dato che il caso crea non pochi problemi anche a Giuseppe Conte, ecco che contro Giletti partono le bastonate di Travaglio. Come? Presto detto, con una vignetta disgustosa pubblicata in prima pagina sul Fatto Quotidiano e firmata da Mannelli. Nell'immagine si vede un Giletti deforme intento a spargere schizzi di escrementi. A spiegare il disegno, il commento: "Non è Giletti, è Shpalman! Che shpalma la merda in faccia. Aiuto arriva Shpalman che tutti ci shpalmerà". Il riferimento di tal porcheria è a una canzone di Elio e le storie tese. La "merda spalmata in faccia", ovviamente, sarebbe il caso con cui ha messo all'angolo Bonafede. Per Travaglio è vietato criticare i grillini. E chi si permette di farlo viene ricoperto di merda...

Da tvzoom.it il 21 maggio 2020. Scrive ''TVZoom'', nella sua rassegna stampa degli articoli sulla televisione: ''dopo che "Non è l’Arena" ha mandato in tilt il mondo grillino con l’intervista scoop al procuratore Giovanni Di Matteo contro il ministro Alfonso Bonafede, il "Fatto Quotidiano" tira fuori uno spot pro-Forestale del 2005 per sporcare l’immagine del conduttore''. L'articolo del ''Fatto'' è firmato da Enrico Fierro e Lucio Musolino, e racconta una campagna pubblicitaria anti-incendi con il volto di Giletti, finanziata dalla regione Calabria e commissionata a una società di comunicazione guidata da Salvatore Gaetano, oggi editore di ''Video Calabria'' e candidato alle ultime regionali con la Lega: «(…) Incassai 132 mila euro compresi di Iva. Ricordo i manifesti 6×3 con la faccia di Giletti, le foto, lo spot tv e la conferenza stampa con l’Assessore. Giletti lavorò con noi per un paio di giorni, forse tre, e io gli feci una fattura tra i 6 e i 9 mila euro. Conosco tanta gente, e credetemi, nessuno viene a lavorare in Calabria gratis». Giletti si chiede come mai debba rendere conto di un lavoro (fatturato) di 15 anni fa: «Devo dire che non capisco questa telefonata. Evidentemente, qualcuno pensava che potesse essere utile usare la mia immagine per fare una promozione antincendio».

Ma Giletti non era grillino? Ora è nel mirino dei Cinque Stelle. Marco Castoro il 7 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Era il 2017 quando Massimo Giletti – suo malgrado – fu costretto ad alzare i tacchi dalla sua amata Rai e a cambiare azienda. L’Arena – il programma che conduceva – stava andando fortissimo nel primo pomeriggio della domenica. Con una media di 4 milioni di spettatori e oltre il 20% di share. Eppure si chiusero i battenti. Perché – purtroppo per Giletti – quell’Arena di Rai1 era diventata sempre più la sua Arena, nella quale il conduttore si esibiva come un gladiatore, combatteva le sue battaglie che spesso (troppo spesso) non coincidevano con la linea governativa della Rai. L’allora dg Mario Orfeo decise di togliere l’Arena dal palinsesto della nuova stagione e a Giletti offrì di condurre delle prime serate il sabato. Ma il conduttore si sentì ferito nell’orgoglio e non senza rimpianti decise di lasciare la sua vecchia azienda sposando la proposta di La7 che Urbano Cairo stava forgiando. Chiese subito la domenica sera per sfidare faccia a faccia il suo antagonista, Fabio Fazio. Dalle parti del Cavallo di Viale Mazzini si disse nei corridoi delle sacre stanze: «Giletti è diventato grillino. Fa opposizione e porta avanti le sue campagne populiste contro i vitalizi e i privilegi della casta». Ebbene tre anni dopo Giletti – ormai in forza a La7 con Non è l’Arena – è finito nel mirino indovinate con quale accusa? È diventato l’antagonista dei cinque stelle. I suoi attacchi al ministro Bonafede e al governo sulla questione delle scarcerazioni dei boss della mafia e sulla nomina al Dap saltata con le relative accuse del magistrato candidato Nino Di Matteo, hanno surriscaldato gli animi. Sul Fatto Quotidiano ha fatto scalpore la vignetta di forte impatto apparsa in prima pagina nella quale si descrive un Giletti che getta e sparge escrementi. Con la seguente scritta a contorno: «Non è Giletti,  è Shpalman! Che shpalma la merda in faccia. Aiuto arriva Shpalman che tutti ci shpalmerà». L’anchorman sta portando avanti da alcune settimane la sua nuova crociata, questa volta contro le scarcerazioni facili. Domenica scorsa ha fatto nomi e cognomi. Scatenando un putiferio. Con interventi in diretta al telefono prima dell’accusatore Di Matteo e poi del ministro che si è difeso. A tratti ha ricordato i programmi del miglior Michele Santoro, quando i centralini delle redazioni andavano in tilt per le reazioni. Giletti non è nuovo a sfidare i poteri forti. A suo tempo perfino nel calcio ha scatenato una bagarre non indifferente, finendo sulle prime pagine dei giornali. Certo, non nella stessa maniera di come c’è finito sul Fatto Quotidiano.

Le figurine ingombranti dei M5s. Il magistrato antimafia, prima riferimento della legalità, ora è diventato difficile da gestire. Gianluigi Paragone il 6 maggio 2020 su Il Tempo. La vicenda Di Matteo/Bonafede ha diverse chiavi di lettura. La più immediata è quella parlamentare: qui parti storicamente ostili al magistrato si sono affrettate a prenderne le difese con il solo intento di indebolire il governo mettendo alle corde il Guardasigilli. Ci sta, per carità; ma non è per nulla il copione che intendo seguire, non fosse altro perché certe difese sono ridicole. La precisazione mi era doverosa perché anch’io criticherò Bonafede e il Movimento (quindi allineandomi in apparenza al gioco dell’opposizione) ma in quanto ex parlamentare del Movimento, espulso per eccesso di ortodossia con il programma grillino. (Avrei voluto scrivere per eccesso di coerenza ma chi si loda s’imbroda...).  Per decifrare il duello rusticano tra il magistrato antimafia e il ministro andato in onda a Non è l’arena vanno affrontate almeno tre chiavi di lettura: quella interna al movimento, quella esterna e quella di comunicazione. Tratterò inizialmente e brevemente la seconda perché è già stata sviscerata: l’offerta avanzata dal ministro al magistrato tra l’opzione Dap e l’opzione Affari penali; la scelta del secondo di puntare al Dap; il ripensamento del Guardasigilli poche ore dopo l’offerta avanzata al magistrato. A rendere più fitto il mistero del dietrofront di Bonafede su Di Matteo sono le voci che arrivano dalla criminalità, voci di ribellione in caso di nomina di Di Matteo. E qui si arriva alla messa a fuoco interna al Movimento, per commentare la quale mi dilungherò. La caratura... 

Contro Massimo Giletti il vitavizio dei grillini. Francesco Storace il 06 Maggio 2020 su 7colli.it. Anche contro Massimo Giletti, grillini con il vitavizio. Nel senso di vizio a vita. Il vizio di gettare a mare chi non gli serve più. Usano. Fanno come certi potenti, ma tanto la ruota gira per tutti. E anche loro subiranno la stessa sorte. Intanto ci chiediamo se ci sia un giudice a Berlino, o almeno alla procura di Roma. Perché anche le minacce contro Giletti – per ora a mezzo social – sono un reato da perseguire. La vicenda Bonafede raffigura – di nuovo – i pentastellati in modalità odio. Appena ne sputtani le gesta insorgono e minacciano.

Prima Di Matteo, poi Giletti, il vitavizio dei grillini. Ma sono loro stessi a distruggere i loro miti. Lo fanno spesso. In queste ore prima con il magistrato Di Matteo, che ha insinuato dubbi enormi sulla condotta del ministro della giustizia, che resta avvinghiato alla poltrona. Di Matteo sta al Csm, i due sono destinati ad incontrarsi e non sarà un bel vedere per entrambi dopo le accuse mosse e respinte sulle collusioni con i mafiosi nelle carceri. O meglio – e anche peggio per un ministro di quel livello – aver subito pressioni per evitare la nomina di Di Matteo a capo delle carceri italiane. Era una loro bandiera, lo hanno trasformato in banderuola. Idem per Massimo Giletti, osannato fino a quando si occupava di vitalizi. Ogni giorno spuntavano sulla rete i video con le sue trasmissioni contro la casta. Adesso che la casta sono loro, fanno la voce grossa, armano la tastiera, strillano al complotto. Stavolta è vitavizio, perché fanno sempre così. Abbiamo letto valanghe di insulti sui social. Accuse di aver ordito una trappola a Bonafede. “Un agguato” ha detto quel sapientone di Giarrusso, il deputato europeo. Parolacce. Offese. E minacce, appunto.

Fa il giornalista. Anche se l’Ordine non dice una parola. Eppure, Giletti si è limitato a fare il giornalista. Volevano che facesse il tappetino di fronte a sua eccellenza il signor ministro. Semmai avrebbero dovuto chiedersi, i pentastellati, perché una trasmissione del genere dobbiamo vederla su La7 e non alla Rai. Ci sarà un motivo se la chiamano “Non è l’arena…”, dopo avergli impedito di apparire sui canali del servizio pubblico radiotelevisivo. Domenica prossima Giletti tornerà alla carica sul tema dei mafiosi usciti di galera e non si lascia intimorire: “Dico subito a chi mi minaccia che domenica tornerò a parlare di questa storia” . A Myrta Merlino che gli ha chiesto: “Sapevi o no che avrebbe telefonato in diretta?”, Giletti ha risposto come doveva: “Ma come facevo? Neanche il mago Otelma può prevedere che un uomo dello spessore, dell’importanza di Di Matteo possa chiamare in diretta. Piuttosto, avete sentito il tono sofferto? Io a Bonafede riconosco grandi meriti nella lotta alla corruzione, ma la domanda è: chiami un uomo importante come Di Matteo, non un quaquaraqua qualunque e poi improvvisamente gli dici che ti sei sbagliato?! E’ questa la vera domanda. Cosa è successo?”. 

P.s. Giletti si prepari, che gli hater grillini torneranno a tentare di trafiggerlo. Ma l’Ordine dei giornalisti, sempre così sensibile quando tocca a lorcompagni, stavolta non parla. Curioso no? Libertà di informazione a corrente alternata, pare di capire.

Di Matteo dà del mafioso a Bonafede, Travaglio prova a fare da paciere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. E’ finita con un duello rusticano la battaglia del Dap. Si sono sfidati al ferro corto i due campioni del giustizialismo. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, campione di gaffe e fiero della qualifica di ministro più forcaiolo della storia della Repubblica. E Nino Di Matteo, pm molto politicizzato, con una storia di intuizioni giudiziarie assai poco felici e una storia di “dichiaratore” e personaggio mediatico assai più brillante. Di Matteo (che prima o poi, ne sono sicuro, finirà per dare del mafioso a se stesso) l’altra sera ha preso di petto il suo ministro e ha accusato anche lui di essere agli ordini dei boss, o almeno di averne subìto il ricatto, come aveva fatto giorni fa col tribunale di sorveglianza di Milano. L’imputazione esatta, credo, sia – al solito – concorso esterno in associazione mafiosa. Di Matteo lo ha fatto dalla televisione di Giletti, che sul piano della politica istituzionale della Giustizia oggi è la sede più accreditata. Bonafede ha provato a reagire, telefonando disperato e giurando sul suo manettismo, ma non è stato creduto. Ora c’è il fronte giusti-giusti–giustizialista che chiede le sue dimissioni. Forse Travaglio lo difenderà. Speriamo. Cos’è la battaglia del Dap? Il Dap è il dipartimento che si occupa di governare il sistema delle carceri. Recentemente è stato messo sotto accusa perché ritenuto responsabile di aver liberato un paio di persone molto anziane, molto malate, e che avevano quasi del tutto scontato la loro pena. Scarcerati sulla base di un articolo del codice penale scritto da Alfredo Rocco, giurista amato da Mussolini, nel 1930. Il Dap non è in realtà per niente responsabile delle scarcerazioni, ma il fronte del “buttate la chiave” (che ormai forse sta sfuggendo di mano anche al partito dei Pm) non ammette repliche. Fuori fuori fuori. La cosa che più preoccupa, forse , è proprio questa. Il partito dei Pm sta sfuggendo di mano anche al partito dei Pm. Le sue frange reazionarie più estremiste stanno stravincendo. Forse persino Travaglio ora ha paura…

Buona fede di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 Maggio 2020: Tutto potevamo immaginare, nella vita, fuorché di vedere il centrodestra (e dunque anche l’Innominabile e la sua Italia Morta) schierato come falange macedone in difesa di Nino Di Matteo, il magistrato più vilipeso e osteggiato (soprattutto dal centrodestra, ma non solo) degli ultimi vent'anni. Del resto, questa vicenda che lo contrappone al ministro Alfonso Bonafede è tutta un paradosso. Il Guardasigilli viene accusato di cedimenti alla mafia e alle scarcerazioni dagli stessi che gli davano del “giustizialista”, “manettaro” e per giunta colluso col “grillino” Di Matteo. Tant’è che l’altra sera, a “Non è l’Arena: è Salvini”, s’inchinavano deferenti a Di Matteo il capitano “Ultimo” (il neoassessore dell’immacolata giunta Santelli in Calabria, che Di Matteo fece a pezzi in varie requisitorie per la mancata perquisizione al covo di Riina) e l’ex ministro Claudio Martelli, che lo definì “uno stupido, forse anche in malafede” che “naviga nel caos” e “non escludo che si inventi delle balorde” nel processo 'Trattativa' che “finirà in un nonnulla” (infatti, tutti condannati). Una lezione di legalità resa ancor più credibile da maestri del calibro di Flavio Briatore (imputato per evasione fiscale) e dello stesso Martelli (pregiudicato per la maxitangente Enimont). Gli imputati, ovviamente assenti, erano due pericolosi incensurati: Bonafede e il suo capo uscente del DAP Francesco Basentini, che la vulgata salviniana e dunque gilettiana vuole colpevoli delle decine di scarcerazioni di detenuti (opera di altrettanti giudici di sorveglianza iper “garantisti”), quando tutti sanno che il DAP è corresponsabile solo in quella del fratello del boss Zagaria, scarcerato da un giudice di Sassari con la scusa del Covid e spedito a casa sua a Brescia (epicentro Covid). Nel bel mezzo di quel fritto-misto di urla belluine miste a notizie vere, verosimili e farlocche, fatto apposta per non far capire nulla, ha chiamato Di Matteo per raccontare la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018. I lettori del Fatto sapevano già tutto. Il 27 giugno 2018 Antonella Mascali la raccontò insieme alle esternazioni di alcuni boss al 41-bis contro l’ipotesi di Di Matteo al Dap. Poi Marco Lillo criticò Bonafede per la “figuraccia” fatta con Di Matteo. L’altra sera l’ex pm ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministro sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Giletti l’ha dato per scontato. Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. E non ne conosciamo i particolari. Ma già due anni fa ci facemmo l’idea di un colossale equivoco fra due persone in buona fede. Ecco la cronologia. Quando nasce il governo Salvimaio, voci di stampa parlano di Di Matteo al DAP o in un altro ruolo apicale del ministero della Giustizia. E fanno impazzire i boss (che evidentemente preferivano le precedenti gestioni). Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l’arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l’equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il DAP. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l’impressione del ministro): ruolo che il Guardasigilli s’impegna a liberare riorganizzando il ministero e ritiene più consono alla storia di Di Matteo, oltreché alla sua esigenza di averlo accanto per le leggi anti-mafia/corruzione che ha in mente (all'epoca il problema scarcerazioni non era all'ordine del giorno). Il PM invece ritiene l’incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il DAP a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il DAP e di non essere disponibile per l’altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il DAP l’ha già affidato al suo collega. Invano. Il 27 giugno il Fatto pubblica le frasi dei boss: a quel punto, come osserva Lillo sul Fatto, Bonafede potrebbe accantonare Basentini e richiamare Di Matteo per dare un segnale ai mafiosi; ma, per non mancare alla parola data, non lo fa. In ogni caso l’ipotesi che la contrarietà dei mafiosi l’abbia influenzato è smentita dalla successione dei fatti, oltreché dalla logica: chi vuol compiacere i boss non offre a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Martelli agli Affari penali, non al DAP. Ma Di Matteo si convince, memore dei mille ostacoli incontrati nella sua carriera, che “qualcuno” sia intervenuto sul ministro per bloccarlo. Intanto Bonafede continua a sperare di portarlo con sé. Ma ormai il rapporto personale è compromesso, anche se poi Di Matteo non manca di sostenere le riforme di Bonafede (voto di scambio, spazza-corrotti, blocca-prescrizione ecc.) e la recente nomina a vicecapo del DAP del suo “allievo” Roberto Tartaglia, giovane PM del processo 'Trattativa'. Un’altra mossa che a tutto può far pensare, fuorché a un gentile omaggio a Cosa Nostra.

Malafede di Marco Travaglio  sul Fatto Quotidiano del 6 Maggio 2020. Le persone perbene, che a certi livelli si contano sulle dita di un monco, sono naturalmente portate al battibecco: l’antimafia, anche la migliore, è piena di casi del genere (Sciascia-Borsellino, Orlando-Falcone…). Invece i manigoldi, che a certi livelli si contano sulle dita della Dea Kalì, sono molto più flessibili grazie ai loro stomaci moquettati. Quindi oggi in Parlamento assisteremo alla scena più comica della storia dopo la mozione “Ruby nipote di Mubarak”: Bonafede trascinato a render conto di presunti cedimenti alla mafia indovinate da chi? Da Forza Italia, partito ideato da un mafioso e fondato da un finanziatore di Cosa Nostra, che sventola senza pudore la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Dell’Utri per la trattativa Stato-mafia durante i governi Amato, Ciampi e B. e che, se dipendesse da FI, sarebbe stato spazzato via dalla magistratura prima che ci pensasse la mafia. La fiera del tartufo, e della malafede. Dopo i trii comici Troisi-Arena-De Caro, Aldo-Giovanni-Giacomo e Lopez-Marchesini-Solenghi, ora abbiamo FI-Lega-Iv. Salvini – appena eletto dalla Bbc cazzaro dell’anno insieme a Trump e Bolsonaro, con gran scorno dell’Innominabile – parla di “sospetti preoccupanti avanzati da un pm antimafia. Pensate se fosse accaduto a un ministro della Lega o a Berlusconi: sarebbe stata la rivoluzione della sinistra”. Veramente Di Matteo non ha mai detto che Bonafede abbia ceduto a pressioni mafiose. Quanto a cosa sarebbe accaduto alla Lega o a B., non c’è bisogno di immaginare: durante i loro governi si tennero trattative fra Stato e mafia sul 41-bis, sul decreto Biondi, sulla dissociazione ecc, un ministro mai cacciato disse che “bisogna convivere con la mafia”, si approvarono leggi svuotacarceri à go go e si propose di abrogare il 41-bis, il 416-bis, l’ergastolo e i pentiti, come da papello di Riina. Quanto alla “nuova” Lega, che da Nord a Sud ha imbarcato il peggio del forzismo, chi fu ad arruolare e sponsorizzare Paolo Arata (socio occulto del fiancheggiatore di Messina Denaro e compare del pregiudicato Siri)? Naturalmente Salvini. Ultimo del trio in ordine di voti è l’Innominabile che riesce a definire, restando serio, la polemica Di Matteo-Bonafede “il più grande scandalo della giustizia degli ultimi anni”. Modesto, il ragazzo: e dove lo mette lo scandalo del Csm, coi suoi amichetti Ferri e Lotti impegnati in notturni conversari a pilotare le nomine dei procuratori? Cosimino Ferri, anziché darle lui, ha chiesto le dimissioni di Bonafede. Una zampata da capocomico che stermina in un sol colpo il trio FI-Cazzaro-Innominabile e fa di lui il nuovo Principe della Risata.

Buttadentro&fuori di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 8 Maggio: Analizzando i danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, ci è tornato alla mente il tormentone di Eduardo De Filippo in A che servono questi quattrini?: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. In effetti il battibecco fra ex pm e ministro potrebbe sortire almeno due effetti positivi. Il primo è l’improvviso coup de foudre per Di Matteo del centrodestra più Innominabile più house organ e giornaloni al seguito, che li costringe a parlare ogni giorno della sua inchiesta più importante, quella sulla trattativa Stato-mafia, approdata – com’è noto – due anni fa alle condanne in primo grado di tutti gli imputati per violenza o minaccia ai governi Amato, Ciampi e Berlusconi. Non se n’era mai parlato così tanto, nei due anni d’inchiesta e nei quattro e più di dibattimento (regolarmente ignorato o svillaneggiato), né all’indomani della sentenza. Dunque siamo certi che ora chi dà ragione a Di Matteo sul sospetto, tutto da dimostrare, di pressioni sul ministro Bonafede per la mancata nomina a capo-Dap, non mancherà di far conoscere ai suoi (e)lettori le pressioni mafio-istituzionali ampiamente dimostrate in quel processo. Già immaginiamo le puntate speciali di “Non è L’Arena: è Salvini” con letture intensive della requisitoria Di Matteo e della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, nonché le edizioni straordinarie di Repubblica, Corriere, Stampa, Giornale, Verità e Libero con tutte le carte del processo del secolo (chi fosse interessato può copiare i paginoni del Fatto di due anni fa). Il secondo effetto benefico è che ora chi difendeva quei governi e quei ministri per aver trattato con la mafia “a fin di bene”, alleggerito il 41-bis e varato altre norme pro-mafia in ossequio al papello di Riina per “ragion di Stato”, farà senz’altro autocritica. Per un motivo di coerenza, cioè per rendere credibili le accuse sulle recenti scarcerazioni di mafiosi al ministro Bonafede, che peraltro non ha mai scarcerato nessuno e sulla mafia ha fatto (e ancora sta facendo) sempre e solo leggi anti, mai pro. Purtroppo la coerenza stenta ancora a farsi strada, dunque assistiamo a un gustoso paradosso: chi giustificava o minimizzava o ignorava la documentata trattativa Stato-mafia del 1992-’94 ora cavalca la falsa trattativa Bonafede-mafia del 2020. E attribuisce al ministro le ultime scarcerazioni, che invece sono farina integrale del sacco di circa 200 giudici. A parte il centrodestra, pieno di mafiosi e filomafiosi, che presenta mozioni di sfiducia contro Bonafede in nome dell’antimafia (quella di Dell’Utri, B.&C.), segnaliamo il neodirettore di Repubblica Maurizio “Sambuca” Molinari. Ieri, con l’empito tipico del neofita, ipotizzava “una trattativa” (termine da lui mai usato prima, Usa e Israele a parte) “fra i boss e lo Stato” in corso oggi e domandava, restando serio, “se fosse vero che i boss hanno ottenuto di poter uscire per salvaguardare la loro salute, fino che punto il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio sono stati informati e hanno autorizzato? Interrogativi molto seri che hanno a che vedere con la sicurezza dello Stato”. Se chiedesse a qualche suo cronista, Sambuca apprenderebbe con gran sorpresa che le scarcerazioni le decidono i tribunali di sorveglianza, a meno che il governo non le abbia disposte per legge o per decreto. Ma Bonafede, nel dl Cura Italia, ha escluso i condannati per mafia dalla lista di quelli scarcerabili a fine pena in base alla legge Svuota-carceri Alfano del 2010. Purtroppo un gruppetto di giudici se n’è infischiato e ha messo fuori tutta quella bella gente in base al comico assunto che i detenuti in carcere, inclusi quelli sigillati al 41-bis, rischiano il Covid più di chi sta fuori, mentre la logica e i numeri dicono che è esattamente l’opposto. Ma evidentemente il giureconsulto che consiglia Sambuca è quell’altro genio di Stefano Folli (il quale chiede le dimissioni di Bonafede “per responsabilità oggettiva” nelle “scarcerazioni di massa”, come se Tocqueville non fosse mai nato). Risultato: Repubblica ieri titolava in prima pagina “Boss, Bonafede ci ripensa” (non si sa rispetto a cosa, visto che non aveva mai detto di scarcerare mafiosi, anzi aveva decretato l’opposto). Il che deve aver aumentato fra i lettori l’imbarazzante sensazione di aver comprato per sbaglio il Giornale (“Bonafede si rimangia le scarcerazioni facili”), o La Verità (“La trattativa coi boss l’ha fatta Bonafede?”), o il Messaggero (“Frenata Bonafede”). Massima solidarietà al caporedattore Stefano Cappellini, che da mesi si dannava l’anima per spacciare Bonafede per un sadico carceriere per aver fatto le leggi che Repubblica aveva chiesto per vent’anni prima della tragicomica metamorfosi. Quando il Guardasigilli varò la blocca-prescrizione, Cappellini tuonò: “Calpestati i fondamenti di uno Stato di diritto degno di chiamarsi tale”, “giustizialismo”, “barbarie giuridica”, “tribunali dell’Inquisizione”. Ora vai a spiegare ai lettori che quel fottuto manettaro ha messo fuori, con la sola forza del pensiero, quasi 400 boss e forse sta pure trattando con la mafia. Qualcuno potrebbe domandare a Repubblica: ragazzi, l’abbiamo capito che ’sto Bonafede vi sta sul culo, ma siate gentili, diteci una volta per tutte se è un buttadentro o un buttafuori. Così, per sapere.

La nuova Repubblica di Molinari all’inseguimento di Travaglio e del Fatto Quotidiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Repubblica, ieri mattina, è uscita con un titolo a caratteri di scatola che campeggiava in prima pagina: Boss scarcerati, la lista segreta. Nel sottotitolo si spiegava che c’è un elenco di 376 detenuti messi in libertà dalla magistratura all’insaputa di tutti e che ora in Italia è scattato l’allarme rosso per la mafia. In un articolo sul nostro giornale, Stefano Anastasia spiega che i boss che lasciano il 41 bis non sono esattamente 376. Sono tre. E i tre nomi non sono neppure segretissimi. Zagaria, Bonura e un certo Vincenzo Iannazzo, condannato a 14 anni perché considerato esponente della ‘ndrangheta. Di Zagaria e Bonura si è già parlato molto nei giorni scorsi. Su tutte le prime pagine e in tutti i talk show. E la notizia della scarcerazione di Iannazzo è nota da un po’ più di un mese. Diciamo pure che lo scoop, in quanto scoop, non c’è. C’è però, evidentissima, la volontà di creare allarme e di favorire la sensazione, nell’opinione pubblica, che la mafia stia tornando a essere una grande emergenza nazionale e che occorrano provvedimenti rigorosi e una stretta a base di manette e più anni di carcere. È una offensiva in grande stile, condotta in particolare dai partiti più inclini al populismo, e cioè quelli della destra di Salvini e Meloni e, naturalmente, i 5 Stelle. Probabilmente però questa offensiva non avrebbe dato i risultati eccezionali che sta dando, in termini di indignazione pubblica, se non avesse ricevuto il sostegno appassionato del sistema informativo. Giornali e Tv, soprattutto. Guidati e governati e frustati come cavalli dal Fatto di Travaglio, ma ormai in grado di muoversi anche indipendentemente. Un po’ stupisce che questa uscita ultra-giustizialista sia il primo atto significativo della nuova direzione di Maurizio Molinari. Non lo conosco bene, personalmente, ma lo ho sempre letto e apprezzato. Molinari è un giornalista molto serio, colto, intelligente. È stato un eccellente corrispondente da New York e poi un ottimo direttore della Stampa. Non riesco a capire come abbia potuto permettere la scivolata di oggi del suo giornale. Una scivolata in pieno stile Fatto Quotidiano. Peraltro il titolo contiene una notizia assolutamente falsa. Nel gergo giornalistico, e nella vulgata dell’opinione pubblica, “boss” vuol dire capomafia. Come immagino voi sappiate, i capi della mafia, in Italia, da diversi anni vengono imprigionati in regime di 41 bis, cioè son messi al carcere duro. Non solo i più spietati, anche quelli che magari sono stati condannati solo per reati minori, ma con l’aggravante mafiosa (come è il caso dei tre scarcerati). Che poi questa sia una pratica compatibile con la Costituzione e con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo è un’altra discussione (comunque non è compatibile..) Ora, dire che c’è una lista di 376 boss quando in realtà la lista è di solo 3 presunti boss, è chiaro che equivale a fornire al lettore una notizia falsa. Ed è falsa anche la notizia che questa lista sia segreta, perché i nomi dei tre boss in questione erano noti a tutta l’opinione pubblica. Diciamo pure che su cinque parole di quel titolo, l’unica vera vera è la parola lista. Troppo poco, no? Come può succedere che uno dei due colossi dell’editoria italiana, pilastro dell’intellettualità borghese illuminata, scelga di inseguire il Fatto Quotidiano – cioè un giornale ostentatamente qualunquista – sia nella linea politica sia nello stile giornalistico? Secondo me questa è una domanda seria. Perché riguarda non solo il mondo dell’informazione ma l’intero svolgersi dello spirito pubblico in questo Paese. Le classi dirigenti danno ormai per scontata una egemonia fondamentalista e giustizialista. E si sottomettono. Qualunque idea liberale è scacciata dal panorama intellettuale e informativo. È considerata indecorosa, inapplicabile, inavvicinabile, scandalosa. Il ceto giornalistico è quasi interamente costruito nel cantiere post-Tangentopoli. Il giornalismo giudiziario ha preso il sopravvento su tutte le altre categorie del giornalismo, e per giornalismo giudiziario si intende quel tipo di informazione che parte dall’idea che una verità esista e questa verità sia a palazzo di Giustizia, o nelle stazioni dei carabinieri o anche, spesso, nei corridoi dei servizi segreti. Una parte non piccola del giornalismo giudiziario nasce lì: o nelle anticamere dei Pm o direttamente nelle stanze degli 007. E anche i commentatori sono ormai subalterni ai cronisti giudiziari. Tutto questo sta provocando un gigantesco spostamento di opinione pubblica. I partiti c’entrano qualcosa, c’entra la crisi, c’entrano anche le difficoltà delle democrazie in tutto l’Occidente. Ma il sistema dell’informazione, scritta e Tv, qui da noi ha un peso sconvolgente nella grande operazione populista. Un titolo come quello di oggi di Repubblica, che comunque influenza un settore significativo della borghesia perbene e un po’ di sinistra, vale più di cento citofonate di Salvini. C’è un modo per salvarsi? Per reagire? Forse, se si muove qualcosa in politica. Ma occorrerebbero leader coraggiosi, che sappiano guardare al futuro. O, addirittura, statisti. Ne avete visto qualcuno in giro?

Francesco Grignetti per “la Stampa” l'8 maggio 2020. Il «cantiere» per il nuovo decreto sulle scarcerazioni, evocato dal ministro Alfonso Bonafede in Parlamento due giorni fa, non ha ancora terminato i lavori. Mentre il centrodestra accelera i tempi per tentare la spallata, con mozione di sfiducia al Senato, firmata da Lega Fd' I e Forza Italia, e incentrata più su una complessiva «inadeguatezza» della gestione che sul caso Di Matteo, Bonafede ha passato la giornata al telefono con Giuseppe Conte, i capi M5S, interlocutori di maggioranza e anche magistrati. L' obiettivo è arrivare al più presto a un consiglio dei ministri, preferibilmente entro la settimana. Dev' essere un decreto in grado di superare il vaglio di costituzionalità: l' Esecutivo non può certo intimare alla magistratura che cosa fare. Ecco perché il decreto dovrà avere due capitoli distinti: uno per i detenuti mafiosi con condanna definitiva, le cui posizioni sono state vagliate dal Tribunale di Sorveglianza; l' altro per quelli in custodia cautelare, che hanno ottenuto gli arresti domiciliari da tribunali ordinari. Per i primi, s' immagina un obbligatorio riesame ogni mese. E così, quando il Tribunale di Sorveglianza dovesse riguardare il caso di un Pasquale Zagaria, il nuovo corso del Dap potrebbe ora garantire che c' è un posto-letto in carcere anche per la sua patologia. Per i secondi, si pensa di dare la possibilità alle procure distrettuali di fare ricorso davanti al tribunale ordinario, facendo leva sulla fine del lockdown e l' inizio della Fase 2. Se non c' è più un rischio assoluto per la popolazione, a maggior ragione cala il pericolo di contagio per un detenuto, ristretto in un carcere ad alta sorveglianza. Bonafede è in difficoltà. Quando ha scoperto che ci sono altre 456 domande di scarcerazione che pendono, e potrebbero essere anche di più, il suo primo pensiero è andato al decreto del 28 aprile, quello che ha imposto un «parere» preventivo alle distrettuali Antimafia. «Almeno non ci saranno scarcerazioni al buio», ha commentato. Si è scoperto infatti che centinaia di boss sono stati mandati a casa sulla base di un sillogismo astratto: dato che nelle carceri c' è sovraffollamento e non si può garantire il distanziamento, allora il detenuto va scarcerato. A prescindere da quale rischio rappresenti. Il ministro ha letto con rabbia che il precedente capo del Dipartimento, Francesco Basentini, aveva trattato con atteggiamento burocratico il caso Zagaria, e ha ordinato al nuovo vicedirettore Roberto Tartaglia di riesaminare tutti i casi simili. Si andrà a ritroso per fare le bucce alla gestione uscente.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 7 maggio 2020. In altri tempi la vicenda dei capi della malavita scarcerati in massa avrebbe provocato le dimissioni del ministro della Giustizia per responsabilità politica oggettiva. E forse avrebbe dato la spinta decisiva alla caduta del governo. Nella Repubblica dei Cinque Stelle il guardasigilli per ora resta al suo posto e si sforza di rimandare in carcere i boss come uno che si affanna a rimettere nel tubetto il dentifricio spremuto. Ma è impossibile non vedere che nelle ultime ore l' esecutivo Conte ha sofferto un altro colpo alla sua credibilità, stavolta sul terreno assai delicato dell' ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Pur volendo accantonare per un attimo le polemiche sulle mascherine mancanti o sui sussidi economici fantasma, resta un senso d' incertezza il cui fondo è tutto politico. L' intesa tra Pd e M5S è fragile e lo diventa ogni giorno di più. È chiaro che in questa fragilità l' astuto Renzi coglie l' occasione per riprendere le sue scorrerie corsare, fino alla tentazione di firmare con la Lega salviniana la mozione di sfiducia individuale contro Bonafede: il che sarebbe un gesto di rottura plateale con il resto della coalizione dagli esiti destabilizzanti. Ma se il capo di Italia Viva ha ritrovato smalto, lo si deve solo in parte alla sua spregiudicatezza. Il resto dipende dalla debolezza politica dell' asse Pd-5S, tanto solido in apparenza quanto contraddittorio nella sostanza. I democratici di Zingaretti sono per ingessare lo status quo senza limiti di tempo, ma ogni giorno temono qualche trappola e vorrebbero Conte sotto controllo. I Cinque Stelle ormai si fidano poco del loro premier troppo ambizioso, ma non hanno carte di ricambio da giocare. Come del resto non le ha nessuno, compreso Renzi. Quest' ultimo tuttavia, non pilotando una nave mercantile bensì un veloce barchino, può permettersi cambi di rotta veloci. Così mette in mora Bonafede in una chiave "legge e ordine" e al tempo stesso lancia la sua fidata Bellanova in una battaglia "di sinistra", qual è l' ipotesi di regolarizzare alcune centinaia di migliaia di immigrati irregolari che si caricano dei lavori più umili, soprattutto al Sud ma non solo. Così si apre una frattura di nuovo con i Cinque Stelle, timorosi di lasciar spazio ai leghisti su questo terreno. È una guerriglia quotidiana che potrebbe essere contenuta in un unico modo, quello suggerito con antica saggezza da Emanuele Macaluso: ricostruendo un vero patto politico tra Pd, grillini e LeU, magari esteso ai renziani sulla base di accordi chiari. Un patto - bisogna aggiungere - che dovrà comprendere gli scenari economici che si delineano, non meno del quadro internazionale: la questione Cina non è una bazzecola di scarso rilievo, ma un tema cruciale del prossimo futuro, chiunque siederà nei prossimi anni alla Casa Bianca. Gli alleati europei lo hanno compreso, in Italia ci sono ancora troppe ambiguità. In assenza di un' iniziativa del genere, per la quale forse siamo già fuori tempo massimo, ci si deve solo affidare al senso istituzionale del presidente della Repubblica e al suo monito sulle elezioni anticipate a breve. I partiti farebbero bene ad ascoltarlo, tuttavia l' esperienza insegna che quando il tessuto politico si lacera non basta il rispetto delle istituzioni per evitare di inciampare. Anche se non ci sono alternative a portata di mano.

Stefano Folli per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. Non deve stupire se alla fine Renzi e il manipolo di Italia Viva non voteranno la sfiducia al ministro Bonafede. È un documento del centrodestra e il senatore di Scandicci non è tipo da andare dietro a Salvini oltre un certo limite. Qualche incontro, molte parole, nessun impegno concreto, un rimbalzo mediatico sui "due Matteo" uniti nel logorare il governo Conte...tutto questo fa parte del gioco di palazzo che riprende quota man mano che il Covid s' indebolisce e si apre la voragine dell' economia. Ma votare insieme all' opposizione, nel momento in cui almeno su questo punto (forse solo su questo) Berlusconi, Giorgia Meloni e il capo leghista si ritrovano compatti, non fa parte del repertorio renziano. D' altra parte, nessuno può credere che il caso Bonafede sia risolto e che l' esecutivo ne esca rinfrancato. Al contrario, la vicenda dei malavitosi mandati ai domiciliari si arricchisce di nuovi particolari, nessuno incoraggiante, e la matassa si aggroviglia. Chi ha gestito fin qui la vicenda, sia sul piano tecnico sia nei suoi risvolti politici, si è assunto una responsabilità agli occhi di un' opinione pubblica disorientata. Responsabilità che nel caso di Bonafede è oggettiva, tipica di chi come ministro deve rispondere politicamente dell' operato del suo dicastero. Il Guardasigilli sta tentando di riparare al danno prodotto. Ma come farlo, attraverso quali strumenti amministrativi, è assai più complicato del previsto, segno di una generale sottovalutazione iniziale. Il decreto, che avrebbe dovuto risolvere il problema con un colpo a effetto, ieri sera era ancora un foglio bianco. E si capisce: sono in ballo delicati aspetti che toccano lo Stato di diritto, anche quando i protagonisti sono fuorilegge, nonché precise prerogative della magistratura. Quindi la questione è al tempo stesso drammatica e piuttosto semplice nella sua dinamica. O Bonafede risolve il caso nelle prossime ore, armandosi di un decreto inattaccabile che riporti in cella almeno i più pericolosi tra i capi mafiosi, ovvero la sua permanenza alla testa del dicastero di via Arenula diventerebbe poco plausibile. Non solo: una difesa a oltranza da parte dei Cinque Stelle di questo loro esponente che non è - va ricordato - un personaggio di secondo piano, produrrebbe un' onda destinata a rovesciarsi su Palazzo Chigi, cioè il livello politico superiore. Conte può ancora dimostrare che il pasticcio è nato e si è gonfiato presso il ministero della Giustizia, a sua insaputa, ma ciò presuppone che Bonafede sia lasciato al suo destino (sempre, va ribadito, che la vicenda non si risolva in brevissimo tempo e senza ulteriori passi falsi). Viceversa, è probabile che a rispondere sarà il premier. In ogni caso, la difesa del ministro in una causa pressoché indifendibile non è senza un prezzo. Se la ferita non si richiude in pochi giorni, i Cinque Stelle potrebbero dover decidere tra la lealtà verso Bonafede e la sopravvivenza del governo di cui fanno parte con loro piena soddisfazione. Bisogna sottolineare: sopravvivenza. Perché in ogni caso la navigazione del Conte 2 è e rimane faticosa. C' è da credere che lui stesso ne sia consapevole dietro l' ottimismo di maniera. Forse, come dice Zingaretti, se si apre la crisi si andrà a votare e molti nodi si scioglieranno. O forse qualcuno, magari anche nel Pd, ha in serbo una soluzione che tirerà fuori al momento opportuno.

Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. Alfonso Bonafede sa, lo ha capito, che indietro non si torna. Non si possono rimandare i mafiosi in carcere per decreto, checché ne dica la propaganda del Movimento 5 stelle. Non si può neanche decidere, per decreto, cosa devono fare e quando i giudici di sorveglianza, di appello, di corte d' Assise. Il ministro della Giustizia al question time ha tentato ancora una volta di difendersi: «Invito tutti a fare un' operazione di verità: le scarcerazioni sono avvenute in virtù di leggi non di questo governo, ma che erano lì da anni e che nessuno aveva mai modificato ». E ancora: «Nel decreto "Cura Italia" nessuna legge porta alla scarcerazione dei mafiosi, che sono invece esclusi dai benefici». Tutto vero, ma quello che viene imputato al Guardasigilli dall' opposizione e dall' interno della sua stessa maggioranza è di non essere stato in grado di capire quello che stava succedendo. Di gestire il fenomeno. Di prevedere le conseguenze della circolare con cui il Dipartimento di polizia penitenziaria invitava i direttori delle carceri - a causa dell' emergenza Covid - a verificare lo stato di salute e di particolare fragilità di tutti i detenuti. Senza indicare in alcun modo delle soluzioni alternative ai domiciliari per i più pericolosi. C'è un' aria avvelenata e impaurita, nella maggioranza di governo. Il Movimento 5 stelle fa quadrato attorno a Bonafede, parte la batteria di sostegno e il consueto post sul blog con cui viene definito un ministro «scomodo per i poteri forti». Ma all' interno dello stesso esecutivo c' è chi denuncia: «Per tutta l' emergenza ha lavorato quasi sempre da casa, da Firenze, non si dirige così un posto delicato come via Arenula ». Di più: il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra fa sapere di aver chiesto a lungo al Dap l'elenco dettagliato di tutte le persone scarcerate a causa dell' emergenza sanitaria, senza avere risposte in tempi congrui. Di qui, un duello sulla convocazione di Bonafede in Antimafia, che tarda a essere fissata. Il tweet del senatore M5S ieri è sembrato quasi un atto di accusa nei confronti del governo per la gestione dell' intera vicenda: «Cosa nostra, come tutte le mafie - scrive Morra, che di Bonafede non è mai stato amico - non verrà sradicata e dissolta fino a quando ci sarà un solo mafioso che trova in un esponente del potere democratico la disponibilità alla conservazione dell' esistente, al compromesso sugli ideali, al ripudio dei valori costituzionali». Un attacco a salve, senza un destinatario preciso, ma che mina ancora di più la maggioranza nel momento in cui proprio a Palazzo Madama, la prossima settimana, si dovrà votare la mozione di sfiducia contro il Guardasigilli presentata da un centrodestra a sorpresa compatto. E con la minaccia di Italia Viva ancora in sospeso: quel testo è fatto apposta perché Matteo Renzi e i suoi possano votarlo in nome delle battaglie garantiste fatte. Così, dopo il question time, Bonafede si è chiuso al ministero a lavorare. Da lì, si è collegato in videoconferenza con il reggente M5S Vito Crimi e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: ha spiegato quanto sia delicata e difficile la stesura del decreto. Con una consapevolezza: va fatto subito. Prima che la situazione degeneri ulteriormente, prima che escano altri boss. Segnando un danno d' immagine enorme per il governo guidato da Giuseppe Conte. E infatti, subito dopo, il ministro della Giustizia ha sentito il presidente del Consiglio. Che ha capito di dover seguire la vicenda da vicino anche perché gli è giunta eco della preoccupazione del Quirinale per l' impatto delle scarcerazioni sull' opinione pubblica. Il capo dello Stato sorveglia l' intera operazione e dai suoi uffici filtra la richiesta di un testo che valuti bene il problema della retroattività: lo scoglio su cui si sono infrante le intenzioni iniziali di Bonafede, che non può fare un provvedimento in contrasto con l' autonomia della magistratura e ha dovuto ridimensionare il testo che aveva immaginato. Il Pd, in tutto questo, non intende infierire. La pedina Bonafede non può saltare senza che vada tutto in aria. Ma un dirigente dem ricorda come il guaio, prima ancora del Dap, sia stato il non voler affrontare davvero e per tempo il problema del sovraffollamento delle carceri. Lasciando che poi, davanti all' emergenza sanitaria e ai disordini, a prevalere fossero panico e confusione.

Marco Travaglio, altro che "equivoco". Clamoroso al Fatto, Marco Lillo lo smentisce: "Perché Bonafede ha scelto Basentini, nel giro di Conte". Libero Quotidiano l'08 maggio 2020. Altro che "equivoco", Marco Travaglio aveva provato a gettare acqua sul fuoco della polemica tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo per la mancata assegnazione al pm antimafia della poltrona da capo del Dap, ma ci pensa Marco Lillo, spalla del direttore e firma di punta del Fatto quotidiano a cambiare clamorosamente le carte in tavola. E a smentire categoricamente Travaglio. Come sottolinea perfidamente Dagospia, Lillo lascia intendere chiaramente cosa abbia portato il ministro della Giustizia Bonafede, nel 2018, a privilegiare Basentini (oggi dimessosi) a Di Matteo: "Meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo. Per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell' università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere". Insomma prima gli amici di Conte e Bonafede, come Basentini, che quelli di Travaglio come Di Matteo. 

DAGONEWS l'8 maggio 2020. Ma non era solo un equivoco? Così aveva scritto in prima pagina Marco Travaglio, commentando il pasticciaccio tra Bonafede e Di Matteo. Ma a leggere Marco Lillo, confinato in un trafiletto di commento, la strategia dei grillini di governo di mettere da parte il pm antimafia viene da lontano. Secondo il vicedirettore del Fatto Quotidiano, a Di Matteo fu offerto in segreto addirittura il ministero dell'Interno prima delle elezioni del 2018 (mentre in pubblico si parlava di Paola Giannetakis per non metterlo in difficoltà). Invece al Viminale ci andò Salvini, e così Bonafede gli offri un posto che non c'era (la direzione Affari penali era occupata da Donatella Donati) e un posto che svanisce quando Di Matteo lo accetta: il Dap.

Scrive Lillo: Già allora, nel 2018, notavamo che Basentini è meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo: per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell' università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere. Accipicchia. Quindi ci sarebbe la filiera Conte-Bonafede dietro alla promozione di Basentini e al siluramento di Di Matteo. La cosa viene confermata dall'articolo di oggi sul Giornale che racconta come sia già pronto una nuova poltrona per Basentini:

Laura Cesaretti per ''il Giornale'' l'8 maggio 2020. I casi sono due: o il dottor Basentini, già direttore del Dipartimento per l' amministrazione penitenziaria scelto dal Guardasigilli Bonafede, si è dimesso perché ha svolto male il proprio ruolo, e quindi è utile che non si occupi più di carcere. Oppure lo ha svolto bene, e allora non si doveva dimettere. Quel che non si comprende è perché il magistrato potentino (con al suo attivo la gloriosa inchiesta Tempa rossa, che mise nel mirino il governo Renzi per oscuri complotti petroliferi, fece saltare la ministra Guidi e poi finì ovviamente col collasso delle imputazioni e l'archiviazione per gli indagati) debba essere recuperato e continuare - per il ministero di Bonafede - ad occuparsi di detenuti. La voce circola da giorni, la notizia è stata data da diverse testate online e blog che ruotano attorno al carcere e alla polizia penitenziaria: al pm Francesco Basentini, che aveva tristemente annunciato il 30 aprile scorso: «Mi tocca tornare a Potenza», donde era giunto, sarebbe invece stato assegnato un posto «romano» nella task force creata da Bonafede per affrontare l' emergenza Covid nelle patrie galere. La voce non è stata finora smentita da Via Arenula. Del resto esiste ormai in Italia, soprattutto in area grillina, una tale pletora di task force che sarebbe possibile dare una poltrona a qualsiasi trombato o amico di ministri, tanto della composizione e dell' operato di questi organismi emergenziali non si sa nulla o quasi, neppure negli stessi ministeri presso cui vengono quotidianamente costituiti. In attesa di scoprire se si tratti di una malignità, o se sia invece vero che Bonafede, spinto dal suo cuore d' oro, abbia offerto un ripescaggio governativo al Basentini in disgrazia, vale la pena di ricordare il bilancio con il quale il magistrato lucano ha lasciato l' importante incarico (mettendo però sul tavolo, dicono i rumor, la richiesta di essere spostato in una procura più prestigiosa, Torino o Firenze): rivolte in tutte le carceri, 13 detenuti morti, 40 agenti feriti, danni alle strutture per 60 milioni. Per tacere, ovviamente, della esilarante guerriglia tra manettari sulla sua nomina, a colpi di accuse di connivenza con la mafia, tra gli ex amici del cuore Bonafede e Di Matteo. Intanto ieri il Consiglio superiore della magistratura ha ufficializzato la sostituzione di Basentini con il nuovo direttore del Dap Dino Petralia, scelto dal ministro per rimpiazzarlo. Via libera - con una sola astensione, quella del laico della Lega Stefano Cavanna - dal plenum del Csm al collocamento fuori ruolo del magistrato, fino ad oggi procuratore generale di Reggio Calabria.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” l'8 maggio 2020. Il caso Bonafede, ministro della Giustizia finito nel tritacarne delle guerre tra magistrati, è l' emblema dell' epopea grillina, un mix di incapacità, demagogia, moralismo, giustizialismo, sete di potere e di soldi. L' altro giorno Antonio Padellaro, giornalista di lungo corso e presidente de Il Fatto Quotidiano, scriveva a proposito della situazione politica: «Vorrei aver visto la faccia di Sallusti quando Berlusconi, senza avvisarlo, ha detto che il governo Conte non deve cadere». Ecco, detto che Berlusconi può dire ciò che crede, io avrei pagato per vedere la faccia di Padellaro quando Travaglio ha scritto, senza avvisarlo, che se un magistrato suo amico (Di Matteo) accusa un politico suo amicissimo (Bonafede) di presunte collusioni con la mafia, che sarà mai, «si tratta solo di un equivoco». In poche righe, e all'insaputa di Padellaro, Travaglio ha smentito anni di duro lavoro suo e dei suoi giornalisti sguinzagliati a inseguire tutti i teoremi giustizialisti e pistaroli possibili e immaginabili. Ma com' è la storia? Se un killer pentito di mafia, tale Spatuzza (che partecipò al sequestro del bambino sciolto nell' acido), dice di aver sentito dire che Berlusconi è stato amico di un mafioso, significa che Berlusconi è mafioso: se invece un famoso magistrato antimafia dice che un ministro ha trattato con la mafia, è solo un innocuo gioco tra bambini. Il problema non è se Bonafede, detto anche mister boria, è o no colluso con la mafia (non lo è) o se Di Matteo sia o no un grande magistrato erede di Falcone (certamente non lo è). Il problema è quanto stupidi e pericolosi siano questi professionisti dell' antimafia, politici o giornalisti o magistrati che siano, rimasti vittime dei loro stessi giochini e delle loro ossessioni. Vederli in mutande arrampicarsi sui vetri per spiegare balbettando che lo scambio di accuse tra Bonafede e Di Matteo avvenuto in diretta tv da Giletti è stato «un equivoco» è lo spettacolo dell' anno, che ci ripaga di tante sofferenze. Anzi, come canta il grande Jovanotti è «il più grande spettacolo dopo il Big Bang». Di Matteo ha passato (inutilmente) la vita a voler far fuori Berlusconi e in due minuti ha bruciato la carriera del suo amico e sodale Bonafede; Bonafede voleva affidare il Paese ai magistrati manettari ed è riuscito ad azzoppare per sempre il magistrato numero uno dell' antimafia, ieri scaricato anche dal moralista Davigo. Dei veri geni, si sono «arrestati» tra di loro, Bonafede e Di Matteo (le rispettive carriere finiscono qui, al di là del fatto se rimarranno ancora per qualche tempo al loro posto) e insieme hanno smascherato l' ipocrisia del loro megafono Travaglio. Neppure Paolo Villaggio ha avuto tanta fantasia nel descrivere le bislacche disavventure di Fantozzi.

Claudio Tito per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. «Un decreto per rivalutare la scarcerazione dei boss». L' altro ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha tentato di chiudere con questo annuncio la polemica che stava infuriando sul trasferimento agli arresti domiciliari, causa pandemia, di diversi condannati per mafia. Ma come si è arrivati a questa decisione? Cosa è accaduto da marzo fino a ieri? Tutto è stato eseguito nella trasparenza? I rapporti tra il Dap (il Dipartimento dell' Amministrazione penitenziaria) e il Guardasigilli sono stati corretti? Ci sono state delle mancanze o delle approssimazioni? Le violente rivolte registrate nelle carceri hanno svolto un ruolo diretto o indiretto? La sequenza temporale degli eventi è l' unica certezza da cui partire. Si tratta di una catena di episodi che conferma tutti gli interrogativi. Inizia nella prima settimana di marzo. Quando l' emergenza Coronavirus si trasforma in allarme sociale e istituzionale. In quel momento, in diverse case circondariali del Paese scattano delle vere e proprie rivolte. Da Salerno a Napoli, da Roma a Milano. Il primo incidente risale al 7 marzo. La tensione resta altissima per quattro giorni. I morti sono 12. Molti dei quali tossicodipendenti, i detenuti più deboli all' interno della società carceraria e i più "sacrificabili" nelle logiche malavitose. Il sospetto di molti è allora che i tumulti siano orchestrati dai gruppi più facilmente attivabili: quelli della criminalità organizzata. I più agitati, gli affiliati a camorra e mafia. In silenzio, quelli della 'ndrangheta. Nelle prigioni calabresi non si muove un dito, ma nei canoni delinquenziali viene considerato un segnale ulteriore. Negli stessi giorni, il 9 marzo, il governo annuncia il lockdown. L' 11 le rivolte vengono sedate. Sei giorni dopo l' esecutivo approva il primo decreto per affrontare la crisi: il Cura Italia. È il 17 marzo e in quel testo compare la prima norma sui detenuti. Per evitare il sovraffollamento durante il picco dei contagi, si prevede la scarcerazione di chi ha una pena residua non superiore ai 18 mesi e comunque non condannati per delitti gravi. Da quel momento quasi sei mila reclusi vengono liberati. Ma non, appunto, quelli macchiatisi dei reati più pesanti. Non quindi i mafiosi. Passano altri tre giorni e il Dap, guidato allora da Francesco Basentini, emette una circolare sulla base dell' unità medica interna, in cui si segnalano i rischi sanitari per chi è affetto da alcune patologie. L' elenco riguarda i malati oncologici o quelli affetti da Hiv, ma anche chi presenta «malattie dell' apparato cardiocircolatorio» o «malattie croniche dell' apparato respiratorio». Da quel momento si susseguono le decisioni dei magistrati di sorveglianza. Il "confine" dei condannati si allarga. Fino a contemplare, appunto, la scarcerazione di boss di chiara fama. Ogni provvedimento è motivato dalla pandemia e dal pericolo determinato dalla difficoltà di mantenere il distanziamento sociale. Due dati, però, fanno riflettere: al 31 marzo, dopo dieci giorni dalla circolare del Dap, i carcerati contagiati dal Covid ammontano a 19 su una popolazione carceraria di quasi 61 mila persone. Gli agenti penitenziari colpiti dal virus sono 116 su un corpo di 37 mila unità. Resta il fatto che dal 21 marzo le maglie della scarcerazione si dilatano. Al punto che il 22 aprile il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, scrive al direttore del Dap per chiedere spiegazioni e per conoscere «se vi siano state determinazioni di sorta che abbiano inciso su uno o più detenuti sottoposti alle misure di cui all' articolo 41 bis dell' ordinamento penitenziario». Ancora Morra, due giorni dopo, manda una nuova lettera per sollecitare «i dati di cui dispone il Dipartimento ». Basentini risponde. Ma evidentemente per l' Antimafia non è esaustivo. Non tutto è chiarito e se ne lamenta platealmente facendo notare di non aver ricevuto l' elenco dei mafiosi liberati. Il 29 aprile allora spedisce un' altra missiva reclamando «i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all' art. 41-bis dell' ordinamento penitenziario». A quel punto Basentini manda a Morra la lista, poi pubblicata il 6 maggio da Repubblica . E «per conoscenza » la trasmette anche al capo di gabinetto del ministro Bonafede e al suo capo della segreteria. Il Guardasigilli, attraverso il suo staff, era quindi a conoscenza delle disposizioni assunte almeno dal 29 aprile. Il primo maggio - due giorni dopo -Basentini rassegna le dimissioni e viene nominato il due maggio il nuovo responsabile del Dap, Dino Petralia. Il ministro della Giustizia, però, fino al 6 maggio non adotta alcun provvedimento. E annuncia il decreto solo dopo che Repubblica pubblica l' elenco dei mafiosi scarcerati.

Il giudice “senta” tutti tranne l’avvocato: la beffa del Dl carceri. Nelle nuove norme arriva un altro duro colpo al diritto alla difesa. Errico Novi su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Non è un granché come decreto. E se ne sono visti di peggiori, tra i provvedimenti poco attenti ai diritti. Ma nelle nuove norme sulle scarcerazioni varate sabato notte dal Consiglio dei ministri, emanate domenica dal presidente Mattarella e in vigore da ieri, c’è una voragine giuridica pazzesca: non è previsto alcun ruolo per la difesa del detenuto. Non fa differenza che si tratti di un condannato in via definitiva, al 41 bis o in “Alta sicurezza”, o anche solo di un imputato a cui la misura cautelare sia stata sostituita con la detenzione domiciliare. Non cambia se si tratta di reati di mafia, droga o terrorismo. Il giudice avrà l’obbligo di acquisire il parere della Procura distrettuale o della Dna, ma mai quello dell’interessato e dei suoi avvocati. Potrà decidere di riportare in carcere o in una “struttura protetta” il condannato o imputato in gravi condizioni di salute, ma potrebbe farlo senza dare ai suoi legali alcuna possibilità di ribattere ai pm. È un limite gigantesco, che sarà difficile veder corretto in fase di conversione. Certo, si tratta di un provvedimento mirato ai soli casi in cui il differimento o la sostituzione della pena con i domiciliari siano avvenuti per «motivi connessi all’emergenza Covid 19», ma lo sfregio al diritto di difesa resta. A denunciarlo è stata già domenica una delibera dell’Unione Camere penali, che ha parlato di decreto «volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo e al controllo delle Procure distrettuali antimafia». La misura tradise, secondo i penalisti italiani, innanzitutto «la cultura poliziesca» che la anima. «Oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici», prosegue la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza, il provvedimento «prevede il parere degli uffici dell’accusa, ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna», accusa l’Ucpi, «degna della incultura del diritto e della infedeltà alla Costituzione che avvelena il Paese». Il paradosso è che le nuove norme non hanno disarmato la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra contro Bonafede, il quale oggi interverrà alla Camera. Il ministro non ha potuto far altro che stressare i già esausti Tribunali di sorveglianza e gli stessi uffici di Procura, con un obbligo di rivalutazione mensile e con l’ordine di compiere la prima verifica entro quindici giorni dall’ordinanza. Il magistrato sarà tenuto ad acquisire il parere dell’ufficio inquirente distrettuale o, nel caso dei detenuti al 41 bis, della Procura nazionale antimafia. Dovrà verificare con il Dap se si sono liberati posti nei pochi ospedali attrezzati che si trovino all’interno degli istituti di pena o nelle altrettanto poco capienti “strutture protette”. Dovrà poi sentire il governatore per capire se nella regione in cui si trova il carcere ove riportare il detenuto l’emergenza Covid si sia ridotta. Nel caso delle persone sottoposte a misura cautelare, sarà invece la Procura a dover compiere valutazioni mensili e a presentare al giudice, eventualmente, richiesta di revoca dei domiciliari. Un meccanismo pesante ma inutile. Perché l’emergenza non è finita e non lo sarà per mesi, ma anche perché una parte notevole delle scarcerazioni, e anche quelle, appena quattro, dei detenuti al 41 bis, sono legate a condizioni di salute comunque gravissime, e all’obbligo, imposto dall’articolo 147 del codice penale e dalla Costituzione, di bilanciare le esigenze di sicurezza con il principio di umanità della pena. Le conseguenze materiali del decreto saranno modeste e Bonafede resterà esposto alle accuse della curva forcaiola. A maggior ragione è assurdo non aver previsto di vincolare il giudice ad acquisire anche la valutazione degli avvocati. La sola attenzione al diritto di difesa sta nell’articolo 4 del decreto, che ha tradotto in norma di legge la delibera con cui il Cnf aveva chiesto e ottenuto dal Dap lo svolgimento in videochiamata, anziché dal vivo, dei colloqui tra detenuti e difensore. Resta comunque salvo il diritto a un colloqui al mese con i familiari anche in tempi di covid. Ma l’impressione è che il governo abbia avuto l’ennesimo cedimento ai torquemada del giustizialismo.

TravagliEni e l’angoscia per la lite tra i figliocci Bonafede e Di Matteo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2020. «È un colossale equivoco tra persone in buonafede». Ha scritto proprio così. Chi? Travaglio. Le accuse di Di Matteo a Bonafede, la furia di Bonafede contro Di Matteo, la rottura tra i 5 Stelle e Di Matteo, gli stracci che volano al Csm… tutto questo, semplicemente, un equivoco. Sembra che Bonafede e Di Matteo non si capirono bene sull’ora del loro colloquio e così successe un pasticcio su quella questione del capo del Dap, anche perché nel frattempo i Gom avevano passato delle intercettazioni a Marco Lillo e Di Matteo si era allarmato. Ma insomma niente di grave. Ora magari con una telefonata si sistema tutto. Non sto mica scherzando. Sto facendo un riassunto dell’editoriale di ieri di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Da quando il nostro amico si è impossessato dell’Eni (chi è confidenza con lui, scherzosamente, lo chiama TravagliEni, ma lui si arrabbia) è proprio cambiato da così a così. Una volta sospettava di tutti, immaginava scontri, manovre sotterranee, complotti, segreti, ripicche, i più improbabili misteri nel mondo politico. Oggi tutto gli sembra semplice e placido. E se qualche giornalista (pochi pochi, per la verità) si impiccia e fa notare che si è aperto uno degli scontri istituzionali più clamorosi, almeno dai tempi di Cossiga, tra Csm e governo, e maggioranza, lui va su tutte le furie e immagina complotti massonici. Una volta mi ricordo che Travaglio accusava il Corriere della Sera di “paludismo”. Lo chiamava il “Pompiere della Sera”. Adesso altro che De Bortoli e Fontana: Travaglio più che un pompiere sembra un idrante…Detto questo, l’affare Di Matteo ormai è esploso ed è molto difficile nasconderlo, anche se gran parte della stampa è disposta a collaborare col Fatto e a mettere la sordina allo scandalo. Il problema è che nessuno sa più dove metterla questa sordina. Perché Di Matteo è un icona dei 5 Stelle e del partito dei Pm (che sostanzialmente sono lo stesso partito) ma ora una parte consistente dell’establishment dei 5 Stelle è furiosa con lui. Travaglio in persona è il capofila della corrente che comprende sia Di Matteo che Bonafede, entrambi considerati suoi colonnelli di prima fila. E capite che non è facile rimettere insieme i cocci. La teoria del nostro TravagliEni, quella del colossale equivoco, non è che sembra particolarmente astuta. La destra ne approfitta – in democrazia funziona così… – e picchia sul ministro. Usando disinvoltamente le accuse di Di Matteo. Al Csm forse non c’è più maggioranza, e magari la sinistra di Area si sta rendendo conto che andare appresso a Di Matteo non è cosa saggia. Difficile impedire che questo casino non abbia una ricaduta sulla politica nazionale. Anche se…Anche se coi 5 Stelle non si sa mai. Rispetto alla vecchia Dc, al Pd e allo stesso Berlusconi, questi sono molto, molto più dorotei…

P.S. 1 Spesso i 5 Stelle dicono che la politica è un po’ uno schifo perché alla fine è solo una questione di poltrone. Ma questo scontro tra Di Matteo e Bonafade ho capito male o ha come posta in gioco la poltrona del Dap?

P.S.2 – Certo, gli stipendi dei deputati sono troppo alti. Forchettoni. Conoscete lo stipendio del capo del Dap?

Carlo Tarallo per “la Verità” il 6 maggio 2020. Il travaglio (molto doloroso) dei grillini dura una notte, solo una notte: quella, in realtà assai agitata, trascorsa ad attendere cosa avrebbe scritto Travaglio (Marco) sul Fatto Quotidiano a proposito dello scontro tra il magistrato e membro del Csm Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Quando ieri mattina appare l' editoriale, il M5s tira un sospiro di sollievo: «L' abbiamo sfangata». Travaglio, infatti, non sguaina lo spadone a difesa di Di Matteo, ma minimizza, parla di «colossale equivoco», assolve Bonafede, perché il fatto (quotidiano) non sussiste, e così i membri laici pentastellati del Csm possono sganciare le loro bombe sull' ex idolo antimafia: «Vogliamo sottolineare con forza», scrivono Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, «la nostra convinzione che i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell' esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l' autorevolezza del Consiglio. Chi ha l' onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale», aggiungono i tre laici targati M5s, «deve sapersi auto-limitare». Di Matteo, si contenga! La nota di Benedetti, Donati e Gigliotti ricorda la famosa telefonata di Silvio Berlusconi a Michele Santoro, del 16 marzo 2001: caso chiuso, quindi, in superficie. In profondità, però, le acque grilline sono assai agitate: «Ormai», confida alla Verità un esponente pentastellato di governo, «il M5s è l' establishment e il populismo giudiziario e giornalistico che ci ha dato i natali come Movimento ora ci si ritorce contro. Era prevedibile, forse inevitabile, ma non ci sarà alcuna ripercussione. Il governo non si tocca, basta spostare una casella per far crollare tutto e darla vinta a Alessandro Di Battista, che non vede l' ora di tornare alle elezioni. Piuttosto, la vicenda Bonafade mette in difficoltà Luigi Di Maio, che è il nume tutelare del ministro della Giustizia». «Non a caso», prosegue il big del M5s, «Danilo Toninelli è stato sacrificato, ma Bonafede con tutte le gaffe e gli errori sta sempre là ed è pure capodelegazione del M5s al governo, piazzato da Di Maio, che ha ricoperto quel ruolo prima di lui». Se è per questo, Bonafede è anche colui il quale ha presentato Giuseppe Conte a Di Maio «Bonafede», aggiunge la nostra fonte, «non si muove. La faccenda è molto semplice: il governo deve restare in piedi a tutti i costi, non c' è discussione o polemica che tenga». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d' Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto che Bonafede vada in Aula per comunicazioni, quindi ci sarebbe un voto sulle parole del ministro. Spaccature in vista? «Macché», ridacchia il big pentastellato, «ormai chi doveva andar via lo ha fatto, i parlamentari sono letteralmente terrorizzati dall' idea che la legislatura non duri cinque anni. Se si torna a votare, in Parlamento torna un terzo di noi. Se va bene». Difficile in ogni caso che Bonafede accetti di presentarsi in Aula per comunicazioni, più probabile la scelta di una semplice informativa, che non preveda un voto. Pd e M5s si schierano compatti a difesa del Guardasigilli, e pure Italia viva, che su Bonafede e la riforma della prescrizione aveva minacciato di far cadere il governo, ingrana la retromarcia: «Da mesi», sottolinea il capogruppo dei renziani al Senato, Davide Faraone, «chiediamo le dimissioni del ministro della Giustizia, ma oggi no. Oggi che il destino ridicolo si è abbattuto su chi si è servito dei processi in piazza per poi rimanervi vittima, no. E lo facciamo perché c' è in gioco la democrazia. Quello che è andato in onda», aggiunge Faraone, «è un botta e risposta tra due correnti del medesimo giustizialismo». Con Forza Italia pronta ad approfittare della primi crisi seria del governo per entrare a far parte di una maggioranza di ricostruzione nazionale, Italia viva si guarda bene dal premere sull' acceleratore, e così anche il caso Di Matteo-Bonafede è destinato a essere archiviato il più presto possibile.

Da liberoquotidiano.it il 5 maggio 2020. Marco Travaglio, nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, racconta la polemica tra il pm antmafia Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo le dichiarazione del magistrato nella trasmissione Non è l'Arena su La7 condotta da Massimo Giletti. Il magistrato, in diretta tv, ha raccontato la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018.  "Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. Travaglio nella querelle si schiera al fianco del ministro grillino e spiega che la lite tra i due sarebbe nata da "un equivoco tra due persone in buona fede", scrive il giornalista. "Tutto nasce quando voci di stampa parlano di Di Matteo al Dap, nel primo governo Conte. Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l'arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il Dap. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l'impressione del ministro). Il pm invece ritiene l' incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il Dap a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il Dap e di non essere disponibile per l'altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il Dap l'ha già affidato al suo collega", conclude Travaglio chiarendo così come la grande polemica politica del momento con  richieste di dimissioni sia per Bonafede che per Di Matteo, sia nata tutto da un equivoco tra i due. Convinto lui...

Mattia feltri per ''la Stampa'' il 5 maggio 2020. La scorsa legislatura, non so più quale ragazzaccio dei cinque stelle s' alzò in Parlamento a consegnare al Pd il titolo di partito della mafia. Nella sollevazione sdegnata dei destinatari, rimane indimenticabile la cera esterrefatta di Rosy Bindi, una vita trascorsa, col volenteroso sostegno dei colleghi, a dichiarare mafioso questo e quello, Andreotti, tutta la vecchia Dc, Berlusconi, i suoi alleati in odore di concorso esterno in governo mafioso. Adesso l' esterrefatto di turno è proprio un ragazzaccio dei cinque stelle, Alfonso Bonafede, promosso a ministro della Giustizia perché nello stringato curriculum vantava la qualifica di onesto, e d' improvviso additato al popolo da Nino Di Matteo, pm feticcio della via immacolata al potere, e per quella via arrivato al Csm. Senza vincolarsi a concetti inafferrabili tipo la nemesi, considerata la sceneggiatura e i protagonisti, succede che il pm feticcio va alla trasmissione di Massimo Giletti e butta lì che forse, chissà, stai a vedere, la sua mancata nomina alla direzione delle carceri dipese dalla disapprovazione dei boss, cui Bonafede fu forse sensibile. Al di là del curioso approccio del dottore Di Matteo alle notizie di reato, indagate due anni dopo in favore di telecamera, e dell' eterna e sottovalutatissima tiritera del più puro che ti epura, a incantare è la velocità con cui i nemici del governo, interni ed esterni, hanno trasformato in verità l' illazione, cioè l' identico meccanismo per cui Bonafede è diventato ministro della Giustizia. Il peggiore nella storia delle democrazie occidentali, ma se vince Di Matteo, ricordarselo, senz' altro migliore del prossimo.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 5 maggio 2020. Domenica sera, su La7, è andato in onda a sorpresa il primo derby di Sospettopoli. In campo, da una parte il campione in carica dell' antimafia Nino Di Matteo, dall' altra Alfonso Bonafede, il ministro spazzacorrotti. Arbitro Massimo Giletti, il barbarodurso del populismo prêt-à-porter. Sulle curve opposte, incollati ai teleschermi, gli ultras dei manettari e quelli dei forcaioli, che hanno aspettato fino all' ultimo secondo - prima della pubblicità - per capire chi dei due lottatori avesse la meglio, quello che i cattivi li brucia e li squarta o quello che li grattugia e li divora. La partita l' ha vinta Di Matteo, con il suo dettagliato racconto di quello che avvenne quando nacque il primo governo Conte. Allora il neo-ministro Bonafede prima gli chiese di scegliersi una poltrona - quella del Dap che controlla la polveriera dei penitenziari o quella degli Affari penali che fu di Giovanni Falcone - e poi, quando il pm palermitano andò a dirgli che accettava la prima, ritirò la proposta e gli offrì solo la seconda (che fu rifiutata). E il colpo da maestro di Di Matteo è stato l' accostamento sapiente di due fatti evidenti per dar corpo a quel sospetto che - come disse padre Pintacuda - è l' anticamera della verità. Mentre io riflettevo sull' incarico da scegliere, ha detto infatti il magistrato, al ministro arrivò un rapporto che rivelava che nelle celle dei mafiosi al 41 bis si temeva il suo arrivo al Dap, «se mettono Di Matteo è la fine, quello butta la chiave». E aggiungendo che «questo è molto importante che si sappia», il pm antimafia non ha apertamente accusato il ministro di essersi fatto condizionare dall' ira dei boss. No, ha solo sganciato un dubbio termonucleare, su quella poltrona scottante che il giorno prima gli era stata offerta e il giorno dopo sarebbe sparita mentre stava per sedervisi. Diciamo la verità: era quasi commovente ascoltare Bonafede mentre sosteneva che «dobbiamo distinguere i fatti dalla percezione», mentre sosteneva che bisogna credere «alla verità», e non agli esplosivi sospetti che con accorta misura il suo accusatore aveva messo sul tavolo. E non solo perché Di Matteo è il cavaliere senza macchia e senza paura che i cinquestelle hanno portato in trionfo fino al raduno casaleggese di Ivrea, il pm che un tempo sognavano come ministro della Giustizia, ma perché il povero Bonafede non avrebbe mai immaginato essere raggiunto anche lui, un giorno, dal fumo velenoso di quel sospetto che nel codice di entrambi è più vero della verità.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 5 maggio 2020. «Al minimo dubbio, nessun dubbio»: da domenica sera (dopo le rivelazioni del magistrato Nino Di Matteo a Non è l' Arena sulla trattativa con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per la scelta del capo del Dap) nelle chat dei parlamentari grillini rimbalza la citazione di Gianroberto Casaleggio. È il fucile nelle mani di chi nel Movimento spinge per il passo indietro del Guardasigilli. La tensione è alle stelle. Il caso Bonafede diventa l' occasione per regolare i conti tra le anime del Movimento. È una faida tra chi contesta la deriva e chi rimane fedele ai valori dell' origini. Scorrendo le agenzie non c' è traccia, fino alle 18 e 30 di ieri, delle dichiarazioni (in difesa del Guardasigilli) da parte di ministri e parlamentari dei Cinque stelle. Solo dopo la replica (balbettante) del ministro, c' è chi esce allo scoperto. Un vuoto di venti ore che certifica la spaccatura. Il Movimento si interroga (e litiga) sulla strada da imboccare: scaricare Bonafede o aprire il fuoco contro il magistrato simbolo dell' ala giustizialista dei Cinque stelle. I gruppi whatsapp dei grillini sono una polveriera. La discussione si infiamma subito. Quasi in tempo reale, con l' intervento in diretta di Bonafede al programma condotto da Massimo Giletti, si accende lo scontro. Nel privato delle chat c' è chi avanza la richiesta di dimissioni. «Bonafede è indifendibile», «onestà onestà solo slogan»: è questo il tono dei messaggi che si scambiano deputati e senatori del M5s. Il silenzio stampa (anche del capo reggente del Movimento Vito Crimi) è lo specchio dell' imbarazzo. La tentazione di mollare il ministro, chiedendo un passo indietro, c' è. Ma i vertici (da Luigi Di Maio e Riccardo Fraccaro) frenano: «Bonafede è anche il capodelegazione dei Cinque stelle al governo. Se salta il ministro della Giustizia è a rischio la tenuta del governo Conte». Prevale, dunque, la linea del silenzio. Nessuna fuga. Niente attacchi dall' interno. Non manca chi sollecita un intervento di Alessandro Di Battista. Entra nella polemica l' ex senatore grillino Gianluigi Paragone per chiedere le dimissioni del ministro. Lo scontro Bonafede-Di Matteo manda in tilt lo staff comunicazione dei Cinque stelle. Nessuno è in grado di attivare (fino alle 18 e 30) la macchina della propaganda per alzare uno scudo in difesa di Bonafede. Per tutta la giornata i parlamentari incassano l' offensiva delle opposizioni. C' è chi chiede al ministro di assumere una posizione chiara. Di ricostruire con un post (che poi arriva) tutta la vicenda. Non manca chi invece suggerisce di aspettare l' editoriale del direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio per capire la strategia da seguire. È un susseguirsi di accuse, veleni e timori. Alla fine si opta per il salvataggio (della poltrona) di Bonafede. Il viceministro dell' Economia Laura Castelli tira un sospiro di sollievo e si lancia nella difesa: «Sulla linearità d' azione e correttezza, morale e professionale del nostro ministro nessun deve alimentare congetture». Anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D' Incà sceglie la difesa pubblica del ministro. I duri e puri battono in ritirata. Ma lo scontro resta aperto. Dagli ai Social. Ma non è altro che censura della Rete non omologata.

Massimo Giletti contro Martina a L'aria che tira: "Mafia e coronavirus, come posso affidarmi a certi incompetenti?" Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Mettendo a confronto due piani distinti, Massimo Giletti mette all'angolo Maurizio Martina, esponente di spicco del Pd, partito di maggioranza. Siamo a L'aria che tira, il programma di Myrta Merlino su La7, dove il conduttore critica l'esecutivo sia per la gestione dell'emergenza coronavirus sia per le scarcerazioni dei boss che tanto stanno facendo discutere (e che, in controluce con le dichiarazioni di Nino Di Matteo a Non è l'Arena, hanno messo in profonda difficoltà Alfonso Bonafede). "Come posso affidarmi a certe persone incompetenti nella task force creata per il coronavirus che hanno gestito la liberazione di Zagaria?", chiede Giletti a Martina. Dunque, aggiunge: "Se la meritocrazia tanto sventolata porta persone che neanche gestiscono uno dei criminali più importanti nel nostro Paese, io alzo le mani". Da par suo, Martina, più che rispondere respinge la domanda al mittente: "Non capisco che cosa significhi mischiare il bisogno drammatico che c'è di proteggere il personale sanitario con un giudizio rispetto a un componente di una task force". Come detto, le risposte stanno a zero. 

Sei anni fa la clamorosa lite tra Di Battista e Speranza, così lontana, così attuale. Redazione su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Il video che abbiamo deciso di riproporvi, documenta una accesa lite, con tanto di urla e insulti, avvenuta nel gennaio del 2014, nella sala stampa della Camera dei deputati, tra l’allora capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, oggi Ministro della Salute e Alessandro Di Battista, in quel momento deputato per il M5s, oggi senza un preciso ruolo politico, ma sempre molto attivo nel movimento. Il senso dello scontro si racchiude in due posizioni molto precise: Di Battista urla con disprezzo contro Speranza, invitandolo a tagliarsi lo stipendio, mentre lo accusa con il suo partito, di affamare gli italiani, di rubare loro il pane e Speranza al quale veniva impedito di rilasciare un’intervista, rimprovera a Di Battista di essere un fascista, di non rispettare democraticamente la diversità di idee e posizioni. Nel gennaio del 2014 Di Battista e Speranza erano avversari politici, l’uno esponente del Pd, e l’altro di un movimento che accusava il Pd di aver distrutto il paese. Cosa resta oggi di questa storia politica, con Pd e M5s alleati nella stessa maggioranza di Governo? Tutto. Resta il populismo di misure del tutto inefficaci per affrontare i bisogni reali del paese e resta una propaganda che pone, per esempio in primo piano, come risposta ad ogni crisi economica, la scelta di auto ridursi lo stipendio da parte dei deputati e dei senatori del M5s, naturalmente con le dovute e numerose eccezioni che hanno causato l’espulsione di chi non ha rendicontato e restituito. Resta la tendenza del Movimento ad annunci facili, ma spesso vuoti di contenuto, dalla sconfitta della povertà al decreto liquidità per far fronte all’emergenza covid-19: 400 miliardi di euro che nessun imprenditore ha visto e nessuno vedrà, se non al prezzo di un debito da contrarre mentre non c’è alcuna certezza o stabilità di lavoro e sviluppo. E resta una sinistra che continua a smarrire l’anima e il coraggio di una politica di riforme e di sostegno alle componenti più fragili del paese. Il video è una visione, una sintesi dell’atteggiamento politico di un Movimento che detestava alla sua nascita la politica, che aspirava al Parlamento al solo scopo di “aprirlo come una scatoletta di tonno”, che malediceva l’Europa e che oggi nella dialettica di Governo, non ha ancora ricomposto molti dei suoi eccessi, senza però averne più il coraggio e che rischia di liquefarsi al prossimo appuntamento elettorale. Ora però mentre PD e M5s, sono insieme al governo, ci piacerebbe non sentir più parlare degli stipendi dei parlamentari, nè delle virtuose riduzioni di un terzo, di un quarto o della metà, adottate dai grillini, vorremmo ricominciare a parlare degli stipendi degli italiani. Stipendi che non ci sono. E’ tornata la povertà, ma non ditelo al Movimento!

Nunzia De Girolamo contro Bonafede a L'aria che tira: "Di Matteo era in diretta, ma quale informazione distorta?" Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Ad aggiungere ulteriori dettagli, pesantissimi, che inguaiano Alfonso Bonafede e il M5s, tutto, sul caso-Nino Di Matteo ci pensa Nunzia De Girolamo. Ospite a L'aria che tira di Myrta Merlino in onda su La7, la De Girolamo torna a domenica sera, alla puntata di Non è l'arena di Massimo Giletti, a cui era presente, e mette in evidenza una semplice circostanza, che già di per sé basterebbe a far chiarezza sulla vicenda e a spazzare via le critiche di chi parla di informazione distorta: "Di Matteo ha ascoltato - premette la De Girolamo -, era in diretta anche quando ha chiamato Bonafede. Non c'è stata alcuna interpretazione delle sue parole", sottolinea. E ancora: "E pensare che il M5s urlava onestà-onestà proprio difendendo Di Matteo. Ma questo è il M5s: Bonafede viene da un percorso completamente diverso da tutta l'altra politica", conclude. 

Matteo Renzi, il regolamento di conti tra i giustizialisti Bonafede e Di Matteo: "Lo scandalo più grave sulla giustizia". Libero Quotidiano il 04 maggio 2020. “È un regolamento di conti tra giustizialisti”. Così Matteo Renzi ha commentato a L’aria che tira lo scontro in atto tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo. Sono sempre più insistenti le richiede di dimissioni nei confronti del ministro della Giustizia, messo in difficoltà dallo scandalo dei boss mafiosi scarcerati e mandati ai domiciliari (domenica sera Massimo Giletti ha letto in diretta l’elenco dei nomi dei criminali rilasciati) e anche dalle parole dal magistrato Di Matteo. Il quale, sempre durante Non è l’Arena, ha rivelato che Bonafede gli aveva chiesto la disponibilità per il ruolo di capo del Dap ma che dopo 48 ore, quando aveva deciso di accettare, il ministro gli aveva detto di averci ripensato. Secondo Di Matteo la polizia penitenziaria aveva informato la Procura Nazionale Antimafia e la direzione del Dap della reazione di importantissimi capimafia che dicevano 'se nominano Di Matteo è la fine'. Secondo Renzi si tratta di una vicenda “molto pesante”, però al di là del regolamento di conti tra giustizialisti sono anche membri delle istituzioni, quindi quello in atto è un “grave scontro istituzionale”. “Vorrei sapere la verità - ha dichiarato l’ex premier - se c’è qualcosa sotto si faccia chiarezza. Siamo in presenza di una clamorosa vicenda giudiziaria, mi aspetto parole chiare in Parlamento e al Csm, è il più grave scandalo sulla giustizia degli ultimi anni”.  

Bonafede, Daniela Santanché: "Tg1, sconcertante silenzio dopo lo scoop di Massimo Giletti". Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Le critiche nei confronti di Massimo Giletti, reo di aver dato spazio a Nino Di Matteo, hanno mandato su tutte le furie Daniela Santanchè. Il caso è quello andato in onda domenica a Non è l'Arena, il programma su La7 condotto proprio da Giletti. Qui il pm antimafia ha dichiarato di essere stato scartato dalla presidenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, perché la sua nomina avrebbe scatenato l'ira dei boss mafiosi. Un'accusa gravissima nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e che il giornalista ha ammesso di voler approfondire. A non menzionare neppure la vicenda invece viale Mazzini. "È sconcertante - denuncia su Twitter la senatrice di Fratelli d'Italia - come nell’edizione odierna del Tg1 non si sia fatto cenno a quanto successo ieri sera nel programma di Giletti, una tv pubblica dovrebbe dare maggiore spazio a notizie così importanti. Porterò il caso in Vigilanza Rai", ha assicurato.

Di Matteo da Giletti degno delle sceneggiate del pool di Mani Pulite. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Perfino se fossero vere le sconclusionate ma gravissime insinuazioni del dott. Di Matteo nei confronti del Ministro di Giustizia Bonafede, la gravità del desolante scontro mediatico tra campioni del giustizialismo populista in diretta tv sta altrove. E cioè nell’essere noi ormai assuefatti alla idea che una sconcertante performance televisiva come quella messa in scena dal dott. Di Matteo rientri nell’ordine delle cose che possono legittimamente accadere nel nostro Paese, e che infatti regolarmente accadono. Dalla sceneggiata televisiva del pool di Mani Pulite in tv, maniche di camicia, barbe incolte e volti affranti, per silurare un decreto legge adottato da un Governo legittimo e democraticamente eletto, fino al Procuratore di Catanzaro Gratteri che ad ogni pie’ sospinto ribadisce che fu il Presidente della Repubblica Napolitano a non volerlo ministro della Giustizia, lasciandoci ad annegare nel dolore e a macerarci nel dubbio di innominabili connivenze ‘ndranghetistiche al vertice supremo dello Stato, lo spartito è sempre quello. Ditemi voi in quale altro Paese democratico del mondo sarebbe mai consentito a un magistrato di sparare simili bordate contro un ministro in carica. Egli può aprire una indagine su quel Ministro, o sollecitarla ai suoi colleghi competenti per territorio, se vi sono fatti e circostanze che lo legittimino: ecco tutto quello che un magistrato può fare, e scusate se è poco. Fuori da questi invalicabili limiti, ogni altra iniziativa o esternazione è, semplicemente, fuori dal recinto della legittimità costituzionale. Noi invece apriamo un dibattito sul merito della vicenda: chi ha ragione, chi ha torto. Addirittura Massimo Giletti, autore non saprei quanto involontario dello scoop, insiste perché ci si indigni del fatto che “un uomo come Di Matteo” sia stato, come dire, prima sedotto e poi abbandonato dal suo ministro più adorato e stimato. Le amarezze o le malinconie del dott. Nino Di Matteo dovrebbero insomma essere poste al centro di una sorta di lutto nazionale, magari da risolversi con le dimissioni dell’oltraggioso ministro. A volte mi capita di chiedermi – e questa è una di quelle – se sogno o son desto. Lasciatemelo dire dal profondo del cuore, senza voler mancare di rispetto a nessuno: ma chissenefrega! Se la vedano tra di loro. Di Matteo mandi un whatsapp a Bonafede, seppure un po’ tardivo, e gli dia del maleducato: di cos’altro dovremmo discutere? E dunque, mentre – non credendo più da tempo a Babbo Natale – occorre interrogarsi su cosa possa avere in realtà ispirato questa improvvida sceneggiata, e se magari essa abbia a che fare con alcune recenti delusioni legislative (vedi il giocattolino del processo da remoto, tolto via dal Parlamento sovrano ai suoi frenetici sostenitori, tra i quali Di Matteo, a un passo dalla agognata riduzione a icona del diritto di difesa nel processo penale), sarebbe sciocco e ingeneroso nascondere alcuni motivi di enorme, impagabile soddisfazione. Il mondo politico, culturale ed editoriale nato, cresciuto e pasciuto parassitando l’antimafia (ah, indimenticabile Sciascia!) per farne un micidiale strumento di formazione del consenso e di conquista crescente di cruciali leve del potere, è in cortocircuito. Lo schema fino a ora meravigliosamente vincente del mondo in bianco e nero, buoni e cattivi, o con Di Matteo e Gratteri o con mafiosi e ‘ndranghetisti, che ha portato il più improbabile dei movimenti politici a governare il Paese ed un gruppo di giornalisti scrittori ed editori ad accumulare fortune e potere, implode come un sufflè venuto male. Eccovi ripagati della stessa moneta, e da chi? Dall’idolo immalinconito e deluso. Spettacolo strepitoso vale – anche solo per poche ore – qualunque prezzo del biglietto. Quel Giarrusso, per dire, collegato in trasmissione mentre Di Matteo bombardava placidamente il suo ministro antimafia anticorruzione eccetera, che roteava gli occhi e balbettava frasi insensate non sapendo che pesci prendere e non avendo, d’improvviso, più nessuno a cui dare comodamente del mafioso; e Travaglio, con il suo editoriale interminabile con il quale ci spiega che è tutto un equivoco, si sono capiti male, l’audio non era dei migliori e Giletti è amico di Salvini; beh non so voi, ma io, almeno per qualche ora, ho avuto netta e commovente la sensazione di assistere, per la prima volta nella mia vita, alla prova scientifica della esistenza di Dio.

Giletti mette in scena una rissa tra boia con fake news sui boss. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Oramai tutto quello che accade al Dap non sfugge a Giletti, che sta sviluppando su di esso un’autentica campagna in più puntate. Domenica la campagna ha avuto un’ulteriore escalation. La settimana prima nel mirino era finito Basentini e solo pochi giorni dopo ci ha lasciato lo scalpo. Il risultato paradossale della seconda puntata è che, con un paio di eccezioni, si è trattato di uno scontro senza esclusione di colpi fra giustizialisti in servizio permanente effettivo. Per non farsi mancar nulla infatti Giletti ha messo in campo anche il sindaco di Napoli de Magistris, che ovviamente si è trovato benissimo in questa parte e che sembrava addirittura un Pm ancora in funzione e anche un membro del Csm. È stato presentato un elenco di circa 40 carcerati ad altissimo livello di pericolosità mafiosa spostati agli arresti domiciliari per ragioni di salute; poi è risultato che al 41bis di essi ce n’erano solo 3 e quindi l’impalcatura politica costruita secondo la quale si era davanti ad una “resa dello Stato” dopo i recenti moti nelle carceri è risultata del tutto ridimensionata. Infatti, a nostro avviso, lo Stato non si arrende a nessuno se 3 criminali finiscono agli arresti domiciliari. Siccome però Giletti deve avere uno scalpo, questa parte della trasmissione si è conclusa con l’invito, urlato come un ordine, che dopo Basentini venga “eliminata” anche la dirigente del Dap che si era occupata del caso Zagaria, ma il punto culminante della trasmissione è consistito in uno scontro durissimo fra ultra giustizialisti (Giletti, il ministro Bonafede, il Pm Di Matteo, il Pm Catello Maresca, l’on. Dino Giarrusso, molto a disagio nei panni per lui inconsueti di avvocato difensore del ministro, il comandante Ultimo), che ha avuto per oggetto la seguente questione: il delitto di lesa maestà nei confronti del Pm Di Matteo presentato come una sorta di icona protagonista di una vicenda politico-giuridica, quella della pretesa trattativa Stato-mafia su cui invece è in corso una durissima discussione perché contestata alla radice da molti giuristi, storici, magistrati e avvocati. Il ministro Bonafede è finito sotto accusa quasi che fosse un pericoloso garantista con tendenze criminogene e amicizie pericolose per una colpa imperdonabile. Stando a Di Matteo che, nella sorpresa generale, a un certo punto ha fatto una telefonata a Giletti, il malcapitato Bonafede nella sua qualità di ministro della Giustizia aveva offerto al Pm Di Matteo di scegliere fra due incarichi, quello di capo del Dap e quello di direttore generale degli Affari Penali del ministero della Giustizia, per capirci il posto di cui fu titolare Giovanni Falcone. Di conseguenza Bonafede si era mosso sul terreno del più organico legame a una tendenza ben precisa della magistratura, quella che fa riferimento a Davigo. Quando si sparse la voce sulla possibilità che Di Matteo andasse al Dap alcuni mafiosi di alto lignaggio si fecero intercettare esprimendo la loro totale contrarietà a quella nomina. Nel frattempo, Di Matteo si prese 48 ore per riflettere, al termine delle quali comunicò a Bonafede che preferiva l’incarico al Dap. Nel successivo incontro (è sempre Di Matteo che ha raccontato i termini di questo colloquio a due assai riservato) mentre Di Matteo comunicò di aver scelto la carica di capo del Dap a quel punto il ministro Bonafede (trattato nel corso della trasmissione un po’ da tutti, da Giletti a de Magistris allo stesso Pm Catello Maresca come se fosse un ragazzo di bottega) gli rispondeva che avrebbe preferito averlo con sé al ministero nella carica altissima di direttore degli Affari Penali che era stata addirittura di Falcone e che ha poteri e un ruolo molto rilevanti. A quel punto, siccome Giletti ha stabilito che la carica del Dap è mille volte superiore per importanza a quella di direttore degli Affari Penali egli ha investito Bonafede del delitto di lesa maestà spalleggiato da de Magistris, dal comandante Ultimo, dal Pm Maresca, mentre a quel punto l’avvocato difensore batteva in ritirata: come si era permesso Bonafede di non accettare in ginocchio la scelta fatta dall’icona e invece gli aveva controproposto la carica di direttore degli Affari Penali a quel punto considerata dagli interlocutori un incarico del tutto subalterno e trascurabile? Allora Bonafede è stato trattato non come un ministro dotato della sua autonomia di giudizio e di decisione, ma come una sorta di passacarte, di esecutore in automatico della scelta fatta dall’icona che nella gerarchia dei giustizialisti ha una collocazione molto superiore anche a quella del ministro. È così avvenuto che il ministro della Giustizia più ottusamente giustizialista della storia della Repubblica è stato letteralmente sballottato fra diversi accusatori uno più scatenato dell’altro. Vedendo l’andamento di quel pezzo di trasmissione è risultata del tutto confermata una famosa battuta di Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».

Liana Milella per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Nino Di Matteo è al Csm. Chiuso nella sua stanza. Per un' intera giornata, lunedì dopo la sua telefonata a "Non è l' arena", è stato irraggiungibile. Poi ieri eccolo di nuovo disponibile. Con la voce vagamente angosciata di sempre. Non vuole dire nulla. Lo premette. Insisto.

Perché questo silenzio?

«Ho tenuto il telefono spento, ho lavorato. Quello che avevo da dire sono riuscito a dirlo nella telefonata, non voglio commentare i fatti».

Ma i fatti sono quelli?

«Sì, i fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato».

Ripercorriamoli, allora, quei fatti.

«Era lunedì, il 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla procura nazionale antimafia. Squillò il telefono una prima volta, con un chiamante sconosciuto. Non risposi. Suonò di nuovo. Era Bonafede. Con lui non avevo mai scambiato una parola. C' era stato solo un incontro alla Camera nel corso di un convegno sulla giustizia e poi un altro alla convention di M5S a Ivrea. La telefonata durò 10 o 15 minuti».

Cosa le disse Bonafede?

«Mi pose l' alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere subito perché mercoledì ci sarebbe stato l' ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali».

Che in quel momento però era occupato dalla collega Donati e che non conta più come ai tempi di Falcone perché nella scala gerarchica c' è un capo dipartimento?

«Esatto. Gli dissi che sarei stato a Roma il giorno dopo e mi sarei recato da lui al ministero».

Come finì la conversazione?

«Bonafede chiuse il telefono dicendo "scelga lei'"».

Insomma, lei poteva fare il capo di una polizia con un indiscutibile potere del tutto autonomo oppure stare sotto un capo?

«Proprio così».

Che accadde a Roma quel martedì?

«Entravo per la prima volta al ministero della Giustizia dai tempi del concorso. I colleghi che mi accolsero mi dissero "lei viene qui su invito del ministro, altri vengono di loro iniziativa...". Mi sedetti davanti a Bonafede e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato».

Chiese al ministro perché aveva cambiato idea?

«No, non lo feci, ma rimasi sorpreso. Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all' improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione».

Il giorno dopo lei tornò in via Arenula.

«Sì, lo chiamai e tornai da lui per cinque minuti, il tempo di dirgli che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili. Come il nostro ultimo scambio di battute. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali "non c' è dissenso o mancato gradimento che tenga". Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare».

Con il Guardasigilli fu affrontata la questione delle esternazioni dei boss contro di lei?

«Bisogna fare un passo indietro. Dopo le elezioni alcuni giornali scrissero che c' era un' ipotesi Di Matteo al Dap. Dell' esistenza del rapporto lo appresi il giorno prima o lo stesso giorno della visita. Mi chiamarono da Roma dei colleghi per dirmi che c' era una cosa molto brutta che mi riguardava. In più penitenziari, per esempio all' Aquila, boss di rango avevano gridato "dobbiamo metterci a rapporto col magistrato di sorveglianza per protestare contro questa eventualità". Subito dopo 52 o 57 detenuti al 41 bis, ciascuno per i fatti suoi, avevano chiesto di conferire. A quel punto era stata fatta un' informativa diretta a più uffici di procura e al Dap».

Sì, questi sono i fatti, ma lei parlò del rapporto con Bonafede?

«Il ministro si mostrò informato della questione».

Perché rimase deluso da quella che considerò una marcia indietro del ministro?

«Pensai allora, e ho sempre pensato, di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l' esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente".

Visto che ne ha parlato già in tv mi spiega di nuovo cosa la turbò nel comportamento di Bonafede?

«Prima una proposta, poi un' altra. Da allora mi sono sempre chiesto cos' era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta un' indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo».

Scusi, Di Matteo, ma sono passati due anni da allora, perché non ne ha parlato subito?

«Per alto senso istituzionale non potevo dire perché non avete nominato me anche se c' era chi, accanto a me, faceva le ipotesi più fantasiose, ma io non ho mai voluto dire niente. Se avessi parlato sarebbe apparso fuori luogo, come un' indebita interferenza».

E perché allora lo ha fatto adesso?

«Dopo le dimissioni di Basentini, proprio come due anni fa, alcuni giornali hanno di nuovo scritto che mi avrebbero fatto capo del Dap. Quando Roberto Tartaglia è diventato vice direttore eccoli scrivere "arriva il piccolo Di Matteo". Poi domenica sera, quando ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa - e sia chiaro che lo rifarei negli stessi termini - ho sentito l' irrefrenabile bisogno di raccontare i fatti, al di là delle strumentalizzazioni».

Lei ora passa per anti Bonafede, ma in questi due anni più volte ha parlato bene delle sue leggi.

«È un fatto che quanto è accaduto non mi ha condizionato, tant' è che sono intervenuto sulle iniziative del ministro. Ho detto sempre quello che pensavo, com' è accaduto sulla prescrizione. Io non sono uno che fa calcoli. Che rimugino su quanto dico e a chi lo dico. Ma dopo quei colloqui ci sono rimasto male e ho detto quello che pensavo quando ho sentito dire delle inesattezze. Non intendo giudicare il lavoro di Basentini, né contestare la scelta di Petralia, ma se si parla del perché non è stato scelto Di Matteo per fare il capo del Dap io ho il diritto di dire come sono andati i fatti. Se mi chiameranno in una sede istituzionale andrò a spiegare quei fatti per come li ho vissuti. Ma almeno adesso mi sono tolto un peso».

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Solo il poeta potrebbe cantare «l' ira funesta» del dottor Nino Di Matteo, il pm più scortato d' Italia, protagonista del processo sulla trattativa Stato-mafia, spirito inquieto che entrò in conflitto con molti colleghi di Palermo, con il capo della Superprocura antimafia, e ora al Csm è destinato a entrare in guerra pure qui. Dopo il suo sfogo televisivo di domenica notte, il dottor Di Matteo è diventato protagonista di una nuova guerra. Fratricida, si potrebbe dire, perché ora è in conflitto con chi, il Movimento Cinque Stelle, lo ha idolatrato fino al giorno prima. Ma siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, è chiaro che sapeva quel che faceva. «I fatti sono quelli. E non sono pentito di averli raccontati. Ricordo tutto nei particolari. Per me è stato un episodio indimenticabile e non c' è nessun equivoco». Così si è sfogato con diversi interlocutori, ieri, in una giornata trascorsa tutta al telefono. Siccome a parlare di «equivoco» sono stati i grillini, è evidente con chi ce l' ha. Con chi vuole farlo passare per un pasticcione e un visionario. Nossignore. «Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore, tra un lunedì sera e un martedì mattina. E quel che non posso accettare, è che si metta in discussione la mia lealtà». Con Bonafede, però, è amareggiato. «Da cittadino sarei preoccupato per un ministro che in un momento così delicato e con un magistrato così esposto si lasciasse convincere e tornasse indietro. Se chiamarmi e poi cambiare idea è stata una sua valutazione autonoma, non lo so». Lui si dichiara «un soldato della Repubblica». Quando i capi politici del M5S lo contattarono e gli offrirono il ruolo di ministro dell' Interno, e per ben due volte in pochi giorni, e poi cambiarono idea e scomparvero, «mica ho chiesto il perché. Non è mio costume chiedere niente ai politici». Così come quando lo contattò il ministro. «Una chiamata sul mio cellulare, anonima. Sono Alfonso Bonafede. Non ero mica stato io a chiamarlo». Come è finita, ormai è storia. Bonafede gli offrì due incarichi: direzione delle carceri e direzione degli affari penali al ministero. Il primo, incarico molto operativo e di prima grandezza. Il secondo, più oscuro e subordinato a un altro magistrato. «Era un lunedì sera. Mi disse solo che avrebbe preferito avermi al Dap e di decidere presto perché dopo due giorni ci sarebbe stato un plenum del Csm, ancora nella vecchia formazione (era la consiliatura 2014-18 con la vicepresidenza Legnini, ndr), e se avessi scelto il Dap, avrebbero potuto deliberare in giornata di mettermi fuori ruolo». Ebbene, il mattino dopo Nino Di Matteo varcava il portone del ministero («Dove non ero mai più entrato dai tempi del concorso del 1991», ha ricordato a un amico). Ma l' aria era già cambiata. Il ministro aveva scelto un altro per il ruolo del capo delle carceri. «Perché sia avvenuto non lo so e non l' ho chiesto: se ci siano state pressioni politiche, se da parte di qualcuno dei miei colleghi o se da ambienti istituzionali». Nel frattempo c' era stata la sollevazione dei mafiosi al solo ventilare il suo nome. «Cinquantasette boss al 41 bis del carcere dell' Aquila chiesero rapporto al magistrato di sorveglianza, per annunciare che se fosse passato Di Matteo al Dap, sarebbe esplosa la protesta. Mi chiamò un collega della Superprocura per chiedermi se dovevano rafforzare ancora la scorta. Oddio, no. A me già mi toglie il respiro come è ora». Insomma, il dottor Di Matteo s' è tolto un rospo dalla gola. E tutti lì a chiedere: perché ora? «Perché ci sono state centinaia di scarcerazioni di persone vicine a Cosa Nostra con la storia del contagio. Preoccupa solo me? Giletti mi ha chiesto di spiegare come funzionano le cose e io ho spiegato. Oltretutto, se sentivo di avere un debito di riservatezza con Basentini ora non ce l' ho più. E siccome il ministro ha scelto altre persone, non si può dire neanche che mi sto candidando». E però la bestia nera dei mafiosi è nella scomoda posizione di trovarsi in solitudine. «Una dinamica che ho visto molte volte con i collaboratori di giustizia. Finché parlano dettagliatamente di fatti criminali, tutto bene. Viceversa, tutto cambia quando alzano il tiro e chiamano in causa il potere. È successa la stessa cosa con me. Immediatamente si è pensato che io volessi avere chissà quale interesse politico». Il magistrato ha fiutato l' aria domenica sera subito dopo la diretta di "Non è l' Arena". «E' andata bene, Nino, erano tutti dalla tua parte», gli ha spiegato la moglie. Ma lui, già in quel momento, non ha avuto dubbi: «Vedrai che tra due giorni la frittata si rivolta». E così è stato. I grillini lo caricano a testa bassa. I tre colleghi laici del Csm espressi dal M5S sostengono che ha leso l' istituzione. Lui ha sotto gli occhi la loro dichiarazione e trattiene a stento la rabbia. «L'onorabilità di questa istituzione è lesa dalle mille opacità». Comunque, siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, ora si aspetta il peggio. Non solidarietà dai suoi colleghi. Già l' intervista a questo giornale di Armando Spataro, suona da campane a morte. «Proprio lui che quando io portavo avanti l' indagine sulla trattativa Stato-mafia sosteneva che quel processo non andava fatto». Ha confidato ai suoi amici che non si meraviglierebbe persino che sia avviata una iniziativa disciplinare. «Ma li aspetto a pié fermo. Mi difenderò con il coltello tra i denti». E c' è da credergli.

Non si placa l’ira di Di Matteo: “Bonafede cambiò idea a causa dello stop di qualcuno”. Il Dubbio il 6 maggio 2020. Il presidente dei penalisti, Caiazza: “C’è chi ha parassitato l’antimafia per farne una leva politica…” Non accenna a concludersi la lite furibonda tra il magistrato del processo Trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, e il Guardasigilli Alfonso Bonafede. E lo sconcerto dentro il gruppo grillino – che ha avuto bisogno di 24 ore prima di difendere il suo ministro – continua a crescere. In una intervista a Repubblica, Di Matteo non ritratta e anzi rincara la dose, nonostante Bonafede abbia negato la sua versione dei fatti sulla nomina a capo del Dap. «Prima una proposta, poi un’altra» dal ministro Bonafede. «Da allora mi sono sempre chiesto cosa era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta una indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo», ha detto il consigliere del Csm, confermando la sua versione: «Era lunedì 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla Procura nazionale antimafia. Squillò il telefono, era Bonafede. Mi pose l’alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Chiuse il telefono dicendo ’scelga leì». All’indomani, Di Matteo si reca al Ministero per incontrare Bonafede. «Gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui, però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini». Quanto al repentino cambio di idea, Di Matteo afferma: «Non chiesi al ministro Bonafede perché aveva cambiato idea» sulla mia nomina al Dap «ma rimasi sorpreso».

“Non c’è nessun dissenso agli Affari penali”. Ma rilancia la sua ipotesi:«Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all’improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati (che in quel momento era a capo degli Affari penali ndr) perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione». A quel punto, «Tornai da lui e gli dissi che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili». E, a conclusione del racconto, Di Matteo aggiunge: «Come il nostro ultimo scambio di battute, io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali “non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga”. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare».

“Io trattato in modo non consono”. «Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l’esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente».

La reazione delle Camere Penali. Il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, ha commentato dalle pagine del Foglio la vicenda Bonafede-Di Matteo, stigmatizzando il comportamento del magistrato. «Non siamo certo sospettabili di indulgenze nei confronti del ministro Bonafede, il tema dunque è un altro: a che titolo il dottor Di Matteo bombarda il ministro in carica insinuando con chiarezza che la revoca della proposta della sua nomina a capo del Dap sarebbe avvenuta per timore o compiacenza dopo le banali recriminazioni di alcuni detenuti al 41 bis?» È la domanda che si pone Caiazza. «E’ una cosa fuori dal mondo e risponde all’idea, ipertrofica, dell’invadenza della magistratura mediatica sulle dinamiche democratiche. Anche su quelle che non ci piacciono».

Caiazza: Bonafede non deve render conto a Di Matteo. Poi continua: «Oltretutto, non abbiamo capito di cosa stiamo parlando: e se anche Bonafede avesse cambiato idea nottetempo? Oppure se, in virtù delle dinamiche della politica (proposte terze, suggerimenti del presidente della Repubblica o dell’Anm) avesse preferito altri equilibri? Non deve renderne conto a Di Matteo. Non si capisce insomma la ragione di questo attacco a distanza di due anni. Forse Di Matteo sperava di andare a dirigere il Dap adesso». Di certo, aggiunge il presidente Ucpi, «un pm, a maggior ragione se componente del Csm, non può permettersi per nessuna ragione al mondo di chiamare un ministro a discutere delle sue valutazioni politiche. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti». Siamo «all’implosione di un mondo che ha costruito la propria fortuna politica e non solo, anche editoriale e giornalistica, sul parassitismo dell’antimafia». «Alcuni soggetti hanno parassitato l’antimafia per farne una leva politica e di distruzione dell’avversario politico – spiega Caiazza -, è un aspetto che dovrebbe far riflettere seriamente». 

Luca Fazzo per ilgiornale.it il 5 maggio 2020. Un mestieraccio ingrato, più da carceriere che da magistrato, alle prese con strutture fatiscenti e soldi che non bastano mai. A descriverlo così, si faticherebbe a capire come mai il ruolo di capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sia tanto accorsato da diventare in queste ore l'oggetto di uno scontro senza precedenti tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e una delle toghe più famose d'Italia, il palermitano Nino Di Matteo. Certo, sull'altro piatto della bilancia c'è uno stipendio invidiabile: essendo anche il comandante della polizia penitenziaria, il capo del Dap porta a casa una delle buste paghe più pesanti dell'intero apparato statale: 320mila euro all'anno, con ricaduta su Tfr e pensione. Sarebbe però prosaico ridurre a faccenda di quattrini l'aspirazione di Di Matteo a approdare sulla poltrona lasciata libera da Santi Consolo. Il Dap è un posto di potere, ha soprattutto le orecchie lunghe. Nulla, di quanto accade nelle 231 carceri italiane, sfugge al capo del Dipartimento, che riceve per primo le informazioni dei direttori e dei Gom, i temuti nuclei speciali della polizia penitenziaria. E sapere, si sa, significa potere. Se così si capisce perché Di Matteo aspirasse alla carica, più difficile è capire cosa sia andato storto quando il focoso pm siciliano era a un passo dal successo. Di Matteo era il candidato ideale sia come curriculum, occupandosi di mafia da vent'anni, sia come relazioni politiche: vicino a Marco Travaglio e al Fatto Quotidiano, è da sempre - insieme a Piercamillo Davigo, oggi suo compagno di corrente al Csm - una delle toghe più amate dal Movimento 5 Stelle. Quando Bonafede diventa ministro nel governo Conte 1, a giugno 2018, Di Matteo appare il candidato ideale per diventare il suo uomo sul fronte delle carceri. Eppure qualcosa, all'improvviso, si rompe. E la spiegazione più verosimile, tra le tante circolate all'epoca, è che in realtà, alla fine, a decidere non sia stato il ministro Bonafede ma direttamente il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Che di mestiere fa l'avvocato, su livelli più alti di Bonafede. E che nel mondo della giustizia ha rapporti, amici e consiglieri. Nelle ore cruciali in cui prende il via il suo primo governo, Conte ha al suo fianco, ad aiutarlo con pareri e indicazioni, un magistrato: Fabrizio Di Marzio, consigliere di Cassazione e docente universitario, ben introdotto nel mondo della politica romana anche perché siede nella commissione che fa le pulci ai conti dei partiti. Di Marzio, tra l'altro, dirige la rivista dell'Osservatorio sulle Agromafie, di cui Conte è uno dei referee. È in quel contesto che i rapporti tra i due si consolidano. E quando Conte decolla verso i vertici dello Stato, è Di Marzio a sussurrare al suo orecchio. Passa da quel canale anche il niet all'approdo di Di Matteo al ministero? Di Marzio, questo è sicuro, ha un amico che i pregi e i difetti del pm palermitano può averglieli descritti bene: Gian Carlo Caselli, che è stato il suo capo alla Procura di Palermo. E che ne conosce a fondo tanto l'acume investigativo che - come dire - gli spigoli caratteriali.

Dagospia il 6 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Direttore, con riferimento all’articolo di Luca Fazzo “Quella toga amica di Conte  dietro al niet a Di Matteo al  Dap”, da Voi pubblicato il 5.5.20, preciso che con l’amico Fabrizio  Di Marzio non ho mai avuto occasione alcuna di parlare di Nino Di Matteo nelle circostanze e per i motivi di cui all’articolo. Ringrazio per la cortese attenzione  e auguro buon lavoro. Gian Carlo Caselli

Dagospia il 6 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago,la lettera di Giancarlo Caselli al mio giornale sulla spettacolare querelle Bonafede-Di Matteo è interessante anche per la cautela con cui è scritta. Caselli ammette due cose, una esplicitamente: di essere amico di Fabrizio Di Marzio, ex giudice di Cassazione, l'uomo che nei mesi della formazione del primo governo era il consigliere dietro le quinte di Giuseppe Conte e che continua a svolgere questa funzione non si capisce in quale veste. Oltretutto dal curriculum di Di Marzio si scopre che non lavora più in Cassazione. Poichè è troppo giovane per essere andato in pensione, perché ha lasciato la magistratura? In che veste sussurra all'orecchio di Conte? E perché Caselli è suo amico (anche se curiosamente, nella prima versione della lettera che ci ha mandato, lo chiama Maurizio anzichè Fabrizio)? La seconda ammissione che Caselli fa è implicita: e cioè di avere parlato con Di Marzio del povero Nino Di Matteo. Infatti nella sua lettera Caselli nega di avere affrontato con l'amico il tema Di Matteo "nelle circostanze e per i motivi di cui all'articolo", ovvero la nomina di Di Matteo al Dap. Io ho scritto una cosa diversa: che Caselli all'amico Di Marzio aveva verosimilmente confidato, anche in altra epoca, le sue opinioni su Di Matteo, pregi e difetti. Questo Caselli non lo nega. E rimane così la curiosità di capire quali fossero queste opinioni. Grazie per l'attenzione. Luca Fazzo

Alfonso Bonafede, il "no" a Di Matteo non è "farina del suo sacco". Chi ha dato l'ordine da "molto in alto". Libero Quotidiano il 6 maggio 2020. Quel “no alla nomina di Di Matteo al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dal) non è opera sua. Alfonso Bonafede “di menate ne ha fatte tante, ma il no non è farina del suo sacco. È venuto da molto, molto in alto”. Dal Quirinale forse? E’ quanto rivela un esponente grillino del governo ad Augusto Minzolini che riporta il retroscena su Il Giornale. E così il capo della delegazione Cinque Stelle al governo rischia di pagare a caro prezzo quel sogno interrotto. “Il caso”, aggiunge un big della maggioranza, “potrebbe essere il sassolino nell'ingranaggio che provoca l'incidente irreparabile per Conte e il suo governo”. Certo l’idea di Bonafede aveva un suo perché dal punto di vista del Movimento. Peccato che il magistrato, ricorda Minzolini, “era stato anche il grande accusatore nel processo sulla trattativa Stato-mafia, quella dei primi anni '90, che si imperniò proprio sul fatto che nell'estate del '93 il responsabile del Dap dell’epoca decise di togliere centinaia di mafiosi dal regime di carcere duro”. Una vicenda che ha tormentato i piani più alti delle istituzioni. “Furono distrutte un unicum nella storia di un Paese come il nostro le intercettazioni di quattro conversazioni telefoniche tra l'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano e l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino”, aggiunge Minzo. Insomma, mai Colle poteva essere vista di “buon occhio l'idea di nominare Di Matteo al Dap”.

I membri 5Stelle del Csm avvisano Di Matteo: “Ora continenza…” Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 5 maggio 2020. Lo scontro tra il pm della presunta Trattativa Stato-mafia e i consiglieri pentastellati di palazzo dei Marescialli. «Continenza e cautela». Arriva dai consiglieri del Csm in quota M5s il primo “stop” alle esternazioni di Nino Di Matteo. Con una nota, i laici pentastellati Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti ricordano che «i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio». Oggetto della reprimenda, pur senza mai citarlo, l’ex pm antimafia Nino Di Matteo e la sua dura presa di posizione nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7.Di Matteo, intervistato domenica scorsa a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, aveva “accusato” Bonafede di aver sostanzialmente ceduto ai boss non nominandolo al vertice del Dap. Una vicenda “tenuta riservata” (parole del magistrato siciliano) fino ad ora e gettata sulla pubblica piazza a distanza di due anni.Le affermazioni di Di Matteo avevano scatenato una violenta polemica politica con la richiesta, da parte delle opposizioni e dei renziani di Italia viva, di dimissioni di Bonafede che, oltre ad essere il ministro della Giustizia è anche il capo delegazione del Movimento. Esprimiamo, proseguono i tre consiglieri, «forte preoccupazione per il clima venutosi a creare, specie in un momento in cui la giustizia necessiterebbe di unità e collaborazione tra tutti gli operatori, nell’interesse del Paese e dei cittadini. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa – aggiungono, quindi, i laici del M5s – rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. E’ quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm». Una presa di posizione forte che cerca di “salvare” il Guardasigilli, allentando il fuoco di fila di queste ore su via ArenulaDomani Bonafede, infatti, risponderà sul punto al question-time alla Camera. Il dibattito si preannuncia incandescente in quanto molti parlamentari hanno già fatto sapere che chiederanno di conoscere i reali motivi per cui il ministro, a giugno del 2018, dopo aver offerto a Di Matteo l’incarico di n. 1 del Dap, decise di cambiare idea, preferendogli Francesco Basentini. La giustificazione fornita da Bonafede sarebbe che aveva proposto a Di Matteo un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia, cioè di direttore degli Affari penali. Una spiegazione che non ha convinto dato che quell’ufficio non esiste più da anni, a seguito della riorganizzazione del Ministero, avendo cambiato nome in Direzione Affari interni. Un ufficio non apicale come il Dap e che, soprattutto, non si occupa di contrasto alla mafia. Cosa succederà al Csm adesso è difficile prevederlo.Il fatto che l’attacco a Di Matteo venga dai laici del M5s suscita più di un interrogativo. Di Matteo, oltre ad aver partecipato ad eventi organizzati dal Movimento, è da sempre l’idolo dei grillini che avrebbero voluto lui, e non Bonafede, come ministro della Giustizia. Di Matteo è stato eletto ad ottobre dello scorso anno a Palazzo dei Marescialli nelle liste di Autonomia&indipendenza, la corrente che ha in Piercamillo Davigo il punto di riferimento ed è oggi “alleata” con le toghe progressiste di Area. A&i ed Area contano cinque consiglieri a testa. A questi dieci togati si sommano i tre laici in quota M5s ed il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (Area). Sulla carta, dunque, 14 voti che garantiscono una solida maggioranza. La presa di distanza dei laici pentastellati da Di Matteo rischia di mettere in discussione gli equilibri al Csm, dove anche un voto è determinante.

Di Matteo rischia il procedimento disciplinare al Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'8 maggio 2020. Per il codice etico dell’Anm, il magistrato deve avere una corretta “interlocuzione” con la stampa, evitando una sovraesposizione mediatica, il “protagonismo”, ovvero la “costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati”. Le recenti affermazioni di Nino Di Matteo sulla mancata nomina a capo del Dap da parte di Alfonso Bonafede potrebbero costare all’ex pm antimafia l’apertura di un procedimento disciplinare. Il decreto legislativo 109 del 2006, “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati”, nel richiamare il magistrato al rispetto dei doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetto della dignità della persona” nell’esercizio delle funzioni e al di fuori di esse, vieta “comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Il codice etico dell’Anm, poi, sottolinea che il magistrato debba avere una corretta “interlocuzione” con la stampa, evitando una sovraesposizione mediatica, il “protagonismo”, ovvero la “costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati” con i media in relazione all’attività del proprio ufficio. Pur mantenendo fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato deve ispirarsi “a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa”. I precedenti specifici non mancano. Come non ricordare, ad esempio, la vicenda dell’ex gip di Milano Clementina Forleo che era intervenuta alla trasmissione Annozero di Michele Santoro segnalando “sottili pressioni” da parte di “poteri forti” durante l’inchiesta Bnl-Unipol e lamentando l’isolamento dei colleghi? Nei confronti della magistrata venne immediatamente aperto un procedimento disciplinare, poi conclusosi con una archiviazione, ed avviata una pratica di trasferimento da Milano per incompatibilità ambientale. Il potere disciplinare spetta al procuratore generale della Corte di Cassazione e al ministro della Giustizia. Mentre quest’ultimo ha “facoltà” di promuovere l’azione disciplinare, il pg della Cassazione ha “l’obbligo” di esercitarla. Difficile, comunque, visti i richiami da più parti a Bonafede e Di Matteo di “chiarire” l’accaduto che il Guardasigilli possa procedere. Potrebbero, invece, essere gli stessi consiglieri del Csm a “sollecitare” il pg della Cassazione. I laici in quota 5s hanno preso le distanze dal pm antimafia. Un comportamento che è stato stigmatizzato dal togato di Autonomia&indipendenza, la corrente con cui è stato eletto al Csm Di Matteo, Sebastiano Ardita.I consiglieri del Csm, per la cronaca, godono della stesse guarentigie dei parlamentari, non essendo “punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione”. Il vice presidente del Csm David Ermini ha scelto la strada del silenzio. L’ex responsabile giustizia del Pd non ha intenzione di essere trascinato nelle polemiche che contraddistinguono questa burroscosa consiliatura. Ma quando ci sono di mezzo i magistrati il low profile non è mai facile.

L'intervento. Il Csm detta linee guida per i magistrati ma i suoi membri non sono tenuti a rispettarle…Giorgio Varano su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Le esternazioni (definiamole così) del dott. Di Matteo, consigliere in carica del Csm, portano alla ribalta un tema sempre passato sotto silenzio, un “incredibile ma vero” che dura ormai da troppi anni: le linee guida del Csm sulla comunicazione dei magistrati non valgono per i magistrati che siedono a Palazzo dei Marescialli. In Italia, dunque, tutti i magistrati devono attenersi alle regole deliberate dai consiglieri del Csm sulla comunicazione, tranne loro. Il perché? “Incredibile ma vero 2”: «L’aspetto precettivo e sanzionatorio, infatti, mal si concilia con lo svolgimento di un simile elevato compito istituzionale essendo lecito ritenere che la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione sia connaturata al livello etico dei componenti eletti». Così ha stabilito il Csm stesso, in una delibera del 2010. Ora, le esternazioni di un consigliere del Csm, per una questione di due anni prima dal tenore personale o equivocabilmente ben peggiore, espresse in diretta tv contro il ministro della Giustizia in carica (grazie anche alla retorica dell’antimafia da tv) rendono lecito ritenere che non ci si possa più affidare a una presunzione assoluta di consapevolezza dei doveri insiti nella funzione. Perché il Csm, che ha affermato di voler superare in maniera strutturale la devastante crisi a cui l’istituzione è stata sottoposta, non rende obbligatorie le linee guida anche per i propri consiglieri? Certo, poi nascerebbe un imbarazzo. Quello di valutare il comportamento di un proprio appartenente, magari vicino di sedia nel plenum. Ma questo imbarazzo potrebbe essere superato esaminando la condotta del singolo componente in relazione ai doveri dei consiglieri. Doveri? “Incredibile ma vero 3”, non ce ne sono. Leggendo infatti il regolamento interno del Csm (2018), scorrendo le centotrentuno pagine non troverete mai la parola “dovere”. Non ne è previsto alcuno specifico relativo al ruolo di consigliere, tutto viene rimandato quindi ai codici etici delle singole categorie di appartenenza, come se il consigliere, togato o laico che sia, non avesse dei doveri specifici impostigli dal ruolo. La volontà del Csm di uscire dalla crisi, di “autoriformarsi”, è rimasta dunque una mera dichiarazione di intenti sotto molti aspetti. Il magistrato “quisque de populo” ha l’obbligo di tenere presente che «la fiducia nella giustizia è in qualche modo collegata alla rappresentazione che della stessa viene data attraverso i mezzi di informazione», pertanto la comunicazione diventa «strumento principale per la costruzione di un rapporto fiduciario tra i cittadini e il sistema giudiziario», e deve evitare la «costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione», «l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi» (risoluzione 2010). Per i consiglieri del Csm tutto questo non vale. Perché non estendere semplicemente il dovere di osservanza delle linee guida sulla comunicazione dei magistrati anche ai componenti del Csm? Perché non prevedere nel regolamento interno anche dei doveri di comportamento dei consiglieri? A proposito, nel 2019 il Procuratore nazionale antimafia, Cafiero De Raho (serissimo magistrato che infatti lavora nelle procure, non nelle tv), rimosse con provvedimento immediatamente esecutivo il Dott. Di Matteo dal pool che indaga sulle stragi. A seguito di una intervista di quest’ultimo – a sua discolpa, all’epoca non era consigliere del Csm, quindi non aveva “la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione” – De Raho ritenne “incrinato il rapporto di fiducia all’interno del gruppo”. A oggi il Csm, in quanto organo, nemmeno attraverso il proprio ufficio stampa, ha preso le distanze dal comportamento del Dott. Di Matteo. Dunque, possiamo stare sereni: non appare incrinata la fiducia all’interno del gruppo. P.s. Nel frattempo un primo risultato miracoloso queste esternazioni l’hanno ottenuto. Il ministro Bonafede parlando alla Camera ha affermato che, alla luce del nuovo quadro sanitario nazionale, sta valutando l’emissione di un decreto per fare ritornare in carcere i detenuti scarcerati perché maggiormente esposti al rischio di contrazione del virus, a causa delle loro precarie condizioni di salute. Li renderà dunque immuni per sempre, per decreto-miracolo, spazzando il pericolo del contagio nelle carceri. Nei tribunali non c’è ancora riuscito a spazzarlo via, ma i miracoli si fanno uno alla volta, lo sanno tutti. I miscredenti magistrati di sorveglianza che non crederanno al decreto-miracolo saranno mandati al rogo senza nessuna “pratica a tutela” da parte del Csm, come avvenuto finora?

Regolamento di conti nel Csm, ma sullo sfondo ci sono i movimenti per l’Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Aprile 2020. Una intervista di un consigliere laico diventa l’occasione per regolare i conti all’interno del Csm, ridisegnando equilibri e alleanze in vista della prossima tornata elettorale per il rinnovo dell’Anm, originariamente in calendario il mese scorso e rinviata al prossimo giugno a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. L’occasione per il “redde rationem” togato è stata offerta dalle dichiarazioni di Alessio Lanzi, membro laico in quota Forza Italia, rilasciate alla Stampa questa settimana. Il laico forzista aveva criticato il clima che si era creato in Lombardia, parlando di spettacolarizzazione da parte dei pm milanesi nella gestione delle indagini sulle morti sospette per coronavirus nelle case di riposo lombarde. L’indignazione del professore milanese, oltre che sul fuoco di sbarramento dei media sull’amministrazione di centrodestra della Regione Lombardia, si era concentrata sulle modalità di conduzione delle investigazioni. In particolare, una girandola di perquisizioni show effettuate senza soluzione di continuità dal tandem guardia di finanza/nas carabinieri, su delega dei pm, nelle Rsa lombarde e negli uffici della Regione Lombardia. Perquisizioni e sequestri di montagne di documenti rigorosamente eseguiti alla presenza di giornalisti e a favore degli operatori televisivi, verosimilmente non avvisati dai manager indagati delle Rsa. «Se si voglio acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità», le parole “incriminate” di Lanzi. Giuseppe Cascini, togato di Area, il gruppo di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica, aveva chiesto conto delle affermazioni al consigliere milanese. «Il compito del Csm – secondo Cascini – è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente». La pratica a tutela è un istituto a cui il Csm ricorre quando sente minacciata l’autonomia e l’indipendenza di qualche Procura. Durante gli anni frizzanti del berlusconismo e dello scontro politica-magistratura erano frequentissimi i casi in cui vi si ricorreva a Palazzo dei Marescialli. «Non c’è stata alcuna delegittimazione della Procura di Milano», regno incontrastato delle toghe di sinistra, hanno replicato i togati di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, rimasta travolta l’anno scorso dall’indagine sul pm romano Luca Palamara. «Le dichiarazioni di Lanzi risultano espressione di libero esercizio del diritto di critica: volevamo un dibattito ma c’è stato impedito», si legge in un comunicato diffuso ieri dai tre consiglieri di Mi al Csm. La voglia di riscatto delle toghe di Mi è tanta. Dopo aver vinto le elezioni al Csm nel 2018, il gruppo di cui faceva parte Paolo Borsellino è finito all’opposizione.  L’obiettivo per la prossima tornata elettorale è chiaro: catalizzare il voto dei magistrati stufi della contrapposizione politica. Sarà un miraggio?

L’Anm bacchetta Di Matteo: «Un magistrato deve esprimersi con misura e nelle sedi opportune». Il Dubbio il 6 magio 2020. L’Associazione nazionale magistrati prende posizione sulla querelle Bonafede-Di Matteo: «È sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, soprattutto per un membro del Csm». La bacchettata all’ex pm di Palermo e attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo arriva dall’Associazione nazionale magistrati. Il sindacato delle toghe diffonde una nota durissima a corredo dell’infuocato dibattito di questi giorni che vede contrapposti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e lo stesso Di Matteo. E pur senza citare il magistrato della “trattativa Stato-mafia”, l’Anm lancia un monito severissimo. «Per i magistrati della Repubblica, ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero, è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici e le sedi ove svolgerli nonché tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le Istituzioni», recita il comunicato, facendo implicito riferimento alla telefonata in diretta alla trasmissione “Non è l’Arena” di Giletti in cui Di Matteo svelerebbe il retroscena della sua mancata nomina al Dap. Il ministro Bonafede, secondo la ricostruzione dell’ex pm, avrebbe ceduto alle pressioni, assecondando il qualche modo le «reazione di importantissimi capimafia» alla notizia di un suo possibile insediamento al Dap. Ed è proprio per censurare queste fughe in avanti che l’Anm prende ufficialmente posizione. Perché l’accortezza e la correttezza istituzionale sono imperativi per «tutti i magistrati, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale», conclude il sindacato togato. Se non è un messaggio ad personam, poco ci manca.

L'Anm si schiera col Guardasigilli e striglia il pm Antimafia. Ma in passato l'ha sempre difeso. Luca Fazzo, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale.  Il linguaggio è un po' curiale, come se l'obiettivo fosse di farsi capire solo dagli addetti ai lavori: cosa già singolare per l'Associazione nazionale magistrati. Ma ancora più singolare è che dietro il paludamento si celi l' attacco non solo a un magistrato ma anche a una facoltà, entrambi finora strenuamente difesi dal sindacato delle toghe. Il magistrato è Nino Di Matteo, pm antimafia e oggi membro del Csm: la facoltà è quella per qualunque giudice di dire la sua come e quando gli pare, in convegni e interviste, in aula e sul web, a tutela della libertà di parola garantita dalla Costituzione più bella del mondo a tutti i suoi cives, magistrati compresi. E invece stavolta l'Anm mazzola Di Matteo per avere parlato troppo. Per capire che i colleghi ce l'hanno davvero con lui bisogna (titolo a parte) arrivare alla penultima riga, quando per meglio indicare i destinatari dell'appello scrivono che «ciò è richiesto a tutti i magistrati, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale». Tradotto: è richiesto a Di Matteo, in quanto membro del Consiglio superiore. Bene. E quali sarebbero i precetti cui tutti, e soprattutto Di Matteo, dovrebbero attenersi? «Esprimersi con equilibrio e misura», valutare «con rigore l'opportunità di interventi pubblici», tenere conto «delle ricadute che le loro dichiarazioni possono avere». Viene da dire: volesse il Cielo, o - come dicono a Napoli - fuss a 'Maronna. Dopo decenni in cui ha assistito silente (quando andava bene) o plaudendo a esternazioni di ogni tipo, da quelli che «rivolteremo l'Italia come un calzino» a chi diceva che «i torturatori sono al vertice della polizia», l'Anm scopre la virtù teologale del riserbo. Meglio tardi che mai, per le rivoluzioni copernicane a volte servono secoli, stavolta ne è bastato mezzo. Certo, fa un po' effetto che a venire tirato per le orecchie sia lo stesso magistrato, Di Matteo, che in passato poté dirne di tutti i colori senza che il suo diritto di manifestazione del pensiero venisse messo in discussione: compreso quando accusò il Csm, di cui da lì a poco avrebbe fatto parte, di essere governato da metodi mafiosi. Cos'è cambiato da allora? Che Di Matteo ha osato attaccare il ministro Bonafede, verso cui l'Anm mostra incomprensibile sudditanza. I sindacati che stavano col padrone, negli anni Cinquanta venivano chiamati «sindacati gialli». Come bisogna chiamare l'Anm?

Di Matteo ennesimo caso. La lottizzazione della magistratura: 200 Pm che si spartiscono poltrone d’oro. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che la separazione dei poteri in Italia è una chimera, apra subito il sito istituzionale del Ministero della giustizia e legga i nomi dei capi dipartimento e dei responsabili degli uffici di diretta collaborazione del Guardasigilli. Scoprirà che sono tutti (tutti) magistrati collocati, previa autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura, “fuori ruolo”. L’argomento non è nuovo. Il recente scontro fra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede a proposito dell’incarico, capo del Dap o direttore degli Affari penali, che sarebbe stato offerto all’ex pm antimafia dal ministro appena insediatosi a via Arenula ha, però, fatto tornare di attualità questa tematica che si trascina stancamente da anni fra mille polemiche. Tralasciando infatti il caso in questione – Di Matteo è da sempre una icona per i grillini – in che modo i ministri della Giustizia scelgono i loro più stretti collaboratori? La regola non “scritta” prevede che il numero uno di via Arenula effettui una “consultazione” con i referenti delle varie correnti dell’Anm. I capi delle correnti indicano allora al ministro i rispettivi candidati. Normalmente la scelta ricade su magistrati che hanno fatto vita associativa in mood attivo. Toghe, insomma, che hanno dato prova di stretta adesione al gruppo, scalando tutti i gradini della corrente fino al raggiungimento di posizioni di rilievo. Si cerca di trovare una mediazione fra i desiderata del ministro e quelli dei ras delle correnti. Lo scopo è garantire la rappresentanza delle varie anime dell’associazionismo giudiziario in proporzione al consenso elettorale della singola corrente. Una sorta di manuale Cencelli togato. Nella scorsa legislatura, Guardasigilli Andrea Orlando (Pd) e maggioranza relativa al Csm dalla parte del cartello progressista di Area con ben sette consiglieri su sedici, il ministro della Giustizia era “monopolizzato” dalle toghe di sinistra. Erano di area progressista il capo di gabinetto e i suoi due vice, il capo dell’ufficio legislativo, il capo dell’ispettorato e il suo vice. Unicost, il gruppo di centro che aveva cinque consiglieri al Csm, esprimeva il capo dipartimento organizzazione giudiziaria e dei servizi e il suo vice, più diversi direttori generali: giustizia civile, servizi, personale e della formazione. Magistratura indipendente, la corrente di destra con solo tre consiglieri a Palazzo dei Marescialli, aveva il capo del Dap e il suo direttore generale, oltre al vice capo ufficio legislativo. Bonafede, cambiata la gerarchia del potere in magistratura con l’ascesa dei davighiani a discapito delle toghe progressiste, aveva puntato su magistrati vicini al gruppo dell’ex pm di Mani pulite, effettuando anche colloqui con i potenziali candidati. Vedasi, appunto, Di Matteo. La commistione tra politica e magistratura ha tante controindicazioni. Viene meno il principio di indipendenza in quanto il magistrato, accettando il fuori ruolo, deve condividere l’indirizzo politico del ministro. E si creano carriere parallele dal momento che pur non scrivendo una sentenza la toga avanza nelle valutazioni di professionalità. E poi ci sono gli stipendi che si attestano per questi incarichi mediamente sui 240mila euro lordi. Tranne il caso del capo Dap: la maxi retribuzione viene “trascinata” anche quando si termina l’incarico e vale ai fini pensionistici. Rita Bernadini con i Radicali aveva provato negli anni a stoppare, senza riuscirci, questa “tradizione”. Al momento il numero dei magistrati fuori ruolo è fissato in 200. La durata dell’incarico non può superare i dieci anni. Tornando invece a Di Matteo, nella serata di ieri è arrivata la reprimenda da parte dell’Anm. «Ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero – si legge in una nota – è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le istituzioni».

Nino Di Matteo, Augusto Minzolini: "Ecco perché ha sputtanato Alfonso Bonafede". Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Un tempo, anzi forse soltanto fino a domenica, era vicinissimo al M5s. Si parla di Nino Di Matteo, il pm preferito (o ex preferito) da Marco Travaglio e grillini, insomma un "re" del giustizialismo. Poi, però, quella telefonata a Massimo Giletti e Non è l'arena, le accuse neppure troppo velate ad Alfonso Bonafede, che lo avrebbe prima scelto per il Dap salvo cambiare idea dopo un piao di giorni per alcune inquietanti pressioni. Insomma, una telefonata che sancisce, anche a livello pubblico, una clamorosa rottura. E che soprattutto mette a rischio il futuro di Bonafede alla Giustizia e, anche, quello dell'intero governo (che accadrà sulla sempre più probabile mozione di sfiducia?). E sulle ragioni di quella telefonata, ragiona e indaga Augusto Minzolini in un retroscena pubblicato su Il Giornale, che ricostruisce le "fila del giustizialismo nostrano", i comportamenti delle persone in ballo, a partire da Di Matteo, uno che "non guarda in faccia nessuno", eroe grillino, grande accusatore nel processo sulla trattativa Stato-mafia, "quella dei primi anni '90, che si imperniò proprio sul fatto che nell'estate del '93 il responsabile del Dap dell'epoca decise di togliere centinaia di mafiosi dal regime di carcere duro". Insomma, uno che vive per la giustizia e che lo ha fatto a modo suo, con accuse roboanti e clamorosi eccessi giustizialisti. Minzolini, dunque, arriva a delle conclusioni. "Se si sceglie questa chiave di lettura si capisce perché Di Matteo abbia sputtanato - l'espressione è azzeccata - un ministro amico come Bonafede: per lui il processo sulla trattativa, il Dap e tutto il resto, sono ferite ancora aperte", sottolinea Minzolini. E ancora: "Si arguisce perché il primo a scendere in difesa del Guardasigilli sia stato il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, e non un grillino. Si intuisce perché l' intemerata contro Di Matteo l' abbia recitata l' ultimo capo delle toghe rosse, il magistrato Armando Spataro, mentre l' icona grillina tra i giudici, Piercamillo Davigo, sia rimasto in silenzio", conclude.

Il linciaggio. Di Matteo accusa Bonafede di concorso esterno in associazione mafiosa. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Ti sei fatto ricattare dalla mafia! E tu parli per sensazioni e travisi la realtà!  Ha il sapore della faida il corpo a corpo che domenica sera poco prima di mezzanotte ha visto protagonisti non due ragazzotti sul ring di una palestra di periferia, ma un consigliere del Csm e un ministro della repubblica. Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Se non proprio mafioso, quanto meno imputabile di concorso esterno. È questa l’immagine che Nino Di Matteo dà del ministro di giustizia Alfonso Bonafede. Lo fa nel corso di una puntata-gogna di una trasmissione che non sarà l’Arena, come pretende il titolo, invece pare del tutto simile al luogo dove venivano perseguitati i cristiani. Con l’esibizione dei corpi, anche. La vittima predestinata questa volta è proprio il guardasigilli, non invitato, mentre il conduttore, con il contorno consenziente di personaggi come Luigi de Magistris e Catello Maresca, una volta ottenute, con la trasmissione precedente, la dimissioni del capo del Dap Basentini, azzanna alla gola una povera funzionaria, rea di aver inviato una mail in ritardo. Anche lei deve essere licenziata. Si canta e si suona tra persone che la pensano allo stesso modo. Ma il boccone è poco consistente, quindi si torna a fare le pulci a tutta quanta l’organizzazione delle carceri italiane, al vertice delle quali finalmente sono arrivati due magistrati cosiddetti, con il solito strafalcione incostituzionale, “antimafia”. Si può stare tranquilli per il futuro, si dice, ma intanto la frittata è fatta, i mafiosi passeggiano giulivi nei parchi delle loro città perché nessuno ha provveduto, come incautamente ricorda l’ex ministro Martelli, magari con una “norma interpretativa” (cioè abrogativa) delle leggi esistenti, a riacciuffarli tutti. Cioè a dire, sia il ministro della giustizia che l’ex capo del Dap sono stati due incapaci, dovevano violare la legge e lasciar morire in carcere qualche vecchio moribondo pur di mostrare i muscoli. Ah, se ci fosse stato a dirigere le carceri Di Matteo, sospira Massimo Gilletti. Lo evoca, ed eccolo. Mancato ministro, mancato capo del Dap, cacciato dall’Antimafia, entrato per il rotto della cuffia dopo dimissioni di altri al Csm con il sostegno del suo amico Davigo, dovrebbe stare un po’ caché, come dicono i francesi. Invece no, alza il telefono quasi fosse stato in attesa della parola d’ordine, ed entra a cavallo nella trasmissione. Lancia subito sospetti nei confronti dell’autonomia del ministro Bonafede, anche lui sottoposto, lascia capire, al ricatto della mafia. Ma è proprio un pallino, il suo. Portare il processo “trattativa” ovunque. Chiunque rappresenti lo Stato, tranne lui, è condizionato dai mammasantissima. Certo, va detto che Alfonso Bonafede gli ha rubato il posto, non dimentichiamolo. Era Di Matteo che avrebbe dovuto diventare ministro di giustizia nel 2018. Lui era pronto e si è visto scavalcato da uno qualunque. Vendetta, tremenda vendetta. E’ giunto il momento di fargliela pagare. Anche perché, sempre nel 2018, questo modesto ministro riconfermato si è permesso di proporgli la presidenza del Dap o in alternativa il prestigioso ruolo che fu di Falcone come Direttore generale degli affari penali, e poi gli ha soffiato la prima poltrona (preferendogli un Basentini qualunque) e gli ha riservato solo la seconda. Perché? Perché i capimafia nelle carceri avevano protestato: se arriva al Dap Di Matteo, quello butta la chiave, dicevano. Il ministro ci ha ripensato, dice il magistrato. Poi, allusivo: o qualcuno lo ha indotto a ripensarci. Ci risiamo. Dopo aver insultato i giudici di sorveglianza quasi fossero fiancheggiatori della mafia solo perché avevano applicato alcuni differimenti di pena, ora è la volta del ministro. Colpito e affondato. In studio si comportano tutti (con l’eccezione dell’ex jena Giarrusso che non sa più come difendere il suo ministro) come ragazze coccodè intorno al loro mito e alla sua ricostruzione dei fatti. Fedele, onesta e leale, la definisce il suo ex collega de Magistris. Martelli gli domanda come mai lui non abbia chiesto spiegazioni sul dietrofront di Bonafede. Per orgoglio, sussurra con modestia il magistrato. Tutti annuiscono compunti. Si potrebbe chiudere il sipario con il funerale del ministro e la beatificazione dell’ex Pm, tanto che viene accolta con fastidio, mentre è ancora aperto l’audio di Di Matteo, la chiamata di Bonafede, che è “esterrefatto” e quasi piange al telefono, nel ricordare quanto tasso di antimafia e di forcaiolismo lui abbia nel sangue. Dà inutilmente la sua versione dei fatti e viene trattato come la cugina impresentabile che viene nascosta quando arrivano gli ospiti importanti. Faccia presto, si sbrighi che abbiamo cose più importanti, gli fanno capire. Fa tenerezza, anche perché nessuno ricorda che un ministro nomina chi ritiene all’interno del suo dicastero. E non deve certo render conto al partito dei professionisti dell’antimafia. Ma il guardasigilli è ormai diventato un pungiball su cui chiunque ritiene di potersi esercitare. Tutti i partiti dell’opposizione ne chiedono le dimissioni ignorando chi detiene oggi il vero potere, e il Pd che non lo sa difendere, tranne l’ex ministro Orlando che ritiene sarebbero scandalose le dimissioni a causa dell’opinione di un magistrato. Persino il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, forse vedendolo debole, gli rifila una lezioncina sulla divisione dei poteri, ricordandogli di agire su delega dell’autorità giudiziaria e non del ministero. Intanto per ora la vicenda finirà con una seduta parlamentare in cui ci sarà una gara di forche alte verso il cielo da parte di tutti, speriamo con qualche singola eccezione. Chi salverà il soldato Bonafede? Pier Camillo Davigo, se lo vorrà. È l’unico più potente di Di Matteo. Ieri mattina era dato sul treno della contro-immigrazione Milano Roma, nel primo giorno della fase due anticovid. Chissà se è andato a consolare il suo allievo. 

Nino Di Matteo, il pm che accusava gli innocenti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Ma guarda un po’ se alla fine ti tocca persino difendere Alfonso Bonafede! È che quando prende la parola Nino Di Matteo ti viene da difendere chiunque lui accusi, perché sai di non sbagliarti. Se lui accusa vuol dire che quello è innocente. La biografia di Di Matteo è abbastanza limpida sotto questo punto di vista. Da giovane si fece strada indagando sull’uccisione di Paolo Borsellino. Fece un bel lavoro: insieme ad altri suoi colleghi scovò un pentito formidabile che raccontò loro per filo e per segno come andarono le cose. Si chiamava Scarantino questo pentito. Loro lo ascoltarono bene e poi arrestarono tutti i colpevoli: l’indagine la chiusero lì. Poi si scoprì che Scarantino aveva raccontato solo balle, e loro si erano fatti prendere in giro e non avevano verificato. Scagionati i condannati, ma ormai era troppo tardi per trovare i colpevoli veri e capire cosa era successo. Non lo sapremo mai. Allora Di Matteo cercò di riscattarsi. E, andando appresso al suo collega Ingroia, mise sul banco degli imputati l’unico personaggio ancora vivente di quelli che la guerra alla mafia l’aveva fatta davvero, incastrando e catturando decine di boss autentici, a partire dal capo dei capi, Totò Riina.  Questo personaggio, che è uno dei giganti della lotta alla mafia, è il generale Mori: oggi è in pensione e deve pensare a difendersi da accuse scombiccherate e già smentite molte volte in altri processi, ma purtroppo la giustizia funziona così: un pugno di Pm si è fissato con la storia della trattativa Stato mafia e non molla. Se ne infischia delle assoluzioni che in altri processi arrivano a pioggia e scagionano tutti. E ti processa allegramente, anche se sa che tu sei quello che ha dato il contributo maggiore a ridurre la mafia nelle condizioni di debolezza nelle quali si trova oggi. A questo punto Di Matteo si è dato alla politica politica. Cioè la politica fatta in prima persona dal partito dei Pm. Ha trovato un posto alla Procura nazionale antimafia, ma dopo pochi mesi l’hanno buttato fuori perché parlava troppo con giornali e Tv. E allora lui è riuscito a farsi portare da Davigo al Csm. E ogni giorno tuona contro la mafia, dando a tutti del reggicoda dei mafiosi. Persino a questo povero ministro lo ha detto, che sicuramente è il ministro della Giustizia più forcaiolo della storia della Repubblica e che proprio ‘sto fatto di finire sotto il martello di Di Matteo non se l’aspettava. Come possono succedere queste cose? Succedono quando i partiti liberali si fanno intimidire da quelli delle manette e gli corrono appresso. In questi giorni sta succedendo al Pd e anche a Italia Viva. Chissà se questa nuova esibizione del partito dei Pm, e del suo alfiere più pittoresco, alla fine non li farà ragionare…

Di Matteo accusa Bonafede di mafia, intervenga Mattarella. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Lo scontro tra l’ex Pm Di Matteo, membro autorevole del Csm, e il ministro Bonafede si sta allargando. Nei 5 Stelle si è aperta la guerra. I consiglieri laici del Csm che fanno capo ai 5 Stelle si sono dissociati da Di Matteo. È andata in crisi l’alleanza che controlla la maggioranza del Consiglio, cioè quella tra la sinistra giudiziaria e la destra di Davigo. Perché Di Matteo è un “soldato” di Davigo, e la sua rivolta fa saltare tutti gli equilibri. Cosa vuole Di Matteo? Evidentemente voleva essere nominato capo del Dap. Invece Bonafede gli ha preferito Petralia. E lui non ci sta. Anche perché Bonafede gli aveva promesso quel posto già due anni fa, quando governava con Salvini, e poi non aveva mantenuto. Fatto fuori per la seconda volta? Di Matteo si è infuriato per questo sgarbo e ha chiamato Giletti per lanciare accuse feroci contro Bonafede. Ha detto che il ministro ha ceduto al ricatto dei mafiosi. Secondo lo schema abitualmente usato da Di Matteo questa accusa equivale a “concorso esterno in associazione mafiosa”. È un reato per il quale si rischiano 10 anni di prigione senza benefici né sconti. Perché è così ambito il posto di capo del Dap? Per varie ragioni. Dà potere. È un posto “politico”. Può essere un trampolino. E poi è anche ben pagato: credo circa 320 mila euro all’anno, molto più di un posto da ministro o da deputato. Una bella poltrona, dicevano una volta i 5 Stelle. Ora – come scrive l’ex parlamentare radicale Franco Corleone su questo giornale – si pone il problema di cosa farà il presidente della Repubblica. È il capo del Csm. Ha ricevuto il giuramento di Bonafede. Può far finta che non sia successo niente e credere all’ipotesi – un po’ umoristica – di Marco Travaglio, che ha scritto sul Fatto (testualmente), riferendosi allo scontro tra Di Matteo e Bonafede, che “è stato solo un colossale equivoco tra due persone in buonafede”? Un mancato intervento del Quirinale potrebbe costare caro alla credibilità del governo e di una istituzione fondamentale come il Csm.

Su rivelazioni Di Matteo assurdo il silenzio di Mattarella ed Ermini. Franco Corleone su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Una volta ci si lamentava che Porta a porta di Bruno Vespa costituisse la Terza Camera, oggi con la crisi conclamata del Parlamento ci si è ridotti alla copia riveduta e scorretta di un giornalista che preferisco non nominare. Durante una trasmissione televisiva il magistrato Nino Di Matteo che fa parte del Csm e il ministro della Giustizia Bonafede si sono esibiti in un duetto sgangherato sulla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2018. Non si capisce la ragione della rivelazione dopo due anni, ma se viene fatta da chi vive di teoremi e complotti, non può essere casuale. Forse si tratta della ripicca per la mancata seconda offerta dopo le dimissioni di Basentini, messo sulla graticola per una presunta responsabilità nella scarcerazione di alcuni detenuti eccellenti per gravi patologie. Altre erano le responsabilità del vertice del Dap che di fronte a una vera possibile emergenza sanitaria annunciò misure restrittive senza alcun dialogo e provocò rivolte in più di venti carceri come non accadeva da cinquant’anni. Una vera Caporetto che non ha ancora trovato una soluzione di monitoraggio, prevenzione e cura: solo la fortuna ha evitato che in galera non si sia verificata un’ecatombe simile a quella toccata agli ospiti delle case di riposo. Le misure nei decreti per ridurre il sovraffollamento sono state timide, prudenti e condite con il rilancio del rassicurante braccialetto (in realtà cavigliera), fino ad ora noto solo per lo sperpero di denaro pubblico. In realtà nelle celle si continua ad essere troppo vicini e con condizioni igieniche e sanitarie deplorevoli, con i lavandini attaccati alla tazza del cesso. Ma per le vestali della legalità, questa non è una vergogna sesquipedale da eliminare immediatamente. Lo scandalo si concretizza quando alcuni magistrati di sorveglianza decidono l’incompatibilità con la detenzione domiciliare per alcuni detenuti di calibro gravemente malati e prossimi al fine pena. Nessuna considerazione per 13 detenuti morti, invece. Pietà l’è morta, davvero. Torniamo al battibecco tra Di Matteo e Bonafede che ha al centro l’accusa al ministro di non avere proceduto alla nomina del magistrato palermitano al capo del Dap per paura delle reazioni dei capi mafia ristretti nelle sezioni del 41bis. La difesa di Bonafede è patetica. Viene svelato un triste mercato per l’occupazione di fondamentali incarichi di responsabilità. Altro che la vituperata lottizzazione della Prima Repubblica. Di fronte a questo spettacolo increscioso (miserabile, avrebbe detto Ugo La Malfa), è inquietante il silenzio del presidente della Repubblica che nomina i ministri sulla base di un giuramento che impegna a esercitare le funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione e che è il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Nemmeno una parola da parte del vice presidente del Csm David Ermini. Le istituzioni ricevono un duro colpo e la crisi della democrazia e dello Stato di diritto pare irrimediabile. Sono solo peccati di omissione o segno di complicità? Neppure la pandemia fa prevalere il senso di umanità e l’egemonia giustizialista mette nell’angolo il Papa e la sua Via Crucis, la Corte Costituzionale e le sue sentenze, i magistrati garantisti e gli avvocati impegnati con i volontari e i garanti per i diritti. Manca la politica e un soggetto politico con l’ambizione di perseguire un disegno alternativo al populismo penale. La “Società della Ragione” che negli scorsi anni si è battuta per la cancellazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe e per la chiusura degli Opg, nella sua assemblea del 30 aprile ha deciso di lanciare una sfida ambiziosa. Ripresentare nel Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga a fine giugno una proposta di una riforma radicale; il 29 luglio nell’anniversario della morte di Sandro Margara porre sul tappeto i cambiamenti del carcere per rispettare la Costituzione; infine lanciare una campagna per la modifica degli strumenti di clemenza (amnistia, indulto e grazia) e delle norme del Codice Rocco sull’imputabilità dei malati di mente. Proprio ora nel fuoco della crisi sociale va scritta con coraggio un’agenda del cambiamento, contro l’arroganza del senso comune e della paura.

Da mesi chiediamo le dimissioni di Bonafede, oggi no. Davide Faraone su Il Riformista il 4 Maggio 2020. Nessuno tocchi Bonafede. Perché noi non cambiamo idea a seconda delle stagioni o delle convenienze politiche. Perché per noi la separazione dei poteri è un principio irrinunciabile ed è intollerabile un processo in piazza da parte di un magistrato, membro del Csm, nei confronti di un politico, qualsiasi maglietta indossi. Perché noi siamo seri e questa faccenda l’abbiamo affrontata cinque mesi fa al Senato con l’intervento di Matteo Renzi. Zitto Bonafede, zitti tutti. Da mesi chiediamo le dimissioni del ministro della giustizia ma oggi no. Oggi che il destino ridicolo si è abbattuto su chi si è servito dei processi in piazza per poi rimanervi vittima, no. E lo facciamo perché in gioco c’è qualcosa di più importante della poltrona di via Arenula, della nostra visione garantista che è alternativa a quella dei cinque stelle. C’è in gioco la democrazia. E secondo me anche il buon gusto. Domenica sera da Giletti non è andato in onda un botta e risposta tra due amici, cresciuti a pane e giustizialismo, è andata in scena la politica a libertà vigilata, il governo agli arresti domiciliari, una democrazia in cui regna il vuoto politico. Craxi del vuoto e della debolezza della politica provava orrore, Bonafede è oggi vittima, ieri è stato artefice. Di questo dobbiamo parlare, di una deriva populista che investe tutti i poteri dello Stato. Perché non è serio quello che è successo domenica sera. E se fossi stato al posto di Bonafede, paragonato a uno Zagaria qualunque, avrei scelto il silenzio e avrei chiesto immediatamente un chiarimento al ministero e non in un talk show. Ma Bonafede è Bonafede, quel vuoto politico che consente a chiunque di poter aspirare ai pieni poteri. Nessuno tocchi Bonafede, ma da domani o la politica ha il coraggio, la forza e l’autorevolezza di affermare quei principi di libertà che risiedono, per dirla alla Montesquieu, nella separazione dei poteri o l’Italia, culla del diritto, confondendo la politica con la giustizia penale, rischierà di diventarne la tomba. Così scrisse Giovanni Falcone.

La poltrona del Dap vale 320mila euro l’anno. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Dietro lo scontro per la poltrona del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ci sono solo ragioni ideali ma una super indennità che i magistrati mantengono per tutta la vita. Trecentovemtimila euro. Seicento e passa milioni del vecchio conio. E’ il valore della poltrona del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che si occupa dei detenuti e delle carceri italiane. A quanto pare male vista la situazione disastrosa dei nostri istituti di pena e la condizioni, al limite dell’inumano (fonte Cedu), nelle quali sono costretti a vivere i detenuti. Insomma, dietro lo scontro per sedere sull’ambitissima poltrona del Dap non ci sono solo motivi “ideali”. Ammesso che si possano considerare tali i motivi di chi usa il carcere come strumento punitivi e repressivo e non come mezzo rieducativo e di reinclusione sociale. In un lungo e informatissimo articolo, il Segretario Generale Aggiunto del Sappe, Giovanni Battista de Blasis, spiegava che il problema delle carceri italiane sta proprio in quello stipendio monumentale del capo del Dap: “Inevitabilmente, la poltrona di capo del Dap – scrive de Blasis – è uno degli incarichi dirigenziali più ambiti e desiderati dello Stato italiano. Per questa ragione, nonostante siano anni, forse decenni, che continuiamo a lanciare sos sulla necessità che a capo del Dap sia nominato un manager, esperto di organizzazione e, soprattutto, di gestione delle risorse umane, continuiamo a subire la nomina di Capi Dipartimento che non hanno alcuna cognizione di che cosa significhi comandare un Corpo di polizia e senza esperienza manageriale in senso stretto”. Non solo, de Blasis spiega anche che chi diventa capo del Dap mantiene quei 320mila euro per tutta la vita. Insomma, uno stipendio dal Dap è per sempre.

Di Matteo e Bonafede? Una questione da 160mila euro. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Continua in maniera feroce la polemica tra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Di Matteo è il pm di Palermo che credette a Scarantino e mandò a puttane l’inchiesta sull’omicidio di Paolo Borsellino, quello che ha costruito il grande processo sulla trattativa Stato-mafia che poi è stata demolita in moltissimi altri processi. E’ quello che andò alla procura nazionale anti-mafia ma che dopo qualche mese fu mandato via dal procuratore poiché “parlava troppo” rilasciando troppe interviste. La rottura con Bonafede è misteriosa. Perché una delle icone del Movimento 5 Stelle ha rotto con i grillini? Abbiamo fatto due conti, forse influenzati dal modo di pensare dei 5 Stelle. Abbiamo visto che Bonafede ha proposto a Di Matteo di fare il direttore del Dipartimento degli affari penali o di fare il capo del Dap. Di Matteo, dopo averci pensato, ha detto al ministro “Voglio fare il capo del Dap”. A quel punto Bonafede ha detto “No devi fare il direttore del Dipartimento degli affari penali“. Qui nasce il caso. Il capo del Dap guadagna 320 mila euro, il direttore del Dipartimento degli affari penali “solo“ 160 mila. Il capo del Dap è il magistrato più privilegiato d’Italia, guadagna molto più del presidente di Cassazione, dei deputati. Perché Di Matteo avrebbe dovuto guadagnare la metà e così rinunciare a 160 mila euro? Su questa polemica, intanto, si sta aprendo una grande crisi istituzionale che coinvolge il presidente della Repubblica, che avrebbe bloccato due anni fa la nomina di Di Matteo. C’è di mezzo il ministro della giustizia accusato dall’ex Pm di “concorso esterno in associazione mafiosa“. C’è Di Matteo che ha fatto saltare la maggioranza rosso-bruna del Csm. Tutto per una questione di 160 mila euro. La toga è sacra, finché non arriva qualche vantaggio politico o economico.

Scontro Di Matteo-Bonafede, i grillini scaricano il Pm adorato. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Si rompe il fronte “delle manette” al Csm. Per la prima volta nella storia, i consiglieri laici grillini “criticano” Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato-mafia e magistrato di riferimento della base pentastellata.  Con una nota diffusa ieri mattina, i laici in quota M5s Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti sottolineano come “i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio”. Nel mirino, l’attacco di Di Matteo sferrato nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. In collegamento telefonico, a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, il magistrato siciliano aveva “accusato” Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018. Parole durissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigili, scatenando una violenta polemica politica. “Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa – proseguono i laici del M5s – rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. E’ quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm”. La difesa pancia a terra del Guardasigilli anticipa l’intervento che Bonafede oggi pomeriggio terrà alla Camera sull’accaduto. Il ministro si era subito giustificato dicendo di aver proposto a Di Matteo anche un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, quello di direttore degli Affari penali, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia. Un ufficio che, leggendo però l’organigramma di via Arenula, non esiste. La sparata televisiva a scoppio ritardato di Di Matteo e la presa di distanza dei laici pentastellati rischia ora di provocare un terremoto al Csm, il secondo, dopo il “Palamara-gate”, incrinando l’asse di ferro fra i Davighiani, le toghe di sinistra e, appunto, i laici grillini. Di Matteo, un passato da toga progressista, poi transitato in Unicost ricoprendo l’incarico di segretario distrettuale dell’Anm del capoluogo siciliano, lo scorso ottobre venne “folgarato” da Davigo, accettando di correre per le elezione suppletive del Csm nelle liste di Autonomia&indipendenza, il gruppo fondato dall’ex pm di Mani Pulite. Su 26 componenti del Csm, l’asse “rosso-bruno” ne conta adesso 13, a cui si deve aggiungere il voto del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, toga progressista. “Sfilandosi” Di Matteo, c’è la parità perfetta e nessuna maggioranza predefinita. Ci sarà da divertirsi.

Pd non è giustizialista, avvisare le procure antimafia è buon senso. Franco Mirabelli su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Le recenti polemiche sulle scarcerazioni di diversi, forse troppi, uomini legati alla mafia e detenuti in alta sicurezza o per il 41 bis, richiedono alcune precisazioni. Innanzitutto credo sia senza fondamento l’idea di riconoscere in questo passaggio, nella preoccupazione per l’uscita dei boss e nelle norme contenute nel recente decreto, una svolta giustizialista del Pd. In questi mesi abbiamo lavorato e lavoriamo in coerenza col passato. Sia sull’emergenza carceri come sulla riforma del processo penale per noi resta centrale il tema dell’allargamento degli spazi per l’utilizzo delle pene alternative al carcere, per introdurre misure fondate sul risarcimento a fronte dei reati meno gravi, per non far entrare nel circuito penale gli autori di reati bagatellari. Ricordo che è stato il Pd ad impedire che la direzione delle carceri cambiasse natura dando, come si voleva fare col riordino delle carriere, ai comandanti degli agenti le stesse funzioni attribuite ai direttori. Avevamo e abbiamo questa idea della pena, siamo ancorati ai principi costituzionali e consideriamo prioritario l’obbiettivo di garantire a chi viene condannato la possibilità di trovare percorsi non solo punitivi ma utili per avere a fine pena possibilità di reinserimento e per trovare opportunità di vita che rompano col passato. In secondo luogo non è vero che ci sia da parte nostra alcuna volontà di ridimensionare il ruolo della magistratura di sorveglianza. Abbiamo difeso e continueremo a difendere le prerogative e l’autonomia di chi deve decidere sui benefici e valutare i percorsi e le condizioni di salute dei detenuti. Anzi abbiamo riconosciuto l’importanza delle decisioni assunte, in questi difficili mesi in cui il Covid19 ha reso esplosiva la questione della sovrapopolazione delle carceri, che hanno consentito di ridurre la popolazione carceraria da 61 a 53 mila unità. È grazie alle normative vecchie e nuove, ma soprattutto al lavoro dei magistrati di sorveglianza, se ciò è avvenuto e di questo l’intero Paese deve essere loro grato. Per noi esprimere preoccupazione, che dovrebbe essere di tutti, per il numero significativo di boss mafiosi tornati a casa non significa, e lo abbiamo detto a chiare lettere anche in Antimafia, accusare la magistratura ma piuttosto guardare agli errori e alle sottovalutazioni del DAP nella gestione delle richieste di benefici da parte di detenuti dell’alta sicurezza o per il 41 bis, che, in corrispondenza della pandemia, si sono moltiplicate. Su questo e non certo sul lavoro della magistratura la stessa commissione Antimafia ha deciso di indagare. Detto questo resta il punto di come rispondiamo al clamore che hanno suscitato, in particolare, alcune scarcerazioni. Questo non deve e non può rischiare di tradursi nell’idea di uno Stato che ha abbassato la guardia nella lotta alla mafia. È un problema che riguarda tutti coloro che hanno a cuore la battaglia contro la criminalità organizzata. Affrontare questa questione riproducendo la narrazione di una contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sbagliato. Non è questo il tema. Il tema è come mettiamo i capi mafia nelle condizioni di non nuocere più alla società pur rispettando il loro inalienabile diritto alla salute. Per comprendere meglio e evitare di considerare la norma contenuta nell’ultimo decreto come una violazione dell’autonomia della magistratura di sorveglianza, o peggio un atto ostile o, addirittura, eversivo perché interverrebbe con decreto su una modifica delle competenze, vorrei stare al merito. C’è una norma dell’ordinamento carcerario (l’articolo 4bis al comma 3 bis) che dice che permessi premio e misure alternative al carcere non possono essere concessi se il procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunicano che permangono collegamenti con la criminalità organizzata. Con la norma contenuta nel decreto si chiede semplicemente ai magistrati di sorveglianza, prima di prendere decisioni, di informare questi soggetti in modo che essi possano verificare se permangono collegamenti dei detenuti con le mafie che renderebbero pericolosa la scarcerazione. Mi pare una norma di buon senso. Trarre da questa misura l’idea che governo e Pd sono appiattiti su posizioni giustizialiste mi pare, onestamente, difficile.

Senatore Mirabelli, vorrei farle solo una domanda. Secondo lei fare uscire dal carcere un signore di 80 anni, gravemente malato di tumore, che ha già scontato quasi per intero la sua condanna a 18 anni (gli mancano 8 mesi) che non ha mai ucciso nessuno né mai ha ordinato un omicidio (condannato per estorsione) equivale a mettere in libertà il gotha dei boss mafiosi? Sa perché glielo chiedo? Io penso che il giustizialismo sia questo: lanciare allarmi infondati e chiedere misure d’eccezione per fronteggiarli. A spese dei diritti di tutti. Lei non crede che il suo partito, in questi giorni, sia corso appresso ai giustizialisti? Piero Sansonetti

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020. Un equivoco. Sgradevole quanto si vuole ma pur sempre un equivoco, niente di più. Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede prova a chiudere l' incidente con l' ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo. Icona grillina della prima ora, e forse anche per questo individuato come possibile governatore delle carceri italiane dallo stesso ministro della Giustizia, appena insediatosi nel giugno 2018. Ma nel giro di ventiquattr' ore la proposta fu ritirata, con un «voltafaccia» di cui il magistrato non ha mai avuto spiegazioni. Oggi una spiegazione è arrivata: quella del malinteso, per l' appunto. Che però non può bastare, perché non si può declassare a fraintendimento la ritrattazione di un' offerta così importante che nemmeno il ministro smentisce. Né è credibile immaginare che l' altro incarico prospettato a Di Matteo e improvvisamente ritenuto «più adatto» (il posto di Direttore generale degli Affari penali del ministero), potesse essere considerato equivalente o addirittura migliore. Dire che «fu l' ufficio di Giovanni Falcone» è solo un altro slogan, perché nel frattempo quell'ufficio è stato depotenziato, ha cambiato collocazione e competenze, e si sarebbe dovuto mettere mano a una riforma per riportarlo a qualcosa di equiparabile a quello che era. Le ricostruzioni dei due contendenti divergono soprattutto sulla percezione avuta da Di Matteo nel primo colloquio con il ministro, il quale aveva capito che «fossimo concordi su quella collocazione», mentre il magistrato intendeva accettare l' altra. Ma al di là dell'equivoco più o meno credibile, il nodo che Bonafede non ha sciolto resta un altro: perché ha cambiato idea rinunciando a nominare l'ex pm della trattativa Stato-mafia al vertice dell' Amministrazione penitenziaria? Scelta legittima e persino insindacabile, per carità. Se però si decide di darne conto - sia pure attraverso una irrituale telefonata semi-notturna in diretta televisiva, in risposta a un' altrettanto irrituale chiamata in cui il magistrato ha svelato il retroscena taciuto per due anni - la motivazione dev'essere almeno verosimile. Bonafede s'indigna all'insinuazione che il dietrofront fu dovuto alle proteste dei detenuti mafiosi per il temuto arrivo di Di Matteo, e ne ha tutto il diritto. Tuttavia un' altra ragione ci deve essere per aver virato, dalla sera al mattino, su un altro candidato: Francesco Basentini, nome che al popolo grillino diceva poco o niente. Non per questo non adatto all' incarico, sebbene i due anni di gestione e l' epilogo consumatosi pochi giorni fa possano legittimare i dubbi. Ma continua a mancare un chiarimento. Divenuto ormai ineludibile secondo i canoni istituzionali, prima ancora che del Movimento Cinque Stelle di cui Bonafede guida la delegazione governativa. Se il ministro non avesse replicato all' irruzione di Di Matteo (anch' essa discutibile, visto il ruolo istituzionale che ricopre da componente del Consiglio superiore della magistratura), o si fosse limitato a respingere ogni sospetto rivendicando la propria autonomia nelle scelte politiche di così alto livello, avrebbe forse potuto chiudere il caso. Con spiegazioni poco plausibili invece no. È possibile che la repentina marcia indietro del ministro su Di Matteo sia dovuta a qualche consiglio arrivato nel breve intervallo tra la prima e la seconda proposta, come ipotizzato dallo stesso magistrato. Ma pure in questo caso, visto che ormai l' episodio è stato squadernato in diretta tv, sarebbe meglio dirlo. Senza necessità di svelare altri particolari. Un ripensamento, autonomo o indotto, non è motivo di scandalo. Basta essere chiari, una volta che ci si inerpica sulla strada della trasparenza. Sempre più invocata che praticata, secondo vizi antichi che nemmeno la politica sedicente nuova riesce a scrollarsi di dosso.

I dubbi e le vergogne sulla querelle Bonafede-Di Matteo. Troppe le domande serie e pesanti senza risposta in una storia che sarebbe costata la crisi per qualsiasi Governo di centrodestra e che oggi passa quasi sotto silenzio. Maurizio Tortorella il 6 maggio 2020 su Panorama. Tanti dubbi, di certo qualche bugia e alcune omissioni, e tutt'intorno giornali e tv immersi un clima di fischiettante disattenzione, come se la querelle che ha opposto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il magistrato antimafia Nino Di Matteo fosse questione irrilevante. I fatti: domenica sera, a Non è l'Arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti su La7, si parlava di carceri e mafiosi liberati, e dei disastri combinati negli ultimi mesi dal Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, affidato dal ministro al dimissionario Francesco Basentini. A un certo punto, però, Di Matteo chiama in diretta e rivela una storia che, da sola, farebbe cadere qualsiasi governo di centrodestra. Il pm palermitano, che dal 2019 siede come membro togato nel Consiglio superiore della magistratura (per la corrente fondata da Pier Camillo Davigo), rivela che nel giugno 2018 Bonafede, appena insediatosi al ministero come ministro guardasigilli del primo governo Conte, l'aveva chiamato per proporgli di diventare "o il capo del Dap, o in alternativa il direttore generale degli Affari penali". Di Matteo ricorda di aver chiesto 48 ore di tempo per rispondere. Poi sottolinea con forza un particolare di gravità assoluta: "Nel frattempo" , dice, "e questo è molto importante che si sappia, alcune note informative redatte dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap". Quelle reazioni, ovviamente, erano state più che negative. "Trascorse le 48 ore, o forse già l'indomani" continua Di Matteo nella telefonata in diretta "io andai a trovare Bonafede perché avevo deciso di accettare la nomina al Dap. Il ministro, che pure fu molto cortese, mi disse però che ci aveva ripensato, che aveva pensato di nominare per quel posto Basentini, e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli Affari penali nel quale mi vedeva meglio". Il magistrato conclude: "Io rimasi colpito da quell'improvviso cambiamento di proposta. Il ministro ci aveva ripensato, o forse qualcuno l'aveva indotto a ripensarci; questo io non lo posso sapere. Il giorno dopo gli dissi di non contare su di me, perché non avrei accettato". Una rivelazione sconvolgente e sconcertante, insomma: uno dei pubblici ministeri più vicini al Movimento 5 stelle, l'uomo che gli stessi Cinque stelle considerano un'icona dell'antimafia, ipotizza oggi a freddo che il ministro grillino della Giustizia due anni fa avesse subìto pressioni che l'avrebbero indotto a cambiare idea sulla sua nomina al Dap. Sono affermazioni tanto gravi da indurre Bonafede a intervenire nella trasmissione, a sua volta in diretta. Il ministro si dice "esterrefatto" di quanto ha sentito, però conferma tutto il racconto di Di Matteo. Gli contesta solamente «l'idea che io, in virtù di chissà quale paura sopravvenuta, avrei ritrattato la mia proposta: è un'idea che non sta né in cielo né in terra». Così dice Bonafede, aggiungendo però una frase ambigua: «È una percezione, legittima, del dottor Di Matteo». Il ministro conclude facendo leva soprattutto sulla proposta alternativa che due anni fa ha fatto a Di Matteo: "Gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli Affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia, il ruolo ricoperto da Giovanni Falcone". Con queste parole, Bonafede cerca insomma di dimostrare di aver voluto a tutti i costi accanto a sé Di Matteo. È come se dicesse: io gli ho proposto il massimo tra quel che avevo a disposizione, ma alla ne è stato lui a non accettare. Questo, però, non corrisponde al vero. Perché nel giugno 2018, quando Bonafede s'è appena insediato, la direzione degli Affari penali del ministero della giustizia che nel maggio 1991 il ministro Claudio Martelli aveva affidato a Falcone in quanto «cabina di regia» del ministero, non esiste più. Meglio: non è più quella da quasi vent'anni, è stata depotenziata e ridimensionata. Dal 1999, cioè dalla riforma della Pubblica amministrazione di Franco Bassanini, il ministero della Giustizia si regge su quattro Dipartimenti che sotto di sé hanno varie direzioni generali: questi sono uffici secondari, burocratici. E la direzione generale degli Affari penali che Bonafede vorrebbe dare a Di Matteo è proprio uno di questi uffici. Quindi, se è plausibile che l'importante guida del Dap venga offerta a un magistrato della caratura di Di Matteo, l'altra proposta - quella della direzione degli Affari penali - è inverosimile. E è appena ammissibile che Bonafede potesse ignorarlo nelle sue prime settimane al ministero, due anni fa. Ma è del tutto impossibile che il ministro grillino possa continuare a non saperlo oggi: è anzi letteralmente incredibile che il ministro continui a fare confusione tra un suo capo Dipartimento e un direttore generale. Deve sapere per forza quanto sono diversi quei due ruoli: il primo, per esempio, parla direttamente con il ministro, mentre il secondo no; il primo ha uno stipendio di 320.000 euro, il secondo ne guadagna 180.000. Sull'importanza della direzione generale offerta a Di Matteo, quindi, Bonafede non dice il vero. Ma c'è di peggio: perché nel giugno 2018 la direzione generale degli Affari penali ha già un titolare, e quindi Bonafede non può nemmeno offrirla a Di Matteo. Tre mesi prima, infatti, e per l'esattezza il 21 marzo 2018, il suo predecessore Andrea Orlando l'ha affidata a un serio magistrato, Donatella Donati: e dato che si tratta di una nomina triennale, costei è ancora in quel ponto, tecnicamente inamovibile no al marzo 2021. C'è chi tenta oggi di censurare la gravissima querelle tra Di Matteo e Bonafede (il Tg1 non ne ha nemmeno fatto cenno) o di derubricarla a banale "equivoco" tra i due. L'ha scritto ieri, per esempio, il Fatto quotidiano, negli ultimi mesi divenuto particolarmente filogovernativo e lo-grillino. Il suo direttore Marco Travaglio, di solito accurato e documentato, nell'editoriale di ieri ha scritto: "Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione affari penali (che già era stata di Falcone) o il Dap". E continua a difendere a spada tratta Bonafede, aggiungendo che "chi vuole compiacere i boss non ore a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Claudio Martelli agli Affari penali, non al Dap". Ma questo non corrisponde al vero, come abbiamo visto. E anzi accende il neon di un altro punto interrogativo sul comportamento del ministro nel giugno 2018. Perché in quel momento Bonafede avrebbe la possibilità di offrire a Di Matteo, in alternativa alla guida del Dap, una poltrona davvero importante, un ruolo che assomiglia molto da vicino a quello affidato nel 1991 a Falcone: è il posto di capo del Dag, il Dipartimento affari di giustizia. A metà del giugno 2018, quando il ministro parla e s'incontra con il magistrato antimafia, il responsabile (/) / del Dag è ancora da nominare. Bonafede lo sceglierà soltanto il 27 di quel mese. Non sarà Di Matteo, ma Giuseppe Corasaniti, procuratore aggiunto della Cassazione. Certo, sulla questione restano irrisolti molti altri dubbi. Possibile che i grillini accettino senza problemi che un'ombra così grave oscuri il loro ministro della Giustizia? E com'è possibile che il presidente della Repubblica non abbia almeno chiesto chiarimenti? Va ricordato, in proposito, che Sergio Mattarella è presidente del Csm, di cui Di Matteo fa parte: è possibile che il Consiglio non abbia sentito la necessità di fare chiarezza su un tema così importante? Ma le domande riguardano anche Di Matteo: perché parla soltanto oggi, a quasi due anni dalla vicenda? Lo fa perché, come ha scritto qualcuno, oggi avrebbe voluto essere chiamato per il posto di capo del Dap, lasciato libero dal dimissionario Basentini? E ancora, visto che Di Matteo è uno dei pubblici ministeri del controverso procedimento palermitano sulla presunta "Trattativa" fra Stato e Cosa nostra, partita proprio sulla gestione dei capi di Cosa nostra in carcere, e visto che in qualche misura insinua che il ministro della Giustizia abbia assoggettato le sue scelte a quel che accadeva in prigione, tra i boss mafiosi, perché in questi due anni non ha adottato alcuna iniziativa?

Dagospia il 7 maggio 2020. Testo di Paolo Cirino Pomicino. Una Italia confusa e smemorata. La confusione. La denuncia fatta da Nino di Matteo nella trasmissione di Giletti circa pressioni da parte di detenuti mafiosi sul ministro della giustizia Alfonso Bonafede, vecchio dj siciliano, perché non nominasse a capo della polizia penitenziaria lo stesso di Matteo è una notizia di reato. E tanto più lo è in quanto di Matteo riferisce che quelle pressioni fecero addirittura cambiare una decisione già assunta dallo stesso ministro. Insomma un attentato ad un corpo dello Stato e chi lo dice è un magistrato senza macchia e senza paura. Il perché il di Matteo non abbia segnalato alla procura di Roma questo episodio è un mistero visto che lo stesso reato lo ha contestato ad un autorevole gruppo di carabinieri,  dal generale Mori al generale Subranni  passando per il capitano de Donno. E meraviglia che essendo diventata la notizia di pubblico dominio, ancora oggi ne ’Palermo ne’ Roma se ne stiano interessando aprendo una indagine. La smemoratezza. Oggi il fatto quotidiano ricorda il decreto Andreotti con il quale furono riarrestati i mafiosi del maxi processo intentato da Giovanni Falcone che erano usciti per decorrenza dei termini. Quel decreto però  non fu nel giugno del 1991 come ricorda il Fatto ma nel settembre 1989 (Andreotti-Vassalli) e Scotti, che racconta fantasie, non era neanche al governo mentre nel parlamento Luciano Violante lo contrasto’ con durezza inimmaginabile come risulta dagli atti parlamentari. Passata la pandemia alcuni dovrebbero andare in una confortevole residenze per anziani.

L'intervista all'ex direttore del Sisde. Intervista a Mario Mori: “Parole Di Matteo aberranti, politica tace perché ha paura dei magistrati”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2020. «Ma come si permette un magistrato della Repubblica di attaccare il ministro della Giustizia in diretta televisiva?». Mario Mori, generale dei carabinieri in pensione, ex comandante del Ros e direttore del Sisde, da qualche decennio è imputato in servizio permanente effettivo presso la Procura di Palermo. Tre i processi aperti contro di lui dai magistrati siciliani. Nel primo l’accusa era di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Con Mori era imputato il colonnello Sergio Di Caprio, alias il capitano Ultimo. Il processo si è concluso con l’assoluzione per entrambi. Nel secondo l’accusa era di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Coimputati erano il colonnello Mauro Obinu e il generale Giampaolo Ganzer, successore di Mori al Ros. Di Matteo, che rappresentava la pubblica accusa, aveva chiesto una condanna a nove anni di carcere. L’impianto dell’accusa si basava essenzialmente sulla testimonianza, dimostratasi inattendibile, di Massimo Ciancimino. Assoluzione per tutti, sia in Tribunale che in Corte di Appello. Infine c’è il processo Trattativa Stato-mafia. Nel dibattimento, all’inizio condotto dall’allora procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, l’accusa è stata rappresentata nuovamente da Di Matteo. Ad aprile del 2018 la sentenza di primo grado con la condanna a dodici anni di carcere. L’appello è in corso.

Generale, lei è critico con Di Matteo per via dei suoi processi?

«Guardi, le mie vicende processuali esulano dal giudizio sulle parole pronunciate di Di Matteo che, voglio ricordarlo, ha di fatto accusato il ministro di non averlo nominato al vertice del Dap a causa del “condizionamento” dei boss al 41 bis».

Una nuova “trattativa”?

«Quello che è accaduto l’altra sera in tv è semplicemente aberrante. Io che ho qualche anno sulle spalle non ho memoria di un magistrato che si rivolge a un ministro con quei modi. È mancato totalmente il senso delle istituzioni».

Lei però adesso esprime giudizi molto duri.

«Io parlo ora che sono in pensione. Quando ero in servizio non mi sono mai permesso di criticare i miei comandanti o l’autorità politica.

Il colonnello Di Caprio, suo stretto collaboratore, ha “difeso” Di Matteo stigmatizzando chi ha ostacolato la sua attività di magistrato».

Adesso è in pensione anche lui.

«Di Caprio esprimeva giudizi critici anche quando era in servizio…E ha sbagliato. Se vuoi criticare i tuoi superiori o chiunque altro, ti togli la divisa. Non puoi venire meno al giuramento di fedeltà prestato alle istituzioni».

Crede che ci sia una sorta di “sudditanza psicologica” nei confronti del dott. Di Matteo?

«Io non ho mai creduto alla sudditanza psicologica. Penso invece che molti abbiano una grande coda di paglia. Soprattutto la classe politica».

Sono terrorizzati?

«È impossibile esprimere una critica nei confronti di un magistrato in questo Paese. Tutti hanno paura. Adesso se mi espongo chissà cosa succederà, si domandano».

Il centrodestra ha messo nel mirino il ministro della Giustizia chiedendone le dimissioni.

«E sta sbagliando. Perché attaccare Bonafede è come sparare sulla Croce rossa. È Di Matteo a dover essere criticato. L’unico che ha preso posizione sulla vicenda è stato Armando Spataro, un magistrato in pensione».

Non è proprio possibile fare nulla?

«Siamo indifesi. L’ultimo pm della Procura di Guastalla ha un potere immenso. Può mettere sotto indagine il presidente del Consiglio. Anzi, pure il Papa. Chi ha il coraggio di dire qualcosa?»

“Tutti dentro!”. Bonafede dice che l’emergenza virus è passata e vuol riempire le carceri. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 7 magio 2020. Il guardasigilli segue le sirene dei “professionisti dell’antimafia” e studia il modo di far tornare in cella i detenuti messi ai domiciliari dai magistrati di sorveglianza. È in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41 bis». La notizia più importante il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la riserva per la fine del suo intervento alla Camera. È in Aula il Guardasigilli per rispondere per rispondere all’interrogazione, presentata dal deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, sullo “scontro” in atto tra via Arenula e il magistrato Nino Di Matteo sulla nomina del Capo del Dap del giugno 2018. Bonafede risponde colpo su colpo alle accuse mosse dalle opposizioni e alle «illazioni» sul suo operato avanzate in tv proprio dall’ex pm palermitano. Ma alla fine cede alle pressioni interne ed esterne al suo partito, il Movimento 5 Stelle, e annuncia la retromarcia. I 376 detenuti per mafia beneficiari delle misure alternative a causa dell’emergenza covid torneranno in galera. Oltre la metà di loro, 196, non ha ancora una condanna definitiva. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti in attesa del giudizio di primo grado. Bonafede, dunque, torna sui suoi passi per non finire impallinato in Aula ( a breve potrebbero arrivare mozioni di sfiducia nei suoi confronti dalle opposizioni ma anche da Italia Viva) ma prima prova a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. «Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria», scandisce a Montecitorio, nel tentativo di confutare una volta per tutte il “teorema Di Matteo”, secondo cui il Guardasigilli avrebbe scelto un altro magistrato alla guida del Dap dopo la «reazione di importantissimi capimafia» alla notizia di un possibile arrivo del pm della “Trattativa”. «Ogni ipotesi o illazione emersa in questi giorni è del tutto campata in aria», spiega Bonafede, «perché, come emerso dalla ricostruzione temporale dei fatti, le dichiarazioni di alcuni boss erano già note al ministero dal 9 giugno 2018 e quindi ben prima di ogni interlocuzione con il diretto interessato». Il ministro definisce poi «surreale» il dibattito di questi giorni, anche se per attaccare deve difendersi. E ribadire alcuni concetti già espressi nelle ore precedenti. A Di Matteo Bonafede avrebbe voluto affidare «o il vertice dell’amministrazione penitenziaria oppure un ruolo che fosse in qualche modo equivalente alla posizione ricoperta a suo tempo da Giovanni Falcone, a seguito di riorganizzazione», cioè il direttore degli Affari penali del ministero. E per l’inquilino di Via Arenula, proprio questo secondo incarico calzava a pennello per il pm antimafia, anche «perchè avrebbe consentito al dottor Di Matteo di lavorare in via Arenula, al mio fianco». Il Guardasigilli pulisce gli schizzi di fango arrivati in questi giorni, nella convinzione di non dover dimostrare a nessuno il suo impegno contro le mafie. «La linea della mia azione da ministro è stata, è, e sempre sarà improntata alla massima determinazione nella lotta alla mafia», continua in Aula. «Basta semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla Spazzacorrotti fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della Direzione nazionale e delle Direzioni distrettuali antimafia sulle richieste di scarcerazione». E infine mete in chiaro la supremazia della politica sulle chiacchiere: «Anche con riferimento alla recente nomina del nuovo Capo Dipartimento, ho seguito mie valutazioni personali nella scelta, la cui discrezionalità rivendico». Ma alle opposizioni la risposta del ministro non basta. Lega e Fratelli d’Italia chiedono maggiori chiarimenti a Bonafede, mentre per Forza Italia è il responsabile “Giustizia” Enrico Costa a replicare in Aula. «Nel premettere che noi consideriamo inappropriato che un membro del Csm utilizzi una trasmissione televisiva per accusare il Guardasigilli di essersi piegato alla mafia», dice il deputato azzurro, «il ministro della Giustizia ha una diretta responsabilità grande come una casa: aver legittimato, coccolato e rafforzato personaggi che mettono sotto i piedi le garanzie, la presunzione di innocenza, che usano i mass media per rafforzare la loro immagine e le loro inchieste, che sparano a zero sulle istituzioni e sui loro rappresentanti», è l’ammonizione. Ma il passo indietro del ministro sulle misure alternative fa tirare un sospiro di sollievo al capo politico del Movimento, che in mattinata aveva annunciato, ben prima di Bonafede, il provvedimento “correttivo”. La linea Di Matteo ha avuto comunque la meglio.

Il retroscena. Decreto liquidità, spunta la norma salva-Davigo. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Il governo rischia di cadere sulla giustizia. Anche se la ragione, come ha detto Marco Travaglio, è tutta un colossale equivoco. Il centrodestra ha presentato una mozione di sfiducia per il ministro Alfonso Bonafede e non per quello che si può pensare. Non per il suo giustizialismo, per aver abolito la prescrizione, per essere responsabile di 13 morti nelle carceri, ma per “aver liberato i mafiosi“. Una cosa nuova, inventata da giornali e politici. In questo clima di caos Bonafede appare come ministro liberale e rischia di cadere per questo. Ma scavando abbiamo scoperto che la questione tra il ministro e l’ex pm Nino Di Matteo è nata per una poltrona a cui ambiva il membro del Csm, quella del Dap che porta un sacco di vantaggi economici. Ma oggi scopriamo anche un’altra cosa. Il capo di Di Matteo, che è Piercamillo Davigo, a settembre compie 70 anni e per questo motivo perderebbe la sua poltrona al Csm che, naturalmente, vuole mantenere. Ma la legge è chiara: chi ha 70 anni termina il mandato. Così nel decreto liquidità, che serve per contrastare il danno economico dovuto al Coronavirus, per dare i soldi a chi sta in difficoltà, c’è un emendamento all’articolo 36 bis che recita così: “Al fine di assicurare l’espletamento dei compiti assegnati dalla legge ai rispettivi servizi di preminente interesse generale, […] è aumentata di due anni l’età di collocamento d’ufficio a riposo per raggiunti limiti d’età come previsto dai rispettivi ordinamenti […] dei magistrati in servizio alla data del 9 aprile 2020“. Cosa per cui Davigo sarebbe salvo. Un emendamento infilato tra buoni pasto a chi non può mangiare e sostegno alle imprese che stanno fallendo. Pare che Bonafede non sia d’accordo a questo emendamento e Di Matteo, che è un soldato di Davigo, è furibondo e tutto ciò rischia di far saltare il governo.

Il retroscena: perché Pd e Fdl si sono uniti per salvare Davigo. Giorgio Varano su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Continua il rapporto ombroso tra la politica e la magistratura. Mentre prosegue il silenzio imbarazzato e imbarazzante del CSM sulle esternazioni del proprio consigliere in carica Di Matteo contro il Ministro della Giustizia (nate a causa di aspettative tradite), la poca limpidezza dei rapporti tra magistratura istituzionale e politica può considerarsi persino peggiorata rispetto alla crisi che ha travolto il CSM mesi orsono. Per superare la crisi della magistratura, ormai sotto gli occhi di tutti, occorre partire dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, riforma costituzionale ineludibile. La critica mossa a questa riforma, da parte della magistratura inquirente, si fonda su un dogma: il pubblico ministero sarebbe sottoposto all’esecutivo! Quando viene chiesto perché ed in quale modo, si viene trattati da eretici e non si ottengono spiegazioni, come per ogni dogma degno di accettazione fideistica. Appare evidente che il problema attuale è l’esatto contrario: la necessità di separare le carriere tra magistratura e politica. Sono proprio alcuni pubblici ministeri che hanno aspettative dalla politica, non create certamente dal nulla, ma nascenti da una serie di rapporti personali e politici che poi portano o alla realizzazione di quelle aspettative con relativi ringraziamenti, o quando vengono tradite a reazioni scomposte come quelle del Dott. Di Matteo. Dunque il pericolo di sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo può nascere solo dai comportamenti di alcuni pm, non certo da una riforma costituzionale che darebbe finalmente in parte attuazione al giusto processo. Basterebbe, per fare smettere la commistione magistratura-politica, interrompere la chiamata dei magistrati nei palazzi della politica e dei ministeri, rimandando le centinaia di magistrati fuori ruolo a lavorare nei tribunali e nelle procure (dove ce n’è un gran bisogno, vista la cronica scopertura degli organici), e sostituendoli con dei professionisti esperti del settore legislativo e legale. Questo rapporto insano tra politica e magistratura è un tema sempre caldo che in questi giorni è diventato esplosivo. Alcuni partiti politici – su stimolo di chi? – stanno tentando di interferire ancora una volta sulla composizione del CSM, questa volta con alcuni emendamenti, (nientemeno che al decreto per il Covid) al momento dichiarati inammissibili, per allungare di almeno due anni la durata di alcune cariche. Dopo l’estate il Dott. Davigo sarà collocato a riposo per raggiunti limiti di età, e pertanto dovrà decadere dalla carica di consigliere del CSM. Lo dice la legge, lo ha detto il Consiglio di Stato (per un caso analogo), lo dice l’opportunità politica e istituzionale di non avere ancora in carica un consigliere togato non più giudicabile sotto il profilo disciplinare perché in pensione come magistrato (mica come Di Matteo!). Cosa dovrebbe accadere? Al suo posto subentrerebbe il secondo dei non eletti. In un organismo normale sarebbe una inezia non degna di interesse, ma in un organo di rilievo costituzionale che decide sulle nomine degli uffici giudiziari e quindi sull’amministrazione della giustizia è un argomento di grande interesse per il rapporto tra i poteri dello Stato e quindi anche per la nostra democrazia. Prescindiamo dalle persone, anche perché alcune le vorremmo sempre in TV (ho visto dal vivo il confronto tra Gian Domenico Caiazza e Piercamillo Davigo, e ne vorrei vedere ancora, ma temo non accadrà…). Il problema sono gli equilibri interni del CSM. Il secondo dei non eletti che dovrebbe subentrare al Dott. Davigo non è della corrente di Autonomia e Indipendenza, che quindi vedrebbe diminuire la propria rappresentanza all’interno dell’organo di governo della magistratura a favore di un’altra corrente della magistratura e dunque il proprio peso sulle nomine. Può la politica favorire una corrente, a discapito di un’altra? Può inserirsi nei risultati elettorali del CSM? Può influenzare gli equilibri di rappresentanza? Può creare una norma “ad correntem”? Può incidere sulle future nomine dei capi degli uffici giudiziari? Perché Partito Democratico e Fratelli d’Italia si sono uniti in questa volontà politica, presentando emendamenti simili? Queste domande, anche un po’ inquietanti nella loro genesi, se l’è poste anche l’Associazione Nazionale Magistrati, con una risposta univoca: no, la politica non può farlo e la magistratura deve dire no. E mentre l’ANM interviene contro qualsiasi favoritismo verso un suo past president, il Consiglio Superiore della Magistratura tace. Tacciono in pubblico anche le correnti, alcune delle quali interrompendo di colpo una certa assidua e scomposta grafomania degli ultimi tempi.

Davigo querela Il Riformista, emendamento per prolungare carriera era a sua insaputa.  Piero Sansonetti de Il Riformista il 14 Maggio 2020. Piercamillo Davigo è molto arrabbiato con noi perché noi abbiamo scritto che era molto arrabbiato con Bonafede perché Bonafede era molto arrabbiato con lui per via di un emendamento alla legge rilancia-Italia, il quale emendamento – presentato da Fratelli d’Italia e in forma identica dal Pd – prevedeva il rinvio di due anni della pensione di Davigo. Come vedete è un giro vorticoso e un po’ cacofonico di arrabbiature che si inseguono. Davigo dice che invece queste arrabbiature non ci sono mai state (tranne la prima). E che lui non sapeva niente dell’emendamento di Fratelli d’Italia e del Pd sulla sua pensione. Noi ci crediamo a Davigo, anche perché lui è un magistrato e i magistrati sono persone che non dicono bugie (anche Di Matteo è un magistrato). L’emendamento di Fratelli d’Italia e quello del Pd, evidentemente, sono stati presentati all’insaputa di Davigo. Del resto noi siamo tra quelli che credettero senza tanto discutere all’ex ministro Scajola quando disse che certi pagamenti per la ristrutturazione della sua casa (mi pare) furono eseguiti a sua insaputa. Se uno fa delle cose e non te le dice, è chiaro che tu non puoi saperle. E così è successo che un gruppo di deputati di Fratelli d’Italia, che si era riunito per esaminare il decreto con le misure economiche a favore della ripresa dopo il tonfo del Covid, si è accorto che tra quelle misure mancava un provvedimento per alzare a 72 anni la pensione dei magistrati. Devono essersi detti: va bene i finanziamenti alle imprese, va bene l’aiuto ai lavoratori, le casse integrazioni, i prestiti, i bonus baby sitter, ma se poi non teniamo al lavoro i magistrati che compiono 70 anni, magari li compiono a ottobre, come si fa a garantire la ripresa economica? E così in fretta e furia hanno scritto quell’articolo 36 bis del decreto che prevedeva l’aumento dell’età pensionabile di 2 anni per i magistrati. Cosa c’entra Davigo? Niente, è logico: niente. Fatto che lui stesso ad ottobre compirà 70 anni e che se non si fa una leggina al più presto possibile per rinviare la pensione lui debba andare in pensione a ottobre, e che se lui va in pensione deve lasciare il seggio al Csm, e che se lascia il seggio al Csm, oltretutto, al suo posto entra il primo dei non eletti che fa parte di una corrente diversa da quella di Davigo, e che se ciò avviene in Csm non c’è più la maggioranza destra-sinistra che sta governando in questi mesi, e cambiano tutti i rapporti di forza…è chiaro che tutto questo è una pura e semplice coincidenza. Del resto pare che mentre il gruppetto di deputati di Fratelli d’Italia si riuniva per controllare che ci fossero misure pro-settantenni nel decreto rilancia Italia, la stessa cosa faceva un gruppetto di deputati del Pd, e pure a loro appariva subito evidente, nelle misure previste dal governo, la clamorosa mancanza di un provvedimento per cambiare la pensione dei magistrati. E quando sono due gruppi così distanti ideologicamente tra loro ad accorgersi di un difetto di una legge, è chiaro che quel difetto è un vero e clamoroso difetto, e che va corretto subito. Poi è successo che l’emendamento è stato dichiarato inammissibile. E che Bonafede non ha fatto nulla, sembra, per salvarlo. Ma questo non ha provocato nessun malumore di Davigo, che – lui stesso ci informa – è rimasto molto sereno, anche perché siccome non sapeva niente dell’emendamento, tantopiù non ha saputo niente del fatto che l’emendamento fosse stato bocciato. Davigo ha anche annunciato che ci querelerà. Non ho capito bene perché. Dice che non è vero che lui è stato il “mandante del diverbio” tra Bonafede e Di Matteo. Di Matteo, prontamente, ha smentito lui stesso Davigo escludendo di avere avuto un diverbio con Bonafede, diverbio invece accreditato dalla dichiarazione di Davigo. Mamma mia, come litigano questi tra loro! Ormai basta che uno parla e l’altro gli dà sulla voce. Povero Davigo, diceva diverbio così per dire, si riferiva semplicemente – credo – al fatto che Di Matteo aveva accusato Bonafede di avere ceduto ai ricatti mafiosi, così come – secondo Di Matteo – fece a suo tempo Dell’Utri, che infatti poi, per questa stessa ragione, è stato tenuto in prigione per cinque anni filati. Non era un diverbio, santo cielo! Il fatto è che neanche noi abbiamo mai parlato di diverbio. E tantomeno di mandante. Chissà dove le ha lette Davigo queste due parole. Ci siamo limitati a dire che correva voce che Davigo si sarebbe arrabbiato per la caduta di quell’emendamento salva-Davigo. Non gli avevano attribuito nessuna gagliofferia, soltanto uno stato d’animo. Gli stati d’animo, per definizione, sono incerti e opinabili. Si tratta di quella parte del giornalismo che di solito viene chiamato di “retroscena”. È una parte rilevantissima del giornalismo politico. E nessun politico mai ha querelato qualche giornalista per un retroscena. Figuratevi che giorni fa avevamo accreditato l’ipotesi che a bloccare la nomina di Di Matteo al Dap, nel 2018, fosse stato Mattarella. Il Quirinale ci ha fatto sapere che non era vero. Che Mattarella si era guardato bene dall’intervenire. Non ci ha mica querelato. Forse però la costituzione materiale, in questo Paese, prevede che i retroscena sono ammissibili per tutti, ma non per i magistrati. Loro vanno lasciati in pace.  Non tutti, magari. Per esempio il Procuratore Generale di Catanzaro, che aveva osato criticare Gratteri, è stato punito con una velocità fulminante. Degradato e spedito a 1000 chilometri da Catanzaro. Trattato quasi quasi da giornalista, mica da magistrato… Chissà perché. E chissà perché a Di Matteo che ha accusato di intelligenza con la mafia il tribunale di sorveglianza di Milano nessuno dice niente. Beh, anche tra magistrati bisogna distinguere. Molti sono assai più uguali degli altri magistrati…

P.S. 1. Al solito ho trovato il modo per polemizzare con Gratteri. È più forte di me. Al quale Gratteri comunque va riconosciuto un merito: non querela mai i giornalisti. Dimostra, almeno in questo, di avere un senso della sua funzione istituzionale piuttosto alto. Non tutti sono come lui.

P.S. 2. Davigo potrebbe fare una cosa molto semplice per dimostrare di aver ragione: dichiarare pubblicamente che, comunque, a ottobre se ne va in pensione.

Da liberoquotidiano.it il 20 maggio 2020. Non sarà Piercamillo Davigo a sostituire Alfonso Bonadfede al Ministero della Giustizia. Il magistrato più amato dal Movimento 5 Stelle, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, prima evita di entrare sul caso che potrebbe portare alla sfiducia del Guardasigilli grillino: "Non so niente di cosa sia avvenuto tra Bonafede e Di Matteo". Poi. incalzato da Paola Tommasi che gli chiede di una sua possibile discesa in campo, ribadisce secco: "Lo ripeto da anni, i magistrati non devono fare politica. Noi ragioniamo in termini completamente differenti dai politici: noi decidiamo se uno è innocente o colpevole, non se una cosa è conveniente o dannosa". Poi l'aneddoto che stupisce anche i presenti: "Ho già rifiutato una proposta di diventare ministro, dal primo governo Berlusconi (nato quando l'inchiesta Mani Pulite era ancora in corso, ndr)". Davigo non spiega se a chiederlo è stato lo stesso Silvio Berlusconi, ma rivela la sua risposta: "Non puoi indossare la maglia di una squadra se nel primo tempo facevi il guardalinee".

Roberto Cota linciato perché la moglie è un giudice serio, scaricato anche dai leghisti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Sui social è iniziato da qualche giorno il linciaggio del leghista Roberto Cota. Che oggi è fuori dalla ribalta politica, ma è stato qualche anno fa un personaggio di prima fila. Per quattro anni ha fatto il governatore del Piemonte. Poi è finito sotto processo per la storia dei rimborsi ai consiglieri regionali. Sul suo nome fu costruito lo scandalo “delle mutande verdi”, una espressione riferita all’acquisto di articoli di vestiario coi soldi pubblici e al colore verde della Lega. In realtà Cota è stato del tutto assolto dalle accuse, in primo grado, poi condannato in appello con una sentenza che è stata cancellata dalla Cassazione. Non è – come vorrebbe Davigo – uno che l’ha fatta franca: è un esponente politico che ha pagato un prezzo altissimo al protagonismo della magistratura. Prima o poi dovremmo convincerci di questo: se uno viene trascinato nel fango da un Pm e poi risulta innocente, può a ragione considerarsi un perseguitato dalla giustizia. Stavolta però Cota viene linciato per una ragione curiosissima: sua moglie. Che ha combinato la signora? È un giudice. Ha avuto una limpida carriera come Gip e come giudice ed ora è al tribunale di sorveglianza di Milano. E le è capitato di dover giudicare sulla richiesta di scarcerazione di un detenuto (Domenico Perre) al quale restava un modesto residuo di pena da scontare e per il quale i medici avevano certificato l’incompatibilità con la vita carceraria. Lei, insieme altri due sue colleghe e a un suo collega, ha deciso di accogliere la domanda sulla base del codice penale (sempre quello scritto da Alfredo Rocco ai tempi di Mussolini, non da un gruppetto di scalmanati garantisti liberali troppo umanitari…). Apriti cielo. Si è realizzata la perfetta convergenza tra destra e sinistra. Maurizio Gasparri ha reso noto il nome della magistrata e ha chiesto addirittura la sua radiazione da parte del Csm. A quel punto si è scatenata una macchina di propaganda di sinistra e Cinque Stelle che ha iniziato a inveire contro il leghista. «Ecco qui chi sta dalla parte dei mafiosi – hanno iniziato a gridare – la giudice, quindi suo marito leghista, quindi Salvini e magari anche Meloni». Difficile a questo punto trovare qualcuno che difenda Cota e soprattutto che difenda la dottoressa Rosanna Calzolari ( è il nome della moglie: avremmo preferito non scriverlo, ma ormai è stato esposto al pubblico). La destra non se la sente, perché nei giorni scorsi ha chiesto di imprigionare mezzo mondo e di cacciare a calci nel sedere i giudici di sorveglianza. La sinistra neppure perché comunque trova ghiotta l’occasione per attaccare la Lega. Chi resta? Beh, ci sarebbe lo schieramento liberale, che potrebbe prendere le difese della magistrata. Ma a voi risulta che esista uno schieramento liberale, in Italia? Non pervenuto.

P.s. La piena anche se isolatissima solidarietà da parte di questo giornale alla dott.ssa Calzolari e anche, ovviamente, all’avvocato Roberto Cota.

Bonafede "commissaria" i giudici di sorveglianza, sono troppo umani. Angela Stella su Il Riformista il 30 Aprile 2020. «La lotta alla mafia è una cosa seria» ha detto ieri il Guardasigilli Alfonso Bonafede rispondendo al question time sulle “scarcerazioni” di boss: di fronte a «fatti allarmanti – ha proseguito – non si rimane inerti». E allora il Governo passa al contrattacco attraverso un decreto legge, in discussione nel Consiglio dei Ministri di ieri sera alle 21:30, che andrà a limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura di sorveglianza. Come? Mediante alcune importanti modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 – Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà – . In particolare, per la concessione dei permessi e dei domiciliari nel caso di detenuti condannati per reati di grave allarme sociale come associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, terrorismo il magistrato di sorveglianza, prima di pronunciarsi, dovrà chiedere il parere del Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis, anche quello del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. «Salvo ricorrano esigenze di eccezionale urgenza – si legge del decreto – il permesso non può essere concesso prima di ventiquattro ore dalla richiesta dei predetti pareri». Non finisce qui: il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello sarà «informato dei permessi concessi e del relativo esito» con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati e nel caso di permessi concessi a detenuti in 41bis ne dovrà dare comunicazione al Procuratore della Repubblica e a quello nazionale antimafia. Tuttavia per il Ministro della Giustizia «non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo con grande sacrificio personale e impiego di energie. Si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto». Non sono mancate le polemiche, a partire dal deputato di Italia Viva Gennaro Migliore, già sottosegretario alla Giustizia: «Le dichiarazioni rese dal ministro Bonafede destano grande preoccupazione. La dichiarata volontà di sottoporre le decisioni della magistratura di sorveglianza al parere di altri organi giurisdizionali, magistratura inquirente e Dna, rischiano di compromettere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Si tratta di un provvedimento che ha alimentato preoccupazioni espresse autorevolmente anche dalla Associazione Nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Intanto registriamo un’incomprensibile difesa a oltranza del Dap e dei suoi vertici, veri e unici responsabili delle recenti improvvide scarcerazioni». Invece i parlamentari della Lega in Commissione Antimafia, convocata ieri pomeriggio, si sono lamentati che il Ministro Bonafede e il capo del Dap Basentini «non si sono presentati in commissione, nonostante la formale convocazione. Non hanno fornito neanche la documentazione richiesta ufficialmente per chiarire finalmente cosa stia succedendo in merito all’assurda concessione degli arresti domiciliari a numerosi boss mafiosi. Questa è omertà». Solidarietà ai magistrati di sorveglianza arriva invece da Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone: «C’è una cattiva abitudine a legiferare e assumere decisioni all’indomani di casi di cronaca sulla base dell’emotività. Compito delle forze politiche e di governo è quello di assicurare razionalità e ordinarietà alla materia penale e penitenziaria, e non quello di inseguire la realtà». Intanto si è risolta positivamente la vicenda del trentenne modenese recluso nel carcere di Vicenza a cui, pur dovendo scontare una pena residua sotto i 18 mesi, era stata negata dal magistrato di sorveglianza di Verona la detenzione domiciliare con o senza braccialetto. Il Tribunale di Sorveglianza ieri ha ordinato che il detenuto venisse posto in detenzione domiciliare senza braccialetto elettronico. «Siamo soddisfatti del risultato», ci dicono gli avvocati Roberto Ghini e Pina Di Credico. I legali si erano rivolti anche alla Cedu con una istanza urgente ma la Corte aveva deliberato di non voler indicazioni al Governo italiano di adottare una misura provvisoria. «Crediamo che ben difficilmente – proseguono i legali – sarebbero avvenute in tempi così rapidi la convocazione e la decisione del Tribunale di Sorveglianza se non ci fosse stato l’intervento della Cedu. Ovviamente dobbiamo valutare se proseguire nel giudizio davanti alla Corte al fine di ottenere il riconoscimento del fatto che per il nostro assistito vi è stata comunque violazione dell’articolo 3: costringere inutilmente una persona, in un contesto di pericolo di contagio, a rimanere in carcere quando non assolutamente necessario costituisce, per noi, un trattamento inumano e degradante». Ci sarà da valutare anche eventualmente se vi sia stato nelle repliche del Governo un atteggiamento sanzionabile.

Grazia Longo per ''La Stampa'' il 9 maggio 2020. I processi, si fanno nelle aule dei Tribunali». Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna e del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza risponde così alle critiche sulle scarcerazioni. Si tratta di quasi 400 mafiosi, di cui 180 condannati in via definita, alcuni dei quali anche al 41 bis...Non è imbarazzante?

«I processi si fanno nelle aule di giustizia non sui giornali o in tv e noi giudici di sorveglianza decidiamo in base agli atti. Applichiamo le norme dell' ordinamento penitenziario alla luce dei principi costituzionali in materia di esecuzione della pena, articolo 27 comma 3».

Quali?

«La concessione di misure alternative al carcere per gravi motivi di salute, come è avvenuto per migliaia di detenuti compresi i boss, durante l' emergenza coronavirus che stiamo attraversando, è prevista dagli articoli 146 e 147 del codice penale; il diritto alla salute è tutelato dall' art. 32 della costituzione quale diritto fondamentale della persona».

Voi, insomma, non avete regalato niente a nessuno?

«Nessun regalo. Noi siamo giudici, soggetti soltanto alla legge. Valutiamo tutti gli aspetti della persona, dal momento della condanna in poi».

Ma adesso, con il nuovo decreto legge o provvedimento ministeriale, sarete obbligati a rivedere le vostre posizioni e rispedire in cella i mafiosi scarcerati?

«Sinceramente ritengo ozioso discutere su un decreto o un provvedimento che ancora non esiste e di cui quindi non conosciamo i dettagli. Posso ricordare che già adesso la magistratura di sorveglianza ha il potere di rivalutare i provvedimenti di differimento della pena o detenzione domiciliare per motivi di salute e verificare se le esigenze di cura sono state superate.  In ogni caso, credo che non saremo costretti, ma si profilerà la possibilità di una nostra rivalutazione. Perché è vero che c' è la libertà del legislatore, ma è altrettanto vero che spetta a noi magistrati di sorveglianza ordinare misure meno restrittive del carcere valutando caso per caso, in base alle condizioni di salute dei detenuti».

Come considera la scelta del ministro della giustizia Alfonso Bonafede sulla necessità di un nuovo provvedimento?

«Sono scelte politiche, noi giudici facciamo altro».

Eppure la concessione dei domiciliari ai boss è parsa a molti un omaggio inappropriato.

«Ribadisco che noi applichiamo le norme in materia dopo un' istruttoria approfondita».

La decisione del Tribunale di sorveglianza da quante persone viene assunta?

«Da due giudici togati, due onorari, tra cui sono annoverati medici e psichiatri e la partecipazione del procuratore generale. Inoltre, in virtù del decreto legge 28 del 30 aprile scorso, si è stabilito che i Tribunali di sorveglianza, prima di emettere le ordinanze sui domiciliari dei boss, debbano consultare le direzioni distrettuali antimafia o, nel caso dei 41 bis, la procura nazionale antimafia».

Il suggerimento manettaro di Martelli a Bonafede: riarrestali come feci io. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Nella serata in cui si consumava la rissa di stampo forcaiolo tra un ministro di Giustizia in carica e un magistrato che ambirebbe a sedersi al suo posto, è passato inosservato un suggerimento arrivato da un ex guardasigilli. Il ministro Bonafede, ha detto Claudio Martelli nella puntata della trasmissione “Non è l’arena”, avrebbe dovuto fare come me. I magistrati scarcerano i mafiosi? E tu li fai riarrestare dando una diversa interpretazione della legge che li ha fatti uscire di galera.  È storia vera, lui ha proprio fatto così, quando era ministro. Con una grave interferenza del potere esecutivo sull’autonomia della magistratura che quella volta, nel nome della lotta alla mafia, fu accettata in un silenzio tombale da giudici, giuristi e sindacalisti in toga. Era il 1991, era da poco terminato con una raffica di condanne il maxiprocesso di Palermo, voluto tenacemente da Giovanni Falcone. Se la magistratura aveva vinto la sua battaglia, non altrettanto si poteva dire del governo Andreotti che già portava i segni della fine della Prima repubblica. La gran parte dei boss mafiosi, a partire da Totò Riina, era infatti latitante e apparentemente irraggiungibile. Il maxiprocesso aveva segnato anche la fine del sistema inquisitorio, retaggio anch’esso di un sistema che andava morendo. Dal 24 ottobre del 1989 era in vigore il nuovo sistema processuale accusatorio. Solo “tendenzialmente”, purtroppo, recitava la relazione introduttiva. Era giunta l’ora di cominciare ad applicarlo. Da bravo primo della classe, toccherà al giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della corte di Cassazione, rompere il ghiaccio. Le carceri traboccavano di detenuti in custodia cautelare, anche a causa di termini lunghissimi di detenzione, che però il nuovo codice riduceva sensibilmente. Così, ricalcolandone i tempi, la Cassazione dispose la scarcerazione di 43 imputati di reati di mafia. Scoppiò il finimondo. Tutti erano d’accordo sul fatto che i termini di custodia cautelare fossero proprio scaduti, ma un’interpretazione di tipo sostanzialistico sosteneva che il legislatore, anche se non lo aveva scritto nella relazione introduttiva alla riforma, avrebbe avuto l’intenzione di “congelare” i tempi processuali in relazione a persone detenute. I 43 furono comunque scarcerati e il mondo politico impazzì. Ecco dunque che cosa inventò un governo debole e incapace di combattere la mafia per esempio scovando e facendo arrestare i latitanti. Su iniziativa dei ministri Scotti (Interni) e Martelli (Giustizia), la coppia più muscolare e sostanzialista della storia passata, il governo emise un decreto legge di interpretazione della norma e, quel che è più grave, retroattiva. Lo fece 16 giorni dopo la sentenza. E quando nella notte le forze dell’ordine andarono a riarrestare i 43, li trovarono tutti nel loro letto, nelle loro case. Nessuno era scappato. Mai si era visto un governo comportarsi come un super-tribunale, come un quarto grado di giudizio inappellabile. Non risulta ci siano stati scioperi di magistrati o vibranti proteste dell’Anm per difendere l’autonomia della magistratura in quei giorni. E chissà che cosa potrebbe accadere oggi se il ministro Bonafede accogliesse il suggerimento di Martelli e facesse votare al governo un decreto “interpretativo” della norma che consente di scarcerare i detenuti le cui condizioni di salute sono incompatibili con il carcere. Il Pds del 1991, che era all’opposizione del governo Andreotti, votò la conversione in legge di quel decreto, con grande mal di pancia di Stefano Rodotà, che non lo condivideva per nulla, insieme a un piccolo drappello di socialisti. Di quei partiti non ne esiste più nessuno oggi in Parlamento, con l’eccezione per gli eredi del Pds. Sarebbe interessante sapere per esempio che cosa penserebbe Matteo Renzi di quel tipo di iniziativa di politica giudiziaria. E anche qualche giurista, visto che allora si scomodarono in favore del provvedimento giuristi come Neppi Modona e Vittorio Grevi. E il giudice Carnevale, il più preparato, puntiglioso e formalista, era rimasto isolato. I ministri Scotti e Martelli poterono così proseguire quel tipo di politica giudiziaria, soprattutto dopo quel che accadde nell’anno successivo, con le uccisioni per mano della mafia di Falcone e Borsellino. Sono i giorni della fretta, il governo ha il fiato sul collo dell’opinione pubblica perché Totò Riina è ancora uccel di bosco, perché c’è una grande debolezza economica, tanto che il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo un immediato risanamento della finanza pubblica con una manovra di 30.000 miliardi di lire per il 1992 e una da 100.000 per il 1993. Viene frettolosamente eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che sarà uno dei peggiori. E il Parlamento approverà il famoso decreto Scotti-Martelli, ultimo provvedimento di un governo ormai dimissionario, impregnato più di vendetta che di diritto. Che interviene non solo per combattere la criminalità mafiosa, ma in senso peggiorativo sull’intero processo. Da lì nasce per esempio il famoso “ergastolo ostativo”, solo oggi messo in discussione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte Costituzionale. Questa è la storia. Ed è singolare che colui che, nonostante in quelle occasioni e soprattutto dopo l’uccisione di Falcone abbia imbarbarito il processo sotto un impulso emotivo, è stato comunque un buon ministro, suggerisca oggi di imboccare quella strada a un pessimo ministro come Bonafede. Come mettere un kalashnikov in mano a un bambino. Ed è ancora più strano che Claudio Martelli, che è stato poi a sua volta vittima del furore giustizialistico di quegli anni, possa ancora rivendicare a proprio merito quel tipo di provvedimenti. Emergenziali, certo. Ma le peggiori leggi, dai tempi del terrorismo e poi delle stragi mafiose e infine dei reati contro la pubblica amministrazione, sono proprio quelle ispirate dalle emergenze del momento. Ieri e oggi.

Il ministro al question time. Bonafede calpesta la Costituzione: dietro le sbarre per decreto i malati scarcerati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Bonafede non è Martelli e Conte non è Andreotti. Però ci provano, trent’anni dopo, a replicare quella gravissima interferenza del potere esecutivo sull’autonomia della magistratura con un decreto che nei fatti tenda ad annullare le decisioni dei giudici. Tu scarceri e io rimetto le manette. Manette di governo.  Deve esserci qualcuno, al ministero di via Arenula, che legge il Riformista. Nessuno si era infatti accorto, durante la trasmissione tv in cui il pm Nino Di Matteo ha chiesto che il ministro Bonafede fosse indagato per “concorso esterno”, di quel che aveva detto l’ex ministro Claudio Martelli. Fai quel che ho fatto io, aveva suggerito l’ex numero due del Partito socialista, rimettili in galera. Non se ne sono accorti perché sono giovani, e anche perché non studiano e non conoscono la storia di questo Paese. Nessuno di noi era presente ai tempi delle guerre puniche, eppure sappiamo più o meno quel che è successo. Loro no. Tanto, uno vale uno. Fatto sta che ieri, scegliendo la via parlamentare più veloce e meno esposta, cioè quella del question time, una sorta di botta e risposta di pochissimi minuti tra un deputato e il ministro, il guardasigilli ha annunciato che penserà lui a sbattere di nuovo i detenuti gravemente malati in carcere e a buttar via la chiave. Lo farà con un decreto legge. In mattinata, ormai cloroformizzato dall’imbarazzo il Fatto quotidiano, aveva provveduto la Repubblica, per niente addomesticata dal nuovo direttore Molinari, a eccitare gli animi e a preparare le forche con le urla su «376 boss scarcerati». Poi, ben nascosta nel corpo dell’articolo, la precisazione che in realtà, tra i reclusi cui era stato concesso il differimento pena per motivi di salute, solo tre erano detenuti con il regime del 41 bis. Che, tanto per chiarire, non vuol dire “carcere duro”, ma carcere impermeabile ai contatti con l’esterno, colloqui con i vetri eccetera. Se dunque la preoccupazione è che, una volta a casa, gli ex carcerati possano entrare in rapporto con le cosche, si sappia allora che 373 hanno già colloqui e incontri regolari con i parenti e con gli altri detenuti all’interno del carcere. Con un fogliettino scritto da altri e disinformato (ringrazio «gli» interroganti, ha esordito, mentre il quesito era stato presentato dal solo deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin) Bonafede, visibilmente nervoso, ha sciorinato la solita tiritera. Bollino blu dell’antimafia, ma come vi permettete, proprio a me che rinnovo sempre i 41 bis (come tutti gli altri ministri prima di lui) e ho fatto tante leggi? Fa l’indignato, «non c’è stata alcuna interferenza diretta o indiretta», quando ha proposto al dottor Di Matteo, invece della presidenza del Dap, la direzione generale degli affari penali (lei e io sappiamo –gli aveva detto Zanettin- che quel ruolo non è più di prima linea per la lotta alla mafia) per averlo vicino a sé, in via Arenula. Per coccolarsi. Sapore di “c’eravamo tanto amati”. Ogni illazione è quindi campata in aria, conclude. Non gli crede nessuno tra i pochi deputati ben distanziati nell’aula di Montecitorio, ma la cosa singolare è che i brontolii assumono torni di scherno soprattutto quando il ministro grida la propria eterna intenzione di lottare contro la mafia: la mia azione c’è sempre stata, c’è e ci sarà. Aspetta applausi e raccoglie fischi. Una bella nemesi, per il rappresentante del partito degli “onesti”. Lo fa notare al ministro nella replica il deputato di Forza Italia (che questa volta è arrivata prima degli altri partiti di opposizione) Enrico Costa, con un intervento breve, come vuole la prassi del question time, ma molto efficace. Definisce «inappropriato» il fatto che «un membro del Csm utilizzi una trasmissione televisiva per accusare il Guardasigilli di essersi piegato alla mafia». Poi azzanna direttamente Bonafede. Lei ha legittimato questi personaggi, gli rimprovera, e ha creato la condizioni perché facessero carriera con incarichi delicatissimi. Che cosa aspettarsi possano fare in un’aula contro un cittadino, questi magistrati che covano risentimenti per due anni e poi si scagliano contro un ministro in diretta tv? Lei, signor ministro, rischia di «impiccarsi all’albero che ha concimato giorno dopo giorno» sperando di vedervi penzolare i suoi nemici. L’intervento del deputato Costa si conclude con la speranza di una piccola (impossibile) rivoluzione culturale nel cervello di Bonafede. E cioè che la lezione gli serva a qualcosa, magari a non considerare più l’innocente un colpevole che l’ha fatta franca (copyright Davigo). Vana speranza. Infatti il mostro è già in cantiere. Il decreto legge che costringerà i giudici a riaprire le porte del carcere per farvi rientrare chi ne era uscito, visto che l’emergenza del coronavirus è cambiata. Ah sì? Non ce ne eravamo accorti. Nelle carceri non si rischia più che la promiscuità e l’affollamento favoriscano il contagio? Non l’aveva notato nessuno. Quel che invece è da notare è che, oggi come trent’anni fa, se Bonafede fa quel che fece Martelli, cioè far tornare in carcere persone liberate da giudici nell’osservanza rigorosa della norma, sarà lui a mettersi fuori dalla legge. Anzi. Addirittura dalla Costituzione, che difende l’autonomia della magistratura. La storia si ripete. Nel 1991 il governo entrò a gamba tesa per cancellare una decisione della prima sezione della cassazione presieduta dal giudice Carnevale, oggi si appresta a farlo per interferire su sentenze e provvedimenti assunti da diversi tribunali e giudici di sorveglianza sparsi un po’ in tutta Italia. Ma la magistratura militante, quella che rivendica la propria autonomia (mai la propria imparzialità) dall’alba al tramonto, non ha nulla da dire sul fatto che il potere esecutivo umili le toghe in questo modo violento?

Decreto scarcerazioni voluto da Repubblica e Bonafede, il Fatto in seconda fila a fare il tifo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Le Camere penali si sono opposte a questo decreto che sbarra, in uscita, le porte delle carceri. E istituisce una specie di tribunale speciale per le scarcerazioni, come negli anni Venti. Un tribunale speciale al di fuori della Costituzione. Più precisamente, questo decreto rende le porte delle carceri porte girevoli, ma girevoli solo in direzione entrata. Se un giudice ti scarcera poi c’è un Pm che ti rimette dentro. Le Camere penali, dicevamo, si sono opposte, lo hanno definito decreto vergogna, hanno detto che è ispirato da una inaudita cultura poliziesca. Nessun altro ha fatto le barricate. Naturalmente è sempre possibile che in Parlamento, al momento della conversione in legge, scatti l’ostruzionismo. Il vecchio, democraticissimo, ostruzionismo (negli Stati Uniti si chiama filibustering ed è uno strumento di lotta parlamentare consueto). Possibile, ma per ora estremamente improbabile. Il mondo politico si è chiuso a testuggine, difende Bonafede, oppure lo accusa di essere un mollaccione e dice che il suo decreto non basta o cose del genere. Nella magistratura ci sono malumori, perché chiunque si accorge che è un decreto che spazza via, sul piano proprio dei principi, l’autonomia e l’indipendenza del magistrato. E in particolare riduce la magistratura giudicante a cenerentola. Senza principe. Ma nella magistratura, si sa, i cuordileone sono pochi pochi. Cosa dice questo decreto? Che se ti scarcerano perché le tue condizioni non sono considerate compatibili col carcere, sulla base di un vecchio articolo del codice penale varato dal fascismo (lo abbiamo scritto altre volte: l’antifascismo dell’attuale maggioranza, su questo tema, consiste nella critica all’eccessivo liberalismo del regime di Mussolini…) il magistrato sarà chiamato ogni 15 giorni a ripensare alla sua decisione e dovrà riattivarla, e cercare le pezze d’appoggio per riattivarla e in pratica, una volta che si è preso in carico la liberazione di due o tre detenuti dovrà occuparsi solo di quelli. Oppure arrendersi ai diktat di Repubblica–Bonafede (ormai Il Fatto è finito in seconda fila a fare il tifo…) e rimetterli in prigione, così poi potrà occuparsi anche di altre cose. Il decreto paralizzerà l’attività dei tribunali di sorveglianza e li sottoporrà alla pressione continua della politica e dei mass media. Se tenete conto di cosa sono oggi i mass media travaglizzati in Italia vi rendete conto che questi magistrati hanno due sole strade: o l’eroismo o la resa. Non tutti sanno, comunque, che la maggior parte dei detenuti scarcerati in questi giorni era in attesa di giudizio. Cioè – lo diciamo per chi non ha ancora letto o magari ha dimenticato la Costituzione- erano, e sono, innocenti. Non sono stati scarcerati dai giudici di sorveglianza, che devono occuparsi delle pene (e per i detenuti in attesa di giudizio, ovviamente, non ci sono ancora, o non ci saranno mai, pene) ma dai Gip. Voi sapete, forse, che i Gip sono i giudici delle indagini preliminari e che di solito agiscono a contatto strettissimo coi Pm. Negli stessi uffici, negli stessi bar, nelle stesse strade. È rarissimo che un Gip dia torto a un Pm. E questa, tra l’altro, è la ragione fondamentale per la quale si chiede la separazione delle carriere. Per avere dei Gip realmente indipendenti dai potenti Pm. Ebbene, secondo il decreto, anche i Gip, e gli stessi Pm, dovranno occuparsi a tempo pieno dei detenuti eventualmente scarcerati. Perché ogni 15 giorni anche loro dovranno motivare una sentenza di scarcerazione. Un Gip che scarcera dovrà rispondere al Pm che gli ha chiesto l’arresto, e ogni 15 giorni spiegargli perché il suo detenuto (suo: ormai c’è un nesso di proprietà tra pm e detenuto) non è più in prigione.Se non lo farà, l’ex prigioniero tornerà prigioniero. Ci sarebbe quell’articolo della Costituzione, quello sul giusto processo (il 111), il quale spiega che accusa e difesa sono sullo stesso piano, e che poi c’è un giudice terzo. Con questo decreto il giudice terzo invece non esiste più, deve rispondere al Pm (sia il giudice di sorveglianza sia il Gip) e la difesa è del tutto fuori gioco. Avete qualche dubbio sul fatto che questo decreto sia incostituzionale? No, nessuno ha dubbi su questo. La tesi di chi ha varato il decreto, e dei giornali che lo hanno spinto a fare ciò, è che della Costituzione ci se ne può anche fregare. Soprattutto ora che siamo in emergenza. Voi dite: ma c’è una emergenza mafia? No, non c’è, ma c’è l’emergenza virus che è sempre un’emergenza, e quindi possiamo benissimo mandare la Costituzione a quel paese. Poi voi dite: ma tutti questi scarcerati sono boss della mafia, come dicono i giornali? No, nessuno di loro è un capomafia e la maggioranza di loro con la mafia non c’entra niente. Ma resta l’emergenza virus che ha il potere di rendere boss mafioso anche un piccolo spacciatore. Chi pagherà per questo abominio da Stato di polizia? I detenuti prima di tutto. E poi, sanguinosamente, il nostro Stato di diritto, che ne esce a pezzi. Sembra proprio – dicevamo all’inizio – di essere tornati ai tempi dei tribunali speciali. Cos’altro sono, questi, se non tribunali speciali?

Sandra Amurri 8 maggio alle ore 20:08 su facebook. “LO MINACCERO'SOLO CON UN DITO”-DISSE POGGIANDOLO SUL GRILLETTO.” (Stanislaw Lec). Una storia vera in un Paese privo di memoria. Detestando la consueta prassi del ridurre tutto a tifo da stadio, cercherò di andare indietro con il tempo, con assoluta laicità, per offrire una lettura di ciò che la cronaca ci impone affinchè ognuno possa farsi una opinione non condizionata da posizioni vincolate ad interessi di parte. Domenica a “Non è L'Arena” l'eurodeputato Dino Giarrusso ha detto di non essere al corrente della “trattativa” intercorsa fra Nino Di Matteo e il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dell'allora Governo Giallo-Verde. Di Matteo telefona in diretta per ristabilire la realtà dei fatti accaduti nel giugno del 2018 quando il Ministro lo chiamó per dirgli che avrebbe voluto affidargli la direzione del Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaro) o, in alternativa, la direzione degli Affari Penali. Di Matteo incontra il Ministro e, concorda un giorno di tempo per decidere. Decide per la direzione del Dap. Scelta condivisibile per chi sa bene che gli Affari Penali, ruolo ricoperto da Giovanni Falcone in attesa che nascesse la sua “creatura”,la Procura Nazionale Antimafia, è divenuta una sorta di scatola vuota nella lotta alla mafia. Ma a quel punto il Ministro gli comunica che il Dap, lo aveva già affidato a Francesco Basentini, procuratore aggiunto in Basilicata che si era occupato dell'inchiesta sulle piattaforme petrolifere che vedeva coinvolto l'Eni ma che mai si era occupato di inchieste sulla mafia o vantasse qualità specifiche per ricoprire un ruolo strategico come la direzione del Dap che ,non a caso, viene remunerato al pari del Presidente della Repubblica. Comprensibilmente, Di Matteo, che non aveva chiesto nulla ma che era stato cercato dal Ministro resta di stucco e anche molto offeso da un simile comportamento e gli dice di non tenerlo più presente per alcun incarico ma il Ministro insiste nel tentativo di convincerlo ad accettare la direzione degli Affari Penali, dove sedeva e siede ancora Donatella Donati, nominata pochi mesi prima dall'ex Ministro della Giustizia Orlando. Donati, che come spiega il Ministro a Di Matteo, non voleva cacciare, ma convincere con la “moral suasion” ad accettare un altro incarico. Dunque, il Ministro stava offrendo a Di Matteo una “poltrona” occupata. E se Di Matteo l'avesse accettata e la Donati non l'avesse liberata quella poltrona cosa sarebbe accaduto? Bene. Il Ministro insiste e nel tentativo di convincere Di Matteo, per portare a casa del M5S una nomina di pregio (già promessa e disattesa, ricorderete che per raccattare voti promisero Gino Strada Ministro della Sanità, Di Matteo all'Interno, Rodotà candidato al Quirinale ecc...) gli disse: “Non c'è dissenso o mancato gradimento che tenga” in riferimento alla direzione degli Affari Penali ammettendo, di fatto, che dissenso e mancato gradimento sul suo nome vi erano stati per la direzione del Dap. Uno di quei lapsus freudiani che sfuggono al vaglio della ragione. Di Matteo, nell'esporre i fatti,nel suo intervento telefonico, contestualizza aggiungendo che molti boss dalle carceri avevano commentato la sua nomina come la fine per loro. Frase che, evidentemente, fa sobbalzare il Ministro. Va bene subire decisioni altrui, ma non sia mai che si dica che si è fatto intimorire dai mafiosi, o peggio che sia colluso. Interviene in trasmissione. Si dice esterrefatto, parla, parla ma dimentica l'essenziale: perchè dopo aver offerto la direzione del Dap a Di Matteo, ha cambiato idea nell'arco di 24 ore? Chi ha manifestato dissenso e mancato gradimento sulla sua nomina? Non era stata sicuramente farina del suo sacco a meno che non soffrisse di gravi amnesie visto che era stato lui a proporla a Di Matteo? Quanto basta affinchè all'indomani si scatenino accuse di ogni genere nei confronti di Di Matteo. “Un magistrato non si vendica in tv dopo due anni...Un magistrato non accusa il Ministro della Giustizia di collusione con la mafia...Un magistrato non partecipa a programmi di quel genere...” Ovviamente, Di Matteo non si è vendicato ma ha solo impedito che il suo nome venisse di nuovo strumentalizzato, non ha partecipato ad alcun programma e non ha accusato il Ministro di collusione con la mafia. Il Ministro chiamato a rispondere al question time aggiunge una perla:”Ho proposto a Di Matteo la direzione degli Affari Penali così potevo averlo al mio fianco in via Arenula” E me te freghi , che fortuna, avrebbe esclamato l'uomo della strada. Ma come si sa non c'è modo migliore per gli stolti che spesso sono anche stupidamente ipocriti, che guardare il dito mentre il dito indica la luna. E a queste accuse false si aggiunge lo sport preferito nel Paese dove da vivi si è scomodi e da morti ammazzati si diventa eroi in bocca a chi ,non avendo nè conoscenza della storia nè argomenti, si serve degli eroi morti, che, in quanto morti, non possono rispondere per le rime: Falcone e Borsellino non avrebbero mai detto questo in tv ecc...E qui chiedo aiuto alla memoria con una premessa: di Giovanni Falcone ne è esistito uno, di Paolo Borsellino anche, ogni paragone con i due magistrati trucidati con gli uomini delle scorte e con Francesca Morvillo moglie di Falcone è strumentale. E utilizzare i loro nomi per apparire più alti è vergognoso, oltre che patetico. Il 19 Gennaio del 1988 a capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo il CSM a Giovanni Falcone aveva preferito Antonino Meli facendo prevalere il criterio dell'anzianità su quello della continuità di quella incredibile esperienza che era il Pool Antimafia diretto da Antonino Caponnetto, che aveva accettato di andare in pensione sicuro di lasciare il testimone a Giovanni Falcone. Tempo sei mesi e gli effetti devastanti di quella nomina non tardarono a palesarsi. Meli non era colluso con la mafia, si badi bene. Paolo Borsellino, procuratore capo a Marsala, non ci sta ad assistere inerme alla disfatta di quella storia gloriosa e il 20 luglio dello stesso anno rilascia un'intervista a L'Unità (organo del PCI) e a La Repubblica sferrando un attacco a Meli e al suo operato spiegando che stava disintegrando il Poll Antimafia, che aveva polverizzato le indagini parcellizzandole...” Il CSM lo mette sotto accusa, lui viene interrogato e ribadisce parola per parola e, Giovanni Falcone- che non aveva condiviso quella scelta-non esitò a difenderlo, contrariamente a quanti, colleghi di Di Matteo abbiano fatto oggi. A Falcone quando accettò la proposta del Ministro della Giustizia, Claudio Martelli di andare a dirigere gli Affari Penali dissero di tutto: che si era venduto ai socialisti, al potere politico ecc...Stessa cosa quando, era Agli Affari Penali, andò al Maurizio Costanzo show e sul palco con lui c’era l avvocato della Rete, Alfredo Galasso che gli aveva detto: “Giovanni esci dal Palazzo” mentre Leoluca Orlando lo aveva accusato di aver tenuto i fascicoli nel cassetto. O quando partecipò al programma Samarcanda di Michele Santoro dove si difese dall'accusa che lasciando Palermo, aveva tradito per la carriera politica, spiegando che quello che ricopriva era un “posto riservato ai magistrati fuori ruolo, non ho commesso nessuna irregolarità.”. Di lui, avvocati, giornalisti e colleghi dissero di tutto e di più, lo chiamavano “il fenomeno” “il giudice sceriffo”. Stiamo parlando di programmi televisivi, non di luoghi istituzionali. I grillini e anche esponenti del Pd che, con il M5S governa, nonostante nella precedente vita sia stato accusato dal Movimento di essere il partito dei mafiosi, per accusare Di Matteo gridano allo scandalo perchè il programma di Giletti è trash (io non amo quel genere di show dove tutti urlano a discapito del confronto civile) ma dove tutti corrono perchè fa ascolti, tant'è che quella domenica sera famosa, non a caso, c'era ospite il parlamentare europeo del M5S, Dino Giarrusso.

TORNANDO AD OGGI. La questione non si può ridurre alle bizze di due ragazzotti un po' discoli che alla fine, grazie alle esortazioni del maestro di turno fanno pace, o ad un semplice equivoco nato da una incomprensione di Di Matteo. La questione è politica. Un Ministro della Giustizia, soprattutto se del M5S che ha fatto della trasparenza, del no agli inciuci, delle dirette streaming il suo slogan, ha il dovere politico di dire ai cittadini la verità. E la verità equivale a rivelare chi ha fatto pressioni su di lui affinché retrocedesse dall'affidare l'incarico a Di Matteo. Di rivelare chi ha posto il veto sul suo nome. Esattamente come accadde quando, Governo Renzi, Napolitano pose il veto sulla nomina a Ministro della Giustizia di Nicola Gratteri, fatto che fu proprio Gratteri a raccontare in un programma televisivo senza che nessuno, a quanto ci risulti, si strappò le vesti. Eh sì perchè il “no” a Di Matteo con tutto quello che ne è conseguito, 476 fra boss mafiosi e criminali liberati ha una valenza politica anche per la tenuta democratica del Paese. Certo, non li ha rimandati a casa il Ministro della Giustizia, ma i magistrati di Sorveglianza che, ricevute le richieste, le ha inviate al Dap da cui non è mai giunta alcuna risposta. E Basentini, preferito a Di Matteo al Dap ha mentito dicendo che i detenuti scarcerati erano una quarantina, di cui 4 al 41 bis, mentre ne erano 376, arrivati nel frattempo a 496. Oggi si è appreso, che oltre a chi è stato condannato per aver tenuto in ostaggio il piccolo Di Matteo, poi sciolto nell'acido, sono usciti anche due del Clan Casamonica. E tutto questo non è bastato per rimuovere seduta stante Basentini, il Ministro ha atteso che si dimettesse. E, come se non bastasse, sembrerebbe che grazie ai suoi stretti rapporti amicali con Leonardo Pucci, vicecapo di Gabinetto del Ministro, allievo di Giuseppe Conte all'Università di Firenze, per Basentini sarebbe pronta una poltroncina in una delle tante task-force. Di fronte a tutto questo il Ministro cosa fa? Annuncia che sta preparando un decreto per riportare dentro i detenuti ben sapendo, almeno ce lo auguriamo, che si tratta di una mossa propagandistica. A meno che questo non sia più uno Stato di Diritto in cui il Ministro può introdurre per legge l'obbligo dei Magistrati di Sorveglianza di rivalutare le richieste al termine dell'emergenza covid-19, cioè una sorta di revisione obbligatoria per farli tornare in carcere. Ma siamo ancora in uno Stato di Diritto, infatti, il decreto è scomparso giusto il tempo di essere stato annunciato.

In conclusione il Guardasigilli deve dimettersi e prima di farlo dovrebbe fare nomi e cognomi in nome di quella verità, che è sempre rivoluzionaria, anche per onorare quel Giovanni Falcone e quel Paolo Borsellino che tiene sempre in punta di lingua, che per la verità, la giustizia, la libertà dalla schiavitù mafiosa e di chi con la mafia convive, hanno dato la vita. Chiudo con la risposta che il boss Frank Coppola diede ad un giudice che mentre lo interrogava gli chiese :cos'è la mafia? Episodio che Giovanni Falcone riporta nel libro scritto con Marcel Padovanì Cose di Cosa Nostra nel capitolo “Messaggi e messaggeri nella mafia”. “Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare Procuratori della Repubblica” esordisce Coppola “uno è intelligentissimo, il secondo gode dell'appoggio dei partiti di governo, il terzo è cretino, ma proprio lui otterrà il posto”. Non è stata sicuramente la mafia a dire no a Di Matteo, altrimenti dovremmo pensare, cosa inverosimile e pazzesca, vista la sua storia umana e professionale che la mafia ha preferito Dino Petralia (nominato a capo del Dap) Così come il Ministro non ha di certo preferito Basentini a Di Matteo per favorire la mafia. Bonafede, come dice Salvatore Borsellino, sarà pure un galantuomo, ma di certo è un galantuomo dannoso, per sè e per il Paese.

AGGIORNAMENTO. IL DECRETO APPROVATO IERI NON FA TORNARE I DETENUTI IN CARCERE ESATTAMENTE COME HO SCRITTO QUI. PROPAGANDA. Due foto che parlano. La prima racconta il sentire comune, la complicità che non conosce rivalità fra due uomini uniti dallo stesso alto senso del dovere e del sacrificio. La seconda, con il mio maestro Francesco La Licata de La Stampa, racconta riconoscenza, rispetto e affetto.

Fiandaca: “Di Matteo non adeguato al Dap”. Il Dubbio l'11 maggio 2020. Il giurista e garante dei detenuti in Sicilia non ha dubbi: “Lo scontro tra Bonafede e Di Matteo un diversivo, i problemi delle carceri sono altri”. Lo scontro tra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo?: “Non è un affare importante”. Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale e garante dei detenuti in Sicilia, ha altre priorità. Primo, i “gravi problemi di strutture, gestione e disciplina legislativa complessiva del sistema carcerario”. E poi, naturalmente, il sovraffollamento carcerario che, soprattutto in tempi di Covid, avrebbe potuto essere risolto con un maggior ricorso alle misure alternative . E naturalmente anche ai detenuti per mafia va riconosciuto il diritto costituzionale alla salute. Secondo Fiandaca le Procure antimafia in modo particolare, “esprimono  una concezione unilaterale del trattamento dei detenuti e pretendono di allineare la gestione del sistema carcerario a una logica puramente repressiva legata al ruolo del pm. Deformazione professionale”. E sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap, “Non basta – dice Fiandaca – essere un simbolo antimafia, con tutto il rispetto per l’attività da lui svolta su cui non ho mancato comunque di esprimere qualche perplessità. Ci vogliono altre attitudini. Quella di Dino Petralia, ora nominato capo del Dap, mi sembra una scelta promettente: è un magistrato di grande equilibrio, competenza giuridica e capacità organizzativa”. Il governo sta introducendo nuovi limiti al potere discrezionale dei giudici di sorveglianza. È una giusta misura di cautela la richiesta di parere alle Procure sulle domande di scarcerazione? “Si poteva chiedere anche prima – risponde Fiandaca – anche se non era obbligatorio. Ma su questo punto condivido le preoccupazioni di Antonietta Fiorillo, responsabile del coordinamento dei magistrati di sorveglianza. Non vorrei che dalla Procure arrivassero solo carte e si intasassero gli uffici. I dati cartolari devono essere aggiornati sulla pericolosità attuale del detenuto. E vanno integrati con notizie sull’evoluzione dei rischi di contagio e sulla adeguatezza delle strutture sanitarie intramurarie”. Il rischio più grave che Fiandaca paventa è che sulle scarcerazioni “si diano ora risposte palliative e buone solo per tranquillizzare l’opinione pubblica e salvare a Bonafede il posto di ministro”.

Così il governo ha messo la Costituzione nelle mani dei pm anti mafia. Il Carcere possibile onlus su Il Dubbio il 7 maggio 2020. Le toghe schierate contro i giudici di sorveglianza, loro colleghi, sanno benissimo che noi tutti siamo più forti dei mafiosi proprio grazie ai diritti. Ma ora questi magistrati dell’accusa tentano di rovesciare l’ordinamento penitenziario che impedisce loro di toccare palla. Ecco perché mentono, sapendo di mentire, sulle fantomatiche orde di boss ingiustamente messi in libertà. Premesso che tutti detestiamo le mafie e che ciascuno di noi le combatte secondo le proprie possibilità e nel proprio ambito, e che non esistono persone anti mafia o pro mafia (ad eccezione dei mafiosi, ovviamente) dobbiamo, purtroppo e ancora una volta, ricordare che anche le guerre più cruente hanno le loro regole, e che la guerra alla mafia, in uno Stato di diritto, si combatte secondo i principii dell’ordinamento giuridico a cui sono soggetti tutti i cittadini. A quei principii sono soggetti anche i Magistrati come correttamente affermato dai Magistrati di sorveglianza nel comunicato Conams – sottoscritto dalla dottoressa Fiorillo nonché dal consigliere del Csm Dal Moro, che ha stigmatizzato i toni violenti e impropri che hanno caratterizzato le polemiche all’indomani di alcune scarcerazioni di detenuti in regime di cosiddetto carcere duro. Le indignazioni dell’opinione pubblica, sempre prontamente disorientata nonché nutrita di odio e rabbia da alcune arene televisive, si sono generate dopo le pubbliche esternazioni di alcuni esponenti della Magistratura antimafia che, contrariamente all’opinione pubblica, ben conosce i meccanismi delle procedure ex articolo 147 c.p. che si svolgono innanzi alla magistratura di sorveglianza nonché, con ogni probabilità, i contenuti delle specifiche procedure che hanno determinato le “scandalose“ scarcerazioni. Immaginiamo, infatti, che i Magistrati manifestanti le loro preoccupazioni sapessero come Pasquale Zagaria fosse stato già ritenuto soggetto non socialmente pericoloso dalla Corte di appello di Napoli (infatti bisognerebbe in realtà capire come mai fosse ancora in regime ex art. 41 bis o.p.) e che Bonura, che ha ottenuto un differimento dell’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare umanitaria, aveva in realtà un residuo pena di pochi mesi e condizioni di salute che rendevano impossibile la protrazione della detenzione in carcere. Immaginiamo, in sostanza, che i magistrati preoccupati sapessero bene che nessuna violazione delle regole giuridiche era stata commessa da parte dei loro Colleghi della sorveglianza e che le scarcerazioni erano state determinate da situazioni eccezionali. Nonostante queste conoscenze che attribuiamo ai magistrati preoccupati, si è ritenuto comunque opportuno provocare allarme sociale urlando attraverso i più disparati media che decine e decine di mafiosi pericolosissimi stavano per lasciare le patrie galere per andare a seminare di nuovo terrore in giro per il Paese. Ovviamente nessun contraddittorio e nessuna spiegazione tecnica ai telespettatori di trasmissioni e telegiornali urlanti. Al di là dei tecnicismi basterebbe spiegare che lo Stato dimostra la propria forza e autorevolezza quando non abdica al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda e che la Giustizia non è – e non deve essere – vendetta e soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per i peggiori criminali, perché solo così la comunità e la civiltà sono veramente tutelate e solo così si rispettano il preminente diritto alla salute ex articolo 32 Cost. e l’umanità della pena ex art. 27 Cost. Ci rendiamo conto che parlare di diritto è noioso e non fa audience ma, in realtà, pensiamo che la scelta di non fornire alcuna spiegazione e la manifestazione della preoccupazione con la conseguente indignazione avevano una loro utilità: determinare i presupposti dell’attacco all’odiato ordinamento penitenziario in cui il protagonista, almeno in teoria, è il detenuto e, specificamente, il suo percorso all’interno del sistema dell’esecuzione penale in cui la Procura resta un osservatore di questo percorso “sorvegliato” dalla tanto vituperata Magistratura di Sorveglianza. Creata la sensazione della necessità e dell’urgenza di intervenire per evitare il “liberi tutti”, rischio neanche lontanamente corso, il decretificio ha potuto produrre l’attacco all’ordinamento penitenziario, ultimamente troppo umanizzato dalla Corte Costituzionale, per cui, a colpi di ennesimo decreto (decreto n° 28 del 30 aprile 2020), per affrontare “l’emergenza”, sono state apportate modifiche ad alcune norme che, come abbiamo imparato bene, resteranno nel nostro sistema a prescindere dall’emergenza e ben oltre la stessa. Per alcuni detenuti, quelli condannati per i reati ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. nonché per quelli sottoposti al regime del 41 bis o.p., sarà possibile avere permessi di necessità, quelli che si concedono in casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, solo dopo aver atteso il parere della Procura ed anche della DNA che, in tal modo, possono porre una sorta di veto alla Magistratura di sorveglianza che, in caso di decisione favorevole al permesso, deve esporre una motivazione rinforzata. Analogamente per quel che riguarda la cosiddetta detenzione domiciliare in deroga o “umanitaria”, i detenuti condannati per i reati prima indicati nonché quelli sottoposti al regime ex art. 41 bis o.p., potranno vedersi concessa tale particolare detenzione solo dopo che rispettivamente la Procura e la Dna abbiano espresso il loro parere circa la pericolosità del recluso che si trova in condizioni di grave infermità fisica (ora anche psichica) e che non può essere più curato in carcere. Per i detenuti in regime di carcere duro, la Magistratura di sorveglianza non potrà decidere se non dopo che siano decorsi 15 giorni dalla richiesta del parere. Tali modifiche – che introducono la necessità di richiedere i pareri alle Procure – non apportano innovazioni di sorta nel senso che ovviamente i Magistrati di Sorveglianza chiedono normalmente informazioni sulla pericolosità dei detenuti, tuttavia è abbastanza intuitivo che in caso di “imminente pericolo di vita di un familiare” o in caso di impossibilità di protrarre le cure e le terapie in carcere, aspettare rispettivamente 24 ore e 15 giorni può fare la differenza, determinando anche l’inutilità del provvedimento richiesto e, di solito, già lungamente atteso. Con queste modifiche legislative si è voluto affermare che anche per “questioni umanitarie” non si può e non si deve prescindere dall’autorità dell’Antimafia, si è voluto affermare che nel bilanciamento degli interessi in contrapposizione, la bilancia deve pendere dal lato della Procura: deve essere lei, ora, a “consentire” che la pena non sia contraria al senso di umanità. Con quest’affermazione ci pare che i principi costituzionali si affievoliscano notevolmente e che si ritenga opportuno che la pena – sempre più – tenda innanzitutto alla punizione, anche alla punizione del congiunto in imminente pericolo di vita che per salutare il figlio, il padre o la madre reclusi deve attendere il rapido benestare della Procura. Il Carcere possibile onlus

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2020. La mettono giù così: «Vi pare giusto che, con la scusa del virus e sotto ricatto di rivolte sobillate dai boss, giudici ribelli abbiano scarcerato 376 pericolosi capimafia al 41 bis per offendere le vittime, irridere chi li aveva arrestati e mortificare chi li aveva denunciati?». E, messa così, la risposta sarebbe una sola. Ma una sindrome polacca sta contagiando i pm italiani: pochi mesi fa manifestavano a Varsavia contro l' involuzione di un governo che aggredisce i propri giudici, adesso capi di Procure antimafia, con contorno di aedi dell' informazione, intimidiscono i giudici che non gli garbano (quelli di Sorveglianza) con gli stessi toni e argomenti distorti che esecravano quando a usarli contro loro era Berlusconi. Dal 41 bis sono usciti non in 376 ma in 3, per tumori e cardiopatie a rischio vita combinati all' incapacità del sistema penitenziario di garantire cure indifferibili. Due terzi degli altri sono «boss» sulla fiducia, visto che attendono ancora sentenze. Quanti nelle rivolte di marzo oggi condannano - e ci mancherebbe - la violenza delle proteste per le condizioni dei detenuti (13 poi morti sotto custodia dello Stato) sono però gli stessi che nel 2016 ignoravano la protesta non violenta di 19.056 detenuti aderenti (con le firme al Papa e due scioperi della fame) all' iniziativa dei radicali che quelle condizioni additava. Età e malattie, in caso di contagio Covid, sono concause di alti rischi anche per i detenuti, diminuiti non di 376 ma di 9.000 (di cui 2.917 in detenzione domiciliare, 736 con braccialetto) spesso con l' ok proprio di pm (se in custodia cautelare), o su richiesta dei direttori di carceri (se con fine pena sotto 18 mesi): modo per recuperare, nella flagrante illegalità di 62.000 reclusi a febbraio in 51.000 posti (evidentemente tollerata da pm e cantori della legalità a targhe alterne), ciò che il ministero di Bonafede non aveva predisposto. E cioè minispazi dove almeno isolare i positivi per scongiurare in cella il bis del disastro-ospizi.

Malati terminali, infartuati e disabili: ecco i pericolosi mafiosi “scarcerati”. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Hanno ottenuto i domiciliari non per il Covid 19 , ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Solo 4 i boss reclusi al 41 bis che hanno ottenuto un differimento pena – ma temporaneamente, perché la rivalutazione da parte del giudice è contemplata da sempre – per gravi motivi di salute. Gli altri 370, per la stragrande maggioranza, sono andanti in detenzione domiciliare (se definitivi) o agli arresti domiciliari (se in attesa di giudizio) non per il Covid 19 come quasi tutti i mezzi di informazione dicono all’unisono, ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Nella lista dei nomi ci sono casi che proprio Il Dubbio ha sollevato. Storie che addirittura risalgono a due anni fa, quando la pandemia non era ancora nell’anticamera dei nostri pensieri. C’è ad esempio Rosa Zagari, citata nella trasmissione di “Non è l’arena” di Massimo Giletti senza però spiegare la sua vicenda e che patologie avesse. Non è una spietata assassina, non fa parte nemmeno di alcuna organizzazione mafiosa, ma ha fatto l’imperdonabile errore – ovviamente del tutto ingiustificato – di proteggere il suo compagno, ovvero il boss Ernesto Fazzalari, un appartenente alla famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘ndrangheta. Si sarebbe fatta anche utilizzare come intermediaria e per questo le è stato contestato il reato associativo. Ma perché ha avuto il differimento di pena? Come riportato da Il Dubbio a febbraio dello scorso anno, Rosa Zagari, mentre si trovava presso la casa circondariale di Reggio Calabria, a seguito di una caduta si è procurata una fattura duplice alle vertebre. Parliamo del febbraio del 2019. Via via ha avuto un peggioramento per cure del tutto inadeguate. Dopo tanti solleciti da parte dall’associazione Yairaiha Onlus al Dap e al ministro della Giustizia, è stata trasferita presso il centro clinico del carcere di Messina. Nulla da fare. Cure inadeguate con un rischio di paralisi. Non riusciva a camminare autonomamente, tanto da farsi sostenere dalla sua compagna di cella. Alla fine la gip, alla luce del complessivo quadro di salute della detenuta e dell’insuccesso delle terapie mediche e riabilitative seppur praticate con costanza presso il carcere, «al fine di salvaguardare le sue condizioni di salute – scrive -, ormai peggiorate e non efficacemente fronteggiabili presso l’istituto di detenzione, risulta necessario disporre la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari». Non si fa alcun cenno al Covid-19. Non c’entra nulla. Inoltre i domiciliari le sono stati concessi il 23 marzo, quando ancora la famosa e tanto ingiustamente criticata circolare del Dap era giunta due giorni prima e ovviamente l’istanza – presentata tempo addietro – non ha nulla a che vedere con essa.Nella lista compare il nome di Zafer Yildz con patologie gravi. Fine pena 2027, ha scontato 14 anni e 10 mesi di una condanna a 19 anni: con la liberazione anticipata gli erano rimasti 3 anni di carcere. I familiari hanno informato l’associazione Yairaiha Onlus che Zaafer, appena ha iniziato a capire la portata dell’emergenza Covid-19 e consapevole dei rischi che correva, ha chiesto l’isolamento assieme ad altri 3 detenuti con patologie gravi. Ha fatto 15 giorni di isolamento ed è uscito il 2 aprile scorso. Anche qui non c’entra nulla la circolare del Dap e l’emergenza Covid 19. Perché? Come spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus, a Zafer gli è stata accolta l’ultima istanza presentata prima dell’emergenza coronavisrus. Compare nella “lista nera” Fido Salvatore con fine pena tra 3 mesi. Aveva finito la parte ostativa ad aprile 2019 e il suo avvocato ha richiesto lo scioglimento del cumulo: dopo vari solleciti il magistrato di sorveglianza di Padova ha accolto l’istanza. «Non conosciamo tutte le storie dei detenuti finiti nella lista “riservata”, – spiega Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus – ma abbiamo buoni motivi per ritenere che siano state tutte legittimamente motivate. Le liste dei detenuti in nostro possesso, per ognuna delle quali abbiamo presentato sollecito, rispecchiano una realtà ben diversa: malati terminali, plurinfartuati, morbi rari, leucemie, malattie autoimmuni, disabili e anziani allettati. Soggetti che, a prescindere dal rischio contagio e dal titolo del reato, non dovrebbero stare in carcere ma in luoghi di cura». La Berardi conclude: «Il diritto alla salute dei detenuti, che finanche Mussolini non si sognò di precludere a nessuno, non può essere abolito a colpi di frettolosi decreti dell’ultim’ora». C’è pure Giorgi Attilio, difeso dagli avvocati Chiara Penna e Giuseppe Lemma, affetto da patologie serie che lo hanno reso immunodepresso. In realtà il Covid 19 è solo un’aggravante. I suoi legali aveva presentato già un’istanza a luglio del 2019 e all’esito di questa, in autunno, lo hanno portato al centro clinico del carcere di Siano (Catanzaro). Lo hanno tenuto un mese e mezzo e dopo solo alcuni accertamenti l’hanno rimandato al carcere di Cosenza. Eppure, con precedenti istanze e solleciti, sono state documentate condizioni di incompatibilità, dovute dall’impossibilità dello stesso Dap a dar corso ad accertamenti e terapie adeguate. Quindi gli avvocati hanno presentato una nuova istanza sicuramente legata anche all’emergenza Covid, ma l’avevano già preparata a prescindere.

Nella lista-nera di Giletti finisce anche Rosa Zagari. Ma non è un boss e rischia la paralisi. Il Dubbio l'11 maggio 2020. La donna ha coperto la latitanza di uno ndranghetista. Non è pericolosa e la battaglia legale per le cure i domiciliari dura da un anno. Ed è in attesa del giudizio definitivo. Solo 4 i boss reclusi al 41 bis che hanno ottenuto un differimento pena – ma temporaneamente, perché la rivalutazione da parte del giudice è contemplata da sempre – per gravi motivi di salute. Gli altri 370, per la stragrande maggioranza, sono andanti in detenzione domiciliare (se definitivi) o agli arresti domiciliari (se in attesa di giudizio) non per il covid 19 come quasi tutti i mezzi di informazione dicono all’unisono, ma per le loro gravi patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario. Nella lista dei nomi ci sono casi che proprio Il Dubbio ha sollevato. Casi che addirittura risalgono a due anni fa, quando la pandemia non era ancora nell’anticamera dei nostri pensieri. Uno di quelli riguarda proprio Rosa Zagari, citata nella trasmissione di Giletti senza però spiegare la sua vicenda e che patologie avesse. Ma si sa, la deontologia professionale oramai è inesistente nel giornalismo italiano. Non è una spietata assassina, non fa parte nemmeno di alcuna organizzazione mafiosa, ma ha fatto l’imperdonabile errore – ovviamente del tutto ingiustificato – di proteggere il suo compagno, ovvero il boss Ernesto Fazzalari, un appartenente alla famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘Ndrangheta. Si sarebbe fatta anche utilizzare come intermediaria e per questo le è stato contestato il reato associativo. Ma perché ha avuto il differimento di pena? Come riportato da Il Dubbio a febbraio dello scorso anno, la Zagari, mentre si trovava presso la casa circondariale di Reggio Calabria, a seguito di una caduta si è procurata una fattura duplice alle vertebre. Le condizioni di salute della Zagari -dopo un primo trasferimento a Santa Maria Capua Vetere dove non veniva curata- sono progressivamente peggiorate nonostante sia stata reclusa presso centro clinico di Messina. Talmente peggiorate tanto da non consentirle di deambulare autonomamente ma solo con il sostegno di una compagna di detenzione. Era a rischio paralisi. Una vicenda seguita passo dopo passo dall’associazione Yairaiha Onlus che ha denunciato la sua incompatibilità con il carcere dal mese di luglio del 2019 fino a febbraio del 2020. Alla fine la gip, alla luce del complessivo quadro di salute della detenuta e dell’insuccesso delle terapie mediche e riabilitative seppur praticate con costanza presso il carcere, «al fine di salvaguardare le sue condizioni di salute – scrive -, ormai peggiorate e non efficacemente fronteggiabili presso l’istituto di detenzione, risulta necessario disporre la sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari». Non si fa alcun cenno al covid. Non c’entra nulla. Inoltre i domiciliari le sono stati concessi il 23 marzo, quando ancora la famosa e tanto ingiustamente criticata circolare del Dap non era nemmeno nota.

41bis. I "boss" scarcerati non sono 376 ma 3: i veri numeri dello scoop. Stefano Anastasia su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Lo scoop postumo di Repubblica (“Boss scarcerati, la lista segreta”, 5 maggio) ci informa che i boss scarcerati dal 41bis per motivi di salute sono 3, non 376. Gli altri erano detenuti al circuito detentivo di alta sicurezza, cui si accede – non sulla base di una valutazione individualizzata della pericolosità sociale, come nel caso del 41bis – ma per titolo di reato: basta averne uno tra gli ormai innumerevoli ricompresi nell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che limita l’accesso ai benefici e alle alternative al carcere. A vario titolo ostativi sono ormai non solo i reati legati alle organizzazioni criminali, ma anche quelli per fatti di corruzione, le rapine aggravate e alcuni reati sessuali. Comunque, certo è che – nonostante i profili criminali tratteggiati nell’articolo citato, nessuno di questi 373 detenuti scarcerati dal circuito di alta sicurezza è stato considerato da Ministro e Procura nazionale antimafia così pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica da stare in 41bis. D’altro canto, di questi 373 detenuti scarcerati dall’alta sicurezza per motivi di salute, ben 196 erano anche in attesa di giudizio, e dunque, secondo quel vecchio arnese della Costituzione, ancora legalmente innocenti. Questo significa anche che questi 196 detenuti sono stati scarcerati per ordine degli stessi magistrati che ne avevano convalidato l’arresto e la misura cautelare, evidentemente – a loro giudizio – non più necessaria in quella forma e in quella gravità. Solo 155 sono stati invece i provvedimenti di scarcerazione per motivi di salute adottati dai magistrati di sorveglianza, motivati come sappiamo, alla luce della legge e delle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani, che ritengono preminente la tutela della salute individuale a quello della esecuzione della pena in forma detentiva, che può essere commutata in detenzione domiciliare o sospesa, a seconda delle necessità. Infine, a conti fatti, è possibile ipotizzare che per 376 scarcerazioni siano stati coinvolti almeno 200 magistrati della Repubblica, servitori dello Stato al pari dei più famosi vocianti da ogni pulpito giornalistico e televisivo: tutti pericolosi eversori dell’ordine costituito?

Mafiosi ai domiciliari, uno su tre aspetta ancora il primo grado. Rocco Vazzana su Il Dubbio il  maggio 2020. Su 376 “boss” usciti durante la pandemia, 196 non hanno ancora una condanna definitiva, di questi, in 125 aspettano una sentenza di primo grado. La “lista Basentini”, l’elenco dei 376 “boss” finiti ai domiciliari nella fase della pandemia, non ha ancora finito di dividere il Paese che già sbuca un nuovo elenco.Eppure, a scorrere quelprimo documento, che ha spinto il ministro Bonafede ad annunciare un nuovo decreto per far tornare in cella i “mafiosi” scarcerati dai giudici, si scoprono dettagli importanti. Tanto per cominciare: le condanne. Su 376 persone ammesse alle misure alternative, a scontare una pena definitiva sono in 180. Di questi, solo tre in regime di carcere duro (41 bis): i boss Francesco Bonura, Vincenzo Iannazzo e Pasquale Zagaria. Ma il grosso dell’elenco, 196 nomi, è composto da detenuti in attesa di sentenza definitiva e in regime di sorveglianza speciale. Non solo, la stragrande maggioranza di questo gruppo, 125 persone, aspetta ancora il giudizio di primo grado. Molti di loro sono accusati di aver rivestito ruoli all’interno o all’esterno dei clan, ma ancora nessuna aula di Tribunale si è pronunciata in merito. Eppure, la pubblicazione della lista ha creato un vero e proprio terremoto politico, col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede accusato di aver liberato centinaia di boss e costretto a un dietrofront per non prestare il fianco a strumentalizzazioni, soprattutto dopo il colpo contemporaneo arrivato dall’ex pm della “trattativa Stato-mafia” Nino Di Matteo. Ora sul ministro pende addirittura una mozione di sfiducia individuale presentata dal centrodestra. L’argomento “mafia”, del resto, è sempre molto scivoloso e basta solo nominare la parola “garanzie” per essere accusati di connivenza. L’unico a provare a sparigliare un po’ nei giorni scorsi è stato Roberto Saviano, che su Repubblica ha scritto: «Garantire la salute del detenuto, di qualunque detenuto, dall’ex boss al 41bis al detenuto ignoto, è fondamentale, è un atto che ha una efficacia antimafia immediatamente misurabile perché un carcere che non è democratico, diventa immediatamente un carcere dove comandano le mafie». Ma non è bastato. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. E proprio nel giorno in cui il Csm dà il via libera alla nuova nomina di Dino Petralia, sul Dap piovono nuove istanze di scarcerazione per l’emergenza Covid. Sono 456 i presunti mafiosi, detenuti in regime di alta sicurezza a chiederla. Ma anche in questo caso, non tutti potranno essere definiti “boss”. In 225 hanno una condanna definitiva,ma ben 231 sono ancora in attesa del primo grado, appellanti e ricorrenti, recita il documento riservato inviato dal vicecapo del Dap Roberto Tartaglia al ministro Bonafede. Il Dipartimento ha subito dato inizio «all’acquisizione dagli istituti penitenziari delle istanze presentate e alla conseguente attività di analisi finalizzata alla predisposizioone di idonee misure organizzative», si legge nel testo. «Deve precisarsi. che il dato relativo al numero delle istanze prendenti presentate dai detenuti sottoposti al regime 41 bis e appartenenti al circuito dell’alta sicurezza non comprende quelle che i detenuti potrebbero avere avanzato per il tramite dei propri difensori di fiducia o per il tramite dei familiari, oppure potrebbero avere trasmesso in busta chiusa all’Autorità giudiziaria, per acquisire le quali saranno necessari sicuramente tempi più lunghi». Le richieste potrebbero dunque essere molte di più. Attualmente sono 745 i detenuti sottoposti al regime del carcere duro e 9.069 in alta sicurezza.

Bonafede dà i numeri: “498 scarcerati, di cui 253 in attesa di giudizio”. Ma poi promette: torneranno dentro. Il Dubbio il 14 maggio 2020. Il ministro della Giustizia tira le somme dell’emergenza Covid negli istituti di pena: “110 positivi al virus e nuove assunzioni”. “Sono in tutto 498 i detenuti al 41 bis o in alta sicurezza che sono stati scarcerati con provvedimenti dei magistrati. Di questi sono 4 quelli che erano sottoposti al regime del carcere duro. Di questi, 253 in attesa di giudizio sono agli arresti domiciliari, 195 in detenzione domiciliare, 35 affidati al servizio sociale”. Inizia così l’intervento del ministro Alfonso Bonafede in commissione giustizia della Camera.

Ripresa dei colloqui. “Con l’inizio della Fase 2  – ha poi aggiunto il Guardasigilli – l’Amministrazione, sempre inserendosi nel contesto nazionale relativo alle limitazioni negli spostamenti tra Regioni, ha iniziato le procedure per permettere la ripresa graduale dei colloqui visivi di persona. Fino al 30 giugno i colloqui con modalità “in presenza” saranno contingentati dal direttore del singolo istituto, previa interlocuzione necessaria con il Provveditore competente e con l’autorità sanitaria locale (art. 4 co. 1 e 2, Decreto Legge n. 29 del 10 maggio 2020)”.

110 i positivi al virus. “Sono 110 attualmente i detenuti positivi al coronavirus, 3 i ricoverati e 98 i guariti,  ha detto il ministro della Giustizia.

Ci saranno 1.100 nuovi agenti: “Nel contesto della ripresa dall’emergenza si inseriscono quei piani programmati, in parte già attuati e in parte che troveranno la propria realizzazione nei prossimi mesi. È stata disposta l’immissione anticipata di 1.100 nuovi agenti di Polizia penitenziaria, di cui 300 hanno già preso servizio nella sede di destinazione. Circa due mesi fa, il 12 marzo ho disposto con decreto la conclusione anticipata del 177° corso di formazione per gli allievi, che porterà nei prossimi giorni all’ingresso di circa 800 nuove unità”, spiga il ministro. “La necessaria sinergia con l’autorità sanitaria, declinata anche attraverso l’istituzione di un tavolo interministeriale con il Ministero della Salute – sottolinea Bonafede – oltre a permettere una uniformità delle procedure su tutto il territorio nazionale ha portato all’assunzione straordinaria di 1000 operatori sanitari ripartiti tra i vari Provveditorati. Le risorse inerenti il personale sono fondamentali perchè anche la c.d. Fase 2 possa essere affrontata con il massimo sforzo da parte dell’amministrazione, considerando il graduale ripristino dei regimi abituali proprio dell’universo penitenziario”.

Lotta alla mafia prioritaria. “La lotta alla mafia è prioritaria nell’azione del Governo ed è per questo – ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, – che con il decreto legge n. 29, abbiamo previsto che per quanto riguarda i soggetti ristretti per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, le scarcerazioni motivate da esigenze di carattere sanitario siano rivalutate alla luce del nuovo contesto epidemiologico, per verificare se permangano o meno le condizioni che hanno giustificato l’uscita dagli istituti detentivi”.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 15 maggio 2020. Poggioreale, l'Ucciardone, Regina Coeli, Rebibbia, Trani, Parma, Bellizzi Irpino. In ognuno di questi istituti di pena - famosi per il sovraffollamento o per i brindisi dei mafiosi o per le strutture di massima sicurezza, oppure per storiche rivolte o per vecchie gestioni finite sotto inchiesta - le condizioni di vita dei detenuti possono raggiungere, anzi, hanno raggiunto, livelli «inumani e degradanti». Tanto da consentire a qualcuno di ottenere sensibili sconti di pena e anche un po' di soldi di risarcimento. È la storia di Patrizio Bosti, 62 anni, capoclan dei quartieri Vasto e Arenaccia, boss al vertice di quella Alleanza di Secondigliano che ha rappresentato e rappresenta il più potente cartello di cosche attive sul territorio cittadino. Bosti fu arrestato il 10 agosto del 2008 in Spagna, a Girona, e tra residui di pena e condanne accumulate in cui era imputato per associazione di stampo camorristico, concorso in omicidio, estorsione e altri reati, sempre con l'aggravante della finalità mafiosa, sarebbe dovuto rimanere recluso fino al dicembre del 2023. Da qualche giorno, invece, ha lasciato il carcere di Parma, dove era detenuto al 41 bis, ed è tornato a Napoli, a casa sua, con il solo obbligo di firma cui dovrà sottoporsi per i prossimi nove anni. E non solo, lo Stato gli ha riconosciuto anche un risarcimento di oltre 2.600 euro. Dietro l'anticipata scarcerazione del boss c' è un complesso meccanismo che si fonda in parte sui benefici concessi per il riconoscimento della buona condotta e molto su due sentenze, emesse la prima dal Tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia e l' altra da quello analogo di Bologna. Ai giudici i legali di Bosti si sono rivolti sostenendo per il loro assistito la detenzione in condizioni non in linea con quanto disposto dall' articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell' uomo. Nel dettagliatissimo ricorso presentato si fa riferimento al sovraffollamento delle celle, o alla mancanza di acqua calda, di docce interne e di riscaldamento. Ma anche alla carenza di socialità e alla costrizione di usare il bagno in modo promiscuo, e cioè anche per lavare le stoviglie . Tutte ragioni ritenute evidentemente valide dai giudici chiamati ad esaminarle. Anzi, se il Tribunale di Reggio Emilia aveva concesso a Bosti 286 giorni di liberazione anticipata come risarcimento di 2.868 giorni trascorsi in cella in condizioni inumane, quello di Bologna ha accolto l' ulteriore ricorso degli avvocati del boss, riconoscendogli altri 947 giorni di reclusione degradante e fissando una ulteriore riduzione di pena che gli ha permesso di essere scarcerato con oltre tre anni di anticipo. E non è finita. Secondo i conteggi valutati dal giudice, Bosti sarebbe dovuto uscire anche prima. E quel periodo che ha passato in carcere «ingiustamente», in attesa che venisse emessa la sentenza, dovrà essere adesso monetizzato con un versamento di 2.672 euro che lo Stato, su disposizione del Tribunale, dovrà fare all' ormai ex detenuto.

Il boss Patrizio Bosti scarcerato in anticipo e risarcito: detenzione disumana. Viviana Lanza de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Il carcere duro è troppo, e disumano, anche per un boss del calibro di Patrizio Bosti, leader della cosiddetta Alleanza di Secondigliano, la cupola di potere camorrista che da decenni è al centro di storie criminali e inchieste dell’Antimafia. “Condizioni disumane”, si legge nel provvedimento con cui Bosti ha ottenuto il riconoscimento di una detenzione che gli ha riservato un trattamento lesivo della dignità umana al punto da ottenere dallo Stato un credito sugli anni da scontare in cella che gli è valso la scarcerazione e il risarcimento di 2.672 euro. Bosti ha così potuto lasciare il carcere di Parma con tre anni e mezzo di anticipo rispetto al fine pena. Arrestato l’ultima volta in Spagna nel 2008, il boss aveva un cumulo di condanne a 43 anni di carcere per reati vari di camorra ma nessun ergastolo e questo ha fatto scendere il tetto, come prevede la legge, a trent’anni. Con i soli benefici della liberazione anticipata tuttavia non sarebbe uscito così presto dal carcere, se non fosse intervenuta la decisione dei giudici della Sorveglianza riconoscendogli un credito per il danno patito nei difficili anni del carcere e dell’isolamento. Una decisione destinata a far discutere come le motivazioni alla base del ricorso che condannano certe condizioni di vita all’interno delle carceri del nostro paese. La dignità da garantire a ogni detenuto, i diritti da tutelare anche dietro le sbarre, la funzione rieducativa della pena sono discorsi ripetuti da anni. La decisione del tribunale di Sorveglianza di Bologna scarcerando Bosti ha dettato una linea. “Sulle scarcerazioni recenti vedo tante polemiche diversive da tifosi sugli spalti e mi chiedo – si interroga Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania – se sia possibile ipotizzare che i circa duecento magistrati, servitori dello Stato al pari di tanti altri magistrati vocianti da diversi pulpiti e che si sono pronunciati sulle scarcerazioni ai domiciliari di 376 boss, siano tutti eversori delle leggi italiane”. È una domanda provocatoria, quella di Ciambriello, che da anni si batte per i diritti dei detenuti. “Perché queste scarcerazioni non sono state decise da cappellani, garanti, o buonisti. Non si tratta di dividerci tra giustizialisti e garantisti ma di essere legalitari. Tutti i detenuti – conclude Ciambriello – anche quelli invisibili e ignoti, devono avere riconosciuti i loro diritti fondamentali, alla salute e alla vita”.

L’ex politico scambiato per boss querela Salvini: «Gogna social dopo la scarcerazione». Simona Musco il 12 maggio 2020 su Il Dubbio. L’ex sindaco calabrese non è un boss e fu rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per «evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria». Gettato in pasto al web, etichettato come mafioso, usato per propaganda politica. È così che si è sentito Angelo Alati, ex presidente del Consiglio comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Rc), arrestato a febbraio dalla Dda e scarcerato lo scorso 9 aprile. Per Matteo Salvini è uno dei tanti boss scarcerati grazie alla «scusa» del Covid. Ma in realtà, Alati è stato rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per «evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria». E così, dopo aver chiesto – inutilmente – la rettifica di quel post, al quale erano allegate anche le foto di presunti boss e mafiosi, Alati è passato ai fatti, depositando, ieri, una querela per diffamazione contro il leader della Lega. La scarcerazione è stata infatti decisa in base «ai presupposti dell’ordinanza di custodia cautelare e non certo a ragioni di tutela della salute e della dignità umana considerate, tuttavia, dal signor Salvini Matteo quale un escamotage per permettere a mafiosi e “stragisti”, con il concorso, evidentemente, di magistrati considerati troppo morbidi, di uscire dalle patrie galere». Alati rivendica il principio di presunzione di innocenza, attribuendo all’ex ministro «l’elemento psicologico del dolo», in quanto «è chiaro il suo preciso obiettivo diffamatorio nell’utilizzare la scarcerazione dello scrivente per evidenti fini politici, in totale disprezzo di tutti i diritti costituzionali, esponendo il querelante alla pubblica gogna e alla macchina dell’odio dei social network, grazie alla forza della sua enorme visibilità mediatica», proprio nel momento in cui il TdL lo aveva riabilitato. Prima della querela, il legale di Alati, Guido Contestabile, ha scritto a Salvini, invitandolo a pubblicare un post funzionale alla riabilitazione del suo cliente. E il leader della Lega, anziché ristabilire la verità dei fatti «ha semplicemente eliminato il post», senza avvisare i suoi milioni di follower di come stessero realmente le cose. «Avanzo seri dubbi sul fatto che lei conosca Angelo Alati e la sua storia processuale – ha scritto Contestabile – un incensurato coinvolto in un processo di mafia scarcerato dal TdL per ragioni di inconsistenza indiziaria. Non colpevole non solo fino a prova contraria e fino alla definitività del giudizio, ma anche innocente – allo stato – in virtù di un provvedimento emesso dall’organo di garanzia deputato al controllo delle ordinanze cautelari». È disgustoso, afferma Contestabile, «che qualcuno si prenda il lusso di contrabbandare la sua immagine come quella di un colpevole che l’ha fatta franca. Più che il dolore delle catene, l’innocente in carcere patisce il dolore della vergogna e il senso di abbandono». E in una terra stritolata dalla mafia, dalla povertà e anche dal pregiudizio, come la Calabria, la «spregiudicata criminalizzazione dell’individuo, con l’abbattimento delle sue garanzie, porta consenso anche all’antistato, inocula negli individui sani il senso dell’ingiustizia e li allontana dalle istituzioni. E proprio nel momento in cui l’Angelo Alati di turno riesce a venire fuori dalle maglie (sempre più) strette della custodia cautelare, di certo non si aspetta che l’istituzione che ella rapprenda e ancora di più ha rappresentato lo bolli come uno stragista mafioso scarcerato a casa dell’onda lunga del coronavirus».

Camilla Povia per fondazioneleonardo-cdm.com il 13 maggio 2020. “Sul tema del sovraffollamento nelle carceri, come nella lotta alla mafia, occorrerebbe mettere da parte ogni forma di propaganda e di ricerca del consenso facile, ed aprire tra tutte le forze politiche una seria e razionale discussione”. Andrea Giorgis, sottosegretario al Ministero della Giustizia e professore ordinario di diritto Costituzionale all’Università di Torino, racconta cosa è accaduto sulla vicenda scarcerazione dei boss e respinge le pesanti accuse mosse dall’opposizione al Governo: “Le accuse di Salvini sono false e irresponsabili. Perché è falso e irresponsabile individuare nelle disposizioni approvate dal Governo per fronteggiare l’emergenza sanitaria e il problema del sovraffollamento, la causa della scarcerazione di alcuni condannati per reati di mafia. Ed è falso e irresponsabile attribuire al Governo e alla maggioranza che lo sostiene un qualche arretramento nella lotta alle mafie”.

Le norme del Governo, contenute nel decreto Cura Italia del 18 marzo, non c’entrano nulla dunque con le scarcerazioni dei boss di cui si parla in questi giorni.

“Assolutamente no. Abbiamo agito per ridurre il sovraffollamento e in tal modo contenere i rischi di diffusione del Coronavirus prevedendo, attraverso gli articoli 123 e 124 del decreto, che il magistrato di sorveglianza potesse disporre la detenzione domiciliare, ma solo per chi non si era macchiato di reati particolarmente gravi (esclusi quindi mafia, terrorismo e altre fattispecie gravi di reato) e con un residuo di pena non superiore ai 18 mesi. Ed abbiamo previsto che il magistrato potesse estendere (fino al 30 giugno) le licenze straordinarie a chi era in regime di semi libertà, ovvero a quei detenuti che di giorno potevano uscire ma che la sera dovevano fare rientro in carcere. L’obiettivo di queste due disposizioni era ed è quello di ridurre appunto il sovraffollamento negli istituti penitenziari, senza minimamente allentare le misure di contrasto alla criminalità organizzata e alle mafie. Tra l’altro la detenzione domiciliare accordata deve essere accompagnata dal braccialetto elettronico nei casi in cui il fine pena sia superiore ai 6 mesi”.

Cosa è accaduto allora?

“E’ accaduto che i magistrati hanno ritenuto di accogliere alcune istanze di scarcerazione e di sospensione dell’esecuzione della pena, per motivi di salute, sulla base di quanto prevedono gli articoli 146 e 147 del codice penale. Se il detenuto è in uno stato di salute incompatibile con la detenzione carceraria, il magistrato di sorveglianza può sospendere l’esecuzione della pena qualsiasi reato abbia commesso e disporre il ricovero in ospedale, la detenzione domiciliare o il trasferimento presso un’altra struttura carceraria meglio capace di garantire il diritto alla salute. Nessuna scarcerazione di detenuti per reati di mafia è stata disposta in virtù degli articoli 123 e 124 del decreto Cura Italia. Nessuna delle 376 scarcerazioni di cui hanno parlato i giornali è avvenuta in conseguenza delle misure adottate per cercare di ridurre il sovraffollamento. Delle 376 scarcerazioni, peraltro, solo 155 sembrano essere state disposte dai magistrati di sorveglianza (nei confronti di detenuti condannati con sentenza definitiva) e solo 2 nei confronti di detenuti sottoposti al regime del 41 bis”; le altre circa 196 scarcerazioni sono sostituzioni di misure cautelari (dalla custodia in carcere agli arresti domiciliari e 1 sola di queste riguarda un detenuto sottoposto al 41 bis)"

A questo punto il Governo mette in campo altri due decreti legge.

“Sì uno il 30 aprile con il quale si prescrive ai magistrati di sorveglianza che devono decidere sulle richieste di detenzione domiciliare (anche ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale), di acquisire il parere all’antimafia in ordine alla pericolosità del soggetto e al permanere dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata sul territorio. Si tratta di una previsione che non intende affatto comprimere le prerogative dei magistrati di sorveglianza, né ovviamente compromettere la loro autonomia di giudizio che rimane immutata. C’è poi il decreto di sabato sera che prevede che i magistrati di sorveglianza verifichino se permangono i presupposti di fatto sulla base dei quali hanno disposto la detenzione domiciliare (di condannati per reati di mafia), entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile. Nell’effettuare tale giudizio i magistrati dovranno sentire l’autorità sanitaria regionale e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP)”.

Il problema del sovraffollamento delle carceri permane. O a questo punto il problema è più quello opposto di riportare nelle carceri condannati pericolosi?

“Il problema rimane e se in passato avessimo avuto più coraggio nel mettere in campo misure contro il sovraffollamento delle carceri, forse sarebbe stato più facile affrontare anche l’emergenza sanitaria. Le do un po’ di dati. Al momento la popolazione carceraria è di 52915. La capienza regolamentare delle carceri è di circa 51mila, quella ‘effettiva’ 48mila. Negli ultimi mesi la situazione è migliorata: al 29 febbraio i detenuti erano infatti 61.230, circa 7.000 in più di oggi. Tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare, specie se consideriamo che all’origine della diminuzione vi è una significativa riduzione degli arresti, che potrebbe nei prossimi mesi ritornare a crescere. La posta in gioco è la salute di tutti: della polizia penitenziaria, del personale amministrativo, dei detenuti e anche dei cittadini liberi. Il carcere è una realtà complessa, difficile, chiusa e tuttavia è una realtà che non possiamo considerare separata ed estranea alle nostre comunità. Occorrono insomma nuove e coraggiose misure strutturali, capaci di dare piena ed effettiva attuazione alla funzione rieducativa della pena (prescritta dall’art.27 della Costituzione) valorizzando le misure alternative al carcere e considerando perciò quest’ultimo l’estrema ratio”.

Pochi i mafiosi “eccellenti” ai domiciliari. E il Covid non c’entra. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 maggio 2020. I detenuti al 41 bis che fecero tanto scalpore, ovvero Francesco Bonura (fine pena tra pochi mesi) e Pasquale Zagaria (finito in detenzione domiciliare per 5 mesi e poi ritorna dentro), avevano ottenuto il differimento pena per gravissimi motivi di salute e il Covid non c’entra nulla. Ma non finisce qui. Mentre è arrivata una nuova lista sul tavolo del Dap composta da nominativi di persone reclusi al 41 bis o in alta sicurezza che hanno fatto istanza per i domiciliari, c’è il capo della procura nazionale Federico Cafiero De Raho che si dice sorpreso per la concessione della detenzione domiciliare visto che – soprattutto per i reclusi al 41 bis – non c’è rischio di contagio da Covid 19. Il problema è che per quanto riguarda i nomi “eccellenti”, il coronavirus c’entra ben poco. O meglio, in alcuni casi è solo un problema aggiuntivo. Come detto e ridetto, i detenuti al 41 bis che fecero tanto scalpore, ovvero Francesco Bonura (fine pena tra pochi mesi) e Pasquale Zagaria (finito in detenzione domiciliare per 5 mesi e poi ritorna dentro), avevano ottenuto il differimento pena per gravissimi motivi di salute e il Covid non c’entra nulla. Ma non finisce qui. C’è ad esempio il nome dell’ergastolano Franco Cataldo, uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi ucciso e sciolto nell’acido, il quale ha ottenuto il differimento della pena per 6 mesi. Qui il Covid 19 è un problema aggiuntivo. Anziano e malato terminale perché affetto da due tumori, nei mesi scorsi era stato trasferito nel carcere di Opera proprio per essere curato, ma poi la zona di Milano è diventata l’epicentro del contagio e i giudici non hanno avuto molte alternative, viste le sue condizioni di salute. Nella famosa lunga lista, ma scarna di detenuti “eccellenti”, compare il nome di Rosalia Di Trapani, la moglie del boss Salvatore Lo Piccolo e condannata a 8 anni per estorsione aggravata. Ha ottenuto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, non a casa – perché per la sua pericolosità le è assolutamente vietato mettere piede a Palermo – ma in una casa di riposo di Messina. Tuttavia, come ormai sta emergendo in molti casi simili, a dispetto degli allarmi, il Coronavirus ancora una volta non c’entra proprio nulla. Il permesso per un mese le è stato concesso per motivi di salute perché la struttura carceraria non poteva garantire le cure indispensabili. Il Tribunale, oltre a vietare ogni tipo di contatto con i parenti, anche telefonici, le ha imposto di restare appunto a Messina. L’altro eri il gup di Palermo aveva respinto l’istanza di scarcerazione del vecchio boss di Pagliarelli, Settimo Mineo, recluso al 41 bis a Sassari e in attesa di giudizio con l’accusa di aver presieduto la nuova Cupola di Cosa nostra, smantellata a dicembre 2018 dai carabinieri. Il giorno prima – per l’ennesima volta – è stata negata la detenzione domiciliare a Gaetano Riina, fratello dell’ex capo dei capi. Non è un ergastolano e nemmeno un recluso al 41 bis. Ha 87 anni e presenta diverse patologie. Ha scontato nel carcere torinese una condanna a otto anni per estorsione e associazione mafiosa comminata dalla corte d’appello di Palermo per aver sostituito il fratello dopo la carcerazione nel 1993 – questa era l’accusa – alla guida del mandamento di Corleone. La pena era stata espiata interamente a luglio dell’anno scorso, ma Gaetano Riina resta in cella per un’altra condanna – ma non per mafia – dei giudici di Napoli e il fine pena è fissato al 2024. Ma se venisse concessa la liberazione anticipata, lui finirebbe di scontare la pena il prossimo anno. Ora il vice capo del Dap Roberto Tartaglia sta esaminando i fascicoli riguardanti le 456 richieste per i domiciliari (riguarda chi è in attesa di giudizio) o detenzione domiciliare (i definitivi), ma bisogna capire quanti siano per motivi legati al Covid 19. Attualmente ci sono casi di persone con gravi patologie dove i centri clinici penitenziari sono insufficienti e la detenzione risulta incompatibile. Un problema, quello sanitario, che deve essere risolto con un investimento nell’approntare all’interno degli istituti dei presidi specialistici idonei. Inasprire le norme, senza curare questi aspetti, rischierebbe di violare i diritti dell’uomo. 

Il boss Morabito “U Tiradritto” abbandonato al 41 bis è in gravissime condizioni di salute. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 maggio 2020. Ha 86 anni ed è “murato nel carcere di Opera di Milano. Ha febbre a 39, patologie che si sarebbero aggravate a causa di presunte mancate cure e accompagnato da un deterioramento cognitivo. Ha 86 anni e verserebbe in condizioni gravissime al 41 bis del carcere “Opera” di Milano. Ha febbre a 39, patologie che si sarebbero aggravate a causa di presunte mancate cure e accompagnato da un deterioramento cognitivo. Non stiamo parlando di un detenuto qualunque, ma di Giuseppe Morabito, detto U Tiradrittu, considerato a suo tempo il numero uno della ‘ndrangheta.  «Il 29 aprile dovevamo sentirlo al telefono – spiega al Il Dubbio l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti , il legale del recluso – , ma asserendo che le linee erano occupate (con il colloquio telefonico prenotato da tempo) il carcere di Milano non l’ha fatto chiamare». Dal 2004 è ininterrottamente recluso al 41 bis e dall’ultima perizia depositata urgentemente per chiedere un differimento pena per gravi motivi di salute emerge un quadro devastante. Si legge che presenta una enorme ernia inguinale bilaterale, maggiore a sinistra, condizionante dolore cronico; un voluminoso adenoma prostatico inoperabile in portatore di catetere vescicale a permanenza da circa 15 anni, con ricorrenti infezioni delle vie urinarie; cardiopatia ipertensiva in precario compenso; reiterati riscontri di iperglicemia al DTX, in assenza di accertamenti specifici; broncopneumopatia cronica ostruttiva; insufficienza venosa agli arti inferiori; cataratta bilaterale con indicazione all’intervento; diverticolosi del colon; gozzo multinodulare normofunzionante; artrosi polidistrettuale; sindrome ansioso-depressivo. Dopo una serie infinita di istanze e solleciti, al DAP, al Garante regionale, al Direttore e all’area sanitaria, i familiari hanno deciso di depositare una denuncia – querela al procuratore della Repubblica del tribunale di Milano perché Morabito versa in condizioni gravissime e – a detta loro – totalmente abbandonato a se stesso.  Secondo i familiari, Giuseppe Morabito sarebbe stato lasciato in una condizione di totale abbandono, degrado igienico-sanitario, con negazione delle cure indispensabili per la sua vita, non solo per l’età ma soprattutto per le importanti patologie che lo affliggono.  «Il quadro – si legge nella denuncia – si è aggravato negli ultimi due mesi, a causa di un elevato e costante stato febbrile per il quale è stato isolato, due volte per 15 giorni, negli ultimi due mesi, per come lo stesso ha riferito, faticosamente, nel corso dell’ultimo colloquio e di un’enorme ernia a rischio di strozzamento». Morabito stesso ha chiesto ripetutamente aiuto, tramite il difensore, che ha inoltrato richieste continue di intervento rimaste ad oggi inevase. Sempre i familiari chiedono al procuratore di valutare «il grave comportamento omissivo, contrario al senso di umanità e ai valori costituzionali e sovranazionali», essendosi trasformato, per il loro vecchio genitore, «lo stato detentivo in una condanna a morte tra atroci sofferenze e torture, che nessun essere vivente merita di sopportare in uno Stato di Diritto, che deve salvaguardare la vita e la salute». Parole forti, ma corroborate dalle continue richieste di intervento avanzate dal loro legale.«Il mio assistito ha 86 anni – spiega a Il Dubbio l’avvocata Giovanna Araniti del foro di Reggio Calabria – e sta scontando un trentennale non per omicidio, ma per reati di droga e associazione mafiosa, ed ininterrottamente detenuto da 16 anni». L’avvocata denuncia: «Quale che sia il titolo di reato commesso, non è ammissibile che in uno Stato che osa definirsi di diritto, un detenuto vecchio e malato debba morire di carcere, perché sottoposto al 41 bis O.P., in totale stato di abbandono».  Infine conclude: «Le condizioni deplorevoli in cui è stato lasciato per anni, nonostante le sue gravissime patologie, finalmente, dopo decine di richieste, sono state accertate con perizia di ufficio depositata l’altro ieri, presso il Tribunale di Roma che sta trattando l’ennesimo reclamo avverso la proroga del 41 bis».Giuseppe Morabito, come detto, è noto anche come u tiradrittu.  Dal dialetto calabrese vuol dire “spara dritto”, ovvero colui che tira dritto senza rispetto di alcuna regola o persona. Lo Stato dovrebbe essere diverso. Stato di Diritto o U Tiradrittu?

Strutture sanitarie inesistenti: i domiciliari a quei 376 mafiosi sono inevitabili. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 7 magio 2020. La Repubblica grida allo scandalo per i domiciliari concessi ai presunti boss, ma la verità è che le strutture sanitarie in carcere sono inadeguate a garantirne il diritto di salute dei detenuti: è questo il vero scandalo. Le polemiche per la detenzione domiciliare a 376 boss reclusi in alta sicurezza, solo tre al 41 bis, continuano a essere al centro del dibattito. Indirettamente si ritorna all’attacco dei magistrati di sorveglianza o i Gip che hanno emesso queste ordinanze. In un articolo di Repubblica si grida allo scandalo, perché in realtà i magistrati delle procure distrettuali antimafia dicono che basterebbe trasferirli nei centri medici penitenziari, considerati – a detta loro – strutture di eccellenza della nostra sanità. Ma è esattamente così? Forse c’è bisogno di fare chiarezza. Più volte è stato detto che basterebbe mandare i detenuti con gravi patologie fisiche nei centri clinici penitenziari di Roma e Viterbo. Partendo dal fatto chela detenzione domiciliare è stata concessa perché tali patologie sono quelle che possono provocare una morte certa, se contagiati dal Covid 19 (e già tre detenuti sono morti per questo), bisogna capire se effettivamente, allo stato attuale, i magistrati hanno possibilità di scelta e quindi possano assecondare le istanze dei procuratori. Un conto è la teoria, l’altra è la realtà che ben pochi conoscono. Il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa, interpellato da Il Dubbio sul punto, spiega: «Vorrei chiarire che parliamo di due situazioni diverse: una cosa sono i vecchi centri clinici penitenziari (ora Sai), destinati a lungodegenze croniche in ambito penitenziario (Regina Coeli a Roma), altro sono i reparti ospedalieri di medicina protetta (Viterbo Belcolle e Roma Pertini), con pochi posti destinati a ricoveri funzionali a diagnostica, terapia e pre-ospedalizzazione per interventi chirurgici. Questi ultimi sono anche qualificati, ma con pochi posti e per periodi brevi. I vecchi centri clinici, invece, sono delle specie di Rsa penitenziarie. Non mi pare che si possa parlare di eccellenze. Almeno fino a quando governo e regioni non decideranno che cosa farne, dopo la riforma del 2008 (il passaggio dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, ndr)».Questo è il punto. I famosi centri sanitari di “eccellenza” più volte citati dai chi si indigna per le scarcerazioni, si trovano nei reparti ospedalieri di medicina protetta di Viterbo e Roma, ma sono pochi i posti per ricoverare i detenuti bisognosi di terapia. Altra questione. A causa dei pochi centri clinici che, come ha sottolineato Anastasìa sono delle vere e proprie Rsa, non il massimo ai tempi del Covid 19, molti detenuti vengono trasferiti nel reparto di assistenza intensiva del carcere di Parma. Il risultato? Non ci sono posti letto liberi, occupati da detenuti con degenze lunghissime, anche di molti mesi e pertanto con un ricambio praticamente inesistente. E tutto ciò crea un altro problema ancora più volte segnalato dal garante locale Roberto Cavalieri: costringe detenuti parimenti ammalati, rispetto a quelli ricoverati al Sai a restare in celle ordinarie di sezioni ordinarie, con i conseguenti problemi di conciliazione tra necessità sanitarie e spazi detentivi inadeguati. Anche Rita Bernardini del Partito Radicale denuncia il problema. Lo ha ricordato durante la trasmissione di Radio Carcere condotta da Riccardo Arena. «La sanità penitenziaria è a pezzi e non è in grado di assicurare a decine di migliaia di detenuti i livelli minimi di assistenza. Il coronavirus porta alla luce il tradimento della riforma di 12 anni fa che prevedeva il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Quanti documenti in proposito ha prodotto, inascoltato, il dottor Francesco Ceraudo?». Recentemente, infatti, è stata presentata una interrogazione parlamentare da parte di Roberto Giachetti proprio su questa questione. L’altro problema riguarda la Sardegna, dove sono concentrati numerosi detenuti in alta sicurezza o al 41 bis. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria, dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante nazionale delle persone private della libertà aveva evidenziato «l’esigenza di avere nella regione almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41-bis o.p.». A tal fine aveva formulato la seguente raccomandazione (tenendo in conto della presenza nella regione rispettivamente di 520 e 90 persone detenute in Alta Sicurezza o in regime speciale): «Il Garante nazionale raccomanda al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in regime ex articolo 41-bis o.p., attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema». Purtroppo non c’è stata alcuna da parte dell’Amministrazione. Come se non bastasse, in un Rapporto tematico sul 41 bis, il Garante aveva osservato le difficoltà di traduzione di una persona detenuta in alta sicurezza o in tale regime speciale laddove non esistesse un Sai che garantisse tutela della salute e sicurezza. Si legge in quel Rapporto: «è il caso della Sardegna, ove non è disponibile un Sai che possa essere utilizzato a tutela della loro salute, giacché quello dell’Istituto di Sassari – strutturato originariamente per tale popolazione detenuta – è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari-Uta, è riservato al circuito della media sicurezza». Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – fa sapere Il garante Mauro Palma tramite il bollettino odierno – aveva risposto relativamente alle traduzioni in termini generali citando l’estrema rarità della ipotesi prospettata dal Garante. Proprio per questo, il tema era stato ribadito nel Rapporto redatto a seguito della visita condotta nel luglio 2019 e il Garante nazionale, richiamando la Raccomandazione già formulata nel 2017, aveva rilevato come la peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in istituti della Sardegna potesse rischiare di determinare la compressione di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute. Se da una parte si parla dei detenuti scarcerati per motivi gravi di salute, dall’altra non nasce lo scandalo per tutti quei detenuti che muoiono per patologie. In ognuno di loro c’è una storia, in molte riguarda proprio il diritto alla salute violato. E a proposito di ciò, sarebbe il caso di ricordare della morte dell’ergastolano ostativo Mario Trudu. Da 41 anni in carcere, mai usufruito di alcun permesso. Era gravemente malato e l’unica possibilità di curarsi adeguatamente era quella di andare via dal carcere. Dopo una lunga battaglia condotta dal suo legale Monica Murru, era riuscito ad ottenere la detenzione domiciliare e finalmente avrebbe avuto la possibilità di curarsi adeguatamente. Ma troppo tardi: dopo pochi giorni di “libertà” morì in ospedale. Facile dire che il sistema penitenziario ha strutture di eccellenza per curare i detenuti gravemente malati. Difficile, però, guardare in faccia alla realtà, riconoscere il problema e risolverlo.

 “Carceri italiane inumane e incostituzionali”. Parola di Gherardo Colombo. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Le “confessioni” dell’ex magistrato: “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile”. “Ritengo il carcere così com’è, non in coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente”. Lo afferma in una intervista all’Huffington Post l’ex Pm Gherardo Colombo. “Nemmeno io riuscivo a concepire una società senza la pena del carcere, quando ho iniziato a fare il magistrato – ha aggiunto – Credevo che la pena, inflitta rispettando tutte le garanzie del condannato, avesse una forza educativa. Non sbagliavo. Semplicemente, non mi ero mai chiesto a cosa educasse. In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anzichè mostrare che la regola risponde a un principio di ragione”. L’ex magistrato ricorda che ad un certo punto del suo percorso professionale, “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse piu’ compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”. Secondo Colombo, “Lo spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione”. E quindi, una società senza carcere, si baserebbe secondo l’ex magistrato “sull’idea del recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restand – ha concluso – che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo”.

Flick: “Così hanno espulso la Costituzione dalle nostre carceri”. Il Dubbio il 2 maggio 2020. Secondo il presidente emerito della Consulta, “a sconcertare è che lo sbilanciamento non è opera solo dell’opinione pubblica mediatico- politica: a lasciare perplessi sono le valutazioni che provengono da alcuni magistrati. Da chi è preparato e ben conosce la Costituzione”. «Mi ero illuso. Avevo visto nella tragedia dell’epidemia un futuro spiraglio di luce almeno per i diritti dei detenuti. Ero convinto che l’impressione di condannati costretti a vivere in promiscuità persino in pieno allarme coronavirus avrebbe dimostrato quanto la detenzione inframuraria sia inadeguata al recupero del condannato. Invece dal decreto di Bonafede in arrivo in Gazzetta ufficiale riconosco addirittura un peggioramento del clima. E assisto alla scena desolante di una Corte costituzionale entrata nelle carceri dalla porta mentre era proprio la Costituzione a uscire, per la finestra, dal sistema penitenziario». Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, considera le norme volute da Bonafede — che obbligheranno il giudice di sorveglianza ad attendere per 15 giorni il parere del procuratore nazionale antimafia prima di concedere i domiciliari ai detenuti in regime di 41 bis gravemente malati — meno devastanti di quanto temuto: «Si era vociferato, nei giorni scorsi, di un parere della Dna qualificato come vincolante. Non è così. Eppure le nuove norme sui domiciliari segnalano il precipitare del clima. Vale a dire una parabola opposta al mio auspicio di vedere più umanità nell’esecuzione penale proprio in virtù del coronavirus. Con l’ingresso del procuratore nazionale Antimafia sulla scena, le decisioni sui domiciliari rischiano di lasciare in un angolo il diritto alla salute e imporre ancora una volta una visione carcerocentrica».

La tragedia del covid avrebbe dovuto almeno scongiurare altri casi come quello di Provenzano. E invece entra in vigore un decreto che va in direzione opposta.

«Alla vigilia delle sentenze, della Cedu prima e della nostra Corte costituzionale poi, sulla compatibilità fra benefici e reati ostativi, avevamo assistito allo stesso fuoco di fila. Siamo sempre in quella scia, su un filo sottilissimo che vede compromesso ora non solo il fine rieducativo della pena ma anche l’articolo 32 della Costituzione: la salute come diritto dell’individuo da tutelare sopra ogni cosa. A sconcertare è che lo sbilanciamento non è opera solo dell’opinione pubblica mediatico- politica: a lasciare perplessi sono le valutazioni che provengono da alcuni magistrati. Da chi è preparato e ben conosce la Costituzione».

Il decreto di Bonafede sui domiciliari per chi è al 41 bis cancella i diritti dell’individuo?

«Nella sua forma è un provvedimento meno pesante del previsto. Va apprezzato il ridimensionamento delle ipotesi iniziali, secondo cui il parere del procuratore nazionale Antimafia avrebbe dovuto diventare vincolante per i giudici di sorveglianza. Ma intanto, proprio a questi ultimi sento di dover esprimere la mia solidarietà: comprendo la loro sensazione di essere commissariati, e implicitamente accusati di lassismo».

Saranno meno liberi di decidere, vista la delegittimazione?

«Ripeto: il problema è il clima generale. Bonafede ha opportunamente ribadito che il legislatore non può intromettersi nell’autonoma valutazione del giudice. Ma l’aria attorno ai magistrati di sorveglianza si è fatta ancora più pesante. Confido che avranno la forza di restare autonomi, nonostante tutto. Certo non è molto convincente vedere attribuita, a un magistrato che impersona l’accusa, la competenza sui domiciliari per gravi motivi di salute».

Come si è arrivati a una simile distorsione sul peso della Dna?

«Temo che abbia contribuito una consapevolezza non sufficientemente chiara delle diverse forme di detenzione domiciliare. Un conto è scontare la pena a casa come misura alternativa, dunque funzionale al trattamento del condannato, al recupero della sua personalità e identità. Di tutt’altra natura è l’istituto dei domiciliari come soluzione surrogatoria del differimento pena. Il punto è che tale seconda concezione dei domiciliari è stata contaminata da quella particolare accezione richiamata anche dal decreto 18, il “Cura Italia”: vale dire la misura alternativa della detenzione domiciliare concessa non solo in chiave trattamentale ma anche secondo una logica deflattiva. Una parte dell’opinione pubblica ha creduto che anche i detenuti al 41 bis avessero ottenuto i domiciliari per via di uno svuotacarceri? Si è certamente generata confusione. Eppure, senza entrare nel merito degli specifici casi che hanno suscitato scalpore, i giudici di sorveglianza hanno concesso la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti al 41 bis come forma sostitutiva surrogatoria del differimento pena per gravi motivi di salute. Un istituto che bilancia da una parte la necessità di interrompere la detenzione inframuraria di fronte a condizioni incompatibili col carcere, e dall’altra le esigenze di sicurezza sociale. Negli ultimi casi, sull’incompatibilità con la permanenza in carcere hanno pesato anche i rischi di contrarre il coronavirus considerata l’età anagrafica. Ora è stata introdotta una modifica in apparenza non sconvolgente, ma che comporta di fatto un ulteriore pesante sacrificio per il diritto alla salute».

Perché si tratta di un sacrificio pesante?

«Finora la valutazione del giudice di sorveglianza su casi simili era chiaramente regolata. La concessione dei domiciliari come rimedio sostitutivo del differimento pena è obbligatoria per i detenuti al 41 bis malati terminali: venne introdotta in relazione ai casi di Aids. Se il recluso affetto da gravissime patologie non risponde più alle cure, va scarcerato. La concessione dei domiciliari diventa facoltativa se non c’è una fase terminale ma il detenuto al 41 bis è comunque in condizioni molto gravi: in questo caso il giudice di sorveglianza non può adottare il provvedimento, oppure lo revoca, di fronte a un concreto pericolo di reiterazione del reato. Cosa cambia con il decreto Bonafede? Che il magistrato titolare della decisione, prima di concedere i domiciliari a un recluso al 41 bis gravemente malato, è obbligato a chiedere il parere del procuratore nazionale Antimafia. Ed è evidente come tale circostanza faccia precipitare il piatto della bilancia tutto dalla parte delle esigenze di sicurezza sociale. È come se ci fosse una chiara scelta di considerare il diritto alla salute nettamente subordinato a tali esigenze. Anche in virtù di un ulteriore sottile scarto interpretativo».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che secondo alcuni magistrati la concessione dei domiciliari per gravi motivi di salute va considerata solo in relazione alle cure che il detenuto al 41 bis potrebbe ricevere al di fuori della struttura penitenziaria: se in astratto non sarebbero più efficaci, secondo tale ottica non c’è motivo di portare il recluso fuori dalla galera. Secondo un’altra direzione giurisprudenziale, invece, innanzitutto secondo la Corte europea dei Diritti dell’uomo, chi è al 41 bis in buono stato di salute sconta una pena meno afflittiva di chi, in quel regime detentivo, si trova da malato grave. La consapevolezza di essere in carcere aggrava la pena, dunque la sofferenza, di una persona che già sta male. Ecco, con l’ultima soluzione normativa trovata, con l’enorme peso attribuito di fatto al parere della Dna, avremo forse procuratori Antimafia che entreranno nel merito delle cartelle cliniche e suggeriranno al giudice di non concedere i domiciliari, perché in fondo quella patologia non sarebbe curata meglio fuori che dietro le sbarre. Non solo, perché la norma è abbastanza ambigua da non poter escludere che qualcuno possa ritenere obbligatorio il parere della Dna persino per i detenuti in stato terminale, per i quali i domiciliari sarebbero obbligatori. Ma è così che diventa tristemente rovesciato l’esempio del viaggio nelle carceri compiuto dalla Corte costituzionale. Il giudice delle leggi era entrato negli istituti di pena dalla porta, ma così è proprio la Costituzione che esce dalla finestra del nostro sistema penitenziario».

Indignati per i domiciliari a un detenuto malato, ma silenzio per l’inesistenza delle cure per chi è al 41bis. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 maggio 2020. L’accusa principale al capo dimissionario del Dap Basentini è quella di aver risposto in ritardo per trovare un centro clinico adeguato per il detenuto pieno zeppo di patologie. Ma quelli che ora si stracciano le vesti sono gli stessi che si sono disinteressati della mancata assistenza sanitaria per i detenuti della regione Sardegna. Indignazioni, improbabili programmi come quelli condotti da Massimo Giletti, interrogazioni parlamentari e infine le dimissioni del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ( Dap) Francesco Basentini, tutte concentrate sulla detenzione domiciliare concessa a Pasquale Zagaria recluso al 41 bis del carcere di Sassari. L’accusa principale al capo del Dap è quella di aver risposto in ritardo per trovare un centro clinico adeguato per il detenuto pieno zeppo di patologie. Ma quelli che ora si stracciano le vesti, sono gli stessi che si sono disinteressati del grave problema riguardante l’assistenza sanitaria per i detenuti della regione Sardegna, compreso appunto coloro che sono in regime di alta sicurezza o al 41 bis. Sono reclusi per reati di mafia, in quel caso il diritto alla salute diventa un optional e, tranne questo giornale, a nessuno è interessato.  Ma il paradosso è che ora però si ricordano del problema sanitario nelle carceri quando un giudice, per salvare la vita di un detenuto, concede la detenzione domiciliare per curarsi meglio. Fin dal 2017, il garante nazionale delle persone private della libertà aveva posto l’attenzione proprio sulla Sardegna. Lo ha ricordato oggi tramite il suo bollettino settimanale. Già nel 2017, in un Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria dopo una visita regionale in Sardegna e successivamente pubblicato sul sito, il Garante  aveva evidenziato «l’esigenza di avere nella Regione [Sardegna] almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute in regime di alta sicurezza o in regime speciale ex articolo 41-bis o.p.». A tal fine aveva formulato la seguente Raccomandazione (tenendo in conto la presenza nella regione rispettivamente di 520 e 90 persone detenute in AS o in regime speciale): «Il Garante nazionale raccomanda al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella Regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in regime ex articolo 41-bis o.p., attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della Regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema». Purtroppo, tuttavia, non era seguita risposta alcuna da parte dell’Amministrazione. Come se non bastasse, in un Rapporto tematico  sul 41 bis, il Garante aveva osservato le difficoltà di traduzione di una persona detenuta in alta sicurezza o in tale regime speciale laddove non esistesse un Sai che garantisse tutela della salute e sicurezza. Si legge in quel Rapporto: «è il caso della Sardegna, ove non è disponibile un Sai che possa essere utilizzato a tutela della loro salute, giacché quello dell’Istituto di Sassari – strutturato originariamente per tale popolazione detenuta – è stato recentemente trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari-Uta, è riservato al circuito della media sicurezza». Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – fa sapere Il garante Mauro Palma tramite il bollettino odierno – aveva risposto relativamente alle traduzioni in termini generali citando l’estrema rarità della ipotesi prospettata dal Garante. Proprio per questo, il tema era stato ribadito nel Rapporto redatto a seguito della visita condotta nel luglio 2019 e il Garante nazionale, richiamando la Raccomandazione già formulata nel 2017, aveva rilevato come la peculiarità della collocazione delle persone detenute in alta sicurezza in Istituti della Sardegna potesse rischiare di determinare la compressione di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute. Nessuno si è indignato. Anzi, L’Espresso – lo stesso giornale che ha dato l’avvio all’indignazione – ha più volte scritto che il carcere modello per il 41 bis è proprio quello di Sassari. Dimenticandosi probabilmente che, oltre a vivere sotto terra, l’assistenza sanitaria per i reclusi al 41 bis con patologie gravi è inesistente.

«Io, ex giudice chiedo: chi ha distrutto la sanità penitenziaria?» Luigi Trapazzo su Il Dubbio il 2 maggio 2020. «Che fine hanno fatto i centri clinici delle carceri super attrezzati? Chi ne ha tratto non consentito vantaggio? Qualcuno risponda». Caro Direttore, sono un magistrato ordinario in pensione. Sono attento lettore de Il Dubbio anche in ragione della mia storia professionale. Ho fatto il giudice fino al luglio del 2000, quando, ad appena 60 anni, decisi di lasciare l’Ordine giudiziario per andare a cercare altrove lo spazio in cui meglio esercitare le mie pulsioni nel sociale. Ma sono rimasto sull’arena, fino al 2019, sotto la veste di avvocato cassazionista, dedito, tuttavia, più che alla libera attività forense (esercitata rare volte e sempre pro bono) a quella di tipo manageriale, in posizione di vertice in alcune rilevanti strutture pubbliche tra le quali l’allora Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma, l’ENAV SpA, e da ultimo, fino all’agosto del 2018, a titolo assolutamente gratuito, l’ATER Roma. Soltanto dopo lunga esitazione, ho infine deciso di portare all’attenzione pubblica, attraverso il Suo giornale, le molteplici falle che a mio avviso stanno per determinare l’esplosione del Corona virus nelle carceri italiane ed in tutte le altre strutture, pubbliche e private, nelle quali per ragioni istituzionali, sono obbligatoriamente riunite miriadi di persone. Mi riferisco, quindi, anche a tutti gli altri luoghi (ospedali, luoghi di cura, ospizi, conventi, seminari, RSA, accademie militari, convitti, caserme) la cui specificità non consente a quanti vi si trovano (costretti dai loro rispettivi ruoli, di amministrati e di amministratori, di sorvegliati e sorveglianti, a vivere gomito a gomito, in assoluta promiscuità) di potersene andare a casa, per esercitare da remoto il proprio ruolo. Sul fenomeno del sovraffollamento carcerario – in superamento delle violente proteste inizialmente espresse dai detenuti di alcuni istituti carcerari (e represse con modalità che hanno comportato la morte di diversi rivoltosi) e ad onta delle puntuali posizioni espresse al riguardo dal Cnf, da buona parte della magistratura di sorveglianza, ed anche dall’emerito Presidente emerito della Corte Costituzionale Professor Flick, già Ministro della Giustizia in anni per più versi bui – la voce più alta ed imperiosa finora udita appare soltanto quella di Papa Francesco. Ma finora, a parte l’incessante riproposizione, da più parti, della richiesta di ridurre il fenomeno del sovraffollamento carcerario attraverso la sostanziale liberazione di un gran numero dei reclusi, nessuno ha finora indicato quella che a mio avviso parrebbe la via maestra. Cioè lo smistamento di gran parte della popolazione carceraria nei numerosi spazi, sparsi in ogni parte d’Italia, isole e isolette comprese, dei quali l’amministrazione penitenziaria parrebbe essersi nel tempo spogliata e che oggi dovrebbe/potrebbe invece recuperare con un’azione rapida e incisiva. Allo scopo, appunto, di smistare in essi, senza celle a più letti, con ampia possibilità di movimento, tutte le persone che a vario titolo sono costrette a vivere l’una accanto alle altre, in obbligatoria contiguità. Accompagnato, tale esodo, da una profonda rivisitazione dell’intero sistema penitenziario, tra le cui pecche vi è anche quella di essersi privata di un proprio dedicato sistema di assistenza sanitaria in favore dei detenuti e degli internati. Siffatta missione, invece di essere potenziata ed estesa anche a favore della polizia penitenziaria, tuttora incomprensibilmente priva di propri medici competenti, venne stupidamente devoluta al Ssn e quindi alle aziende sanitarie locali nel cui ambito insiste ciascun Istituto, con inevitabili conseguenze negative. Non vi è più, ormai, una sanità penitenziaria interna, eguale in ogni Istituto carcerario, ma tante diverse sanità, affidate alla sensibilità, spesso carente, dei direttori generali delle tante aziende sanitarie locali nelle quali è suddivisa l’Italia, quasi tutti più attenti a curare buoni rapporti con il potere politico regionale da cui ciascuno di essi trae la propria legittimazione ad agire che a darsi da fare per rendere sempre più efficiente ed efficace l’azione complessiva delle loro aziende anche a vantaggio della popolazione carceraria. Non ho la veste per chiedere le dimissioni di chicchessia. E tuttavia mi sia consentito nutrire rilevanti perplessità sulle effettive capacità manageriali degli attuali vertici politici e amministrativi del sistema carcerario. Non conosco nè il Ministro della Giustizia nè il Capo del DAP. Conosco invece, personalmente, soltanto l’attuale direttore generale dei detenuti e del trattamento, chiamato a questo incarico soltanto da poco, già giudice di sorveglianza oltre che ex componente del Csm. Ma ho il timore, nonostante la sua assoluta bravura, che l’attuale contesto interno (e quello dell’intero governo) non saprà fornirgli il necessario sostegno. Ho lavorato nell’universo della Giustizia svolgendovi molteplici e non irrilevanti funzioni. Immediatamente giudiziarie quelle di Pubblico Ministero, di Giudice di sorveglianza, di Giudice d’appello penale. Di alta dirigenza amministrativa – negli anni di piombo e fino alla restaurazione del sistema del bastone e della carota attraverso la legge Gozzini, al quale mi opposi, nel 1983, con le mie volontarie dimissioni dall’incarico fino ad allora svolto e con il mio successivo rientro, poco dopo, in funzioni giudiziarie come Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano – come Direttore del Servizio sociale penitenziario e dell’assistenza ai detenuti, in breve della struttura centrale deputata al trattamento dei detenuti, dovunque ristretti. Venni così ad assicurare a tutta la popolazione carceraria (a fondamento del processo di rieducazione e nel contempo come strumento di maggiore ordine e sicurezza, volto a mettere al bando la violenza del manganello ed il prepotere dei capi bastone) la tutela dei loro fondamentali diritti allo studio, al lavoro, alla salute. Naturalmente accompagnato, tale processo, dall’avvio di un’estesa opera di formazione della polizia penitenziaria, purtroppo ancora insufficiente, come da tempo inutilmente rileva questa benemerita quanto misconosciuta categoria di operatori penitenziari in divisa. Credo da sempre nella rieducazione, a condizione che tutto il sistema vi creda, a partire proprio dal Personale della Polizia penitenziaria. Appare necessaria, insisto, una profonda rivisitazione del sistema sanitario in generale, ma anche della stessa organizzazione penitenziaria, volta a consentire che il personale del già Corpo degli Agenti di Custodia venga finalmente educato ad esercitare, con assoluta pienezza, il nuovo ruolo che ad essi spetta, di primi attori del processo di rieducazione dei detenuti e non più, come ancora oggi accade, di meri secondini. L’Amministrazione Penitenziaria ha saputo assicurare, nonostante quei tempi oscuri e sia pure con molteplici défaillances, il trattamento della popolazione carceraria, dando ampio riconoscimento al diritto allo studio, al lavoro, all’assistenza sanitaria, sia intramurale che extra murale, all’epoca organizzata in ben cinque Centri Clinici penitenziari super attrezzati, molto noto quello di Pisa. Che fine hanno fatto questi Centri? Chi ne ha tratto non consentito vantaggio? Qualcuno risponda! Grazie per l’attenzione. Luigi Trapazzo

Il caso. “Zagaria ha il cancro, se resta in carcere muore”, ma Bonafede grida allo scandalo. Angela Stella su il Riformista il 28 Aprile 2020. Continua a far discutere la scarcerazione di Pasquale Zagaria, decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari per motivi di salute. In tanti la definiscono ingiusta, scandalosa, immorale, vergognosa. Una lettura troppo semplicistica della vicenda che merita l’analisi delle carte. Prima di entrare nel dettaglio del provvedimento vediamo cosa è successo: Pasquale Zagaria, 60 anni, fratello di Michele, boss del clan dei Casalesi, trascorrerà i prossimi cinque mesi ai domiciliari in un paesino in provincia di Brescia, insieme alla moglie e ai due figli. Potrà uscire solo per esigenze sanitarie. Era detenuto al regime di 41 bis a Sassari per finire di scontare una pena di 20 anni. L’imprenditore edile era stato condannato per estorsione, sequestro di persona, detenzione illegale di armi ma non si è mai macchiato di reati di sangue. È considerato dagli inquirenti la mente economica del clan del Casalesi, dopo aver trasferito il settore di maggior interesse del clan, il cemento, a Parma, città nella quale, grazie a lui, la cosca ha pilotato l’aggiudicazione di appalti a ditte “amiche”. Ma ora cerchiamo di capire bene i motivi alla base della decisione del Tribunale di Sorveglianza riportando alcuni stralci dell’ordinanza, il cui estensore è il dottor Riccardo De Vito. Sono state necessarie, per acquisire tutti gli approfondimenti istruttori, quattro udienze, una a marzo e tre ad aprile al fine di esaminare le carte prodotte dalla difesa, la documentazione sanitaria del carcere, le informazioni delle forze dell’ordine. In merito al quadro clinico «non vi è dubbio – si legge nell’ordinanza – che il detenuto soffra di una patologia grave e qualificata – carcinoma papillifero della vescica, per la quale ha subito un importante intervento chirurgico di resezione transuretrale della vescica e un successivo ciclo di immunoterapia per instillazione endovescicale». Il problema, scrive De Vito, è che «il paziente non può effettuare il follow-up post-chirurgico e post-terapia in quanto il Centro clinico di riferimento è stato individuato come Centro Covid-19». Quindi, il magistrato ritiene che «sarebbe opportuno il trasferimento del paziente presso altro Istituto che possa garantire il prosieguo dell’iter diagnostico-terapeutico». A seguito di tali informazioni, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari il 9 aprile chiede ulteriori approfondimenti al responsabile sanitario del carcere per «verificare se vi fossero ulteriori strutture ospedaliere in Sardegna ove poter effettuare il follow-up previsto – e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per verificare l’eventuale possibilità di trasferimento in altro Istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure». Mentre il 23 aprile dalla casa circondariale di Sassari fanno sapere che il paziente non può effettuare i controlli previsti «né presso l’Aou di Sassari né all’interno della CC di Sassari», «dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è giunta risposta alcuna». Questi i motivi oggetti della decisione: esistenza di una malattia grave e necessitante cure che non possono essere effettuate nel circuito penitenziario, con concreta esposizione a un pericolo di esito letale; sussistenza di rischio di gravi complicanze in caso di contrazione del virus Sars-Cov-19. Pertanto, «all’esito di un confronto tra storia clinica del paziente e testo normativo, questo Tribunale reputa che […] Pasquale Zagaria debba avere accesso al differimento della pena per grave infermità fisica». «Lasciare il detenuto – conclude De Vito – in tali condizioni, pertanto, equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità». Inoltre i magistrati di sorveglianza hanno valutato anche la pericolosità sociale del detenuto, escludendola per vari motivi. Su questa scarcerazione il ministero della Giustizia vuole vederci chiaro e ha incaricato gli ispettori di Via Arenula di svolgere accertamenti, anche all’interno del Dap per fare luce sulle presunte mancate risposte alle richieste giunte da Sassari. Bonafede sta valutando di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia: domani su questo si riunisce la Commissione Antimafia, presieduta dal pentastellato Nicola Morra. D’accordo su questa proposta anche Franco Mirabelli, capogruppo dem in commissione Antimafia e Walter Verini, responsabile Giustizia nella segreteria nazionale del Pd. Fratelli d’Italia chiede una audizione urgente del Guardasigilli e del capo del Dap Basentini nella stessa commissione. Critico anche Matteo Renzi (IV): «La scarcerazione dei superboss di Camorra e Ndrangheta è inaccettabile. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna. Oppure venga lui in Parlamento ad assumersi le sue responsabilità». In sostegno invece si esprime l’Associazione Antigone, con il Presidente Patrizio Gonnella: «La magistratura di sorveglianza deve poter svolgere il proprio lavoro in modo indipendente applicando la legge. La legge, a partire dalla nostra Costituzione, prevede che il diritto alla salute sia garantito ad ogni individuo».

«Cutolo è un ex boss, vecchio e malato: che senso ha il 41 bis per lui?» Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 aprile 2020. Il tribunale di sorveglianza dovrà decidere le sorti del vecchio camorrista malato. L’avvocato Gaetano Aufiero spiega: «per lui i domiciliari sono giustificati per i gravi motivi di salute in questo periodo di emergenza covid». C’è attesa per la decisione del magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia sull’istanza relativa alla detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, avanzata dall’avvocato Gaetano Aufiero, del foro di Avellino, per conto del suo assistito Raffaele Cutolo. È detenuto al 41 bis del carcere di Parma e di recente è stato dimesso dall’ospedale a causa di una grave crisi respiratoria. Una decisione, da parte della magistratura di sorveglianza, che non sarà semplice. Soprattutto alla luce delle polemiche seguite alla concessione degli arresti domiciliari – con ordinanze cristalline e impeccabili – per gravi motivi di salute a due boss mafiosi. Uno è Francesco Bonura, gravemente malato, al quale mancano pochi mesi per il fine pena. L’altro è Pasquale Zagaria per il quale la pericolosità sociale è stata smentita già nel 2011, quando la Corte d’Appello di Napoli gli ha revocato la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Eppure i soliti giornali, dopo aver creato un uragano, travolgendo lo Stato di Dritto, grazie alle istituzioni che assecondano hanno stilato una lunga lista di nomi che secondo loro potrebbero uscire dal carcere accostando il nome del mafioso Leoluca Bagarella a quello di Raffele Cutolo. «Ma come si fanno a fare questi confronti – spiega l’avvocato Aufiero a Il Dubbio – con chi appartiene alla mafia, ha fatto stragi e gestisce un potere economico criminale». L’avvocato sottolinea: «Cutolo è una persona sola, ultraottantenne, afflitta da malattie e reclusa da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. Vada a vedere – continua l’avvocato – in quale condizione vivono i suoi familiari ad Ottaviano». Il legale di Cutuolo descrive così l’esatta dimensione delle cose. Che senso ha il 41 bis in questi casi? L’importanza strategica che ha svolto il regime differenziato nella lotta alla criminalità organizzata dovrebbe essere ben chiarita. L’obiettivo è volto a impedire che il detenuto continui a mantenere collegamenti, e possa dunque impartire ordini e direttive, pur dal carcere, con le associazioni criminali di riferimento. Se il 41 bis ha più volte superato il vaglio della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, questo è grazie a quei magistrati di sorveglianza che hanno emesso misure come quelle che ora hanno creato indignazioni. Intervenire con una norma per scoraggiare questi provvedimenti, vuol dire rischiare proprio di porre fine al 41 bis. Il paradosso è che potrebbe non superare più il vaglio grazie a chi invoca il pungo duro senza se e senza ma. Ma ritorniamo a Cutolo. Nel suo caso, al di là dell’incompatibilità di salute o meno con il carcere, c’è anche la questione dell’emergenza Covid 19. «Se Cutolo continua a manifestare grave patologie, e in particolare se quelle pneumologiche non hanno trovato definitiva soluzione – scrive l’avvocato nella sua memoria -, cosa accadrebbe in piena emergenza epidemiologica e con gli ospedali di Parma e dell’intera Regione Emilia Romagna ancora interessati all’emergenza come veri e propri presidi Covid-19, se dovesse rendersi necessario e non rinviabile un ricovero del Cutolo, come avvenuto il 19 febbraio, in piena notte ed in fin di vita?». Resta il fatto che al rientro presso il carcere di Parma, il personale sanitario dello stesso Istituto Penitenziario ha annotato il diario clinico di Cutolo con queste precise parole: «Il paziente deambula a fatica ed il bagno non è adeguato per poter aiutare il paziente nell’espletamento delle sue funzioni… il paziente necessita di una sistemazione più adeguata e di aiuto continuo». Da allora, nonostante siano trascorsi 50 giorni, secondo l’avvocato Aufiero non risulta siano stati adottati provvedimenti finalizzati a una più mirata assistenza di Cutolo all’interno della cella in cui è ristretto: a oggi non è in grado di autogestirsi e la cella in cui è recluso per l’intero arco della giornata non è affatto adeguata, «ma, ciò che appare ancor più grave – sottolinea il legale -, l’intera sezione di 41 bis non ha un presidio medico notturno, con la conseguenza che potrebbe essere impossibile fronteggiare un’eventuale crisi del detenuto durante la notte». C’è da chiedersi se per davvero un eventuale differimento pena per Cutolo, e in più provvisorio, possa davvero scatenare indignazioni. Al quel punto sarà davvero difficile delineare una linea demarcazione tra il bene e il male, tra lo Stato e la mafia. Ma soprattutto tra lo Stato di Diritto e quello di Polizia.

Cutolo grave in carcere, Salvini e Borrelli esultano ma l’avvocato frena: “Siamo in attesa”. Ciro Cuozzo su il Riformista il 28 Aprile 2020. Da una parte due populisti, seppur politicamente distanti, dall’altra l’ex capo della Nuova Camorra Organizzata che ha già passato in carcere 56 dei suoi 78 anni di vita ed è attualmente, stando alle relazioni mediche, in gravi condizioni di salute. I primi due, Matteo Salvini, leader della Lega, e Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale della Campania e giornalista professionista (che ogni tanto cade in qualche fake news), fanno a gara a chi annuncia per primo sugli amati social la scarcerazione negata a Raffaele Cutolo, rappresentato dall’avvocato Gaetano Aufiero che – al 21 di martedì 28 aprile, diverse ore dopo gli annunci di Salvini e Borrelli – nega di aver ricevuto alcuna comunicazione. E’ chiamato a pronunciarsi il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Reggio Emilia che una settimana fa, martedì 21 aprile, ha ricevuto l’istanza per la concessione degli arresti domiciliari. Cutolo è detenuto in regime di 41 bis nel carcere di massima sicurezza di Parma. Lo scorso febbraio, in seguito a una crisi respiratoria avvenuta nella notte tra  martedì 18 e mercoledì 19, è stato ricoverato nel reparto riservato ai detenuti nell’ospedale di Parma. Dopo oltre due settimane, in piena pandemia di coronavirus, è tornato in cella. L’istanza è basata sui criteri presenti nella circolare che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha inviato alle strutture penitenziarie al fine di monitorare le condizioni dei detenuti con patologie gravi e di età superiore ai 70 anni. “Ho presentato l’istanza – spiega l’avvocato Aufiero – dopo aver letto la documentazione sanitaria. Cutolo non sta bene e per questo abbiamo chiesto gli arresti domiciliari ad Ottaviano. In mattinata – precisa il legale – ho presentato una memoria difensiva e per ora non ho ricevuto alcuna comunicazione dal magistrato. Non escludo che possa aver già deciso ma, ripeto, non mi è arrivato nulla, forse Salvini riesce a sapere prima le cose…”. L’avvocato di Cutolo ricorda che “circa 50 giorni fa ho presentato un’altra istanza di scarcerazione per un mio assistito detenuto nel carcere di Voghera. E’ gravemente malato ma ad oggi, quasi due mesi dopo, è stata solo inviata nei giorni scorsi la documentazione sanitaria al magistrato. Nel frattempo – spiega Aufiero – nel carcere di Voghera sono stati registrati diversi casi di coronavirus (il primo contagiato in cella si trovava nel penitenziario lombardo, ndr), un detenuto è morto dopo il ricovero in ospedale ed è deceduto anche il cappellano”. Sia Borrelli che Salvini, intanto, festeggiano. Il leader della Lega nel corso di una diretta Facebook ha anticipato la decisione del magistrato: “Basta, non se ne può più, sono ormai 43 ergastolani, mafiosi, camorristi, ndranghetisti, stupratori e spacciatori che sono usciti di galera in queste settimane. Poche ore fa per fortuna hanno negato la libera uscita Raffaele Cutolo”. Gli fa eco Borrelli che esulta: “Prima vittoria della nostra protesta. I boss devono restare in carcere, continua la nostra battaglia. Si tratta di una primissima vittoria della nostra protesta. Non vogliamo assolutamente che boss sanguinari e violenti vengano rimessi in libertà con la scusante del coronavirus. I criminali per tutto il male che hanno fatto devono restare a marcire in galera, questa è la giustizia, qualcosa di diverso sarebbe soltanto vergogna. Per questo abbiamo dato vita a questa protesta con sciopero della fame e petizione on-line e tantissimi cittadini si stanno unendo, le persone perbene vogliono vivere in territorio senza criminali, dove regna la legalità”. 

Non importa se è vecchio, malato e senza “potere”: Raffaele Cutolo resta in carcere. Il Dubbio il 12 maggio 2020. Il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha rigettato l’istanza di sospensione di esecuzione della pena con applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, avanzata per motivi di salute dalla difesa dell’ex boss della Camorra. Raffaele Cutolo resta in carcere. Il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha infatti rigettato l’istanza di sospensione di esecuzione della pena con applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, avanzata per motivi di salute dalla difesa del fondatore della Nuova Camorra Organizzata, detenuto al 41 bis nel carcere di Parma. Da anni Cutolo è recluso al carcere di Parma e la sua salute è diventata sempre più precaria. Il carcere duro non aiuta, anzi aggrava. Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, quasi cieco e, come se non bastasse, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muove le mani. Non si hanno altri particolari, tranne che si è trattata di una crisi respiratoria. Resta il fatto che oramai è anziano, solo e che si sta spegnendo al 41 bis, come denunciò l’anno scorso sua moglie Immacolata Iacone. L’ultimo in ordine di tempo a denunciare le sue condizioni è stato uno dei suoi storici avvocati, Paolo Trofino che ne ha parlato in aula in un processo che vede imputati diversi ex affiliati alla Nuova Camorra Organizzata. “Le sue condizioni di salute sono pessime” aveva detto in aula ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel corso del processo ai cutoliani casertani. Non è la prima volta che negli ultimi mesi si moltiplicano gli allarmi sulle condizioni di salute del “professore” e in molti chiedono che possa trascorrere gli ultimi mesi di vita fuori dal carcere”.

“Illustri magistrati la pensano come Salvini: fanno marcire in cella un vecchio malato come Cutolo”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Le parole dell’avvocato Gaetano Aufiero: “del rigetto non ne rimango sorpreso visto che anche nel passato è accaduto e nonostante che a febbraio Cutolo ha rischiato di morire”. «I provvedimenti giudiziari si rispettano, ma posso anche non condividerli. La stessa giudice conferma che Cutolo ha gravissime patologie soprattutto al livello polmonare, ma che ora è al sicuro perché nel frattempo il Dap ha fatto sapere dell’imminente arrivo degli operatori socio sanitari (Oss). Con tutto il rispetto del loro lavoro, ma non sono né infermieri né tantomeno dei medici». Così l’avvocato Gaetano Aufiero, il legale di Raffaele Cutolo, spiega a il Dubbio il suo pensiero sul provvedimento che però dovrà essere discusso al tribunale di sorveglianza. «Vede – continua a spiegare l’avvocato – del rigetto non ne rimango sorpreso visto che anche nel passato è accaduto e nonostante che a febbraio Cutolo ha rischiato di morire tanto di essere stato trasportato urgentemente in ospedale. È chiaro che sia a rischio di vita». Raffaele Cutolo è una persona ottantenne, afflitta da malattie e reclusa da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. È in pericolo di vita, ma visto che ci sono gli oss che posso accudirlo, potrà rimanere in carcere. «Tutti mi chiedono cosa ne penso di Salvini che all’epoca dette una notizia falsa (il rigetto, ndr) – spiega l’avvocato Aufiero -, ma io perché dovrei prendermela con lui e con le sue espressioni “marcire in carcere” quando illustri magistrati, presunti giuristi e il governo stesso hanno detto che un detenuto – se più o meno assistito – può benissimo morire in carcere? Mi sa dire che differenza c’è con la spiacevole espressione salviniana?». Cutolo potrebbe morire da un momento all’altro. «Ha una polmonite bilaterale confermata anche nel provvedimento – spiega l’avvocato -, ma evidentemente devo stare tranquillo perché se subisce un nuovo attacco respiratorio ci sono gli oss». L’avvocato ci tiene a precisare che – pur non condividendo il provvedimento – rispetta la giudice «a differenza di giornalisti come Marco Travaglio che hanno definito i magistrati “rei” di aver emesso la detenzione domiciliare, “magistrati di badanza”». Ma quello che l’avvocato ci tiene a dire è che in questi giorni è passata l’idea di morte. «Dicono che anche chi è malato, magari terminale, deve comunque rimanere in carcere. Io rifiuto con forza il fatto che vada a consolidarsi un’idea di morte del nostro sistema penitenziario», conclude l’avvocato Aufiero.

Travaglio, Caselli e Di Matteo: i manettari che vogliono la morte di Cutolo. Piero Sansonetti de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Giancarlo Caselli, ex Procuratore di Palermo e Torino, chiede che il 41 bis – cioè il carcere duro – diventi una misura più rigorosa, afflittiva. Caselli se la prende con la Corte Europea e con la Corte Costituzionale. Non manda giù l’idea che la Costituzione valga pure per i mafiosi. Considera questo principio un cavillo, una falla per la Giustizia. Nino Di Matteo, membro del Csm, punta di lancia del movimento giustizialista, pedina di primo piano nella strategia Cinque stelle, si scaglia contro i giudici di Milano che hanno deciso la scarcerazione (con otto mesi di anticipo) di Francesco Bonura, detenuto che stava finendo di scontare una pena a 18 anni per reati di mafia. Di Matteo accusa i suoi colleghi giudici di avere ceduto al ricatto mafioso (testuale). In pratica li indica per l’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che gli è caro. E chiede al governo di intervenire. I partiti di maggioranza e di opposizione gridano allo scandalo, naturalmente ce l’hanno con i giudici che hanno scarcerato: chiedono contromisure, convocano l’antimafia, pretendono controlli sulla salute di Bonura. Diciamo che sono fuori dei gangheri perché è stata applicata la legge. Il ministro Bonafede manda gli ispettori. Marco Travaglio scatena il suo giornale. E lancia l’allarme degli allarmi: dopo Bonura vogliono scarcerare anche Raffaele Cutolo, il camorrista, quello della canzone di De André, che è in prigione dal 1963. Sì, sì, nessun refuso: l’hanno messo in gattabuia 57 anni fa, quando era un ragazzetto, un guappo di 22 anni. Ora ne ha quasi 80. Da allora è stato fuori solo un po’ meno di due anni, alla fine dei 70, perché era evaso. Questo è il quadro. Anno 2020. circa 230 anni dopo la rivoluzione francese, più di 250 anni dopo il libro di Beccaria, 396 anni dopo la nascita di Voltaire. Secoli e decenni passati inutilmente: non c’è quasi nessuna differenza tra il giustizialismo di oggi e quello del ‘700. Cosa è successo per scatenare questo putiferio? Che il tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto l’istanza di arresti domiciliari per ragioni di salute di un detenuto quasi ottantenne, molto malato, e che ha già scontato 17 anni di carcere su 18 di condanna e gli mancano otto mesi alla scarcerazione definitiva. Tutto qui. Però si è scoperto che il detenuto, Francesco Bonura, è stato condannato per reati di mafia. E voi sapete che un reato di mafia non è un reato, è la malvagità delle malvagità. Se stermini la famiglia, per esempio, non vai al 41 bis. Se incassi il pizzo per un boss, ci vai. Bonura era al 41 bis: al carcere duro, quasi ottantenne, malato, operato, con un cancro, a rischio di vita. Nessuno si scandalizza perché stavano torturando un vecchio? No: nessuno si scandalizza.  L’articolo di Giancarlo Caselli è un autentico capolavoro. Perché è il vero e proprio manifesto del giustizialismo. Si fonda su principi solidi, molto lontani dalla Costituzione repubblicana, anzi alternativi, ma solidi. Giancarlo Caselli tra l’altro (a differenza degli altri suoi colleghi capifila del giustizialismo e del travaglismo) è uno che ha studiato parecchio, che sa. Lui è convinto che una società che funzioni è una società che punisce. Quando smette di punire, una società diventa fangosa. Bisogna impedire che l’Italia diventi fangosa. Caselli non ha mai guardato in faccia nessuno: mafiosi, brigatisti, no-tav, tangentari. Tutti insieme. al carcere duro. Una sola condizione: che ci sia un sospetto. Le prove poi magari verranno, ma non sono l’aspetto decisivo della giustizia. La giustizia, per Caselli, si fonda su due pilastri: sospetto e punizione inflessibile. E condanna morale. La forza etica del suo manifesto è lì: condanna morale. Noi buoni, loro malvagi. In mezzo la famosa zona grigia. Di Matteo è diverso. È un po’ un caso limite. Si è sempre battuto per l’indipendenza della magistratura, perché, forse, gli hanno detto che è essenziale per la causa del giustizialismo. Poi si distrae e attacca l’indipendenza del giudice, addirittura sembra invocare l’intervento del governo.  C’è da chiedersi cosa farà il Csm di fronte al caso Di Matteo. L’altro giorno il Csm è saltato su come una furia perché un suo membro, laico, ha messo in discussione il lavoro di qualche magistrato milanese. E ora che farà con il suo membro togato, con Di Matteo che addirittura accosta la figura dei magistrati milanesi a quella dei mafiosi? Prenderà provvedimenti? Censurerà? Si indignerà? Forse farà proprio come lo Stato di cui parlava De Andrè nella sua canzone su Cutolo: “si costerna, s’indigna s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…”. C’è poco da scherzare. L’attacco al diritto da parte del fronte giustizialista è sempre più spavaldo e arrogante. Si fa beffe della Costituzione, del diritto internazionale, dell’Europa. Persino dell’ordinamento penale. Sapete di quando è la norma che è stata utilizzata per scarcerare Bonura? Del 1930. Codice Rocco. Il premier era Mussolini. Qui, altro che fascismo! Siamo oltre, oltre, oltre… 

La sentenza imposta dai media. Raffaele Cutolo è stato condannato a morte. Piero Sansonetti su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Il tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia, come fu anticipato più di una settimana fa da Matteo Salvini, ha rigettato la richiesta di scarcerazione di Raffaele Cutolo. La motivazione è semplice: sta male, ma non abbastanza male. E c’è un rischio, in caso di scarcerazione, per la sicurezza. Raffaele Cutolo ha 79 anni. E’ seriamente malato da diverso tempo. Ha problemi polmonari gravi. E’ al 41 bis, cioè al carcere duro. E’ molto complicato, per una mente che ragioni senza pregiudizi faziosità e odii, immaginare che ci sia qualcosa di legittimo, o di compatibile con la Costituzione e con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, nel tenere al carcere duro un signore di ottant’anni. Cutolo è al carcere duro da 25 anni. Dei suoi 79 anni di vita, 24 li ha trascorsi in libertà, gli altri 55 in prigione. Sta scontando una pena infinita. E’ del tutto evidente che la Nuova Camorra (Nco) che fondò 40 anni fa non esiste più, è sepolta, non ci sono più i suoi sodali, i luogotenenti, gli amici gangster. Quasi tutti morti, o spariti, o vecchissimi. 55 anni in cella vi sembrano pochi? 25 al carcere duro vi pare una pena ragionevole 600 anni dopo la fine del medioevo? Avete mai letto l’articolo 27 della Costituzione? Dice che le pene non possono “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Quale senso di umanità trovate nel tenere una persona in prigione per 55 anni? E 25 anni al 41 bis? Chi ha preso la decisione di non scarcerarlo conosceva l’articolo 27 della Costituzione? Cutolo ieri è stato condannato a morte. Con questa “sentenza”, richiesta a gran voce nei giorni scorsi dai partiti e dai giornali, tutti, a partire da quelli dello schieramento democratico e liberale (penso alla campagna di Repubblica) viene sancita l’uscita dall’ipocrisia. In Italia la giustizia si ispira e si uniforma a un solo principio e a tre parole: vendetta, vendetta, vendetta!

La poesia di Raffaele Cutolo sulla droga, il testo di “Polvere bianca”. Redazione su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Il boss della Nuova Camorra Organizzata (Nco) Raffaele Cutolo è rinchiuso in carcere da 55 anni. All’età di 49 anni ha rilasciato un’intervista a Enzo Biagi in cui ha dichiarato di trascorrere le giornate a leggere e scrivere. Alla domanda sulla droga Cutolo ha detto di aver anche scritto una poesia. Ecco lo scritto del boss di Ottaviano.

“Polvere bianca / polvere bianca / ti odio! / Sei dolce e sei amara / come una donna / sei pura e sei buio. / Giovani odiatela / la polvere bianca / sì! vi fa volare / per poi farvi / ritornare nel buio più cupo. / Vola per l’ aria / limiti di un’ anima / fatta a pezzi / si tocca il fondo / i fatti diventano voragini buie… / e poi di colpo / i dolori si placano / e il cielo è un’ esplosione di luce / poi più nulla. / L’ indomani / solo un trafiletto sui giornali / ennesimo giovane morto: per droga. / Polvere bianca / ti odio”. 

Il caso di Raffaele Cutolo. Cutolo ha già un letto ed è assistito bene, no alla scarcerazione. Viviana Lanza su Il Garantista il 13 Maggio 2020. «Il paziente può contare su presenza e monitoraggio costante degli operatori sanitari». È uno dei passaggi del provvedimento con cui il magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ha rigettato l’istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute presentata da Raffaele Cutolo, il vecchio capo della Nuova camorra organizzata e protagonista di un pezzo importante della storia criminale campana e italiana. In sintesi, Cutolo può essere efficacemente curato nel carcere di Parma, anche perché lì di recente sono stati assunti nuovi operatori socio sanitari e nella cella è stato predisposto “un letto dotato di sponde e un materasso anti-decubito”. «Io – commenta l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore di Cutolo – non sarei tranquillo a farmi curare da operatori socio sanitari se avessi gravi patologie polmonari. Rispetto ma non condivido la decisione del magistrato». La decisione arriva dopo settimane in cui il dibattito sulle scarcerazioni ai tempi del Covid ha assunto toni forti, scatenato aspre polemiche, creato fazioni e scandalizzazioni. La decisione del magistrato di Sorveglianza non mette un punto alla vicenda. Il provvedimento sarà a breve al vaglio del Tribunale di Sorveglianza. «Non mi aspetto nulla», aggiunge l’avvocato Aufiero facendo riferimento al clima di queste settimane. «Rispetto tutte le decisioni ma non posso condividere un’idea di morte della giustizia, l’idea che chi è condannato per determinati reati debba morire in carcere». Cutolo ha 79 anni, da oltre 40 anni è ininterrottamente detenuto ma aveva già fatto 15 anni, in regime di 41bis dal 1992. I problemi respiratori che il 18 febbraio scorso aggravarono il suo quadro di salute rendendo necessario il ricovero in ospedale fino al 9 marzo saranno curati in carcere. La documentazione acquisita dalla direzione sanitaria del penitenziario dove Cutolo è recluso, a Parma, «comprova – scrive il magistrato di Sorveglianza – una situazione detentiva rispettosa della dignità personale». Esclusa la possibilità di trasferire il detenuto in un’altra struttura adeguata a fornire le cure di cui ha bisogno, il Dap, interpellato sul punto, il 9 aprile aveva fatto sapere che nel circuito dei detenuti al 41bis, il famigerato carcere duro, «non ci sono standard assistenziali più elevati rispetto a quelli garantiti a Parma». Come a dire che lì, nell’istituto di pena emiliano, Cutolo potrà sicuramente essere ben curato. A integrare la comunicazione, il Dap ha fatto anche sapere che nel carcere emiliano a fine aprile ci sono state assunzioni di operatori socio sanitari, con nuove 14 unità, otto delle quali si occuperanno della salute di detenuti come lo stesso Raffaele Cutolo. Quanto all’ipotesi di un possibile aggravamento delle condizioni di salute dell’anziano boss, ipotesi che l’avvocato Aufiero aveva indicato tra i motivi a sostegno della richiesta di consentire al detenuto di lasciare la cella per la detenzione domiciliare, il magistrato di Sorveglianza ha chiarito che, se la salute di Cutolo dovesse peggiorare, l’ex capo della Nco potrebbe contare su strutture territoriali esterne, un ospedale come quello dove fu portato d’urgenza a febbraio. Mentre sul rischio di contagiare il Covid-19, il 41 bis – si è sottolineato – prevede una cella singola con i necessari presidi sanitari. Inoltre, si legge nel provvedimento, «Cutolo ha da anni rinunciato ai momenti di socialità così di fatto riducendo ulteriormente i contatti interpersonali e le vie di contagio».

Bonafede esulta e si vanta: Zagaria torna in galera e ci potrà morire, proprio come Cutolo. Piero Sansonetti de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Pasquale Zagaria tornerà in carcere. Evviva. Forse potrà anche morire in cella, come Cutolo. Almeno, così dice il ministro Bonafede che si è vantato un po’ di questo suo successo. È andato alla Camera e ha dovuto fare in modo di rintuzzare le accuse bislacche che gli arrivano da tutte le parti. Dicono che è uno scarceratore. Quasi un garantista. E lo vogliono cacciare per questo, perché un garantista al ministero della Giustizia è una cosa che non si può sentire. Lui un po’ è stupito un po’ è impaurito. Dice: giuro, io sono più giustizialista di tutti. E di sicuro non commette spergiuro: è così. Per scrollarsi di dosso i sospetti ha tirato fuori questa cosa di Zagaria. Il boss, il capo camorra, l’assassino. Ma davvero Zagaria è un boss, un capocamorra? No, non lo è, però suo fratello sì. Davvero è un assassino? No, non è stato mai neppure sospettato di omicidio. È un camorrista irredimibile? No, ci sono sentenze di tribunali che dicono che è fuori dal giro. È vero invece che ha un cancro e che ha scontato quasi tutta la pena. Il magistrato di sorveglianza lo ha tirato fuori per questo. Ma giornali e politici non vogliono saperne niente: si chiama Zagaria? Vada a crepare in cella. E Bonafede si è fatto portavoce di questa esigenza di giustizia. Lui e il senatore Morra. Ieri sembrava che festeggiassero la vittoria della coppa dei campioni. Bonafede ha fornito anche i dati sul sovraffollamento delle carceri. In due mesi ci sono quasi 10 mila carcerati in meno. Come mai? Perché non il ministro ma il Procuratore generale della Cassazione ha dato ai Pm l’ordine di arrestare gli indiziati solo con forti motivazioni, come il pericolo per la collettività, o il rischio di inquinamento delle prove. Insomma, ha detto loro di rispettare la legge. Prima l’uso era di violare la legge e di arrestare per una ragione semplice: far confessare il sospetto. Funzionava, funzionava. E il diritto? Beh, ora non chiedete troppe cose. 

In carcere troppi disperati, ma la mafia esige rigore. Sebastiano Ardita de Il Riformista il 15 Maggio 2020. In un articolo di oggi (ieri per chi legge, ndr.) sul Riformista Franco Corleone ricorda la mia posizione sul carcere, che ho sempre ritenuto l’”extrema ratio”, con i suoi “non luoghi” che impediscono spesso il recupero della personalità. Ricorda il mio rammarico per una carcerazione che ha spesso obbedito a scelte emozionali facendo finire dietro le sbarre tossicodipendenti ed extracomunitari insieme a una grande parte che viene definita della “sottoprotezione sociale”. Sono le mie idee di sempre, quelle che ribadisco in ogni convegno e in ogni pubblicazione ricordando come questo sistema abbia spesso favorito mafiosi, capi e favoreggiatori di Cosa Nostra col colletto bianco che l’hanno fatta franca. Quindi è un argomento di stragrande attualità. Quando ero direttore dell’ufficio detenuti mi sono battuto per la civiltà della pena e come ricorderà Franco Corleone, ho diramato le circolari – tuttora vigenti – che hanno istituito e regolato per la prima volta l’area educativa. Nel 2007 avviai una indagine statistica da cui emergeva che in quell’anno erano entrate in carcere circa 97.000 persone e ne erano uscite 90.000. Una gran parte erano disperati. Ho stimolato la legislazione per limitare il fenomeno delle cosiddette porte girevoli – gli arresti per pochi giorni per gli autori di piccoli reati, che diventano occasione di reclutamento criminale – mi sono battuto perché il carcere riguardasse la criminalità organizzata e i personaggi pericolosi. Ed anche per questi ultimi ho preteso che si applicassero tutte le regole dell’ordinamento penitenziario senza abusi e senza sconti: non ricordo un mafioso o un personaggio di spicco uscito dal carcere solo perché l’amministrazione penitenziaria non fosse riuscita ad assicurare assistenza sanitaria, ovvero non avesse compiuto ogni sforzo per assicurarla. Perché so bene che nel sistema di democrazia ogni mancanza o abuso nei confronti di un detenuto provoca un contraccolpo che va dalla sua scarcerazione fino alla messa in stato di accusa, per inciviltà, dell’intero sistema penitenziario. Perché sicurezza e civiltà della pena si tengono insieme in un perfetto equilibrio. Ed è la rottura di questo equilibrio che ha prodotto quello che è accaduto in questi giorni. Franco Corleone sa bene che chi beneficia del caos e dell’assenza delle regole sono i vertici delle associazioni mafiose, come si può capire bene leggendo la sua pregevole indagine sulla mafia di Catania negli anni 80, quando era componente della commissione antimafia. La cultura della prevenzione della mafia, caro Franco, è amore per la libertà, solidarietà, condanna di ogni prevaricazione, difesa dei deboli che sono le vere vittime della mafia, dentro e fuori dal carcere. Se escono i capi mafia perde lo Stato, perde la solidarietà, perdono gli ultimi, non perde solo l’antimafia. Questo riguarda anche gli spazi. Aprire gli spazi interni al carcere dentro le regole è una battaglia di civiltà. Aprire nel caos consegnando le carceri ai detenuti e alle loro gerarchie criminali, significa amplificare il dominio dei forti sui deboli, dei capi della criminalità sui detenuti alla prima esperienza, della dannazione sulla speranza di tornare alla vita normale. Significa condannare alla frustrazione il personale penitenziario che crede nella rieducazione e nella questione penitenziaria. Ed è quello che ha portato al cedimento del sistema carcerario con le conseguenze che tutti possono notare. Le rivolte in cui sono stati esposti i più emarginati, hanno portato con un effetto domino alla liberazione di 400 mafiosi. Adesso chi è salito sui tetti ne pagherà le conseguenze; i mafiosi hanno incassato la deficienza del sistema: le rivolte sono cessate. Il sistema ha ceduto ma la responsabilità non può essere addossata tutta alla ultima gestione. Sarebbe il caso che una commissione d’inchiesta si impegnasse per capire quanto siano complesse, radicate e antiche le responsabilità di quanto è accaduto. Il carcere si governa con la civiltà e col rispetto, avendo cura dei deboli che vogliono essere recuperati, ma senza fare sconti ai mafiosi, perché ciò significa solo mandare in fumo la vera ragione per cui esiste: proteggere la società dalla devastante azione della criminalità organizzata.

La risposta di Sebastiano Ardita è in controtendenza rispetto al tempo tetro di insulti e di mancanza di confronto. Ho grande interesse per il dialogo e mi aspetto che Ardita acconsenta sulla proposta di rivedere la legge sulle droghe che è la causa dell’affollamento delle carceri. Mi aspetto anche un pensiero per 13 detenuti morti. La giustizia senza pietà non è umana. Franco Corleone

Scarpinato supera Gratteri: la fantasiosa ricetta del pg di Palermo per ridurre il sovraffollamento. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Che le carceri italiane siano sovraffollate, quindi invivibili e oggi anche molto pericolose per il rischio di contagio da Coronavirus, nessuno ha più il coraggio (o la faccia tosta) di negarlo. Poi ognuno ha la sua ricetta per affrontare e magari risolvere il problema. La palma per l’originalità – dopo la bacchetta magica del procuratore Gratteri che in dieci giorni ne costruirebbe tre o quattro di nuove – va oggi a un altro (e alto) magistrato, il dottor Roberto Scarpinato. Procuratore generale presso la corte d’appello di Palermo, sessantotto anni (quindi non ha bisogno di emendamenti di sostegno, lui in pensione va tra due anni), ama illustrare di suo pugno il pensiero, piuttosto che scendere al livello di un Gratteri qualsiasi e invocare l’intervista. Tanto l’ospitata sull’organo di famiglia, pardon, di Casta, è sempre garantita. E lui si fa scrittore. E ci stupisce. La ricetta è semplice. E come mai non ci avevamo pensato? Prima della soluzione l’alto magistrato fa la premessa, che centra il vero problema. Dalle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ci informa, risulta che «in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato». Conclusione: «Forse questo è uno dei motivi dell’eterna irresolubilità della questione carcere». Chiarissimo. Se ci fossero in carcere più politici e imprenditori e meno proletari, le prigioni sarebbero almeno pensioncine romagnole con distanziamento sociale. Ora, noi sappiamo come ragiona il dottor Scarpinato. Lo conosciamo da moltissimi anni, ma in particolare il suo pensiero, fin dai magnifici tempi in cui era sostituto insieme a Ingroia e Tartaglia alla procura di Caselli a Palermo, si era manifestato con l’intuizione investigativa dell’inchiesta “Sistemi criminali”. Pur non usando ancora l’espressione “colletti bianchi” (una raffinatezza da procuratore generale), il giovane pm aveva già individuato delle cricche di padroni sfruttatori che tramavano contro lo Stato e la classe operaia: «una sorta di tavolo dove siedono persone diverse… il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, esponenti delle istituzioni, e non di rado il portavoce della mafia». Purtroppo gli uomini di questa super-cupola non andarono mai in carcere, perché l’inchiesta finì in una bolla di sapone. Come la successiva, il primo tentativo di processo “trattativa” tra mafia e Stato. Solo al terzo colpo, e siamo ormai al 2008, le parole del fantasioso Massimo Ciancimino consentirono ai suoi colleghi di imbastire il più grande processo-farsa della storia. Scarpinato, che nel frattempo aveva fatto carriera, con il consueto sprezzo del pericolo, non si è però tirato indietro, e nella sua veste di procuratore generale, è riuscito con rocambolesche giravolte e portare il pluriassolto Calogero Mannino fino alle soglie della cassazione. Il suo stile non è cambiato. Rimane un sognatore. Da pubblico ministero non amava la veste di repressore di reati che si fossero già verificati. Ha invece sempre preferito andarne alla ricerca, sapendo che in certi ambienti, magari quelli dei “colletti bianchi”, scavando scavando, e attraverso una lettura degli eventi di tipo storico-sociologica, qualcosa avrebbe trovato. Partendo da verità prestabilite e attraverso investigazioni molto estese si finisce spesso con l’andare a cercare la punizione più per condotte ritenute amorali che non illecite. È il modo di procedere dei pubblici ministeri cosiddetti “antimafia”, per i quali tutto è mafia e le carceri dovrebbero essere grandi assembramenti di 41-bis. È anche un po’ la stessa sub-cultura del ministro Bonafede, che ha messo a dirigere il Dap due magistrati la cui prevalente esperienza è orientata alla repressione delle cosche. Forse il dottor Scarpinato non si rende conto del fatto che molti detenuti che oggi sono ai domiciliari, e che lui vorrebbe far tornare in galera, fanno proprio parte di quella base della piramide sociale la cui sorte gli sta così tanto a cuore. Dovrebbe però spiegarsi meglio. Se, come ha scritto, la prigione è «specchio fedele delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere» la sua soluzione è quella di svuotarle del proletariato in catene (magari fatto di picciotti) e riempirle di amici di Berlusconi?

La teoria di Gratteri: «Era più pericoloso fare la spesa che stare in carcere». Il Dubbio il 13 maggio 2020. Il procuratore capo di Catanzaro attacca dopo il dl Boss: “I fatti mi danno ragione”. Ma secondo il garante dei detenuti l’emergenza non è finita. «Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere». All’indomani dell’approvazione del decreto legge Bonafede, che punta a far tornare in carcere i boss collocati ai domiciliari a causa dell’emergenza coronavirus, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri liquida così la questione. In un’intervista al Fatto Quotidiano, Gratteri sostiene che «Nei mesi scorsi sono stati mandati a casa molti detenuti per ragioni di salute: nell’ipotesi che, se contagiati, sarebbero potuti morire. L’ipotesi si basa sulla possibilità di essere contagiati. Ebbene, due mesi fa avevo detto che era più facile essere contagiato in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri di San Vittore o di Opera. Sono stato criticato e attaccato. Oggi i fatti mi danno ragione». Poi offre qualche numero a sostegno della sua tesi: «I contagiati in carcere sono 159 su 62mila detenuti. Intanto ottomila persone sono uscite di cella, diminuendo si sovraffollamento carcerario. Ma intanto sono state scarcerate 400 persone che erano detenute al 41bis o in alta sicurezza. In nome di un pericolo di contagio che non si è manifestato. I detenuti avevano il 99,5 per cento di possibilità di non infettarsi: a dirlo è il Garante nazionale delle private libertà. Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere». Infine, aggiunge che «L’effetto delle scarcerazioni di questi mesi è stato devastante. Ha minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che avevamo faticosamente conquistato negli ultimi anni». Secondo il garante dei detenuti, tuttavia, la realtà è decisamente diversa. Ad oggi ci sono 131 detenuti risultati positivi al coronavirus che sono attualmente in carcere. Un numero che non tiene conto di quelli che sono stati “scarcerati”, proprio per aver contratto il virus e dei 4 detenuti morti. Finora parliamo di numeri contenuti e che non creano allarme sociale nella comunità esterna. Ma in futuro ci si potrebbe ritrovare nel vortice di polemiche strumentali e controproducenti come quelle odierne. Le carceri proprio per il fatto che sono luoghi chiusi e con affollamenti sono predisposti per focolai improvvisi. Ed è quello che sta accadendo.

Sacco torna in carcere. Intanto, proprio in seguito al nuovo dl sulla giustizia, è tornato in cella il boss palermitano Antonino Sacco, che era stato scarcerato e messo ai domiciliari dal Tribunale di sorveglianza per l’emergenza Coronavirus. Il magistrato di sorveglianza ieri sera ha revocato il provvedimento di differimento della pena per il boss che era nella sua abitazione da un mese. Sacco, che è in una struttura sanitaria carceraria, avrebbe fatto parte del triumvirato che ha retto di recente il mandamento di Brancaccio.

Maurizio Tortorella per “la Verità” il 14 maggio 2020. Il boss palermitano Antonino Sacco torna in carcere dalla detenzione domiciliare, e forse è il primo di una lunga serie di rientri in cella. Merito del decreto «Riacchiappa mafiosi» varato il 9 maggio dal ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede? Per nulla. Il merito va alla nuova gestione del Dap, il Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria, che è riuscito a trovargli un posto in una «struttura sanitaria protetta». Questo è accaduto perché, dopo le dimissioni cui è stato costretto a fine aprile Francesco Basentini, l' uomo che Bonafede nel giugno 2018 aveva preferito al magistrato antimafia Nino Di Matteo, ora il Dipartimento ha un nuovo capo, Dino Petralia, e un vice, Roberto Tartaglia. Che evidentemente hanno fatto bene il loro lavoro, che, durante una pandemia, consiste anche nel trovare soluzioni alternative per i detenuti in condizioni sanitarie incompatibili con il rischio contagio. Insomma, se già in aprile il Dap avesse adottato comportamenti congrui e tempestivi, non sarebbero mai andati ai domiciliari né Sacco, né soprattutto boss di Cosa nostra come Francesco Bonura, di 'ndrangheta come Vincenzo Iannazzo, o di camorra come Pasquale Zagaria. Per quest' ultimo ieri sera si è liberato un posto nell' ospedale di Viterbo ed è stata fissata una nuova udienza il 22 maggio. Ma il suo nome faceva parte della lista dei «pezzi da 90» le cui scarcerazioni avevano travolto in uno tsunami il ministero della Giustizia, che Bonafede ha poi elegantemente dirottato su Basentini. Il problema, in realtà, nasce proprio dall' inadeguatezza del Dap e del ministero. Nel caso proprio di Zagaria, malato di cancro e recluso nel carcere di Sassari, il 30 aprile era stata La Verità a rivelare l' incredibile sequenza di ritardi ed errori di valutazione del Dipartimento, e perfino l' assurdo particolare di un recapito di posta elettronica sbagliato, cui l' ufficio di Basentini ha spedito le email che voleva indirizzare al tribunale di sorveglianza di Sassari. Soltanto per quei ritardi e quegli errori, alla fine, i giudici hanno dovuto concedere a Zagaria di uscire da una cella di alta sicurezza per trasferirsi a casa della moglie, aprendo così il rischio di una disastrosa evasione, lo stesso che purtroppo riguarda molti degli oltre 376 scarcerati. È incontrovertibile, però, che la responsabilità politica cada tutta su Bonafede. È anche per questo, del resto, se il centrodestra ha chiesto le sue dimissioni con una mozione di sfiducia che il Senato dovrebbe discutere il 20 maggio. Ora il M5s e i media filogovernativi celebrano il rientro in cella del mafioso Sacco come se fosse il clamoroso risultato dell' impeccabile azione del ministro. In realtà proprio il caso Sacco dimostra che ad aprire le celle agli oltre 376 detenuti «pericolosi» non sono state né leggi sbagliate, né la manica larga dei tribunali di sorveglianza. È stata solo la disattenzione del ministero della e del suo Dipartimento. Perché il «nuovo» Dap ha dimostrato di poter fare tutto quel che gli veniva chiesto: Sacco, 65 anni, condannato per mafia ed estorsione, era uscito dal carcere di San Gimignano per una cardiopatia dopo un infarto, cui si sommava il rischio di un' infezione da Covid-19. Da circa un mese, il mafioso era in una casa d' accoglienza parrocchiale. È bastato che il nuovo vicecapo del Dap, Tartaglia, facesse monitorare le strutture penitenziarie con annesso reparto ospedaliero: è stato individuato il carcere di Livorno, dove c' è la possibilità di «avvalersi all' occorrenza delle strutture sanitarie del territorio». Così il tribunale di sorveglianza ha potuto rinchiudere Sacco in quel carcere, dove potrà essere curato, e non solo perché «si assiste a una fase di relativa rimessione della diffusione dell' epidemia». Allo stesso modo, il Dap ha trovato posto in «strutture sanitarie protette» per un' altra ventina di condannati pericolosi, ai quali ora potranno essere revocati i domiciliari. Di strutture di quel tipo ce ne sono, in Italia: per esempio a Milano, Parma, Roma, Viterbo, Catania e Agrigento. E sono sicure. Non per nulla, quando direttore del Dap era Roberto Piscitello, alcune di queste strutture hanno ospitato boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, il capo dei capi. Nel frattempo, in attesa del dibattito sulla sfiducia, rimbalzano polemiche sulle parole che Bonafede ha pronunciato alla Camera martedì. Il ministro ha fatto di tutto per neutralizzare i veleni sparsi dal magistrato Di Matteo, che dal 3 maggio lo accusa di non averlo nominato a capo del Dap, nel giugno 2018 (e di avergli preferito Basentini), ipotizzando possa essere accaduto per paura delle reazioni dei mafiosi detenuti: «Non c' è stato alcun tipo di condizionamento», ha protestato Bonafede. Che poi, a sorpresa, ha difeso a spada tratta proprio Basentini: «Era stato procuratore aggiunto a Potenza», ha ricordato, «si era distinto nel lavoro e nel colloquio aveva dimostrato di essere all' altezza del suo curriculum». Parole strane, sulla bocca di un ministro che soltanto due settimane fa ha deciso di sacrificare proprio l' ex capo del Dap come unico responsabile del disastro scarcerazioni.

Lo rimandano in un carcere simile al precedente, ma l’emergenza non è finita. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 maggio 2020. Antonino Sacco, condannato per mafia, è rientrato in carcere a seguito dell’indicazione del Dap come prevede il recentissimo decreto Bonafede. Tutti in attesa della rivalutazione, da parte del giudice di Sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito il prossimo 22 maggio, dello stato di detenzione domiciliare concesso a Pasquale Zagaria per gravi motivi di salute. Ma la notizia di questi giorni è che Antonino Sacco, condannato per mafia oltre a vari reati come l’estorsione, è rientrato in carcere perché il magistrato di Sorveglianza ha – entro 15 giorni – emesso il provvedimento a seguito dell’indicazione data dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) come prevede il recentissimo decreto Bonafede. Prima era al carcere di San Gimignano dove c’è comunque una normalissima assistenza sanitaria, come in ogni istituto penitenziario dovrebbe avere, ora – dietro indicazione del Dap – è stato tradotto nel carcere di Livorno dove sarebbe garantita l’identica assistenza sanitaria. Parliamo di un uomo che sta scontando la sua pena dal 2011. Ufficialmente uscirà dal carcere nel 2027, ma con la liberazione anticipata potrebbe essere libero molto prima. Sacco soffre di una patologia cardiaca, una di quelle malattie considerate fatali se dovesse contrarre il Covid 19. Proprio per questo motivo, la magistratura di Sorveglianza aveva assunto il provvedimento urgente di differimento pena nella forma di detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1 ter dell’Ordinamento penitenziario. Da ricordare che è una forma provvisoria, soggetta quindi a revisione, tant’è vero che è stato fissato un termine di durata dell’applicazione. Prima di quella data – a prescindere dal nuovo decreto – è comunque possibile che il provvedimento sia revocato anticipatamente. Proprio sotto suggerimento dell’avvocata Giuliana Falaguerra, legale di Sacco, il magistrato aveva disposto la detenzione domiciliare non nel suo luogo di origine, ma in una località del nord. Con il nuovo decreto qualcosa pero è cambiato. Ha introdotto varie disposizioni tra le quali spicca la rivalutazione a strettissimo giro dei provvedimenti concessivi di misure domiciliari emessi «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19», da effettuarsi entro quindici giorni. Nei confronti di Sacco, il Dap in brevissimo tempo ha trovato un posto dove, a parer suo, potrebbe essere assistito. Lo ha scritto nero su bianco in una nota mandata al magistrato di Sorveglianza. «Ai sensi dell’articolo 2 comma 1 si comunica che – scrive il Dap – a Sacco Antonino potrebbe essere associata la casa circondariale di Livorno, sede dotata di ampia offerta specialistica e all’occorrenza delle strutture sanitarie pubbliche del città di Livorno». Questo è tutto, non è annotata nessuna valutazione da parte dell’azienda sanitaria e si usa un condizionale. «Potrebbe essere associato», è infatti un suggerimento. La magistratura di Sorveglianza l’ha accolto, tendendo anche conto che «attualmente si assiste ad una fase di relativa rimessione della diffusione dell’epidemia, con riduzione del numero dei nuovi contagi e delle infezioni». Ovviamente il riferimento è all’esterno, dove indubbiamente c’è un forte calo dei contagi. Cosa ben diversa nei penitenziari dove i focolai si possono “accendere” da un momento all’altro, come recentemente ha spiegato il garante nazionale Mauro Palma durante un convegno. Ma il punto è un altro. A ribadirlo è l’avvocata Falaguerra, legale di Antonino Sacco: «Le due carceri, sia quello di San Gimignano dove era precedentemente recluso il mio assistito che quello di Livorno dove attualmente è stato trasferito, – spiega l’avvocata – garantiscono più o meno la stessa identica assistenza sanitaria». Ma allora perché Sacco è stato mandato in detenzione domiciliare nonostante che al carcere di San Gimignano era presente un’area sanitaria che riesce a garantire il servizio? «Infatti la questione non era, ed è, se ci sono o meno i medici, ma se c’è il rischio infezione», risponde l’avvocata. «Non c’entra quindi nulla l’aver trovato un altro luogo, tra l’altro simile, – prosegue Falaguerra –, salvo che riescano ad assicurare il distanziamento per evitare l’infezione e la sua propagazione». Il punto, nel caso di Sacco, non è tanto il discorso sanitario visto che non presenta gravissime patologie, come ad esempio nel caso di Bonura o di Zagaria, ma è l’emergenza Covid 19 che in luoghi chiusi e dove non esiste il distanziamento sociale è tutt’altro che rientrata. La sua è una patologia che si può benissimo monitorare, ma è inevitabilmente mortale se dovesse contrarre il virus. Non è un caso che – a differenza del mondo libero – nei penitenziari si inizia a superare, con prudenza, la fase 1, prevedendo che i colloqui dei detenuti con i familiari fino al 30 giugno si svolgano ancora tramite Skype, garantendo almeno un colloquio in presenza a tutti i detenuti e con almeno un congiunto o altra persona una volta al mese.

Arriva la cura Gratteri: «Più in salute in carcere che al supermercato…». Davide Varì su Il Dubbio il 14 maggio 2020. Gratteri ci spiega che non c’è posto più sicuro dei nostri istituti di pena. Peccato che lo dica lo stesso giorno in cui il garante dei detenuti afferma l’esatto contrario. «Ma quale emergenza, quale rischio pandemia tra i detenuti. Nelle carceri italiane si sta più al sicuro che allo Spallanzani. Di certo più che al supermercato». Insomma, stavolta il procuratore Nicola Gratteri inforca stetoscopio e provetta e, da novello virologo, – un po’ come la gran parte degli italiani in questi ultimi scorci di lockdown – ci spiega che non c’è posto più sicuro dei nostri istituti di pena. Certo, il fatto che lo dica lo stesso giorno in cui il garante nazionale dei detenuti afferma l’esatto contrario, ovvero che la tempesta virale in carcere è ancora in atto, è un fatto assolutamente secondario. Il dottor Gratteri non ha dubbi e – stavolta da statistico medico – spiega nel dettaglio che «i detenuti avevano il 99,5% di possibilità di non infettarsi». Soprattutto quelli al 41bis, le cui celle potrebbero essere paragonate a quella di una clinica di Lugano. Ma quello che più lo preoccupa sono le centinaia di scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza che «hanno minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che ( noi magistrati, ndr) avevamo faticosamente conquistato», spiega sempre Gratteri ignorando del tutto gli ultimi sondaggi di gradimento i quali, fonte Demos, piazzano la magistratura agli ultimi posti tra le istituzioni più autorevoli: solo il 36% degli italiani ha fiducia nelle toghe contro il 55% dei bistrattatissimi insegnanti, per dire. Ma la cosa che più colpisce è l’assoluta noncuranza nei confronti dei cittadini detenuti che rischiano la pelle a causa del Covid. Tra quelle 350 persone scarcerate, infatti, non solo la metà è in attesa di giudizio, ma i boss sono soltanto tre. Senza contare che l’autorevolezza e la forza di uno Stato, come ha spiegato l’avvocato Franco Coppi da queste pagine, si misura dalla capacità di rispettare i diritti anche dei mafiosi. Perché uno Stato che lascia morire i detenuti in cella, non solo viola l’articolo 27 della nostra Costituzione, ma trasforma la pena dell’ergastolo in pena di morte. E la pena di morte, almeno finora, qui in Italia, è vietata.

Boss reclusi in grand hotel? L’anomalia vista solo da Giancarlo Caselli. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Un celebre esperto di carcere, Gian Carlo Caselli, già procuratore della Repubblica presso importanti tribunali e ora apprezzato notista di giudiziaria, ha scritto l’altro giorno su Huffington Post che «il 41 bis segna la fine di un’inaccettabile anomalia: criminali sanguinari che – fino al 1992 – se ne stavano in galera come in un grand hotel». Ora, possiamo anche accantonare il rilievo che il cosiddetto carcere duro rappresenta per noi – amici dei delinquenti che non siamo altro – una gratuita e inaccettabile forma di vendicativo sopruso: queste sono appunto argomentazioni sostanzialmente collusive, agitate da gente che fa il gioco di quei criminali e si disinteressa dei diritti delle vittime (è noto che le vittime hanno il diritto di veder torturati i detenuti). E occupiamoci piuttosto dell’assunto secondo cui, prima del 41 bis, quelli, in carcere, si godevano il lusso di un grand hotel. Dove, di grazia? In quali dorate residenze carcerarie si consumava il sontuoso ménage dei mafiosi? E in che cosa consisteva, esattamente? Nelle sfrenatezze dell’ora d’aria? Nell’oltraggiosa frequenza dei colloqui? Nell’imperdonabile concessione di un libro da leggere? Perché le magnificenze garantite dal sistema carcerario italiano sono queste, e non risulta che gli esponenti della criminalità organizzata si siano fatti costruire una reggia per continuare lì dentro a coltivare il proprio sollazzo. Né si ha notizia che lo Stato abbia organizzato per i mafiosi sezioni speciali con donnine e aragoste. Poi tu puoi anche reclamare che persista la pratica perlopiù illegale del carcere duro, e denunciare che richiederne la riforma significa darla vinta alla criminalità e spingere l’ordinamento verso la rinuncia a combatterla. Ma propugnare la lotta continua dello Stato su quella linea, lavorando sulla panza del Paese che si indigna davanti alla scena del mafioso nella camera di lusso, ecco, questo no: questo, per piacere, ci sia risparmiato.

Esclusivo: la lista “nera” dei 41 bis dove il centro clinico esplode e centinaia di persone ad alto rischio “curate” in sezioni comuni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 maggio 2020. In esclusiva il documento della Asl: il carcere di Parma è ad “alta complessità sanitaria”. I posti disponibili al centro clinico sono 29, ma già occupati anche da alcuni ricoverati dal Dap senza il parere medico. I 203 detenuti ad “alto rischio medico” – diversi sono al 41 bis – rimangono nelle sezioni “normali” rendendo ancora più difficile l’assistenza sanitaria. La lista che ha fatto scattare dei malumori in alcuni ambienti dell’antimafia è anche quella dell’Azienda sanitaria locale di Parma dove compaiono diversi detenuti di grosso calibro al 41 bis. Ma non si è detto del contenuto, che “racconta” una storia ben diversa e drammatica dove emergerebbe una gestione – secondo la Asl – inadempiente da parte del Dap. Una lunga serie, quasi infinita, di detenuti reclusi nel carcere di Parma che presentano gravissime patologie per le quali, la maggioranza di loro, vengono “curati” nelle sezioni “normali” e non nel centro clinico (Sai) perché i posti sono occupati da altrettanti malati. Alcuni di loro sono over settantenni e reclusi al 41 bis o in Alta Sorveglianza. Tutti pazienti gravemente malati e a rischio. Ci sono nomi importanti come quelli del 74enne Giuseppe “Piddu” Madonia, colui che aveva ricoperto la carica di reggente provinciale di Cosa nostra, oppure il boss 78enne Salvatore Giovanni Lo Piccolo o il 75enne Antonino Cinà, l’ex medico legato a Cosa nostra ai tempi di Totò Riina e sotto processo nella presunta trattativa Stato-mafia. Tanti sono i nomi di “grosso peso”, ma sono tutti pazienti a rischio per l’età e per la presenza di importanti patologie. Ma ciò che finora non è stato detto è che la Asl ha avanzato una vera e propria denuncia sulla gestione – quella precedente – da parte dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che ha reso ancora più difficile l’assistenza sanitaria a tutti quei detenuti che non riescono a curarsi. Il centro clinico di Parma ha solo 29 posti, tutti occupati e parliamo del punto di riferimento delle carceri di mezza Italia. Detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. Un vero e proprio lazzaretto. A tutto questo però si aggiunge un elemento che aggraverebbe la situazione già drammatica di suo. «Tuttavia preme segnalare – si legge nel documento – che sono state disposte allocazioni inappropriate direttamente dall’amministrazione penitenziaria, senza alcuna certificazione o parere medico». Ma non solo. Oltre a sottolineare l’inadeguatezza della sezione paraplegici (9 posti) dove ci sono pazienti cronici, la Asl locale di Parma denuncia che si era «verificata un’allocazione disposta direttamente dal Dap senza il parere del medico». Ma la denuncia più forte deve ancora arrivare e che – inevitabilmente – ha come conseguenza l’unica alternativa possibile: ovvero il differimento pena per garantire la salute dei detenuti più a rischio.

Di cosa parliamo? La Asl parte dal presupposto che il centro clinico – secondo l’accordo Stato – regioni del 2015 – ospita in ambienti penitenziari detenuti che, per situazioni di rischio sanitario, possono richiedere un maggiore e più specifico intervento clinico non effettuabili nelle sezioni comuni, restando comunque candidabili per una misura alternativa o per il differimento o la sospensione della pena per motivi di salute. Quindi cosa significa? L’inserimento in tali strutture risponde a valutazioni strettamente sanitarie e il venir meno delle motivazioni cliniche che giustificano la presenza nel Sai (il centro clinico), certificate dal medico, dovrebbero essere sufficienti di per sé a portare la direzione degli Istituti penitenziari alla tempestiva ritraduzione del paziente all’istituto di provenienza. Invece accadrebbe il contrario. A denunciarlo è sempre la Asl. «Spiace constatare – si legge nel documento – che ciò purtroppo avviene solo sporadicamente, senza contare tutte le innumerevoli richieste di trasferimento presso il carcere di provenienza inoltrate da questo Ufficio Sanitario e che, ad oggi (24 marzo, ndr), sono rimaste senza seguito». Tutto questo cosa comporta? Secondo la Asl «questa mancanza di turn over crea disfunzioni organizzative e funzionali tra cui l’allocazione inappropriata nelle sezioni comuni di pazienti che, per condizioni cliniche, sarebbero invece candidabili ad un posto letto al Sai o alla sezione per paraplegici». Ciò che si denuncia non fa altro che aggravare la situazione sanitaria dell’intero carcere di Parma che è pieno di vecchi e malati. Tanti di loro al 41 bis o in Alta sorveglianza. La Asl è chiara su questo punto. «Tali disfunzioni portano a considerare il carcere di Parma nel suo insieme come un contesto ad “Alta complessità sanitaria”, con elevatissima intensità assistenziali anche nelle sezioni cosiddette “normali”». Tutto ciò, con l’emergenza Covid 19 attuale, ha necessariamente portato a porre maggiore attenzione a diversi pazienti a causa della vulnerabilità degli stessi legata per età e condizioni patologiche associate. La Asl non poteva fare altrimenti visto che la salute dei detenuti è sotto la sua responsabilità. Ed ecco che – anche per la oramai nota circolare del Dap – la Asl ha inviato una lunga lista di persone detenute a «maggior rischio di infezione Covid 19 come exitus – si legge nel documento – presumibilmente peggiore rispetto alla restante popolazione detentiva». Se non ci fosse stata quella circolare del Dap del 21 marzo, molto probabilmente tutto questo non sarebbe emerso ufficialmente. Come detto, in quella lista, compaiono anche nomi di grosso calibro. Nomi storici di Cosa nostra, ma anche della ‘ndrangheta come l’ergastolano ostativo Domenico Papalia che è detenuto ininterrottamente dall’8 agosto del 1977 e recluso da anni al carcere di Parma dal 1992 in alta sorveglianza, non manca ovviamente il nome di Raffaele Cutolo, con una grave patologia polmonare e al quale recentemente gli è stata rigettata l’istanza per il differimento pena. Una lista lunghissima, la prima più urgente di 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo ndr.). La seconda lista solo per gravi patologie è composta da 152 nominativi, mente sono 5 quelli che sono solo a rischio per l’età ma in assenza di importanti patologie. Se vogliamo solo considerare le prime due liste dove ci sono detenuti in età avanzata e/o con gravi malattie, vuol dire che ci sono 203 persone a rischio e bisognose di cure. Tolte le 29 persone che sono assistite nel centro clinico (posti letto disponibili), vuol dire che ci si sono 174 persone (su 600 attualmente ristretti) che sono “curate” nelle sezioni normali e quindi non adibite per l’assistenza sanitaria di cui necessitano.

L’ombra di Travaglio terrorizza la magistratura, governo Conte più spietato di quello Mussolini. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Mi ricordo che quarant’anni fa, quando imperversava il terrorismo e la mafia uccideva tutti i giorni, la tentazione dello stato di emergenza fu forte. Il ministro dell’Interno era Cossiga, e sui muri scrivevano il suo nome con le “esse” disegnate con il tratto gotico con il quale era disegnato il distintivo delle Esse Esse naziste. In realtà Cossiga si dimostrò poi un liberale. E le istituzioni fondamentali della democrazia si salvarono, anche se da quelle emergenze iniziarono a nascere tanti dei difetti che oggi scontiamo: gli anni di piombo sono gli anni nei quali la politica ha preso a delegare le sue competenze alla magistratura e a concedergli poteri sempre più vasti e inquisitori. Oggi la politica e i giornali stanno provando a ricostruire quel clima. Ci fanno credere che viviamo in una drammatica emergenza criminalità e che occorrono misure straordinarie di difesa della sicurezza. Perciò intercettazioni a tappeto, trojan, fine della prescrizione, fine della legislazione premiale per i detenuti, fine dei permessi, allarme scarcerazione e da oggi anche sospensione dei poteri alla magistratura di sorveglianza. La ragione di questa decisione, ovviamente incostituzionale, che è degna di un qualunque Paese totalitario? L’allarme generale. Non si sa bene allarme per che cosa, ma allarme. La criminalità comune è sempre più debole, i dati dicono che il numero dei delitti è in picchiata. Il terrorismo non esiste più e addirittura il nostro Paese è stato l’unico Paese europeo risparmiato dal terrorismo internazionale dei primi due decenni del duemila. La mafia? Forse chi governa oggi è troppo giovane per sapere davvero cosa è stata la mafia. Hanno sentito dire, si sono riempiti il cervello con le grida della retorica. Hanno imparato a memoria le trombonate di Di Matteo, di don Ciotti, di Travaglio, di Bonafede. Nessuno di loro – neanche delle persone che ho citato – probabilmente ricorda di quando la mafia faceva la guerra allo Stato davvero, uccideva, falciava politici di destra, di sinistra e di centro, magistrati, giornalisti. Metteva le bombe. Realizzava le stragi. In quegli anni, combattere la mafia seriamente, mettersi di traverso, provare a fermarla, era pericoloso sul serio. Molti ci hanno lasciato la pelle, anche molto i magistrati, Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, Scopelliti, Livatino. Gente seria, coraggiosa davvero. Allora c’era l’emergenza mafia. Oggi qualcuno può dire in coscienza che il problema del Paese è l’attacco assassino dei mafiosi? No, il piombo non si vede, però l’idea è quella di concentrare la politica, e unirla, del far fronte contro l’attacco mafioso e terrorista. E se provi a far notare che questo attacco non c’è e che le emergenze del Paese sono altre (lavoro, reddito, sviluppo, impresa, ritorno della giustizia, abbattimento della burocrazia, accoglienza dignitosa dei migranti…) viene additato come disfattista e amico dei mafiosi. E in questa risposta all’attacco che non c’è si fanno a pezzi principi essenziali dello Stato di diritto. La decisione dell’incontrastato ministro Bonafede di mettere fuorigioco i magistrati di sorveglianza (che sono gli unici che si sono impegnati in questi mesi per trovare rimedi al Covid) è gravissima sotto tutti i punti di vista. Ha due conseguenze drammatiche. La prima è quella di rendere la politica carceraria del governo rosso-giallo ( o rosso-bruno), la più spietata di sempre. Varrà la pena di ricordare un’altra volta che l’articolo del codice penale contestato oggi perché troppo umanitario fu scritto dai fascisti. Questo Governo, sul piano della politica carceraria ci tiene a mostrarsi più spietato del governo di Mussolini. La seconda conseguenza è quella della ferita mortale allo Stato di diritto. In pratica si decide che una parte della magistratura giudicante viene sottoposta ai Pubblici ministeri. È una costruzione istituzionale che non si era mai vista, anche perché eccessivamente scombiccherata, in nessun Paese, ne democratico né totalitario. In questo modo si abbatte il principio dell’indipendenza della magistratura, e cioè un principio sempre considerato come sacro dalla stessa magistratura. Figuratevi, personalmente io non lo ritengo affatto un principio sacro: in moltissimi Paesi democratici la magistratura non è indipendente. In America, in Francia. Lì però è l’ufficio del Pubblico ministero che è subordinato al potere esecutivo. Mai e poi mai il giudice. L’autonomia e l’indipendenza del giudice è connaturata a qualunque idea ragionevole di giudizio. Qui invece si inventa la teoria che il giudice è subalterno all’accusa. Per fortuna cominciano ad udirsi, seppur timide, alcune voci di dissenso. Nel Csm hanno preso posizione “leggermente” democratica sia Area (sinistra) che magistratura indipendente (a difesa dei giudici di sorveglianza accusati da Di Matteo di cedimento alla mafia. Però non se la sono presa con Di Matteo. Hanno messo nel mirino Gasparri. Difficile sperare che questi magistrati vengano allo scoperto per la difesa del diritto, se basta il nome di Di Matteo e l’ombra di Travaglio per terrorizzarli.

Fatto Quotidiano ed Espresso vogliono in Italia la pena di morte. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Crucifige crucifige! Vogliono la pena di morte. E vogliono la croce per chi applica la legge. Lo squadrone dei soldatacci è capitanato dall’Espresso e dal Fatto quotidiano, seguono compatti magistrati e uomini politici, tutti a pollice verso. È accaduto che un povero vecchio di 78 anni gravemente malato di cancro, già operato d’urgenza e sottoposto a cicli di chemioterapia e con una pesante recidiva in corso, sia stato mandato a scontare gli ultimi nove mesi di pena a casa sua, dopo aver passato metà della sua vita in carcere. Si chiama Francesco Bonura, era recluso a Opera in regime di 41 bis. È mafioso? Sì. Era giusto, se aveva commesso gravi reati, processarlo e condannarlo? Sì, anche se sappiamo che la pena è già «sofferenza, flagello e corona di spine», come ha detto di recente il professor Tullio Padovani. Ma si può aggiungere al carcere anche il pericolo di contagio da Covid-19 come pena supplementare? Sarebbe una condanna a morte per una persona che vede già la fine vicina. È già capitato in passato al boss Bernardo Provenzano, lasciato in condizione detentiva anche quando era ridotto in stato vegetale. I reprobi da crocifiggere sono i magistrati del tribunale di sorveglianza di Milano. I quali, nel caso del detenuto Francesco Bonura, non hanno neanche applicato la normativa del decreto governativo Cura Italia e neppure la circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) del 21 marzo che invitava le direzioni carcerarie a segnalare i detenuti anziani e con gravi patologie per l’eventuale scarcerazione, visto il pericolo concreto di contagio negli spazi ristretti delle prigioni ancora sovraffollate. Niente di tutto questo, come ricordano gli avvocati difensori del detenuto, Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra, ma la semplice e pura applicazione di una legge esistente, quella che consente il differimento della pena in caso di grave malattia. Il fatto poi che il condannato comunque entro nove mesi avrebbe terminato di scontare la sua pena e sarebbe stato addirittura libero, ha sicuramente influito sulla decisione. Cui si sono accompagnati, negli stessi giorni, altri provvedimenti analoghi assunti da altri tribunali e che riguardavano detenuti calabresi e siciliani. La canea era quindi già pronta, con la schiuma alla bocca, fin da ieri mattina, quando sono apparse le prime notizie. Comodo eh, avere il virus alle calcagna, si dice. Il passaparola non solo mette in guardia da una sorta di “tana liberi tutti”, ma è pronto ad aggredire alla giugulare chiunque si sia permesso di applicare la legge. Il primo a rispondere allo squillo di tromba del Fatto quotidiano non può che essere Nino Di Matteo, che andrebbe denunciato dalla stessa Presidenza del consiglio per la sua dichiarazione. «Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte». Chi è stato ricattato, dunque, dottor Di Matteo? I magistrati suoi ex colleghi di Milano o il Governo? Naturalmente nessuno gli pone questa domanda, anzi gli si consente anche di farsi un po’ di pubblicità per la sua attività passata di Pm “antimafia” (orribile e sbagliatissimo termine) di Palermo. Aggiunge infatti il neo componente del Csm che lo Stato (quale tra i poteri esattamente?) «sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». Così le tragedie delle stragi sono equiparabili al castello di carta di un processo basato solo su un’ipotesi puramente ideologica? Un paragone che puzza molto di sottovalutazione dei fatti di sangue rispetto alle fantasie complottistiche. Poi si va a ruota libera. Qualcuno ricorda che ci sono nelle carceri al regime di 41 bis tutti i capimafia ormai anziani (e si suppone malandati, dopo tanti anni di detenzione), altri li contano, sono 74 e ne fanno i nomi. E si dice che potrebbero approfittare del timore del virus per farsi scarcerare. Il che è molto difficile, visto che anche il decreto del governo lo impedisce per i condannati per gravi reati. Ma lo consente la legge ordinaria, per malati gravi che, se contagiati dal coronavirus, potrebbero morire. Come è capitato a tanti anziani nelle case di riposo. Forse che i detenuti devono morire? Dobbiamo applicare con un’alzata di spalle la pena di morte? Ma la valanga pare irrefrenabile. Antonio Ingroia, che non è più magistrato ma riserva a se stesso il diritto di parola in quanto ex, parla di «trattamento di favore ai capimafia», Alfonso Sabella teme un «effetto domino». E partiti di centrodestra e di sinistra e Cinque stelle presentano interrogazioni urgenti e la convocazione della commissione antimafia. Per controllare la magistratura, a quanto pare. Diversamente, perché due esponenti del Pd come Walter Verini (responsabile giustizia) e Franco Mirabelli (capogruppo in antimafia) vogliono verificare la «effettiva incompatibilità» tra le condizioni di salute dei detenuti e il carcere? Non si fidano dei giudici, evidentemente.

Poi c’è chi, ma il fatto non desta stupore, come il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, si schiera con Nicola Gratteri nel garantire che, se c’è un posto dove si sta bene e ben isolati dal pericolo del virus, questo è il carcere in regime 41 bis, cioè il luogo dei sepolti vivi, dei senza speranza. Dove il distanziamento sociale è garantito non da celle spaziose, ma da una serie di limitazioni soprattutto sulle relazioni affettive. Impossibile trovare qualche voce fuori dal coro, nel mondo politico, se si eccetta una dichiarazione di ”Nessuno tocchi Caino”, cui tocca il compito di ricordare i principi costituzionali di diritto alla vita e alla salute come prevalenti su qualunque motivo di sicurezza. Principi, ricordano, sanciti anche da Patti e Convenzioni internazionali, oltre che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che indica la gerarchia e l’ordine dei valori umani, mettendo vita e salute in testa alla lista. Se qualcuno ha pensato che tutta questa turbolenza abbia preoccupato il ministro della giustizia, questo qualcuno sarebbe un illuso. Come si è mosso Alfonso Bonafede? Ha scritto su facebook, minacciando chiunque abbia attribuito al governo e al decreto Cura Italia le scarcerazioni. Per una volta ha ragione a difendere l’autonomia della magistratura, anche se lo fa per scansare il problema dalla propria persona. E non per sostenere decisioni dettate da rigorosa applicazione della legge e senso di umanità. Se ancora si può dire, in questo clima di voglia di forca appesa al ramo più alto.

Travaglio condanna il fascismo come regime eccessivamente liberale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Aprile 2020. Il Csm tace, tace, tace. Eppure è successa una cosa che non ha precedenti: un suo membro togato ha accusato i colleghi del tribunale di sorveglianza di Milano di aver ceduto al ricatto mafioso. Ha detto esattamente così. Non c’è nessuna forzatura nel far notare che li ha accusati di concorso esterno. Il membro togato in questione, lo sapete, è Nino Di Matteo. Il casus belli è la scarcerazione con otto mesi di anticipo (anzi, il differimento degli ultimi otto mesi di pena) di un detenuto che ha già scontato più di 17 anni per estorsione (mafiosa) e stava al 41 bis, e ha il cancro, ed è malato di cuore, e ha 78 anni.  Possibile che nessuno nel Csm o nell’associazione magistrati scatti a difesa dei suoi ragionevolissimi colleghi di Milano? Eppure ci sono tanti precedenti nei quali Csm e Anm sono scattati eccome a difesa dei magistrati, solo perché questi erano stati criticati. Penso al caso-Gratteri (il povero procuratore generale di Catanzaro, Lupacchini, è stato cacciato e degradato sul campo, dal Csm, per aver criticato l’intoccabile Gratteri: cose mai viste), o penso alla Procura di Firenze, difesa a spada tratta sempre da Csm e Anm, perché qualche giornale (pochi) e Matteo Renzi l’avevano criticata per una inchiesta che non si sa bene neppure che fine abbia fatto, ma che suscitò un pandemonio giornalistico e televisivo. Ora io ricopio tre righe dell’intervento svolto tre giorni fa dal consigliere togato del Csm Giuseppe Cascini, capodelegazione della corrente di Area (che è la corrente di sinistra, costituita essenzialmente dal vecchio gruppo di Magistratura democratica) in polemica con il consigliere non togato del Csm, il professor Lanzi, che aveva, in un’intervista, denunciato il processo mediatico messo in moto a Milano contro la Regione Lombardia. Io non so se Lanzi avesse ragione o torto. So quale era (almeno fino a giovedì mattina) il parere di Cascini. Eccolo: «Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni ed espressioni che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio precedente». Dopodiché Cascini ha intimato a Lanzi di smentire l’intervista (con una specie di moderno autodafé, pratica di autocritica medievale che effettivamente è sempre stata abbastanza ben vista da qualche settore della magistratura italiana) prevedendo in alternativa l’apertura da parte del Csm di una “pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano”. Ora capite bene che le dichiarazioni di Lanzi (che oltretutto non è un togato, e che all’interno del Csm appartiene alla minoranza) sono rose in confronto alle bordate di Di Matteo. Lanzi, ovviamente, non ha accusato nessuno di intelligenza con la mafia. Come è possibile a questo punto non aprire una “pratica a difesa” dei magistrati milanesi messi sotto accusa da Di Matteo? Io penso che non basti neppure la “pratica a difesa” (della quale, comunque, ancora nessuno ha parlato). Cascini (vi giuro: è uno dei pochi magistrati importanti che non mi sta affatto antipatico, anzi, che spesso ho apprezzato per molte sue posizioni, stavolta proprio no) è il capo di Area, come dicevamo, e Area, alleata coi davighiani e coi non-togati grillini, ha la maggioranza assoluta in Csm, e comanda, e decide le nomine, e spartisce, ovviamente, e tutto il resto. Chiaro che già in partenza era un’alleanza innaturale quella tra sinistra e Davigo (ricorda un po’ il milazzismo, ma dubito che siano in molti a sapere cosa fu il milazzismo, in Sicilia, negli anni Cinquanta: vi suggerisco, casomai, di farvelo spiegare da Pignatone, che sicuramente lo conosce bene, oppure guardate su Wikipedia). Ora però siamo giunti a una situazione estrema. Cascini dovrà spiegare questa svolta reazionaria di Area, non tanto a noi ma ai suoi colleghi. E forse dovrebbe anche chiedere la ritrattazione di Di Matteo (senza autodafé) e magari anche le dimissioni. Di cosa ha paura? Possibile che tutti siano terrorizzati da Marco Travaglio? Ma che poteri avrà questo Travaglio? So bene che, soprattutto in questa fase, le nomine contano molto. Ma c’è un limite, secondo me. Io pensavo che il fondamento di una corrente di magistrati fosse non solo di potere ma, almeno un minimo, di idee. Non è così.

P.s.1. ho letto anche l’articolo di Travaglio contro i magistrati che scarcerano. Mi dispiace che mi tocchi, proprio il 25 aprile, fare osservare come le norme umanitarie usate dai giudici milanesi siano state varate al tempo del fascismo. Che Travaglio, forse, condanna come regime eccessivamente liberale…

P.S.2. Il milazzismo fu l’alleanza tra Pci e Msi

Poniz: «Sul carcere, noi giudici seguiamo la Costituzione: qualcuno la dimentica». Errico Novi su Il Dubbio il 24 aprile 2020. Il presidente dell’Anm difende la scelta dei scarcerare l’uomo accusato di mafia e malato di tumore: “In nessun modo il consenso sociale o politico è condizione dell’esercizio della giurisdizione”.

Luca Poniz presiede l’Anm. È una figura poco incline all’esposizione mediatica. Eppure nel comunicato con cui mercoledì sera l’Associazione da lui guidata ha respinto gli attacchi al giudice di sorveglianza milanese che ha differito la pena del detenuto Franco Bonura, si avverte un’indignazione che non ammette repliche.

Avete ricordato che la decisione su Bonura è regolata da una norma ispirata a propria volta ai principi costituzionali: trova desolante dover rammentare che in Italia esiste il principio di umanità della pena?

«Nel comunicato di due giorni fa abbiamo sentito l’urgenza di ricordare principi di fondamento costituzionale non di rado ignorati nel dibattito pubblico. Nessuna parte dell’ordinamento penale e penitenziario è zona franca rispetto ad essi; naturalmente ogni singola decisione deve valutare gli elementi propri della vicenda, e decidere, in concreto, sulla base di un difficile bilanciamento dei valori in gioco. Il Giudice del caso lo ha fatto, il provvedimento è motivato e sarà oggetto di ulteriore rivalutazione da parte del Tribunale di sorveglianza: questa è l’essenza della giurisdizione, il compito difficilissimo dei giudici, che si vorrebbe sottratto alle contrapposizioni non di rado sorrette da pura logica politica».

Il Pg di Cassazione Salvi ha osservato come le norme precedenti all’emergenza consentano al giudice di sorveglianza di valutare le istanze dei detenuti tenuto conto del drammatico quadro sanitario: la decisione di Milano può essere inserita in tale cornice?

«Il documento del Procuratore Generale Salvi traccia una serie di indicazioni di notevole importanza, sul tema del rapporto tra emergenza “coronavirus” e stato detentivo; il provvedimento dell’ufficio di sorveglianza di Milano – adottato ai sensi dell’art. 147 c. p. muove dalle condizioni di salute del detenuto, dalle sue pregresse patologie ( dal Giudice valutate come “importanti”) in relazione alle quali la motivazione indica “anche” una possibile rilevanza del rischio di contagio: nessun automatismo, nessuna stretta correlazione con la situazione pandemica. Anche in relazione a tale pretesa parte del provvedimento – evidentemente non ben letto – le polemiche appaiono strumentali».

Voi dite che gli attacchi non condizionano le decisioni dei magistrati: ma davvero non ci sono rischi che le polemiche seguite alla scarcerazione di Bonura influiscano su futuri provvedimenti?

«Il ruolo del Giudice è difficile perché sempre le sue decisioni scontentano almeno una parte: diciamo che ognuno di noi è pronto, e dunque culturalmente e professionalmente attrezzato, a vedere le proprie decisioni discusse, non condivise, criticate, anche aspramente. Ma ogni Giudice sa anche bene che in nessun modo il consenso sociale o politico è condizione dell’esercizio della giurisdizione, ed al consenso – così come al dissenso – non può che essere indifferente. Naturalmente attacchi, quando non violente delegittimazioni ( alle quali siamo ormai abituati, ma mai indifferenti) possono rendere più difficile il nostro compito, ed è con quella finalità che secondo noi essi vengono portati: ma l’Amm sa bene quale è il livello di indipendenza e di autonomia dei Magistrati italiani, e non perdiamo l’occasione di ricordarlo, non certo a noi stessi».

Magistrati e avvocati sono spesso accomunati proprio dagli attacchi per la loro attività, soprattutto quando ispirata alla tutela delle garanzie: una loro “alleanza culturale” può favorire anche un diverso orientamento nell’opinione pubblica?

«La giurisdizione è una funzione essenziale della Repubblica, concepita per la tutela dei diritti e delle libertà; la funzione della difesa, anch’essa costituzionalmente protetta, è elemento essenziale perché la giurisdizione abbia una piena connotazione democratica. Nella fisiologica diversità dei ruoli, esiste un irrinunciabile terreno comune, che è la difesa dei princìpi costituzionali, che dovrebbe prescindere sempre dal gradimento, oppure no, delle decisioni. La comune difesa delle regole e dei princìpi fondamentali dell’ordinamento potrebbe giovare certamente alla crescita di una cultura garantista, che non siano i vuoti richiami ad essa che in modo pericolosamente oscillante si fanno in occasione di questa o quella delle tante vicende politico- giudiziarie».

Qualora la fine del lockdown favorisse un aumento dei contagi anche nelle carceri, crede che il sistema penitenziario sarebbe in grado di fronteggiare l’emergenza?

«Difficile rispondere a questa domanda senza avere l’aggiornamento attuale della situazione, che muove però da un pregresso sovraffollamento, più volte ricordato. I documenti della magistratura di sorveglianza e molte richieste provenute da loro anche in occasione di tavoli tecnici auspicano una riduzione della popolazione carceraria e indicano una serie di possibili misure che non muovono da una generica “indulgenza”, ma da una seria analisi della situazione e delle possibili evoluzioni. È una materia complessa, che dovrebbe essere sottratta alla strumentale lettura politica, e tenere conto di plurime sollecitazioni anche di fonte europea. Diciamo che ad emergenza finita, una delle priorità è affrontare la questione del carcere, e sottrarre la verifica delle condizioni complessive in cui versano i detenuti alla contingenza di questa emergenza, o di altre future, nelle quali è naturalmente più difficile compiere scelte meditate e profonde».

“Rispettare il dolore delle vittime ma anche il diritto alla vita dei detenuti”. Lo dicono le toghe di Unicost. Il Dubbio il 27 aprile 2020. La replica dopo le polemiche sulla scarcerazione dei boss per Covid: “Garantire la salute e la dignità minima dei detenuti”. E la politica non “scappi”. Garantire il dolore delle vittime, certo, ma garantire anche  “il diritto alla vita, alla salute e alla dignità minima dei detenuti”. E’ il cuore della nota di Mariano Sciacca e Francesco Cananzim presidente e del segretario di Unicost, la corrente moderata della magistratura. Insomma, Unicost risponde così alle polemiche successive la scarcerazione di mafiosi in carcere, non ultima quella del boss Michele Zagaria, scarcerato per gravi motivi di salute ma divenuto oggetto delle attenzioni di stampa e Tv. Unicost richiama decisamente la politica alle sue responsabilità: “Nelle carceri che perdura da decenni, non vi è stato governo o parlamento che abbiano adottato misure adeguate a risolverlo: né dando reale e risolutivo impulso alle misure alternative alla detenzione, né operando con interventi idonei in materia di edilizia penitenziaria, né facendo l’una e l’altra cosa”. “Da ultimo anche la normativa d’emergenza, emanata a fronte della pandemia da COVID-19, si è rivelata inadeguata rispetto al sovraffollamento negli istituti penitenziari. Il necessario e dovuto bilanciamento dei beni costituzionali in gioco – da un lato le esigenze di sicurezza sociale e dall’altro la tutela del diritto alla salute e del diritto al trattamento – è stato sostanzialmente circondato non soltanto da appesantimenti procedimentali e burocratici, ma anche da una delega alla magistratura di valutazioni che spettano al governo e al parlamento. La politica è assunzione di responsabilità e, in questo ambito, selezione delle priorità di politica criminale e penitenziaria”. “Per garantire al contempo i diritti dei cittadini, il dolore delle vittime di mafia e di terrorismo e le esigenze di tutela sociale, con il diritto alla vita, alla salute e alla dignità minima dei detenuti, in presenza di una pandemia così grave occorre una accurata progettualità. E non può ritenersi sufficiente un formale monitoraggio dei detenuti esposti a rischio COVID, perché affetti da pregresse patologie. Di certo non si può accollare alla magistratura la ‘responsabilità politica’ di sottoporre alla detenzione domiciliare pericolosi criminali, allorquando il circuito penitenziario non è in grado di garantire il diritto alla salute. Questa non è una responsabilità della magistratura. Auspichiamo e siamo certi, pertanto, che il Governo su questo tema interverrà da subito, con provvedimenti normativi, organizzativi e logistici adeguati, seguendo le indicazioni già fornite dalla Magistratura di sorveglianza, oltre che prevedendo il coinvolgimento delle Direzioni antimafia, nazionale e distrettuali”, concludono i due esponenti di Unicost.

Gian Carlo Caselli per il “Fatto quotidiano” il 27 febbraio 2020. Chiunque abbia osato sostenere la legge (entrata in vigore il primo gennaio di quest' anno) che ha finalmente stabilito che anche nel nostro ordinamento la prescrizione, invece di essere infinita, deve a un certo punto interrompersi, ha "assaggiato" - in un modo o nell' altro - un orgiastico sabba di insulti, dileggi, imprecazioni, scomuniche, anatemi e previsioni catastrofiche che è andato oltre i confini del buon senso. In particolare a opera di coloro che hanno appioppato a chi fosse di contrario avviso etichette infamanti come manettaro o forcaiolo, oltre a quella piuttosto consunta di giustizialista. Con il sostegno di quanti, fregandosene dei profili tecnici della questione, ne han fatto un cavallo di Troia tutto politico per scardinare le opposte fazioni. Per fortuna, decibel e toni da stadio dovrebbero decisamente calare a fronte del "Rapporto sull' Italia" approvato ieri dalla Commissione europea. Dove si legge che la riforma della prescrizione (in Italia riforma Bonafede) é "benvenuta". Anche perché "in linea con una raccomandazione specifica" al nostro Paese che l' Europa aveva formulato da tempo. Parole chiare e univoche, che sarà persino opportuno comunicare con qualche cautela - per evitare un eccessivo sbigottimento - a chi aveva parlato di bomba atomica (qui il "paziente zero" è ben conosciuto), vergogna per lo Stato di diritto, barbarie e via salmodiando. Tanto più che la Commissione europea esprime un giudizio positivo - con qualche riserva - pure sulla legge "spazza-corrotti" (anch' essa targata "Bonafede") e in generale sulla lotta alla corruzione, "che sta migliorando". Nello stesso tempo la Commissione - che così ci guadagna in affidabilità - non fa sconti: sia sul piano civile (il contenzioso viene giudicato troppo lungo, tale da "allontanare gli imprenditori e gli investimenti stranieri"); sia su quello penale, dove è "necessaria una riforma" con misure capaci di aumentare l' efficienza del processo, soprattutto nel grado d' appello.  Misure che il "Rapporto" esemplifica parlando di: revisione delle notifiche; ampliamento delle procedure semplificate; limitazione della possibilità di fare appello; introduzione del giudice unico nel secondo grado; ricorso più ampio agli strumenti elettronici; semplificazione delle regole sulle prove. Direttive che, in percentuale ragguardevole, collimano con le linee guida del "disegno di legge recante deleghe al governo per l' efficienza del processo penale". Dunque, di nuovo un brutto rospo da digerire per certe cassandre italiche, salvo ipotizzare un "concorso esterno" dell' Europa col nostro Guardasigilli Verso il quale, del resto, il "Rapporto" esprime critiche anche sul versante penale, là dove - suggerendo di monitorarne attentamente l' impatto - mostra in sostanza di non apprezzare l' introduzione di sanzioni disciplinari per i giudici che non rispettino i tempi fissati per le varie fasi del processo. Per concludere con una provocazione, si può sperare che siano irreversibilmente tramontati in Italia (con la "spazza-corrotti" e la riforma della prescrizione, grazie anche all' apprezzamento europeo) i tempi di Francesco Crispi secondo il racconto di Sebastiano Vassalli nel romanzo L' italiano. Rievocando lo scandalo del Banco di Napoli e l' interrogatorio del Giudice istruttore di Bologna Alfredo Balestri, Vassalli attribuisce a Crispi questi pensieri: forte della certezza che il denaro è il motore del mondo, egli reagì pensando che "quell' ometto sussiegoso che gli stava davanti e pretendeva da lui che gli rendesse conto di ogni singola operazione di banca e di ogni prestanome, era soltanto un cretino". Un cretino perché si illudeva che "la politica interna ed estera in una nazione moderna potesse farsi senza quattrini e senza infamia, soltanto con l' onestà. Ci voleva ben altro: la mafia, la massoneria, i brogli elettorali, la corruzione". Ecco, di "cretini" così, di persone che non ci stanno a convivere né con la mafia né con la corruzione, c' è ancora bisogno oggi. Tanto bisogno. Le leggi di cui abbiamo parlato danno una mano a chi vuol essere sempre più "cretino". Perciò diciamo, come l' Europa, benvenute! A rischio di urtare la suscettibilità di quei sedicenti garantisti che col garantismo vero ci litigano, perché preferiscono di gran lunga quello tarocco. Cioè il garantismo "strumentale", diretto a disarmare la magistratura di fronte al potere di chi può e conta; oppure "selettivo", disposto a graduare le regole a seconda dello status sociale dell' interessato di turno. Dimenticando che il garantismo doc, o è veicolo di uguaglianza (e non di sopraffazione e privilegio), o semplicemente non è.

Manette uguali per tutti, lo strano garantismo di Caselli. Iuri Maria Prado Il Riformista l'1 Marzo 2020. Un illustre articolista del Fatto Quotidiano, Gian Carlo Caselli, ha scritto l’altro giorno che «il garantismo doc, o è veicolo di uguaglianza (e non di sopraffazione e privilegio), o semplicemente non è». Il resto del garantismo, spiega, cioè quello che ha denunciato l’inciviltà delle riforme del Dj in parentesi ministeriale, è “tarocco”. Vale la pena di restarci un momento. Perché è abbastanza vero che una certa parte della magistratura, sia essa in ritiro o invece in ruolo attivo, desidera in candida equanimità un sistema di giustizia uguale per tutti. Bisogna vedere tuttavia in che cosa dovrebbe risolversi questo ugualitarismo giudiziario. L’impressione è che si tratti del desiderio che lo Stato tolga diritti a tutti; che tutti siano sommessi a una giustizia incattivita; che tutti e in modo appunto eguale siano cittadini di un Paese intimorito. E c’è senz’altro una specie di buona fede in quel desiderio. Solo che esiste – dovrebbe poter esistere – un’impostazione diversa e opposta, e cioè che sia preferibile un sistema di uguaglianza nell’affermazione anziché nella compressione dei diritti delle persone. Uguali con meno anziché più galera. Uguali con meno anziché più carcerazione preventiva. Uguali con meno anziché più manette. E per stare al direttore di Gian Carlo Caselli, che vuole vedere i detenuti “in catene”: uguali senza catene, anziché tutti in catene. Questo sarà pure un garantismo diverso rispetto a quello plumbeo vagheggiato da Gian Carlo Caselli e dal giornale che ne pubblica le ruminazioni, ma fino a prova contraria non è “tarocco”. E la prova contraria, si permetta, non la ritroviamo negli articoli di elogio che Il Fatto Quotidiano, pel tramite di questo o quel collaboratore togato, dedica al “nostro Guardasigilli”. Nel diuturno lavorìo screditante di questi candidi moralizzatori è sempre presente il riferimento obliquo a una pretesa mira assolutoria del garantismo che non gli piace, insomma l’idea che ci si muova a spuntare le armi dei giudici per proteggere il privilegio dei potenti. Ma devono cacciarsi in testa che non è così, e che alcuni (pochi magari, ma ci sono) risentono i problemi di giustizia come problemi di tutti: alcuni a cui l’ingiustizia ripugna perché c’è, non secondo che affligga questo o un altro. Ed è vero che l’ingiustizia in questo Paese opprime innanzitutto la povera gente ed infatti è di questa, di povera gente, che le carceri sono piene. È vero, ci finiscono soprattutto i poveri e i disadattati, là dentro. Garantismo, per noi, sarebbe sprigionarli. Per altri sarebbe riempire ancora quelle prigioni e mandarci dentro quanta più gente possibile. Possibilmente in catene. È un’uguaglianza che non ci piace.

Ognuno ha i magistrati che può. Alessandro Sallusti, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale. In un estremo tentativo di difendere l'indifendibile, Marco Travaglio, a nome di tutti i manettari d'Italia soci del Davigo fan club, si è scagliato contro l'ex pm Carlo Nordio che si sta battendo contro l'approvazione della legge unica nei Paesi civili - che abolisce la prescrizione, altrimenti nota come «fine pena mai». Quando uno è a corto di argomenti convincenti a sostegno di una tesi non gli resta che demonizzare l'avversario. E così Travaglio scrive un violento articolo per dipingere Nordio come un magistrato incapace e voltagabbana, mettendo in fila una serie di errori da lui compiuti quando era magistrato che hanno provocato prescrizioni o inutili inchieste. Tutto vero, immagino. Sono fatti di circa vent'anni fa e si potrebbe obiettare che «sbagliando si impara» e che, proprio perché lui sbagliò, Nordio sa bene quanto sia pericoloso rimanere troppo a lungo nelle mani della magistratura. Oppure si potrebbe rovesciare il discorso e, avendo tempo e voglia, elencare tutti i processi incardinati da Davigo e finiti con piena assoluzione dei malcapitati dopo anni di inutili sofferenze, ricordare i morti per suicidio da abuso di carcerazione preventiva negli anni di Tangentopoli. È chiaro che a Travaglio e ai manettari Nordio non piace. I loro ex magistrati preferiti sono altri. Il primo fu Antonio Di Pietro, uno che da pm finì in una imbarazzante storia di auto di lusso in prestito, soldi custoditi in una scatola da scarpe e che quando anche per questo - si dimise dalla magistratura entrò diritto in Senato nelle liste del Pds. Oppure quell'Antonio Ingroia, ambizioso pm di Palermo e stimato collaboratore de Il fatto Quotidiano famoso per aver detto che «un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni, ma io confesso che non mi sento del tutto imparziale. Anzi, mi sento partigiano». Ingroia ora è sotto inchiesta per peculato: gli hanno sequestrato 150mila euro ottenuti indebitamente e sulla sua testa c'è una richiesta a quattro anni di carcere. E anche lui con il pallino della politica. Nel 2012 fonda il partito «Rivoluzione civile», il Fatto nel 2013 gli presta come candidata una sua firma di punta, Sandra Amurri, e lo sostiene con il titolo: «Perché Ingroia sfonderà». Risultato: 1,8 per cento e addio sogni di gloria. Nel 2018 ci riprova con «La lista del popolo» e riesce a fare peggio: 0,02 per cento. Ognuno ha i suoi magistrati di riferimento. I manettari amano Di Pietro e Ingroia, noi Carlo Nordio e ne siamo orgogliosi.

Diritti della persona, onore a Macaluso non alla sinistra. Iuri Maria Prado il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. L’unico che ha avuto il coraggio e l’onestà di riconoscerlo è stato Emanuele Macaluso, ormai tanti anni fa: i diritti della persona davanti alla giustizia, l’affermazione dello Stato di diritto, la protezione delle libertà dell’individuo esposto alla prepotenza del potere punitivo, sono tutte faccende tradizionalmente estranee alla cultura comunista di questo Paese. È la prevalenza di quella cultura – che persiste nonostante il cambio di nome, che si è insinuata sino a farsi genetica nelle fibre intime della società italiana, che si ripropone puntualmente quando si tratta di svolte notevoli in campo di giustizia -che ha prodotto lo scadimento civile cui oggi assistiamo e il prorompere impunito, ormai veramente irresistibile, dell’istanza autoritaria di certa magistratura. Il bravo Caiazza, ieri, proprio su queste pagine, faceva appello a una improbabile dimostrazione di resipiscenza del partito che da quella cultura proviene, il Partito democratico, che il presidente dell’Unione delle Camere Penali chiama “ad una scelta netta” contro la riforma della prescrizione. Ma solo il fatto che si renda necessario un ravvedimento spiega assai bene come i rappresentanti di quella cultura spontaneamente si orientino, e spiega bene come essi naturalmente, meccanicamente, si determinino quando in gioco sono quelle faccende pressoché ininfluenti, immeritevoli di troppa cura e dopotutto transigibili: i diritti della persona a fronte dell’arbitrio pubblico. Non che si tratti di responsabilità esclusive, attenzione. È vero infatti che gli italiani sono autonomamente e direi originariamente indisposti a reclamare la manutenzione dello Stato di diritto, e assistono inerti, quando non soddisfatti, a ogni esperimento rivolto a frantumarlo. Così come è vero che questo atteggiamento, e non da oggi, è condiviso senza troppe eccezioni dal resto di una classe politica imperdonabilmente dedicata a lasciar correre. Ma il disinteresse connaturato per i diritti del singolo a petto della violenza di Stato è una specialità di quella sinistra, la quale non a caso rigetta quelli che, come Macaluso, ad essa hanno appartenuto con il coraggio di denunciarne le colpe.

Marco Travaglio e il suo comizio quotidiano. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. Marco Travaglio ha scritto sul suo giornale che l’Italia è divisa in due: da una parte, spiega, ci sono Davigo, Gratteri, Di Matteo e Il Fatto, le cui voci legalitarie sarebbero sistematicamente censurate; dall’altra parte ci sono i “poteri marci”, che spadroneggiano nell’imporre al Paese una «Nuova Restaurazione accompagnata da un terribile puzzo di fogna putrida». Una simile violenza fa ridere chiunque quando è usata per sostenere che quelli lì, porelli, non hanno modo di esprimere pubblicamente le loro idee. Perché questo scrive Travaglio: che l’Italia buona e onesta che lui rappresenta è a rischio di bavaglio, ed è probabile che comincerà a ripetere questa verità ridicola davanti alle telecamere che riprendono il suo comizio quotidiano. Non dovrebbe far ridere nessuno, invece, che Travaglio si permetta di descrivere in quel modo la parte di Paese che non gli piace. Perché avere un’idea diversa dalla sua sulla prescrizione, sulle leggi che “spazzano” il presunto marciume o sui rastrellamenti giudiziari dovrà pur essere legittimo. E avere quest’idea diversa – che peraltro non è possibile manifestare negli studi televisivi dove Travaglio e i suoi amici magistrati sono ospiti fissi – non dovrebbe comportare la sanzione dell’insulto, e cioè beccarsi di potere marcio e roba da fogna. C’è chi pensa che Travaglio e i suoi amici magistrati abbiano idee e lavorino per diffondere pratiche capaci di devastare il poco residuo di civiltà giuridica e democratica di questo Paese. E naturalmente quelli che la pensano in questo modo possono sbagliare, ma non sono per forza gente di malaffare. Non necessariamente puzzano di fogna. E finché potranno (nell’Italia piombata che piacerebbe a Travaglio e ai suoi amici magistrati non si sa se potrebbero farlo) continueranno a reclamare il diritto di dire che in un Paese civile le cose di giustizia e i diritti delle persone dovrebbero essere trattati in modo diverso. I diritti di tutti. I diritti di quelli che, come noi, stanno nella fogna putrida; e i diritti di quelli, come Marco Travaglio e i suoi amici, che vorrebbero bonificarla costruendoci sopra un carcere smisurato.

Ordine dei giornalisti, perché Travaglio è intoccabile? Redazione de Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Vi ricordate quella storia della patata bollente? Era un titolo goliardico e, a nostro parere, molto volgare, che campeggiava un paio d’anni fa sulla prima pagina di Libero. Si riferiva alla sindaca Raggi. Secondo la direzione del giornale non era malizioso, voleva solo segnalare che la Raggi era nei guai, per motivi giudiziari e sentimentali. In realtà il doppio senso era indiscutibile, e il riferimento sessuale e anche antifemminista era piuttosto evidente. Noi del Riformista troviamo che sia sempre sbagliato reagire a quelli che consideriamo errori o cadute di stile o – persino – mascalzonate, con le querele, le iniziative della magistratura, le censure dell’Ordine dei giornalisti. E invece il povero Piero Senaldi, direttore responsabile di Libero, si è trovato in mezzo a un sacco di guai, perché la Raggi lo ha querelato, lui è finito sotto processo penale e in più l’Ordine dei giornalisti lo ha censurato e ha respinto il suo ricorso contro la censura. Reprobo, reprobo, reprobo. Vabbè. Ora però una domanda piccola piccola vorremmo porla all’Ordine dei giornalisti: ma l’avete vista la vignetta del Fatto quotidiano on line nella quale si sostiene che Craxi deve mettere la faccia nella merda e tenercela per tutta l’eternità, e stare nudo per tutta l’eternità, e tenersi anche una carota nel sedere perpetuamente? Vi sembra meno volgare e offensiva di quel titolo di Libero? Possiamo sapere se immaginate che il Fatto quotidiano dovrà subire le stesse traversie di Libero, o se invece esiste uno statuto speciale per il quale se un giornale è molto molto amico dei magistrati può avere un trattamento di favore? P.S. Posta questa domanda, aggiungiamo che a nostro giudizio sarebbe invece più logico abolire le censure per tutti, persino per chi fa quelle vignette su Craxi che dimostrano una capacità modestissima di usare il cervello. Per la verità non saremmo neppure molto contrari all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Ma questa è una discussione seria che è meglio non mescolare con le oscenità infantili del Fatto.

Marco Travaglio ce l’ha piccolo…Tiziana Maiolo il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. Una volta molti anni fa, quando non esistevano i social e comunque lui non lo conosceva nessuno, avevo scritto da qualche parte “Marco Travaglio ce l’ha piccolo”. Naturalmente non parlavo del cervello e neppure di quella cosuccia cui potrebbe alludere un pensiero malizioso. No, il mio cruccio era determinato dall’impossibilità di poter incrociare le spade con una persona così priva di senso dell’umorismo. Perché “ce l’ha piccolo”. E, poiché si sa che quel che distingue l’uomo dall’animale non è l’intelligenza ma l’ironia, possiamo stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Marco Travaglio è molto intelligente. Val la pena (oddio, ho detto pena!) leggerlo ogni giorno. Con grande generosità e sprezzo del pericolo elargisce condanne, manette, carcere e pena capitale. Usa il sarcasmo, parente povero e frustrato dell’ironia. Prendiamo ieri, quando ha attaccato a testa bassa il Potente di turno, cioè il presidente del consiglio. Prima di capire se parlasse del Conte due (cioè l’attuale premier) o del Conte uno (il precedente) abbiamo dovuto rileggere due volte, nel dubbio che forse con lo sguardo all’indietro stesse distruggendo Gentiloni o Renzi. Macché, il Nostro stava coraggiosamente infilzando il potente di trent’anni fa, infatti chiama Bettino Craxi “il Buonanima”. Così, tanto per essere sicuro che sia morto davvero, che sia stato condannato davvero, che sia stato sconfitto e sputtanato davvero. Che sia tutto così definitivo e che altri abbiano preceduto il direttore del Fatto nella tragica gogna mediatico-giudiziaria che ha perseguitato Craxi nel suo esilio ad Hamammet. Gli dà fastidio il fatto che, nel ventennale della morte, si parli di un grande statista che fino all’ultimo seppe lanciare nel programma di governo la modernizzazione come flessibilità nei rapporti con i cittadini, con le attività produttive, con la vita sociale. Un uomo di cui è impossibile dimenticarsi. In positivo, ormai quasi da parte di tutti. Tranne quelli del triste capannello in cui Travaglio si accompagna a Davigo. Ogni giorno parla di catene, la grande ossessione del piccolo Travaglio. Così, se viene annunciata la pubblicazione postuma di un noir scritto di suo pugno dallo stesso ex segretario del Psi, non si può che chiamarlo “romanzo d’evasione”, in modo che lo stupido lettore sia indotto a immaginare una lima infilata tra le sbarre di una cella. Se poi il libro viene pubblicato dalla principale casa editrice italiana non è per meriti e neanche (paradossalmente) per appoggi politici, ma per complicità nei reati più turpi tra lo scrittore e l’editore: “Pubblicato da Mondadori, e da chi se no?”. Un bell’articolo 416 (e aggiungiamoci anche il bis, per non farci mancare niente) del codice penale, che accomuna nell’associazione anche il Corriere, reo di aver pubblicato uno stralcio del testo, e il Messaggero che ne ha fatto la recensione. Senza dimenticare la Stampa, messa al rogo per aver notato che il Pd sarà l’unico assente alla commemorazione ad Hammamet. E il povero “compagno” Giorgio Gori, trafitto più di san Sebastiano, non tanto perché estimatore di Craxi quanto perché ex dirigente Fininvest, quindi anche lui facente parte del 416 bis. Naturalmente il libro, non essendo stato scritto da Travaglio né da Gomez o da altri nerboruti ragazzotti amici loro, è una cialtronata, mal scritto, “una cagata pazzesca”. Giù le mani dal senso dell’ironia di Fantozzi, per favore. Lui non ce l’aveva di certo piccolo. 

Le avventure di Formigli e Travaglio, ogni giorno un processo in tv. Redazione de Il Riformista il 19 Dicembre 2019. Ieri Travigli non ha parlato. Parlerà oggi, nella sua trasmissione Piazza Pulita. Lo ascolteremo con attenzione. Immaginiamo che processerà qualcuno. Non sappiamo ancora chi. Probabilmente lo condannerà (ammenochè non sia Di Maio…). Però ieri ha parlato Formaglio. Il direttore del Fatto ha parlato alla trasmissione di Floris, sempre sulla Sette. Ha detto che Renzi ha preso le tangenti. Così, chiacchierando del più e del meno. Il conduttore ha provato a fargli notare che veramente Renzi non è neppure indagato. Formaglio, infastidito, ha spiegato che questo è un fatto del tutto secondario. I giornalisti non hanno il compito di stabilire chi è colpevole e chi è innocente – ha detto con quella sua aria sempre molto umile e dialogante – i giornalisti hanno il compito di bastonare chi gli pare a loro (o chi gli suggerisce il magistrato più amico). Renzi lo ha querelato. Poi, siccome Floris gli chiedeva, sconsideratamente, se a lui pare normale che una Procura ordini decine e decine di perquisizioni, all’alba, nelle case di privati cittadini incensurati e non indagati, è sbottato: le perquisizioni – ha spiegato – si fanno all’alba, perché il perquisito deve essere preso di sorpresa. Floris non gli ha chiesto cosa succede se – come nel caso Open – il perquisito viene avvertito della perquisizione, prima che avvenga, da alcuni giornali, – per esempio dal Fatto – che sanno delle perquisizioni prima che queste avvengano. Vabbè.

Travigo e Davaglio: balla per balla smascheriamo i leader del giustizialismo italiano. Giovanni Altoprati il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. L’intervista pubblicata ieri sul Fatto Quotidiano a Piercamillo Davigo, firmata da Marco Travaglio (nel titolo abbiamo mischiato i due nomi per rendere più chiara l’unità di pensiero e di intenti tra i due protagonisti e leader indiscussi del giustizialismo italiano) contiene molte, molte inesattezze. Non certo per spirito polemico, ma solo per ristabilire un po’ la verità dei fatti, le elenchiamo. 1) La prima domanda di Travaglio riguarda, ovviamente, la prescrizione che “come la nostra c’è solo in Grecia”. Non è proprio così. In Francia, ad esempio, le norme sulla prescrizione sono simili alle nostre. Il termine di prescrizione decorre dalla data di commissione del fatto. Maturato il termine massimo previsto dalla legge, si estingue l’azione pubblica. Per alcuni reati, come nel caso di quelli commessi a mezzo stampa, la prescrizione è rapidissima: solo 3 mesi. In Germania, invece, la prescrizione è regolata dal codice penale. Esiste una distinzione tra “prescrizione della perseguibilità”, corrispondente alla prescrizione del reato italiana, e “prescrizione della esecuzione”, equivalente alla prescrizione della pena. L’ordinamento del Regno Unito non prevede l’estinzione del reato per prescrizione. Sono, però, previsti dei limiti temporali entro i quali possono essere perseguiti i reati; essi rispondono all’esigenza processuale di assicurare, entro un termine ragionevole, l’acquisizione di prove genuine e di garantire all’accusato un “giusto processo” che si svolga in un lasso di tempo circoscritto rispetto ai fatti che l’hanno determinato. Chi è assolto viene poi risarcito di tutte le spese legali sostenute. 2) In Italia “i processi durano troppo perché se ne fanno troppi. Il sistema accusatorio regge solo se il grosso dei casi non va a dibattimento”. Non è corretto. I processi sono tanti perché esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e perché sono troppi i fatti sanzionati dalla legge penalmente (in aumento esponenziale da quando i grillini sono al governo). A ciò si deve poi aggiungere che tutto va a dibattimento perché il filtro del gip non funziona, essendo diventato il “copia ed incolla” delle decisioni del pm. Sono rarissime, infatti, le sentenze di non luogo a procedere pronunciate in udienza preliminare. Questa è una delle ragioni per le quali si chiede da tempo la separazione della carriere: Pm e Gip colleghi e vicini di stanza difficilmente sono autonomi. Così la funzione di vaglio e di selezione e di controllo del Gip scompare. Purtroppo l’Anm, in particolare quella che fu guidata da Davigo, è sempre statacontrarissima alla separazione delle carreire, che considera lesa maestà. 

Memorabile intervista di Travaglio a Davigo: per salvare la giustizia aboliamo la difesa. Piero Sansonetti il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. C’era una volta Oriana Fallaci. Lei era considerata la regina delle interviste. Ne fece decine, e le sue interviste erano spettacoli di lotta greco-romana. Prendeva l’intervistatore per il collo e non gliene passava una. Mise alle corde Gheddafi, ma anche Fellini e Bob Kennedy. Sapete che anche i miti, col tempo, appassiscono. vengono superati. È successo così. Oggi il mito di Oriana è di gran lunga superato da quello di Marco Travaglio. Ieri, sul Fatto Quotidiano, Travaglio ha intervistato Piercamillo Davigo (ex Pm, ex capo dell’Anm, attualmente consigliere del Csm) e lo ha letteralmente messo alle strette: non gliene ha passata una. Lui – Davigo – si è difeso bene, certo, perché lo cose le sa. Ma ha traballato. Ogni domanda una mazzata. Ne ricopio qui le più importanti, anche per dare ai miei più giovani colleghi un’idea di come si fa un’intervista vera. Le ricopio integrali, senza cambiare una virgola e senza ridurle, per evitare che si perda la complessità della domanda. 1) «Lei che farebbe per bloccare i processi?» 2) «Non ci sono già?» 3) «Quindi che fare?» 4) «L’avvocatura non ci sente» 5) «Altre soluzioni?». E poi la sesta domanda che davvero è il colpo del kappaò: «Basta così?». Sull’ultima domanda Davigo ha tremato davvero. E ha dovuto confessare che no, non bastava così. Che alle idee che aveva offerto fino a quel momento, rispondendo con sagacia agli affondi del giornalista, doveva aggiungerne un’ultima che può essere riassunta con queste poche parole: aboliamo il gratuito patrocinio per gli imputati, che tanto sono tutti evasori fiscali sennò non sarebbero imputati, e usiamo quei soldi per finanziare le parti civili. Reso il giusto omaggio alla aggressività di Travaglio, forse un po’ troppo rude (specie in quel perfido «Non ci sono già?»), passiamo a esaminare le idee di Davigo. La prima si fonda su questa affermazione singolare sulla prescrizione in Europa. Davigo, come già nei giorni scorsi più volte scritto da Travaglio (chissà chi dei due è il creatore di questa fake) sostiene che solo in Grecia esiste la prescrizione. Negli altri Paesi l’azione penale, una volta iniziata, non finisce più. Difficile discutere, su questo tema, perché l’affermazione non è discutibile: è assolutamente falsa. La prescrizione esiste in quasi tutti i Paesi europei (Germania Spagna, Francia, per citarne alcuni) e in molti di questi Paesi è molto più breve che da noi. Per esempio, in Francia i processi che prevedono pene sotto i 15 anni si prescrivono in tre anni (da noi fino a 15 anni, e in alcuni casi oltre) e l’eventuale interruzione della prescrizione non può comunque durare più di tre anni. A questo si aggiunge la prescrizione delle pene, che in Francia e in altri Paesi europei si conta dal momento del delitto, mentre da noi si conta dal momento della sentenza di terzo grado. Pensa un po’. Tanto che oggi i francesi dicono di non potere dare l’estradizione agli esuli italiani della lotta armata, perché da loro quei reati sono prescritti, da noi no. In Spagna e Germania le cose sono molto simili. Davigo parte da qui per sostenere la sua idea di fondo. Che è questa. Per rendere più veloci i processi c’è un solo modo: ridurre i diritti della difesa. In varie forme. Abolizione della prescrizione, comunque dopo il primo grado, riduzione del diritto all’appello e introduzione della possibilità di reformatio in peius al secondo grado di giudizio (che vuol dire possibilità di aumentare le pene ricevute in primo grado, anche se l’appello è presentato dalla difesa), cancellazione o riduzione del gratuito patrocinio, obbligo per gli avvocati di pagare una multa per le impugnazioni che portano alla condanna. Davigo dice che in questo modo si sconsiglierebbe agli imputati e agli avvocati di ricorrere in appello, per evitare rischi. Travaglio purtroppo non chiede a Davigo se è giusto ridurre le possibilità di appello in presenza di dati molto allarmanti. Per esempio questo: il 40 per cento delle sentenze di appello rovescia o comunque attenua le sentenze di primo grado. L’appello non è una formalità o una perdita di tempo: è la possibilità di correggere un numero gigantesco di clamorosi errori giudiziari. Pensate che tra tutti coloro che finiscono indagati, la maggioranza risulta innocente: in Italia ogni 100 indagati, 75 sono scagionati nelle indagini preliminari o in processo; la percentuale è leggermente più bassa in caso di arresto: circa il 40 per cento degli arrestati risulta innocente, il che significa che probabilmente, oggi, nelle prigioni italiane ci sono solo 10 mila persone che vedranno la loro innocenza riconosciuta nei prossimi anni dopo aver trascorso in cella una piccola parte della propria vita. Questi dati sono utili anche per giudicare la proposta di Davigo di rendere più dura la condanna in processo, e poi in appello, per spingere gran parte degli imputati ad accettare il patteggiamento. Dice Davigo: se rendiamo conveniente il patteggiamento ridurremo i processi e finalmente i tempi della giustizia si abbrevieranno. Il problema è che per patteggiare devo accettare una condanna e se sono innocente (cioè nel 75 per cento almeno dei casi, secondo i dati che vi abbiamo appena fornito)? Mi conviene lo stesso accettare una condanna perché – sapendo che gran parte dei diritti della difesa sono sospesi – so di rischiare di essere condannato anche da innocente? Questa è l’idea di fondo della giustizia? La giustizia – diciamo – è una macchina per condannare, non per giudicare. Tante più condanne ottiene nei tempi più brevi, tanto più è efficiente. E a questo principio devono ispirarsi le riforme. Del resto su questa idea, Davigo trova il plauso di quasi tutta la stampa. Quante volte avete letto questo titolo: “Assolti: la giustizia ha perso”. Ma perché ha perso? Perché sono stati assolti degli innocenti? E avrebbe vinto invece se fossero stati condannati? Bah. Davigo su questo punto è convintissimo. Tanto che spiega come rinunciare all’appello sia un vantaggio per l’imputato. Perché? Perché di sicuro è colpevole, c’è poco da discutere. E dunque ricorrere in appello serve solo a rinviare la prigione. Se invece andasse subito in prigione potrebbe iniziare la rieducazione e riscattarsi prima. Non è così? Mandarlo in prigione prima è una cosa che si fa per il suo bene.  Va’ in cella ragazzo, lo faccio perché ti voglio bene! Poi ci sono gli ultimi due affondi di Davigo. Il primo è una vera e propria gaffe. Davigo si scaglia contro i ricorsi in Cassazione presentati solo per guadagnare tempo e far scattare la prescrizione. Davigo dice che in questi casi, quando la Cassazione stabilisce che i ricorsi erano infondati e inammissibili, dovrebbe essere automatico l’aumento della pena. Travaglio qui tace. Perché tace (e probabilmente arrossisce)? Perché è esattamente quello che fece lui, quando ricorse contro una sentenza di condanna e chiese la prescrizione, e  la Cassazione gliela negò perché giudicò strumentale il suo ricorso. Ma questo magari Davigo non lo sapeva, sennò sarebbe stato più delicato. L’ultimo affondo – ne abbiamo accennato – è sugli avvocati. Davigo propone che gli avvocati paghino insieme ai loro clienti per le impugnazioni inammissibili. Una specie di intimidazione per ridurre l’autonomia dell’avvocatura. Gli ha risposto ieri sera Gian Domenico Caiazza, il presidente delle Camere penali: «Volgarità per volgarità, parliamone quando parleremo anche della responsabilità dei magistrati, patrimoniale e disciplinare, per le indagini poi smentite da sentenze assolutorie e da appelli contro sentenze assolutorie poi confermate. Converrà con me, caro Davigo, che i danni (sociali, morali, ed erariali) che procurate con indagini e sentenze squinternate o grossolanamente persecutorie sono sideralmente imparagonabili coi danni che lei ritiene causati dalle nostre impugnazioni».

Per Travaglio meglio stare in carcere che fuori: “Vivere in cella è come stare in un monolocale”. Emilia Missione su Il Riformista il 4 Aprile 2020. Da Papa Francesco al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dal procuratore generale della Corte di Cassazione all’Organizzazione mondiale della sanità, tutti sono concordi: il sovraffollamento delle carceri è una spada di Damocle che pende sulla testa dell’intera società alle prese con la pandemia. Le condizioni di vita dei detenuti, in particolare di quelli italiani, funzionano da moltiplicatore in caso di contagio, con il rischio di innescare una vera e proprio strage. L’evidenza è sotto gli occhi di tutti ma per il direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio le cose non stanno così. “Oggi stare in carcere è molto più sicuro che stare fuori” scrive nel suo editoriale snocciolando alcuni dati. “Su 57.097 detenuti – spiega -si registravano 32 contagiati (di cui 4 ricoverati in ospedale) e 1 morto (in ospedale). Dunque i dati ufficiali (che ignorano i contagiati asintomatici, inconsapevoli e non certificati dal tampone) dicono che il Covid-19 infetta lo 0,16% dei non detenuti e lo 0,05% dei detenuti”. Alla luce di questo, quindi, per il direttore Travaglio vale la pena rischiare una possibile pandemia nella pandemia anziché ricorrere alle misure alternative alla detenzione che assicurerebbero una maggiore tutela per la salute dei detenuti e di tutti coloro che lavorano degli istituti di detenzione. Come ricordato nello stesso editoriale, infatti, tra i soggetti a rischio ci sono anche gli agenti della polizia penitenziaria: 145 di questi risultati positivi al Covid-19, su un totale di 38mila. Quello che il direttore Travaglio non dice, però, è che questo è un dato allarmante. Rapportato con il numero di contagiati totali nel nostro Paese, infatti, è chiaro che tra gli agenti la percentuale di chi ha contratto il virus è doppia rispetto a chi è fuori dagli istituti penitenziari. E già solo questo sarebbe un dato sufficiente per capire perché stare in carcere oggi non è affatto più sicuro.

Gratteri: “Carceri? Nessuna emergenza: ci sono 1200 posti liberi”. Il Dubbio l'8 aprile 2020. La versione del procuratore di Catanzaro: “Basta costruire nuove carceri o nuovi padiglioni”. “Si parla molto di Coronavirus nelle carceri. In questo momento ci sono 37 detenuti affetti da Covid 19. Si possono utilizzare le caserme militari chiuse da anni: si possono aprire e i detenuti di Covid possono andare là dentro a scontare la pena”. Il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ridimensiona l’allarme sulla diffusione del Coronavirus in carcere durante un’intervista a di Martedì in onda su La7, così come le preoccupazioni per il sovraffollamento dei penitenziari. “E’ un problema antico quanto il carcere e il sovraffollamento c’è in tutti i Paesi d’Europa. Lo si vuole risolvere in modo definitivo? Basta costruire nuove carceri o padiglioni nuovi attaccati alle carceri preesistenti. Ma in questo momento ci sono 1200 posti liberi in Italia che possono essere occupati domani mattina”. “Il sovraffollamento delle carceri è un problema antico che c’è in tutta l’Europa, se lo si vuole risolvere basta costruire nuove carceri o nuovi padiglioni, ma già ora ci sono 1.200 posti liberi che possono essere occupati. Ma servono concorsi per la polizia penitenziaria, e stiamo pagando il prezzo di questi ritardi”.

 L’ideona di Gratteri: in Italia 1.500 caserme abbandonate, riapriamole e buttiamoci i detenuti. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 17 Aprile 2020. Sa bene che c’è una polveriera pronta a esplodere e che si chiama carcere. Quel luogo chiuso che ospita 57.000 prigionieri, di cui 10.000 sono di troppo, perché per loro c’è solo posto in piedi. Quel luogo dove pure ogni giorno entrano ed escono per motivi di lavoro 30.000 persone e che l’ex ministro di giustizia Andrea Orlando ha definito “bombe epidemiologiche”. Sa tutto questo Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro. Lo sa e se ne preoccupa. Non perché sia compito suo, non essendo lui né il ministro guardasigilli e neanche il titolare della salute, cui spetta il dovere di porre rimedio a tutti i pericoli per la salute dei cittadini quando scoppia un’epidemia, soprattutto se contagiosa come il Covid-19. Non è compito suo, ma lui dà consigli e cerca soluzioni. Come prima cosa ha pensato a tranquillizzare i detenuti delle carceri milanesi: state sereni, ha loro mandato a dire, che si sta meglio a San Vittore e Opera piuttosto che in piazza Duomo. In seguito ha fatto sapere che lui risolverebbe il problema del sovraffollamento costruendo nuove carceri. Idea non del tutto originale, già suggerita, anche in sede politica, da tutti coloro che non vogliono affrontare il problema, neanche nei momenti, come quelli di questi giorni, in cui nei luoghi ristretti si rischia la vita. In sei mesi ne costruirei quattro, ha buttato lì il procuratore. Non pare aver avuto molto ascolto, anche perché il virus nel frattempo cammina e non aspetta i tempi dei procuratori e neanche dei progettisti di nuove carceri. Così, pensa e ripensa, e non arrendendosi neppure alle timidissime e un po’ imbroglionesche proposte del governo per mandare qualcuno ai domiciliari, ha estratto l’ennesimo coniglio dal cappello. Si è ricordato che esistono degli istituti di pena con sezioni vuote, e dimenticando che se sono state svuotate esistevano ragioni del tipo necessità di ristrutturare oppure mancanza di personale addetto, ha pensato di farle riaprire. Come se bastasse una bacchetta magica. Ma non è sufficiente, ancora. Ideona: ci sono in Italia circa 1.500 caserme ormai vuote da quando non esiste più il sistema di leva obbligatoria. Buttiamoli lì, i reclusi in eccesso! Quasi come se si trattasse di materiale avariato da mandare al macero. Possibile che a un magistrato esperto come il dottor Gratteri sfugga il fatto elementare che se il “distanziamento sociale” pare il più efficace strumento per affrontare, in assenza di terapie e di vaccino, il Covid-19 e impedire il contagio, questo non è applicabile in celle con dieci detenuti? Gli dice niente il fatto che in tutto il mondo, ieri persino in Iraq dopo la Turchia, siano mandate a casa, anche provvisoriamente, decine di migliaia di prigionieri? Visto che il procuratore di Catanzaro parla a reti unificate più di Mattarella e tutti, buon ultimo Famiglia Cristiana, gli chiedono interviste, non potrebbe cogliere l’occasione per sviluppare qualche ragionevole pensiero? L’articolo 123 del decreto Cura Italia, che prevede la possibilità di detenzione domiciliare per gli ultimi diciotto mesi di pena, pare costruito appositamente per non essere applicato, visto che ne ha condizionato l’esecuzione ai braccialetti elettronici. E i 4.700 ordinati fuori tempo massimo a Fastweb dal neo commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, saranno disponibili solo alla fine di maggio. E nel frattempo? Se uno di questi giorni si accendesse all’improvviso il famoso fiammifero nel pagliaio? Neanche l’accorata preghiera di papa Francesco durante la via crucis è stata ascoltata. Il più sordo, insieme al procuratore Gratteri, rimane tuttora il ministro Bonafede, che ha risposto in modo quasi clandestino alla richiesta della Commissione europea dei diritti dell’uomo che chiedeva all’Italia come intendesse provvedere a evitare il contagio nelle carceri. Non è dato sapere che cosa ha scritto. Ma occorre ricordargli sempre la raccomandazione principale dell’Organizzazione mondiale della sanità: prima di tutto garantire il “distanziamento sociale”. Come intende garantirlo il Guardasigilli nelle nostre carceri? Aspetta proprio che la polveriera esploda, o chiede consiglio al dottor Gratteri? 

La galera figlia del rancore è una cosa stupida. Gioacchino Criaco de Il Riformista il 17 Aprile 2020. Il carcere è un tempo dilatato, stecche di balena a sostenerlo e ossa di topo a contarne le articolazioni infinite. I secondi si spaccano come le molliche di formaggio nella cagliata spinte dal mestolo di un infaticabile pastore. Si espande il gorgoglio del caffè dentro la moka per una colazione che dura quanto due pranzi. Ore infinite sono gli spruzzi sotto la doccia. L’ora d’aria ha la consistenza di giorni d’autunno rinvigoriti dalla nebbia. La galera non è una quarantena, è l’esilio peggiore dal mondo, da qualunque mondo. Una mancanza assoluta di abbracci vissuta fra gli estranei, un fiato che si mischia al puzzo di altri fiati senza vento alle finestre e senza luce attraverso vetri incrostati dalla polvere del dolore. Si sta chiusi per scontare i germi di una malattia più grave di qualunque infezione, non si fugge per sfuggire al morbo ma si sta inchiodati al muro per beccarsi le frustate di tutti i mali di un’umanità che è ancora in fuga, non si sa quando si troverà, se avrà il tempo di trovarsi. In galera non si è più sicuri dal male, si è dentro il male continuamente, si è in una febbre cronica che sa solo alzarsi, che resterà nelle ossa dei carcerati per sempre. In galera la disperazione peggiore non è la colpa di avere sbagliato, ma la visione limpida di una società che non ha pietà per chi sbaglia, non di te che stai sottochiave, ma di se stessa. Una società che si lascia trascinare da maestri del rancore che vivono, o credono di farlo, senza bisogno di carezze perché ne disconoscono il sapore, e non le negano per punire ma solo perché non le hanno mai date, mai avute, e camminano fino alla fine lungo l’infinito corridoio di un carcere, consapevoli di non saper essere liberi. La galera è una quarantena arredata senza i mobili che hai scelto tu, senza le foto in cui sei uscito meglio attaccate sui muri, senza i capricci dei tuoi figli, le litigate col tuo partner. La galera non è una quarantena che finirà quando l’altoparlante dalla strada strillerà che il pericolo è passato.

Gratteri sfida Mattarella, occupa militarmente La7 e detta il suo programma politico. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Aprile 2020. Nicola Gratteri tra l’altroieri e ieri ha occupato militarmente la 7. Era un po’ ovunque. La scena madre l’ha fatta dalla Gruber, del tutto incontrastato. La Gruber gli ha molto sorriso e gli ha chiesto «cosa ne pensava». Che, a guardar bene, è una bella domanda: insidiosa… È di meno di un mese fa il discorso del Presidente Mattarella ai magistrati giovani. Diceva loro di non cercare la notorietà, di essere sobri, di non apparire in Tv, diceva che il loro compito è quello di indagare e poi giudicare, non quello di esporre teorie. È di un paio di mesi fa il discorso del Procuratore generale della Cassazione, che esprimeva, più o meno, le stesse idee poi riprese poi da Mattarella. Che alla fine sono soltanto le idee che furono scritte nella Costituzione. Mattarella e Salvi sono persone che conoscono bene la Costituzione. Forse anche Gratteri. Non so. Se la conosce, però, non gli piace. Non è che una cosa, solo perché è la legge fondamentale dello Stato, debba piacere per forza a tutti. Ci sono tantissime leggi che a me non piacciono, per esempio, e ho diritto di non farmele piacere. È difficile pensare che Gratteri non abbia compiuto consapevolmente la sua sfida a Mattarella e ai vertici della magistratura. In questo ha dimostrato coraggio. È andato in Tv – non so se su sua esplicita richiesta – per sostenere idee politiche che non hanno a che fare con il suo lavoro, cioè con quello che la Costituzione gli assegna. Ha chiesto che le carceri irrigidiscano il loro regime interno (bloccare ogni possibilità di contatto con l’esterno, ha detto, silenziando i telefoni: idea opposta persino alle blande concessioni del governo in questi giorni di Coronavirus), ha protestato contro la possibilità di scarcerazioni, chiesta dall’Oms, dal papa, dal Presidente della Repubblica, dall’Anm, dagli avvocati, dai giuristi, ma osteggiata da Travaglio. Gratteri ha sostenuto che scarcerare equivale a sottomettersi al crimine, ha spiegato che bisognerebbe costruire carceri da 5000 posti, come fanno gli americani, mentre da noi le carceri hanno al massimo 1400 posti, ha raccontato che a New York c’è un carcere da 18.000 posti e che funziona benissimo. Nessuno gli ha fatto notare che il carcere di New York ha 10 mila posti (a Gratteri è sempre piaciuto esagerare, anche coi mandati di cattura) e che siccome quel carcere ha una storia fosca di violazione di diritti e delle leggi, le autorità americane hanno deciso di smantellarlo e suddividere i prigionieri in tante prigioni più piccole, dove è meno facile la sopraffazione dei diritti. Succede che Gratteri dica delle cose imprecise e che non glielo si faccia notare. Poi ha esposto in libertà esporre le sue idee sul fatto che il Coronavirus da una mano alla mafia, e infine ha parlato di se stesso, dei rischi ai quali è esposto, della necessità di aumentare sempre i livelli di sicurezza. Ha detto che non ha paura, per la sua incolumità, della piccola ‘ndrangheta stracciona, ha paura dei poteri forti. L’affermazione è passata così, sotto silenzio. È abbastanza clamoroso che un Procuratore della Repubblica vada in Tv a dire che i poteri forti lo vogliono uccidere. Chi sono i poteri forti? La Confindustria? Il Vaticano? La Cia? I servizi segreti? O sono poteri collegati col governo, o con l’opposizione? A Gratteri tutto questo è consentito. L’unica cosa che non è consentita, quando si parla di Gratteri, è criticarlo. Il fatto che diverse sue clamorose operazioni giudiziarie si siano concluse con un numero di assoluzioni o di archiviazioni altissimo, che in alcune occasioni le condanne non abbiano superato il 4 per cento rispetto al numero degli arrestati, è argomento sempre tabù. La stampa non se ne è mai occupata. Né la Tv. I pochi giornalisti che qualche volta hanno ricordato questi dati sono stati accusati di malafede, ingratitudine, fecniusismo, e infine mafiosità probabile. Non solo ai giornalisti non è concesso di criticare Gratteri. Neppure ai suoi colleghi. Chi lo ha fatto si è preso dei lisciobussi feroci da parte del Csm e del sindacato dei Pm. È stato accusato di disfattismo. Il povero Procuratore generale di Catanzaro, che era rimasto stupito della retata decisa da Gratteri e dal suo Gip, a sua insaputa, con più di 350 arresti (una cosa mai vista, e che ha provocato nei giorni successivi un’ondata di scarcerazioni) e aveva manifestato questo suo stupore, è stato su due piedi degradato e spedito a 1000 chilometri da Catanzaro. Gratteri ha sorriso, ha avuto la controprova che lui è il più forte. E se è il più forte, nessuno può fargli notare che il magistrato ha qualche dovere, almeno, di riservatezza. Nessuno gli può dire che la politica carceraria non spetta al Procuratore di Catanzaro. E che un Procuratore in carica non è un commentatore Tv. Nella sua ultima spedizione televisiva, Gratteri ha ottenuto un’altra sicurezza. Che comunque lui è un grado di passare attraverso i giornalisti senza ricevere domande scomode. È di questi giorni la notizia clamorosa di un terreno di 8000 metri quadrati, che apparteneva a un ospedale e che è stato invece concesso a Gratteri, almeno per dieci anni. Da chi? Dai commissari che gestiscono la sanità calabrese, e in piena emergenza Coronavirus. Se fosse successa una cosa del genere a un politico, giornali e Tv sarebbero impazziti. Lo avrebbero immediatamente appeso alla forca mediatica messa su in cinque minuti. A Gratteri neanche una domanda. Neanche una, magari piccola piccola. Magari sottovoce. Eppure, la Gruber è brava, è informata. Si sarà distratta. Succede.

 Arriva il "gratterio", l’unità di misura inventata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 4 Aprile 2020. Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, dott. Nicola Gratteri, fa certamente uso di un sistema di calcolo tutto suo, grazie al quale guarda, con compassionevole sufficienza, noi poveri fessi che ancora smanettiamo con le vecchie tabelline. È un nuovo sistema di calcolo, lo ha inventato lui e perciò lo chiameremo “il gratterio”. I risultati sono straordinari, saremmo tentati di dire perfino miracolosi se non fossero il frutto, sia ben chiaro, di una logica ferrea e rigorosa. Prendete il tema del carcere e del rischio epidemico. Il dott. Gratteri ci assicura che i nostri istituti penitenziari sono una barriera di sicurezza contro il dilagare del virus, ciò che rende i detenuti, in questa tragica pandemia, delle persone a ben vedere privilegiate rispetto a noi poveri liberi. Cosa saranno mai, ha detto sbigottito a una estasiata signora Gruber, 21 contagiati su 60mila detenuti e 200 agenti penitenziari su 120mila? Ecco, vedete? Noi lì con le vetuste tabelline e gli inattendibili grafici a calcolare l’incremento percentuale dei contagiati (prima uno, poi cinque, poi, 9, poi 15, poi 21, e cosi a seguire) traendone stupidamente i peggiori auspici, e lui lì a rasserenarci: calcolata con il gratterio, la curva è destinata ben presto a decrescere, per quei 21 + 120 sicuramente non va calcolato l’indice di contagio 1 a 3 valido per tutti noi liberi, quindi che restino tutti in carcere, non si ceda alle proterve manovre epidemiche della criminalità organizzata, da tutti noi altri callidamente favoreggiate, la questione si risolve da sé. È il gratterio, bellezza. Sempre grazie a questo straordinario nuovo sistema di calcolo, il nostro Procuratore ci ha per esempio assicurato, in una intervista come gliele sa fare Il Fatto Quotidiano, incalzanti, impietose, senza sconti, che se a suo tempo gli avessero dato retta, altro che sovraffollamento! Tanti detenuti in più -ci ha detto con sguardo che immaginiamo sognante- ma tutti in celle singole con bagno, intenti a studiare e a recuperarsi alla società scontando la pena dal primo all’ultimo giorno. Come? Ma perbacco! Costruendo in sei mesi (ha detto proprio così, sei mesi) quattro carceri da cinquemila posti (si, ha detto cinquemila), che perfino con le nostre tabelline fa ventimila, e il problema dei diecimila detenuti di troppo non è risolto, è polverizzato. Noi a occhio avremmo calcolato, per una impresa simile, venti-venticinque anni per le opere in muratura, un punto di Pil per costruirle e un altro punto, un punto e mezzo l’anno per mantenerle, ma è perché non usiamo il gratterio, tutto qui, è questa la nuova verità che, grazie alle Gruber e ai Barbacetto, giornalisti di inchiesta con la “i” maiuscola, finalmente ci illumina. Non parliamo poi della smaterializzazione del processo penale. Ci siete finalmente arrivati, ci dice con paterna ed un po’ malinconica severità il dott. Gratteri! Io lo dico da anni, vedete che si può fare? Godetevelo, questo mondo dei sogni! Basta una piattaforma, un buon computer, e tutti a casa, anche in mutande volendo tanto ti si vede a mezzobusto, prego avvocato a lei la parola, non si sente abbia pazienza, ripeta, no lei ha un pessimo wi-fi, abbia pazienza ci posti la discussione su Facebook. La Corte si ritira in Camera di Consiglio, ognuno da casa propria, e si discute di questo benedetto omicidio mentre i giudici, togati e popolari, cucinano o rassettano casa, caro non ascoltare che la Camera di Consiglio è segreta; o guardano di sottecchi una serie tv, ma per carità, sto sentendo, sto sentendo. Alla fine, per WhatsApp, ti arriva la parolina, per esempio: ergastolo, e tutti a casa, ah no ci siamo già. Ora, queste meravigliose sorti e progressive del processo penale, ci assicura il dott. Gratteri, ci avrebbero fatto per di più guadagnare, come si dice a Roma, “mijoni de mijardi”, sempre secondo la famosa unità di misura, e noi invece, duri di comprendonio, abbiamo dovuto aspettare una pandemia per capirlo. Speriamo bene per il futuro, dai. Ecco, grazie alla formidabile visione prospettica del dott. Gratteri, e soprattutto al suo nuovo, prodigioso sistema di calcolo, la verità è disvelata. Chi continua a non capirlo, paventando rischi epidemici nelle carceri e necessità di rientrare cautelativamente almeno dal vergognoso sovraffollamento del quale deteniamo il primato europeo, si rende strumento e complice della criminalità organizzata, che tiene le fila di questa inutile e pretestuosa gazzarra. Perciò io non voglio rogne, e dico che mi fido delle previsioni calcolate con il gratterio. Magari, ed è il caso di dirlo, mi gratto; quando non mi vede nessuno però, non vorrei beccarmi un concorso esterno.

Nicola Gratteri, il Ministro mancato che ordina e sospetta senza prove. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 7 Aprile 2020. «Mi pare si possa dire che oggi San Vittore o il carcere di Opera a Milano sono più sicuri di Piazza Duomo». Eh no, Signor Dottore, glielo garantisce una persona che conosce bene tutti e tre i luoghi, avendoli abbondantemente frequentati e in due su tre anche soggiornato. Dopo aver girovagato in lungo e in largo in tutte le trasmissioni di La7, non poteva che approdare, ciliegina sulla torta, a una bella intervista sul Fatto Quotidiano, il dottor Gratteri Nicola da Catanzaro. E ci voleva proprio, questo chiarimento di idee. Solo che il quotidiano di Travaglio, se mi è consentito dirlo, ha sbagliato il titolo. Che avrebbe dovuto essere: “Ah, perché non son’io il ministro di Giustizia?”. Un grande rimpianto, perché il procuratore capo di Catanzaro è stato lì lì per diventarlo, è proprio arrivato fino all’uscio, ai tempi del governo Renzi. Rimanendo però sull’uscio. Invece. Invece, poiché non ha incarichi di governo, gli tocca farsi uno e trino e dividersi in tanti ruoli per spiegare il perché necessita di così tanti passaggi tv (scusatemi, Mattarella e Salvi) e persino della fatica di conquistare l’intervista su un quotidiano che abitualmente le canta chiare ai magistrati. E dove la prima domanda è di quelle che mettono veramente in imbarazzo una persona così schiva. Nuove minacce? Non vorrebbe rispondere, ma poiché si sa che ogni magistrato è anche un po’ sociologo, è costretto a una nuova analisi, che in realtà abbiamo già ascoltato a Otto e mezzo ma pazienza, sui veri aspiranti ad attentare alla sua vita. Non sono più gli uomini della ‘ndrangheta con il berretto e la lupara (meno male, lo diciamo con sincerità), ma quelli che una volta si chiamavano “colletti bianchi” e che “ora sono organici al sistema”. Amici del governo? Il concetto rimane nell’aria, perché incalza la seconda domanda. Così che il dottor Gratteri non fa neppure in tempo a spiegare che, proprio per la propria sicurezza, è stato costretto a farsi un po’ proprietario terriero, acquistando per pochi spiccioli un terreno di ottomila metri quadri adiacente al suo giardino. Per difendersi dai “colletti bianchi”. Pazienza, perché si parla ora di carceri e l’argomento è importante. E qui il nostro si fa immediatamente ministro e anche un po’ architetto e urbanista. Il problema del sovraffollamento non si affronta con una giustizia migliore (questo ci aspetteremmo di sentir dire da un magistrato), ma costruendo nuovi istituti penitenziari. Come? «Basta fare un unico progetto, replicarlo in quattro luoghi del Paese e in sei mesi sarebbe possibile porre fine all’affollamento carcerario». Caspita. Neanche Renzo Piano e gli ingegneri che lavorano al ponte di Genova. E il codice degli appalti? Passiamo ad altra domanda.

Ma il coronavirus nelle carceri? Tutte le denunce sui problemi di sicurezza che riguardano detenuti e agenti penitenziari, oltre alle 30.000 persone che ogni giorno entrano ed escono dalle carceri che l’ex ministro Orlando definisce “bombe epidemiologiche”? E i tanti ormai positivi e un detenuto morto e la tutela della salute quasi impossibile così come il distanziamento sociale in spazi così ristretti come le celle? Naturalmente ci sarebbe piaciuto che la domanda fosse stata posta così, invece che in tre righe con dieci di risposta con due numeretti (sbagliati) buttati là, silenzio sul primo detenuto morto per il virus, e la battutaccia su piazza Duomo che sarebbe meno sicura di Opera e san Vittore. Se lo lasci dire, dottor Gratteri, come sanitario lei sarebbe un po’ deboluccio. Difficilmente la gente sui balconi la chiamerebbe “eroe”. Ma non è il suo mestiere, lo sappiamo bene. Lei è un investigatore, e di quelli abili. Infatti ha ben capito che le manifestazioni di detenuti della prima settimana di marzo con i 13 morti (di cui lei per pudore non parla) erano organizzate e coordinate tra diversi istituti, tanto che sono iniziate alle 10 del mattino a Modena come a Foggia. Non importa capire il perché quelle proteste sono nate proprio in quei giorni, quando a causa del pericolo di contagio erano stati sospesi i colloqui con i parenti. Basterebbe schermare le carceri in modo che nessuno possa più usare i telefonini. Questa è per lei la soluzione. Alla faccia dei diritti dei tanti che nel carcere lavorano. Ogni tassello al proprio posto: sociologo, proprietario terriero, urbanista, sanitario, inquirente. Poteva mancare il ruolo politico? Ficcante la domanda: “Qualcuno chiede l’amnistia”. Chissà chi. Sicura la risposta: «Le parole amnistia, indulto, sanatoria, condono, dovrebbero essere bandite dal lessico di un Paese civile». Linguista. Fin qui abbiamo un po’ giocherellato, ci perdoni Sciur Dutùr, come si dice a Milano, in piazza Duomo come a San Vittore e Opera, magari anche a Bollate o a Quarto Oggiaro. Ma quando lei, che è un magistrato requirente, annuncia di aver «proposto che i Comuni che riceveranno dal governo fondi da distribuire ai cittadini diano gli elenchi dei beneficiari a carabinieri, polizia e guardia di finanza per impedire che i sindaci faccendieri o mafiosi li distribuiscano ai loro amici», allora non si scherza più. E vorremmo sapere in quale veste e a chi lei ha fatto questa proposta. Perché se lei si è vestito da uomo politico, capisce bene che, anche se l’abito non le è del tutto sconosciuto, indossarlo in via ufficiale è alquanto inopportuno. Se invece lo propone come procuratore capo di Catanzaro, beh, non può bastare che si inarchi un sopracciglio. Lei conosce sindaci “faccendieri” o peggio ancora “mafiosi” e non li ha ancora denunciati? Non ha proceduto? Ha omesso? E inoltre. Lei ritiene normale sguinzagliare le forze dell’ordine sulle tracce di cittadini che hanno solo il torto di essere poveri? Naturalmente queste domande non gliele ha fatte Gianni Barbacetto, autore di questa importante intervista sul Fatto Quotidiano.

Woodcock mette in crisi Travaglio e Co.: chiede amnistia e indulto. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Aprile 2020. Henry John Woodcock, lo sceriffo. Avete presente: il Pm napoletano sempre in prima fila, soprattutto nella caccia ai politici. Il duro, quello che ti interrogava e ti faceva paura. Il nemico giurato di Renzi. L’eroe di tante formazioni forca-friendly, il “fratello” di Ruotolo, di Marco Lillo, di Travaglio… Beh, ieri Henry John Woodcock ha preso carta e penna e ha scritto un lungo e clamoroso articolo che ha spedito proprio al Fatto di Travaglio, il quale lo ha pubblicato, sgomento, con una nota in calce: “Io non sono d’accordo”. Come facevano una volta i comunisti un po’ stalinisti, sull’Unità, o su Rinascita, quando qualche compagno dissentiva un po’. Non sono d’accordo, ha scritto – credo indignato, Travaglio – per una doppia ragione. Innanzitutto perché nella prima parte dell’articolo, Woodcock spiega come il processo telematico – a distanza – comprima tutti i diritti della difesa e dell’imputato, e sia profondamente ingiusto, e non rispetti la Costituzione. Usando argomenti che sono stati tante volte adoperati dagli avvocati penalisti, i quali, per questa ragione, sono stati indicati dall’Anm al ludibrio pubblico. E tirando così un ceffone sul viso al dilagante Procuratore Gratteri, che proprio l’altro giorno aveva tessuto le lodi del processo sul computer, senza più tutti i fastidi prodotti dalle aule dei tribunali, dalle contestazioni, eccetera eccetera.

La seconda ragione del dissenso di Travaglio è ancora più evidente. Woodcock chiede un provvedimento di amnistia e di indulto. Cioè usa quelle due orride parole che proprio il giorno prima, sempre Gratteri aveva definito “parole non degne di un paese civile” (inserendo nell’elenco delle persone incivili almeno un paio di Papi e uno o due presidenti della Repubblica recenti…).  Beh, Woodcock è favorevole all’indulto. Cioè allo sconto di un certo numero di anni di pena per i condannati (con due anni di indulto uscirebbero almeno 20 mila detenuti). Ed è anche favorevole all’amnistia (che non cancella solo la pena ma anche il reato, e in questo modo disintasa i tribunali). E perdipiù, nello stesso articolo, Woodcock sostiene che il mito della giustizia efficiente e rapida è un mito irragionevole. La giustizia deve essere giusta. Deve rispettare i diritti. “Rapida” spesso assomiglia a “sommaria”. L’ossessione per la rapidità e l’efficienza è tipica delle dittature. Alla fine però Woodcock ha uno scatto di vecchio orgoglio e in parte si riscatta agli occhi dei travagli. Dice che forse si potrebbero escludere dal provvedimento di clemenza i reati contro la pubblica amministrazione. E vabbé, non si può pretendere di avere tutto…A noi però piacerebbe un giorno riuscire a parlare con calma di questo con il Pm napoletano. Possibile che davvero lui consideri più grave truffare lo Stato che truffare una singola persona? O addirittura che consideri più grave un delitto contro la pubblica amministrazione che un delitto contro la persona? Ma perché mai? Perché così hanno stabilito i vecchi Girotondi, o Grillo e Travaglio, o l’arcigno Gratteri?

·         Gli Odiatori.

La recensione in sette punti. Travaglio e i grillini, il populismo incarnato. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 12 Ottobre 2020.

1. L’affermarsi del populismo penale nelle democrazie liberali è fenomeno indagato dalla dottrina giuridica, con risultati spesso eccellenti. Difficile farsi largo in una bibliografia ormai copiosa, che uno scaffale di libreria fatica a contenere. Ci riescono, invece, Luigi Manconi e Federica Graziani con il loro recentissimo volume Per il tuo bene ti mozzerò la testa (Einaudi), azzeccando alcune mosse provocatoriamente intelligenti e narrativamente intriganti.

2. La prima è l’assunzione del populismo penale a fenomeno sociale di cui ricercare la causa oltre gli steccati dell’analisi giuridica. E quel qualcosa che lo precede, determinandolo, è denunciato nel sottotitolo del libro: Contro il giustizialismo morale. Contro, cioè, «quell’orientamento politico che persegue un concetto assoluto e astratto di giustizia, che non ammette alternative alle proprie convinzioni morali». Una Giustizia con la “g” scolpita in maiuscolo, che non conosce la finitezza delle cose umane, dunque totalmente disincarnata, da perseguire attraverso la clava penale. Costi quel che costi. I pericoli di una visione così totalizzante si odono già nel grido «onestà-onestà-onestà», il cui suono onomatopeico e futurista («tà-tà-tà») molto ricorda la raffica di mitra che, facendo strage di legalità, prefigura strage di vite umane. Lo diceva sempre Marco Pannella, non a torto. Lo ripetono ora Manconi e Graziani ricorrendo a un profetico aforisma di Piergiorgio Bellocchio: «Beati gli affamati di giustizia perché saranno giustiziati». In uno Stato di diritto, infatti, la legalità è regola previa, è misura e limite al potere, serve a domarne la forza coercitiva. La sua ratio rifugge dalla logica del fine che giustifica i mezzi, perché i mezzi usati prefigurano sempre (e pregiudicano spesso) il fine dichiarato. E la storia del ‘900 insegna che non esiste limite al male, quando è fatto a fin di bene.

3. Figura paradigmatica di tale ideologia è il direttore del Fatto Quotidiano. Eroe popolare della caccia all’uomo (perché non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca), alla fenomenologia di Marco Travaglio sono dedicati i primi due capitoli, ma la sua idealtipica presenza esonda negli intermezzi del libro, fino all’appendice finale sul populismo in tempi di pandemia. Frontman dei «moderni lugubri inquisitori», a Travaglio gli autori applicano la nemesi del suo stesso metodo d’indagine: l’attenzione ai dettagli. Acribiosa è, infatti, la radiografia del suo approccio alla realtà, animato da smania di assoluto, dedizione fanatica alla causa, alterigia, ostentata superiorità morale, straripante vis polemica. Eguale meticolosità è dedicata ai suoi tic espressivi: le deformazioni onomastiche degli avversari (propria della pubblicistica neofascista), gabbate per satira ma che non vanno oltre lo sfottò da addio al celibato; «il tono e il colore ferrigno e cruento» del vocabolario; le metafore attinte, non a caso, da categorie e procedure simil-giudiziarie; il ghigno malcelato da sorriso, che comunica stizza e stigma. Bulimico accumulatore di fatti che, sommati, restituirebbero una sola evidente verità, in Travaglio viene così meno un qualsiasi tipo di elaborazione teorica. Se così è, più che l’ispettore di polizia Javert raccontato da Hugo ne I miserabili (cui è accostato dagli autori), al lettore ricorda Funes, il personaggio borgesiano dalla prodigiosa memoria, che distingueva per nome ogni foglia di ogni albero di ogni montagna ma non riusciva a capire il concetto di foresta. E come Funes, anche il travagliato direttore del Fatto Quotidiano finisce per essere «il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso» (Borges, Funes o della memoria).

4. Il populismo penale italiano è più vecchio del proprio corifeo. Allo stato nascente, è già nelle esperienze dell’Uomo Qualunque e di certe testate reazionarie (Il Borghese, Candido, Lo specchio), cresce nei talk-show che porgono il microfono alla “gente” (Aboccaperta, Samarcanda), si proietta nell’agone politico (La Rete orlandiana, L’Italia dei Valori dipietrista) e, infine, dilaga quale «strategia diretta a ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità». Usando come fil rouge i dialoghi tra i dodici giudici popolari del memorabile esordio cinematografico di Sidney Lumet (La parola ai giurati, 1957) e sempre ricorrendo a pertinenti esemplificazioni, il libro smonta la meccanica giustizialista oggi trionfante. Eccone gli ingranaggi: l’irrilevanza dei numeri sui tassi di criminalità, soppiantati dalla c.d. realtà percepita. La correlata diffidenza verso scienza e competenza, sospettate di combutta e cospirazionismo. Lo smisurato incremento di reati e pene. La centralità della vittima nel discorso pubblico, alibi ideale per una politica law&order. Il giustizialismo televisivo espressione di un «populismo sputtanante, che anticipa sullo schermo il dibattimento e la sentenza» a mo’ di pena preventiva. L’esposizione politico-mediatica di pubblici ministeri e il loro ruolo di influencer «determinanti nella definizione dell’agenda e nell’individuazione delle sue soluzioni penali». L’innalzamento a nemico pubblico di qualsiasi soggettività marginale (stranieri in testa), nel nome di una lotta al degrado solo cosmetica e simbolica. Qui il lettore si ferma a riflettere. Tra gli estremi della verità e della menzogna, il populismo si nutre dunque di una categoria intermedia, il verosimile, frutto di un approccio viscerale alla realtà. Per quanto accreditata – a destra e a sinistra – si tratta di un abbaglio cognitivo: se smentita da cifre ufficiali, infatti, la percezione di un qualsiasi fenomeno non è un dato naturale, ma una costruzione sociale deliberata. «Sfila dalla realtà i fatti: quel che rimane è storytelling» (direbbe, alla sua maniera, Alessandro Baricco).

5. Più di altre forze politiche, a incarnare lo spirito del tempo è il M5S, di cui il libro offre letture originali. Privi di tradizione e di visione (se non quella onirica e distopica di Casaleggio senior), di precursori (Rousseau, per loro, è solo un marchio) e di modelli, i grillini vivono in un eterno presente («Immediatismo», è la categoria coniata da Manconi e Graziani). In questo vuoto pneumatico di cultura politica, s’innesta un agire che è più un agìto, mosso da pulsioni quali l’invidia sociale, il rancore da frustrazione, la volontà di rivalsa. La loro, infatti, è l’«ideologia della tabula rasa» che vuole azzerare la democrazia liberale con una rivoluzione livellatrice e tecnocratica. Livellatrice nel fine, perché persegue non un’emancipazione collettiva, ma un egualitarismo pauperistico al ribasso. Tecnocratica nei mezzi, perché sostituisce la piattaforma digitale all’agorà parlamentare e delle manifestazioni politiche. Una post-modernità, quella del M5S, che tuttavia cede al più arcaico e reazionario criterio di legittimazione interna: «il fattore ereditario, il principio dinastico e il vincolo familiare». Accade così che, nella loro catena di comando, al “padre” succeda il “figlio”, legittimo (Davide Casaleggio) o putativo (Luigi Di Maio, già capo politico per investitura del fondatore Beppe Grillo). Un tipico esempio di italico familismo amorale. Totale è la sintonia del M5S con la «perversione giustizialista del populismo»: rimozione della rule of law, tifo da stadio per l’azione penale, richiesta di una giustizia rapida, severa, sommaria a sedare l’allarme sociale. Sta soprattutto qui la ragione del loro successo nel mercato della politica: aver risposto a una legittima domanda di giustizia sociale con un’offerta di giustizia penale. Confondendo così l’una nell’altra, come anche «la politica con la morale, la morale con la giustizia, la giustizia con la politica».

6. La pars construens del libro è laddove al populismo penale si contrappone l’alternativa di un garantismo a tutto tondo, quale «sistema di controlli imposti a tutti i poteri, non solo a quello giudiziario, e a garanzia dell’insieme dei diritti fondamentali, non solo di quelli minacciati dall’intervento penale». Da lettore, ho apprezzato la scelta di sottoporre teoria e prassi del garantismo a impegnativi crash-test. È proprio là dove la fune si tende allo spasimo – nella difesa dell’indifendibile – che se ne può saggiare la resistenza: dal me-too in salsa italiana (il caso Brizzi, il bunga-bunga) alle misure di prevenzione (il daspo, le confische antimafia); dalla prostituzione femminile all’antiproibizionismo; dai reati di odio al negazionismo; dal 41-bis all’ergastolo ostativo; dalle scelte di fine vita alle mutilazioni genitali femminili; dal finalismo rieducativo della pena agli istituti di clemenza; dalla decadenza parlamentare di Berlusconi all’autorizzazione a procedere contro Salvini.

7. È vero, da noi il garantismo langue, nonostante un pugno di irriducibili. Ed hanno ragione Manconi e Graziani – nel capitolo conclusivo – a denunciare la scarsa mobilitazione a tutela delle garanzie individuali, di cui si è perso il ricordo. Eppure, qualcosa si è mosso in questi anni, e d’importante. L’abolizione costituzionale della pena di morte. L’adesione alla Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il messaggio alle camere del Presidente Napolitano. L’introduzione, comunque, del reato di tortura. L’istituzione del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti. Le sentenze delle Corti, costituzionale ed europea, in tema di sovraffollamento carcerario e di ergastolo ostativo.

È stato l’uso del diritto (lex) in funzione dei diritti (iura) a renderle possibili: la scoperta, cioè, che nello Stato costituzionale esistono strumenti alternativi alla rappresentanza politica su cui fare leva, per iscrivere temi e ottenere risultati altrimenti irraggiungibili: il ricorso a Strasburgo, la quaestio alla Consulta, le organizzazioni sovranazionali a tutela dei diritti, l’interlocuzione con il Quirinale, le inchieste parlamentari, la disobbedienza civile. In attesa di tempi migliori, passa da qui la risposta terapeutica all’infelicità del garantismo italiano.

Chi è Marco Travaglio: biografia, vita privata e carriera. Scritto da Arianna Giago su donnemagazine.it. Dagli studi all'incontro con Indro Montanelli, passando per lo scherzo giocato dalle Iene. Tutto su Marco Travaglio e il suo giornalismo che divide. Marco Travaglio è una delle voci più importanti e divisive del panorama del giornalismo italiano. La sua ricca carriera nel mondo del giornalismo è segnata dalla passione per questo mestiere, anche grazie a nomi illustri che lo hanno guidato già dai primi passi in questo mondo fatto di carta stampata.

Chi è Marco Travaglio: studi e carriera. Torino, classe 1964. Marco Travaglio prende il diploma del classico al liceo salesiano Valsalice, sotto la Mole Antonelliana e successivamente si laurea in Lettere Moderne e in Storia contemporanea all’università degli studi, sempre a Torino. La sua carriera nel mondo del giornalismo inizia lavorando come free lance in piccole testate di stampo cattolico. Nel 1987 Travaglio conosce Indro Montanelli allora stimato fondatore e direttore de Il Giornale, che lo chiamerà per collaborare con lui. Montanelli non nasconderà mai l’evidente la stima nei suoi confronti e nel suo modo di lavorare. Nel 1994 però lo stesso Montanelli lascia il quotidiano da lui stesso fondato vent’anni prima e Travaglio, insieme ad altri colleghi, lo segue. Insieme danno vita, seppur breve, a La Voce, di cui Marco Travaglio seguirà la cronaca giudiziaria. Marco Travaglio diventa direttore de Il Fatto Quotidiano nel 2015, ne cura anche gli editoriali che spesso creano dibattito nei salotti politici e non solo, commentando ed esprimendo il suo parere, i suoi giudizi, non solo sui politici, ma anche su alcune riforme. “Fare giornalismo” per Travaglio significa scavare a fondo e non nascondere la propria opinione. Non c’è da sorprendersi infatti, se lui stesso ha definito la riforma Mastella “legge bavaglio”, perché limitava ai giornalisti, l’utilizzo delle intercettazioni. Oltre alla carriera su carta stampata, infatti Travaglio è molto famoso in televisione dove compare in trasmissioni perlopiù di stampo politico. Lo vediamo infatti spesso su La7 e in Rai, ospite da Michele Santoro.

Marco Travaglio: vita privata. Marco Travaglio è sposato con Isabella da vent’anni. Hanno due figli, Elisa e Alessandro. Il secondo è conosciuto con il nome d’arte Trava, ha 23 anni ed è un cantante rap. Elisa invece, nel giugno del 2017 si è vista suo malgrado protagonista della terribile notte vissuta da Torino, quando piazza San Carlo si trasformò in una trappola per le centinaia e centinaia di persone riunite per assistere alla finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid. Elisa Travaglio, come tanti altri fortunati, ne esce solo con qualche contusione, un terribile spavento e sicuramente un brutto ricordo. Nonostante ammetta di non essere stato sempre presente come avrebbe voluto nella vita dei propri figli, a causa del lavoro al quale si dedicava con passione, Travaglio dice di avere un buon rapporto con loro. Un rapporto ben saldo, con la giusta confidenza che serve per giocargli anche qualche scherzo, come quello famoso organizzato dalle Iene nel 2017, proprio con la complicità del figlio. Il giornalista infatti non ha mai nascosto la sua avversione verso i reality show, Grande Fratello su tutti. Conscio del fatto, Alessandro gli fece credere di aver partecipato ai provini e di essere stato preso per partecipare come concorrente nella casa più spiata d’Italia.

Condannato “Il Fatto Quotidiano” ed i suoi giornalisti: diffamarono Niki Vendola. Il Corriere del Giorno il 28 Maggio 2020. Il giudice ha accertato il travalicamento del diritto di cronaca e la conseguente lesione della reputazione personale e professionale di Nichi Vendola, e condannato l’ Editoriale II Fatto s.p.a., Peter Gomez Homen, Lorenzo Galeazzi, Francesco Casula e Samuele Orini, in solido tra loro, al pagamento in favore di Vendola della somma di €. 40.000,00. Era il 15 novembre 2013 quando il Fatto Quotidiano pubblicò nella sua edizione online diretta da Peter Gomez l’articolo dal titolo “Ilva, la telefonata choc di Vendola: risate al telefono per le domande sui tumori” a firma dei giornalisti Francesco Casula e Lorenzo Galeazzi, con un video montato da Samuele Orini, che il giudice dott. Giuseppe Marseglia della 1a sezione civile del Tribunale di Bari in sezione monocratica ha ritenuto essere diffamatorio. Il giudice con la sua sentenza ha accertato il travalicamento del diritto di cronaca e la conseguente lesione della reputazione personale e professionale di Nicola (per tutti Nichi ) Vendola, e condannato l’ Editoriale II Fatto s.p.a., Peter Gomez Homen, Lorenzo Galeazzi, Francesco Casula e Samuele Orini, nelle rispettive qualità ed in solido tra loro, al pagamento in favore di Vendola della somma di €. 40.000,00, oltre interessi legali dal deposito della sentenza emessa lo scorso fino all’effettivo soddisfo a titolo di risarcimento del danno. Ma non solo. Infatti il giudice barese Marseglia ha rigettato la domanda riconvenzionale di parte convenuta, e disposto anche la rimozione dell’articolo in questione dal sito del Fatto Quotidiano, disponendo altresì la pubblicazione a spese dei convenuti in solido, del testo per estratto della sentenza emessa,  sul sito web dell’edizione online del giornale “Il Fatto Quotidiano”, per un periodo di tempo non inferiore a 6 mesi.

Questo è quanto pubblica ancora oggi il Fatto Quotidiano. Incredibilmente però il Fatto Quotidiano ha pubblicato la sentenza ma non ha ancora rimosso dal web il video-servizio giornalistico diffamatorio. E questa inosservanza adesso potrebbe costare ulteriormente coma da sentenza la multa di 500 euro al giorno dal 24 marzo ad oggi , e cioè di altri circa 30 mila euro !

L'odiatore Di Maio. Mattarella bacchetta il governo e parla di Paese reale, nel discorso del grillino solo vendetta e rabbia sociale: dal caso Autostrade fino alla gogna della prescrizione. Alessandro Sallusti, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. La speranza di un cambio di clima nel Paese è durata lo spazio di poche ore, quelle che sono intercorse tra il discorso della sera di Capodanno del presidente Mattarella e il primo videopost dell'anno di Di Maio. Il capo dello Stato ha fatto appello alla concordia e a liberare le energie per valorizzare la parte propulsiva della nazione, Di Maio ha promesso più manette per tutti, processi infiniti per chi incappa nella rete della giustizia, vendetta per gli imprenditori che sbagliano. Un discorso, il suo, carico di odio e rancore, velenoso contro i Benetton - una famiglia di grandi imprenditori incappata nel brutto incidente del Morandi per il quale ovviamente dovranno pagare, dopo regolare processo - a cui ha giurato «di azzerare i profitti», manco parlasse di una famiglia a capo della mafia. Di Maio ha dissipato per incapacità e inconsistenza in pochi mesi l'enorme patrimonio che le urne del 2018 gli avevano affidato. Come tutte le bestie ferite si sente in trappola e si aggira nella foresta della politica con la bava alla bocca, pronto ad azzannare chiunque. Si dice che Salvini sia un pericolo perché incita all'odio contro gli stranieri. A mio avviso non è così, ma che dire di chi l'odio quotidiano lo riversa sugli italiani che lavorano o fanno impresa? Su questo tipo di odio le sardine non hanno nulla da eccepire? Mattarella l'altra sera ha parlato, credo a ragione, del rispetto che gli italiani hanno nel mondo. Di Maio fa di tutto per distruggerlo questo rispetto. Secondo lui i nostri imprenditori sono una massa di evasori e mascalzoni (forse parla per esperienze personali) da mettere alla gogna e punire con tutti i mezzi possibili, affidando il Paese a una magistratura che non si è certo dimostrata esente dei mali che vuole estirpare. E allora torniamo a Mattarella e al suo augurio inascoltato. La concordia non deve essere ricercata solo tra le forze politiche, ma tra la politica tutta e i cittadini. A me che Zingaretti e Di Maio vadano d'amore e d'accordo importa un bel nulla, soprattutto se questo avviene sulla pelle degli italiani, vessati da tasse esose, giustizialismo dilagante e utopie suicide. Perché peggio di essere incavolati c'è soltanto l'essere rassegnati.

Dopo Travaglio gli insulti di Saviano: “Siete puttane”. Piero Sansonetti de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Nel giro di 48 ore mi sono sentito dare del verme, del miserabile e della puttana da due dei principali maestri di pensiero del fronte giustizialista. Il linguaggio della polemica politica, evidentemente, si sta affinando. Succedeva così anche negli anni Venti. Mi riferisco a due persone molto diverse tra loro, e anche a due argomenti di polemica diversi. Sto parlando di Marco Travaglio e di Roberto Saviano. Il primo è un giustizialista vero, fatto e finito, nato giustizialista nei salotti reazionari del nord Italia, nei primi anni Novanta, quando era ragazzo, e poi assurto a leader forte, forse unico, del fronte giustizialista reazionario. Il secondo è più recente, viene invece da sinistra e si è formato, credo, nel giustizialismo di fine secolo, quello vicino al Pci post-muro e nel successivo giustizialismo girotondino, che era molto collegato al precedente giustizialismo post-comunista. Il primo – Travaglio – è un giustizialista tutto d’un pezzo, che rinuncia ai suoi princìpi solo quando parla di se stesso, o di Gratteri o di pochi altri. Ed è anche un politico di mestiere. Ama le manette, sì, ovvio, e il carcere, e le condanne, però gli piace parecchio anche il potere, e cerca con astuzia le vie giuste.  Il secondo – Saviano – è un giustizialista da barricata, molto incostante, mantiene nel suo pantheon intellettuale elementi di garantismo di sinistra – difende i diritti dei deboli seppure in modo molto scombiccherato – e assembla questi principi con il suo insopprimibile desiderio di punizione e di vendetta, almeno per i più ricchi o almeno per i politici e specialmente i politici di destra. Naturalmente questo miscuglio non ben ragionato di idee lo porta a notevoli sbandamenti e a incoerenze quasi fanciullesche. Perdonabili? Beh, tutto è perdonabile…

Su Travaglio ho poco da dirvi. Gli sono saltati i nervi quando il Riformista ha informato i suoi lettori che era in corso una manovra per portare alla Presidenza dell’Eni una esponente del Fatto Quotidiano. Sto parlando di Lucia Calvosa. Ha perso i nervi e ha iniziato a insultare, e gli è capitato nel suo editoriale di sabato di definirmi un “verme miserabile”. Dice anche che il Riformista (che lui di solito chiama “il Riformatorio”) è un “giornalaccio”. Cito alla lettera, eh. Perché? Perché sulle manovre sottobanco, le lottizzazioni che definiranno il nuovo quadro del potere politico ed economico in Italia – sostiene Travaglio – è bene che i giornalisti tacciano. Non devono impicciarsi, perché non capiscono. E perché oltretutto – dice – la sua battaglia per la conquista dell’Eni non è una operazione di potere ma una battaglia di principio. Un po’, se ho capito bene, come quella che fece Berlusconi per la conquista della Sme che voleva strappare a De Benedetti… Che volete che vi dica? Una volta mi ricordo che Marco diceva che il giornalismo è il cane da guardia contro il potere. Adesso questo cane da guardia, evidentemente, ha sei zampe…

E Saviano? Saviano è diverso. Il suo è solamente un ragionamento schizofrenico. Lui risponde graziosamente alla lettera di una infermiera che gli chiede perché, persino in questi giorni drammatici, ci sia gente come lui che pensa solo a chi e quanto potrà punire, e non pensa a quali rimedi vanno trovati per ridurre il dramma. Saviano nelle prime righe sembra dirgli: quanto hai ragione, amica mia! E poi giù 300 righe rabbiose di grida: prendeteli, prendeteli, scannateli! In queste righe pasticcia idee e affermazioni che non saprei come definire. Dice, appunto, che i garantisti negli ultimi 25 anni sono stati solo delle puttane (e qui, riconoscendomi garantista da 25 anni mi prendo questo nuovo complimento), poi prova a spiegarci che Bordin, il mitico conduttore di “Stampa e regime” su Radio radicale, era un suo seguace, e anche Sciascia lo era. E che loro non erano garantisti ma si battevano solo per la giustizia sociale.

Vabbé, uno non è che può contestare le affermazioni folli di Saviano, perché sono talmente prive di logica e di conoscenza politica che sarebbe come se qualcuno decidesse di mettersi a discutere con me di fisica nucleare. Però l’articolo di Saviano stava lì, vistosissimo, sulla prima pagina di Repubblica. Saviano rappresenta quel modo di pensare di un pezzo importante dell’Italia democratica. Sono quelli che considerano il garantismo una cosa da puttane, lo identificano col berlusconismo, ne fanno il principale nemico. E in un calderone buttano Bordin, Sciascia, persino Beccaria, e li confondono con Gramsci, senza sapere peraltro un’acca di Gramsci.

Ecco, bisognerà spiegar loro che la lotta per l’equità sociale è una battaglia nobilissima, tipica della sinistra, ma con il garantismo c’entra poco. Il garantismo è una posizione di difesa dello Stato di diritto che prescinde dalle classi. Se non prescinde dalle classi non è garantismo. Il garantismo sta con Dell’Utri condannato senza reato, con Formigoni, sta con Salvini processato per motivi politici, sta con Casarini, insultato da Salvini, sta con la signora Nicoletta Dosio, la no-Tav messa in prigione a Torino, sta a bordo della navi delle Ong e nei campi profughi, sta dentro tutte le celle di tutte le prigioni, comprese quelle del 41 bis. E senza il garantismo, né destra né sinistra riusciranno mai a entrare nella modernità. Senza garantismo vince Travaglio. Capito bene? E lui vi guarderà con l’aria da Torquemada e vi dirà: vermi, miserabili vermi!

Terreno dell’ospedale a Gratteri, Speranza e Bonafede sapevano? Vittorio Sgarbi de Il Riformista il 3 Aprile 2020. Premesso che, con delibera numero 177 del 24 marzo 2020 , la Commissione straordinaria della Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria ha concesso in comodato d’uso circa 8000 metri quadri dell’area del Presidio ospedaliero del comune di Gerace, al dottor Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro; premesso che, contro ogni ragionevolezza, è stato stipulato un contratto di affitto di 10 anni con un canone annuo di 100€ pari a 8,9€ al mese;

preso atto che la motivazione appare ultronea, considerando che il dottor Gratteri è munito di scorta di Stato, in quanto è finalizzata a implementare le condizioni di sicurezza dell’abitazione privata del dottor Gratteri;

considerato che l’area è attigua a un presidio ospedaliero realizzato nel 1985 per attività di lungodegenze e riabilitazione, con una capacità massima di 114 posti letto oggi preziosi, su quattro piani pronti all’utilizzo con apparecchiature mediche logorate dal tempo e dall’incuria;

risultando inspiegabile il diniego al comune di Gerace che aveva manifestato la prevalente necessità di restituire l’edificio alla pubblica utilità in prospettiva di emergenze presenti e future si chiede se le garanzie per un singolo, pretese ,a quanto asserisce il dottor Gratteri, dal Prefetto, dal Questore di Reggio Calabria, e dai comandanti dei Carabinieri e della Guardia di finanza , debbano prevalere sull’interesse di molti, attraverso un contratto privatistico, come se fosse richiesto al medesimo procuratore di pagare la scorta di Stato. Si chiede inoltre se i soggetti promotori del contratto abbiamo valutato l’opportunità di concerto con i Ministri interrogati.

Ospedale cede a Gratteri 8.000 mq (a 8 euro al mese). Redazione de Il Riformista il 30 Marzo 2020. La sanità in Calabria è commissariata, e la Commissione che la gestisce si è riunita in piena emergenza Coronavirus lo scorso 24 marzo. L’ordine del giorno, però, non è stato il temutissimo Covid-19, bensì cosa fare di un terreno di 8mila metri quadrati che appartiene all’ospedale di Gerace. I commissari dovevano decidere, in questa seduta chissà perché non differibile, a chi assegnare questo terreno visto che l’ospedale non funziona, e vari enti hanno delle pretese sul terreno stesso. La commissione ha però deciso di affidarli non ad uno degli enti che si erano candidati ma ad un privato cittadino che ha una abitazione che confina con questi 8mila metri quadrati. Una concessione di 10 anni a 100 euro all’anno, circa 8 al mese. Il privato cittadino che potrà beneficiare di questa concessione è Nicola Gratteri, il Procuratore di Catanzaro. Una sola domanda al Dottor Gratteri: se questi 8mila metri quadri venivano assegnati, in questo momento di emergenza sanitaria, a un consigliere regionale, o a un qualunque esponente politico, cosa sarebbe successo?

Gratteri prova a mettere il bavaglio al Riformista: “Attenti vi querelo”. Angela Di Primio de Il Riformista il 31 Marzo 2020. Prima di scrivere l’articolo abbiamo contattato il dottor Gratteri . Riportiamo testualmente la trascrizione della telefonata: “Le posso dire questo. Uno: io non ho firmato nulla. Due: so che si è riunito il Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza di Reggio Calabria dove hanno stabilito che per motivi di sicurezza….io abito vicino all’ospedale, c’è questo terreno incolto dove ci sono stati già due incendi che mi hanno danneggiato gli impianti di irrigazione delle piante secolari… il Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza ha disposto che per motivi di sicurezza…Lei oltre a leggere le notizie false che le danno i referenti calabresi perché io non ho ancora denunciato mai nessuno in vita mia però questa volta sono pronto a denunciare il mondo. In questo caso lei sa che ci sono state delle intercettazioni pesantissime su preparativi di come ammazzarmi e allora il Comitato per l’ordine e la sicurezza sia quello di Reggio Calabria sia quello di Catanzaro si sono riuniti e hanno deciso che quel terreno deve essere lasciato con l’accesso libero, cioè tolta la rete di recinzione in modo tale che la polizia – dove c’è il posto fisso a casa mia – la polizia possa arrivare fino alla Timpa per controllare il terreno e mettere le videotelecamere fino alla Timpa per evitare che qualche male intenzionato salendo da sotto possa arrivare davanti casa mia e uccidermi. Perché davanti casa mia non c’è nulla, tranne questo terreno, non ci sono altre costruzioni. Questo è il motivo, Nessun vantaggio per Gratteri, nessun beneficio per Gratteri”. A questo punto gli facciamo notare che sul sito dell’Asp di Reggio Calabria, nell’albo pretorio, è presente solo il numero della delibera accompagnato dalla dicitura “L’atto non è visibile per motivi di riservatezza“. Risponde: “E qui hanno sbagliato o non la mettevano sul sito o se la mettevano dovevano spiegare tutta la messa. Non è che si dice solo questo. Bisogna dire anche quali sono i motivi. Però, le ripeto, io proprio per evitare speculazioni giornalistiche, mi aspettavo dal Riformista, me lo aspetto dal Dubbio – ex Sansonetti – e da altri giornali calabresi notoriamente “a me vicini”, notoriamente a “me amici” , mi aspettavo questo articolo. Io intanto la ringrazio per la telefonata perché molte volte sul suo giornale, sul Riformista, sono state scritte cose false, inesistenti , ma io siccome non ho mai denunciato nessuno non vorrei iniziare con il Riformista. Però siccome adesso mi sono seccato, perché pare che io sia il criminale d’Italia e tutti gli altri siete persone perbene. Adesso mi sono seccato. Comincerò a denunciare ogni volta che leggo cose false”. Gli facciamo presente che la sua dichiarazione era importante per noi, per verificare la notizia. E Gratteri conclude: “Perché non chiama il prefetto di Reggio Calabria? Questa idea è scaturita dal Prefetto di Reggio Calabria, carabinieri, guardia di finanza, procuratore generale di Reggio Calabria”. Abbiamo provato a contattarli, inviando anche delle pec, ma al momento nessuna risposta.

 Caro Gratteri, criticare un Pm è legittimo. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 2 Aprile 2020. Di che cosa si duole il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri? Del fatto che il Riformista ha scritto cose false o del fatto che su questo giornale si manifestano idee a lui sgradite? Se è vero che qui sono state pubblicate notizie inveritiere, sono certo che il Riformista riconoscerà l’errore e chiederà scusa: ma l’impressione è che il motivo del dispetto del dottor Gratteri risieda altrove. E cioè, appunto, non nella presunta falsità delle notizie pubblicate dai giornali che il magistrato, con dolente ironia, definisce “a me vicini”: ma nel fatto che alcuni (tra i quali, bisogna confessarlo, certi commentatori di questo quotidiano), pensano che il dottor Gratteri abbia un concetto molto discutibile della funzione giudiziaria e dunque della propria. E hanno la speranza – comprensibilmente antipatica – di poter esercitare senza troppi condizionamenti il diritto di esprimere quel pensiero. Che si tratti di questo, e cioè dell’irritazione davanti all’idea che non gli piace piuttosto che del disappunto per la notizia falsa, mi pare evidente nel momento in cui il dottor Gratteri si rammarica di essere trattato come un mascalzone (“pare che io sia il criminale d’Italia e tutti gli altri siete persone perbene”, avrebbe detto al Riformista in una conversazione telefonica dell’altro giorno). Ma pensare che certi suoi di modi di intendere e di esercitare la funzione giudiziaria siano modi sbagliati, e capaci di arrecare grave danno al Paese, non significa dare al dottor Gratteri di criminale. C’è infatti chi pensa che l’indagine giudiziaria non debba essere – come invece proclama il dottor Gratteri durante una conferenza stampa che pubblicizza l’arresto di trecentotrenta cittadini – lo strumento attuativo di una “rivoluzione”: ha il diritto di pensarlo e di scriverlo, o no? E se poi una buona parte di quei trecentotrenta sono rimessi in libertà possiamo pensare che forse non bisognava arrestarli o invece dobbiamo credere che si sia trattato di un infame complotto controrivoluzionario? Ancora, c’è chi ritiene che compito del magistrato non sia di scrutinare la specchiatezza delle liste elettorali o di smontare una regione d’Italia come fosse un giocattolo: può ancora manifestare liberamente questo suo convincimento o deve essere infilato nel girone degli ‘ndranghetisti, secondo la procedura dei giornali di cui il dottor Gratteri non si lamenta? Sono i giornali, i cui articoli il dottor Gratteri riportava nel suo profilo Twitter, che elogiano l’opera di “pulizia” fatta dalla magistratura in quella regione perché “la politica in Calabria è una montagna di merda”: possiamo apprezzare (e fare) un giornalismo diverso o è vietato? È fin superfluo aggiungere che tutto questo non ha nulla a che vedere con le dovute misure di protezione che il dottor Gratteri ha il diritto di pretendere, e che lo Stato ha il dovere di assicurargli. Il dottor Gratteri, come ogni magistrato esposto al pericolo, deve essere protetto in ogni modo possibile (anche, se serve, con l’attribuzione a cento euro all’anno di quattromila metri di parco che salvaguardino la sua vita e l’impianto di irrigazione dei suoi alberi secolari). Ma non perché è un buon magistrato. Non perché svolge in modo impeccabile il suo lavoro. Non perché ha un’idea indiscutibile dell’amministrazione della giustizia. Lo Stato deve proteggerlo, e noi tutti dobbiamo pretendere che lo faccia tanto più attentamente, perché c’è chi vuole fargli del male. Ma in quel dispositivo di sicurezza non può trovare protezione la pretesa diversa e inaccettabile di non ricevere critiche: o, peggio, l’accusa, rivolta a chi le muove, di fare il gioco dei criminali.

A Gratteri 8 mila metri quadrati "a sua insaputa": “Non ho firmato nulla”. Angela Di Primio de Il Riformista il 31 Marzo 2020. Con la delibera n. 177 del 24 marzo 2020, la Commissione Straordinaria dell’Azienda Sanitaria provinciale di Reggio Calabria ha concesso in comodato d’uso circa 8000 mq dell’area del Presidio Ospedaliero del Comune di Gerace al dottor Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro. Il contratto di affitto è di 10 anni con un canone annuo di 100 euro, calcolato alla luce della tipologia e nonché del valore del terreno. La motivazione: implementare le condizioni di sicurezza della proprietà limitrofa, dove c’è l’abitazione del dottor Gratteri. Il testo della delibera non è consultabile sul sito dell’Albo Pretorio dell’Asp di Reggio Calabria: ci sono solo il numero e la data del documento in quanto “L’atto non è visibile per motivi di riservatezza”. Abbiamo potuto leggerne i contenuti grazie ad una nostra fonte anonima. Ma entriamo nei dettagli per capire come si è giunti a questa decisione: “il presidio ospedaliero di Gerace – si legge nella premessa della delibera – è stato realizzato nel 1985 e progettato per attività di lungodegenza e riabilitazione, con una capacità massima di 114 posti letto. Il Presidio, dalla sua realizzazione ad oggi non è mai stato utilizzato”. Si tratta infatti di una struttura costata quasi dieci miliardi delle vecchie lire, consistente in quattro piani pronti all’utilizzo e mai inaugurati, con tanto di apparecchiature mediche distrutte dal tempo e dall’incuria. “Attualmente – prosegue la delibera – l’immobile è inserito nel Patrimonio indisponibile dell’ASP RC”. Il Comune di Gerace ne aveva richiesto la restituzione che però non è mai avvenuta. A tal fine, la Commissione straordinaria il 12 dicembre 2019 chiedeva al Commissario ad Acta per il Piano di Rientro ed al Dipartimento tutela della Salute il parere della Regione Calabria proprio in virtù della richiesta da parte del Comune di Gerace e contestualmente faceva domanda di un incontro tecnico per “adottare una decisione sull’annosa questione, rappresentando l’urgenza in considerazione del prospettato pericolo per la pubblica incolumità ed il degrado dell’immobile”. Tuttavia “tale richiesta non ha avuto nessun riscontro”. Pertanto, si legge nella conclusione della delibera, “considerato che il dott. Gratteri, Procuratore della DDA di Catanzaro, ha prodotto specifica istanza al fine di avere in fitto una porzione dell’area di pertinenza di maggiore consistenza del P.O. di Gerace, per implementare le condizioni di sicurezza della proprietà limitrofa”, la Commissione ha deliberato in suo favore. Il Procuratore Gratteri ci ha detto invece che la richiesta non è partita da lui ma dal Comitato Provinciale per l’ordine e la sicurezza di Reggio Calabria considerate le recenti minacce alla sua vita. Non volendo entrare nel merito delle esigenze di sicurezza, lascia comunque perplessi che una area nella quale è presente una struttura ospedaliera per la quale i cittadini hanno speso milioni di euro, nata per rappresentare un polo di eccellenza sanitaria nella zona, non solo non sia stata mai utilizzata ma che ora, a causa del disinteresse della politica, non venga riconvertita per un uso destinato alla società civile ma venga in parte praticamente data in comodato d’uso per dieci anni. In questo momento nel nostro Paese la macchina organizzativa sta facendo grandi sforzi per riadattare strutture e costruirne nuove per ospitare pazienti affetti da Covid-19 e invece a Gerace un vecchio ospedale resta abbandonato come una Cattedrale nel deserto.

La replica di Gratteri: “Ho avuto quel terreno per difendermi dagli attentatori”. Redazione de Il Riformista l'1 Aprile 2020. Al direttore Sansonetti, La prego di pubblicare questo mio comunicato riservandogli lo stesso spazio assicurato alla notizia pubblicata sul quotidiano cartaceo e on line in data odierna. Con riferimento all’editoriale e all’articolo de il Riformista del 31 marzo 2020, il cui titolo è “L’ospedale regala 8000 mq a Gratteri. Tutto ok?”, corre l’obbligo di precisare quanto segue.  L’editoriale, in prima pagina, in maniera fuorviante, evidenzia come, in piena emergenza coronavirus, la competente ASP, anziché assumere iniziative per migliorare la tutela della salute dei cittadini, avrebbe concesso allo scrivente un terreno adiacente alla mia proprietà. Detto terreno, pertinenziale all’edificando ospedale di Gerace, evidentemente, a dire del direttore responsabile della testata, avrebbe potuto essere destinato a finalità pubbliche. In realtà, a dire del direttore responsabile, la concessione del terreno allo scrivente contribuirebbe a far divenire gli spazi a mia disposizione il giardino di mia proprietà e il terreno datomi in comodato – “un gran parco”. Si aggiunge poi che il comune di Gerace avrebbe chiesto la concessione del terreno ma che detta richiesta sarebbe stata respinta. Nell’articolo, a pag. 9, si menziona una delibera della ASP di Reggio Calabria che avrebbe dato in comodato oneroso (100 euro annui) il terreno allo scrivente, per implementare la sicurezza; che detto terreno insiste, secondo quanto evincibile dalla delibera di cui l’articolista è venuto in possesso da fonte anonima, in un’area ove è stato realizzato nel 1985 un presidio ospedaliero completato, ma mai utilizzato; che il comune di Gerace aveva chiesto la restituzione dell’area con esito infruttuoso; che la ASP stava assumendo iniziative per adottare una decisione sulla proprietà in questione, anche per la tutela della pubblica incolumità e il degrado dell’immobile; che la ASP, dopo istanza dello scrivente, avrebbe ottenuto la concessione del terreno attiguo alla struttura ospedaliera per ragioni di sicurezza; che lo scrivente, interpellato, avrebbe evidenziato che l’iniziativa sarebbe partita a seguito di una sollecitazione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica; che, ad onta di questa situazione, lascia perplessi che una struttura ospedaliera nata per rappresentare un polo di eccellenza sanitaria, non sia stata mai utilizzata, né venga riconvertita per un uso pubblico, ma venga assegnata in parte a un privato per 10 anni (e ciò in un momento in cui vi è una esigenza sanitaria che sta richiedendo ogni sforzo per riconvertire strutture pubbliche da adibire a plessi ospedalieri per l’emergenza coronavirus). La sintesi dell’articolo e dell’editoriale lascia trasparire come in un momento di emergenza sanitaria, si sia preferito favorire lo scrivente, in luogo di salvaguardare la salute dei cittadini, peraltro facendo apparire come pretestuosa la ragione sottesa alla assegnazione del terreno (si veda il titolo dell’articolo a pag. 9, dove si specificano le ragioni di sicurezza seguite dai puntini di sospensione). In realtà la scansione dei fatti è la seguente.

a) A seguito di avvisaglie di un possibile attentato alla mia persona, avvisaglie che si sono accresciute dopo la esecuzione della operazione Rinascita Scott il 18 dicembre u.s., il Comitato provinciale dell’ordine e la sicurezza pubblica di Catanzaro e di Reggio Calabria si è, più volte, riunito e, in quella sede, si è deciso di elevare il livello di sicurezza della mia persona dal 2° al 1°; (…)

b) In questo contesto, il Questore di Reggio Calabria e il Dirigente del Commissariato di PS di Siderno hanno effettuato una serie di sopralluoghi nella mia proprietà; (…)

c) La mia proprietà confina, sul retro, con un’area pubblica composta da una struttura ospedaliera abbandonata dal 1985 e da un terreno pertinenziale della stessa;

d) Nel corso dei sopralluoghi, fatti dai responsabili dell’ordine e la sicurezza pubblica di cui sopra, si è ravvisata quale fonte di pericolo la suddetta struttura ospedaliera diruta;

e) E infatti il plesso de quo, composto da un fabbricato di 3 piani (abbandonato e i cui accessi sono aperti), si presta quale possibile sito dove agevolmente appostarsi per attentare alla mia persona con un fucile, poiché, come detto, distante pochi metri dalla mia proprietà, e, soprattutto perché, grazie alla sua altezza, consente a chiunque una ampia visuale degli spazi di mia proprietà e, consequenzialmente, di attentare alla mia persona nel momento più propizio;

Pare evidente che la presenza di questa struttura abbandonata, dove chiunque possa introdurvisi agevolmente, renda inutile i presidi di sicurezza già esistenti (vigilanza fissa con agenti e telecamere); (…)

f) Si è pertanto valutata la necessità di contenere i rischi legati alla introduzione clandestina di potenziali attentatori nella proprietà pubblica sopra menzionata; (…)

g) sono stato invitato dal Questore e dal Dirigente del Commissariato di Siderno (…) a chiedere alla ASP la concessione del terreno, al limitato ed esclusivo fine di assicurare l’attuazione delle misure in questione;

l’oggetto dell’accordo di comodato d’uso, ratificato dalla ASP, prevede la concessione del terreno (art. 1) (4000 metri e non 8000) per implementare le condizioni di sicurezza della proprietà limitrofa (la mia); l’obbligo del comodatario prevede (art 4 comma 1) che lo scrivente si serva dell’immobile per implementare le condizioni della sicurezza (…)

Gratteri mi ha minacciato di querela, non è la prima volta che un Pm mi intimidisce. Piero Sansonetti de Il Riformista l'1 Aprile 2020. Gratteri (Procuratore di Catanzaro), mi pare, conferma tutto. I commissari prefettizi hanno ceduto a lui (al canone di 8 euro e mezzo al mese per dieci anni) un terreno di quattromila metri quadrati (però nella delibera c’è scritto ottomila: qualcuno non dice la verità) che appartiene a un ospedale costruito e mai inaugurato, e sul quale si era pensato un tempo di realizzare ricoveri per anziani, e che poi era stato richiesto dal Comune di Gerace. Del resto ci aveva confermato tutto già per telefono il giorno prima. Nel corso di un paio di chiamate un po’ burrascose: poi ne parliamo meglio. Solo qualche piccola differenza. Ieri ci aveva detto che lui non aveva firmato niente. Sembrava di capire che la richiesta di assegnargli il terreno non fosse venuta da lui ma da prefetto, questore e altri. Ora corregge, e spiega che prefetto, questore e altri lo hanno indotto a chiedere quel terreno. Quindi la richiesta l’ha fatta lui. Va bene, piccole imprecisioni. Un po’ di imbarazzo, si capisce. La ragione della richiesta? Difendersi da possibili attentati. Questo lo abbiamo già scritto. Anche perché noi siamo abituati, quando riceviamo una notizia che non fa fare un gran figura a una persona, ad ascoltare la persona (pratica abbastanza inusuale nel giornalismo che piace a Gratteri…). In quel terreno – dice Gratteri- poteva introdursi qualche mafioso e spararmi, perché da quel terreno si vedono le finestre di casa mia.  E quindi, se capisco bene, si è pensato che la cosa migliore per evitare che questo accada, non è mettere delle guardie, ma concedere il terreno a Gratteri in modo da rendere illegale, per eventuali attentatori, l’accesso. Un’idea – diciamo la verità – un po’ stile pantera rosa: ma comunque un’idea. Benissimo. Sicuramente tutto vero. Del resto già ieri abbiamo scritto che nella decisione della commissione prefettizia di sottrarre una proprietà a un ospedale, di non concederla al Comune o a un ente pubblico, ma di assegnarla un privato cittadino, non c’era niente di illegale. Citando Travaglio potrei dire: questione, magari, di opportunità….I problemi sono tre. Primo: possiamo credere che lo Stato, di fronte a un pericolo per la vita di un magistrato, gli dice: difenditi da solo, noi ti diamo un terreno e poi pensaci tu? Speriamo che non sia vero. Anche perché francamente Gratteri che può fare con quel terreno per difendersi? Proprio niente. Se qualcuno ha pensato a una soluzione così scombiccherata c’è da preoccuparsi molto. E anche se un Procuratore l’ha ritenuta adeguata. Secondo problema. Cosa sarebbe successo se un terreno di un ospedale fosse stato assegnato a Oliverio, per esempio, l’ex presidente della Regione? Ditemi, sinceramente, cosa pensate che sarebbe successo ad Oliverio. Nessuno avrebbe immaginato che Oliverio aveva ottenuto quel terreno grazie al suo potere? Gratteri avrebbe lasciato correre o avrebbe indagato? Vabbé. Terza questione. L’altro giorno Gratteri ci ha minacciato di querelarci in due distinte telefonate, pur sapendo che stavamo scrivendo il vero e senza, peraltro, aver letto cosa avremmo scritto. Se un politico si fosse comportato così, cosa si sarebbe detto? Intimidazione. Giusto? Se lo fa un magistrato invece? A me non è la prima volta che capita di essere intimidito da un magistrato. Anche perché i magistrati – lo sapete tutti – sono abituati a non essere mai infastiditi dalla stampa. E quando succede a loro pare un sacrilegio. Pensano che se critichi un magistrato antimafia, o sei pazzo o sei mafioso. Bisogna dire che Gratteri, fin qui, è stato l’unico magistrato (tra quelli celebri) che non mi ha mai querelato e non ha mai querelato nessuno. Stavolta ha minacciato di abbandonare il suo stile e di procedere. Vedremo. Tanto, statene sicuri, del grandioso potere che hanno i magistrati sui giornalisti importa niente a nessuno.

 Travaglio bacchetta il Riformista per un articolo del perseguitato Incalza. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Aprile 2020. Con un bel corsivo, ieri, il giornale di Travaglio ci bacchettava (definendoci il giornale dell’imputato Romeo) perché avevamo pubblicato un articolo in due puntate di Ercole Incalza. Colpevole di essere stato – dice il Fatto – uomo della sinistra ferroviaria, cioè del partito socialista (quello che scrisse, per capirci, lo Statuto dei lavoratori…). Il Fatto lascia intendere che Incalza è una specie di mascalzone. Come del resto, sembra di capire, anche Alfredo Romeo. Il Fatto definisce Romeo imputato, perché non è stato mai condannato. Cioè è incensurato, nonostante sia da molti anni bersaglio del Fatto e di quel pezzo di magistratura che dal Fatto pretende (o che al Fatto comanda: non si è mai capito bene…). Incensurato: la capirà mai Travaglio questa parola? Quanto ad Incalza è tra le poche persone al mondo che può dire di avere sin qui ottenuto 18 proscioglimenti. Di-ciot- to. Non solo è incensurato, ma a dar retta allo Zingarelli è anche un perseguitato. Una persona inquisita ingiustamente per 18 volte, in qualunque paese del mondo viene considerato un perseguitato. In altri paesi ci si chiede se i Pm che lo hanno braccato sono stati puniti per questa loro evidente faziosità. Da noi questa domanda è blasfema. Travaglio le sa queste cose. Probabilmente sì. E allora perché se la prende in modo così insensato con Incalza? Una spiegazione c’è. Nei suoi due articoli Incalza ha fortemente criticato Matteo Renzi. Se c’è una cosa che Travaglio non sopporta è che qualcuno critichi Renzi!

 “Il nostro è il giornale dei diritti e il Fatto Quotidiano vuole che chiuda”. Il Dubbio il 16 Marzo 2020. Un articolo che si augura la chiusura del nostro giornale: sono gli stessi che svalutano il ruolo degli avvocati nella giurisdizione. La si può pensare diversamente. Un giornale la può pensare diversamente da un altro ma non dovrebbe mai augurarsi che una voce, per quanto diversa dalla propria, si spenga, e che una redazione intera resti senza lavoro. Soprattutto in un momento del genere. Eppure oggi abbiamo trovato sul Fatto quotidiano un vero e proprio inno alla chiusura del Dubbio. È la sola chiave possibile per un articolo in gran parte preoccupato di rappresentarci come un’iniziativa editoriale senza legittimità, senza diritto di esistere. Marco Travaglio la pensa molto diversamente da noi, da tutti noi. A proposito di giustizia, di garanzie e di diritti, innanzitutto. Bene. La sua libertà è sacra. Certo la sua è una visione che lo pone agli antipodi non solo della nostra redazione, ma soprattutto dell’avvocatura. Gli avvocati italiani guardano ad altro. A un modello di democrazia solidale. A decisioni assunte secondo le regole. Che non a caso sono le regole del diritto. Perciò la comunità degli avvocati italiani, 250mila persone solo a contare gli iscritti, trova nel Dubbio, dal marzo 2016, una voce capace di rappresentare la sua funzione sociale e quella gerarchia di valori, in cima alla quale c’è la tutela delle garanzie. Il nostro editore, Edizioni Diritto e ragione, è una srl promossa legittimamente dall’avvocatura italiana, che anche così esplica la sua funzione sociale: dando voce proprio a quei valori di garantismo e mediazione virtuosa tra posizioni opposte che negli articoli del Fatto quotidiano non trovano mai spazio. Desiderare in uno dei momenti più terribili nella storia del nostro Paese che una voce libera venga meno e che una quindicina di colleghi resti per strada è sentimento di raro cinismo. Così come è allarmante che qualcuno desideri svalutare e umiliare il ruolo degli avvocati nella giurisdizione. Ma non se ne può essere spaventati. Il nostro è il giornale dei diritti e noi continueremo a difenderli. I nostri e quelli dell’avvocatura italiana. I redattori del Dubbio

Travaglio vuole chiudere Il Dubbio, come facevano Pol Pot e Mussolini. Redazione  de Il Riformista il 18 Marzo 2020. “I giudici decapitano i legali del Dubbio”. Questo è il titolo che campeggiava l’altro giorno sul Fatto, occupando una pagina intera. Chi sono i legali del Dubbio? Non esistono. Il titolo si riferiva a una sentenza del tribunale di Roma, la quale in via cautelativa sospende dall’incarico 9 componenti del Consiglio Nazionale Forense (il massimo organo di rappresentanza dell’avvocatura italiana) e tra loro il Presidente. Il motivo di questa sentenza – peraltro abbastanza discutibile – è una norma che vieta la rielezione al Consiglio dopo due mandati. La questione è: i due mandati si contano da prima o da dopo la proclamazione della legge professionale? Cioè, il divieto di triplo mandato è retroattivo?

Bene, Il Dubbio non c’entra proprio niente. Il Dubbio non è un consiglio elettivo, ma un giornale, esattamente come Il Fatto. Perché allora il giornale di Travaglio titola sul Dubbio? La verità è che Travaglio ama pochissimo i giornali e ha una istintiva repulsione per la libertà di stampa. Infatti nell’articolo spiega che Il Dubbio è un giornale illegittimo perché l’editore è il Consiglio forense, e il Consiglio forense non ha diritto a editare giornali. Il Dubbio va chiuso. A nessuno, finora, era mai venuto in mente di dichiarare illegale un giornale. Tantomeno alla direzione di un altro giornale. Persino quando quelli di Potere Operaio volevano mettere fuorilegge il Msi, non ci fu nessuna richiesta di chiudere Il Secolo d’Italia. Travaglio dice che gli avvocati non possono avere un loro giornale, e Il Dubbio – ufficialmente – risulta essere il giornale dell’avvocatura. Ecco, il problema è questo: la trasparenza nella proprietà del Dubbio, che è tra i pochi giornali che dichiara chi è il proprietario (anche noi siamo tra i pochi, e ne andiamo orgogliosi). Il Fatto – chiedete a chiunque e vi confermerà – è notoriamente il giornale del partito dei Pm. Provate a leggere la recente intervista di Travaglio al capo del partito dei Pm – dico, Davigo – e ve ne renderete conto. Provate a trovare negli ultimi dieci anni una critica del Fatto a Davigo, o a Di Matteo, o a Scarpinato, o a Gratteri… I Pm hanno diritto ad avere un giornale, gli avvocati no. Travaglio ora è potente. Guida il partito che dispone della maggior presenza in Parlamento, è al governo, ha un patto di ferro con i Pm. Si sente in grado di dare ordini. E così, per togliersi una soddisfazione vuole chiudere Il Dubbio. Come facevano Pol Pot e Mussolini. P.S. Un abbraccio agli amici del Dubbio.

Vittorio Feltri contro Marco Travaglio: "Per lui tutti i giornali una merda? Certo, è uno stronzo". Libero Quotidiano il 7 aprile 2020. Probabilmente, il giornalista più livoroso del pianeta Terra. Si parla di Marco Travaglio, delle sue ossessioni. L'ultima delle quali è la Lombardia, Attilio Fontana, Giulio Gallera ed eccetera, contro i quali di fatto cannoneggia ogni giorno pur di difendere Giuseppe Conte e il suo operato nell'emergenza coronavirus (ve lo ricordate il Guido "Bertoleso" Bertolaso, quello che "più che creare posti letto ne ha occupato uno"?). Bene, oggi il direttore del Fatto Quotidiano si diletta in un'altra delle sue ossessioni, chi lo segue sa che è solito farlo ogni settimana, anche più di una volta a settimana: fare le pulci agli altri giornali, i quali farebbero in buona sostanza tutti quanti schifo. Non entriamo nel merito, è tempo sprecato: la sostanza è che anche oggi, Travaglio, cita testata per testata, nome per nome direttori e firme, dunque elenca tutto ciò che a suo insindacabile giudizio non va bene (ovvero tutto, tranne quello che pensa lui. O Giuseppe Conte). La misura è colma. Anche per Vittorio Feltri, che dopo aver con discreta evidenza visto quell'articolo, al direttore del Fatto Quotidiano dedica un tweet durissimo: "Travaglio, direttore del Fatto, ogni giorno scrive un articolo per dire sempre la stessa cosa e cioè che tutti i giornali sono di merda, tranne il suo che è uno stronzo". Piuttosto definitivo. 

Filippo Facci contro Marco Travaglio, il re dello sbaglio: "A differenza sua, noi non facciamo schifo". Libero Quotidiano l'8 aprile 2020. Bertolaso però no. La sanità lombarda però no, dài. Ma occuparsi di Marco Travaglio è inutile: da una parte perché sbugiardarlo regolarmente necessiterebbe di un impiego a tempo pieno, dall' altra perché la sua specialità sono soprattutto le sapienti omissioni: i suoi sillogismi di norma sono più brevi e superficiali della verità, che spesso ha il difetto di essere articolata: ma è ciò che interessa i suoi lettori medi. Ai suoi lettori interessa incolpare qualcuno: l' adrenalina e il divertimento gli si accende come per i film di Boldi e De Sica: basta una flatulenza. Quando Travaglio monologava da Michele Santoro poteva essere un problema, perché lo guardava un sacco di gente: ora è conchiuso nel suo Fatto Quotidiano che è tracollato nelle edicole: l' anno scorso si è quotato all' Aim (la Borsina dei piccoli) e ha portato a casa miseri risultati; nell' estate 2018 preventivavano di vendere 10 milioni di azioni e ne portarono a casa circa 2, con il prezzo per azione ridotto a 0,72 per azione; l' amministratrice Cinzia Monteverdi ammise: «Il mercato non era quello che ci aspettavamo». Chissà che cosa pensavano che fosse, il loro Fatto Quotidiano: soprattutto considerando che chiuse in rosso il bilancio 2019 per due milioni di euro. Cose che succedono (quasi a tutti: ma a noi, in questo periodo, no) e comunque, al di là di questo, gli «editoriali» di Travaglio nel tempo perdevano peso: da anni non venivano più propriamente letti bensì al limite «sorvegliati» dagli opinion maker, la gente che conta: tipo una riga sì e dieci no, tanto per capire con chi se l' era presa.

SCELTE ERRATE. La sua naturale vocazione al fallimento in compenso si è sempre rivelata interessante essendo lui un marker negativo: chiunque egli sponsorizzi, cioè, sappiamo già che finirà male. Travaglio passò dal Giornale alla Voce: la Voce ha chiuso. Passò al Borghese: il Borghese ha chiuso. Andò in Rai da Luttazzi: gli chiusero il programma. Promosse Raiot della Guzzanti: non è mai andato in onda, e lo stesso vale per i programmi di Oliviero Beha e Massimo Fini. Quando sostenne Caselli all' Antimafia, fecero una legge apposta per non farcelo andare. Ha sostenuto Woodcock: plof. Ha sostenuto la Forleo e De Magistris: la prima cadde in un cono d' ombra, il secondo si dimise dalla magistratura e i suoi processi si rivelarono fuffa. Travaglio sostenne tutti i movimenti poi svaporati e candidati a importanti cariche giudiziarie: sempre trombati. E Di Pietro, il simbolo? Abbiamo visto. Ci eravamo dimenticati della campagna per Ingroia, prima da magistrato e poi da meteora politica con parentesi guatemalteca: dissoluzione. Poi la svolta: Travaglio partecipò al V-day e protestò contro i fondi pubblici elargiti anche al giornale dove scriveva, l' Unità: che infatti chiuse. Pazienza: comunque si era scavato un mestiere (parlar male del prossimo) e la tendenza dei colleghi è stata considerarlo come un ordinario mercante che vendeva prodotti commisurati a un target: che sarà pure composto da idioti, ma era e resta un target. Col tempo e la popolarità, tuttavia, qualche prezzo occorreva pagarlo. Certe incoerenze erano lì, bastava notarle. Lui, antiberlusconiano, si scoprì che aveva pubblicato i suoi primi due libri con la Mondadori del Berlusconi che intanto era già sceso in politica.

IL TU AI POLITICI. La sua ostentata rettitudine si fece grottesca. Citava Montanelli: «Non frequento i politici, non bisogna dare del tu ai politici né andarci a pranzo». A parte che ci andò (una volta ero presente anch' io) non fu chiaro perché coi politici no e coi magistrati sì: come se non fossero entrambi uomini di potere e soprattutto di parte. Anche il suo linguaggio peggiorò. Descrisse i giornalisti che celebravano Giorgio Napolitano, per dire, parlando di «lavoretti di bocca e di lingua sulle prostate inerti e gli scroti inanimati», continuando a sfottere il prossimo per i difetti fisici: Giuliano Ferrara «donna cannone», «donna barbuta», il suo ex amico Mario Giordano «la vocina del padrone», poi Brunetta eccetera. Se uno non aveva difetti evidenti, li inventava: continua a chiamare me «biondo mechato» anche se è biondo tutto il mio albero genealogico.

AI PIEDI DEL QUERELANTE. Le incoerenze si fecero lampanti quando fu evidente che il signorino in definitiva lucrava su un «regime» che lo mandava in onda in prima serata, e che di condanne per diffamazione ne aveva prese eccome, e che proponeva l' abolizione dell' Appello ma poi ricorreva in Appello, e che tuonava contro la prescrizione ma poi non la rifiutava, e che non esitava, lui, l' inflessibile, a prostrarsi ai piedi del querelante Antonio Socci (febbraio 2008) affinché ritirasse una denuncia: «Riconosco di aver ecceduto usando toni e affermazioni ingiuste rispetto alla sua serietà e competenza professionale, e di ciò mi scuso anche pubblicamente». Ma avevamo cominciato con Bertolaso: perché è contro di lui e contro la sanità Lombarda che il Fatto Quotidiano, dopo anni di routine da pagliacci del circo mediatico, si sono riguadagnati la ribalta dell' infamia. Editoriali titolati «Bertoléso», altri dove gli si dà dell' untore o che relegano i resoconti dell' assessore Giulio Gallera a «televendite» per fini elettorali, o profonde analisi della competette Selvaggia Lucarelli in cui si esorta la Lombardia - che fatto comunque miracoli e ha probabilmente la migliore sanità pubblica di questo Pianeta - a «chiedere scusa». Non c' è neanche da parlarne. Però ricordo bene un' altra volta in cui Travaglio ad Annozero parlò di Bertolaso e delle sue «cattive frequentazioni»; ricordo che Nicola Porro del Giornale gli fece notare che delle frequentazioni discutibili potevano essere capitate anche a lui, a Travaglio, il quale diede di matto e diede a Porro e Maurizio Belpietro di «liberale dei miei stivali», poi scrisse che «non sono giornalisti», «se non si abbassano a sufficienza vengono redarguiti o scaricati dal padrone», «non hanno alcun obbligo di verità» e «sguazzano nella merda e godono a trascinarvi le persone pulite per dimostrare che tutto è merda».

IL PROCESSO A FORMIGONI. Ora però, con tutto il rispetto, l' unica merda giornalistica che ci viene in mente è il giornalismo del Fatto Quotidiano di questi giorni, che, pur di screditare la sanità lombarda, giunge a pubblicare i verbali del processo al benemerito Roberto Formigoni: come se noi, adesso, ricordassimo appunto le «frequentazioni» di Travaglio - che sono quelle a cui accennavano Porro e Belpietro - quando il direttore del Fatto andò in vacanza con un tizio poi condannato per favoreggiamento di un mafioso, già prestanome di Provenzano; quando telefonò a un siciliano, uno che faceva la spia per un prestanome di Provenzano, e gli chiese uno sconto sulla villeggiatura in Sicilia; quando la sua famiglia e quella di Pippo Ciuro, poi condannato per aver favorito le cosche, si frequentavano in un residence consigliato da questo Ciuro e si scambiavano generi di conforto; quando il procuratore di Palermo Pietro Grasso, sul Corriere, scrisse che Travaglio faceva «disinformazione scientificamente organizzata». E questi sono tutti «fatti», come li definirebbe Travaglio, «fatti» a loro modo ineccepibili, non querelabili. Forse andrebbero spiegati, perché la verità sempre più complessa. Beh, è Travaglio a non farlo mai, a non spiegare mai e a scrivere barzellette sui malati a cui dovrebbe banalmente baciare il culo. Travaglio ha scritto che Bertolaso, «più che trovare posti letto, ne ha occupato uno». Poi è passato oltre, per il risolino demente di quei pagliacci e cialtroni che ancora lo leggono. Ha una sola fortuna, il direttore del Fatto: che non c' è in giro un Travaglio che certe infamie gliele ripeta di continuo, in libri e articoli e comparsate televisive. Oddio, potremmo anche farlo noi. È questa la differenza: noi non vogliamo farlo, perché, a differenza sua, non facciamo schifo.

Tutte le condanne di Travaglio. Da culturaesocieta.com il 18 dicembre 2019. Quante volte è stato condannato? Sono molte le condanne collezionate da Marco Travaglio, qui le raccogliamo tutte. Possiamo definirlo un diffamatore seriale. Lui si vede come una specie di super-eroe della libera informazione la cui missione è quella di punire i malvagi e redimere la Nazione. Ma le cose non stanno così, quando parliamo di Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, parliamo di una persona che ha fatto della diffamazione il suo modus operandi e che nel suo mondo ha trasformato l’insinuazione in verità. Ma le insinuazioni restano insinuazioni, le verità restano verità. Ma vediamo quante volte è stato condannato.

Nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio aveva definito Previti «futuro cliente di procure e tribunali» su L’Indipendente. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell’impossibilità da parte dell’avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.

Il 4 giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85 000 euro (più 31 000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro La Repubblica delle banane scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all’allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L’errore era poi stato trasposto anche su L’Espresso, il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché alla Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15 000 euro.

Il 5 aprile 2005 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme all’allora direttore dell’Unità, Furio Colombo, al pagamento di 12 000 euro più 4000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito.

Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha condannato a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26 000 euro, a causa di una critica ritenuta «eccessiva» nell’articolo “Piazzale Loreto? Magari” pubblicato nella rubrica Uliwood Party su l’Unità il 16 luglio 2006.

Nel giugno 2008 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme al direttore dell’Unità, Antonio Padellaro, e a Nuova Iniziativa Editoriale, al pagamento di 12 000 euro e al pagamento di 6000 euro di spese processuali per un articolo sulla giornalista del TG1 Susanna Petruni. L’articolo descriveva la giornalista come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici. «La pubblicazione – si legge nella sentenza – difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro “Il manuale del perfetto inquisito”. Affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l’idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l’idea di una pluralità di condanne)».

Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16 000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani (che aveva chiesto un risarcimento di 1 750 000 euro) per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a Che tempo che fa il 10 maggio 2008.

L’11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del “figlioccio di un boss” all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello. Travaglio è stato condannato a pagare 15 000 euro.

Il 15 febbraio 2017 il giornale Il Fatto Quotidiano, diretto da Marco Travaglio, è stato condannato in primo grado dal tribunale civile di Roma per diffamazione nei confronti di Giuliano Amato. La sentenza afferma che negli articoli del Fatto, a firma di Marco Travaglio: “non può non riconoscersi la sussistenza del reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, sussistendone gli elementi oggettivo e soggettivo, che, come noto, il giudice civile può accertare in via incidentale”.

Il 23 gennaio 2018 è stato condannato per diffamazione dal Tribunale di Roma in merito ad un editoriale su Il Fatto Quotidiano contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammonta a 150 000 euro.

Il 22 ottobre 2018, il tribunale civile di Firenze lo ha condannato (in solido con la giornalista Gaia Scacciavillani e con la Società Editoriale Il Fatto) al pagamento di una somma di 95 000 euro a titolo di risarcimento per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi (padre di Matteo). Era stato citato in giudizio per diffamazione per due editoriali su Il Fatto Quotidiano riguardanti un processo penale per bancarotta che ha visto lo stesso imputato assolto con formula piena.

Il 16 novembre 2018, in un procedimento (relativo alle parole pronunciate nel corso di un’ospitata nella trasmissione “Otto e mezzo”), Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Firenze al pagamento di 50 000 euro per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi. Con riguardo a questa seconda condanna, Travaglio dichiara nel suo editoriale su Il Fatto Quotidiano del 17 Novembre 2018 di non avere avuto notizia alcuna del processo in corso contro di lui. 

Pietro Senaldi spietato con Bonafede: "Se non fosse stato per il M5s l'avvocatino di Mazara del Vallo..." Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 2 Gennaio 2020. Ingiustizia è fatta. Da ieri l' Italia non è più un Paese sicuro per i cittadini innocenti, che rischiano di restare sotto processo tutta la vita e di crepare con ancora un giudizio sospeso sulla loro onorabilità. Dobbiamo ringraziare di questo il signor Bonafede, un avvocatino di Mazara del Vallo che se non ci fossero stati i grillini mai avrebbe potuto diventare ministro della Giustizia. Porta il suo nome la riforma che ha tolto la prescrizione per tutti i reati dopo il primo grado di giudizio. La norma non piace a legali, giudici costituzionali, pubblici ministeri, professori universitari. Si tratta di un' iniziativa giustizialista e manettara, che tradisce lo spirito integralista e fideistico dei grillini verso le Procure, alle quali M5S riempie il caricatore per soddisfare la propria base più becera, in spregio a ogni principio di diritto. È gradita solo a qualche pm giustizialista, ai loro scribacchini di riferimento e a Cinquestelle. Tutti gli altri partiti la osteggiano. Il Pd e Forza Italia hanno due proposte di revisione della norma. Renzi si è detto disponibile a sostenere l' idea berlusconiana. La Lega, che ai tempi del governo gialloverde aveva dato via libera, subordinando però l' abolizione della prescrizione alla revisione dei tempi processuali, ha cambiato idea e sta lavorando a una legge propria.

TIRARE A CAMPARE. Se da ieri questo scempio del diritto è legge c' è una motivazione ancora più raccapricciante del massimalismo pentastellato che l' ha originato. Alla sinistra garantista l' abolizione della prescrizione fa schifo, ma non vi si oppone seriamente perché ciò significherebbe far cadere il governo e rischiare che vinca il centrodestra. Capiamo che è una prospettiva terrificante per Zingaretti, Bersani, Renzi e compagni, ma evitare che l' Italia entri nella barbarie giuridica vale una crisi e anche una manciata di poltrone perse. Questo esecutivo è nato contro Salvini, dipinto come il novello Mussolini. Andrebbe ricordato che il codice penale fascista, di proverbiale severità, introdusse la prescrizione che questo esercito di sedicenti democratici acconsente a eliminare. Ma non è soltanto una questione filosofica o morale che ci porta ad avversare la riforma. Le ragioni sono pure pratiche. L' Italia viene costantemente rimbrottata e multata dalla comunità internazionale per le condizioni disastrose della sua giustizia: lentezza, incertezza, inaffidabilità. Questo, oltre a violare i diritti dei cittadini e macchiare l' immagine dello Stato, è un freno all' economia. Rende arduo il lavoro alle aziende e ai cittadini italiani e scoraggia le imprese straniere dall' investire. Poiché il pesce puzza dalla testa è chiaro che sono le toghe, i deus ex machina dei giudizi, i principali responsabili del disastro. Il governo, anziché chiedere conto di questo e mettere mano a tutto il sistema, amplia i poteri alla categoria, sbilanciando ulteriormente l' equilibrio dei processi. È come continuare ad affidare i nostri risparmi a un investitore che ci ha già rovinati o comprare il decimo rinforzo a un allenatore che giace in fondo alla classifica.

DERIVA PERICOLOSA. Il ministro in Malafede si fa bello sostenendo che l' eliminazione di una durata massima per i procedimenti penali sveltirà i giudizi. Come dire che riempire la cantina di un alcolista gli eviterà nuove sbronze. La facoltà di portare avanti un procedimento in eterno non è garanzia che esso si concluda rapidamente; anzi, il pm che si rende conto di aver sbagliato potrebbe cercare di rinviare la sentenza in eterno per evitare di veder bocciato il proprio castello accusatorio. L' unica via per ridurre i tempi della giustizia penale è la depenalizzazione, che è il contrario di quanto sta facendo questo esecutivo. Processiamo individui per le loro opinioni, per esempio per il titolo «Patata Bollente», per aver aiutato l' Italia sbloccando l' Expo, per bagatelle fiscali degne di sanzione amministrativa, per non aver fatto sbarcare dei clandestini, che comunque non sarebbero poi stati liberi di girare per il Paese. L' abolizione della prescrizione spingerà ancora un po' più in là l' Italia verso la sua deriva grillino-antidemocratica. Saremo una nazione di innocenti imputati e procuratori senza freni. La sinistra ha sempre avuto il vento della magistratura in poppa, ma mollare a una sola categoria tutte le chiavi della Repubblica non conviene neppure a lei. Già troppi danni le procure politicizzate hanno fatto. Unica consolazione è che anche i grillini in malafede finiranno vittima del loro giustizialismo fanatico. Partiti per processare la Casta, sono finiti a darsi del ladro l' uno con l' altro, come ha evidenziato la vicenda Fioramonti sui rimborsi non versati, un po' come il magistrato interpretato da Alberto Sordi in "Tutti dentro", partito per ripulire il mondo e distrutto dalla propria cieca furia. Pietro Senaldi

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il Concorso truccato per i magistrati.

Magistrato o avvocato, la selezione è severa. Nei paesi del Nord la toga è una “religione”. Renato Luparini su Il Dubbio il 3 luglio 2020. Come si regolano inglesi e tedeschi, calvinisti o luterani che siano. La tesi di Max Weber su etica protestante e spirito capitalista ha fatto scrivere intere biblioteche . Potenza di un classico. E’ un accostamento geniale quello tra sfera religiosa e attività economica, due mondi che sembrano opposti , ma del resto se “la filosofia è la domenica della vita” come diceva un altro tedesco ( e per giunta protestante) come Hegel, occorre trovare un equivalente per gli altri giorni della settimana. Il diritto è sicuramente materia da giorno feriale ma risente anch’esso della concezione religiosa del popolo che lo esprime. Prendiamo un tema attualissimo, come la selezione dei magistrati e confrontiamo le differenti scelte di alcuni Paesi Europei. E’ singolare vedere come i criteri cambino a seconda della religione storicamente prevalente e della concezione del laico nella Chiesa. Il primo modello è quello dei Paesi anglosassoni, di cultura religiosa prevalentemente calvinista. Qui i magistrati, esattamente come i pastori d’anime, non costituiscono una categoria a parte rispetto al laicato : vengono scelti , spesso su base elettorale, tra gli avvocati di maggiore età ed esperienza. Il magistrato non è il rivale dell’avvocato: è semplicemente un suo collega più anziano. Del resto il magistrato nei casi più importanti è solo un arbitro : a decidere la colpevolezza o l’innocenza nei processi più gravi è una giuria laica. Lo stesso avviene nelle Chiese riformate di tipo calvinista o metodista : il predicatore non ha un carisma diverso dai fedeli ; è semplicemente uno di loro che ha fatto uno studio teologico. Il secondo modello è quello tedesco, dove notoriamente la religione prevalente è quella protestante luterana. L’errore di molti italiani è di fare dell’erba evangelica tutto un fascio e confondere calvinisti e luterani. Questi ultimi sono molto più vicini ai cattolici, tanto che il termine “protestanti” equivaleva a “cattolici dissidenti” almeno nei primi anni della loro esperienza. Per i luterani il pastore ha un ruolo più spiccato e distinto dal popolo, pur facendone parte. Infatti in Germania la formazione di magistrati e avvocati è la stessa : escono tutti dal severissimo “secondo esame di diritto “ ( non si può provare più di due volte) e hanno una solidissima formazione teorica comune che li rende sostanzialmente equiparati, anche nella disposizione dei banchi in aula. E’ lo stesso sistema con cui in Germania si formano gli uomini di Chiesa: studi universitari selettivi e primato sul popolo fondato non sull’autorità o un carisma soprannaturale, ma sulla superiore conoscenza. Hegel sul punto scrisse uno dei suoi ultimi discorsi , celebrando il trecentesimo anniversario della Confessione Augustana del 1530 che segnò l’inizio della Chiesa Luterana. Da noi i magistrati sono come i preti ( nessuno si risenta da ambo le parti dell’accostamento). Prendono la toga ( o la tonaca) da giovani e tendenzialmente per tutta la vita, sono selezionati per studi e condotta e costituiscono un ordine chiuso e ben separato dai laici che hanno il compito di ammaestrare e ammonire. Ogni controllo esterno, specie da parte della componente del laicato più vivace e polemica ( come è in ambito giudiziario l’avvocatura) li irrita e sconcerta: reclamano con forza la necessità di controlli esclusivamente interni, in virtù e in ragione di un ministero e di un carisma che viene loro dall’alto. Curiosamente uno dei centri di formazione dei magistrati italiani era nei Castelli Romani a pochi chilometri dal bosco sacro di Ariccia dove Frazer ambienta il suo memorabile finale del “Ramo d’Oro “, il saggio sul rapporto tra sacerdozio e magia nelle civiltà di ogni tempo. Chi si illude con sorteggi e riforme di cambiare la magistratura italiana sappia che si muove all’interno di un bosco sacro, pieno di spiriti arcani.

GIUSTIZIA, BIANCOFIORE (FI): “GRAVI IRREGOLARITÀ NEI CONCORSI PER MAGISTRATI. MINISTRO BONAFEDE INTERVENGA”. Roma, 10 Luglio 2019. Fonte: AGV - Agenzia Giornalistica il Velino. “Avvengono cose nell’immobilismo e disattenzione del Governo dell’onestà e del cambiamento e dell’avvocato del popolo che amareggiano profondamente. E’ notizia di oggi, riportata anche sul sito di Universo magistratura, che, dopo le gravi irregolarità registrate durante il caso del concorso per uditore giudiziario dello scorso mese di giugno, anche il concorso in magistratura dell’anno 2017 – 2018 sarebbe stato truccato. Sorprende che il ministro Bonafede non ne sia al corrente visto che ci sono stati arresti e pare l’avvantaggiamento della figlia di un faccendiere ad opera di magistrati ripagati con ‘bottiglie di vino’ e ‘biglietti balneari’. Se così fosse, si tratterebbe di un episodio gravissimo: si sta rubando il futuro a migliaia di giovani seri e preparati che hanno investito molto. Dopo l’inchiesta sui concorsi truccati nelle università dalla Sicilia al Veneto, dopo lo scandalo sul Csm, che ha minato profondamente la credibilità del nostro Paese, questi nuovi casi di concorsi truccati gettano un’altra ombra pesante”. Lo ha detto Michaela Biancofiore, deputata di Forza Italia, intervenendo oggi durante il question time al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Siamo felici che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede abbia annunciato la riforma della magistratura e del reclutamento dei magistrati. Ci aspettiamo, a questo punto, anche un agente provocatore nei concorsi e il daspo anche per i magistrati corrotti. Noi ci auguriamo che la magistratura cambi davvero, che torni ad essere al di sopra di ogni sospetto, a partire soprattutto dal mio Trentino Alto Adige, dove il giudicato e il giudicante talvolta coincidono: basti pensare al Tar, nomina totalmente politica, che non conosce pari ed é inaccettabile”, ha concluso.

Concorso in magistratura truccato, Bonafede fa scaricabarile: “Parlate col Tar…” Paolo Comi su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Rivolgetevi al Tar. Lo “scandalo” del concorso in magistratura si conclude dunque così, con l’invito rivolto ai bocciati da parte del ministro della Giustizia affinché presentino ricorso al giudice amministrativo. L’incredibile risposta è arrivata ieri pomeriggio durante il question time a Montecitorio. Era stato il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, Pierantonio Zanettin, a sollecitare il Guardasigilli sulle “particolari” modalità con cui erano stati corretti gli scritti dell’ultimo concorso da 330 posti per magistrato ordinario. La correzione dei temi era terminata lo scorso giugno. Sui 13mila concorrenti, coloro che avevano portato a termine le prove erano stati circa 3mila. E solo 300 quelli giudicati idonei. Alcuni bocciati, come spesso capita, avevano fatto accesso agli atti e avevano scoperto che diversi temi erano stati valutati positivamente nonostante fossero pieni di strafalcioni in diritto e segni di riconoscimento assortiti. «La lettura di quei temi – dichiarò Zanettin – ha evidenziato un sofisticato e truffaldino sistema per consentire di individuarne l’autore: chiederò al ministro cosa abbia intenzione di fare». La risposta è arrivata ieri: nulla. In poco di 120 secondi Alfonso Bonafede ha messo una pietra tombale su questa vicenda. «I commissari sono nominati con decreto del ministro su conforme delibera del Csm che designa i componenti della Commissione», ha esordito il ministro grillino lasciando intendere che sulla scelta dei commissari del concorso via Arenula non ha toccato palla. La Commissione, presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia, è composta da ventotto componenti. Venti sono magistrati, otto gli avvocati e professori universitari. Il Ministero, ha puntualizzato Bonafede, fornisce solo un non meglio specificato “supporto tecnico”. Per quanto invece riguarda le decisioni della Commissione, trattandosi di “provvedimenti amministrativi” sono sindacabili esclusivamente dal giudice amministrativo. L’alta vigilanza affidata al ministro sul concorso in magistratura consiste quindi nel verificare “la regolarità” del rispetto delle procedure, “non potendo entrare nel merito delle decisioni” della Commissione, ha tenuto a sottolineare Bonafede. Fatta questa cornice normativa, ecco allora l’invito ai bocciati a presentare ricorso al Tar. Il ricorso al giudice amministrativo, se accolto, avrebbe però l’unico effetto di consentire che il tema venga corretto una seconda volta. Chi è stato giudicato idoneo pur avendo scritto strafalcioni non subirebbe alcuna conseguenza. Senza considerare, poi, che i termini per la presentazione dei ricorsi sono ormai tutti scaduti. Grande delusione di Zanettin per la risposta “burocratica” di Bonafede. «Ha letto gli appunti che gli hanno predisposto a via Arenula», ha attaccato l’ex laico del Csm durante lo spazio destinato alle repliche. La legge prevede che il ministro eserciti “l’alta vigilanza” e non faccia come “lo struzzo”.

Concorso truffa in magistratura, “Bonafede può annullarlo”. Parla l’ex giudice Sodano. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Ottobre 2020. «Non c’è alcuna speranza con il giudice amministrativo, bisogna mettersi l’anima in pace», afferma Maria Rosaria Sodano, ex giudice della Corte d’Appello di Milano, commentando la sentenza del Tar del Lazio che questa settimana (come riportato ieri sul Riformista) ha respinto i ricorsi presentati da alcuni candidati che erano stati bocciati alle prove scritte per l’ultimo concorso per magistrato ordinario. I bocciati avevano chiesto in visione gli elaborati che erano stati valutati positivamente dalla Commissione esaminatrice ed avevano scoperto che molti presentavano gravi errori di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. Il Tar, però, aveva ritenuto che la valutazione della Commissione “per quanto opinabile, non appare palesemente irragionevole, immotivata o disancorata dai criteri predisposti” per la correzione. In pensione dal 2018, la dottoressa Sodano ha aperto l’anno scorso un sito di formazione ed informazione, “tutormagistralis.it”, per i laureati in giurisprudenza che vogliono partecipare al concorso in magistratura. «Quando ero in servizio – esordisce la dottoressa Sodano – venni incaricata dal Csm di occuparmi della formazione decentrata della Scuola superiore della magistratura. Organizzavo i corsi di formazione per i “tirocinanti”, i giovani particolarmente meritevoli posti in affiancamento ai giudici per acquisire formazione teorico–pratica, propedeutica all’accesso alle professioni legali». «Dismessa la toga – prosegue – ho deciso di dedicarmi all’attività di tutor, finalizzata all’acquisizione di un metodo di studio consapevole e ragionato per chi intenda fare il concorso in magistratura». Nel far west che contraddistingue i corsi per aspiranti toghe, quello della dottoressa Sodano è completamente gratuito.

Dottoressa Sodano, il Tar ha respinto i ricorsi dei bocciati.

«Ho visto. Ed il mese scorso una sentenza del Consiglio di Stato ha sconfessato il Tar del Lazio a proposito del concorso dell’anno precedente. Due bocciati avevano avuto ragione dal Tar, ottenendo la ricorrezione dell’elaborato. Poi, però, il Ministero della Giustizia aveva fatto appello….»

Potrebbe essere questo il motivo per il quale il ministro Alfonso Bonafede, rispondendo alla Camera all’interrogazione presentata dall’onorevole Pierantonio Zanettin sull’ultimo concorso, aveva invitato i bocciati a rivolgersi al giudice amministrativo?

(Sorride)

Il ministro comunque era stato categorico, dicendo che non aveva alcun potere.

Guardi, bisogna essere chiari senza girarci tanto intorno. Annullare il concorso per magistrato per via giudiziaria è una responsabilità troppo grande. Anche per il giudice amministrativo. Sarebbe qualcosa di clamoroso che passerebbe alla storia».

Allora non c’è soluzione?

«No, la soluzione ci sarebbe».

Quale?

«È nelle mani di Bonafede. Lui ha “l’alta vigilanza” sul concorso in magistratura, può intervenire ogni qualvolta lo ritenga opportuno ed ha facoltà di annullare gli esami nei quali siano avvenute irregolarità».

Comunque i ricorrenti chiedevano solo una nuova correzione dei propri temi. Chi è stato promosso sulla base dei temi che abbiamo pubblicato nelle scorse settimane, infarciti di errori di ogni genere, rimane al suo posto?

«Esatto».

Il giudice Antonio Esposito, in un recente articolo sul Fatto Quotidiano, ha puntato il dito sulle modalità di composizione delle Commissioni esaminatrici.

«Il giudice Esposito ha ragione».

Spieghiamo.

«Un tempo le Commissioni erano composte quasi esclusivamente da magistrati di Cassazione. Il livello era altissimo. Anche perché in Cassazione arrivavano solo i meritevoli alla fine della carriera. Si faceva il concorso per andare in Cassazione».

Adesso? Con il sistema “Palamara”, quello del mercato delle nomine per intenderci?

«In Cassazione è entrato chiunque.

Quindi chi c’è in queste Commissioni?

«Adesso ci sono magistrati con poca esperienza e che hanno fatto nella loro vita, ad esempio, solo civile o penale e che devono correggere temi su argomenti che non hanno mai affrontato».

L’Anm, ha detto sempre Esposito, ha avallato questo “nuovo” modo di comporre le Commissioni. Ricordiamo che i nomi dei componenti delle Commissioni sono proposti dal Csm. Poi il ministro provvede ad approvarli.

«L’Anm ha su questo aspetto il classico approccio del sindacato di categoria. Punta ad avere il maggior numero di magistrati possibile e quindi di iscritti».

Più siamo e meglio è?

Sì. È così. Ma è anche comprensibile che un sindacato spinga sulla quantità più che sulla qualità».

Il sistema della formazione, insomma, andrebbe riformato? Da dove iniziare?

«Si dovrebbe partire dalla Scuola superiore della magistratura. Adesso è un carrozzone dove le correnti decidono chi mandare».

Concorso in magistratura truccato, il Tar chiude un occhio anzi due: “Tutto regolare”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Anche il Fatto Quotidiano, tramite il giudice Antonio Esposito, ha scoperto che diversi temi, giudicati idonei, dell’ultimo concorso per magistrato ordinario sono infarciti di “strafalcioni giuridici” ed “errori di ortografia”. Esposito, noto alle cronache per essere stato il presidente del collegio della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi, è da tempo uno degli editorialisti di punta del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Nel pezzo di questa settimana, l’ex magistrato ha ripercorso l’intera vicenda del concorso, raccontata dal Riformista già il mese passato con diversi articoli. Alcuni candidati bocciati alle prove scritte, come si ricorderà, avevano chiesto di visionare i temi che la Commissione esaminatrice aveva invece giudicato positivamente. Le sorprese non erano mancate in quanto questi elaborati presentavano errori di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. Venivano acquisiti anche i verbali delle attività svolte dalla Commissione. Si appurava che le correzioni non erano state effettuate, come previsto, in stretto ordine cronologico. In particolare, alcuni compiti erano stati corretti solo successivamente e senza l’indicazione delle tempistiche. L’onorevole Pierantonio Zanettin (FI) aveva al riguardo chiesto chiarimenti al ministro della Giustizia, a cui la legge affida “l’alta vigilanza” sul concorso in magistratura. Con una risposta sorprendente, Bonafede la scorsa settimana aveva affermato di non potere entrare “nel merito delle decisioni” della Commissione, invitando i bocciati a presentare ricorso, come qualcuno aveva già fatto, al Tar. «Il ministro ha dimenticato che può intervenire ogni qualvolta lo ritenga opportuno e ha facoltà di annullare gli esami nei quali siano avvenute irregolarità: è sconfortante constatare che abbia abdicato alle sue prerogative, preferendo obbedire all’ukase dell’Anm che aveva bollato come “strumentalizzazione politica” la richiesta di chiarimenti, era stata la replica di Zanettin. I ricorsi, è notizia di ieri, sono stati respinti nella fase cautelare dal Tar del Lazio in quanto la discrezionalità tecnica, per quanto “opinabile”, non appare “palesemente irragionevole, immotivata o disarticolata dai criteri di valutazione predisposti dalla Commissione”. Tornando quindi ad Esposito, da ex magistrato esperto, ha fornito sul concorso un particolare importante, che era sfuggito a tutti, e che riguarda la modalità con cui viene composta la Commissione esaminatrice. «Vengono sistematicamente nominati quali componenti, per lo più, magistrati non molto conosciuti», ha affermato Esposito, sottolineando che sono «più conosciuti in ambito correntizio». «Tale operazione – ha poi aggiunto – è stata agevolata da una normativa, varata anni orsono con il placet dell’Anm, che ha drasticamente ridotto il numero dei più qualificati magistrati di Cassazione». Insomma, quando c’è un problema che tocca la magistratura è sicuro che le correnti hanno avuto un ruolo – in negativo – di primo piano.

Concorso per magistrati, decidono le correnti chi entra e chi no. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Ottobre 2020. Maria Rosaria Sodano, ex giudice della Corte d’Appello di Milano, è in pensione da un paio d’anni, e ha aperto un sito dove – gratuitamente – offre materiale di formazione e informazione per chi vuol fare il magistrato. Ci ha rilasciato un’intervista nella quale spiega come e perché i concorsi per entrare in magistratura danno poche garanzie, perché è molto decaduto il livello delle commissioni giudicanti, così come il livello della Scuola superiore della magistratura, e come si potrebbe fare per fermare lo scandalo dell’ultimo concorso, dopo i ricorsi di molti candidati esclusi che hanno portato alla luce un fatto inquietante: i compiti dei candidati promossi erano pieni di strafalcioni, errori, prove di non conoscenza. Voi capite bene che questa non è una bella cosa, perché se in un corpo come quello della magistratura – intoccabile da qualsiasi potere esterno – entrano esponenti inadeguati è un grosso problema. Questi elementi saranno chiamati a fare le inchieste, a giudicare i cittadini, eventualmente a rovinargli la vita. E nessuno mai, dal momento nel quale la Casta lo ha assunti in se stessa, potrà metterli in discussione se non la Casta stessa. In mano a chi è la selezione dei magistrati e la stessa Scuola Superiore? La dottoressa Sodano ci conferma quello che purtroppo sospettavamo: alle correnti. Già, al sistema Palamara. Sono le correnti a decidere, a dividersi, a lottizzare, a inviare a promuovere e a bocciare. Voi credevate alla favoletta dell’autonomia della magistratura? Che ingenui…

Anomalie nella prova per magistrati. Concorso in magistratura truccato? L’Anm infuriata contro chi cerca la verità…Paolo Comi su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. “Rimbalzo mediatico spropositato” con conseguente “strumentalizzazione politica”. I vertici uscenti dell’Associazione nazionale magistrati hanno bollato così, sabato scorso, la pubblicazione da parte di alcuni giornali, ad iniziare dal Riformista, della notizia di numerose “anomalie” contenute nei temi del concorso per magistrato ordinario bandito nel 2018. Molti elaborati, la cui correzione era terminata lo scorso giugno e che erano stati giudicati idonei, presentavano errori macroscopici in punto di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. Alcuni dei bocciati, dopo aver fatto accesso agli atti, avevano quindi chiesto di annullare il concorso. Al termine dell’ultima riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm, i cui componenti verranno rinnovati la prossima settimana, è stato diramato un comunicato decisamente sopra le righe. «I ricorsi recentemente proposti, avverso i risultati delle correzioni degli elaborati scritti dell’ultimo concorso, pur se legittimi, sono stati oggetto di rimbalzo mediatico spropositato nei modi e nei contenuti, con successiva strumentalizzazione politica», esordiscono i vertici del sindacato togato. «Inaccettabile – proseguono – è il tono ed il contenuto degli attacchi, che non si limitano a dare la notizia (il ricorso di alcuni candidati) ma presentano la vicenda come se il contenuto dei ricorsi fosse stato già accertato come rispondente al vero, accusando la commissione autorevolmente composta da magistrati, avvocati, professori universitari, di gravissime condotte». Dopo questa lezione di giornalismo, «il Cdc stigmatizza gli irricevibili attacchi all’onorabilità dei componenti della commissione, accusati in modo esplicito di fatti lontani dall’essere accertati». «Tali aggressioni, fondate esclusivamente sulla prospettazione di parte di tre concorrenti non ammessi alla prova orale, nel colpire la delicatissima fase iniziale di selezione, si sostanziano nel tentativo di delegittimare di tutto l’ordine giudiziario», conclude la nota. L’Anm, oltre a dare lezioni di giornalismo, dimentica nel comunicato di raccontare un “piccolo” particolare: su questo concorso è stata chiesta ed ottenuta una apertura pratica al Csm da parte del consigliere laico in quota Lega Stefano Cavanna, avvocato e già docente di diritto civile presso l’Università degli Studi di Genova. Cavanna, dopo aver letto diversi temi giudicati idonei, ha ritenuto che fosse necessario svolgere «approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm». In particolare, mediante «la convocazione dei componenti della commissione esaminatrice del concorso», affinché riferiscano «sui fatti denunciati dai candidati», senza escludere altre «iniziative meglio viste e/o ritenute». La richiesta di Cavanna è stata ritenuta degna di nota dal Comitato di presidenza del Csm, composto dal vice presidente David Ermini e dai capi della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi.  Oggi, comunque, è prevista alla Camera, durante il question time, la risposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede alle richieste di chiarimenti sul punto. E a quanto poi risulta al Riformista, è in procinto di partire una “class action” da parte dei candidati bocciati. Vale, dunque, la pena di riportare le dichiarazioni di Cavanna: «Mi auguro che ci sia da parte di tutti la volontà di voler approfondire l’argomento. Il tema è importante visto che si stanno reclutando dei magistrati e non degli uscieri, con tutto il rispetto per gli uscieri». Nessuna aggressione, ma solo desiderio, che dovrebbe essere apprezzato dall’Anm, di fare chiarezza.

Esame da magistrati: negli scritti dei promossi strani segni di riconoscimento. Affaritaliani il 24 settembre 2020. L'esame per diventare magistrati è stato una farsa. Lo hanno scoperto due studenti bocciati dopo un esposto pervenuto recentemente sul tavolo del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. A firmarlo sono due candidati usciti dalla prova con il marchio «non idoneo». Hanno presentato - si legge sul Giornale - formale richiesta di accesso agli atti del concorso. Hanno potuto esaminare uno per uno i tre temi dei 301 candidati vincitori. E sono rimasti di sasso. Per alcuni dei promossi, si sarebbe potuto dire ciò che Francesco Saverio Borrelli diceva di alcuni giovani colleghi: «Non mi chiedo come abbiano fatto a vincere il concorso, mi chiedo come siano riusciti a laurearsi». In attesa di vedere come reagiranno ministro e Csm, - prosegue il Giornale - c’è qualcuno che dovrà esprimersi per forza: il Tar del Lazio, cui i due candidati respinti si sono rivolti per chiedere l’andamento della prova. tra i temi dei 301 vincitori, sono emerse diverse lacune. Dall'2uso sbagliato dei congiuntivi" a "frasi non di senso compiuto" a "difficoltà con l'analisi logica". Ma il dato più inquietante è che alcuni di questi temi presentano stranezze grafiche che potrebbero averli resi riconoscibili da parte della commissione.

Esposti inviati anche al ministro Bonafede e al Csm. Esami magistrato. Due candidati bocciati chiedono annullamento al Tar per possibili favoritismi: “Li ha superati chi sbaglia congiuntivi”. Eco del Sud il 24 settembre 2020. Bocciati ma non vinti. Due candidati all’esame per diventare magistrati, giudicati “non idonei”, hanno presentato un esposto, sostenendo che la prova sia stata una farsa, vista la presenza di errori grossolani in alcuni dei temi dei 301 altri candidati che hanno superato l’esame. I due “non idonei”, infatti, dopo avere inoltrato richiesta di accesso agli atti del concorso, hanno visionato uno per uno i tre temi a testa dei 301 candidati vincitori. Hanno scoperto che tra gli idonei c’era anche chi scriveva frasi di senso non compiuto, saltando a piè pari le regole dell’analisi logica, e chi addirittura sbagliava anche i congiuntivi. L’esposto dei due esclusi dalla prova è stato inviato al ministro della Giustizia, Bonafede, ed al Consiglio Superiore della Magistratura, nella speranza cha valutino l’effettiva capacità dei candidati promossi. Ma di pari passo, dovrà esprimersi anche il Tar del Lazio, cui i due candidati respinti si sono rivolti per chiedere l’annullamento della prova, visto che a loro dire sarebbero emersi possibili favoritismi: “Congiuntivi sbagliati e citazioni di sentenze mai emesse” – affermano. Dovesse corrispondere al vero quanto sostenuto dai due non ammessi alla prova, non stupiamoci se crescendo professionalmente alcuni tra loro arrivano ai ben noti inciuci oggetto di un processo disciplinare in corso davanti al Csm, e di uno penale a Perugia, che delegittimano il valore della magistratura. Cominciano dalla "culla della professione".

Gli aspiranti giudici che "condannano" l'italiano. Una serie infinita di errori grammaticali. Il giudice: "Roba da mettersi le mani nei capelli". Luca Fazzo, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale.  Luis El Pistolero Suarez, il centravanti che piaceva alla Juventus, in Italia non è stato l'unico a venire trattato con indulgenza al momento degli esami. Altrettanto bene pare sia andata a numerosi aspiranti giudici, usciti vincitori dal concorso scritto nonostante strafalcioni che avrebbero dovuto portare alla loro bocciatura in tronco. A raccontarlo è un esposto pervenuto recentemente sul tavolo del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. A firmarlo sono due candidati usciti dalla prova con il marchio «non idoneo». Potrebbe trattarsi, dunque, del consueto brontolio di chi vede frustrate le proprie ambizioni. Ma i due bocciati non si sono limitati a brontolare. Hanno presentato formale richiesta di accesso agli atti del concorso. Hanno potuto esaminare uno per uno i tre temi dei 301 candidati vincitori. E sono rimasti di sasso. Per alcuni dei promossi, si sarebbe potuto dire ciò che Francesco Saverio Borrelli diceva di alcuni giovani colleghi: «Non mi chiedo come abbiano fatto a vincere il concorso, mi chiedo come siano riusciti a laurearsi». In attesa di vedere come reagiranno ministro e Csm, c'è qualcuno che dovrà esprimersi per forza: il Tar del Lazio, cui i due candidati respinti si sono rivolti per chiedere l'annullamento della prova. Nel ricorso, i due indicano a sostegno delle loro ragioni lo stesso campionario di strafalcioni catalogato nell'esposto a Bonafede. A rendere imbarazzante la questione, c'è la circostanza che se supereranno anche gli orali i somari promossi diventeranno magistrati e saranno immessi in ruolo, portandosi dietro tutte le loro lacune. Tutto accade il 4, 5 e 7 giugno 2019, quando si tengono le prove scritte (quelle cruciali, chi le supera ha quasi la certezza di passare anche gli orari e indossare la toga) di diritto civile, penale e amministrativo. Il 21 giugno la commissione d'esame, composta da venti magistrati e otto tra docenti e avvocati, fissa i criteri di valutazione: tra cui c'è anche la richiesta di una «forma italiana corretta», oltre che della conoscenza degli istituti giuridici affrontati. Ad sostenere lo scritto e a consegnare i temi, sono 3091 laureati in giurisprudenza. Oltre un anno dopo, il 25 giugno, vengono pubblicati i risultati coi nomi dei promossi. Ed è tra i temi dei 301 vincitori che ora saltano fuori le sorprese. Il tema del candidato 757, si legge nell'esposto «l'esposizione grammaticale difetta per quanto attiene l'uso del congiuntivo»; il candidato 1037 usa gli apostrofi a casaccio; il candidato 336 cita una sentenza della Cassazione che «non sembrerebbe mai stata emanata»; nel tema di diritto penale del 1333 «alcune frasi e concetti non sono nemmeno di senso compiuto», mentre il 2518 crolla anche sulla analisi logica. E poi una lunga serie di errori giuridici da matita blu, tra diritti di godimento confusi con i diritti reali e strafalcioni sulle servitù. C'è poi un altro dettaglio inquietante: numerosi manoscritti presentano stranezze grafiche che potrebbero averli resi riconoscibili da parte della commissione. E dalla loro parte, come consulente a titolo gratuito, i ricorrenti avranno una che il magistrato lo ha fatto a lungo e per davvero: Maria Rosaria Sodano, già pm a Milano e poi giudice di Corte d'appello, che ora fa da tutor agli aspiranti giudici. E che quando si è trovata davanti ai temi dei «promossi» pare che si sia messa le mani nei capelli.

Strafalcioni e firme criptate. Il concorso per diventare magistrato? Era truccato…Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Dice: vabbè, tanto si sa che spesso i concorsi sono truccati. Già, ma stavolta non era un concorso qualsiasi, era il concorso per diventare magistrati. E cioè un concorso che getta alcune centinaia di giovani dentro la magistratura, e queste centinaia di giovani potrebbero, nei prossimi anni, trovarsi a chiedere o firmare un ordine di arresto contro qualcuno di noi, o a emettere una sentenza. Diciamo che sarebbe preferibile che la selezione fosse rigorosa. E invece abbiamo scoperto che il concorso per 330 posti di magistrato è stato un pasticcio senza fine. I compiti dei candidati che sono stati promossi erano pieni di sciocchezze (cioè saranno magistrati persone che sanno pochissimo di legge) e per di più moltissimi di questi compiti erano pieni di segni di riconoscimento evidentissimi. E questo legittima il sospetto che i candidati fossero d’accordo con qualche membro della commissione per farsi riconoscere e aiutare. Capisco l’obiezione: il tuo è solo un sospetto. Sì, un sospetto robusto, mi chiedo cosa sarebbe successo se fosse uscito fuori che i compiti di qualche altro concorso pubblico erano come quelli dei candidati magistrati. Avvisi di garanzia a tutti, inchiesta e super-inchiesta, intercettazioni, Trojan, arresti e retate. Siccome però la commissione del concorso era composta da ventotto membri dei quali venti sono magistrati, non è affatto detto che scatti una inchiesta. Comunque ancora non è scattata (per ora la magistratura è troppo assorbita dal caso Suarez). Poi, a margine, c’è una seconda questione. La commissione che sceglie i nuovi magistrati è una commissione di magistrati. Cioè sono gli stessi magistrati (probabilmente spartiti per correnti) che ammettono i nuovi adepti. Esattamente come in una casta. Anzi in una setta. E poi, chi entra in questa setta, non potrà essere mai giudicato da nessuno e la setta stessa, e il caposetta, gli assicura protezione e impunità. Lui invece – il nuovo adepto – potrà giudicare chi vuole, e se sbaglia non dovrà rispondere. Medioevo? Ma forse nel Medioevo c’era più equilibrio tra i poteri. AGGIORNAMENTO – Una pratica sulle presunte irregolarità nella correzione degli elaborati al concorso in magistratura, segnalate da un esposto arrivato al CSM è stata aperta, su richiesta del laico della lega Stefano Cavanna, dalla terza commissione del Consiglio. Cavanna chiede che siano ascoltati i commissari del concorso.

Gli anomali compiti. Concorso per magistrato, è bufera sui i compiti anomali dei magistrati promossi. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Avete mai visto un giudice che invece di scrivere una sentenza disegna uno “schemino” (candidato n. 2814)? O che invece di articolare il ragionamento che lo ha condotto alla decisione si limita ad elencare gli articoli di legge (candidato n. 1333)? O che, oltre al pegno e all’ipoteca, inserisce la “servitù prediale” fra i diritti reali di garanzia (candidato n. 95)? In caso la risposta fosse negativa, preparatevi: fra poco potrà capitarvi di leggere sentenze dove i paragrafi sono stati sostituti dalle freccette dei diagrammi di flusso o dove la motivazione è come il Codice enigma, va decifrata. La lettura degli elaborati delle prove scritte dell’ultimo concorso per trecentotrenta posti di magistrato ordinario sta evidenziando più di una sorpresa, creando fin da ora ansia nei cittadini che potranno incappare in queste nuove leve togate. Diversi candidati che sono stati bocciati agli scritti hanno fatto in queste settimane l’accesso agli atti, in vista di un ricorso al Tar, per capire che cosa avessero sbagliato e quale fosse il maggior livello qualitativo degli ammessi alle prove orali. Ad assisterli Maria Rosaria Sodano, fino allo scorso anno, prima di andare in pensione, giudice della Corte d’Appello di Milano, e ora tutor di alcuni ragazzi che provano il concorso in magistratura. I compiti analizzati (in questa pagina è possibile vederne qualche esempio), alcuni redatti in un italiano improbabile, presentano poi molte “anomalie”. Ci sono elaborati scritti interamente in stampatello maiuscolo, altri con righe vuote tra una frase e l’altra, altri ancora con una infinità di correzioni e cancellature da essere illeggibili. Sul contenuto, infine, “orrori” giuridici a nastro. La genesi di questo concorso è alquanto complessa. Bandito nel 2017, la Commissione esaminatrice venne nominata ad ottobre dell’anno successivo. Le prove scritte, tre, si tennero a giugno dello scorso anno. La correzione è terminata qualche settimana fa. Come per tutto ciò che attiene il funzionamento del sistema giustizia, anche il concorso per indossare la toga non poteva essere immune dalle pressioni delle correnti della magistratura. La Commissione è composta da ventotto membri. Venti sono magistrati. Chi ha scelto queste venti toghe? Domanda retorica: Il Consiglio superiore della magistratura. Con quali criteri? Con il “sorteggio”. I magistrati che volevano far parte della Commissione esaminatrice e quindi per un paio di anni stare lontani dai tribunali, avevano segnalato il proprio nome al Csm. Sulle modalità del sorteggio non è però dato sapere. Il Guardasigilli ha poi provveduto con proprio decreto alla nomina formale della Commissione. Il concorso in magistratura ha delle regole diverse da tutti gli altri concorsi pubblici. Sui segni di riconoscimento, ad esempio, le regole in vigore prevedono solo che il candidato “non debba farsi riconoscere”, lasciando alla Commissione di turno il compito di fissare quali siano i relativi criteri. Quindi il candidato può disegnare un pallino all’inizio di ogni rigo o lasciare spazi bianchi nelle pagine ed è tutto regolare. Ed anche fare lo schemino con le freccette invece che articolare le frasi nel tema. La discrezionalità senza limiti della Commissione si spinge fino a vette inimmaginabili. Ogni esame, infatti, fa storia a sè. Lo schemino, ad esempio, poteva essere fonte di sicura bocciatura in un concorso precedente. A queste prove i partecipanti erano circa tredicimila. Poco meno di quattromila quelli che poi hanno consegnato gli elaborati. Il concorso si può tentare al massimo tre volte. Il capogruppo in Commissione giustizia della Camera Pierantonio Zanettin (FI) ha chiesto ieri al ministro Bonafede, con una interrogazione urgente, se abbia intenzione di mettere in campo qualche attività ispettiva per capire che cosa sia successo nella correzione dei compiti. Siamo già certi che non succederà nulla. Dimenticavamo: fra le riforme epocali previste dal Guardasigilli grillino vi è anche quella del concorso in magistratura: sarebbe il caso di accelerare, mettendo così ordine nel far west delle scuole di formazione, dove insegnano i magistrati, e la cui frequenza pare essere un “indispensabile” biglietto da visita per azzeccare il titolo delle tracce.

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Concorso in magistratura, il Csm apre una pratica per presunte irregolarità. Italia Oggi il 25/09/2020. La richiesta è stata avanzata dal consigliere laico della Lega, Stefano Cavanna, dopo la denuncia di alcuni candidati per presunte irregolarità nella correzione degli elaborati. La Terza Commissione del Csm ha aperto una pratica sul concorso per 330 posti di magistrato ordinario, indetto nell'ottobre del 2019 dal ministero della Giustizia. La richiesta è stata avanzata dal consigliere laico della Lega, Stefano Cavanna, dopo la denuncia di alcuni candidati per presunte irregolarità nella correzione degli elaborati. Cavanna ha chiesto anche la convocazione, a Palazzo dei Marescialli, dei componenti della commissione esaminatrice "per riferire dei fatti denunciati".

Concorso Magistratura, Il Csm Apre Una Pratica Per Presunte Irregolarità. Redazione de linserto.it il 26 Settembre 2020. Magistratura, il Csm apre una pratica per presunte irregolarità. La richiesta è avanzata dal consigliere laico della Lega, Stefano Cavanna, dopo la denuncia di alcuni candidati per presunte irregolarità nella correzione degli elaborati. La Terza Commissione del Csm ha aperto una pratica sul concorso per 330 posti di magistrato ordinario, indetto nell’ottobre del 2018 dal ministero della Giustizia. La richiesta è stata avanzata dal consigliere laico della Lega, Stefano Cavanna, dopo la denuncia di alcuni candidati per presunte irregolarità nella correzione degli elaborati. Cavanna ha chiesto anche la convocazione, a Palazzo dei Marescialli, dei componenti della commissione esaminatrice “per riferire dei fatti denunciati”.

Il fatto. Concorso in magistratura strafalcioni nei temi dei vincitori.”Roba da mettersi le mani nei capelli”. Una serie infinita di errori grammaticali. Il giudice: “Roba da mettersi le mani nei capelli”. Luis El Pistolero Suarez, il centravanti che piaceva alla Juventus, in Italia non è stato l’unico a venire trattato con indulgenza al momento degli esami. Altrettanto bene pare sia andata a numerosi aspiranti giudici. Usciti vincitori dal concorso scritto, nonostante strafalcioni che avrebbero dovuto portare alla loro bocciatura in tronco. A raccontarlo è un esposto pervenuto recentemente sul tavolo del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.

A firmarlo sono due candidati usciti dalla prova con il marchio «non idoneo». Potrebbe trattarsi, dunque, del consueto brontolio di chi vede frustrate le proprie ambizioni. Ma i due bocciati non si sono limitati a brontolare. Hanno presentato formale richiesta di accesso agli atti del concorso. Hanno potuto esaminare uno per uno i tre temi dei 301 candidati vincitori. E sono rimasti di sasso. Per alcuni dei promossi, si sarebbe potuto dire ciò che Francesco Saverio Borrelli diceva di alcuni giovani colleghi. «Non mi chiedo come abbiano fatto a vincere il concorso, mi chiedo come siano riusciti a laurearsi». In attesa di vedere come reagiranno ministro e Csm, c’è qualcuno che dovrà esprimersi per forza: il Tar del Lazio. A cui i due candidati respinti si sono rivolti per chiedere l’annullamento della prova. Nel ricorso, i due indicano a sostegno delle loro ragioni lo stesso campionario di strafalcioni catalogato nell’esposto a Bonafede. A rendere imbarazzante la questione, c’è la circostanza che se supereranno anche gli orali i somari promossi diventeranno magistrati e saranno immessi in ruolo, portandosi dietro tutte le loro lacune.

Magistratura: lo scritto della vergogna. Tutto accade il 4, 5 e 7 giugno 2019, quando si tengono le prove scritte, quelle cruciali, chi le supera ha quasi la certezza di passare anche gli orari e indossare la toga, di diritto civile, penale e amministrativo. Il 21 giugno la commissione d’esame, composta da venti magistrati e otto tra docenti e avvocati, fissa i criteri di valutazione. Tra cui c’è anche la richiesta di una «forma italiana corretta», oltre che della conoscenza degli istituti giuridici affrontati.

A sostenere lo scritto e a consegnare i temi, sono 3091 laureati in giurisprudenza. Oltre un anno dopo, il 25 giugno, vengono pubblicati i risultati coi nomi dei promossi. Ed è tra i temi dei 301 vincitori che ora saltano fuori le sorprese. Il tema del candidato 757, si legge nell’esposto «l’esposizione grammaticale difetta per quanto attiene l’uso del congiuntivo». Il candidato 1037 usa gli apostrofi a casaccio; il 336 cita una sentenza della Cassazione che «non sembrerebbe mai stata emanata». Nel tema di diritto penale del 1333 «alcune frasi e concetti non sono nemmeno di senso compiuto», mentre il 2518 crolla anche sulla analisi logica. E poi una lunga serie di errori giuridici da matita blu, tra diritti di godimento confusi con i diritti reali e strafalcioni sulle servitù.

C’è poi un altro dettaglio inquietante. Numerosi manoscritti presentano stranezze grafiche che potrebbero averli resi riconoscibili da parte della commissione. E dalla loro parte, come consulente a titolo gratuito, i ricorrenti avranno una che il magistrato lo ha fatto a lungo e per davvero: Maria Rosaria Sodano. Già pm a Milano e poi giudice di Corte d’appello, che ora fa da tutor agli aspiranti giudici. E che quando si è trovata davanti ai temi dei «promossi» pare che si sia messa le mani nei capelli. Fonte Italiaoggi.

Il dossier sui compiti falsati. Concorso magistratura truccato: il Csm apre un’inchiesta, ma solo dopo lo scoop del Riformista…Paolo Comi su Il Riformista il 26 Settembre 2020. I vertici del Csm sono a conoscenza da diversi giorni dei tarocchi contenuti negli scritti dell’ultimo concorso, bandito nel 2018, da trecentotrenta posti per magistrato ordinario. La notizia si è saputa solo ieri mattina con un lancio di agenzia a scoppio ritardato e, soprattutto, dopo che il Riformista aveva pubblicato un articolo in cui erano elencate alcune di queste “perle” giuridiche e non.  Il 14 settembre scorso, per la cronaca, era pervenuto a Palazzo dei Marescialli un corposo dossier da parte di due candidati originari del Piemonte che erano stati bocciati alle prove scritte. Le due toghe mancate, dopo aver visionato i temi dei concorrenti che erano invece stati ammessi agli orali, avevano raccolto un ricco florilegio di strafalcioni, “orrori” giuridici e segni di riconoscimento come, ad esempio, lo “schemino” redatto dal candidato numero 2814 e che, peraltro, aveva conseguito un ottimo risultato. Il primo ad attivarsi sul dossier, indirizzato anche al ministro della Giustizia, era stato all’inizio di questa settimana l’avvocato civilista Stefano Cavanna. Il laico in quota Lega a piazza Indipendenza aveva subito depositato una richiesta di “apertura pratica” al Comitato di presidenza del Csm. Fra le varie istanze, quella di svolgere “approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm”. In particolare, mediante “la convocazione dei componenti della commissione esaminatrice del concorso”, affinché riferiscano “sui fatti denunciati dai candidati”, senza escludere altre “iniziative meglio viste e/o ritenute”. Il Comitato di presidenza del Csm, composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale Giovanni Salvi, aveva dato il via libera alla richiesta di Cavanna, trasmettendo tutto l’incartamento alla terza Commissione del Csm, di cui fa parte l’avvocato della Lega e che ha fra le varie competenze quella sul concorso per diventare magistrato. Presidente di questa Commissione è la togata di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, Paola Maria Braggion. Vice presidente è il professore milanese in quota Forza Italia Alessio Lanzi. Oltre a Cavanna, la Commissione è poi composta da tre togati: l’ex aggiunto della Procura di Roma Giuseppe Cascini, il togato di Unicost Michele Ciambellini e la davighiana Ilaria Pepe. «Non voglio passare – precisa Cavanna – come il difensore d’ufficio dei bocciati: bisogna prima capire quali siano le esatte competenze del Csm in questa vicenda e poi agire di conseguenza». La vigilanza sul concorso, in effetti, spetta al ministro della Giustizia. Ma è il Csm che propone al Guardasigilli i nomi dei componenti della Commissione esaminatrice. «Mi auguro che ci sia da parte di tutti la volontà di voler approfondire l’argomento. Il tema è importante visto che si stanno reclutando dei magistrati e non degli uscieri, con tutto il rispetto per gli uscieri», prosegue Cavanna, aggiungendo che «la cosa più opportuna è ora convocare i commissari d’esame». La Commissione del concorso che a breve dovrebbe chiamare coloro che hanno passato gli scritti, ad iniziare dal candidato che invece di scrivere un tema ha disegnato uno schemino con i diagrammi, è presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia. I magistrati sono venti, diciotto i giudici e due i pm. Di questi ben sei prestano servizio negli uffici giudiziari della Capitale. Fra i nomi noti, Alcide Maritati, toga progressista, già segretario generale dell’Anm e figlio dell’ex senatore del Pd ed ex sottosegretario del governo D’Alema Alberto, anch’egli magistrato. Otto i docenti universitari. «Appena si è diffusa la notizia della mia iniziativa molti magistrati, anche capi di importanti uffici giudiziari, mi hanno scritto per dirmi di andare avanti e di fare chiarezza», sottolinea orgoglioso il consigliere della Lega. Mentre dalle parti di via Arenula tutto tace, molti ritengono che esistano tutti i presupposti perché il concorso venga annullato.

Concorso magistratura taroccato, spuntano altre anomalie. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Non solo strafalcioni giuridici e segni di riconoscimento a nastro: nell’esame per diventare magistrato spunta adesso anche la “turbo correzione”. Il concorso per magistrato ordinario non finisce mai di riservare sorprese. Anzi.  La scorsa settimana Il Riformista aveva raccontato le numerose “anomalie” contenute nei temi del concorso da 330 posti bandito nel 2018 e la cui correzione era terminata lo scorso giugno. Molti elaborati che erano stati giudicati idonei, acquisiti dai bocciati, presentavano errori macroscopici in punto di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. I candidati bocciati avevano, poi, richiesto anche i vari verbali redatti dalla Commissione esaminatrice. La Commissione, presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia, si era data delle “regole” a cui attenersi nella correzione degli scritti. La correzione sarebbe dovuta avvenire in “rigoroso ordine numerico delle buste in gruppi di dodici consecutivi”. Inoltre doveva essere predisposto un “calendario” delle attività a cui le sottocommissioni dovevano attenersi. L’accesso agli atti non sortiva però gli effetti desiderati. Non veniva, infatti, recuperato alcun calendario dei lavori. Ma non solo. Le correzioni che sarebbero dovute avvenute in rigoroso ordine cronologico erano state effettuate “random”. In particolare, alcuni compiti erano stati lasciati “indietro” e corretti solo successivamente. I verbali, poi, non indicavano le tempistiche delle correzioni. La Commissione, come è stato ricordato, ha grande “discrezionalità” sulla regole da applicare. La legge prevede solamente che “deve essere annullato l’esame dei concorrenti che comunque si siano fatti riconoscere”. In assenza di paletti da parte della Commissione, la giurisprudenza amministrativa nel tempo aveva sdoganato molte pratiche non proprio ortodosse come quella di scrivere il tema in stampatello o di lasciare spazi vuoti fra una riga e l’altra. Semaforo verde anche, con una sentenza del Tar Sicilia, per gli “schemini” in caso fossero serviti per meglio “descrivere” la prova assegnata. Le uniche regole chiare riguardavano la qualità complessiva dell’elaborato. Il tema doveva essere “corretto sotto il profilo sintattico e grammaticale” ed il candidato doveva dimostrare “adeguata padronanza della terminologia giuridica”. Entrambi i requisiti erano ritenuti “indispensabili” al fine del superamento della prova scritta. Il presidente della Commissione, infine, doveva anche prestare grande cura nella composizione delle varie sottocommissioni per garantire il “massimo grado di omogeneità” nella correzione. I componenti sono ventotto, di cui venti i magistrati. Sul concorso il ministro della Giustizia esercita “l’alta sorveglianza”. Il Csm, invece, provvede a indicare i nomi dei venti componenti togati della Commissione, composta di ventotto membri. I bocciati si stanno muovendo in ordine sparso. Alcuni hanno chiesto la ricorrezione degli elaborati, altri hanno presentato ricorso al Tar, altri ancora hanno depositato un esposto alla Procura di Roma per la verifica di eventuali illeciti penali. E non è da escludersi un ricorso collettivo al Capo dello Stato. Sul fronte del Csm il primo ad attivarsi era stato la scorsa settimana l’avvocato civilista Stefano Cavanna. Il laico in quota Lega a piazza Indipendenza aveva depositato una richiesta di “apertura pratica” al Comitato di presidenza del Csm. Fra le varie istanze, quella di svolgere “approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm”. In particolare, mediante “la convocazione dei componenti della Commissione esaminatrice del concorso”, affinché riferiscano “sui fatti denunciati dai candidati”, senza escludere altre “iniziative meglio viste e/o ritenute”. Il capogruppo in Commissione giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin aveva invece depositato una interrogazione al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sul fronte dei numeri, gli idonei alle prove scritte sono stati 301. 13.000 gli iniziali concorrenti. Quelli che avevano consegnato gli scritti, 3091.In questa vicenda al momento c’è il silenzio da parte dell’Anm: nessun commento sui futuri colleghi.

Il compito che prova la truffa del concorso in magistratura del 1992. Manuela D’Alessandro su  giustiziami.it. Questo documento è la prova solare – che vi mostriamo in esclusiva –  di come venne truccato il concorso per magistrati del 1992. Il compito del candidato non reca in calce né il voto della commissione, né le firme del segretario e del presidente, in palese violazione dell’articolo 13 della legge che disciplinava l’esame. Eppure, l’aspirante toga passò lo scritto a differenza di Pierpaolo Berardi che pure era convinto, quel giorno di maggio all’hotel Ergife di Roma, di avere sviluppato in modo più che convincente le tracce di diritto penale, romano e amministrativo. Tutti argomenti sui quali, per studio matto o perché per caso aveva seguito un seminario pochi giorni prima che riguardava proprio i temi della prova, era preparatissimo. Mentre i diòscuri di Mani Pulite seducono il Paese, il giovane avvocato astigiano comincia una battaglia lunga 20 anni per capire le ragioni di un’inspiegabile bocciatura che ora viene raccontata in un capitolo del libro "Società, crimine e diritto", scritto dal professor Cosimo Loré e pubblicato da Giuffré. Il cocciuto Pierpaolo chiede e ottiene dopo molta insistenza di poter vedere i suoi compiti e quelli degli altri. Si accorge subito che molti non sono stati nemmeno corretti. “Calcolai i tempi. Tre prove giuridiche complesse non potevano essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in tre minuti”. Più scava e più trova abissi di irregolarità. Alcuni elaborati dei promossi sono riconoscibili perché vergati in stampatello o con calligrafia doppia o segni particolari, altri sono zeppi di erroracci giuridici oppure senza voto, come quello della foto. Dagli archivi del Ministero è sparita la prova di uno dei vincitori. Il Tar e il Consiglio di Stato danno ragione a Berardi, il Csm accoglie la sua richiesta di ricorreggere i temi. Peccato che invece di nominare una nuova commissione disponga che sia la stessa che lo ha bocciato a farlo. Per oltre due decenni, e ancora adesso, alcuni magistrati che passarono quel concorso hanno deciso sulla libertà delle persone e molto altro.

Giustizia, Forza Italia: «Concorsi truccati per le toghe. Peggio dell’affaire Palamara». Francesca De Ambra su Il Secolo D’Italia, giovedì 2 luglio 2020. Peggio dell’affaire Palamara. Di tanto è almeno convinto il deputato forzista Pierantonio Zanettin, che sul punto ha presentato in queste ore un’interpellanza parlamentare. Il “punto” riguarda i concorsi per entrare in magistratura. Per l’onorevole, molte di queste prove sarebbero infatti truccate o, se si preferisce, taroccate, in ogni caso congegnate non per far prevalere i più preparati bensì i più raccomandati. Se confermato, avverte Zanettin, un recente passato anche nel Csm, si tratterebbe di uno «scandalo devastante, di gravita’ paragonabile allo stesso affaire Palamara». Sorge il legittimo dubbio, aggiunge il deputato, «che decine di magistrati in carica siano stati selezionati in questi decenni, attraverso loschi traffici».

Interpellanza del deputato Zanettin (ex-Csm). Ma su quali elementi, anzi su quali indizi si la denuncia Zanettin? Tutto nasce dalla lettura di due giornali: la Stampa e il Dubbio. Relativamente al primo, l’interpellante cita le «denunce di Domenico Quirico»; sul secondo fa riferimento proprio all’edizione odierna, in particolare ad un articolo del professor Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte Costituzionale. Tutto nasce dalla caparbietà di un candidato bocciato ai concorsi del 1992 e del 2000. Costui, racconta Zanettin, «dopo una serie innumerevole di ricorsi», riesce finalmente ad acquisire la completa documentazione del primo concorso, quello del’92. Quel che ne viene fuori, sottolinea il deputato, è «un sofisticato e truffaldino sistema, grazie al quale, gli elaborati di taluni candidati erano agevolmente individuabili».

I concorsi sarebbero quelli del 1992 e del 2000. Da quelli dei promossi spuntano segni di riconoscimento lasciati sui fogli e errori grossolani di diritto. Dai verbali dei lavori della commissione risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre minuti. La cosa singolare, sottolinea Zanettin, è che in questo tempo così esiguo, «sarebbero stati letti e giudicati collegialmente i tre elaborati scritti» L’interpellante ha chiesto al ministro  Bonafede di accertare tutti i fatti riportati, anche attraverso ispezioni mirate. Ma prima ancora Zanettin ha stigmatizzato il silenzio sulla vicenda di Csm e Anm, «tante volte così solleciti ad ergersi paladini del buon nome e dell’onore della magistratura italiana». Invece, conclude il parlamentare, sulla vicenda dei presunti concorsi truccati «non hanno proferito verbo».

La prova per magistrati. “Il concorso per magistrato è truccato, Bonafede chiarisca”, opposizioni all’attacco. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. «Il ministro Alfonso Bonafede dovrà dirci che ha intenzione di fare sul concorso in magistratura». È quanto dichiara al Riformista l’onorevole Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Montecitorio, a proposito dello scandalo emerso dopo la pubblicazione di diversi temi che erano stati giudicati idonei nonostante fossero pieni di strafalcioni e segni di riconoscimento. Tali temi erano stati recuperati da alcuni candidati bocciati alle prove scritte dell’ultimo concorso per magistrato ordinario e che avevano fatto accesso agli atti. Trecentotrenta i posti messi a bando nel 2018. Le principali “anomalie” riguardavano macroscopici errori giuridici e indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. La correzione degli elaborati era terminata lo scorso giugno. Trecentouno i candidati che erano stato giudicati idonei e quindi ammessi alla prova orale finale. La Commissione, presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia, è composta da ventotto componenti. Venti sono magistrati, otto gli avvocati e professori universitari. «Forza Italia chiederà la settimana prossima, nello spazio destinato al question time alla Camera, che Bonafede riferisca su questo increscioso accadimento», puntualizza Zanettin, ricordando che il Guardasigilli per un caso analogo, risalente addirittura agli inizi degli anni 90, non abbia mai risposto. Il caso citato da Zanettin riguarda quello di Claudio Berardi, un candidato al concorso del 1992, la cui vicenda era tornata di attualità nei mesi scorsi grazie ad alcuni articoli di stampa. Anche Berardi, ora avvocato, dopo essere stato bocciato aveva chiesto di avere in visione i temi degli idonei. Con estrema difficoltà era riuscito a recuperarne qualcuno. «La lettura di quei temi – ricorda Zanettin che aveva chiesto chiarimenti a Bonafede con una interrogazione – ha evidenziato un sofisticato e truffaldino sistema per consentire di individuarne l’autore». I “tarocchi” sembrano allora essere una costante del concorso in magistratura. «La storia si ripete», afferma Zanettin, plaudendo al fatto che il consigliere del Csm Stefano Cavanna (avvocato genovese in quota Lega, ndr) abbia chiesto ed ottenuto una apertura pratica a Palazzo dei Marescialli su questo concorso. Fra le varie istanze di Cavanna, che aveva ricevuto un esposto da parte di due concorrenti bocciati, vi è quella di svolgere “approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm”. In particolare, mediante “la convocazione dei componenti della Commissione esaminatrice del concorso”, affinché riferiscano “sui fatti denunciati dai candidati”, senza escludere altre “iniziative meglio viste e/o ritenute”. Lo scandalo, se confermato, è di inaudita gravità tale da minare la credibilità, da tempo abbondantemente sotto i minimi termini, della magistratura. «Vogliamo sapere dal ministro che attività ispettive ha posto in essere e quali iniziative di carattere normativo intende adottare per evitare che quanto denunciato possa ripetersi in futuro», conclude Zanettin. Il tema è di strettissima attualità dal momento che sono in programma a breve diversi maxi concorsi, da centinaia di posti, per magistrato ordinario. La pianta organica, infatti, è stata recentemente incrementata da Bonafede. In attesa che il Guardasigilli fornisca spiegazioni sul perché temi scritti in un italiano spesso improbabile ed infarciti di errori di ogni genere siano stati giudicati positivamente, molti bocciati hanno deciso di passare al contrattacco. La formula scelta è quella della “class action” finalizzata ad ottenere l’annullamento del concorso. Alcuni, invece, hanno scelto la strada del ricorso Tar. Il ricorso al giudice amministrativo, se accolto, avrebbe però l’unico effetto di consentire che il tema venga corretto una seconda volta. Chi è stato giudicato idoneo pur avendo scritto strafalcioni non subirebbe alcuna conseguenza. Su quanto sta accadendo si segnala, infine, il silenzio tombale da parte dei vertici dell’Anm. Nessun commento o presa di posizione sul modo in cui vengono selezionati i futuri colleghi.

A Napoli. Nasce la scuola per futuri magistrati, si insegni la deontologia. Marco Demarco su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Mezzo secolo fa, Salvatore Satta – una colonna del nostro Novecento – immaginò che uno studente gli chiedesse cosa fare per diventare giurista. «Gli direi – scrisse – che occorrono la cultura e l’esperienza». Poi, però, entrò più nello specifico e gli consigliò, prima, la lettura della Divina commedia («Se non si è letto Dante, se non si è ricreato il proprio spirito in Dante, non si può chiamarsi giuristi») e poi la lettera che Gargantua scrisse al figlio Pantagruele quando questi si avviò agli studi. Eccone un frammento. «Figlio mio, io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il latino; e poi l’ebraico per le sacre scritture, e il caldaico anche e l’arabico». A parte Dante, una tale pretesa oggi suonerebbe alquanto eccessiva. O no? Ma c’è una ragione perché tutto questo mi è venuto in mente. Proprio oggi, infatti, alle 15 in diretta streaming, l’università Suor Orsola Benincasa annuncerà la nascita della prima “scuola per la magistratura”: del primo percorso di studi universitari finalizzato alla preparazione dei futuri magistrati. Con i tempi che corrono, è sicuramente una buona notizia. E lo è doppiamente aver scelto come sede Napoli, città di grandi giuristi. Ma quel che più conta è il momento scelto per l’iniziativa, che fa della scuola quasi una misura di pronto intervento. Lo scandalo Palamara, le dimissioni dal Csm, l’imbarazzo dell’Anm, le polemiche sulle chat dei magistrati pubblicate sui giornali, il caso Berlusconi: cos’altro deve ancora succedere? Mai la magistratura italiana è stata così fortemente delegittimata da una serie tanto impressionante di fatti. Ed ecco perché una scuola arriva a proposito. Le ragioni della débâcle giudiziaria sono note, dalle riforme mancate, ai privilegi togati mai sacrificati in nome dell’interesse pubblico. Ma è inutile, ora, insistere su questo tasto o, viceversa, sul patriottismo eroico di tanti magistrati che hanno difeso la democrazia italiana. Più opportuno, piuttosto, potrebbe essere immaginare anche noi cosa insegnare ai magistrati di domani. E gira e rigira, forse anche oggi non restano che due cose: l’uso delle parole e il dominio dei comportamenti. I fatti recenti ci dicono che i magistrati devono anche imparare a comunicare e a stare in società. E poiché le cose e le parole si tengono, ciò spiega perché a molti magistrati capiti di comportarsi male e di esprimersi peggio. Si sono scritte intere biblioteche sul giuridichese, su questa lingua ostentata come sacrale, ma in realtà banalmente gergale, infarcita di pseudotecnicismi, di arcaismi, di sociologismi, di narcisismi, di luoghi comuni e di locuzioni dall’apparenza specialistica ma nella sostanza inessenziali. Il punto però è che tutto questo parlar male spesso non esprime altro che il mero compiacimento per il potere esercitato. Un potere che dovrebbe essere libero da condizionamenti e che invece non lo è affatto, specialmente quando si avvina troppo alla politica rappresentativa, addirittura fino a mutuarne le liturgie e le peggiori finalità. Ma c’è un problema. Per una scuola, insegnare a usare le parole giuste non è difficile: basta, ad esempio, impegnare uno scrittore ex magistrato come Carofiglio (devo a lui, tra l’altro, il riferimento a Salvatore Satta). Più difficile, invece, è educare alla sobrietà dei comportamenti. Un corso specifico di deontologia professionale? Magari, perché no. Nel frattempo, però, può valere come spinta motivazionale proprio il finale della lettera di Gargantua, sempre quella. Caro futuro magistrato, «guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane… Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa’ che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito…». Credo possa andar bene anche per i non credenti. 

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno".  Il Consiglio Superiore della Magistratura costretto ad ammettere: il suo scritto non era mai stato esaminato. Conseguenze? Nessuna! La vera “casta” porta la toga…Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia.

Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore.  Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era”. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame.  Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato! Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.  E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.

Toga vinta ‘un si rigioca, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, l'11 ottobre 2010 su "Il Fatto Quotidiano". Se si entra in una bisca non si può pretendere che si giochi pulito! E le selezioni pubbliche si presumono truccate ma si confermano tali appena i controlli verificano i tempi di un concorso. Come ben risulta fin da quelli per magistrato. Da chi si ricorre poi se iudex si diventa in tal modo? Si legga Le toghe ignoranti (L’espresso 9.9.2010) dove l’avvocato penalista di Asti Pierpaolo Berardi ricorda il calvario per la ricerca della verità su imbrogli a catena per commettere prima e occultare poi la serie di illeciti fatti da magistrati e politici che lo bocciarono nel concorso in magistratura svoltosi nel maggio 1992; lo boicottarono intralciandone i ricorsi per ben 16 anni: il 30 aprile del 2008, però, il plenum del Csm riconobbe che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla commissione: l’organo di controllo dei giudici dei futuri giudici, il Csm, riconobbe il falso ideologico presente nel verbale, che invece affermava esservi stato l’esame delle prove scritte. Conseguenza in relazione a questo deliberato: nessuna. Intanto gli elaborati di un candidato vincitore, certamente esaminati, sono spariti dagli archivi del ministero: il padre è un magistrato ora in pensione, la mamma e il fratello magistrati in servizio; i cugini sono anch’essi magistrati; uno aveva superato il concorso del ’92, l’altro fuori ruolo al ministero ebbe l’incarico di esaminare un esposto dell’avvocato Berardi sul concorso, intanto vinto dal fratello e dal cugino…

Nel nostro volume Medicina Diritto Comunicazione (Giuffrè Milano 2005) scrivevamo…«L’attività dei seri ricercatori, la formazione dei giovani studenti, la memoria dei grandi maestri sarebbero meglio garantite se si provvedesse ad una più seria verifica (i concorsi sarebbero pubblici…) della idoneità oltre che della capacità di chi aspira ad indossare una toga. Non meno coraggiosa la denuncia dell’avvocato Pierpaolo Berardi nata nel 1992, anno in cui consegnò i propri scritti al concorso per magistrato, grazie alla legge 241 del 1990 che gli ha consentito di verificare con quale fraudolenti trucchi e impudichi marchingegni arraffarono la toga molti candidati (gli scritti sarebbero da pubblicare e studiare per far comprendere le ragioni reali di alcune disfunzioni della giustizia…). Su tale indagine vi sarebbe stato il silenzio-stampa (di fronte a fatti simili non c’è destra o sinistra che tenga…) se non avessero ritenuto di rendere pubblica questa vicenda – che a ragione si può definire storica – due giornalisti che onorano la professione e che riteniamo doveroso citare: Massimo Numa (La Stampa del 9 settembre 2004 a pag. 12, Lo strano concorso che fa tremare trecento magistrati) e Anna Maria Greco (Il Giornale del 10 settembre 2004 a pag. 10, Dopo dodici anni, concorso «sospetto», 275 toghe rischiano il posto).» La convinzione di molti  ̶  all’interno e all’esterno degli ambiti giudiziari e accademici  ̶  è che si tratti di aree affrancate da ogni forma di controllo e caratterizzate dall’assoluto arbitrio. In sostanza ed in sintesi vi è un assai consistente rischio – nel caso si vogliano adire le vie legali – di incappare in giudici non degni della toga indossata, talora con cupa alterigia …

Concorso truffa in magistratura: i testimoni raccontano, scrive il 28 Settembre 2017 "Zone d’Ombra". La storia è una di quelle tipiche italiane. Una di quelle, per intenderci, in cui spesso ci sono di mezzo politici e personaggi poco trasparenti. Questa volta, però, c'è di mezzo l'organo istituzionale che dovrebbe garantire il rispetto della legge. La vicenda è finita, 25 anni dopo, in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Pierpaolo Berardi, allora giovane legale, è uno dei candidati di un concorso in magistratura: era il 23 maggio del 1992. A quel concorso avrebbe dovuto partecipare anche Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone rimasta uccisa poco dopo. Berardi alla lettura del titolo del tema di penale non crede ai suoi occhi: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale. Tutto fila liscio. Quando un anno dopo escono i risultati degli scritti, però, Berardi legge di essere stato bocciato.  Lui non ci sta e intraprende una battaglia. Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, ma il ministero e il Csm che oppongono resistenza. Come racconta La Stampa, l’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale ma il verbale non c’era. Berardi dopo aver vinto un ricorso al Tar scopre che: "I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no".   L'avvocato non si ferma e va avanti nella sua battaglia. Visiona anche le prove degli altri candidati promossi e scopre altre questioni: i temi sono riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro copia pagine e pagine di manuali di Diritto.  A quel punto partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo.  "Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna."  

La storia dell'avvocato Di Nardo. Un'altra denuncia sui presunti concorso truccati in magistratura è quella fatta dall'avvocato isernino, Giovanni Di Nardo. Nel 2014 l'avvocato partecipò al concorso in magistratura ma, dopo l'esame, arrivò la lettera dal ministero della giustizia che lo informò sulla non ammissione. A quel punto Di Nardo fa ricorso al Tar chiedendo in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia risulta essere piena di errori ortografici e di sintassi. A quel punti Di Nardo presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. La denuncia viene archiviata. Di Nardo presenta un esposto alla Procura Generale e, a quel punto, viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 29/10/2014, su "Il Giornale". "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive il 29 Ottobre 2014 “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani. 

Concorsi truccati in magistratura. Verso l’Ok all’inchiesta del Csm. Il caso denunciato da un avvocato bocciato due volte. Nel mirino ci sono le sessioni del 1992 e del 2000. Nicola Scuderi su lanotiziagiornale.it il 7 Luglio 2020. Sembra proprio un brutto momento per la magistratura che, ormai quotidianamente, viene travolta da scandali. Dopo i veleni tra toghe nati dallo scandalo sugli incontri carbonari promossi dal pm Luca Palamara, ora spunta pure l’ombra dei concorsi truccati per diventare pubblico ministero o giudice a mettere in ulteriore imbarazzo la giustizia italiana. Proprio ieri i componenti della prima commissione del Csm, i laici Stefano Cavanna in quota Lega e Fulvio Gigliotti di M5s (nella foto), hanno chiesto al Comitato dei presidenza dell’organo di autogoverno della magistratura, di procedere all’apertura di una pratica sul caso dei concorsi in magistratura negli anni 1992 e 2000. ACCERTAMENTI NECESSARI. L’intento è quello, come messo nero su bianco dai due consiglieri, di “effettuare un’approfondita istruttoria” e, conseguentemente “accertare l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti nell’ambito delle competenze del Consiglio, nonché al fine di adottare le iniziative meglio ritenute” in caso vengano rilevati illeciti. Una richiesta che i due componenti del Csm ritengono necessaria dopo alcune notizie di stampa, allegate agli atti, che non possono essere ignorate perché descriverebbero una situazione a dir poco allarmante e a tratti peggiore perfino di quella delineata dallo scandalo Palamara. Basti pensare che nella richiesta, senza nessun giro di parole, si fa riferimento a “un articolo ipotizzante gravissimi fatti astrattamente inficianti la regolarità del concorso di magistratura la cui prova scritta si svolse i giorni 20-21 e 22 maggio 1992 e, forse, anche il concorso dell’anno 2000, essendo emersa dalla documentazione acquisita da un ricorrente”. Per la precisione sarebbero emersi “segni di riconoscimento, nonché errori elementari di diritto negli elaborati di alcuni vincenti”. Gli stessi consiglieri, inoltre, ricordano che sul caso tempo fa è intervenuto perfino l’ex vicepresidente della Corte Costituzionale, Guido Neppi Modona, che “lamentava il silenzio assordante degli organi posti al vertice della magistratura, Csm compreso”. Dopo gli scandali che hanno terremotato le toghe, non si può più fare finta di niente. Così quella denuncia di un avvocato, bocciato per due volte all’esame da magistrato, dopo 28 anni richiede che ci sia un approfondimento. Del resto quanto sostenuto dall’allora candidato è di inaudita gravità perché sarebbe emerso, dai documenti sui test da lui faticosamente ottenuti e solo a seguito di una lunga battaglia legale, sarebbe emerso che sui compiti dei promossi erano presenti evidenti segni di riconoscimento lasciati sui fogli così da renderli riconoscibili quando, invece, sarebbero dovuti essere completamente anonimi. Ma c’è molto di più. Gli stessi elaborati presenterebbero anche errori grossolani di diritto e, cosa a dir poco incredibile, dai verbali dei lavori della commissione esaminatrice sarebbe emerso addirittura che la valutazione media per ciascun candidato è durata tre minuti. Un tempo record, se confermato, considerato che sarebbe dovuto servire per leggere tre elaborati scritti, di materie tutt’altro che semplici, e, successivamente, giudicarli. Una vicenda per la quale già nei giorni scorsi si era mossa la politica tanto che il 2 luglio il deputato forzista Pierantonio Zanettin ha presentato un’interpellanza parlamentare per chiedere al ministro Alfonso Bonafede di fare luce sui concorsi incriminati visto il silenzio che, almeno fino a quel momento, proveniva dal Csm e dall’Anm.

Il concorso truccato per magistrati. Un avvocato svela la truffa del 1992. Il Csm ammette: il suo scritto non è mai stato esaminato. Selma Chiosso su La Stampa il 28 Settembre 2017. Era vestita di bianco, Francesca Morvillo. è il 23 maggio 1992 e all’hotel Ergife di Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. Lei alle 16 saluta, deve prendere l’aereo per Palermo. Rimarrà uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Concorso tanto particolare da finire ora in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Il dietro le quinte lo si deve 25 anni dopo alla caparbietà di Pierpaolo Berardi, avvocato astigiano. L’allora giovane legale è uno dei candidati. Quando legge il titolo del tema di penale si frega le mani soddisfatto: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale; la prova di amministrativo fila liscia; quella di diritto privato e romano è stata oggetto di un seminario seguito poco prima. Un anno dopo, quando escono i risultati degli scritti, non riesce a credere ai suoi occhi: bocciato. Ed è lì che inizia la sua battaglia; da un lato Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, dall’altra il ministero e il Csm che oppongono resistenza. L’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale. «Mi dissero al telefono che il verbale non c’era» racconta oggi. Quando, dopo un ennesimo vittorioso ricorso al Tar, ha prove e verbali ecco cosa scopre: «I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no». Va avanti e la legge gli consente di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scopre altre perle: temi riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro (si potevano solo consultare i codici) è degno di Pico della Mirandola: pagine e pagine copiate da manuali di Diritto. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del tribunale dei ministri. Il ministero con estremo imbarazzo risponde a Berardi: le sue prove non sono in archivio. Un giallo. Partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo. Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.

Toghe e concorsi truccati, trent’anni di beffe e ricorsi. Domenico Quirico il 29 Giugno 2020 su La Stampa. Toghe e concorsi truccati. “Io, beffato trent’anni fa, lotto ancora per la giustizia”. Dopo l’esclusione, l’avvocato Berardi ha iniziato la battaglia contro il malaffare tra le toghe. «La magistratura è come la chiesa, dove ci sono i pedofili e i santi e quelli che stanno in mezzo». Un ricorso, il primo, poi sono diventati decine: ma è lì che avviene per l’avvocato Pierpaolo Berardi la fusione tra due memorie, quella oggettiva, documentaria con quella per così dire personale, proustiana. Comincia così: «Io sottoscritto dottor avvocato Pierpaolo Berardi nato ad Asti il 10 ottobre 1964 sostenevo in data 20 -21- 22 maggio 1992 le prove scritte del concorso per uditore giudiziario. All’esito dei risultati degli scritti risultavo non idoneo in tutte e tre le prove…». In calce, accanto alla firma, la data: 6 ottobre 1992. I 28 anni che seguono sono fiaba di ingiustizia contorta e di infinita proliferazione, Iliade di convulse guerre di attrito in tribunali amministrativi, procure, Consiglio superiore della magistratura. Perfino un paio di presidenti della Repubblica hanno dovuto chinarsi sul soggetto. Perché Berardi, che è ora penalista ad Asti, ha cocciutamente esibito le prove che quel concorso per le toghe era truccato, fasullo. E nessuno ha potuto negarla, quella scomoda evidenza documentale. Sentenze inorridite lo provano. Ma tutto è rimasto come prima. Il sistema, fatto ahimè anche di privilegi consortili e variegato malaffare, intinto nella italianissima pece di parentele, amicizie, raccomandazioni, scambi dinastici, non riconosce errori.  Attenti. Ora non è più la storia di una singola partita defatigatoria per ottenere la riparazione di un torto amministrativo, la lotta burocraticamente esemplare di un Sisifo della giurisprudenza. Tema appetitoso, ma quasi letterario. Nel frattempo è accaduto qualcosa che costringe a rileggerla [...]

Concorsi truccati per diventare magistrati: il Csm resta muto? Prof. Guido Neppi Modona, già vice presidente della Corte Costituzionale, il 2 luglio 2020 su Il Dubbio. Il trucco degli elaborati non anonimi e degli esaminatori truffaldini: un gravissimo danno d’immagine cui va posto rimedio. Su La Stampa di lunedì 29 giugno, Domenico Quirico ha delineato un quadro agghiacciante dei concorsi per l’ingresso in magistratura, una sorta di premessa a quanto abbiamo recentemente scoperto con la sciagurata vicenda Palamara. A seguito di innumerevoli ricorsi un concorrente bocciato nei concorsi del 1992 e del 2000 è riuscito ad acquisire la completa documentazione relativa del concorso del 1992, ed è appunto a quella documentazione che si riferisce l’articolo di Quirico. Che scandalo silenzio di tutti, Csm compreso, sui concorsi truccati per diventare magistrati. Veniamo così a conoscenza del sofisticato e truffaldino sistema grazie al quale gli elaborati di alcuni candidati, che dovrebbero essere tutti rigorosamente anonimi, erano invece agevolmente individuabili; erano appunto quelli dei candidati che dovevano essere comunque dichiarati idonei, quelli per cui si era mossa la macchina della corruzione che attraverso vari passaggi arrivava ai componenti – magistrati e professori universitari – della commissione giudicatrice del concorso. I segni di riconoscimento lasciati sugli elaborati consistevano ad esempio nel saltare la prima riga dei fogli formato protocollo ovvero scrivere una facciata sì e una no. Ed ancora, dai verbali dei lavori della commissione giudicatrice risulta che la valutazione media su ciascun candidato è durata tre (3) minuti, durante i quali si sarebbe dovuto leggere e valutare collegialmente i tre temi di diritto civile, penale e amministrativo. Certo, la commissione era in grado di lavorare speditamente, posto che si sapeva in anticipo quali erano i candidati che dovevano comunque essere promossi. Pare anche che i temi di alcuni degli idonei contenessero errori clamorosi e grossolani, impensabili per qualsiasi laureato in legge. Siamo così venuti a conoscenza che un certo numero di magistrati per definizione truffatori, corrotti e corruttori da decenni esercitavano impunemente funzioni giudiziarie in cui vengono necessariamente in gioco fondamentali diritti personali e patrimoniali dei cittadini. Ho atteso qualche giorno a scrivere su questa vicenda perché mi auguravo che l’articolo suscitasse qualche reazione, qualche presa di posizione degli organi posti al vertice della magistratura o deputati al suo governo, dal presidente al Procuratore generale della Cassazione, dal Consiglio superiore della magistratura al ministro della giustizia. Purtroppo l’unica risposta è stata un silenzio assordante. Il che vuol dire che quelle rivelazioni non potevano essere smentite e che il Csm e i vertici della magistratura ne erano al corrente. Ma queste implicite ammissioni non bastano, i cittadini e la stragrande maggioranza dei magistrati onesti, quelli che hanno vinto il concorso senza ricorrere a loschi traffici e svolgono degnamente il loro mestiere, vogliono sapere di più. Vogliono sapere se i concorsi truccati del 1992 e del 2000 sono stati deviazioni isolate o costituiscono una prassi costante e tuttora attuale; se a suo tempo erano stati iniziati procedimenti penali e disciplinari nei confronti dei magistrati corrotti che facevano parte delle commissioni di concorso; se i magistrati truffaldini entrati abusivamente in carriera, di cui sono noti i nomi, sono stati destituiti e denunciati in sede penale; se e quali misure i vertici della magistratura e il Csm intendono assumere per evitare che la vergogna dei concorsi truccati possa ripetersi. Vi è da domandarsi quale fiducia possono riporre i cittadini in una magistratura di cui continuano a fare parte giudici e pubblici ministeri che erano già corrotti e corruttori prima ancora di entrare in servizio. Il gravissimo danno di immagine e di credibilità arrecato alla magistratura italiana potrà essere almeno parzialmente riparato solo da immediate risposte che dimostrino la volontà di contrastare lo scandalo dei concorsi truccati. Il silenzio del Consiglio e dei vertici della magistratura significherebbe che bisogna accettare di convivere con una fetta minoritaria ma potente – il caso Palamara insegna – di magistrati corrotti e corruttori. Ma questo atteggiamento non sarà mai avallato – ne sono certo – dalla stragrande maggioranza dei magistrati onesti e dalle forze politiche che si richiamano ai principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e della soggezione dei giudici soltanto alla legge.

·         Togopoli. La cupola dei Magistrati.

Magistrati indipendenti dalla politica ? Macchè, sono i primi che vogliono “fare politica”! Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2020. In 25 (tra cui Albomonte e Poniz) lasciano Magistratura Democratica: “Luogo escludente che seppellisce nel silenzio il dissenso interno”. Una decisione “dolorosa”, spiegano i firmatari nel lungo documento con cui hanno annunciato l’addio, per imprimere una “formidabile accelerazione” alla scelta di abbandonare il percorso verso Area. 25 magistrati iscritti a Magistratura democratica, tra i quali Eugenio Albamonte e Luca Poniz entrambi ex presidenti dell’ Anm, l’ Associazione Nazionale Magistrati , hanno annunciano la loro uscita dalla “storica” corrente di sinistra. Una frattura netta che emerge dal lungo documento firmato dai magistrati che definiscono “dolorosa” la propria scelta di staccarsi da Md definendolo “Un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area e che seppellisce nel silenzio il dissenso interno“. Avete letto bene: progetto politico !!! “E’ ormai compromessa ogni possibilità di continuare a lavorare insieme e a riconoscersi in questa MD, che seppellisce nel silenzio il dissenso interno e a noi appare ormai come un luogo escludente, autoreferenziale, assente dal dibattito politico reale, proteso ad una narrazione costantemente autoassolutoria degli eventi, opaco e ambiguo rispetto al progetto politico di Area”, aggiungono i magistrati dissidenti puntando il dito contro la dirigenza, a loro opinione responsabile di aver impresso una “formidabile accelerazione” alla scelta di abbandonare il percorso verso Area, il gruppo comune con il Movimento per la giustizia, che vede unite da tempo le due correnti all’Associazione Nazionale Magistrati ed al Consiglio Superiore della Magistratura. Un errore secondo i 25 magistrati dissidenti secondo i quali la corrente di Area rappresenta ” l’unico soggetto politico” all’interno del quale “realisticamente è possibile provare a costruire un progetto di radicale rinnovamento della magistratura” . E “oggi che la questione del correntismo e delle sue degenerazioni è esplosa con tutta la sua violenza, la scelta di impiegare tutte le nostre energie” in questo progetto, scrivono, “è divenuta non più rinviabile”. La decisione dei 25 di staccarsi da Md secondo loro non va però intesa come una svolta moderata ai fini del consenso, sostenendo che è “una scelta pienamente in linea con le ragioni fondanti del gruppo di Magistratura Democratica, l’ambizione e l’aspirazione di cambiare la magistratura. Per questo non ci sembra più possibile rimanere iscritti a Magistratura Democratica”. Abbiamo letto e riletto più volte il lungo comunicato e ci siamo chiesti: e questa sarebbe la magistratura che vuole essere indipendente dalla politica, salvo poi farla loro, senza alcun delega elettorale ricevuta dal popolo ? La verità è che questa “casta” sta diventando un cancro sempre più pericoloso per la vita democratica del Paese, assoldando i soliti “pennivendoli” (chiamarli giornalisti ci disturba) proni in ginocchio ai voleri di questa magistratura sempre più politicizzata . Più il Paese è scivolato in una profonda crisi economica, arrivando a perdere il 30 per cento nel prodotto nazionale lordo rispetto ad altri paesi oltralpe come ad esempio la Francia, più la politica e il Parlamento hanno perso credibilità con l’arrivo del Movimento 5 Stelle, e più la magistratura si è allargata, assumendo un ruolo politico che non è proprio. Va ricordato che parte della politica e del Parlamento, ha rinunciato sempre più volentieri al proprio ruolo. Dapprima chiedendo legittimazione ai vari Di Pietro, De Magistris e compagnia varia, poi teorizzando addirittura insieme al M5S, il “primato” delle Procure. Un circolo “vizioso” questo da fermare al più presto possibile sperando che sia ancora un punto di non ritorno. L’arroganza e l’ambizione politica di una certa magistratura è figlia della crisi della politica. Se i magistrati avessero la statura morale, l’autorevolezza necessaria sarebbe auspicabile un loro maggiore impegno politico, chiaramente candidandosi e facendosi eleggere dai cittadini in Parlamento. Da quello che è sotto i nostri occhi, onestamente non sembra una realtà possibile …

Con le correnti e senza autocritica non si va lontano. Dimissioni in massa dall’Anm, altri 30 magistrati pronti a lasciare. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. «Ci sono diversi magistrati che stanno seriamente valutando di lasciare l’Associazione nazionale magistrati. Molti di loro, ed è più che comprensibile, sono titubanti perché la scelta è lacerante e c’è il timore di sentirsi abbandonati a se stessi. Io vorrei tranquillizzare questi colleghi: se decidono di lasciare l’Anm non resteranno soli. Ci sono tante brave persone che in questo momento sono disposte ad accoglierli in una nuova casa». Paolo Itri, pm attualmente in forza al pool Antimafia di Napoli, spiega le ragioni del distacco suo e di alcuni colleghi dall’Associazione. Anche se è presto per pensare alla nascita di una nuova associazione che possa accogliere gli indignati del metodo Palamara, sembra che un progetto ci sia già: «Si può pensare a un’associazione di natura culturale che abbia una duplice condizione per potersi iscrivere: l’appartenenza all’ordine giudiziario, quindi si tratterebbe di un’associazione di magistrati, e il non essere iscritti all’Associazione nazionale magistrati. Un’associazione culturale con valori ideali nei quali ci si possa riconoscere, con il totale e definitivo superamento della logica correntizia che è una logica vecchia, che ha dato pessima prova di sé e che, è inutile illudersi, non è capace di emendarsi da quelle che sono state le gravissime deviazioni a cui ha dato luogo». «La logica correntizia – ribadisce Itri – va semplicemente superata e basta». Sarebbero una trentina i magistrati napoletani pronti ad andare via dall’Associazione nazionale magistrati, seguendo la scelta fatta nei giorni scorsi da Itri e da altri quattro colleghi (i giudici Dario Raffone, Federica Colucci, Michele Caccese, Giuseppe Sassone). Ed è, inoltre, notizia di questi giorni anche la decisione di Catello Maresca, attuale sostituto alla Procura generale di Napoli e ormai protagonista di un caso che si è creato attorno alla sua possibile candidatura a sindaco di Napoli, di abbandonare l’Anm. «Per quanto ne sappia, si tratta di motivazioni personali che nulla hanno a che vedere con le nostre argomentazioni – spiega Paolo Itri – anche se possono esserci punti di contatto nel ragionamento che fa lui e in quello che facciamo noi». Sta di fatto che l’Associazione nazionale magistrati continua a perdere pezzi, e potrà perdere con essi anche credibilità, rappresentatività, quindi potere. «Noi siamo fortemente critici non solo nei confronti dell’attuale assetto dell’Anm, ma anche verso l’assoluta mancanza di autocritica che registriamo da parte dell’Associazione nazionale magistrati rispetto a determinate gravissime vicende che hanno visto coinvolti esponenti e rappresentanti dell’Associazione stessa, vicende rispetto alle quali né l’Associazione al proprio interno né la politica, e purtroppo dispiace dirlo, sta assumendo alcun genere di iniziativa atta a evitare il perpetuarsi di comportamenti che sono al di fuori di ogni regola e – commenta Itri – ai limiti dell’eversione». L’Anm appare come un’entità chiusa in se stessa e chiusa al dialogo. «Per dialogare bisogna essere in due, di fronte a chi non vuol dialogare non ci può essere alcun rapporto e per noi l’Ann non esiste più». Nelle parole di Itri c’è amarezza, ma anche voglia di guardare al futuro: «Per anni c’è stata una gestione clientelare e correntista delle nomine e delle questioni collegate, ora registriamo un’esigenza comune di totale e radicale cambiamento». Quanto al caso Maresca, Itri preferisce non commentare le voci su una possibile candidatura a sindaco («Sono scelte personali del collega», precisa) ma commenta la posizione dell’Anm che a Maresca ha chiesto pubblicamente di fare chiarezza sulla decisione di accettare la candidatura facendo riferimento anche a esigenze di tutela dell’immagine dell’intera magistratura: «Penso che per poter criticare determinate scelte e comportamenti – chiosa Itri – bisogna avere la statura morale per poterlo fare. Prima di indicare agli altri quali linee di comportamento tenere e quali sono le più consone ai canoni etici e deontologici, occorre rendersi credibili e l’Associazione nazionale magistrati, a seguito delle ben note vicende che l’hanno riguardata, non ha fatto quello che doveva fare, tanto che determinati errori sembra che continuino a perpetuarsi».

Le chat con l’ex zar delle nomine. La Gip di Reggio accusa: magistrati imparentati con le cosche. Paolo Comi su il Riformista il 19 Dicembre 2020. Al Palazzo di giustizia di Reggio Calabria ci sono magistrati che hanno parenti (ed affini) ‘ndranghetisti. La pesantissima accusa viene dal presidente della sezione penale del Tribunale della città calabrese, Tommasina Cotroneo. La circostanza è emersa, come sempre, dalla lettura delle chat dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara, una fonte inesauribile di informazioni per comprendere “dall’interno” le dinamiche della magistratura in tema di incarichi e promozioni. A tal riguardo, secondo alcune indiscrezioni, le chat più significative, insieme ad altro materiale inedito, dovrebbero confluire in un libro, suddiviso in capitoletti per singolo distretto giudiziario, che Palamara ha iniziato a scrivere in questi giorni dopo aver trovato l’editore. «Ci sono tanti magistrati Luca che qui hanno parenti ed affini mafiosi e solo me hanno tirato fuori», scrive la dottoressa Cotroneo il 3 gennaio del 2018 a Palamara. «Che io sappia almeno tre», aggiunge la magistrata, all’epoca esponente di punta di Unicost, la corrente di centro all’interno dell’Anm di cui Palamara era il capo indiscusso. La “confidenza” è in risposta ad una nota informativa nei suoi confronti trasmessa al Csm da Bernardo Petralia, in quel momento procuratore generale a Reggio Calabria prima di essere nominato da Alfonso Bonafede Capo del Dap. «Petralia – precisa Cotroneo – mi ha convocata per avvertirmi che ha comunicato al Csm perché doveva la vicenda sull’altro mio cugino, il secondo di cui ti avevo parlato. Dicendomi che incontestabile la mia condotta era la seconda vicenda di parentela che doveva comunicare». Cotroneo spiega a Palamara su cosa verte la nota: «Comunque sostanzialmente si tratta di due cugini come ti avevo detto da subito. In questo caso la comunicazione riguarda l’altro dei due. La problematicità però riguardava il cugino di cui già il Csm ha discusso». Per poi aggiungere: «Le vicende dei miei parenti sono state sempre conosciute dalla Procura. Da Pignatone (Giuseppe, già procuratore di Reggio Calabria e di Roma, adesso presidente del Tribunale pontificio, ndr) in avanti ed anche prima». «Non si tratta di prossimi congiunti peraltro ma cugini con cui non ho rapporti da 20 anni», conclude Cotroneo. Chi siano questi cugini non è dato sapere. Al Csm la pratica è secretata. Alcuni dicono che siano della piana di Gioia Tauro, altri che siano del clan dei Tegano, fra i mandanti, secondo le accuse, dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. «Avranno pane per i loro denti», risponde subito Palamara. «Se non ci fossi tu mi farebbero a pezzi. Tanto gli sto sul cazzo?», replica Cotroneo. «Ci temono, e molto», ribatte Palamara. Cotroneo è legatissima all’ex presidente dell’Anm, recentemente radiato dalla magistratura: «Tu non capisci cosa rappresenti. Io per te mi farei uccidere». La magistrata, comunque, è prodiga di consigli per Palamara: «Non ti fare intimorire da questi di Area (la corrente di sinistra delle toghe, ndr). Sono maestri in questo. Che vadano a fare in culo se è il caso». Ma torniamo alla nota informativa inviata al Csm. «C’è sempre di mezzo Gerardis (Luciano, presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, ndr) in ogni cosa che mi riguardi e Petralia (Bernardo, ndr) e Gerardis sono amici intimi. Proprio Gerardis mi ha chiamata stamattina per dirmi che mi voleva parlare Petralia», puntualizza ancora Cotroneo, sottolineando: «Vedi che Petralia è un vigliacco e se sente fiuto di Csm … mente, Gerardis è vigliacco e ipocrita». Da informazioni assunte non pare siano stati effettuati in questi mesi accertamenti sulla veridicità o meno delle affermazioni della dottoressa Cotroneo. A carico di quest’ultima, invece, è stato aperto un procedimento disciplinare per altre sue affermazioni contenute nella chat in occasione del voto del Csm per il posto di presidente di sezione per il quale aveva fatto domanda. Questa l’incolpazione della Procura generale della Cassazione: «Aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, al quale lei stessa concorreva, prospettando a Palamara la strategia da seguire al fine di prevalere su Katia Tassone e Daniele Cappuccio, consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi». Cosa aveva detto la dottoressa Cotroneo a Palamara ? «E poi devo dirti a questo punto delle cose sulla Tassone visto che si deve giocare con le loro carte. È una persona pericolosa e senza nessuna sensibilità istituzionale con un padre pieno di reati fiscali ed una impossibilità di vendere un suo bene in esecuzione immobiliare a Vibo per le pressioni che evidentemente esercita». E ancora: «Lei peraltro a seguito di una causa civile che la vedeva parte soccombente rispetto ad un vicino di casa ha mandato al giudice civile che aveva la causa una foto wapp con le immagini del suo appartamento e sotto scritto ‘senza parole’ stigmatizzando così la decisione di quel giudice. Quest’ultimo ha raccontato tutto a Gerardis che non gli ha detto di relazionare altrimenti a quest’ora la signorina Tassone sarebbe stata sotto procedimento disciplinare. Fagliele sapere queste cose al suo mentore (verosimilmente un consigliere del Csm, ndr)». «Non l’hanno mai voluta la Tassone – continua Cotroneo – perché conosciuta da tutti come pericolosa per i suoi tratti caratteriali. Sarebbe un presidente di sezione pericolosissimo. Quanto alla giurisdizione sconosce il ragionamento probatorio». E per l’altro concorrente: «Cappuccio sta presiedendo ora un maxi in Corte e si è talmente incartato che farà scadere i termini». Affermazioni che hanno già superato il vaglio della fase predisciplinare della Procura generale della Cassazione. Responsabile di questa fase istruttoria è l’Avvocato generale Pietro Gaeta, fratello di Rosalia Gaeta, giudice al Tribunale di Reggio Calabria e moglie del presidente Gerardis, quello ritenuto dalla dottoressa Cotroneo “vigliacco e ipocrita”.

«Avvocati ficcanaso, fuori dal Consiglio giudiziario!». L’editto bulgaro delle toghe baresi. Errico Novi su Il Dubbio il 17 dicembre 2020. I togati del Consiglio giudiziario pugliese: «No al diritto di tribuna dei laici quando discutiamo delle nostre promozioni». Una decisione che resterà alla storia. A Roma, a poche ore di treno da Bari, proprio ieri è toccato all’avvocatura esprimersi sulla riforma del Csm. Su una riforma che, per inciso, contiene una parziale ma pur significativa novità in materia di Consigli giudiziari: stabilisce che in queste articolazioni locali dell’autogoverno, la magistratura non può essere sola, in alcun caso, inclusi quelli in cui si decide sulla professionalità di un giudice. Nei pareri (da inviare al Csm) approvati dai Consigli giudiziari sugli scatti di carriera, avvocati e professori (cioè i “laici”) devono esserci sempre, dice una volta per tutte l’articolo 3 comma 1 lettera a) del ddl Bonafede. In casi del genere, c’è il diritto di “tribuna”, anche se non quello di voto: comunque un passo avanti. Bene. Anche se dal punto di vista del Cnf e delle altre rappresentanze forensi il diritto di voto andrebbe sempre previsto. Ma sentite cosa avviene nell’altro “polo” della ormai annosa questione: a Bari, oggi, i tre componenti avvocati e la rappresentante dell’accademia non parteciperanno, per protesta, alla prevista riunione del Consiglio giudiziario. Motivo: la maggioranza togata metterà ai voti, e approverà in modo “bulgaro”, una modifica del regolamento con cui si elimina proprio quel “diritto di tribuna” che a Bari, come in altri 14 distretti giudiziari, era già stato riconosciuto ai “laici”, prima ancora che il ddl Bonafede entri in vigore. Un «gravissimo arretramento culturale», scrivono gli avvocati eletti nel Consiglio giudiziario di Bari, in una lunga e amara lettera rivolta ai due componenti di diritto dell’organismo, che — come dappertutto — sono il presidente della Corte d’appello e il procuratore generale. «La logica seguita dai consiglieri, in aperto contrasto con l’esigenza di sempre maggiore trasparenza della magistratura, appare rispondere a scelte chiaramente corporative», scrivono i tre avvocati, «frutto di logiche interne e di quella sorta di allontanamento dalla realtà che finisce con lo sfociare in un elitarismo anacronistico, benzina per la sempre crescente sfiducia della collettività nella magistratura e quindi nella Giustizia del nostro Paese». Ancora, secondo i tre rappresentanti del Foro — Gaetano Sassanelli per gli avvocati di Bari, Giuseppe Limongelli di Foggia e Diego Petroni di Trani — gli atteggiamenti dei “togati” appena entrati in carica ( a novembre) sembrano «lesivi del rispetto non solo dei singoli componenti, ma proprio dell’intera categoria dagli stessi rappresentata e quindi anche dell’avvocatura». I magistrati oltretutto sbattono la porta in faccia al Foro in un momento in cui proprio grazie alla «sempre maggiore collaborazione» offerta dagli avvocati si è riusciti ad affrontare il dramma del covid. Rilievi davvero difficili da contestare, soprattutto perché, come ricordano ancora i tre consiglieri indicati dall’avvocatura, i «metodi sbrigativi che prescindono dal confronto» sembrano concepiti per «imporre quanto a tavolino era stato deciso al di fuori dal consesso». A cosa si riferiscono, i tre consiglieri, nella lettera inviata a presidente e pg della Corte d’appello? Nella precedente riunione, tenuta lo scorso 3 dicembre, i dieci togati elettivi si erano presentati con la mozione già pronta per essere messa ai voti: «Riteniamo non necessario discuterla. È evidente come sull’argomento», cioè la cacciata dei “laici” dalle assemblee in cui si discute di promozioni per i magistrati, «ci sia una netta maggioranza: noi togati siamo tutti favorevoli». Il presidente della Corte d’appello, Franco Cassano, legge e trasecola. E ribatte: «Io non la metto all’ordine del giorno, mi dispiace. Se volete se ne discute nella prossima riunione del Consiglio giudiziario». In quella fissata per oggi, appunto. Che rischia di registrare un fatto clamoroso: la totale e definitiva assenza dei laici dalle attività dell’organismo. I tre rappresentanti del Foro infatti, nella lettera a Cassano e alla pg Annamaria Tosto, esprimono non solo la loro incredulità, ma anche la ferma determinazione a «rimettere nelle Vostre mani i nostri mandati in ragione della totale inutilità, a queste condizioni della nostra presenza. Se le decisioni devono essere adottare al di fuori del Consiglio e prima di qualunque confronto, come invece ci insegna la nostra Costituzione, allora», scrivono gli avvocati Sassanelli, Limongelli e Petroni, «procedano pure senza la nostra presenza, così risparmiando all’avvocatura una mortificazione tanto ingiusta quanto grave». La consigliera rappresentante dell’accademia, la docente dell’università di Bari Carmela Ventrella, non può rimettere il mandato — lo impedisce il regolamento dell’ateneo — ma ha già fatto sapere che la propria investitura resterà “bianca”, e cioè che anche lei non si farà più vedere in alcuna riunione dell’organismo. La storia non si comprende se non si spiega un antefatto. Come detto, la legge al momento non prescrive il diritto di tribuna dei laici, nelle riunioni dei Consigli giudiziari destinate alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Ma intanto, come ricordato dalla lettera degli avvocati, in 14 distretti su 26 la prerogativa è ormai riconosciuta per regolamento. Una prerogativa importante, perché qualora le solite correnti intendessero far promuovere un collega non proprio irreprensibile, sarebbe più difficile che possano farlo senza imbarazzi se alla riunione partecipano, pur senza votare, anche gli avvocati. Ma non è solo questo. A Bari il diritto ad “assistere”, per i laici, non era previsto, all’inizio della scorsa consiliatura. Poi si sono verificate un paio di cosette: la vicenda di Palamara a livello nazionale e, a livello locale, il caso dei magistrati di Trani accusati di aver pilotato e dirottato indagini. Cosicché la componente togata del “vecchio” Consiglio giudiziario decise che era opportuno offrire anche all’esterno un segnale di trasparenza, e aprire le porte di qualsiasi riunione anche ad avvocati e professori. Adesso, come si legge nella lettera a Cassano e Tosto, si torna indietro. Come se si preferisse gestire solo tra le correnti quelle questioni delicate e a volte imbarazzanti che hanno già scatenato un uragano per l’intero ordine giudiziario del Paese. Un «gravissimo arretramento», scrivono gli avvocati. Si accettano proposte per trovare una definizione migliore.

Follia al Csm: il sostituto pg Casella, accusatore di Palamara, gli chiedeva favori…Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2020. Quando si tratta di esprimere una valutazione sul comportamento delle toghe, il ministro della Giustizia è solito girarsi dall’altra parte. Anche se la Costituzione gli attribuisce la facoltà di promuovere l’azione disciplinare, Alfonso Bonafede resta sempre silente. Meglio non pretendere posizione, si sarà detto dopo aver visto cosa era successo in casi analoghi ai suoi predecessori a via Arenula, ed attendere che siano i magistrati a togliergli le castagne dal fuoco. Il Palamaragate, a tal proposito, è stato un grande banco di prova per il mutismo del Guardasigilli. Tralasciando la nomina di Marco Mescolini a procuratore di Reggio Emilia, con ben otto interrogazioni parlamentari di cinque diversi partiti alle quali in questi mesi Bonafede non ha mai trovato il tempo di rispondere, c’è un altro episodio, forse ancor più clamoroso, che è finito nel dimenticatoio. La vicenda riguarda l’avvocato generale Piero Gaeta, colui che ha chiesto e ottenuto la rimozione di Palamara dalla magistratura nelle scorse settimane. Il caso è stato sollevato da Maurizio Gasparri lo scorso giugno. Il senatore di Forza Italia si domandava come Gaeta avesse potuto occuparsi di muovere le accuse a Palamara posto che «si scriveva e si incontrava con l’indagato per discutere, a quanto appare, della sua carriera. È opportuno che Gaeta, che spunta nelle scandalose intercettazioni giudichi chat in cui lui stesso viene evocato? Emergono incontri Gaeta-Palamara, finalizzati a cosa? Al sostegno di Palamara alla carriera di Gaeta o a cosa?». Il nome di Gaeta, esponente della corrente Magistratura democratica e quindi della sinistra giudiziaria Area – come l’altro accusatore, il sostituto pg Simone Perelli, e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che li ha entrambi delegati – ricorre molte volte nella chat tra Palamara e Pina Casella, anch’ella sostituto procuratore generale della Cassazione ed esponente della corrente Unicost cui apparteneva l’ex presidente dell’Anm. Il ruolo della dottoressa Casella di “testa di ponte” tra gli aspiranti in servizio alla Procura generale (ma non solo) e Palamara emerge da molte conversazioni. Il 6 dicembre 2017 Casella scrive a Palamara: «Grazie per Gigi Salvato hai davvero contribuito a migliorare l’ufficio. Un abbraccio», riferendosi alla nomina di Salvato ad avvocato generale in Cassazione, altro accusatore nel Palamaragate. Il 10 gennaio successivo sempre Casella scrive a Palamara: «Ciao Luca. Carmelo ti porterà un mio messaggio…a cui tengo molto…poi la prossima settimana ci vediamo. Baci. Ps: sono qui con Maria Teresa Cameli (aspirante procuratore di Forlì, ndr). Aspetta tue notizie». Il Carmelo “messaggero” è il successore di Piercamillo Davigo al Csm Carmelo Celentano, ed a proposito della dottoressa Cameli il 31 gennaio 2018 Palamara risponde: “Votata Cameli”. Dopo due minuti Casella: «Una buona notizia dopo tre giorni difficili. Grazie». Risponde subito Palamara: «Stiamo recuperando su tutto». Ribatte Casella: «Volere è potere». La sostituta pg in Cassazione, sempre sui medesimi argomenti, scrive a Palamara il 10 febbraio 2018: «Quando hai le idee chiare mi fai sapere come sei orientato per pst Rimini ancona Macerata e Pesaro? Baci». Risponde Palamara: «Assolutamente si. Ancora nessuno in trattazione».  Ancora Casella a Palamara il 12 febbraio 2018: «Che aria tira per Carmelo Sgroi??» Subito Palamara: «Non facile. Ma ci stiamo lavorando». Replica Casella: «Mi raccomando Luca. Per l’ufficio è importante. Chiamerò anche Maria Rosaria per farglielo capire…». Il magistrato segnalato da Casella è Carmelo Sgroi, sostituto pg in Cassazione, mentre la Maria Rosaria che doveva “capire” era Maria Rosaria Sangiorgio, consigliere del Csm insieme a Palamara. In questo contesto fa capolino l’accusatore di Palamara. Il 26 aprile 2018 Casella scrive a Palamara: «Ciao Luca sono in ufficio con Piero Gaeta che vorrebbe salutarti come già sai. Io ritorno a Roma il 2. Riesci quella settimana a passare dalle nostre parti per un caffè??». Risponde Palamara: «Si assolutamente si con piacere». Ancora Casella: «Ok allora ti chiamo il 2 e organizziamo». Come promesso il 2 maggio successivo Casella si fa viva: «Ciao Luca. Quando puoi sentiamoci un attimo. Baci». Risponde Palamara: «Assolutamente sì». Ancora Casella: «Ti chiamo fra un’oretta ok?». E Palamara: «Ok». Il 3 maggio 2018 Casella scrive ancora: «Alle 17 Piero deve andare via. A questo punto rimandiamo». Casella non demorde ed ancora il 9 maggio scrive: «Ciao Luca. Rimandiamo il tuo appuntamento di domani con Piero Gaeta alla prossima settimana? Io questa non ci sono e mi fa piacere partecipare. Ti chiamo lunedì per accordi precisi. Ok?? Baci”. Risponde Palamara: «Ok va bene un bacio». Con tenacia il 14 maggio scrive ancora Casella a Palamara: «Buon inizio settimana. Quando ci si vede? P». Palamara: “Mercoledì pomeriggio caffe’? buon inizio settimana anche a te!!” Ribatte Casella: “Perfetto. Ti chiamo in mattinata e mi dai l’orario esatto”. Puntuale mercoledì 16 maggio 2018 Casella scrive: «Ciao caro. Confermato il caffè? A che ora?». Risponde Palamara: «Ok per le 15 ti confermo orario preciso appena finiamo plenum». Ribatte Casella: «Perfetto». Sempre il 16 maggio 2018, ore 14.23, scrive Casella: «Siamo a pranzo al francese. Ti aspettiamo per il caffè come d’intesa». Risponde subito Palamara: «Alle 15.15 sono da voi». Ribatte la Casella «Bravo…». Alle 15.18 Palamara scrive: «Sto arrivando». E Casella alle 15.18: «Siamo qui». C’è poi una significativa coda. Il 6 febbraio 2019 Palamara, pur non essendo più consigliere del Csm, scrive alla magistrata: «Mi mandi numero di Piero Gaeta? Noi ci vediamo venerdì?». Risponde Casella: «Certo. Baci» e subito dopo: «Piero Gaeta Cellulare 320 xxx xxxxx». Gaeta, per la cronaca, verrà nominato avvocato generale qualche giorno più tardi.

Ci scusiamo con i lettori per l’immagine errata utilizzata in prima pagina in riferimento all’articolo di Paolo Comi nell’edizione cartacea del Riformista del 15 dicembre 2020. La foto che abbiamo pubblicato non è quella del magistrato Piero Gaeta ma dell’avvocato Piero Gaeta che niente ha a che fare con il caso Palamara.

Al Csm cose turche... Da pm dell’accusa a giudice, l’assurdo caso di Carmelo Celentano subentrato al Csm a Davigo. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Può un magistrato che, da pm, ha partecipato all’attività istruttoria di un fascicolo, continuare ad occuparsi, adesso che è diventato giudice, del predetto fascicolo? Se il fatto capita in una qualsiasi aula di tribunale, l’astensione è di “default”. L’articolo 34 del codice di procedura penale è chiarissimo: “Chi ha esercitato funzioni di pubblico ministero (…) non può esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio del giudice”. Alla Sezione disciplinare del Csm, dove gli imputati sono i magistrati, pare invece di no. Al punto che “l’incolpato” in toga è stato costretto a presentare al collegio una istanza in cui si “invita” il pm/giudice all’astensione. In caso di mancato accoglimento del garbato invito, è già stata depositata la ricusazione. La vicenda riguarda l’ex pm della Capitale Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina. Il pm/giudice, invece, è Carmelo Celentano, il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha preso il posto al Csm di Piercamillo Davigo, dopo che quest’ultimo era andato in pensione per raggiunti limiti di età, sostituendolo anche come giudice disciplinare. Fava è sotto procedimento a Palazzo dei Marescialli per avere, secondo il procuratore generale della Cassazione che ha esercitato l’azione disciplinare, “mancato ai doveri di imparzialità, correttezza, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, quale magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Roma, con funzioni di sostituto”. Più precisamente, l’accusa è quella di aver raccontato all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, e all’epoca dei fatti anch’egli pm a Roma, i contenuti di una sua nota trasmessa al Csm e di avergli consegnato alcuni allegati “pur nella consapevolezza che sarebbero stati utilizzati dal suo interlocutore per gettare discredito” sull’allora procuratore della Capitale Giuseppe Pignatone e sul suo aggiunto Paolo Ielo. Fava aveva depositato alla fine di marzo dello scorso anno un esposto al Csm in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte di Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche a Davigo e al togato del Csm Sebastiano Ardita. L’ex pm parlò della faccenda durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega pm Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste davighiane di Autonomia&indipendenza. Dopo aver acquisito nelle scorse settimane gli atti del fascicolo disciplinare, Fava ha scoperto una mail, a firma del sostituto procuratore generale della Cassazione Simone Perrelli, indirizzata all’allora procuratore generale Riccardo Fuzio e ad alcuni sostituti fra cui, appunto, Celentano. L’oggetto della mail, datata 28 giugno 2019, è “bozza capo di incolpazione” a carico di Fava. Si tratta dei capi d’accusa che sono ora al vaglio del collegio di cui fa parte Celentano. Poi c’è un’altra mail, questa volta inviata da Fuzio, circa l’interlocuzione fra la Procura generale della Cassazione ed il Csm relativa proprio alla segnalazione del marzo 2019 di Fava su Pignatone. Celentano si sarebbe “occupato” del fascicolo e non risulta alcuna sua forma di “dissenso” al riguardo, scrive Fava, invitandolo all’astensione. Per Fava ci sarebbe, poi, da parte di Celentano un “indubbio interesse, quanto meno professionale a vedere convalidata all’esito del giudizio le ipotesi d’accusa che ha concorso ad istruire e formare”. Celentano, che fra poco più di un anno e mezzo tornerà alla Procura generale, non avrebbe mai riscontrato anomalie nel comportamento di Pignatone, come rappresentato nell’esposto di Fava, ora oggetto di contestazione. Un corto circuito senza precedenti. Come mai, allora Celentano, eletto con Unicost, la corrente di centro, non si astiene dal procedimento? Mistero. Anche perché il suo sostituto è già pronto: la togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè. “Nemo iudex in causa sua”, dicevano i latini. In attesa di conoscere le decisioni di Celentano, Fava ha chiesto l’esibizione di tutti gli atti concernenti la partecipazione dell’ex pg al procedimento disciplinare aperto nei suoi confronti.

L’assalto degli uomini di Davigo a Celentano: è socio di Palamara, deve lasciare. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Carmelo Celentano – forse – farebbe meglio a tornare al suo ufficio in Cassazione. Dopo lo scoop di questa settimana del Riformista che ha pubblicato alcuni dei messaggi che il neo consigliere del Csm si scambiava con l’ex potente presidente dell’Anm Luca Palamara, sono tanti i magistrati che ritengono sia opportuno che Celentano lasci Palazzo dei Marescialli. La presa di posizione più forte è quella delle toghe del gruppo di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo e di cui Celentano ha preso il posto al Csm dallo scorso 20 ottobre, ultimo giorno di servizio per raggiunti limiti di età dell’ex pm di Mani pulite. I davighiani fanno appello al senso istituzionale di Celentano, già sostituto procuratore generale in Cassazione, affinché faccia proprie, prima possibile, determinazioni rispettose degli alti compiti ai quali è stato chiamato». Il motivo è da rintracciare nella ormai micidiale chat di Palamara che descrive «comportamenti perfettamente in linea con il diffuso sistema clientelare di recente disvelatosi in modo chiaro». Erano tantissimi i messaggi che i due, esponenti di primo piano di Unicost, si scambiavano. «Ho parlato – scriveva Celentano – con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di PST (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». Palamara, contattato dal Riformista aveva ricordato che Celentano lo invitava spesso, prima di essere candidato al Csm, a cena e che lo pressava con richieste per sistemare questo o quel magistrato. Celentano ha confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi del loro “profilo umano”. Leggendo la chat, però, il sostituto pg della Cassazione non si informava solo dei destini dei colleghi ma anche degli assetti del Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare dall’ufficio del Segretario generale, l’ufficio più importante di Palazzo dei Marescialli, quello che ha i rapporti con il Quirinale. Il 6 giugno del 2018 scrive Celentano a Palamara: «È in plenum la pratica vice segretario? Sai che fa Riccardo (Fuzio, procuratore generale della Cassazione, all’epoca il suo capo, ndr)?». Palamara: «Stiamo discutendo ora. Riccardo già si è espresso come Comitato di presidenza (composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente della Cassazione e, appunto, da Fuzio, ndr). Che ha portato in plenum Fiorentino (Gabriele, di Magistratura democratica, ndr). «Quindi in favore di Fiorentino?», aggiunge Celentano. «Sì», la risposta di Palamara. Il giudice Andrea Reale, neo eletto all’Anm per articolo 101, il gruppo “anticorrenti” aveva chiesto a Celentano chiarimenti sul suo comportamento. Dopo la prima risposta di quest’ultimo, Reale aveva replicato aggiungendo: «Potremmo dire a tutti i magistrati che è lecito, anche sotto il profilo deontologico, contattare direttamente un consigliere del Csm per chiedere notizie su colleghi del proprio ufficio, o degli uffici di legittimità, oppure sullo stato di pratiche di colleghi da loro conosciuti e di preoccuparsi del profilo umano dei richiedenti con i componenti del Consiglio?». E poi: «È consentito da oggi che circa 10.000 magistrati contattino i sedici consiglieri togati per chiedere notizie sulle pratiche degli altri 9.999? O sussiste, in questo genere di condotte, un profilo deontologicamente rilevante?». «Da consigliere è pronto a fornire la sua utenza cellulare a tutti i magistrati italiani che vogliano interessarsi delle pratiche di un loro collega amico?», aveva quindi aggiunto Reale. Difficile che il diretto interessato risponda nuovamente.

Palamara silura l’erede di Davigo: “Celentano mi pressava per le nomine”. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. «Carmelo Celentano? È un ottimo cuoco. Ricordo che ogni volta che mi invitava a cena a casa sua il livello qualitativo delle portate era altissimo. Ricordo anche, però, che tutte le cene si concludevano sempre allo stesso modo: con sue continue e pressanti richieste per sistemare questo o quel magistrato». Così Luca Palamara all’indomani dello scoop del Riformista che ha pubblicato alcuni fra i tantissimi messaggi contenuti nella sua chat con Celentano, sostituto procuratore presso la Procura generale della Cassazione e attuale consigliere del Csm dopo essere subentrato, dalla scorsa settimana, al posto del pensionato Piercamillo Davigo. Dalla lettura di questi messaggi, tutti agli atti del procedimento penale pendente a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e di cui è in corso l’udienza preliminare, emergeva una strettissima e pressante interlocuzione di Celentano con Palamara per avere informazioni su nomine, tempistiche, e quant’altro riguardasse i colleghi che aspiravano ad un incarico. Secondo la recente circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il capo di Celentano, si trattava comunque di attività lecite, senza alcuna rilevanza disciplinare. Il pg nelle scorse settimane aveva, infatti, sdoganato per i magistrati l’attività di self marketing, svolta in proprio o “esternalizzata” ad altri colleghi, come nel caso di Celentano. I messaggi fra Celentano e Palamara, come tutti quelli contenuti nelle altre chat dell’ex capo dell’Anm, sarebbero da mesi all’esame della task force istituita da Salvi a piazza Cavour. Nonostante le rassicurazioni di Salvi sulla correttezza dell’auto promozione togata, il primo a intervenire in maniera critica dopo la lettura dello scoop del Riformista era stato sulla propria pagina Fb Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, neo eletto al Consiglio giudiziario di Venezia con Articolo 101, il gruppo delle toghe “anticorrenti”. Celentano è anche componente della Sezione disciplinare del Csm. Quindi “giudice dei giudici”. La Sezione, si ricorderà, che sta ora giudicando i cinque ex togati coinvolti nella cena con lo stesso Palamara all’hotel Champagne dello scorso anno quando si discuteva del futuro procuratore di Roma. Anche il collega di Articolo 101, Andrea Reale, gip a Ragusa e da poco eletto all’Anm, tramite mail aveva chiesto chiarimenti a Celentano sul contenuto di tali messaggi. Da quanto appreso, Celentano avrebbe confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi anche del loro “profilo umano”. La risposta non ha convinto il giudice Mirenda: “A che titolo si informa? Quale legittimazione aveva per chiedere ragguagli, informazioni, raccomandazioni, anche di tipo ‘umanitario’”? Il paragone, in automatico, è con tutti gli altri cittadini della Repubblica che non hanno il privilegio di indossare la toga. «Se un privato avesse interferito senza averne titolo in un procedimento amministrativo volto a conferire incarichi, appalti, concessioni a quali responsabilità si sarebbe esposto?». La risposta Mirenda non la fornisce ma ci permettiamo di fornirla noi: la prigione. Celentano, nella sua risposta, ha preso anche le distanze da Palamara. Una “pia bugia” sarebbe quanto dichiarato da Palamara sul fatto che i colleghi di Unicost non avessero votato per lui alle ultime elezioni per il Csm, preferendogli invece Davigo, poi eletto in maniera plebiscitaria. Sempre Palamara: «Un consigliere ha l’obbligo di raccontare la verità. Celentano mi accusa di aver detto una bugia. Se intende riferirsi al fatto che una parte del gruppo di Unicost di Roma di cui facevo parte aveva votato per Loredana Miccichè (togata di Magistratura indipendente, poi eletta insieme a Davigo per i due posti destinati ai giudici di legittimità al Csm, ndr) a suo danno, gli rispondo di averlo votato convintamente e di averci sempre messo la faccia». «Anche se non ho mai condiviso il metodo della cooptazione con il quale venne la sua candidatura – prosegue infine Palamara -auguro buon lavoro al consigliere Celentano. Sono personalmente contento che abbia coronato la sua aspirazione».

L’erede di Davigo al Csm? Tramava con Palamara…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Con l’uscita di scena, contro la sua volontà, di Piercamillo Davigo, dalla scorsa settimana il posto dell’icona di Mani pulite al Csm è stato preso da Carmelo Celentano, il primo dei non eletti. Sconosciuto al grande pubblico, Celentano, sostituto procuratore generale in Cassazione, è stato per anni uno dei fedelissimi dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, recentemente radiato dalla magistratura. Entrambi di Unicost, la corrente di centro, i due si sono messaggiati per anni. In particolare, Celentano sponsorizzava i colleghi che aspiravano a una nomina, chiedendo di essere costantemente aggiornato sullo stato delle pratiche. «Ho parlato con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di Pst (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». All’indomani del voto per il rinnovo del Csm, a luglio del 2018, Celentano, non eletto, è furente: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». E subito Palamara: «È una cosa vergognosa e assurda: non riesco ad accettare quello che è accaduto. Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio». Rincuorato dal messaggio dello zar, Celentano scrive: «Caro Luca, ti ringrazio per l’affetto che ricambio immutato! Io so riconoscere le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri. Un abbraccio sincero». Dopo aver chattato come un forsennato con Palamara, Celentano sarà adesso il “giudice di se stesso”, essendo stato destinato a coprire il posto di Davigo anche alla sezione disciplinare del Csm. Dopo essere stato fra i più stretti collaboratori del titolare dell’azione disciplinare, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, Celentano giudicherà adesso l’attività svolta dal suo momentaneamente “ex” ufficio. Quando fra due anni terminerà il mandato al Csm, infatti, Celentano dovrà far ritorno a piazza Cavour. Si poteva evitare questa “incompatibilità d’ufficio”? Certo. Al posto di Davigo alla disciplinare poteva andare Loredana Miccichè, già giudice in Cassazione. Sulla non scelta della togata pare (il condizionale è d’obbligo) abbia pesato nei giorni scorsi una sua intervista al quotidiano Il Giornale in cui manifestava perplessità sul modo in cui era stato condotto il turbo processo a Palamara.

Peggio ancora di quel che credevamo....La rivelazione di Orlando: ministero della giustizia occupato dai magistrati, nomine nelle loro mani. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Mi è andata bene. Mi sono beccato soltanto l’epiteto di persona “ridicola”. Visti i toni del dibattito pubblico, in questa epoca dei vaffa, e dei vaffa che hanno conquistato il governo, non posso lamentarmi. Io invece credo che Andrea Orlando sia una persona molto seria e che però abbia fatto male il ministro della Giustizia. E non sia stato in grado, successivamente, di opporsi al suo successore (sto parlando, ahimé, di Bonafede) che faceva carne di porco delle poche riforme avviate proprio da Orlando (e mai concluse) e dei principi essenziali del diritto. Nel silenzio – complice? – del Pd e dell’ex ministro. Ne parliamo un’altra volta. Qui rispondo solo alle obiezioni di Orlando, che peraltro conosco da molto tempo e ho sempre pensato che fosse un politico con buone idee ma poco coraggio. Può darsi che mi sbagli. Del resto l’assenza di scelte coraggiose, a mio modo di vedere, è il difetto principale che il Pd si porta appresso dal momento della sua fondazione (tranne il breve periodo renziano, forse, ma in quel periodo il difetto, non meno drammatico, fu l’eccesso di coraggio e tracotanza…). Orlando si è arrabbiato perché sul Riformista gli abbiamo dato dell’amendoliano. E abbiamo fatto risalire l’abbandono di Bassolino da parte dei compagni di partito, alla vecchia ed eterna lotta – prima nel Pci e poi nei Ds e nel Pd – tra le opposte correnti. Non c’è niente per cui offendersi, francamente. Che Bassolino sia del tutto innocente è acclarato: lo ammette ormai persino Marco Travaglio (e dunque, immagino, il partito dei Pm che lui guida). Che Bassolino sia stato abbandonato dai suoi quando un gruppetto di Pm gli ha lanciato la fatwa, mi sembra cosa altrettanto sicura. Che il Pm Sirleo abbia avuto un ruolo molto importante nei processi a Bassolino (ricordo di nuovo: tutti finiti con una assoluzione), non penso che possa essere messo in discussione. Che i processi abbiano messo Bassolino fuori dalla politica e azzerato quella che era stata la sinistra (nell’ambito del centrosinistra) napoletana è una cosa che tutti vedono. Punto. Dopodiché il compito di noi giornalisti è quello di mettere in fila i fatti e tentare qualche deduzione logica. Chi conosce la storia della sinistra napoletana – e anche la storia dei rapporti tra magistratura e politica, e il modo nel quale la magistratura ha vessato la politica e l’ha espropriata, e il modo nel quale la politica ha tentato di usare la magistratura per regolare i conti interni – chi conosce tutte queste cose sa da solo, benissimo, trarre le conclusioni dei fatti che noi abbiamo messo in fila. Che Orlando appartenesse alla corrente del Pci che era stata più o meno fondata da un gigante della politica come Giorgio Amendola, non credo che sia né da mettere in discussione né da considerare un’accusa. Far parte – aver fatto parte, da giovane – del riformismo comunista ed ex comunista, è una gloria, non una vergogna. Io non ne ho mai fatto parte ma ho grande stima di tantissime persone che ne hanno fatto parte e hanno dato molto alla politica. Capisco che quello che ha dato fastidio a Orlando non è stato il sospetto amichevolissismo di amendolismo, ma il sospetto di avere sacrificato – forse alla lotta tra le correnti, forse ad altre considerazioni politiche – la difesa di un galantuomo come Bassolino e cioè uno dei personaggi più importanti della sinistra in Campania negli ultimi 30 anni. Sul Riformista, ieri, abbiamo denunciato un altro fatto. Abbiamo scoperto che i magistrati che avevano combinato il disastro dei processi a Bassolino, commettendo, evidentemente, dei clamorosi errori professionali (non è possibile processare per 19 volte un innocente, per di più ex sindaco ed ex governatore della Campania) non solo non sono stati in nessun modo chiamati a rispondere ma sono stati premiati. Mi chiedo: perchè il ministero – prima ancora di Orlando, ma poi anche quello guidato da Orlando – non ha mandato gli ispettori per capire cosa stesse combinando la magistratura napoletana contro Bassolino? E perché, addirittura, il ministro (in questo caso Orlando), invece di mandare gli ispettori a Napoli a controllare il lavoro dei Pm ha invece chiamato uno dei Pm in questione a Roma e ha nominato lui ispettore? Vede, Orlando, lei può pensare che tutto questo sia ridicolo, ma non lo è: è invece un fatto gravissimo. E questo a prescindere dalla dirittura morale e professionale del dottor Sirleo, che io mi guarderei bene dal mettere in discussione. So però che ha fatto degli errori gravissimi e che qualunque altro professionista li avesse commessi non sarebbe stato certo promosso. Dopodiché, caro Orlando, la sua giustificazione sul motivo della chiamata a Roma del dottor Sirleo, mi perdoni, ma aggrava molto – moltissimo – la situazione. Lei mi dice che non è stato lei a decidere ma il suo capo di Gabinetto. Cioè, se non sbaglio, nel luglio 2015, il dott Melillo, magistrato distaccato al ministero e oggi Procuratore di Napoli. Ho capito bene? È così? Cioè scopro che le nomine al ministero non le fa il ministro, quindi non spettano più alla politica, ma le fa – di nuovo – un magistrato? Dunque devo prendere atto del fatto che la sottomissione del potere politico al partito dei Pm è ufficiale e rivendicata? Su che basi, poi, si fanno queste scelte? Cioè su quali base i magistrati, espropriando le competenze dell’esecutivo e della politica, decidono le nomine? Caro Orlando, lo sai quanto me, perché hai letto i giornali. La parola è quella: lottizzazione. Come si fa questa lottizzazione? Il dottor Palamara lo ha spiegato in tutte le lingue. Decidono le correnti dei magistrati, cioè degli organismi potentissimi e del tutto illegali. La professionalità, le idee, l’indipendenza, la giustizia non c’entrano niente. Le correnti dicono: questo va qui, questo va lì. Questo sale, questo scende. Io pensavo che almeno al ministero ci fosse una possibilità di frenare questo scandalo. Scopro invece – dalla sua lettera – che il vero ministro, quello che decide – e non ammette obiezioni – è sempre un magistrato. Dio mio, pensavo che piovesse: qui grandina.

(ANSA il 24 novembre 2020) - La Corte d'Appello di Catanzaro, seconda sezione civile, ha condannato per diffamazione l'ex pm di Catanzaro e attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Il politico dovrà pagare 20mila euro e pubblicare la sentenza che lo condanna sul suo blog, dal quale la vicenda è iniziata, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. A proporre appello era stato l'imprenditore Maurizio Mottola di Amato, legale rappresentante della Impremed spa nonché marito del giudice Abigail Mellace, che ha svolto le funzioni di gup al Tribunale di Catanzaro nel processo "Why not". A ottobre 2010 De Magistris aveva scritto sul proprio blog due articoli titolati "Le Mistificazioni del regime" e "Il giudice di Why not… non di Berlino", articoli poi ripresi da un quotidiano calabrese. Secondo Mottola di Amato "l'autore avrebbe riferito notizie false e incomplete sulla sua vicenda processuale senza dare conto del suo esito, contestualizzandole in un ambiente giudiziario caratterizzato a suo dire da indebiti aggiustamenti processuali e utilizzando espressioni denigratorie e lesive della sua reputazione personale e imprenditoriale". L'imprenditore era stato coinvolto nell'inchiesta "Splendor" avviata nel 2004 al termine della quale, nel 2006, è stato assolto con formula piena. Nel 2012 il Tribunale di Catanzaro si era espresso con un non doversi procedere perché De Magistris non era punibile per immunità parlamentare (a quel tempo era europarlamentare). Adesso i giudici d'appello lo hanno ritenuto processabile. "Non c'è stata alcuna condanna per diffamazione in sede penale ma solo una provvisoria sentenza civile di soccombenza in sede di appello, dopo aver avuto pienamente ragione in primo grado". E' quanto afferma il Sindaco di Napoli Luigi de Magistris commentando la sentenza della seconda sezione civile della Corte d'Appello di Catanzaro dicendosi certo che la sentenza "verrà riformata in Cassazione."

Massimo Malpica per “il Giornale” il 25 novembre 2020. Un libro nero che più nero non si può per raccontare i panni sporchi dei magistrati, lavati preferibilmente in famiglia, messi in fila dalla sezione disciplinare del Csm ma sbianchettati perché si sa, la privacy è sacra e quella delle toghe, se possibile, lo è ancora di più. Anche perché i protagonisti delle storie che Stefano Zurlo racconta ne «Il Libro Nero della Magistratura» (Baldini&Castoldi, 224 pagine, in libreria da domani), e che coprono lo spazio dell' ultimo decennio, spesso continuano a fare il proprio lavoro. Restano al loro posto, cavandosela magari con una censura, un ammonimento, il corrispettivo disciplinare di una tirata d' orecchi. Ma le storie, appunto, restano, e sono emblematiche di comportamenti che, come dice l'autore nella prefazione, fanno impallidire pure il caso Palamara. Ma restano nell' ombra o vedono la luce protetti dal bianchetto, che nasconde i nomi, ma non cancella fatti incredibili ma veri: dal giudice che «molesta e assilla» la collega pm a quello che copia le sentenze, fino al collega che assegna centinaia di incarichi all' amico professionista con cui condivide la frequentazione di un club di prostitute, al Gip che «si ricorda» di liberare due imputati dai domiciliari con un anno e mezzo di ritardo o al giudice di Corte d'Appello che fotografava le nipoti minorenni e diffondeva in rete quelle foto pedopornografiche. Sono trentaquattro storie da non credere quelle messe in fila da Zurlo. Come quella di Orazio Gallo (il nome, come lo sono anche tutti gli altri, è appunto di fantasia), giudice in aspettativa, che ad aprile e poi a luglio del 2009 per due volte dà i numeri sulla pubblica via, prima ubriaco, aggredendo i passanti che vogliono aiutarlo, del insultando i poliziotti accorsi e offrendosi di «leccare la f...» alla dottoressa 118, poi concedendo il bis con i carabinieri, dopo un tamponamento seguito da tentativo di fuga e sfociato in atti di vandalismo contro la «gazzella» dell' Arma e in un inevitabile arresto, concluso tra insulti e contumelie dell' uomo. Il Csm, anche di fronte a due precedenti sempre «stradali» sfociati in altrettanti procedimenti disciplinari, decide di cacciarlo dalla magistratura. Ma non va sempre a finire così. Zurlo lo dimostra raccontando il caso di Giovanni Domodossola, magistrato la cui moglie si ritrova con un ematoma al naso dopo una lite e che, si legge nel fascicolo del Csm, «dal 1995 al febbraio 2007 teneva fuori dall' ufficio condotte tali da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato». Una storia, lunga, di liti con la consorte, ricche di insulti, strattoni, lesioni. Ma la donna ritira la querela, la sezione disciplinare ne prende atto. Derubrica tutto a «insofferenze reciproche», mette nero su bianco che «tutte le violenze, a quanto consta dagli atti, furono consumate all' interno della convivenza, dunque senza effetti sul piano sociale e della credibilità del magistrato». Insomma, Domodossola sarebbe colpevole solo di vivere una «quotidianità triste». E viene assolto. Ma Zurlo ci racconta anche di Franco Rossi, pm al quale ad agosto 2011 arriva sulla scrivania un caso di cronaca terribile: un padre che ha accoltellato alla gola, davanti alla moglie e ai familiari, la figlia di due anni. L'autore del gesto ha gravi problemi psichici, ma il pm non fa nulla, anzi, indaga l'uomo «erroneamente» per lesioni colpose, e tocca al procuratore capo, più di un mese dopo, correggere l' imputazione in lesioni dolose. Il pm non si smuove e gli atti del procedimento disciplinare fotografano l'assurdo, scrivendo che «si asteneva da ogni atto concreto di indagine, sebbene sollecitato più volte». E più di un anno dopo, a ottobre 2012, l' accoltellatore, con la giustizia che ha ignorato ogni allarme, chiude il cerchio e ammazza la moglie. Il pm, scrive il Csm, «in tal modo non impediva» che l' indagato «provocasse alla donna il danno irreparabile della perdita della vita». Il caso finisce al Csm 4 anni dopo, nel 2016, ma «finisce ancora prima di cominciare», racconta sconsolato Zurlo, perché il pm, nel frattempo, si è spogliato dalla toga. Tutto in archivio. Tranne il sentimento della vergogna.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 21 novembre 2020. Come può David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, giudicare gli accusati di una vicenda in cui anche il suo nome ricorre più volte? Contro l'esponente del Pd, l' uomo che rappresenta in Csm la voce del presidente Mattarella, parte ieri un siluro da uno dei magistrati sotto accusa per il caso Palamara. Il tema non è dissimile da quello che vide protagonista Piercamillo Davigo, ricusato da Palamara perché lui stesso coinvolto nelle nomine oggetto del procedimento disciplinare contro l' ex leader dell' Anm. Stavolta tocca ad Ermini venire ricusato: con un atto depositato nei giorni scorsi da Stefano Fava, il pm romano che fa parte dell' elenco di 27 toghe per cui la Procura generale della Cassazione chiede sanzioni disciplinari. Fava risponde di due capi d' accusa: uno è avere spifferato a Palamara qualche dritta sull' indagine che lo vedeva coinvolto; l' altro, il più delicato, è avere inviato un esposto al Csm in cui si riferiva dei rapporti d' affari con alcuni inquisiti del fratello di Giuseppe Pignatone, allora procuratore della Repubblica a Roma. Pignatone ha lasciato la Procura per limiti di età, e oggi presiede il tribunale del Vaticano. E il suo nome ricorre spesso nella ricusazione depositata da Fava. Ermini, secondo Fava, dovrebbe farsi da parte per non avere dato corso al suo esposto proprio contro Pignatone: «Sia il Quirinale, sia David lo vogliono affossare», si legge in una intercettazione. Scrive Fava: «il Presidente Ermini ha un evidente interesse personale a patrocinare una certa interpretazione delle intercettazioni che lo riguardano direttamente quale, ad esempio, quella sopra citata, versate agli atti del presente procedimento poiché, da una certa interpretazione piuttosto che da un' altra, potrebbe discenderne una sua responsabilità personale». E non è tutto. Fava ricusa anche Giuseppe Cascini, membro di sinistra del Csm: ricusazione superata dai fatti, perché Cascini ha già deciso di astenersi. Ma nel capitolo dedicato a Cascini, Fava infierisce nuovamente su Pignatone: «in data 16 novembre 2016 intorno alle ore 17  il dottor Pignatone ha infatti comunicato al dottor Fava di conoscere Centofanti Fabrizio per essere costui una della dieci persone che gli era capitato di frequentare a Roma. Di essere stato a cena con il predetto Centofanti e che tra i commensali c' era anche il ministro della difesa Pinotti». Centofanti è l' imprenditore legato al Pd da cui ora Palamara è accusato di essersi fatto comprare: ma secondo Fava i rapporti erano stretti anche con Pignatone. E fu proprio Pignatone, scrive Fava, a rivelare a Palamara dell' esistenza di un indagine a suo carico. Ma nei guai c' è finito Fava.

Caso Palamara, l'atto di accusa della procura generale: ecco i nomi dei 27 magistrati. Il procuratore della Cassazione Giovanni Salvi ha già chiesto il giudizio disciplinare per 11 toghe e inviato le contestazioni ad altri 16. Le cento pagine firmate dal pg con il dettaglio delle "incolpazioni". Antonio Fraschilla su L'Espresso il 17 novembre 2020. «Sono 27 i magistrati per i quali la procura generale ha già esercitato l'azione disciplinare per i fatti emersi da chat e intercettazioni». Lo ha detto il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, affrontando, durante un intervento al plenum del Csm, il tema del caso procure e delle chat emerse dal telefono dell’allora sostituto procuratore di Roma, Luca Palamara, espulso dalla magistratura lo scorso ottobre. «Mi sono assunto la responsabilità di fare linee guida per fare chiarezza su quali siano e quali no i comportamenti disciplinarmente rilevanti, ho ricevuto anche critiche, ma questo è il momento di assumersi responsabilità», ha detto Salvi, secondo il quale la «stessa scelta andrebbe fatta dalla prima e dalla quarta Commissione del Csm per avere indicazioni generali a cui attenersi». La procura generale della Cassazione ha esaminato migliaia di pagine di chat e intercettazioni dei Palamara papers, e ha contestato ad altre 27 toghe comportamenti non in linea con l’onorabilità della magistratura: e tra queste non ci sono solo i magistrati che hanno partecipato alla cena all’Hotel Champagne insieme ai deputati Cosimo Ferri (che è anche una toga prestata alla politica) e Luca Lotti per parlare di nomine che il Csm era prossimo a fare nelle principali procure del Paese, ma anche tanti magistrati che grazie Palamara, leader della corrente di Unicost ed ex presidente dell’Anm, avrebbero cercato di fare carriera e farla fare ai loro amici e in alcuni casi anche ai parenti. Quello di Salvi è un atto di accusa dettagliato: per undici di loro ha già chiesto il giudizio di fronte alla commissione disciplinare del Csm, come da lui stesso annunciato lo scorso luglio, ad altri 16 ha inviato nelle scorse settimane le contestazioni e dopo aver ascoltato la controparte deciderà se chiedere il giudizio o meno. 

Colpo di spugna della Procura. Palamaragate, magistrati a processo ma si salvano tutti i big che trafficavano con lo zar delle nomine. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Novembre 2020. La montagna ha partorito il topolino. La maxi task-force messa in campo dalla Procura generale della Cassazione per analizzare le migliaia di chat contenute nel telefono di Luca Palamara ha prodotto poco più di dieci nomi. Sedici per l’esattezza. Tutto qui. Della centinaia e centinaia di magistrati che per anni hanno “stalkerizzato”, direttamente o indirettamente, l’ex zar delle nomine ed ex presidente dell’Anm, in pochissimi finiranno davanti alla sezione disciplinare del Csm insieme ai colleghi che presero parte al dopo cena all’hotel Champagne con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Il Palamaragate, salvo colpi di scena, al momento alquanto improbabili, finisce dunque così. Con una colossale autoassoluzione. La circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che aveva sdogonando il “self marketing togato” ha escluso dalla punibilità moltissimi magistrati. Il Csm, poi, a distanza di oltre un anno dallo scoppio dello scandalo non si è, incredibilmente, ancora dato criteri univoci per la valutazione di queste chat ai fini delle sue decisioni in merito al conferimento di incarichi o alle valutazioni di professionalità per le toghe. Una voce fuori dal coro è quella del pm antimafia Nino Di Matteo. «Perché non possiamo valutare le chat?», ha dichiarato in Plenum questa settimana. «Siamo in possesso legittimo di questo materiale», ha aggiunto, chiedendo di analizzare una volta per tutte la condotta tenuta da Palamara con i colleghi per il conferimento degli incarichi. L’ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura il mese scorso, fino a oggi ha tenuto il massimo riserbo su quanto fatto e sugli accordi presi per le nomine dei capi degli uffici più importanti del Paese. Qualche “pizzino” ai giornali ma nulla di più. «Con le conversazioni di terzi diamo ergastoli, indaghiamo politici ed amministratori», ha sottolineato Di Matteo ai colleghi in Plenum che gli ricordavano che non era possibile valutare disciplinarmente un magistrato solamente sulla base di cosa Palamara aveva detto di lui. Insomma, sotto la scure di Salvi finiranno le retrovie: i “big” togati sono stati tutti esclusi. Ma chi sono i malcapitati? Maria Vittoria Caprara, attuale giudice del tribunale di Roma, nella qualità di segretaria della Quinta commissione del Csm, avrebbe dato informazioni riservate a Palamara, in particolare “sulla procedura di nomina del procuratore di Roma”. Fiammetta Palmieri, anche lei ex magistrato segretario del Csm, avrebbe fornito ai “consiglieri del Csm Lepre, Cartoni e Criscuoli (coinvolti nel dopo cena dell’hotel Champagne, ndr), atti relativi alla trascrizione di intercettazioni telefoniche vincolate dal segreto”. Roberto Ceroni, sostituto procuratore a Bologna, referente di Unicost, la corrente di Palamara, in Emilia Romagna, avrebbe mirato «a far conseguire la nomina di Gianluca Chiapponi, Stefano Brusati e Silvia Corinaldesi rispettivamente ai posti di procuratore di Forlì, presidente Tribunale Piacenza e presidente Tribunale Rimini, perché appartenenti alla loro comune corrente associativa». Valerio Fracassi, presidente dei gip del Tribunale di Brindisi ed ex componente del Csm in quota Area, il cartello progressista, avrebbe ottenuto da Palamara «di espungere dall’elenco dei posti di imminente pubblicazione quello di presidente di sezione di Brindisi, trattandosi dell’ufficio dal quale proveniva e sul quale sarebbe dovuto rientrare (ufficio poi ricoperto al termine del ruolo al Csm)». Alessia Sinatra, pm a Palermo, avrebbe tenuto un «comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, che aveva presentato domanda per la Procura di Roma” dichiarandosi “disposta a tutto” pur di scongiurarne la nomina». Massimo Forciniti, pm a Crotone, e Claudio Maria Galoppi, consigliere giuridico della presidenza del Senato, entrambi ex consiglieri del Csm, avrebbero sollecitato insieme a Palamara un emendamento alla legge di stabilità del 2017 che permetteva agli ex togati di piazza Indipendenza di essere nominati a un ufficio direttivo senza attendere un anno dalla cessazione dalla carica. Tommasina Cotroneo, presidente sezione Tribunale Reggio Calabria, avrebbe «tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, al quale lei stessa concorreva, prospettando a Palamara la strategia da seguire consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi». Stefano Pizza, sostituto procuratore a Roma, avrebbe fatto una attività di dossieraggio, insieme a Palamara, per screditare un sostituto procuratore a Grosseto. Salvo, quindi, Marco Mescolini, procuratore di Reggio Emilia, che aveva scritto a Palamara la sera prima del voto in Plenum per la sua nomina, dopo avergli mandato per mesi decine e decine di messaggi, la celebre frase: “Ti vengo a trovare e ti porto la maglietta di PAL RE DE ROMA….”.

Thierry Cretin: l’ex pm francese che ha conosciuto il sistema ad orologeria italiano. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Thierry Cretin è stato un PM francese, che in Italia si sarebbe chiamato “magistrato d’assalto”. “Oggi è martedì grasso. Tuttavia, non vorrei avanzare mascherato”, dichiarava alla stampa nel marzo del 1995, quando era procuratore della repubblica a Lione, e chiedeva la condanna con una requisitoria di quasi sette ore, che ne sanciva la fine delle ambizioni da Presidente della Repubblica, di Michel Noir, il potente sindaco gollista della città. “Ho avuto alcune preoccupazioni quando ho intrapreso la revisione di questo dossier. Quando ho chiuso il coperchio della scatola, le mie preoccupazioni si erano placate: questo dossier era terrificante, questo dossier era travolgente. Era la strana mescolanza di soldi facili, politica e media”, spiegò Thierry Cretin a Liberation. Precisando il suo metodo di procuratore che parla solo in Tribunale: “Preferisco il fatto al commento, l’analisi del diritto“. Il tribunale, i dodici imputati, il pubblico erano avvertiti. E fu non sola la fine della carriera politica del sindaco di Lione, ma anche uno smacco per altri personaggi pubblici francesi finiti nell’inchiesta, come Charles Giscard d’Estaing, nipote dell’ex Presidente della Repubblica. Cretin, autore di un celebre libro sulle mafie, tradotto in diverse lingue, è stato per molti anni alla Commissione Europea, Capo Unità prima e Direttore poi delle indagini dell’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode (OLAF). Fino a quando, nel 2011, al posto del Procuratore tedesco, Franz-Hermann Bruener, deceduto dopo una breve malattia, arrivò il successore. Thierry Cretin, per la sua grande esperienza, la sua assoluta indipendenza, l’equilibrio ed il rigore sereno, era considerato il successore naturale di Bruener. Era stimato da tutti i servizi investigativi europei, ma anche dai suoi investigatori e dalla maggioranza dei funzionari dell’OLAF. Va però segnalato che Bruener, cui Cretin era sempre stato legato da un grande rapporto di stima reciproca, non aveva avuto un ottimo rapporto con il Comitato di Sorveglianza dell’OLAF, tra i cui membri vi era stato, anche come Presidente, l’ex numero uno della potente ANM (l’Associazione Nazionale Magistrati), Edmondo Bruti Liberati, prima che diventasse Procuratore della Repubblica di Milano. E la Commissione Controllo Bilancio del Parlamento Europeo, che aveva un peso enorme nella nomina del capo dell’OLAF, era presieduta dall’ex magistrato italiano, ed oggi sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, col quale Bruener nel 2007 ebbe pubblicamente da dire a causa di alcune fughe di notizie e speculazioni mediatiche  su un’inchiesta su presunte frodi ai fondi europei, della quale era responsabile alla Procura della Repubblica di Catanzaro, ed alla quale l’OLAF aveva fornito la propria collaborazione. Bruener scrisse una infuocata lettera di protesta al Ministro della Giustizia, e pretese la pubblicazione di un comunicato stampa congiunto OLAF e Commissione Europea contro le per lui inammissibili speculazioni stampa, che allora non si chiamavano ancora fake news. Ma in quella stessa Commissione Controllo Bilancio c’era anche l’eurodeputata Sonia Alfano, all’epoca appartenente all’Italia dei Valori dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che nelle audizioni pubbliche dei candidati al vertice dell’OLAF, del 26 ottobre del 2010, diede un determinante contributo a chi preferiva a Cretin un altro magistrato, guarda caso italiano, ed ex deputato del Pd: Giovanni Kessler. E per Thierry Cretin, ma anche per tutti coloro che erano stati leali a lui e all’OLAF di Franz-Hermann Bruener, venne sancita la fine della carriera all’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode. E dovettero cercarsi un altro posto, a seguito di azioni di mobbing strisciante, se non di vere e proprie epurazioni. E chi scrive ne sa più di qualcosa. Ricordo benissimo che Sonia Alfano, entrata in aula durante l’audizione pubblica come candidato di Cretin, chiese la parola, per porre le sue domande iscritte in agenda, al Presidente della Commissione Controllo Bilancio del Parlamento, Luigi De Magistris. E furono due, brevi e precise, lette su un foglietto, prima di abbandonare di fretta l’aula, se il ricordo non mi inganna, senza neppure ascoltare la risposta. La prima era se fosse vero che Cretin si trovasse sotto inchiesta per un’accusa di mobbing nei confronti di “un ufficiale della Guardia di Finanza”. Cretin rispose che effettivamente era stato oggetto di un reclamo per presunto mobbing da parte di “uno dei suoi agenti dell’OLAF”, e che questa denuncia era in corso di esame dal mese di luglio da parte del servizio di mediazione della Commissione Europea, le cui conclusioni non erano ancora note (al momento dell’audizione). La seconda domanda era se appartenesse ad una “associazione dei magistrati”, senza fornire ulteriori dettagli. Cretin rispose che era stato membro di un’”associazione di magistrati” ma che non versava più i contributi a quell’associazione da diversi anni, perché non ne faceva più parte. Queste due domande, a molti di coloro che hanno assistito come me all’audizione, apparvero subito come le fucilate di un plotone d’esecuzione. Perché la stampa ed i resoconti parlamentari – che stranamente oggi non si trovano più on line – misero subito in evidenza proprio queste due domande di SoniaAlfano. Poco importò – facendo molto pensare a molti alle tecniche di orologeria tipicamente italiane – che la presunta accusa di mobbing venne archiviata solo qualche settimana dopo, perché considerata del tutto infondata, dal Servizio di Mediazione della Commissione Europea. Perché in ogni caso quell’ombra gettata durante l’audizione pubblica costò a Cretin il posto di Direttore Generale dell’OLAF. Nessuno obiettò neppure che, a parte la palese infondatezza delle accuse, il Direttore Generale facente funzioni dell’OLAF, un inglese che era si era pure candidato al posto di Direttore generale, e che partecipò come Cretin all’audizione pubblica, notoriamente non era simpatizzante del suo concorrente interno e collega francese. Che temeva molto, lui che era un semplice funzionario del Tesoro britannico, per la sua incomparabile esperienza investigativa. Come non era stato simpatizzante neppure di Franz Hermann Bruener, al punto che la moglie del procuratore tedesco, alla cerimonia funebre della Commissione Europea, rifiutò di averlo al suo fianco, nonostante fosse stato il vice ed il successore facente funzioni del marito scomparso. Ma neppure nessuno si insospettì del fatto che nel luglio precedente, in piena procedura di selezione per il posto di Direttore Generale, l’inglese si sentì preso dallo zelo di dover investire il servizio del Mediatore della Commissione Europea delle accuse, poi risultate palesemente infondate, contro il suo concorrente interno. La denuncia si rivelò infatti una montagna di accuse false e pretestuose, che Cretin smantellò facilmente, punto per punto, dimostrandone il carattere palesemente stravagante. La conclusione ufficiale del servizio di mediazione, ancorché dopo il forse un po’ troppo lungo tempo – qualche mese – necessario ad effettuare l’inchiesta, fu che l’accusa contro Cretin non solo era assolutamente infondata, ma che era anche palesemente legata alla procedura di nomina del Direttore Generale dell’OLAF. Ma tale decisione giunse troppo tardi. Perché nel frattempo il successore di Bruener era stato già scelto. Ed era, guarda il caso, un altro magistrato italiano, oltre che ex parlamentare del PD. Quindi troppo tardi perché la sorte di Cretin non fosse già segnata, ed iscritto come secondo nella lista di merito della Commissione Parlamentare presieduta dall’attuale Sindaco di Napoli. E a nulla era servito che, come nessuno poteva dubitare, avesse scalzato l’inglese, il quale in ogni caso avrebbe preferito un outsider, come il magistrato ed ex politico italiano, piuttosto che trovarsi subordinato al suo concorrente interno, che troppo bene conosceva l’Ufficio ed il suo mestiere. Nemmeno la seconda domanda di Sonia Alfano, a molti, non solo a Cretin, parve innocente. E merita essere pertanto essere ricordata. Perché era riferita all’Association Professionnelle des Magistrats, che negli anni ’90 si era opposta con forza a quelli che considerava come abusi del Syndicat de la Magistrature (una sorta di Magistratura Democratica, con la quale alcuni magistrati italiani, anche molto vicini all’OLAF, mantenevano strettissimi contatti, anche di tipo personale) e alle sue idee in materia di giustizia. E all’epoca il presidente di questa associazione, di cui Cretin non faceva più parte da anni, era stato accusato di alcuni commenti considerati antisemiti. Nessuno tolse quindi dalla testa di Thierry Cretin che l’obiettivo della domanda che qualcuno aveva suggerito a Sonia Alfano era quello di lanciare un’insinuazione di antisemitismo nei suoi confronti. Infatti, nei giorni che seguirono (anche se qualche mese dopo sparirono misteriosamente dal Web, e persino dai resoconti parlamentari on line del Parlamento Europeo) Cretin trovò su Internet alcune dichiarazioni che andavano proprio in questa direzione. Nonostante un’esperienza che ha lasciato un sapore amaro, Thierry Cretin non ha mai perso il suo modo ironico, ma determinato, di affrontare anche situazioni complicate della sua lunga vita professionale. Con spirito da autentico cacciatore, nel suo tempo libero come nella sua attività professionale. Non ha neppure perso il suo modo, rigoroso e preciso, da appassionato costruttore di coltelli artigianali, da uomo giusto e da Magistrato con la emme maiuscola, di valutare il sistema della giustizia. Compreso il modo variegato di agire dei singoli magistrati. In Francia, ma anche in Italia. Ragione per la quale l’ho intervistato su qualche tema della giustizia italiana.

Luca Palamara, l'ex pm a Libero: "Ho fatto parte di un meccanismo. Ora voglio riformare la magistratura". Emilia Urso Anfuso su Libero Quotidiano il 05 novembre 2020.  È al centro di una vicenda complessa scoppiata in seno alla magistratura, e che ha trovato - almeno apparentemente - un solo protagonista, un unico colpevole: Luca Palamara. Eppure, basta scavare un poco tra le pieghe di questa storia per capire che non ha senso urlare allo scandalo. In queste ore circola la storia della "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali per far saltare le trattative sul nuovo vertice dei pm di Roma. Pare una spy story «Non sta a me stabilire se esista o meno una "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali con riferimento a fatti e notizie che riguardavano l'indagine nei miei confronti. Ciò che è certo è che anch' io sono interessato a comprendere come e perché determinate informazioni siano state divulgate e diffuse in maniera illecita».

Perché ciò che è considerato normale in politica non lo è all'interno della magistratura?

«In questo momento, e sottolineo in questo momento, è stato più facile identificare nella mia persona l'unico autore degli accordi all'interno delle correnti. Ma ciò è accaduto perché non è mai stato spiegato il meccanismo attraverso il quale le correnti operano all'interno della magistratura stessa. Questo ha creato una sorta di diversità tra ciò che avviene in politica e ciò che avviene in magistratura. Intendo dire che, poiché mai stato reso pubblico il sistema delle nomine all'interno del Csm, quando si è iniziato a parlarne si è gridato allo scandalo. I cittadini conoscono il sistema delle nomine in politica e perciò non lo ritengono scandaloso».

Il Csm sembra non trovare pace anche sulla nomina in sostituzione del dimissionario Mancinetti.

«Non ritengo di essere la persona più indicata a rispondere alla domanda. Posso dire ciò che penso: non si è raggiunto un accordo tra le correnti».

Di recente è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Una giustizia giusta è possibile?

«Per circa 25 anni ho operato all'interno della magistratura, e ho sempre seguito la linea dell'applicazione imparziale della legge. Avrò modo e occasione, spero, di dimostrare che mi sono sempre battuto per i principi di una giustizia giusta. Per questo motivo, ho ritenuto di voler mettere a disposizione l'esperienza della mia attività per chi si è sempre battuto per questi principi, anche se ho espresso nel corso degli anni diversità d'opinione e d'idee su determinate questioni. Però, poiché ritengo che il tema della giustizia molto importante per la vita dello Stato e dei cittadini, voglio mettere il mio bagaglio personale e professionale a disposizione di tutti».

È stato denominato "Il caso Palamara" ma sarebbe stato più corretto denominarlo "Il caso magistratura". A un certo punto sembrava addirittura che la magistratura fosse composta di un solo elemento: lei. Mi sono fatta l'idea che tutto nasca dalla frattura tra Unicost e Magistratura democratica e la nuova alleanza con Magistratura indipendente. È così?

«La mia storia politica e associativa è caratterizzata da un'alleanza tra la corrente di Unicost e le correnti della sinistra giudiziaria. Quando quest' alleanza si è affievolita, in special modo nell'ultimo periodo, in occasione della nomina del vice presidente Ermini, si è verificato uno scostamento maggiore verso l'area moderata, e sono iniziati a nascere problemi che a un certo punto hanno riguardato direttamente la mia persona».

Mi dica la verità: lei è più potente di quanto voglia far apparire? Perché tutto quest' accanimento contro di lei? Cosa può aver mai ordito che gli altri non potessero?

«L'idea dell'uomo solo al comando non mi è mai piaciuta e non mi sono mai sentito tale. Sono stato semplicemente un magistrato che in una fase della sua vita ha fatto parte di un meccanismo, quello delle correnti, all'interno del quale, interfacciandomi con le altre, ho operato».

La cosa particolare è che lo scandalo non è scoppiato tanto all'interno della magistratura quanto a livello socio-politico. Ha scandalizzato gli italiani.

«Ogni giorno ci sono giudici impegnati nei casi più svariati. Dall'ambito civile, come i divorzi, oppure che decidono di uno sfratto, o sono chiamati a giudicare un ladro o un truffatore. Ai cittadini va spiegato che il fatto che mi ha riguardato è interno alla magistratura, si riferisce alla gestione interna del potere, ma non intacca l'applicazione imparziale della legge. Questa situazione, quindi, non deve incrinare la fiducia che i cittadini ripongono nel sistema giudiziario».

Di recente si sono tenute le elezioni del comitato direttivo centrale: tonfo per Autonomia&Indipendenza, la corrente di Davigo, costretto però dai colleghi a lasciare la carica per decadenza a poche ore dal voto. Fatto fuori pure lui?

«Davigo è stato tra i giudici che mi ha giudicato, e per tale motivo non mi esprimo su questo punto. Posso però dire che nemmeno io mi aspettavo che a distanza di pochi giorni dalla decisione che mi ha riguardato, egli sarebbe decaduto dal Csm. È però certo che la scorsa estate c'erano avvisaglie su quanto sarebbe accaduto».

Il giorno successivo all'esplosione dello scandalo sulle nomine, 5 consiglieri togati su 16 si sono dimessi e il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio in pensionamento forzato: un fuggi fuggi generale che potrebbe apparire come un'ammissione di colpe.

«Ognuno risponde dei propri atteggiamenti e comportamenti, io rispondo per me stesso. Non voglio giudicare il comportamento degli altri».

Lei potrebbe tornare a breve a indossare la toga se le Sezioni Unite della Cassazione dovessero ammettere il suo ricorso.

«Non demordo, utilizzerò tutti gli strumenti processuali che l'ordinamento mi mette a disposizione, facendo ricorso all'organo di ultima istanza, perché ho pieno interesse a far emergere tutta la verità su come sono andate le cose. Voglio anche far comprendere perché in quel periodo storico la corrente di sinistra della magistratura era fortemente ostica nei confronti del Procuratore Viola. Per tale motivo il ricorso sarà funzionale in attesa della decisione della sezione disciplinare, per continuare a far valere i miei diritti fino a che mi sarà possibile, passando per le Sezioni Unite e la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, per ristabilire la verità dei fatti".

Magistratopoli e i suoi scandali. Dopo Magistratopoli è arrivato il momento di un referendum sulla giustizia. Biagio Marzo, Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. È il momento giusto per indire uno o più referendum su aspetti fondamentali riguardanti la giustizia italiana e la magistratura, dopo il caso Palamara. Ciò non significa che si vuole intaccare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Bisogna piuttosto liberarla dalla ruggine di privilegi accumulati nei decenni. Due esempi.

Il primo: gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, la loro seconda attività, la cui crescita, negli ultimi sei mesi, ha raggiunto il numero di 961, rispetto ai 494 dei sei mesi precedenti.

Il secondo: l’uso eccessivo della custodia cautelare.

Questo è il quadro nel quale si svolse il referendum sulla giustizia giusta, l’8 ottobre del 1987, per stabilire la responsabilità civile per i magistrati. Certamente bisognerà studiare sul piano tecnico come i referendum devono essere articolati, i punti specifici su cui far pronunciare i cittadini. Per memoria, i temi essenziali sono la separazione delle carriere, il Csm, i termini processuali, gli incarichi extragiudiziali, la carcerazione preventiva. Su un altro piano: le intercettazioni e la prescrizione. La presa di coscienza dell’esistenza di un problema magistratura è partita dall’arresto, nel 1983, di Enzo Tortora, scaturito dalle dichiarazioni di un pentito e dalle successive calunnie di suoi omologhi a cui i mezzi di informazione e la procura di Napoli diedero grande credibilità. Insomma, fu condannato un innocente che subì una via crucis giudiziaria e una gogna mediatica senza pari, per colpa di macroscopici errori giudiziari. Non sapremo mai se quegli errori fossero dovuti a deficit di capacità professionale o del tutto intenzionali, fatti per fare carriera e addirittura per conquistare fama. A dire il vero, i magistrati coinvolti in quei processi hanno fatto ottima carriera e i falsi pentiti hanno vissuto, negli anni, felici e contenti. Il caso Tortora fu definito giustamente da Giorgio Bocca: «Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso nel nostro Paese». I protagonisti di quella battaglia referendaria furono il Partito Radicale di Marco Pannella e il Psi di Bettino Craxi. Per Tortora ci fu il combinato disposto di pentiti e Pm con la partecipazione straordinaria dei mass media. Dopo Tortora è avvenuto di tutto. Da un lato c’è stata una magistratura che ha pagato un prezzo altissimo al suo impegno contro la mafia e contro il terrorismo. Non facciamo nomi perché l’elenco sarebbe lungo. C’è stato però anche il rovescio della medaglia, la magistratura che ha fatto politica e che con Mani Pulite ha operato una forzatura al limite dell’eversione: tutti i partiti si finanziavano in modo irregolare, alcuni di essi furono distrutti, altri salvati e favoriti. È inutile anche in questa occasione fare nomi e cognomi. Va però detto che si è trattato dell’unico caso in Europa nel quale alcuni partiti sono stati estromessi dal Parlamento non per il libero voto degli elettori, ma per l’inusitato, pressante e invasivo intervento del circo mediatico-giudiziario. Il caso Palamara è arrivato alla conclusione di un ciclo all’inizio del quale il ruolo dei magistrati è apparso come “l’angelo sterminatore” nel film di Buňuel. Invece il caso Palamara ha messo in evidenza che esiste una lotta di potere all’interno della magistratura che arriva fino all’ordine gerarchico più elevato, il Csm. Il correntismo e il carrierismo hanno messo l’ordine giudiziario (diventato potere per colpa della politica in uno stato di soggezione di fronte alla magistratura), in una condizione di credibilità decrescente. Gli italiani ora diffidano della magistratura. L’inversione di tendenza si è avuta per via del caso Palamara, ma il malessere durava da decenni. In più, si è inserito il populismo giudiziario dei 5 stelle e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come un fulmine a ciel sereno, Luca Palamara balza agli onori della cronaca, accusato di aver ricevuto 40 mila euro per una nomina e per aver rapporti con imprenditori e avvocati. Ha sempre negato di aver intascato soldi. Chi è Luca Palamara? Ex presidente dell’Anm, leader della corrente moderata di Unicost, ed ex componente del Csm. Come mai deflagra il caso? Una microspia-virus, il trojan, è stata introdotta nel suo cellulare, registrando per filo e per segno la sua vita pubblica e privata. Galeotto fu l’hotel Champagne e chi partecipò alla cena con magistrati del Csm delle correnti Unicost e Magistratura Indipendente e politici di alto rango: Cosimo Ferri, ex magistrato e parlamentare ex Pd ora Italia Viva, e Luca Lotti deputato Pd ed ex ministro, inquisito per il caso Consip. Il trojan in questo caso certe volte funziona, altre volte no. Quando gli incontri coinvolgono personalità o magistrati intoccabili il trojan pare non funzionare. Il corto circuito si innesca con l’andata in pensione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Inizia uno scontro senza esclusione di colpi per conquistare la poltrona più prestigiosa e di maggior potere della giustizia italiana. I procuratori di Firenze e di Palermo scendono in campo. Lo scontro è durissimo e Luca Palamara entra per questo nel tritacarne. La chiave di lettura che egli dà delle sue disgrazie è la seguente: quando ero alleato della sinistra non ho avuto problemi, ora, che l’asse del Csm si stava spostando a destra, sono stato radiato dalla magistratura. Ora, il rapporto ambiguo e ipocrita tra magistratura e politica è vecchio come il cucco. Ad esempio, un vicepresidente del Csm non nasce dalla testa di Giove come Minerva, ma viene eletto sulla base di trattative tra mondo politico e quello della giustizia. Non crediamo che l’attuale vicepresidente Ermini sia stato eletto per le sue pubblicazioni, ma pensiamo sia il frutto di una contrattazione che però non è stata registrata dal trojan. Sono migliaia i casi di promozione all’interno della magistratura, decisi dalle correnti con l’intervento della politica. Fino a quando questo sistema esisterà e resisterà alle spinte di riforma, vale la citazione dell’Amleto di William Shakespeare. E, comunque, non valgono le riforme omeopatiche e quelle gattopardesche bensì quelle che cambiano l’attuale sistema molto autoreferenziale. Per farla breve, Palamara si trova radiato dalla magistratura perché così ha deciso il Csm, incolpato di essere stato “il regista del sistema delle nomine”. Ma nel passato, invece, le nomine come sono state fatte? Un vero peccato che grazie alla mancata ammissione dei 130 testimoni indicati da Palamara non sia stato possibile approfondire l’argomento. A noi oggi interessa il caso Palamara per capire come funziona la giustizia, di modo che l’eventuale referendum abbia tutte le carte in regola per riformarla, per non ripetere per ogni sentenza di assoluzione la famosa frase del mugnaio “c’è un giudice a Berlino” e per scongiurare ciò che, profeticamente, affermò Bettino Craxi: «Arriverà un giorno in cui i giudici si arresteranno tra loro».

Il caso Palamara scoperchia un sistema marcio, le cosche giudiziarie comandano. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Si è detto giustamente che lo sapevano anche i sassi: non c’era bisogno della rivelazione delle sessantamila chat di Palamara per scoprire ciò che appunto conoscevano già tutti e cioè l’immondezzaio delle nomine, dei traffici, delle cospirazioni nel sistema di governo della magistratura corporata. Ma il fatto che quel dispositivo di potere corrotto funzionasse risaputamente in modo incensurato denuncia una responsabilità ulteriore, e se possibile anche più grave: la responsabilità della classe politica che, pur sapendo, ha taciuto. E soprattutto: che, pur potendo intervenire, nulla ha fatto per ricondurre a legalità i comportamenti della magistratura deviata. Bisogna concedere che la classe politica (non c’è destra, non c’è sinistra, non c’è centro: tutta la classe politica) potesse aver timore di denunciare e intervenire: perché quelli ti fanno a pezzi, ti sbattono in galera, mentre il giornalismo alleato (anche qui: praticamente tutto) fa il suo sporco lavoro di demolizione con tre mesi di prime pagine alla notizia dell’arresto e col trafiletto non si sa dove alla notizia dell’assoluzione. Ma una classe politica finalmente compatta nel reclamare il ripristino dello Stato di diritto, e capace di qualche convinzione sulla necessità di non sottomettersi alla prepotenza intimidatoria del mostro togato, avrebbe ben potuto almeno provare a interrompere il dominio della malavita giudiziaria. Che cosa faceva la piovra delle manette: li arrestava tutti? Anche perché se la classe politica avesse reagito come di dovere c’è da star sicuri che la parte non corrotta della magistratura, che è ampia per quanto senza voce, avrebbe condiviso quell’opera di richiamo all’ordine costituzionale. Tanti bravi magistrati sono a loro volta i soggetti passivi dello strapotere delle cosche giudiziarie, e vi si sottomettono esattamente come tanta brava gente si sottomette al potere mafioso: perché non c’è lo Stato a imporre il diritto e a proteggere i diritti, e al suo posto imperversa la violenza di un potere arbitrario e anch’esso armato visto che può infierire con altrettanta violenza sui beni e sulla stessa vita dei cittadini. E il paragone non indigni nessuno: l’intimidazione giudiziaria non è meno forte rispetto a quella della criminalità solo perché non minaccia pallottole ma l’inferno del carcere, la distruzione di un’impresa, la devastazione di una famiglia, lo rovina della reputazione personale. I diritti delle persone sono i beni che la classe politica dovrebbe proteggere. Sono i beni che invece la classe politica lascia esposti all’usurpazione di una magistratura che li offende ogni giorno mentre si governa nel modo illecito che tutti conoscono.

LE CORRENTI: QUANDO IL GRUPPO SI TRASFORMA IN BRANCO. Una storia eloquente di correntocrazia. Toghe.blogspot.com sabato 11 luglio 2020. A seguito dello scandalo scoppiato dopo la pubblicazioni delle chat tra il dott. Palamara e numerosi magistrati (nonché qualche politico) si è acceso un forte dibattito sul valore o disvalore delle correnti presenti all'interno della magistratura. Dalle chat si è infatti avuta insindacabile conferma che le nomine dei direttivi e semi-direttivi degli uffici giudiziari, così come gli incarichi fuori ruolo, sono interamente pilotata dalle correnti in combutta con i partiti politici. Con altrettanta evidenza, è emerso che le correnti hanno fatto uso e abuso del loro potere anche per condizionare l'esito di procedimenti aventi particolare rilevanza politica e/o economica e per "perseguitare" altri magistrati mediante apertura di procedimenti disciplinari e ostruzionismo alle legittime aspettative del singolo magistrato. A dispetto di quanto emerso, i correntocrati - imperterriti nel sostenere il valore delle correnti in quanto naturale e legittima espressione di multi-culturalità - si sono affannati a ricercare le giustificazioni storiche dell'associazionismo giudiziario e a sottolineare l'importanza dell'ANM. Tuttavia, lo sforzo profuso non ha consentito loro di trovare valide prove di recente esemplare rappresentatività dell'indipendenza della magistratura, risalendo invece il più valido intervento dell'ANM addirittura al periodo fascista. In termini generali, le correnti presentano delle connotazioni positive allorquando trattasi di gruppi costituiti da persone libere che, liberamente, scelgono di aderirvi in quanto accomunati ai suoi partecipanti da comuni ideali. E, entro certi limiti, si può anche ritenere positivo che il singolo senta di potersi autoaffermare all'interno di un gruppo che, nel proporre idee similari a quelle individuali, ne costituisce una sorta di cassa di risonanza. Tuttavia, le vicende emerse recentemente - ma che in realtà caratterizzano ormai da tempo immemorabile le azioni della magistratura italiana, sotto gli occhi complici e silenti della gran parte dei magistrati - hanno evidenziato con chiarezza come le correnti abbiano nella realtà snaturalizzato la dimensione umana di associati e simpatizzanti tirandone fuori il peggio. L'adesione alle correnti non è più frutto di libera scelta sulla base di comuni valori ma piuttosto obbligo imprescindibile per ottenere "protezione" dal gruppo, in aperta violazione dell'art. 18 della Costituzione che prevede il diritto di associarsi liberamente e non già il dovere di associarsi obbligatoriamente. Quanto accaduto altro non è che il codice di comportamento tipico delle dinamiche in cui il gruppo si trasforma in branco. All'interno del branco il pensiero individuale perde interamente la sua dimensione, l'individuo non è riconosciuto come tale se non in quanto vi appartiene. È questo il momento in cui la forza aggregativa delle correnti non si basa più sulla comunanza di idee quanto sulla forza del branco e sulle prevaricazioni che, nel caso di specie, vengono utilizzate con una nonchalance apparentemente sorprendente ma che purtroppo si basa sugli elementi negativi di una società che non solo le tollera ma addirittura le alimenta e le normalizza. Sui giornali abbiamo letto di prevaricazioni "importanti" che hanno condizionato nomine di procuratori capo e presidenti di tribunale, collocamenti politici fuori ruolo e esiti processuali o che hanno determinato l'abuso del potere disciplinare. Ciò che, tuttavia, è rimasto sommerso è la frustrazione quotidiana dei magistrati che, non essendo parte del branco e addirittura contestandolo, sono costretti a subire prevaricazioni che non assurgeranno mai agli onori della cronaca. È proprio di queste nefandezze che voglio parlarvi, perché sono queste che distruggono lentamente la vita di una persona e cancellano per sempre l'idea di Giustizia. Avevo fatto accesso in magistratura da poco tempo e mi trovavo ad affrontare il parere che allora veniva dato agli uditori con funzioni. Avevo assunto le funzioni di pubblico ministero presso il Tribunale di C. ed ereditavo il ruolo di una collega della ex procura presso la Pretura che ammontava a più di 3.000 fascicoli di cui una parte sostanziosa giaceva disordinatamente per terra. Mi ero messa di buona lena e, con l’entusiasmo e le insicurezze della novellina, mi ero data da fare per smaltire così l'enorme mole di procedimenti. Le statistiche parevano premiare la mia buona volontà visto che mi trovavo sempre piazzata nella pole position. E anche il parere redatto dal capo ufficio, Procuratore aggiunto dott. R.P., sembrava confermare il mio buon operato. Avevo addirittura ricevuto una nota di merito dall'allora Procuratore capo M.B.-. Strano a dirsi, però, al momento della redazione del parere da parte del Consiglio Giudiziario, il giudizio sulla mia laboriosità fu "discreto". Rimasi veramente interdetta, non solo perché non corrispondente a quanto risultante dagli allora unici due criteri utilizzabili a fini valutativi (parere del capo ufficio e statistiche), ma perché un ottimo non si risparmiava a nessuno, figuriamoci un buono! A me invece era toccato addirittura un discreto! Mi fu consigliato di fare ricorso al Consiglio giudiziario, ricorso che si rivelò inutile dato che, trattandosi del medesimo Consiglio che aveva dato il parere, non fece che confermarlo sebbene con delle motivazioni assurde. Specificamente, ritenne l'inutilità a fini valutativi sia delle statistiche (per via della presunta incomparabilità qualitativa tra i fascicoli assegnati ai diversi sostituti procuratori) che del parere del capo ufficio (attesa la frequente pratica di utilizzare dei "pareri fotocopia"). A quel punto rimaneva da capire sulla base di quali elementi il Consiglio Giudiziario avesse espresso il proprio parere visto che quelli considerati "inutili" erano comunque gli unici criteri legalmente previsti. Fu così che - recatami dal Dott. R.P. al quale rappresentai che in fondo lui era stato implicitamente accusato di utilizzare pareri fotocopia - assistetti in diretta all'assalto del branco.

R.P. telefonò in mia presenza all'allora presidente della Corte d'Appello per chiedere le ragioni del parere emesso. Ebbe dunque inizio una conversazione che definirla kafkiana sarebbe riduttivo.

- Il Presidente sostiene che hai lasciato un cadavere annegato dentro una vasca da bagno per diversi giorni - disse.

- Ma io non ho mai avuto un fascicolo di un cadavere dentro una vasca da bagno! - esclamai stupefatta.

- La collega dice di non aver mai avuto un cadavere dentro una vasca da bagno - riferì allora il dott. R.P. al Presidente.

- Il Presidente dice che forse il cadavere non era dentro una vasca da bagno, era impiccato e l'hai lasciato attaccato penzoloni alla corda - mi riferiva il dott. R.P. dopo aver parlato nuovamente con il Presidente.

- Mi è capitato di avere un procedimento di un detenuto che si era impiccato ma, quando mi hanno avvisata, io e il medico legale ci siamo recati sul posto nell'immediatezza e il cadavere era già stato staccato dalla corda - Risposi sempre più esterrefatta da quell'inverosimile telefonata che pareva un procedimento disciplinare celebrato ex post, senza un'accusa definita e senza diritto di difesa.

- La collega dice che l'unico impiccato che ha avuto era già stato staccato dalla corda al suo arrivo - riferì il dott. R.P. al Presidente e quindi tornò a me.

- Insomma, il Presidente non sa dove si trovasse il cadavere né di che morte sia morto, sa soltanto che hai lasciato un cadavere per giorni senza intervenire - concluse.

Io ero allibita, ma ebbi la prontezza di rispondere che, semmai una cosa di questa fosse successa, il fatto sarebbe stato di una tale gravità da rendere doveroso un procedimento disciplinare nei miei confronti, procedimento che invece non era mai stato celebrato. Aggiunsi che lui stesso avrebbe dovuto essere coinvolto per non aver adeguatamente svolto le sue funzioni di supervisore. Gli dissi che gli avrei comunque consegnato tutti i fascicoli di decessi a me assegnati in modo da consentirgli di effettuare un controllo sul mio operato. Inutile dire che, al suo controllo, risultò che tutti i decessi erano stati gestiti in modo impeccabile.

A quel punto R.P. - noto esponente della corrente Unicost, ma anche noto "simpaticone" e "buon padre di famiglia" - anche in considerazione del fatto che il suo stesso parere era stato ritenuto "fotocopia", intervenne inviando una lettera ai singoli componenti del Consiglio Giudiziario dolendosi del trattamento a me riservato nonché della sottovalutazione del suo parere. Constatava anche, con amarezza, che il parere era stato emesso all'unanimità e che nessuno dei componenti aveva sentito il dovere di approfondire la vicenda. Ovviamente quella lettera non venne mai protocollata perché si sa che, se fai parte del branco, ti stai già permettendo un lusso se dissenti dal suo operato. Non puoi arrivare di certo a lederlo, neanche se a suggerirtelo è quella ormai lontana vocina della tua coscienza. Qualche giorno dopo l'amara vicenda, incontrai uno dei componenti del Consiglio Giudiziario, stimatissimo collega, oggi presidente aggiunto presso l'Ufficio GIP di C., anch'egli simpatizzante di Unicost. Conoscendone le sue note virtù, non esitai a chiedergli il perché di quella ingiustizia perpetrata nei miei confronti. Il virtuoso - si vedeva chiaramente che si trovava assai a disagio - mi rispose che altro componente del Consiglio Giudiziario, oggi procuratore aggiunto di S., anch'egli affiliato Unicost, aveva riferito al Consiglio Giudiziario che, durante il mio uditorato con funzioni, un collega, allora procuratore presso la DDA, oggi Presidente di sezione di Corte di Appello a T., aveva sbraitato contro di me lungo il corridoio della Procura perché "come aveva osato una presuntuosa novellina rifiutare il suo aiuto lasciando così un cadavere senza l'intervento del medico legale?!" D'improvviso tutto mi fu chiaro. Durante uno dei miei turni una donna si era suicidata con dei barbiturici ed era morta sul letto di casa propria, non annegata in una vasca né impiccata ad una corda. Sfortuna aveva voluto che tale donna fosse una parente o conoscente di qualcuno che lavorava nella segreteria di un collega della DDA (ovverosia di colui che quello stesso pomeriggio aveva sbraitato, a mia insaputa, contro di me) o comunque a lui vicina. Pertanto, mentre io cercavo un medico legale per recarsi in loco, quest'ultimo ritenne di telefonarmi, "offrendomi il suo aiuto". È vero che io rifiutai l'aiuto, ma non per arroganza o senso di superiorità, ma perché ritenevo doveroso fare il mio lavoro. Non l'avevo mica capito che l'offerta di aiuto era, in codice, una "imposizione di aiuto" che avrebbe consentito di accelerare delle procedure che, comunque, per i normali mortali avrebbero dovuto rispettare i termini di legge.

Ed ecco che il branco si accanì contro di me per quella mia stupida impudenza. A distanza di tempo un componente del Consiglio Giudiziario vendicava l'offesa fatta all'amico, contro l'impudente indipendente che, non solo non era di corrente, ma per di più aveva osato non accettarne i codici. Non importa che militassero o meno nella stessa corrente, comunque ne rispettavano i codici, cosa che invece gli indipendenti si ostinavano a non fare. Il collega tanto stimato (al quale io chiesi giustificazioni del parere), anch'egli simpatizzante di corrente, per quanto virtuoso, evidentemente non era altrettanto coraggioso da evitare che si consumasse una palese ingiustizia ed illegalità. Lo stesso dicasi di tutti i membri del Consiglio Giudiziario i quali, sulla base di un fatto riferito da un amico del branco, avevano sottoscritto il parere. L'intero Consiglio Giudiziario, votando all'unanimità, aveva agito non sulla base di criteri legali ma di commenti autorevoli di uno dei componenti del branco, in altre parole di "voci di corridoio", proprio come oggi lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, svilito ormai dalle correnti, effettua le nomine e avvia i procedimenti disciplinari.

Riportato l'accaduto a R.P., che ben sapeva che la sua lettera non avrebbe mai ristabilito giustizia, questi si lavò la coscienza fornendomi ulteriori informazioni, a me, sino ad allora, sconosciute. Segnatamente mi riferì che già prima di quell'accaduto c'era stato un accanimento nei miei confronti tanto che, prima che assumessi le funzioni, era stato avvisato da uno dei coordinatori degli uditori - oggi egregio Avvocato Generale presso la Procura Generale di C. nonché noto appartenente alla corrente Unicost - che avrebbe dovuto "stare assai attento alla G…da!". Il dott. R.P. si faceva vanto al contempo di non essersi lasciato influenzare dall'allerta del collega compagno di merende unicostiane. E, certamente di ciò gli va dato atto viste le dinamiche del branco. Tale circostanza veniva anni dopo confermata anche dal dott. G.G. il quale, dopo avermi reso la vita in Procura un vero inferno, scusandosi, mi confessava di aver sbagliato nel farsi guidare da un pregiudizio nei miei confronti esclusivamente sulla base di informazioni fornitegli dallo stesso coordinatore di uditori che aveva dato l'allerta al dott. R.P. contro la temibile collega G.da.

Questo è il branco. È quello che tu scrivi email e nessuno ti risponde, è quello che tu parli e nessuno ti ascolta, è quello che, mentre tu lavori, sparge la voce che sei una sfaticata, è quello che a volte strumentalizza il procedimento disciplinare ma, quando è ben consapevole che non esiste neanche il fatto storico, ti fa un procedimento disciplinare segreto nei corridoi di un Tribunale, violando il più elementare diritto di difesa. E tu non puoi fare nulla per combatterlo, perché il branco è vigliacco, non ti affronta direttamente ma ti distrugge con le voci di corridoio. E, nel frattempo, i suoi componenti fanno tutti carriera. Da allora, durante tutti questi anni, mi sono ritrovata tante volte ad affrontare il branco. E mi sono ritrovata a combattere da sola in situazioni molto più grandi di me in cui, fino alla fine, ho sperato che la giustizia trionfasse. Durante tutto questo tempo, in maniera forse assai infantile ma tipica dei sognatori, ho sperato che anche a me potesse capitare quello che era capitato a Robin Williams ne "L'attimo fuggente". Ho sperato tante volte che qualcuno salisse su un banco, non tanto in mia difesa ma in difesa della indipendenza intellettuale.

Non è mai accaduto. E allora ho imparato a salire da sola sul tavolo, sempre più sola e sempre più stanca. Penso a tutti gli anni di studio per diventare magistrato, io che non ero "figlia d'arte", anzi, ero la prima laureata della famiglia. Penso a tutti i miei sogni…e ogni tanto piango. Poi, però, è più forte di me, salgo sul banco nuovamente e ricomincio a lottare. E a volte capita di incontrare altre anime libere e sole. Perché io so, ne sono intimamente consapevole, che non occorre essere "riconosciuti" per sapere di esistere.

Malagiustizia, migliaia di errori ma pagano solo quattro magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Luglio 2020. I casi di ingiusta detenzione sono un migliaio all’anno in tutta Italia. Le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono 53 in tutto, ma in tre anni, cioè nel periodo 2017-2019. Il dato napoletano è tra quelli non indicati nel bilancio dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Resta il fatto che non bisogna essere sofisticati matematici per cogliere una sproporzione tra questi numeri. Se a Napoli, solo nel 2019, ci sono state 129 ordinanze che hanno disposto indennizzi per un totale di oltre tre milioni di euro (3.207.214 a voler essere precisi), vuol dire che ci sono stati 129 casi accertati di ingiusta detenzione. Vuol dire che ci sono state 129 persone che hanno subìto l’arresto e il carcere, senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma sicuramente per disposizione di un magistrato, pm o giudice. E allora viene da chiedersi come mai sono soltanto 53 i magistrati, che in tutta Italia e non solo a Napoli, e in tre anni non in uno solo, sono stati sottoposti ad azioni disciplinari, considerando anche che di questi 7 sono stati assolti, 4 hanno avuto la censura, 9 non doversi procedere e 31 procedimenti sono in corso. Di chi è allora la responsabilità delle centinaia di ingiuste detenzioni risarcite nello scorso anno a Napoli e del migliaio risarcito in tutta Italia? Pur volendo considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di un atto di querela successivamente oggetto di remissione, nel caso di reati in prescrizione o derubricati, resta una sproporzione. Come si spiega? «Vuol dire che c’è un abuso della custodia cautelare», afferma Raffaele Marino, magistrato di lunga esperienza, attualmente in servizio presso la Procura generale di Napoli. «Bisogna distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che è invece patologico. Se un imputato viene assolto in Appello siamo di fronte a un errore fisiologico ma se viene scarcerato dal Riesame e la posizione archiviata si tratta di un errore patologico, a mio avviso». Il procuratore Marino sottolinea tuttavia la singolarità di ciascun caso. «Bisogna valutare caso per caso sulla base delle carte, non si può generalizzare». Ma pur restando distanti da facili generalizzazioni, un problema c’è. «Sta nella mancanza di controlli da parte dei capi degli uffici giudiziari o di volontà di fare controlli – aggiunge Marino – Se, per esempio, l’indagine di un pm viene ridimensionata già al Riesame vuol dire che il pm non ha lavorato bene, e se non ha lavorato bene il pm non deve stare dove sta oppure va controllato. C’è tutto un ragionamento da fare che non viene fatto». Cosa si può fare? «Bisognerebbe introdurre meccanismi di controllo seri, ora invece tutto è affidato al capo dell’ufficio che dovrebbe essere Superman per controllare tutto e tutti». Di fronte ai numeri del report ministeriale, Marino non ha dubbi: «Quando abbiamo numeri di questo genere c’è qualcosa che non funziona nella resa giudiziaria e rispetto alla lesione dei diritti primari dei cittadini, perché chi viene messo in galera subisce danni che sono notevolissimi. Per non parlare del processo penale, che oggi ha un fine processo mai grazie a nostro ministro della Giustizia, ed è di per sé un danno, un danno notevole. Al di là del dato economico, quindi, il costo sociale della giustizia in Italia è enorme e questo Paese non può più sopportarlo». «Ben vengano – conclude il magistrato – proposte come quella di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che cerchi di capire cosa non funziona e come il progetto di una riforma che parta anche dal Csm per eliminare il potere delle correnti».

Intervista allo psichiatra Vincenzo Mastronardi: “Test psicoattitudinali per fare il magistrato”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Il professor Vincenzo Mastronardi è uno psichiatra e criminologo clinico tra i più noti nel contesto accademico internazionale. «Diciamo che mi piace studiare», glissa lui. E in effetti ha prodotto il più alto indice bibliometrico della sua categoria. Con il sistema-giustizia interagisce come psichiatra forense ed esperto di criminologia. E non è detto che la profilatura dei soggetti delittuosi sia tutta a carico degli imputati, come ci dice lui stesso. Anche i magistrati sbagliano, sono umani. E non vanno ritenuti “superuomini”. «Ho avuto in terapia ogni tipologia di essere umano, dalla massaia all’impiegato di banca, al medico, al magistrato, al politico…».

Che cosa li accomuna?

«Sono tutti esseri umani, con le vulnerabilità e le paure di ciascun essere umano».

Alcuni però hanno più responsabilità di altri. I magistrati decidono della vita, e dunque in fondo della morte, delle persone…

«Alcuni magistrati illuminati parlano dell’incidenza delle emozioni e del libero convincimento nelle decisioni. Il giudicare giusto ed equilibrato è troppo spesso sottoposto alla pressione soverchiante dell’opinione pubblica che preme sulle decisioni da adottare, inserendo di fatto le decisioni dei magistrati in un clima contestuale incisivo».

Un tema su cui la stessa magistratura è chiamata a riflettere.

«Il processo mediatico incide sempre di più sul processo giudiziario. Mi rifaccio in questo al lavoro di Luigi Lanza, un magistrato illuminato, già in Corte di Cassazione, e al lavoro di Imposimato, che invitai a tenere con me una lezione sugli errori giudiziari, su cui ha scritto un bellissimo manuale con la Giuffré. C’è spesso un clima falsato da un’attenzione selettiva della stampa o della politica».

Parliamo del caso Berlusconi. Un linciaggio mediatico-giudiziario preorchestrato, a giudicare dall’ammissione dello stesso giudice Amedeo Franco.

«Il linciaggio ha origine da Charles Lynch che era il giudice della Virginia che nel 1782 presiedette una corte irregolare incaricata di punire un gruppo di soldati lealisti (alla Corona britannica, ndr) durante la guerra di indipendenza americana. Il giudice Lynch decise di rimettersi al volere dei presenti in aula, e quelli uccisero seduta stante gli imputati. Se ci si rimette agli umori della piazza, si rischia di fare come Ponzio Pilato quando chiese un parere al popolo. Chi urla Barabba, Barabba a gran voce, vince. L’opinione pubblica viene influenzata, si carica e a sua volta finisce per influenzare la giurisdizione».

Il populismo giudiziario.

«Preferisco parlare dell’intelligenza della folla, con le parole di un altro grande giurista, Scipio Sighele, scritte nel 1903: «L’opinione pubblica è nel mondo quello che Dio è in Cielo. Un giudice invisibile, impersonale e temuto; è come la religione, una potenza arcana nel nome della quale si sono compiuti i più sublimi eroismi e le più abbiette iniquità; è, come la legge, invocata e interpretata a torto o a ragione in ogni momento della vita; è come la forza, sostenitrice a volte del diritto, più spesso dell’errore; è, infine, come una bandiera, disposta a volgersi sempre dalla parte donde spira il vento»».

Ad arginare questa potenza arcana, calibrandola e dando priorità allo stato di diritto, dovrebbero esserci dei magistrati capaci di giudizio, più che di pregiudizio.

«Il giudice convince se stesso, in primis, della bontà della sua decisione. Ma sappiamo bene che certi convincimenti sono “contenitori di emozioni”. Comunque nessuno può essere estraneo al condizionamento subliminale, non per un atteggiamento perverso ma perché siamo tutti uomini e tutti possiamo sbagliare. Il lavoro di magistrati quali Paola Di Nicola, Ferdinando Imposimato e Luigi Lanza è stato encombiale su questi temi».

La mancanza di empatia verso il condannato fa parte dei prerequisiti caratteriali?

«Assolutamente sì. Come il medico legale: chi seziona il cadavere in sede di autopsia, non può e non deve avere partecipazione emotiva con la vicenda umana che ha condotto quel corpo in quella sede. Così deve fare il magistrato. Non sto dando loro le attenuanti generiche, ma il distacco emozionale è una delle caratteristiche del giudice. Ed è variabile da caso a caso».

Distacco fino a un certo punto. “Berlusconi è una chiavica”, avrebbe detto secondo alcuni testimoni Antonio Esposito.

«Stiamo parlando di uomini: alcuni hanno un distacco assoluto, altri si lasciano andare ad espressioni cruente».

Su Berlusconi c’è stata una campagna che ha coinvolto magistrati e giornalisti?

«Guardi, io ho 350 allievi universitari nel corso di investigazione criminalità e sicurezza. Quando avete pubblicato l’audio di Amedeo Franco è capitato di parlarne con i miei studenti. Mi hanno risposto, in un sentire comune, “tutti sanno che c’era un disegno. Lo avevamo capito da subito che sui suoi processi c’erano condizionamenti”».

Esiste una ansia di vendetta che sfocia nella visione ideologica e di parte?

«Proposi nell’ambito delle mie lezioni alla Scuola superiore della magistratura il tema dei test psicoattitudinali. Si fanno per chi pilota un aereo, perché ha in mano tante vite umane, perché non si dovrebbero fare per chi decide in tribunale? Lo fanno in Argentina con un buon esito. I giovani magistrati presenti – tutti da stimare, per la loro volontà di tenersi aggiornati – ventilarono la loro risposta: non potrà passare mai, perché va subito sotto il dibattito politico. Si possono però fare i test anonimi. Luigi Lanza li somministrò a un centinaio di magistrati».

Esiste una presunzione di onnipotenza del magistrato?

«Leggo soltanto quel che è stato scritto nel libro Psicopatologia della Carriera Universitaria, nell’indice delle voci trattate: la sindrome involutiva, dissociativa, narcisistica. Il delirio scientifico, burocratico, bellico. Nessuno ha mai costruito una tipologia personologica del magistrato».

Ci vuole pensare lei?

«Perché no. Ci posso pensare, con l’aiuto di qualche magistrato».

Nasce la scuola per futuri magistrati, si insegni la deontologia. Marco Demarco su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Mezzo secolo fa, Salvatore Satta – una colonna del nostro Novecento – immaginò che uno studente gli chiedesse cosa fare per diventare giurista. «Gli direi – scrisse – che occorrono la cultura e l’esperienza». Poi, però, entrò più nello specifico e gli consigliò, prima, la lettura della Divina commedia («Se non si è letto Dante, se non si è ricreato il proprio spirito in Dante, non si può chiamarsi giuristi») e poi la lettera che Gargantua scrisse al figlio Pantagruele quando questi si avviò agli studi. Eccone un frammento. «Figlio mio, io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il latino; e poi l’ebraico per le sacre scritture, e il caldaico anche e l’arabico». A parte Dante, una tale pretesa oggi suonerebbe alquanto eccessiva. O no? Ma c’è una ragione perché tutto questo mi è venuto in mente. Proprio oggi, infatti, alle 15 in diretta streaming, l’università Suor Orsola Benincasa annuncerà la nascita della prima “scuola per la magistratura”: del primo percorso di studi universitari finalizzato alla preparazione dei futuri magistrati. Con i tempi che corrono, è sicuramente una buona notizia. E lo è doppiamente aver scelto come sede Napoli, città di grandi giuristi. Ma quel che più conta è il momento scelto per l’iniziativa, che fa della scuola quasi una misura di pronto intervento. Lo scandalo Palamara, le dimissioni dal Csm, l’imbarazzo dell’Anm, le polemiche sulle chat dei magistrati pubblicate sui giornali, il caso Berlusconi: cos’altro deve ancora succedere? Mai la magistratura italiana è stata così fortemente delegittimata da una serie tanto impressionante di fatti. Ed ecco perché una scuola arriva a proposito. Le ragioni della débâcle giudiziaria sono note, dalle riforme mancate, ai privilegi togati mai sacrificati in nome dell’interesse pubblico. Ma è inutile, ora, insistere su questo tasto o, viceversa, sul patriottismo eroico di tanti magistrati che hanno difeso la democrazia italiana. Più opportuno, piuttosto, potrebbe essere immaginare anche noi cosa insegnare ai magistrati di domani. E gira e rigira, forse anche oggi non restano che due cose: l’uso delle parole e il dominio dei comportamenti. I fatti recenti ci dicono che i magistrati devono anche imparare a comunicare e a stare in società. E poiché le cose e le parole si tengono, ciò spiega perché a molti magistrati capiti di comportarsi male e di esprimersi peggio. Si sono scritte intere biblioteche sul giuridichese, su questa lingua ostentata come sacrale, ma in realtà banalmente gergale, infarcita di pseudotecnicismi, di arcaismi, di sociologismi, di narcisismi, di luoghi comuni e di locuzioni dall’apparenza specialistica ma nella sostanza inessenziali. Il punto però è che tutto questo parlar male spesso non esprime altro che il mero compiacimento per il potere esercitato. Un potere che dovrebbe essere libero da condizionamenti e che invece non lo è affatto, specialmente quando si avvina troppo alla politica rappresentativa, addirittura fino a mutuarne le liturgie e le peggiori finalità. Ma c’è un problema. Per una scuola, insegnare a usare le parole giuste non è difficile: basta, ad esempio, impegnare uno scrittore ex magistrato come Carofiglio (devo a lui, tra l’altro, il riferimento a Salvatore Satta). Più difficile, invece, è educare alla sobrietà dei comportamenti. Un corso specifico di deontologia professionale? Magari, perché no. Nel frattempo, però, può valere come spinta motivazionale proprio il finale della lettera di Gargantua, sempre quella. Caro futuro magistrato, «guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane… Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa’ che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito…». Credo possa andar bene anche per i non credenti.

Sono 13 i magistrati sotto inchiesta nella città di Pirandello: esiste un "sistema Agrigento"? Salvatore Petrotto il 16 giugno 2020 su italyflash.it. Che Agrigento è l’ultima provincia d’Italia lo si capisce anche per la scarsa rilevanza che in genere si dà a certe notizie. Il fatto che la Procura ed il Tribunale della Città dei Templi si ritrovano con 13 magistrati (per ora solo 13) sotto inchiesta a Caltanissetta, per anni ed anni, anzi decenni, di presunti abusi ed insabbiamenti di importantissime inchieste, non fa notizia! E neanche fa notizia che, probabilmente quegli stessi magistrati, adesso sotto inchiesta, per i quali il Giudice David Salvucci ha respinto una richiesta di archiviazione nei loro confronti, avanzata della Procura nissena, hanno avviato delle vere e proprie campagne persecutorie assai terribili ed inimmaginabili, nei confronti di chi magari denunciava illeciti e truffe miliardarie. Il metodo per insabbiare tutto, a quanto pare, è sempre lo stesso. Prima si perseguitano i poveri disgraziati che osano denunciare dei reati miliardari, reati commessi dai potenti di turno, assicurando loro un trattamento, si fa per dire, di "favore". In questi casi la prassi giudiziaria è la seguente: basta assicurare una corsia preferenziale alle querele ed alle denunce per calunnia che, sempre i potenti di turno, o in alternativa gli stessi magistrati in questione, presentano contro i poveri malcapitati che credono ancora nella Giustizia con la G maiuscola, e l’infame gioco è fatto! Sembra di rivivere sempre la solita trama, quella dell’ultimo romanzo giallo scritto nel 1989 da Leonardo Sciascia dal titolo: "Una storia semplice", da cui due anni dopo è stato tratto l’omonimo film per la regia di Emidio Greco e l’impareggiabile interpretazione del prof. Franzò che nel romanzo, ed ancor più nella trasposizione cinematografica, di fatto è diventato un tutt’uno con Sciascia.  Incommensurabile è stata, come sempre del resto, la capacità del compianto Gian Maria Volonté di calarsi nel personaggio, grazie alle sue innate doti ed alla sua inimitabile carica emotiva. In quel libro, pressappoco, venivano narrate delle vicende analoghe a tante storie di straordinaria ingiustizia che oggi, più di ieri, ci vogliono abituare a digerire senza bisbigliare. Altrimenti sono guai seri. Nel nostro caso non si tratta di morire una volta sola, magari di lupara, ma di morire ogni giorno di malagiustizia. Sciascia ci racconta la storia di un inconsapevole testimone che stava semplicemente facendo il suo dovere, ‘l’uomo della Volvo’.  Ci vuol poco ed il  braccio armato della "legge", praticamente un’associazione a delinquere di cui facevano parte i vertici degli uffici giudiziari e delle forze dell’ordine, da testimone subito lo fanno diventare ‘il colpevole’. Si inscenava così la solita parodia di un crimine inesistente, per occultare i veri crimini, ed ovviamente i veri criminali che, nella fattispecie, avrebbero dovuto essere, ma non lo erano, degli uomini di legge; semplicemente perché erano dei fuorilegge! E dire che non stiamo mica parlando di uno degli ultimi casi del genere, svelato dalla squadra mobile e dagli uffici giudiziari nisseni. Non stiamo parlando del cosiddetto "sistema Montante", di cui mi sono occupato lo scorso anno in un mio libro. Quando si dice che Leonardo Sciascia era profetico, non dobbiamo limitarci alle semplici enunciazioni di principio, ma dobbiamo rileggere, a questo punto, tutte quante le sue opere, per capire possibilmente cosa è successo ieri a Caltanissetta con Antonello Montante, il falso paladino dell’antimafia, protetto da stuoli di magistrati e di alti esponenti delle forze dell’ordine e che, a maggio dello scorso anno, è stato condannato a 14 anni di reclusione. O cosa è successo od ancora sta succedendo oggi ad Agrigento. In questo caso non osiamo e non intendiamo parlare di un "sistema Agrigento". Anche perché, non spetta a noi dimostrare che qualcosa di simile a Caltanissetta è accaduto anche nella Città dei Templi. Se volete farvi un’idea in proposito basta leggere tutte quante le denunce degli ultimi decenni, "regolarmente" insabbiate.

Che ne dite allora di studiare un altro  giallo sciasciano risalente  al 1971? Altro libro, altra profondissima profezia! Ci riferiamo a: "Il contesto".  A questo giallo, in cui le imposture politiche si sposavano perfettamente con quelle giudiziarie, producendo solo corruzione e morte, si è ispirato Francesco Rosi, dando vita ad un altro sconvolgente film, dal titolo "Cadaveri eccellenti". Alcune importanti scene sono state girate, guarda caso, ad Agrigento ed a Siculiana, il paese dove continua a consumarsi l’affare più maleodorante dell’Agrigentino, quello dei rifiuti.  E’ come se 50 anni fa Sciascia avesse capito  quello che doveva succedere ad Agrigento. Anche se , pensandoci bene, nella terra di Pirandello, le cose sono andate sempre così!  Ma ciò che è più importante è che, il mio più illustre concittadino, aveva capito  il putiferio che avrebbero continuato a scatenare i magistrati immortalati nel suo romanzo, nonché gli odierni  Palamara, Pignatone & company.  Aveva già scritto  il copione ed aveva messo a fuoco le trame e gli intrecci oscuri della cosiddetta giustizia italiana; quella per intenderci che, tre anni dopo la sua morte ha continuato a fagocitare le vite di altri due giudici, Falcone e Borsellino, con i quali Sciascia ha avuto la fortuna, mentre era ancora vivo, di chiarire il famoso equivoco sui "professionisti dell’antimafia". Sciascia aveva capito già 50 anni fa, cosa sarebbero stati capaci di combinare tutti quanti i magistrati che siedono dentro il Consiglio Superiore della Magistratura. E cosa erano e sono ancora capaci di fare in giro per l’Italia!  Quindi, quando assistiamo a delle vere e proprie lotte tra "bande" di giudici, assetati di potere, parlare di un "sistema Agrigento", così come è capitato di parlare, qualche anno fa,  di un "sistema Siracusa", o di un "sistema Taranto", di un "sistema Potenza" e via discorrendo, ci sembra del tutto riduttivo. E’ un sistema e basta! E’ la solita parodia della giustizia all’italiana, della giustizia degli uomini se preferite. O, per meglio dire, è la storia sbagliata di una profonda ingiustizia che ci assicurano, quotidianamente, certe donne e certi uomini: forti con i deboli e deboli con i forti. Di sicuro c’è solo che siamo ormai un esercito le persone innocenti, inghiottiti da questo terribile ingranaggio del sistema giustizia o, per meglio dire, da questa giustizia ingiusta. Anzi  osiamo sottolineare che un intero popolo, il popolo italiano, in nome e per conto del quale molti magistrati, indegnamente, emettono delle sentenze tremendamente inique, non riesce più a fidarsi della Giustizia italiana.

CAOS GIUSTIZIA. “Chi ha autorizzato i pm a sentirsi padroni del mondo?”. Federico Ferraù intervista Frank Cimini su ilsussidiario.net il 25.06.2020. “Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura” dice Frank Cimini. Certo la corruzione va combattuta, “ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo”. “Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura” dice Frank Cimini, una vita nella cronaca giudiziaria, a cominciare da quel che succede nel palazzo di giustizia di Milano che frequenta dal 1977. Non solo Palamara; Davigo, il Csm, Mattarella, Sala, le tangenti della metro di Milano, la magistratura associata (“quella che fa politica tutto il giorno”), Cimini ne ha per tutti. Ed è pessimista. Certo la corruzione va combattuta, “ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo”.

Cosa pensi di come si sta mettendo il caso Palamara?

«Palamara non c’entra, questo è il caso magistratura».

Ma lui è il bubbone, no?

«Lo fanno sembrare il bubbone. È la strategia della mela marcia: corrotto lui, buoni noi. Falso. È marcio tutto. Sarebbero 84 i magistrati piazzati in posti di rilievo da Palamara. Vuol dire che ha avuto almeno 84 complici, o no? Questo non è Palamara, è il sistema».

Solo che adesso, grazie a Palamara, è venuto alla luce.

«È successo perché c’era il trojan nel suo cellulare. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Però si intercetta troppo. La sentenza Cavallo della Corte di Cassazione del gennaio scorso è chiara: non si possono usare le intercettazioni in un’inchiesta su un reato diverso dal quello per cui sono state autorizzate».

E invece?

«Guarda i dati di Napoli: la Procura ha speso 12 milioni in un anno per tenere sotto controllo poco più di 2mila utenze. Bisognerebbe ripensare tutto. Non è solo un problema di rivedere il sistema di elezione del Csm, quello è un fatto tecnico. C’è prima un problema di cultura, di mentalità».

D’accordo, il Csm verrà per ultimo, però il nodo va affrontato.

«Si potrebbero sorteggiare i candidati da eleggere, o viceversa. Un sorteggio dovrebbe esserci, per non lasciare tutto agli accordi sottobanco, ma il solo sorteggio non va bene perché andrebbe incontro al pregiudizio di incostituzionalità».

Sorteggio anche per i capi degli uffici giudiziari?

«Anche per loro. E comunque non si risolve così il problema. Tutti in qualche modo minimizzano, anche Mattarella, che parla di distorsione, di degenerazione».

Eppure la “modestia etica” di certi personaggi è fuori discussione.

«Il problema vero è che la magistratura ha acquisito troppo potere. Alla fine degli anni 70, con il terrorismo e la legislazione di emergenza la politica ha delegato i suoi compiti al codice penale. Non è che non devi processare chi ha rapito e ucciso Moro, ma devi comunque fare la tua parte».

Cosa significa?

«Vuol dire che servivano anche iniziative di tipo politico. Invece da allora la sovversione politica è stata trattata solo come un problema penale. Si sono approvate delle leggi che venivano chieste dai capi degli uffici giudiziari. La legge antiterrorismo di Cossiga è del 1980, quella sui pentiti del 1982».

Allora che tutto comincia molto prima di Tangentopoli.

«Certo. È in quegli anni che la magistratura ha acquisito un potere enorme, e quando nel ’92 la politica si è indebolita, la magistratura le ha puntato il coltello alla gola e le ha detto: adesso comandiamo noi. E non se ne esce».

E adesso?

«Adesso, con il trojan nel cellulare di Palamara, viene fuori che i magistrati quando emettono le misure cautelari si piccano anche di dare lezioni di morale. Ma non sono meglio dei politici, sono peggio».

Perché?

«Perché i politici, bene o male, sono stati eletti. I magistrati hanno soltanto vinto un concorso. Che autorità hanno per sentirsi i padroni del mondo?»

Palamara cosa dirà?

«Palamara non parla. La sua forza è quella di dire: “adesso parlo” e poi tacere».

Qual è il messaggio?

«Il messaggio è: ho sbagliato, ma non ho sbagliato da solo. Perché mi cacciate se siete come me o peggio di me? E infatti quando lo accusano di corruzione, lui cosa fa? Cominciato a lanciare messaggi».

La contropartita per tacere?

«Gli hanno risparmiato le manette per paura che parlasse. L’esatto opposto di quello che succederebbe a me e a te. E adesso la sua forza è che potrebbe parlare ma non parla».

Che cosa vuole?

«Sta trattando per rientrare. Dice all’Anm: non ho fatto niente di diverso da quello che avete fatto voi».

Ma che cosa avrebbe da dire?

«Non lo sappiamo, anche se avremmo il diritto di saperlo. Quando Cafiero de Raho gli dice che “dobbiamo lottare insieme” o quando Francesco Greco gli dice “ci vediamo al solito posto”, in un’inchiesta normale, se tu e io diciamo queste cose e ci stanno intercettando, il pm vuole sapere qual è “il solito posto” e di quale battaglia stiamo parlando, o no?»

Come andrà a finire questa storia?

«Alla fine non succederà niente. Stanno gattopardando. Poniz crede di cavarsela dicendo che il corpo della magistratura è sano, ma chi ha mai messo in dubbio che una buona parte di magistrati facciano il loro lavoro in silenzio? Il problema è che la magistratura è rappresentata da questi qui, ed esercita potere sulla politica grazie a questi qui, a quelli come Palamara più gli altri 84. In realtà sono molti di più».

Ne abbiamo citati diversi. Palamara, de Raho, Greco, Poniz… E Ferri?

«Ferri è l’unicum per eccellenza. Metà magistrato e metà politico, non si capisce bene se fa il magistrato o fa il politico…»

C’è una via di uscita, una soluzione?

«Al momento non la vedo. Il sistema appare irriformabile. Anche il consigliere giuridico di Mattarella, Erbani, è finito nelle captazioni».

Perché, con la magistratura così debole, la politica non fa una riforma?

«Perché è troppo debole anch’essa. E poi continua nelle ruberie. I politici sono ricattabili. Nemmeno quelli di Forza Italia pongono più il problema della magistratura. Temono che partano subito le inchieste.

Cosa pensi della vicenda dell’emendamento presentato da FdI e Pd per prolungare la carriera dei magistrati a 72 anni?

«Non penso nulla. Però c’è da dire che Davigo ha 70 anni, e se va in pensione a 70 anni, come dice la legge attuale, gli subentra al Csm uno che non è della sua corrente».

Gian Carlo Caselli si è lamentato del poco spazio che i giornali hanno dedicato alle tangenti sugli appalti per la metro di Milano. Avrebbe meritato almeno lo spazio concesso all’arresto di Emilio Fede, perché è un fatto grave che ricorda Tangentopoli.

«Questa storia della metropolitana non c’entra niente con Tangentopoli, allora erano soldi per i partiti, qui sono soldi presi per avidità personale da funzionari che parlano al telefono facendosi degli autogol clamorosi».

Però è sempre corruzione.

«La corruzione c’è sempre stata, anche prima del ’92, quando le procure, quella di Milano in testa, facevano finta di non vederla perché non avevano forza politica».

Non va sempre perseguita?

«Certo, ma non con la logica che i magistrati salvano il mondo. Nessuna inchiesta o processo sconfiggeranno per sempre la corruzione».

“La giustizia farà il suo corso ma per me è già una condanna” ha detto Beppe Sala.

«Che cosa dicevo della politica? La metropolitana è una società partecipata del Comune, se non ci sono gli anticorpi nella pubblica amministrazione, la responsabilità politica è anche di Sala».

Cosa dici della guerra di carte bollate per la poltrona di capo della procura di Roma?

«Vuoi sapere come finisce? Che il Csm se ne frega del ricorso al Tar di Viola e Creazzo contro Prestipino. La magistratura associata, quella che fa politica ogni minuto del suo tempo, voleva la continuità con Pignatone. Il tempo di fare due giochetti e come al solito ha vinto».

C’è un’alternativa?

«È dal ’77 che sto in tribunale a Milano e fino ad oggi il capo della Procura è sempre stato un interno. Per dare una ventata di aria fresca sarebbe auspicabile che venisse uno da fuori. Invece no. Dopo Gresti è toccato a Borrelli, D’Ambrosio, Minale, Bruti Liberati, Greco».

Non abbiamo parlate dei media. Spesso a braccetto con le procure.

«Minale, il presidente della Corte d’assise che condannò Sofri in primo grado, si vide accolta la domanda per andare in procura come pm mentre faceva il processo. S’è vista mai una cosa del genere? Giudicava il lavoro dell’ufficio che sarebbe andato a dirigere come aggiunto».

E poi?

«A seguire il processo Sofri c’era Rossana Rossanda, che rimase allibita e sul Manifesto difese la separazione delle carriere. Finito il processo Sofri, riprese a scrivere quello che il Manifesto ha sempre scritto, e cioè che la separazione delle carriere era nel programma piduista di Licio Gelli. Ecco, il paese è ancora questo. (Federico Ferraù)

Il partito dei Pm ha ucciso lo Stato di diritto, altro che quella piccola loggia di Licio Gelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Un mio amico giornalista l’altro giorno mi ha detto che magistratopoli è un po’ più del circolo Aniene e un po’ meno della P2. Io penso che sia il contrario: un po’ meno del circolo Aniene e un po’ più della P2. Il circolo Aniene è un luogo conosciuto dai romani. Un circolo sportivo tra il quartiere Flaminio e Parioli frequentato solo da vip molto vip. Che si scambiano favori e favorini, biglietti delle partite, inviti alle feste, qualche pizzino, qualche raccomandazione importante. La P2 invece è un luogo conosciuto da chi ha più di 50 anni: è il luogo dove l’immaginario politico collettivo ha collocato la sede di ogni male, ogni delitto e ogni prevaricazione politica del Novecento. Era una loggia massonica presieduta da un certo Licio Gelli, faccendiere ed ex 007 a servizio di varie bandiere, che viaggiava tra progetti di grandi riforme dello Stato e affari che lo portarono, essenzialmente, a mettere le mani sul Corriere della Sera. Per stroncare la P2, i partiti della prima Repubblica si unirono, istituirono una commissione parlamentare di inchiesta che lavorò alacremente per anni e pronunciò molte condanne incontrovertibili, anche se trovò, poi, alla fine, pochi delitti. Chissà se ora oseranno istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura. Magistratopoli secondo me è una organizzazione molto più potente della P2. Anche perché la sua organizzazione è segreta ma la sua azione è alla luce del sole ed è una azione devastante. Magistratopoli è una organizzazione segreta che condiziona e indirizza una parte molto grande della giurisdizione. È in grado di avviare processi, di fare arrestare delle persone, di processare, di condannare o assolvere a seconda delle convenienze, o delle simpatie, o delle necessità di carriera dei magistrati coinvolti. Tutti noi siamo potenziali vittime di magistratopoli, non solo i politici, non solo Berlusconi. Il Palamara-Gate ci ha mostrato che questa organizzazione segreta, che in passato – e prima che scoppiasse lo scandalo di magistratopoli – noi chiamavamo il partito dei Pm, era in grado (lo è ancora) di governare tutto il sistema della giustizia. In parte lo faceva seguendo logiche del tutto interne alla corporazione, che per noi restano oscure (chi doveva salire in carriera, chi doveva scendere, chi voleva cambiare sede, chi aveva rotto gli equilibri e andava punito…), in parte invece seguiva logiche politiche. Quali erano (anzi: sono, perché il partito dei Pm è ancora vivente e molto forte) queste logiche? Essenzialmente si trattava di ottenere dal Parlamento e dal governo la certezza che nessuno osasse mettere in discussione la Casta dei magistrati e le sue prebende, e i suoi privilegi e – soprattutto – il suo potere. Questa battaglia continua, affidata non solo ai 5 Stelle. Per ottenere questo risultato si seguiva (si segue) un percorso ideologico: il davighismo, che va anche sotto il nome di travaglismo. Consiste nel considerare sostanzialmente tutti coloro che non fanno parte della casta, o della sua servitù, come colpevoli. Da colpire o risparmiare a seconda di come si comportano, e se si piegano, e se ossequiano o invece sbeffeggiano. Si chiama giustizialismo. Il giustizialismo, attraverso il partito dei Pm e la nuova P2, è diventato una vera e propria ideologia, come in passato lo sono state il comunismo, il fascismo, il liberalismo. E il sangue e la carne di questa ideologia è la lotta al garantismo. Cioè all’idea che difende lo Stato di Diritto. Il partito dei Pm, diciamo pure la nuova P2, vede lo Stato di Diritto come il nemico giurato. Satana. Perché lo Stato di diritto esclude la prevalenza di un potere sull’altro, esclude la sottomissione della società a una casta eletta, esclude la subordinazione della legalità all’etica. Questo partito, questa grande e fortissima loggia, a differenza della piccola loggia di Licio Gelli, ha vinto. Ha messo in ginocchio la democrazia e il sistema liberale. Ha guidato molti rovesciamenti di maggioranza, a livello centrale o regionale o dei grandi comuni, indifferentemente favorendo la destra o la sinistra. Per questo dico che è molto più potente e non più modesta della P2. E sapete perché ha vinto? Perché ha ottenuto il pieno appoggio di quasi tutto lo schieramento politico, e in particolare l’appoggio incondizionato della sinistra. La sinistra ha tradito la sua vocazione democratica e si è messa a disposizione del partito dei Pm, convinta di potere in questo modo sconfiggere la destra, e in particolare Berlusconi. Il risultato? Quello di sempre: quando ti schieri con gli autoritari e i giustizialisti spingi sempre il paese a destra. L’azione dei magistrati, appoggiati dalla sinistra, ha raso al suolo la destra liberale e ha dato le chiavi dello schieramento conservatore in mano a Matteo Salvini e alla Meloni. È una legge della storia: il giustizialismo, la lotta ai diritti e alla libertà, spinge solo verso la destra reazionaria. Infatti sull’affare Berlusconi, cioè sulla sentenza pilotata contro di lui della quale si parla in questi giorni, abbiamo provato a intervistare vari esponenti della sinistra storica. Hanno tutti declinato. Tranne quel vecchio leone, quel combattente che non lo abbatti mai, 96 anni, ottanta dei quali passati nelle trincee della politica, che risponde al nome di Emanuele Macaluso. Se in Italia ci fossero stati, non dico tanto, una decina di giganti come Macaluso…

Michela Allegri per “il Messaggero” il 21 aprile 2020. Viaggi all'estero, da Londra a Dubai, fino a Ibiza. Lavori di ristrutturazione, vacanze in montagna, persino un trattamento di bellezza in una Spa. E ancora: informazioni riservate passate sottobanco, notizie di denunce e inchieste rivelate senza autorizzazione. E' con l'accusa di corruzione che il pm di Roma, Luca Palamara, ex presidente dell' Anm, rischia di finire sotto processo a Perugia. Insieme a lui, la sua amica Adele Attisani, l' ex consigliere del Csm Luigi Spina, il titolare di un' agenzia di viaggi e l' imprenditore Fabrizio Centofanti, già figura chiave nell' inchiesta sulla «cricca» in grado di pilotare sentenze del Consiglio di Stato. Secondo i pm umbri, che hanno notificato a tutti un avviso di conclusione delle indagini, Palamara, all' epoca dei fatti consigliere del Csm, avrebbe ricevuto - per sé e per la Attisani - regali e favori da Centofanti e, in cambio, avrebbe messo al servizio dell' imprenditore la sua funzione. Un' inchiesta dalla quale era emerso un vero e proprio mercato delle toghe con strategie per pilotare le nomine ai vertici delle procure più importanti, in primis quella di Roma. Tra i vari cadeaux, i magistrati umbri contestano anche un viaggio a Madrid regalato al pm e al figlio per assistere alla partita Real Madrid-Roma, un match di Champions League dell' 8 marzo 2016, per il quale Centofanti avrebbe speso oltre 1.300 euro. Ma nel capo di imputazione si legge pure che l' imprenditore, tra il 2013 e il 2017, avrebbe pagato lavori di ristrutturazione per decine di migliaia di euro nell' appartamento della Attisani, pure lei accusata di corruzione e considerata dagli inquirenti «istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità». E' finito nei guai anche Giancarlo Manfredonia, titolare di un' agenzia di viaggi: avrebbe fornito «false informazioni e documentazione artefatta» alla Finanza, che stava indagando sui viaggi organizzati da Centofanti. Pesanti anche le contestazioni anche per l' ex consigliere del Csm, Luigi Spina, che si è dimesso a causa dello scandalo: è accusato di rivelazione di segreto d' ufficio e favoreggiamento. Avrebbe informato Palamara di un esposto presentato dal pm Stefano Fava contro l' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e un aggiunto. E, inoltre, gli avrebbe passato informazioni sull' inchiesta per corruzione. Rispetto alle precedenti contestazioni, la posizione del pm si è alleggerita: non è più accusato di avere ottenuto 40mila euro per pilotare una nomina alla procura di Gela e per danneggiare un collega. Lo sottolineano i suoi avvocati, Roberto Rampioni, e Mariano e Benedetto Buratti: «In relazione alle ulteriori ipotesi la difesa è certa di poter dimostrare l' innocenza dell' assistito».

Cassazione, la sinistra prende tutto: Curzio presidente, la rabbia di Tirelli. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Le previsioni della vigilia sono state confermate: la sinistra giudiziaria ha fatto “cappotto” in Cassazione. Come anticipato dal Riformista, Pietro Curzio è il nuovo numero 1 di piazza Cavour. Dopo la nomina avvenuta lo scorso novembre del procuratore generale Giovanni Salvi, esponente di Magistratura democratica, ieri è stato il turno dell’attuale presidente della Sesta sezione civile della Cassazione, anch’egli legato alla corrente di sinistra delle toghe. Il suo nome è stato proposto all’unanimità dalla Quinta commissione del Csm. Per l’ufficialità bisognerà ora attendere mercoledì prossimo quando al Quirinale si terrà una seduta del Plenum del Csm presieduta dal presidente della Repubblica. Il passaggio di consegne in Cassazione con Giovanni Mammone, che ha raggiunto l’età pensionabile, è invece previsto il venerdì successivo. Grande amarezza, dunque, per Francesco Tirelli, presidente della prima sezione civile e attuale segretario generale della Cassazione. Sulla carta era lui ad aver più titoli, con l’attitudine specifica alle funzioni direttive rappresentata proprio dall’incarico di segretario generale, il responsabile dell’organizzazione delle sezioni civile e penali e stretto collaboratore del primo presidente. Fonti della Cassazione hanno riferito che già da giorni avrebbe fatto sapere che, in caso di bocciatura, avrebbe lasciato questo incarico. Ieri, comunque, non risultava ancora nulla di ufficiale. Forse perché in attesa dell’insediamento del nuovo presidente. Tirelli, come ricordato, è simpatizzante di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Per il segretario generale della Cassazione quella di ieri è la seconda doccia fredda dopo quella dello scorso maggio quando era stato bocciato per l’incarico di presidente del Tribunale Superiore delle acque pubbliche. Il Csm gli aveva preferito Giuseppe Napoletano. La Cassazione, comunque, si conferma ancora una volta off limits per le donne. Come la presidenza della Repubblica. Per Margherita Cassano, presidente della Corte d’appello, unica donna in lizza, il “contentino” di presidente aggiunto. L’anagrafe – è più giovane di Curzio – e un eventuale cambio di maggioranza al Csm nel 2022, potrebbe giocare a suo favore per diventare la prima donna al vertice Cassazione. Cassano, da sempre molto attiva in Magistratura indipendente, è una delle magistrate più stimate in Italia. Classe 1953, barese, esperto di diritto di lavoro, Curzio è stato recentemente autore di un saggio sul Job acts. Ed è lui che ha firmato il provvedimento con cui è stato rigettato il ricorso dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara contro la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio disposta l’anno scorso dal Csm. A tal proposito, questa settimana sono stati eletti anche i quattro componenti supplenti della Sezione disciplinare. Si tratta del laico in quota Lega Emanuele Basile e dei tre togati (giudici con funzioni di merito) Elisabetta Chinaglia, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. La prima è esponente delle toghe progressiste. I due sono invece davighiani di Autonomia&indipendenza. Il “potenziamento” della Sezione disciplinare avviene a ridosso dell’udienza fissata per il 21 luglio a carico di Luca Palamara. Per aumentare i giudici è stata necessaria una modifica del regolamento. Scelta dettata dal timore che i vari componenti possano essere ricusati dall’ex presidente dell’Anm per essere finiti in qualche chat. II laico di Forza Italia Alessio Lanzi ha espresso “serie perplessità” sulla modifica regolamentare, perché «la modifica si pone in tensione con l’articolo 25 della Costituzione sulla precostituzione del giudice per legge (…) creando di fatto dei giudici nuovi che andranno a valutare fatti precedenti alla loro nomina». Per Lanzi sarebbe stato preferibile che una riforma che incide così pesantemente sulla composizione della sezione disciplinare fosse decisa dal Parlamento o dal Governo. Altri hanno fatto rilevare come l’elezione dei supplenti debba avvenire contemporaneamente all’elezione del vice presidente del Csm. Il tempo era scaduto da tempo, insomma, ma il terrore di non poter giudicare Palamara deve aver avuto il sopravvento a Palazzo dei Marescialli.

«Attaccano me per colpire il Csm Scelto dalle correnti ma imparziale». Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Il «caso Palamara» torna ad agitare il Consiglio superiore della magistratura dopo il terremoto di un anno fa, perché nelle intercettazioni dell’ex pm indagato per corruzione compaiono altri consiglieri tuttora in carica, compreso il vicepresidente David Ermini. Che risponde partendo da una premessa: «Con la conclusione dell’inchiesta della Procura di Perugia viene alla luce tutto il materiale raccolto dagli inquirenti, ma questo non deve distogliere l’attenzione dai fatti contestati, che rimangono molto gravi. Il resto non è stato valutato rilevante sotto il profilo penale, ora toccherà alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia stabilire se ci sono aspetti di rilevanza disciplinare».

Ma un anno fa il Csm è stato ribaltato con cinque consiglieri costretti alle dimissioni…

«Il Consiglio non è stato ribaltato. Si è rinnovato in base alla legge con due subentri e tre nuovi eletti in seguito alle dimissioni di alcuni consiglieri. Nei confronti dei quali è stata avviata l’azione disciplinare perché erano emersi indizi di un’indebita ingerenza nell’attività del Csm, che evidentemente non poteva essere tollerata».

Una eterodirezione che riguardò anche la sua elezione a vicepresidente: non la imbarazza?

«Io sono stato eletto sulla base di un accordo politico tra le correnti. Sempre le elezioni del vicepresidente sono state il frutto di un accordo fra le varie componenti del Csm. Non si tratta di incarichi di magistrati».

Un accordo sancito nella cena a casa di Giuseppe Fanfani con Palamara, Cosimo Ferri e Luca Lotti?

«Fu una cena con due capicorrente riconosciuti e un esponente del Pd, lì mi dissero che l’accordo era chiuso. C’erano state in quel periodo anche altre ipotesi, poi quando s’è fatto il mio nome io cercai il consenso di Area (il cartello della sinistra giudiziaria, ndr) e mi rammaricai del loro mancato appoggio. Parlai anche con Davigo. Ma voglio chiarire che l’elezione del vicepresidente è l’unico legittimo momento di incontro tra politica e magistratura; il vero atto politico del Csm, che si realizza anche con votazioni laceranti, come tante altre volte è accaduto in passato. Poi però, fatta la scelta, il vice-presidente non può più tenere conto della maggioranza che lo ha eletto, perché diventa il garante di tutti. Ed è ciò che ho fatto, diventando un ostacolo proprio per quel gruppo».

In che senso?

«Nel senso che io mi sono sottratto alle richieste e desideri di chi voleva eterodirigere il Consiglio. E ho dimostrato fin dall’inizio di ricoprire il mio ruolo in autonomia al servizio dell’istituzione consiliare. Lo testimoniano le successive intercettazioni dove dicono: “Abbiamo fatto una c...ta a mettercelo”».

Perché lei si sfilò?

«Perché l’accordo politico per l’elezione del vicepresidente non si può trasferire sulla scelta di un procuratore o di altri incarichi direttivi; lì si tratta di nomine che vanno fatte sulla base di professionalità e merito, non altro».

La sensazione è che quelle scelte continuino a essere fatte con accordi tra correnti, sebbene le maggioranze siano cambiate.

«A volte questa sensazione può derivare dal voto compatto dei gruppi, ma intendo rimarcare alcune nomine di grande rilievo, a partire da quella del nuovo procuratore generale della Cassazione. Al Congresso dell’Associazione magistrati dissi che bisogna tutelare i magistrati e le loro professionalità indipendentemente dalle correnti, che le domande si fanno e poi non deve esserci bisogno di coltivarle con telefonate e raccomandazioni».

Sembra il libro dei sogni. Dopo lo scandalo di un anno fa, per nominare il procuratore di Roma avete impiegato nove mesi, e quello di Perugia ancora non c’è.

«Ci sono stati ritardi dovuti a vari fattori, abbiamo fatto rispettare il criterio dell’ordine cronologico nella trattazione delle procedure ma bisogna ancora sveltire le procedure sui pareri, l’emergenza coronavirus e il lavoro da remoto hanno aggiunto ulteriori complicazioni. Poi serve la riforma elettorale del Csm, ma anche regole più adatte per le nomine e per questo voglio lavorare a un aggiornamento della circolare».

Tornando al «caso Palamara», in che cosa vede il tentativo di screditarla?

«Nella strumentalizzazione di alcuni dialoghi del tutto irrilevanti, come quelli relativi alla scelta del mio consigliere giuridico, o nella risibile vicenda di un discorso che mi sarei fatto scrivere da Palamara. È semplicemente falso e sono già pronte le querele. Mi pare evidente che si tratti di una manovra, di cui non conosco gli ispiratori, che mira a confondere fatti rilevanti e gravi con le chiacchiere e i pettegolezzi solo per colpire me perché mi sono sottratto ai condizionamenti».

A quale scopo?

«Si vuole screditare me per delegittimare l’istituzione, ed è un tentativo tuttora in atto. Hanno capito che per far cadere questo Csm devono far cadere me, ma io non mi presto a questo gioco al massacro. Anche la magistratura, però, dovrebbe aiutarsi».

Come?

«Smettendola di pensare solo al consenso interno a un corpo elettorale di 9.000 persone, cercando invece di apparire credibile a 60 milioni di italiani. Mio padre era un avvocato che quando vedeva passare un magistrato si levava il cappello, in segno di rispetto; ecco, vorrei che si tornasse a quel clima».

Ieri è stato arrestato il procuratore di Taranto e indagato quello di Trani...

«Ovviamente, presiedendo io la sezione disciplinare, nulla posso dire sulla vicenda, ma l’urgenza della “questione morale” impone una riflessione. In questa consiliatura ci sono state già diverse sentenze di rimozione, e saremo sempre intransigenti di fronte a provati comportamenti lesivi dell’onorabilità della magistratura».

Intanto avete un’altra grana, con il contrasto tra il consigliere Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia. Come pensa di risolverla?

«Non è un argomento di nostra competenza, sarebbe un’invasione di campo. Anche perché riguarda una vicenda di due anni fa, che risale a quando Di Matteo non faceva parte del Csm e attiene al rapporto personale tra un magistrato e il ministro, nel cui merito non abbiamo titolo per intervenire».

Caos procure, Ermini non ci sta e minaccia querele. Ma i veleni di Perugia non si placano. Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 20 maggio 2020. “Nessun mio discorso è mai stato scritto da Luca Palamara”, ha dichiarato il vicepresidente del Csm. Il vicepresidente del Csm David Ermini e l’ex deputata del Pd, e presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, oggi giudice di Cassazione, hanno deciso di passare al contrattacco nei confronti dei giornali che in questi giorni hanno riportato le loro chat con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.«Nessun mio discorso è mai stato scritto da Luca Palamara. Quanto pubblicato in questi giorni da alcuni organi di stampa è una pura falsità», ha dichiarato il vertice di Palazzo dei Marescialli. «Dovendo intervenire a Cernobbio sulle agromafie il 19 ottobre 2018, a pochi giorni dalla mia elezione a vicepresidente, al Forum sull’agricoltura organizzato dalla Coldiretti e avendo saputo che il dottor Palamara nella consiliatura precedente era in contatto con Coldiretti per progetti di collaborazione con il Consiglio superiore della magistratura, gli ho semplicemente chiesto di farmi avere alcune informazioni nel merito delle iniziative per portare il mio indirizzo di saluto», ha puntualizzato Ermini, affermando di aver già pronte le querele.

Ferranti: io sempre a testa alta. «In tutta la mia vita sono andata a testa alta, e continuo a farlo. Sto valutando di rivolgermi a un legale per eventuali querele, per tutelarmi nelle sedi legali: quello che è stato pubblicato si commenta da solo. E poi si tratta di legittime opinioni». È stata questa, invece, la reazione dell’ex presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, a proposito dei colloqui avuti riguardo alcune nomine con Palamara. Le querele di Ermini e Ferranti seguono quelle, sempre a proposito delle chat riportate dai giornali, del togato del Csm Giuseppe Cascini e del suo predecessore Valerio Fracassi.

Toghe e politica,storia ventennale. Due giorni fa, nella bagarre seguita a queste pubblicazioni, l’Anm aveva diramato un comunicato in cui proponeva alcune soluzione per arginare il correntismo. Ad esempio impedire il ritorno dei magistrati che avevano svolto attività politica. Questo provvedimento, va detto, ha una storia quasi ventennale. Presentato la prima volta nel 2001, era stato approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne poi ripresentato, senza successo, nel 2005 e nel 2011.Nel 2014, relatori l’allora senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd, il testo era stato approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama. Trasmesso quindi alla Camera, era rimasto inspiegabilmente fermo per tre anni. Soltanto nel 2017 l’aula di Montecitorio aveva proceduto alla sua discussione, apportandovi delle modifiche sostanziali che avevano determinato il ritorno in Senato per l’approvazione definitiva. Non si fece però in tempo prima della fine della legislatura. Nel 2018 il testo è stato ripresentato, e dovrebbe far parte dell’ampio progetto di riforma della giustizia predisposto dal guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma stavolta è stato lo sconvolgimento provocato dall’epidemia del coronavirus a destinare al congelatore la disciplina dell’attività politica svolta dai magistrati. Eppure in questi ultimi anni si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia.

La delibera del 2016 approvata al Csm. Il Consiglio superiore della magistratura aveva votato nel 2016 all’unanimità un parere per inasprire le norme riguardanti il rientro delle toghe dopo eventuali esperienze politiche, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione. Anche il “Greco”, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali. E anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento a intervenire al riguardo. Nel testo iniziale un magistrato poteva entrare in politica nel rispetto di una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le funzioni, per approdare all’avvocatura dello Stato in caso di ritorno in magistratura. Dopo le modifiche, volute dal Pd, le opzioni di ricollocamento erano state estese anche ai ruoli amministrativi presso il ministero della Giustizia e al collegio giudicante, con clausola di astensione di fronte a casi riguardanti esponenti politici. Nel testo approvato con modifiche dalla Camera, gli eletti alla carica di presidente della Regione, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale, una volta cessati dal mandato, rientravano invece in magistratura non potendo però, per i successivi tre anni, prestare servizio in un distretto di Corte di appello in cui fosse compresa la circoscrizione elettorale nella quale erano stati eletti. Inoltre non potevano esercitare funzioni inquirenti e, una volta ricollocati in ruolo, ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi per tre anni. Se il magistrato non fosse stato eletto, rientrava immediatamente in servizio, venendo destinato in un ufficio che non ricadesse nella circoscrizione di candidatura e senza poter per due anni esercitare funzioni inquirenti. Si tratta di norme sulle quali tutti, inclusi gli stessi magistrati, sostengono di essere d’accordo. E che molti considerano un contributo importante anche per limitare intrecci come quelli emersi con il caso Palamara. Ma chissà perché neppure lo “scandalo” di un anno fa è riuscito a dare la spinta decisiva alla legge-miraggio.

Caso Csm, Ermini smentito dalle chat tra Palamara e Ferri. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Maggio 2020. In una intervista rilasciata questa settimana al Corriere della Sera e ripresa ieri dal Fatto Quotidiano, il vice presidente del Csm David Ermini ha affermato di essere stato nei mesi scorsi di “ostacolo” ai disegni dei gruppi che avevano contribuito in maniera determinante alla sua elezione nel settembre del 2018. Pur senza mai citarli direttamente, il riferimento è ad Unicost e a Magistratura indipendente, i due gruppi della magistratura associata che tramite Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e consigliere uscente del Csm, e Cosimo Ferri, allora parlamentare del Pd ora Iv, decisero di puntare sull’ex responsabile giustizia dei dem. Ermini, a sorpresa, superò le candidature in quel periodo più gettonate per succedere a Giovanni Legnini: quella del professore milanese Alessio Lanzi, in quota Forza Italia, e quella di Alberto Maria Benedetti, professore a Genova e scelto dal M5s. Su quest’ultimo nome ci sarebbe stata anche la convergenza delle toghe di sinistra di Area che avevano “scaricato” il parlamentare dem. Una decisione che aveva “rammaricato” Ermini. Tornando, comunque, al contenuto dell’intervista, il vice presidente ha sottolineato con forza questo aspetto, ribadendo di non essere stato mai “eterodiretto” e di ricoprire l’incarico di vice del capo dello Stato in “autonomia al servizio dell’istituzione consiliare”. Per rafforzare la tesi, ha riportato nell’intervista una conversazione intercettata lo scorso maggio con il trojan inoculato nel telefono di Palamara in cui alcuni esponenti delle due correnti sembrano lamentarsi del suo comportamento al Csm. Dalla lettura delle chat depositate nell’indagine di Perugia emerge, però, uno scenario leggermente diverso. Almeno fino a maggio. Ferri e Palamara, infatti, sono molto contenti di aver scelto Ermini. Il 23 gennaio 2019 Ferri scrive a Palamara: «Ermini mitico, ha votato per i magistrati segretari (incarico molto prestigioso al Csm, ndr). Devo dire che tra l’intervista (probabilmente, sfogliando il calendario di quei giorni, si tratta dell’intervista a Lucia Annunziata a Mezz’ora su Rai Tre, ndr) e voto di oggi ha fatto una cosa meglio dell’altra». Palamara risponde: Assolutamente sì!!! Ieri sera abbiamo assestato un grande colpo». Che i rapporti con Unicost, la corrente di cui Palamara è stato il ras indiscusso per anni pur senza ricoprire nell’ultimo periodo incarichi di vertice nella segreteria nazionale, erano eccellenti, lo dimostra la partecipazione di Ermini al maxi convegno organizzato dalle toghe di centro il 12 aprile successivo a Milano su “Mafia e diritti: prevenzione, repressione ed esecuzione della pena”. Nell’Aula magna del Palazzo di giustizia, alla presenza di tutto lo stato maggiore di Unicost, Ermini era stato l’ospite d’onore. Rileggendo i nomi dei relatori riportati sulla locandina dell’incontro non si può non notare come sia cambiato lo scenario. Luigi Spina, consigliere del Csm, indagato e dimessosi; Riccardo Fuzio, procuratore generale della Corte di Cassazione, indagato e costretto al prepensionamento; Gianluigi Morlini, consigliere del Csm, dimessosi; Francesco Basentini, capo del Dap, dimessosi. Lasciando un momento da parte il destino di Unicost, i cui attuali esponenti nella giunta Anm, precisamente Angelo Renna e Alessandra Salvadori, sono stati tirati in ballo nelle ultime intercettazioni pubblicate sui giornali, qualcosa nei rapporti con Ermini è cambiato solo ad iniziare da maggio del 2019. Il mese in cui cominciò al Csm la discussione sul nome del nuovo procuratore di Roma. Fino a quel momento, quindi, nessuno strappo.

Davigo come Jon Snow, le vicende del Csm più avvincenti del Trono di Spade. Rinaldo Romanelli, Giorgio Varano su Il Riformista il 22 Maggio 2020. Il “nuovo corso” del Csm è ormai diventato di gran lunga più avvincente perfino della fortunata serie tv “Il trono di Spade”, e si candida a colmare il vuoto che questa ha lasciato. Dopo la puntata con Di Matteo, eccone un’altra con un diverso componente del Csm. Il Consigliere Davigo l’altra sera in tv ha dato dimostrazione di quanto i principi di “Autonomia e Indipendenza” – non a caso è il nome della corrente di cui è fondatore e leader – possano essere esaltati fino a renderli universali e quindi valevoli anche al di fuori dell’esercizio della giurisdizione. Autonomia e indipendenza, in primo luogo da ogni contraddittorio qualificato. In televisione ha annunciato, con il consueto monologo davanti a volti accondiscendenti ed estasiati, che quando dopo l’estate cesserà le sue funzioni di magistrato per raggiunti limiti di età permarrà comunque nell’incarico di Consigliere togato del Csm. Autonomia e indipendenza, da ogni condizionamento che potrebbe derivare dalle sue dichiarazioni a un organo di rilievo costituzionale qual è il Csm, che dovrà trattare ad ottobre la sua pratica di decadenza per raggiunti limiti di età. Egli ha ritenuto, appunto, che la televisione fosse il luogo più idoneo ove parlarne. Autonomia e indipendenza, anche da ogni ordinario canone di ragionamento giuridico. Ha affermato che quando andrà in pensione come magistrato non lascerà il ruolo di Consigliere, salvo decisioni diverse del Csm (e ci mancherebbe pure…), perché l’art. 104 Cost. stabilisce che i Consiglieri durano in carica 4 anni. Non si comprende quale possa essere il collegamento tra la durata ordinaria del mandato e la perdita dei requisiti per la permanenza nella carica. Se il dott. Davigo avesse ragione, tutte le ipotesi di decadenza dei Consiglieri previste dalla legge istitutiva del Csm sarebbero incostituzionali. Tuttavia, per lui il mandato dura sempre quattro anni, “a prescindere”, come direbbe Totò. Autonomia e indipendenza da un principio costituzionale inderogabile: tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. E l’esercizio delle funzioni giudiziarie è, per legge, requisito necessario per la permanenza nella carica del componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Autonomia e indipendenza dalle decisioni della magistratura stessa, posto che il tema della permanenza in carica di un Consigliere togato che ha cessato l’esercizio delle funzioni in magistratura è stato già affrontato e risolto dalla magistratura amministrativa, con un principio tanto ovvio quanto invalicabile. L’esercizio delle funzioni giudiziarie è da considerarsi requisito necessario per la permanenza nella carica di componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, secondo il quale il magistrato che nel corso della carica di consigliere togato del Csm cessi dalle funzioni giudiziarie (anche per raggiunti limiti d’età) non potrà, in caso di mancate dimissioni volontarie, che essere dichiarato decaduto dalla predetta carica. Autonomia e indipendenza, rispetto all’organismo di cui si è parte. Il dott.Davigo ha spiegato in tv le sue ragioni per la permanenza in carica nell’organismo di cui è parte. A questo punto v’è d’augurarsi che il Consiglio Superiore della Magistratura affronti la questione senza attendere ottobre o la prossima puntata della saga in tv. Autonomia e indipendenza, rispetto al procedimento disciplinare. Infatti, il consigliere togato del Csm cessato dalle funzioni giudiziarie per sopraggiunti limiti d’età, che continuasse a ricoprire la carica di consigliere, si troverebbe in una posizione di immunità dal procedimento disciplinare come magistrato, pur essendo stato eletto in ragione di tale funzione, e dunque non potrebbe più operare nei suoi confronti la previsione di decadenza automatica dalla carica di consigliere, che scatta necessariamente ogniqualvolta sia comminata, all’esito del procedimento disciplinare, una sanzione più grave dell’ammonimento. Numerose ragioni di opportunità politica, di trasparenza, di ristabilimento dei rispettivi ruoli imporrebbero il subentro a ottobre del secondo degli eletti con una presa di posizione chiara del Csm già nei prossimi giorni, anche per consentire al magistrato che subentrerà di non lasciare il suo incarico attuale senza un minimo di preavviso, con conseguenti problemi per l’ufficio. Vedremo se invece ci toccherà aspettare di vedere in tv la prossima puntata della saga. 

Csm e Anm “indagano” sul caso Perugia. E tra le correnti dilagano i veleni. Il Dubbio il 19 maggio 2020. La prima commissione del Consiglio avvia una pratica di trasferimento sulle toghe coinvolte nei “nuovi” colloqui con Palamara. Tensione alle stelle fra le correnti della magistratura dopo le recenti pubblicazioni delle chat contenute nel fascicolo aperto a Perugia nei confronti dell’ex presidente Anm Luca Palamara. Il pm romano, come emerge dai brani riportati da La Verità e dal Fatto, aveva rapporti con quasi tutti i massimi vertici degli uffici giudiziari. E anche con magistrati in servizio al ministero della Giustizia, ad iniziare da Fulvio Baldi, capo di gabinetto del guardasigilli, costretto venerdì scorso alle dimissioni. Così ieri hanno avviato “ricognizioni” sia il Csm sia l’Anm. L’organo di autogoverno si muove con la propria prima commissione che, riferisce una nota, ha iniziato «l’esame dei documenti» per «attivare, con la massima tempestività, gli strumenti in materia di incompatibilità ambientale». Sempre Palazzo dei Marescialli informa che gli atti «sono stati inviati dalla Procura di Perugia anche alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia per le rispettive competenze in materia disciplinare». Il che vuol dire che il Csm potrebbe trovarsi fra poco a valutare “incolpazioni” promosse dai titolari dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe coinvolte nel sequel perugino. L’Anm a propria volta ricorda di aver chiesto gli atti a Perugia per poter effettuare le valutazioni di competenza e ha invitato tutti i magistrati alla riflessione e all’autocritica su quanto accade, avanzando anche alcune proposte per evitare la degenerazione del correntismo. Dal «divieto di ritorno all’esercizio delle funzioni giudiziarie per i magistrati che hanno assunto incarichi politici» alla «modifica del sistema elettorale del Csm» e del «Testo unico della dirigenza». Una risposta ritenuta non sufficiente dalle toghe di Magistratura indipendente, la corrente moderata che nel 2019, all’indomani delle prime pubblicazioni dei colloqui avuti da propri esponenti con Palamara, venne travolta. L’Anm «deve scegliere una linea, qualunque essa sia» perché «un anno fa ci fu una reazione immediata, anche nei tempi ( dimissioni di tre consiglieri di Mi sulla base delle sole notizie stampa, ndr)” ». Il gruppo moderato si definisce «sempre garantista: non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo ad altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi», è la ‘ frecciata’ ai magistrati di Area che nel 2019 «si stracciarono le vesti a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi». Secondo Area sarebbe invece in atto un «attacco concentrico di una parte della stampa e di una parte della magistratura alla vigilia dell’inizio del processo e dei procedimenti disciplinari per i protagonisti delle tristi vicende dell’albergo Champagne», l’albergo romano dove Cosimo Ferri, magistrato e deputato di Iv, con Palamara «incontrava magistrati e politici accomunati dall’interesse di indirizzare, dall’esterno del Csm, le nomine ad alcuni uffici giudiziari strategici per orientare l’esito di specifiche indagini e determinati processi». Le toghe di Area dicono di non rivendicare «una improponibile superiorità morale di gruppo, ma non siamo disposti a tollerare operazioni preordinate a confondere le responsabilità per giungere a una generale assoluzione che lasci tutto com’è». Tranchant il commento del magistrato Alfonso Sabella, già assessore alla Legalità al Comune di Roma: «È assolutamente indispensabile sciogliere le correnti», ha detto in un’intervista all’Adn- Kronos. Forse un rimedio estremo. Che però i veleni di queste ore rischiano di far apparire, ad alcuni, non insensato. 

Di Matteo stoppa il ritorno in ruolo di Baldi: «Risponde a logiche correntizie». Il Dubbio il 20 maggio 2020. Per l’ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non c’è pace. Ora il pm della presunta trattativa rallenta il suo ritorno a piazza Cavour. I rapporti avuti da Fulvio Baldi con Luca Palamara possono essere fatali per l’ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con il rischio di sbarrargli la strada per piazza Cavour. Ieri mattina, il Plenum del Csm doveva deliberare il ritorno “in ruolo” di Baldi dopo le dimissioni della scorsa settimana. Una pratica definita “routinaria”. La procedura, quando un magistrato cessa dall’incarico extragiudiziario, prevede che la toga venga destinata dal Csm all’ufficio di provenienza. Nel caso di Baldi, la Procura generale della Cassazione. Il rientro del magistrato nell’ufficio che ha lasciato per ricoprire l’incarico fuori ruolo è previsto anche se tale ufficio risulta a “pieno organico”. Nel caso di Baldi, invece, con un provvedimento che non ha precedenti, il Csm ha deciso, su richiesta esplicita del togato Nino Di Matteo, un “stop” forzato. Secondo il pm antimafia serve «approfondire la questione». Di Matteo, illustrando in Plenum la propria istanza, ha ricordato le intercettazioni pubblicate dai giornali nei giorni scorsi, a seguito delle quali l’ex capo di gabinetto di Alfonso Bonafede si era dimesso, osservando che in queste Baldi «si mostra disponibile a far dipendere scelte di dirigenti al Ministero da questioni correntizie». Il riferimento, in particolare, è a quanto accaduto a giugno del 2018 e riportato nelle chat contenute nel fascicolo della Procura di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm. Baldi appena insediatosi a via Arenula era stato contattato da Palamara affinché trovasse un posto al Ministero della giustizia a due magistrate, Katia Marino, sostituto procuratore a Modena, e Francesca Russo, giudice del Tribunale di Roma. Da quanto è emerso dalle chat, non aveva problemi ad esaudire le richieste dell’amico e collega di corrente. L’unico “intoppo” era la mancanza in quel momento di posti disponibili al gabinetto del Ministero. Iniziò, allora, una girandola di contatti con i vari uffici per cercare di trovare una soluzione. Tutti i tentativi non ebbero successo e le due magistrate continuarono a svolgere le rispettive funzioni. «Si, le abbiamo già viste anche con il ministro e sono di una limpidezza incredibile», disse Baldi, il giorno prima di dimettersi, ai giornalisti del Fatto che avevano riportato i suoi colloqui con Palamara. «Quale sarebbe il problema? Per un dirigente dire che un posto deve essere riservato ai “nostri”, di una corrente, è un profilo disciplinare? Io non ci vedo nulla di disciplinare. Io penso che il pluralismo culturale in un’istituzione sia fondamentale», aggiunse, spiegando che aveva detto molte di queste frasi per non «deludere un amico». Di diverso avviso, invece, il ministro Bonafede. Adesso l’incarico di capo di gabinetto è affidato ad interim a Vitiello, capo dell’Ufficio legislativo. Il motivo dello “stop” a Baldi va letto anche alla luce della funzione svolta dalla Procura generale, quella cioè di promuovere l’azione disciplinare per le toghe. Non è dato sapere su questo aspetto come si comporterà il Procuratore generale Giovanni Salvi nei confronti dei numerosi magistrati che si rivolgevano a Palamara per chiedere favori di vario genere. Comunque sia, da quanto si è appreso, il destino professionale di Baldi verrà deciso in un prossimo Plenum. Ed in un prossimo Plenum è prevista la partecipazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo ha comunicato il vice presidente David Ermini. «Sono stato ricevuto dal capo dello Stato – ha detto – il quale mi ha annunciato che una delle prossime settimane parteciperà al Plenum. Ora organizzeremo modalità e tempi». Ad un anno esatto di distanza dall’inizio dello scandalo che terremotò il Csm, Mattarella torna quindi a Palazzo dei Marescialli. La partecipazione del capo dello Stato al Plenum è un segnale della tensione che sta caratterizzando la realtà della magistratura associata, dopo la pubblicazione delle intercettazioni di Palamara, in queste settimane. Attualmente, a differenza dello scorso anno, nessun consigliere che è stato coinvolto si è dimesso.

Le toghe di Area: “Un pezzo di magistratura ci attacca per fermare il cambiamento”. Il Dubbio il 18 maggio 2020. L’associazione delle toghe progressiste si difende dopo la pubblicazione di chat del pm romano Luca Palamara, sotto inchiesta a Perugia per corruzione, che chiamano in causa esponenti del gruppo. “È in atto un attacco concentrico di una parte della stampa e della magistratura alla vigilia dell’inizio del processo e dei procedimenti disciplinari per i protagonisti delle tristi vicende dell’albergo Champagne. Un attacco anche al nostro gruppo ma, soprattutto, al cambiamento avviato all’interno del CSM dopo l’indignazione di maggio 2019”. Lo afferma il Coordinamento di Area, l’associazione delle toghe progressiste, riferendosi alla pubblicazione di chat del pm romano Luca Palamara, sotto inchiesta a Perugia per corruzione, che chiamano in causa esponenti del gruppo. “Manovrando il linguaggio- accusa Area- si riescono a costruire infinite ‘verità’ e oggi si cerca di confondere quella vicenda, pericolosa per le istituzioni, con comportamenti dei nostri odierni rappresentanti, che nulla hanno a che vedere con il corretto esercizio della loro attività istituzionale. Si riportano stralci di atti giudiziari che rappresentano segmenti di fatti che vengono poi completati e chiosati ad arte, al fine di accreditare un malcostume diffuso a tutti i livelli della magistratura”. Rispetto a questo “non possiamo tollerare operazioni mediatiche preordinate a confondere le responsabilità”. Area sottolinea di aver preso le distanze dal sistema emerso all’inizio dell’indagine su Palamara “ben prima dell’inizio dell’attuale consiliatura, con un difficile confronto interno sfociato in documenti in cui abbiamo pubblicamente denunciato l’esistenza di metodi e pratiche consociative”. Tant’è che “dalle stesse intercettazioni pubblicate nei mesi scorsi infatti emerge come il comportamento dei nostri rappresentanti al CSM sia stato l’ostacolo principale alla realizzazione degli obiettivi perseguiti nottetempo in quelle stanze di albergo”.

Guerra tra toghe, Mi denuncia “l’occupazione” del potere delle correnti. Il Dubbio il 18 maggio 2020. Caso Palamara, il durissimo attacco di Magistratura Indipendente: “I protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici”. “Già all’indomani dei fatti dello scorso maggio Magistratura indipendente ebbe a indicare il pericolo della superficialità e sommarietà con cui si stavano valutando i noti fatti, tanto da ricordare l’espressione trasformista propria del gattopardismo: "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Con un insopportabile moralismo di maniera ci si è accaniti in modo feroce contro pochi individui, convinti di poter così eludere la realtà e far finta di voler cambiare voltando frettolosamente pagina. Nulla di più errato, insensato e delegittimante”. E’ quanto sottolinea Magistratura Indipendente, in una nota a forma del presidente Mariagrazia Arena, e del segretario Paola D’Ovidio. “Ci trovavamo di fronte ad un allarme, un problema ben più serio e generalizzato che avrebbe richiesto in sede associativa una immediata autocritica collettiva Invece si è preferito cercare la strada più rapida e antidemocratica per la occupazione del potere da parte di una corrente in danno dell’altra”. “Negli ultimi giorni, con una seconda ondata di notizie giornalistiche, sono stati pubblicati stralci di messaggi whatsapp. Per uno strano scherzo del destino, i protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici. La Giunta dell’Anm, che un anno fa convocò un Cdc d’urgenza ed assemblee immediate chiedendo dimissioni ed esprimendo giudizi morali, oggi tace – denuncia Mi – evidentemente incapace di individuare soluzioni basate su una, smarrita quanto inutilmente sbandierata, Etica della responsabilità”. Il gruppo di Magistratura Indipendente, ricordano presidente e segretario, “ha avviato per tempo, rispetto a quelle drammatiche vicende, un percorso di sofferta autocritica, operando subito un radicale cambiamento e procedendo, nel segno del totale rinnovamento, unico gruppo nel panorama associativo, a un avvicendamento integrale nelle cariche statutarie al fine di favorire il più ampio contributo di sensibilità ed esperienze professionali”. “Se si vuole (tentare di) restituire credibilità e decoro alla magistratura, è necessario, ora come allora, un atto di riflessione e di autoresponsabilità anche da parte delle altre componenti associative e di tutti coloro che si trovano coinvolti: costoro pensavano forse di essere esenti e che quanto sta emergendo sulla libera Stampa non li colpisse, ma così non è stato. Ciò senza indulgere affatto – assicura Mi – sulle condotte che hanno investito anche Magistratura Indipendente per le quali, è bene ricordarlo, tre Consiglieri del Csm si sono dimessi un anno addietro, a ciò determinati, oltre che per sensibilità istituzionale, da una inaudita, terribile ferocia condita da processi sommari con l’individuazione delle loro persone quali unici capri espiatori”.

L’ATTACCO ALL’ANM. “In questi giorni più testate giornalistiche, con la curiosa assenza di quelle più diffuse, hanno nuovamente consegnato, con un tempismo che fa riflettere, al pubblico dei lettori porzioni di conversazioni di tenore simile a quelle dell’ormai noto caso Palamara, con alcuni nuovi, e molti noti, protagonisti” ma “il governo dell’Anm, con alla guida Area, tace, osserva, medita e non si scandalizza, non favella; eppure alcuni dei timonieri attuali si stracciarono le vesti nel mese di maggio 2019 a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi”. A denunciarlo, in una nota, sono i rappresentanti di Magistratura indipendente nel Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati Gli esponenti di Mi chiedono che “chi governa l’Associazione nazionale magistrati sui più recenti accadimenti prenda posizione; non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo agli altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi che, scossi dagli eventi del maggio 2019, oggi governano l’Associazione”.

I magistrati scoprono la gogna mediatica sulla propria pelle e si lamentano. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Nella mitologia greca era la nemesi. Dante la definiva la legge del contrappasso. Nei tempi moderni è il boomerang. È quanto sta accadendo in queste ore alle “toghe rosse” di Magistratura democratica, travolte dalla pubblicazione dei colloqui di alcuni autorevoli magistrati progressisti con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. I colloqui, contenuti nel fascicolo di Perugia aperto a carico di Palamara per il reato di corruzione, non hanno nulla di penalmente rilevante. Rischiano, però, di mettere in grande imbarazzo i magistrati di sinistra che lo scorso anno, sulla base di altre intercettazioni contenute nel medesimo fascicolo e dove i protagonisti erano i colleghi della corrente di destra di Magistratura indipendente, evocarono lo spettro della P2 di Licio Gelli. «È in atto un attacco concentrico di una parte della stampa e di una parte della magistratura» scrive in una nota il Coordinamento di Area, il raggruppamento di cui fa parte Md. «Si riportano – prosegue – stralci di atti giudiziari che rappresentano segmenti di fatti che vengono poi completati e chiosati ad arte, al fine di accreditare un malcostume diffuso a tutti i livelli della magistratura: una notte oscura nella quale tutti gatti sono grigi». «Manovrando il linguaggio con sapienza, si riescono a costruire infinite “verità” e oggi si cerca di confondere quella vicenda, pericolosa per le istituzioni, con atteggiamenti e comportamenti dei nostri odierni rappresentanti, che nulla hanno a che vedere con il corretto esercizio della loro attività istituzionale», continua la nota di Area. «Non siamo disposti a tollerare operazioni mediatiche preordinate a confondere le responsabilità per giungere ad una generale assoluzione che lasci tutto come sempre è stato» conclude la nota. Sul fronte dell’Anm, invece, la giunta esecutiva ha fatto sapere di aver chiesto tutti gli atti del fasciolo “Palamara” alla Procura di Perugia al fine di verificare l’eventuale sussistenza di violazioni di natura «etica” e/o “deontologica» da parte degli iscritti coinvolti nei colloqui riportata. Il caso più rilevante riguarda quello del giudice Angelo Renna di Unicost, attuale componente della giunta Anm, che lo scorso anno definì la vicenda Palamara una «Caporetto per la magistratura». «Non mi muovo senza che tu mi dica cosa fare, sei certo molto più bravo di me», scriveva Renna, che voleva diventare aggiunto a Milano, a Palamara. «Grazie, quasi mi vergogno ma mi emoziono» la successiva risposta di Renna all’interessamento di Palamara. Esclusi i profili penali, l’attenzione delle toghe si concentra ora sulle violazioni deontologiche e disciplinari. Massimo Vaccari, giudice del Tribunale di Verona, ricorda a tal proposito che Giuseppe Cascini è componente della sezione disciplinare che l’anno scorso condannò un magistrato che, fra l’altro, aveva richiesto (come parrebbe abbia fatto l’ex aggiunto di Roma) per alcuni componenti della sua famiglia dei “biglietti gratuiti per assistere alle partite di una squadra di calcio». Nella motivazione del provvedimento la disciplinare aveva evidenziato come «anche a causa della rilevanza mediatica del procedimento, gli episodi contestati sono divenuti di comune dominio ed hanno pertanto determinato un grave e oggettivo ‘vulnus’ della credibilità professionale del magistrato, dinanzi all’opinione pubblica ed agli ambienti forensi, non compatibile con l’esercizio delle funzioni». Il codice deontologico delle toghe, approvato dall’Anm su proposta di una Commissione di cui avevano fatto parte Palamara e Cascini, prevede che il magistrato corretto «non si serve del suo ruolo istituzionale o associativo per ottenere benefici o privilegi per sé o per altri». Tornando al 2019, vale la pena ricordare che il togato di Mi Paolo Criscuoli, poi dimessosi per aver partecipato pur senza intervenire alla nota cena con i deputati Ferri e Lotti, fu “invitato”, circostanza mai smentita, a non entrare in Plenum per non mettere in imbarazzo i colleghi.

Magistrati da intercettatori a intercettati: i Pm scoprono lo sputtanamento. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Nelle pagine seguenti pubblichiamo tre e-mail che si sono scambiati alcuni magistrati, dopo che diversi membri, o ex membri, del Consiglio superiore della magistratura sono stati infangati dalla pubblicazione sui giornali delle chat di Luca Palamara, intercettate e poi diffuse dalla magistratura perugina. Le pubblichiamo perché in queste lettere – apparse in questi giorni su una chat di magistrati – non c’è niente che “sputtani” i magistrati che le hanno scritte. C’è solo una idea che emerge piuttosto limpida, ed è questa: il metodo di intercettare, spiare, trafugare mail o WhatsApp privati è un metodo un po’ schifoso che non serve certo ad accertare nuove verità ma serve solo a gettare fango e fango addosso alle persone. Alcuni magistrati, specie quelli appartenenti alle correnti di sinistra, immaginano che tutto questo sia solo una manovra che serve a stringere la tenaglia sul collo di Magistratura democratica e cambiare la maggioranza del Csm. Altri si limitano a vedere lo spirito di vendetta contro singole persone. Altri denunciano le manovre della stampa, guidate evidentemente da qualcuno, e precisamente da settori nemici della stessa magistratura. Tutto vero. Qui copio testualmente una frase scritta dal magistrato Valerio Fracassi, prestigiosissimo membro del Csm per molti anni (e anche lui finito sui giornali). È una frase riferita alle intercettazioni e al metodo di diffondere e far pubblicare messaggi riservati: «Non solo questa “pesca”, che accosta chissà perché il calcio alle nomine in migliaia di messaggi, diventa oro colato, ma addirittura non ci si chiede in quale contesto sia maturata la frase riportata per comprenderne il senso compiuto. Il messaggio sintetizza, spesso è preceduto e seguito da colloqui, discussioni, accompagnato da tensioni e quindi scritto in fretta, riguarda, in questo caso, persone che si conoscono da un decennio e, nel periodo, hanno quotidianamente lavorato per quattro anni dalla mattina alla sera. Perfino le nostre chat fuori del contesto o addirittura alcuni colloqui a margine dei processi, potrebbero dar adito a letture “particolari” di chi è alla ricerca di conferme alle tesi precostituite». Già, è esattamente così. C’è però qualcosa che i nostri amici magistrati ancora non dicono. Che questo metodo di “pesca”, questa abitudine a usare intercettazioni o chiacchiere rubate come conferma di tesi precostituite, questa molto ampia possibilità di non capire o addirittura di rovesciare il senso di una frase scambiata tra amici, tutto questo è – sì, certamente – una infamia, ma non è un’infamia solo nel caso, rarissimo, nel quale le vittime sono i magistrati, è un’infamia sempre, anche quando riguarda imputati comuni o – ancor più spesso – quando riguarda gente famosa e in particolare donne o uomini politici. Non credo che sia difficilissimo fare il passo in più. Lo so benissimo che spesso, nella vita, per capire alcune ignominie bisogna passarci dentro, assaggiarle sulla pelle propria. Che fino a quel momento ti sembra che l’ignobile sia la vittima e che il carnefice sia un cavaliere puro, un Torquemada buono. Ora però è successo: fior di magistrati, di grande valore e – non ne dubito neanche per un minuto – di forte spessore morale, sono stati travolti dalle intercettazioni e dalle spie e dai giornali. Ora che è successo è bene che questi magistrati trasformino la loro autodifesa in un atto di accusa, aprendo un fronte liberale nella testuggine manettara e spiona della magistratura. Non è difficile dimostrare che nella maggior parte dei casi le intercettazioni non servono a colpire il crimine ma solo a fabbricare prove, spessissimo false. Né è difficile spiegare che ancora più spesso le intercettazioni sono usate solo nella parte non rilevante dal punto di vista penale, e cioè sono usate per sputtanare persone non colpevoli. Non è difficile neanche raccontare come le intercettazioni servono a comprare i giornalisti, a tenerli buoni, a saperli dalla propria parte e, molto di frequente – ai propri ordini. Dottor Cascini, dottor Fracassi: è così. Dottor Palamara: è così. E se solo avete un po’ di voglia di ragionare in modo oggettivo, anche voi lo capite. Vorremmo adesso avervi al nostro fianco nella battaglia per fermare questa infamia, assolutamente italiana, che sono le intercettazioni a pioggia (cento volte più numerose – dico cento volte – di quelle che si eseguono in Gran Bretagna). Il compito principale sta alla magistratura. È la magistratura che deve chiedere che sia bloccato questo sistema da Germania comunista, o da polizia fascista. Poi viene la politica. Ma la politica, lo sapete benissimo, si muove solo se ha il via libera della magistratura, su questi temi, perché è terrorizzata da voi, ha paura, è sottomessa. Così come voi siete sottomessi alla politica quando riempite gli uffici dei palazzi coi fuori ruolo e permettete che diventino dirigenti o capo di gabinetto di un ministro. Non è così? A cosa è servita l’inchiesta di Perugia? Formalmente a dirci che la magistratura funziona grazie al sottobosco delle correnti, come e molto più della politica fatta col “Cencelli”. Sapete chi è Cencelli? Un vecchio deputato dc che aveva scritto un manuale su come distribuire perfettamente i posti di governo e di sottogoverno tenendo conto di correnti, luoghi geografici, sesso ed età. Oggi c’è Palamara. Cencelli e Palamara sono due ottime persone, non è ottimo il metodo che usano per amministrare il potere. Ma che le cose funzionassero così già lo sapevamo tutti. I giornali non lo scrivevano solo perché i grandi giornali italiani sono al servizio dei Pm. Cioè, del partito dei Pm. Ora quel partito è a pezzi e i giornali sbandano. Inseguono Travaglio, ma non sono più neanche sicurissimi che il capo sia lui. E allora? Se in magistratura c’è qualcuno con un briciolo di coraggio, venga allo scoperto. Ritrovi il senso delle battaglie liberali e garantiste. Non chieda ai magistrati intercettati di dimettersi. Non hanno fatto niente di male, non si dimettano. Si decidano invece a ingaggiare la battaglia. Perché la magistratura torni ad esserci la magistratura e smetta di essere un luogo di corruzione e di mania di potere, di ricatti e vendette che rischia di travolgere la democrazia e lo Stato di diritto.

Le chat private dei magistrati, il messaggio di Fracassi e l’interpretazione fuorviante. Redazione su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Questo è il messaggio scritto dal magistrato Valerio Fracassi in una chat tra magistrati. Un quotidiano ha riportato frasi che sostiene avrei scritto in alcuni messaggi su Whatsapp a Luca Palamara nel periodo in cui ero consigliere del Csm. Risalirebbero a oltre due anni e mezzo fa. Ignoro come si sia procurato queste chat, riservate e non destinate alla pubblicazione, che leggo riportate in modo parziale e del tutto svincolate dal contesto. Ne immagino lo scopo che non mi sembra quello di cercare la verità. Vedo che ne è scaturito una specie di processo di chat in cui – da parte di qualcuno – non ci si è nemmeno chiesti se le frasi fossero rispondenti al vero, al significato del messaggio e al contesto. Un “non” fatto è stato la base per una serie di considerazioni che presupponevano la veridicità di questo fatto, anzi una veridicità “preferenziale”. Ero in dubbio se rispondere su questa chat, ma poi, controllando l’emotività che deriva da alcune “letture”, ho ritenuto necessario intervenire perché il silenzio poteva dare un’impressione sbagliata su alcune circostanze. Ho votato Annarita Pasca perché la ritenevo e ritengo la persona più adatta per il posto ricoperto. Mi sono adoperato, nell’esercizio dei miei compiti e non dall’esterno del Csm, per far sì che fosse nominata. Adoperato in un organo collegiale complesso come il Csm che nomina sulla base di maggioranze confrontando diverse opzioni e sensibilità. Con la stessa convinzione ho votato l’altra persona che lo “storico del Csm” cita nell’articolo e, conoscendo le dinamiche dell’organo collegiale, ho cercato di evitare di andare con una mia proposta di testimonianza pur nella consapevolezza altrui che si trattava delle nomine migliori, evitando così una mera “testimonianza”, meno faticosa, ma non utile per l’ufficio e ingiustamente dannosa per gli interessati. Poiché il consiglio è un organo collegiale, chiunque voglia contribuire alla nomina migliore si impegna per aggregare consenso su quelle proposte. A giudicare dalle unanimi reazioni, nessuno contesta che la nomina sia stata giusta. Quindi anche un criterio “oggettivo” avrebbe dovuto portare a questo risultato. Credo di capire che si contesti un metodo che per ora riposa sulla lettura – fuorviante – di brandelli di messaggi risalenti a oltre due anni fa, la cui fedeltà all’originale si dà per acquisita senza nemmeno il dubbio che si tratti di una strana estrapolazione di una frase che non è nemmeno il messaggio integrale, e, soprattutto, completamente svincolata dal contesto dei vari messaggi e dei colloqui che stanno a margine. Non solo questa “pesca”, che accosta chissà perché il calcio alle nomine in migliaia di messaggi, diventa oro colato, ma addirittura non ci si chiede in quale contesto sia maturata la frase riportata per comprenderne il senso compiuto. Il messaggio sintetizza, spesso è preceduto e seguito da colloqui, discussioni, accompagnato da tensioni e quindi scritto in fretta, riguarda, in questo caso, persone che si conoscono da un decennio e, nel periodo, hanno quotidianamente lavorato per quattro anni dalla mattina alla sera. Perfino le nostre chat fuori dal contesto o addirittura alcuni colloqui a margine dei processi, potrebbero dar adito a letture “particolari” di chi è alla ricerca di conferme alle tesi precostituite. Altro tema che è quello delle pressioni, delle “raccomandazioni”. Strana evocazione perché, come tutti hanno scritto, non vi è stata alcuna pressione o segnalazione da parte dell’interessata. Questo tema è a volte enfatizzato in modo ipocrita. Ci sono sollecitazioni e sollecitazioni. C’è chi, in modo del tutto fisiologico, prospetta il suo caso e le sue aspirazioni anche per sapere che cosa può verificarsi. Lo ritengo un gesto anche di fiducia in un organo rappresentativo. Talvolta la convinzione di essere il migliore porta a qualche “eccesso”, anche se umanamente comprensibile. Ci sono poi i beneficiari del “metodo Scajola”. Le pressioni a loro insaputa. Qualcuno per loro interviene, organizza cene, eventi, riunioni, invitando questo o quel consigliere e poi… interviene in modo pesante. L’ultima è quella di chi ricorre a metodi di ricatto illeciti. Nella mia esperienza ho sempre respinto i rari casi dell’ultimo tipo (e forse qualcuno dovrebbe interrogarsi sulle finalità di certa stampa). Sugli altri ho sempre operato nella ferma convinzione di ricercare la scelta migliore. Quanto accaduto pone tuttavia, a mio parere, un altro problema: ma davvero possiamo ricostruire una complessa trama con pezzi di messaggi whatsapp inviati nel corso degli anni? Ma davvero possiamo assistere alla pubblicazione da parte di alcuni giornali di sedicenti pezzi di messaggi su migliaia di oltre quattro anni, messaggi che dovrebbero godere della tutela della riservatezza, non foss’altro perché si prestano a indebite estrapolazioni e interpretazioni? Mi attendo, in questa guerra con proiettili di fango, ulteriori sviluppi di vario genere. Per la parte che mi riguarda, anche a difesa della fatica e dell’impegno di questi anni e delle ottime nomine come quella di Annarita Pasca, tutelerò la mia immagine nelle sedi opportune, nei confronti dei giornali e di chiunque, in qualunque sede, non sappia distinguere il dibattito dalla denigrazione. Un’ultima precisazione personale. Nella chat si riporta altro messaggio in cui invito Palamara a non pubblicare il posto di presidente di sezione di Brindisi in quanto destinato a me. Anche in questo caso una lettura integrale e la conoscenza dell’intero contesto avrebbe evitato errate interpretazioni. Per fortuna qui ci sono anche gli atti. Sarei tornato all’incarico che avevo prima (già…nessuna “promozione”) anche in soprannumero perché così prevede la legge. Il posto era libero e qualunque amministrazione degna di questo nome non copre un posto vacante se poi deve collocare una persona in soprannumero. In questo caso non sarebbe nemmeno stato possibile espletare prima del mio ricollocamento in ruolo il concorso e quindi, come da costante prassi e normativa, il bando sarebbe stato revocato. È quello che ho ricordato al distratto Palamara con ben altro linguaggio di quello del messaggio riportato parzialmente. Anche in questo caso mi chiedo, a parte il marchiano errore, che c’azzecca questo con la nomina della presidente Pasca e le partite di calcio. A me viene il dubbio che forse l’articolista non era alla ricerca della “verità”. Sicuramente non l’ha scritta. Mi scuso per la lunghezza ma non interverrò più sull’argomento.

I messaggi dei magistrati, il botta e risposta tra Cascini e Lima. Redazione su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Questo è il messaggio scritto dal magistrato Giuseppe Cascini in una chat tra magistrati. Io e Luca Palamara abbiamo gestito insieme per quattro anni (dal 2008 al 2012) lui come presidente e io come segretario, la giunta della Anm. Erano anni difficili, quelli del governo Berlusconi, degli scontri con la magistratura, delle norme ad personam, della riforma costituzionale sulla giustizia. Insieme abbiamo difeso l’indipendenza della magistratura e ci siamo battuti per una autoriforma del sistema giudiziario. Ne è nato un legame di amicizia e di solidarietà che è durato fino ad epoca recente e che io non intendo rinnegare. Io sapevo che Luca sosteneva la mia nomina a procuratore aggiunto e lui, dopo la votazione, mi ha comunicato l’esito della commissione. Ho chiesto informazioni a Luca sulla possibile nomina di Stefano Pesci ad aggiunto a Bologna. Una informazione e una prognosi, niente di più. Appena arrivato al Consiglio ho ricevuto una tessera del Coni che mi autorizzava ad entrare allo stadio (un benefit che ora è stato giustamente eliminato). Ho solo chiesto a Luca (che era appena cessato come componente del Csm) se era possibile portare mio figlio con me e se aveva un riferimento al Coni per chiedere. Non ho mai parlato con Luca del trasferimento di mio fratello a Roma. Ero a conoscenza della vicenda, della quale Luca mi comunicò l’esito. Nella mia vita professionale e associativa ho sempre contrastato i metodi e le prassi che emergono dall’inchiesta di Perugia. E non ho mai chiesto favori a nessuno né per me né per altri. Per questo ho già dato mandato al mio legale di agire in giudizio per diffamazione nei confronti del quotidiano. Giuseppe Cascini

Questo è il messaggio scritto dal magistrato Felice Lima in una chat di magistrati. Cascini, prima facevi il Procuratore Aggiunto di Roma. Dunque, è veramente strano che ti si debbano spiegare cose che dovresti sapere e sapere MOLTO BENE. Sei titolare di un posto pubblico di enorme importanza. Da ciò discende il tuo dovere di trasparenza e il diritto del resto del mondo di commentare le tue azioni. Puoi querelare chi ti pare. Non so niente de “La Verità” e non mi fanno nessuna simpatia, sicché se mai farai la querela che sventoli e se ne avrai un successo ne sarò contento per te. Ora, tornando a noi, in ossequio a quel dovere di trasparenza che ti ho appena ricordato, ti dico quanto segue. 1. Spiegarci in cosa consista la diffamazione di cui accusi “La Verità”. Dicci in cosa quell’articolo è diffamatorio. Dicci cosa ci sia di falso e noi festeggeremo con te. Ma senza Annina e tutti i tuoi amici. Solo noi e tu. Felici di avere appreso che hanno mentito in tuo danno e che non è vero quello che tutti gli italiani hanno letto stamattina. 2. Hai scritto: «Appena arrivato al Consiglio ho ricevuto una tessera del CONI che mi autorizzava ad entrare allo stadio (un benefit che ora è stato giustamente eliminato). Ho solo chiesto a Luca (che era appena cessato come componente del CSM) se era possibile portare mio figlio con me e se aveva un riferimento al CONI per chiedere». Non c’era alcun bisogno di disturbare Palamara per questa cosa. Ti spiego come facciamo noi, le persone “normali”. Certo che è possibile portare tuo figlio allo stadio. Devi solo fare una banalissima cosa: comprargli un biglietto. Prendi lo stipendio di magistrato e circa 100.000 euri l’anno IN PIU’ per il ruolo di Consigliere. Dovresti farcela a comprare un biglietto per lo stadio, senza chiedere “favori” e senza lasciare affamata la tua famiglia. Peraltro, tu stesso scrivi (paradossalmente) che il benefit di cui godevi era ingiusto: «un benefit che ora è stato GIUSTAMENTE eliminato». 3. Hai scritto che insieme a Palamara hai difeso l’indipendenza della magistratura. Noi non ci ricordiamo questo. Noi vi ricordiamo insieme a dare addosso ai colleghi di Salerno. 4. Infine, ti spiego dov’è lo scandalo che emerge da quel giornale. E’ nel fatto che tu sei uno di Md e voi avete per decenni fondato la vostra ragion d’essere nel sostenere di essere “culturalmente” diversi da quelli di Unicost. Quando sono emerse in maniera evidente le cose che riguardano Palamara tu hai sottolineato quanto fossero deplorevoli. Tutto ciò posto, nessuno si aspettava che tu “Annina” e Pesci foste così solidali con Palamara. Che non era e non è solo Unicost. Non “di” Unicost, ma proprio “Unicost”. Ma è come tutti sapevano bene e oggi sanno ancora meglio che è. Insomma, stando alla vostra narrazione pubblica, i vostri elettori si aspettavano (o fingevano di aspettarsi) che tu e Palamara al massimo vi salutaste con cortesia o vi dedicaste insieme, a malincuore, alle necessarie attività istituzionali. Non che tu gli chiedessi biglietti per lo stadio e lo ringraziassi per le sorti di concorsi pubblici che riguardassero tuoi parenti o amici. Dunque, se oltre a sventolare querele, ci facessi la cortesia di una edizione speciale dei Diari in cui ci spieghi cosa c’è di sbagliato in quello che ti ho appena scritto ne saremmo tutti molto ma molto confortati. In mancanza, resta solo un sentimento profondo di amarezza. Statti bene. Felice Lima

Quegli spifferi che arrivano dalla procura Perugia: prima i togati, poi la stampa e ora il fedelissimo di Bonafede. Giulia Merlo su Il Dubbio il 15 maggio 2020. Prima le indiscrezioni su Luca Palamara, poi quelle sui giornalisti “amici” dei pm e ora l’uomo di fiducia del ministro della Giustizia…Ormai è un vero e proprio virus, quello che dalla Procura di Perugia contagia chiunque ruoti intorno all’inchiesta contro Luca Palamara. O meglio, che contagia chiunque abbia parlato al telefono con l’ex membro dell’Anm e che dunque sia finito nei brogliacci delle intercettazioni ora nelle mani dei magistrati. La sorte toccata al capo di Gabinetto del Ministro Bonafede, Fulvio Baldi, infatti, è solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Prima del suo, sono stati molti i nomi a finire direttamente dagli atti di indagine alle pagine dei giornali, in un flusso all’apparenza inarrestabile che sgorga direttamente da Perugia. Poche settimane fa e a qualche giorno dalla notizia della conclusione delle indagini, a risultare “schedati” dalla procura erano stati i principali cronisti di giudiziaria, da Liliana Milella di Repubblica a Giovanni Bianconi del Corriere, ma i nomi citati sono circa una ventina. Le intercettazioni delle loro conversazioni private con Palamara, pur senza contenere alcun elemento utile alle indagini, erano finite pubblicate in un articolo della Verità. L’esito è stato quello di un discreto imbarazzo, oltre al disvelamento di rapporti riservati tra stampa e magistratura, ma nessuna conseguenza diretta per i colleghi. Solo, al massimo, un certo biasimo per il metodo con cui vengono compilate le informative della polizia giudiziaria, che pur dovrebbero contenere solo le trascrizioni delle intercettazioni rilevanti. Lo stesso è poi successo, con esiti ben più pesanti, anche all’ex pg di Cassazione Riccardo Fuzio. Anche in questo caso il Trojan installato nel cellulare di Palamara ha registrato le loro conversazioni, date alla stampa prima della conclusione delle indagini. Fuzio non è politicamente sopravvissuto allo scandalo: ha scelto la via del pensionamento anticipato ed è finito a sua volta indagato. Infine – terminando il percorso a ritroso nei fatti collaterali all’indagine che ha fatto tremare il Csm nel giugno scorso – la stessa sequenza è toccata anche a cinque togati del Csm. Tutti intercettati di riflesso a Palamara, tutti finiti nelle trascrizioni pubblicate da mezza stampa italiana. Contro di loro, conversazioni con Palamara per la decisione di alcune nomine di magistrati. Alla fine, i togati di Magistratura Indipendente Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli e quello di Unicost Gianluigi Morlini e Luigi Spina (unico indagato) si sono dimessi dal ruolo di consiglieri al Csm.La beffa, in questa maxi inchiesta che ha terremotato l’organo di autogoverno della magistratura, è che potrebbe concludersi in un nulla, almeno sul fronte prettamente giudiziario. Sono cadute, infatti, tutte le ipotesi di reato a carico di Palamara per le presunte nomine pilotate e che è stata chiesta l’archiviazione anche per corruzione aggravata e in atti giudiziari.

Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Agli atti dell'inchiesta della procura di Perugia sulle nomine dei magistrati ci sono anche le intercettazioni di Fulvio Baldi, capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, che l'ex pm di Roma chiama "Fulvietto". Baldi è ovviamente estraneo alle indagini, ma gli investigatori riportano le registrazioni in cui è coinvolto perché sono un elemento utile a ricostruire l'enorme potere dell'ex presidente dell'Anm. E poi perché ricostruiscono come funzionano le correnti della magistratura, come gestiscono il potere, come si muovono, come spingono per far ottenere ai loro iscritti poltrone di prestigio. La replica: "Con Palamara siamo amici da tanti anni ma i suoi problemi giudiziari emergono solo dopo le conversazioni in questione. Le intercettazioni? Non le conosco ma non vedo nessun profilo disciplinare". di Marco Lillo e Antonio Massari il 14 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano.  Luca Palamara lo chiamava “Fulvietto”. Gli faceva dei nomi di magistrate, gli chiedeva di piazzarle in posti di staff nei ministeri. Fulvietto rispondeva: “Te la porto qua stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto”. E quando Palamara era dubbioso Fulvietto lo rassicurava: “Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. I “nostri” erano probabilmente i magistrati di Unicost, la corrente moderata delle toghe, il cui leader era proprio il pm indagato nell’inchiesta sulle nomine al Csm. Fulvietto, invece, è Fulvio Baldi, già sostituto procuratore generale della Cassazione, candidato nel 2012 al Comitato Direttivo dell’Anm per Unicost e da quasi due anni capo di gabinetto di Alfonso Bonafede al ministero della giustizia. Sulla sua scrivania passano tutte le pratiche più delicate: le leggi, le nomine, i fascicoli giudiziari. Tra questi ultimi anche gli atti inviati dalle procure quando a finire sotto inchiesta sono i magistrati, affinché il guardasigilli possa esercitare l’azione disciplinare. È successo anche con l’indagine su Palamara e in quel caso il ministro Bonafede non ha perso tempo e ha attivato le sue prerogative: alla fine il magistrato è finito davanti al collegio disciplinare ed è stato sospeso dallo stipendio e dalle sue funzioni da pm di Roma, in attesa che la giustizia faccia il suo corso e confermi o smentisca le ipotesi accusatorie. Da alcune settimane i pm perugini hanno chiuso l’inchiesta che ha provocato un vero e proprio terremoto fin dentro le stanze di Palazzo dei marescialli, con le dimissioni di cinque consiglieri e l’azzeramento dell’iter per la nomina del nuovo capo della procura di Roma. Agli atti sono finite anche le intercettazioni tra Palamara e Baldi, pure lui esponente di Unicost, la corrente più rappresentata (ma non l’unica) nelle stanze del ministero della giustizia. Oltre a Baldi ne fa parte Francesco Basentini, nominato dallo stesso Bonafede a capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, fino alle dimissioni di qualche giorno fa. Nel gabinetto c’è anche Leonardo Pucci, vice di Baldi e già compagno di studi a Firenze di Bonafede. Assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci conosce oltre a Basentini anche Luigi Spina, poi divenuto consigliere del Csm di Unicost, travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara. Pucci è l’uomo più vicino a Bonafede ma il ruolo di vertice nel gabinetto è occupato da due anni da Baldi. Salernitano, 52 anni, è ovviamente estraneo alle indagini su Palamara. Le parole intercettate della Guardia di Finanza non fanno ipotizzare a suo carico alcuna fattispecie di reato. Gli investigatori le riportano perché sono un elemento utile a ricostruire l’enorme potere di Palamara, pm sotto inchiesta. Ricostruiscono, infatti, come funzionano le correnti della magistratura, come gestiscono il potere, come si muovono, come spingono per far ottenere ai loro iscritti poltrone di prestigio e poi giù giù fino ai posti minori di staff. E anche come entrano in contrasto tra loro. A questo proposito, va detto che Bonafede è autore di una proposta di legge anti-correnti che puntava a introdurre il sorteggio per le elezioni al Csm. Dopo la caduta del governo con la Lega, però, il M5s ha dovuto discutere la nuova riforma della giustizia col Pd. E la proposta di sorteggiare i membri del Csm è svanita dal tavolo. Col sorteggio lo strapotere delle correnti sarebbe stato indubbiamente azzerato. E non si sarebbero più lette intercettazioni come quelle di Palamara. Che al capo di gabinetto di Bonafede segnala una serie di nomi per incarichi negli staff di uffici e dipartimenti. In una conversazione si cita di passaggio anche il Dap, finito di recente al centro delle cronache per il “caso Di Matteo” e le scarcerazioni di mafiosi: anche lì Baldi pensava di poter piazzare una magistrata raccomandata da Palamara. Quella manovra, però, non è andata a buon fine. Forse anche perché, due settimane dopo le ultime telefonate intercettate con il capo di gabinetto del ministro, Palamara è stato travolto dall’inchiesta di Perugia. È proprio leggendo le carte dell’indagine umbra che si scopre come le trame dell’ex presidente dell’Anm passavano anche dall’ufficio di Baldi in via Arenula. È il 3 aprile del 2018 e Palamara chiede al capo di gabinetto di Bonafede di sistemare al ministero una magistrata a lui vicina: si chiama Katia Marino ed è sostituto procuratore a Modena. Baldi risponde ‘presente’ e dice che la donna sarà contattata nel pomeriggio da Mauro Vitiello, capo dell’ufficio legislativo: “Ho passato il nome – dice – vediamo che cazzo succede prima o poi te la porto qua stai tranquillo perché è una considerazione che ho per te un affetto che ho per te e lo meriti tutto”. “Va bene”, risponde tranquillo Palamara. Ma c’è un problema. Mauro Vitiello, il capo dell’Ufficio legislativo del ministero citato da Baldi, è di un’altra corrente: appartiene a Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, e non ai moderati di Unicost. Già giudice fallimentare a Milano, Vitiello non è l’unico esponente di Md in via Arenula: sua compagna di corrente è la sua vice, Concetta Locurto, già coordinatrice nel capoluogo lombardo di Area, il cartello di correnti di sinistra dei magistrati. Quello può essere un problema, almeno a leggere le parole di Baldi, che chiama Palamara desolato: “Vitiello ha sentito la ragazza, Katia Marino, ed è andata come deve andare aggiungendo ‘uomini però di mala fede i soliti di Magistratura Democratica‘”. Poi Baldi sostiene che Vitiello gli avrebbe detto: “Prenditela tu”. Ma il capo di gabinetto di Bonafede ha esaurito i posti liberi: “Ho detto – continua – ma io se non ero completo non c’era nessun problema’”. A quel punto il magistrato mette a disposizione del suo capocorrente una serie di possibili incarichi al ministero della Giustizia: “Però – dice Baldi a Palamara – abbiamo varie strade. Abbiamo l’Ispettorato, abbiamo il Dap, ma la strada più praticabile a questo punto è dal 6 maggio la Casola prende possesso al Dag. E’ qui già dal 7 maggio la Casola e mattina può far partire la richiesta insomma”. Il riferimento è a un altro magistrato, Maria Casola, stimata giudice autrice di note di dottrina pubblicate sul sito di Unicost, che dopo pochi giorni effettivamente sarebbe diventata capo Dipartimento per gli Affari di Giustizia. A Palamara sembra che la previsione di Baldi sia un po’ troppo semplicistica e quindi chiede: “Se la prende lei o no?”. Quasi indignato per la domanda, Baldi replica: “Eh beh ma la Casola è nostra ragazzi, gliela indichiamo noi che cazzo, e allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?”. Una frase che dimostra meglio di cento indagini come funzionino le nomine basate sui criteri di appartenenza nel mondo della magistratura. Soprattutto perché a pronunciarla è il capo di gabinetto del ministero della giustizia. Che parlando con l’amico Palamara spiega come va il mondo: “Glielo dico io tranquillamente (a Maria Casola, Ndr) tanto abbiamo tempo fino al 6 maggio poi gliela presentiamo (la dottoressa Marino, Ndr) però glielo voglio dire che poi ci sei pure tu dietro perché vai rispettato pure tu (…) glielo diciamo tutti e due insomma”. Il capo di gabinetto è fiero del suo potere: “Quindi – dice – hai capito che cazzo questa gente deve capire che la ruota gira nella vita”. Baldi – annota il Gico della Guardia di Finanza – “continua dicendo che ha 51 anni e che per altri 19 dovrà lavorare ovvero che tutti si devono voler bene e rispettare”. Le manovre non si fermano al ministero. Dopo aver chiuso la telefonata con Baldi, Palamara chiama Nicola Clivio, consigliere del Csm dal 2014 al 2018 in quota Area. “Ciccio me l’hanno purgata! La fonte sono quelli di Md che l’hanno bruciata però guarda che è una brava ragazza”. Clivio risponde spiegando che dopo il messaggino ha preso informazioni e gliene hanno parlato male. Palamara ribadisce: “Sono quelli di Area e Magistratura Democratica, i soliti”. L’ex pm di Roma chiude chiedendo a Clivio di parlare con Vitiello. Poi richiama Katia Marino e le dice che Fulvio Baldi gli ha detto: “Vitiello o non Vitiello Katia viene”. Anche la Marino conferma quella frase di Baldi, poi Palamara si vanta e le racconta che “lui è stato aggressivo come il suo solito dimostrando che deve forzare la mano affinché il trasferimento riesca”. Non riuscirà: oggi Katia Marino è ancora un pm di Modena e non è mai andata a lavorare la ministero. Le manovre di Palamara non riguardano solo lei e non si fermano al ministero della Giustizia. Arrivano, infatti, anche in altri dicasteri, come alla Farnesina. È il 17 maggio 2019, esattamente un anno fa, e il pm sollecita un’altra nomina a Baldi, quella della dottoressa Francesca Russo. La definisce “vicinissima a noi”. Baldi, scrive il gip, “chiede i suoi contatti dicendo che al Ministero Affari Esteri ha questa possibilità avendo carta bianca”. Il capo di gabinetto di Bonafede, viste le difficoltà incontrate per la dottoressa Marino in via Arenula, punta sulla Farnesina. Scrivono le Fiamme gialle “chiede se a Katia Marino può interessare un posto all’ufficio Contenzioso del Ministero degli Esteri seppur senza indennità aggiuntive (…) Palamara si informerà specie sul discorso della lingua”. Evidentemente il capo di gabinetto di via Arenula ci tiene a sottolineare di avere una rete di rapporti che vanno oltre il suo dicastero: “Fulvio – continuano gli inquirenti – conclude dicendo dipende solo da me capito non da capi Dipartimento e tutto, la mando io la porto io eh eh eh”. La dottoressa Katia Marino, però, fa capire a Palamara, “che avrebbe delle difficoltà con le lingue e che quindi sicuramente il posto proposto (al ministero degli Affari esteri) sarebbe per lei peggiore rispetto a dove è attualmente”. Insomma la pm non è fortissima sulle lingue, e quindi preferisce andare al ministero di giustizia, dove si parla solo italiano. “Palamara – annota la Finanza – le spiega che c’erano altre opportunità che per ora sono in stand by a causa di Vitiello che fa opposizione per privilegiare i suoi ovvero quelli di Md (…) quindi parlano di Fulvio Baldi nei confronti del quale formulano elogi e Palamara aggiunge che ha capito chiaramente che la Marino deve rientrare aggiungendo: Lo sa non solo Fulvio ma lo sanno anche quelli vicino al Ministro’”. Passano appena 12 giorni e sui giornali esce la notizia che Palamara è indagato. Tutto si ferma. La dottoressa Katia Marino e la dottoressa Francesca Russo, che non sono mai state indagate, sono ancora al loro posto al Tribunale di Roma e alla Procura di Modena. Non sono mai passate al ministero. Sentito dal Fatto Fulvio Baldi dice: “Abbiamo già visto con il Ministro Bonafede alcune mie chat con Palamara su questa vicenda e non c’è nulla di male”. Le chat, secondo Baldi, sono arrivate all’ispettorato del Ministero competente a valutare eventuali profili disciplinari dell’inchiesta. Ovviamente non su Fulvio Baldi ma su altri. “Io non ho letto queste intercettazioni che lei mi riferisce ma non vedo nessun profilo disciplinare a mio carico nelle frasi che mi legge”, spiega Baldi al Fatto che gli chiede un parere sulle sue stesse parole. “Siamo amici con Luca Palamara da tanti anni – spiega Baldi al Fatto – ma i suoi problemi giudiziari emergono solo dopo le conversazioni in questione. Io non ho portato al Ministero la dottoressa Katia Marino. Nel novembre 2018 l’ho incontrata su segnalazione di Palamara ma non l’ho presa. Poi la ho segnalata al dottor Mauro Vitiello e lui non l’ha voluta prendere. Certo, ho detto a Palamara, ‘vedrai che te la porto‘ ma solo per non deludere un amico dicendo alcune cose negative. Anche la dottoressa Francesca Russo l’ho vista al Ministero e ho ritenuto di disporre il collocamento fuori ruolo al Mae per altre tre persone. La dottoressa Katia Marino non l’ho mandata al Mae. Al Ministero ci sono 80 persone. E sono tanti che mi segnalano persone. Io faccio colloqui e vedo se la persona segnalata è compatibile”. E le intercettazioni in cui Baldi dice a Palamara “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?”. Baldi replica al Fatto: “Io definivo ‘i nostri’ quelli che appartenevano a quella che era la mia corrente Unicost. Io però sono uscito da Unicost a settembre 2019”. Quanto all’ex direttore del Dap Francesco Basentini, Baldi è netto: “Basentini lo ho conosciuto al Ministero, come anche Leonardo Pucci. Io non li ho mai visti in una riunione di corrente”.

Inchiesta Csm, dopo l’articolo su ilfattoquotidiano.it si dimette il capo di gabinetto del ministero della Giustizia. Le dimissioni dopo l'articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: "Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero". Fonti vicine al Guardasigilli fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Fatto Quotidiano il 15 maggio 2020.

Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Il capo di gabinetto del Ministero di Giustizia Fulvio Baldi si è dimesso. Le agenzie di stampa riferiscono “ragioni personali” molto sinteticamente. La reggenza è stata affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Le dimissioni arrivano poco dopo la telefonata con Il Fatto quotidiano (e la pubblicazione sul sito de ilfattoquotidiano.it dell’articolo di Marco Lillo e Antonio Massari: “Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero”) che ha letto a Baldi le intercettazioni delle conversazioni con Luca Palamara del periodo aprile-maggio 2019. In quelle conversazioni Baldi parlava di raccomandazioni in favore di una pm e di una giudice che volevano andare a lavorare al Ministero di via Arenula. Intorno alle 20, terminata la telefonata, Baldi ha avuto un colloquio con il Ministro Alfonso Bonafede. Alla fine del colloquio si è deciso a dare le dimissioni dal suo incarico che ricopriva dal 28 giugno del 2018.

Csm, nelle carte lo strapotere della corrente di Palamara pure dentro al ministero. Il capo di gabinetto: “Che cazzo li piazziamo a fare i nostri?” Fonti vicine al ministro fanno sapere che Bonafede non ha apprezzato le logiche correntizie rivendicate da Baldi nelle conversazioni telefoniche con Luca Palamara. Il Capo di Gabinetto (ovviamente mai indagato) parlava con il suo amico e compagno di corrente nel periodo in cui Palamara era indagato e intercettato dal Gico della GdF di Roma in un’inchiesta segreta dei pm di Perugia che da poche settimane si è chiusa con il deposito degli atti e l’accusa di corruzione nei confronti dell’ex consigliere del Csm. All’epoca Baldi, che ha militato per moltissimi anni in Unicost, corrente centrista della quale Palamara era leader e consigliere Csm uscente, non poteva sapere che Palamara era indagato, ma poteva conoscere l’esistenza del fascicolo perugino (allora senza indagati) che fu svelata dal Fatto il 27 settembre del 2018. Il posto di capo gabinetto resta vacante, ma Alfonso Bonafede ha per ora affidato la reggenza proprio a Mauro Vitiello, il capo dell’ufficio legislativo citato nelle intercettazioni di Palamara con Baldi. Mauro Vitiello, a detta di Baldi, dopo un colloquio ad aprile 2019 con una pm di Modena che voleva venire al ministero, non aveva voluto prenderla. La dottoressa Katia Marino era stata raccomandata a Baldi da Luca Palamara. Tuttora lavora alla Procura di Modena e ovviamente non ha nessuna colpa in questa vicenda, avendo solo chiesto all’amico Luca Palamara che stava a Roma se c’era bisogno di una persona nello staff del Ministero. Baldi nelle intercettazioni sosteneva che Vitiello fosse contrario anche perché di area MD, la corrente progressista della magistratura contrapposta di Unicost. Però, come ha spiegato Baldi ieri al Fatto durante il colloquio precedente alle sue dimissioni, “io pensavo allora fosse di Md poi ho scoperto che Vitiello non ne fa parte”. Ora Alfonso Bonafede deve decidere chi sarà il suo nuovo capo di gabinetto, una posizione nevralgica per il funzionamento del ministero.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 maggio 2020. L'articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara ieri ha fatto il giro degli uffici giudiziari, del Csm e delle mailing list delle toghe. In molti sono rimasti colpiti dai discutibili messaggi del consigliere del Csm Marco Mancinetti, sino all' anno scorso in strettissimi rapporti con lo stesso Palamara, oltre che suo compagno di corrente in Unicost. Ma nelle chat depositate presso il tribunale di Perugia spunta anche il nome di David Ermini, attuale vicepresidente del Csm, al cui vertice c' è il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Dai messaggi emergono i vecchi rapporti con il pm sotto inchiesta, con Cosimo Ferri e Luca Lotti, lo stesso gruppo che ha sostenuto nel maggio 2019 la candidatura a procuratore di Roma di Marcello Viola, rovinando la carriera di diversi consiglieri del Csm presenti alle riunioni.

I contatti tra Ermini e Palamara iniziano nel luglio 2018. Si erano appena svolte le elezioni per la nomina dei consiglieri del parlamentino dei giudici ed erano iniziate le grandi manovre per nominare il vicepresidente. Palamara era consigliere uscente. «Ciao Luca. Io sono a Roma. Penso di rimanere fino a giovedì o venerdì mattina» scrive Ermini, in quel momento candidato per la prestigiosa poltrona del Giglio magico. Palamara gli dà appuntamento all' hotel Montemartini. «Quando vuoi puoi chiamare Luigi Spina (pm indagato con Palamara a Perugia, ndr) che aspetta tua chiamata», gli fa sapere.

Il 19 settembre 2018 il consigliere uscente in quota Maria Elena Boschi, Giuseppe Fanfani, manda questo messaggio a Palamara: «Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata io, te, Cosimo e David». Alla serata, a quanto risulta alla Verità, si unirà Lotti. Palamara il 24 settembre fa sapere al futuro vicepresidente che «tutto procede bene» per la sua elezione a vice del Csm. «Grazie», è la risposta. Il giorno della vittoria Palamara festeggia Ermini: «Godo! Insieme a te!». Il neoeletto richiama, ma la telefonata va persa.

Lo stesso giorno Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia dell' informativa a carico di Palamara inviata dalla Procura di Roma a Perugia. Ma questo non è sufficiente a raffreddare i rapporti tra il grande elettore e il beneficiato. Il 2 ottobre Palamara propone: «Caro Davide se riesci e non sei stanco ci beviamo una cosa da me dalle 23.30 con Cosimo e Luca (probabilmente sempre Lotti, ndr)». Ermini non può, ma il 3 ottobre, verosimilmente con la stessa compagnia di giro, accetta di prendere un caffè al Montemartini.

 Il 12 riscrive Palamara: «Caro David puoi bloccare se non hai altri impegni 22 o 24 ottobre sera? Volevo organizzare cena ristretta con Cafiero de Raho (Federico, procuratore nazionale antimafia, ndr). Un abbraccio e quando vuoi caffè».

Ermini: «Ok. Per ora sono libero tutte e due le date. Fammi sapere». Palamara: «Blocchiamo 22 ottobre». Ermini: «Ok fatto». Al messaggio seguono due pollicioni gialli. Il 17 ottobre il pm torna alla carica: «Caro David ci possiamo sentire un istante appena puoi?». Ermini: «Ti chiamo dopo plenum della mattina». Tra le prime uscite pubbliche del vicepresidente ci sono quella per il seminario della corrente di Magistratura indipendente e quella per il congresso dell' Unione delle camere penali a Sorrento. Entrambi gli appuntamenti si sono tenuti il 19 ottobre 2018. Due giorni prima Palamara scrive: «Per domani entro le 13 ti mando traccia intervento». Il 18 ottobre forse la bozza non è arrivata, perché Ermini sollecita: «Mi mandi un paio di punti per la traccia dell' intervento di domani?».

Passano pochi minuti e il pm replica: «Mi hanno assicurato entro mezz' ora arriva tutto [] Inviata».Qualche giorno dopo Palamara informa il nuovo amico: «Confermato domani sera ore 21 ristorante mamma Angelina». Il 26 ottobre il magistrato si complimenta: «Grande David, ottima intervista: precisa, chiara, puntuale. Ci vediamo a pranzo martedì con Riccardo (probabilmente Fuzio, ex procuratore generale della Cassazione indagato con Palamara a Perugia, ndr)». Ermini: «Ok! Grazie mille».

Il 13 novembre Palamara informa l' interlocutore: «Sono dentro». Il 19 fissano un altro appuntamento. Palamara: «Ciao David ci vediamo dopo Mattarella?». Ermini: «Allora ci vediamo dopo le 12.15. Per me ok». Il 20 novembre commentano un' intervista televisiva di Pier Camillo Davigo: «Anche stasera Davigo debole», è il giudizio di Palamara. «Va troppo spesso in tv... secondo me così si inflaziona [] alla fine non fa più notizia», chiosa Ermini. Il 20 dicembre i due fissano per un caffè al Montemartini, ma poi con un lungo messaggio di giustificazione Ermini annulla l' appuntamento.

Palamara il 14 gennaio propone un' altra cena con Cafiero de Raho e Riccardo. Ermini: «Il 21 non ci sono. Il 22 va bene». Il 20 gennaio Palamara si complimenta («Bravissimo»), Ermini ringrazia. Il 21 gennaio: «Confermato domani sera ore 21 a casa mia [] ci saranno Cafiero, Riccardo e Cosimo». Ermini: «Ok». Il 25 gennaio nuovi complimenti del pm sotto inchiesta a Ermini: «Hai fatto grande intervento... ottimo anche passaggio su Csm e giudice Anm. Un abbraccio». Ermini è soddisfatto: «Grazie Luca!».

A febbraio Palamara vuole coinvolgere il vicepresidente in un torneo di calcio in Calabria. Ermini prova a obiettare che lo stesso giorno «c' è un mega convegno a Milano». Ma a togliere le castagne dal fuoco ci pensa lo stesso Palamara spiegandogli che ha rinviato «l' evento culturale e sportivo» a dopo la chiusura delle scuole: «Quindi puoi cancellare impegno del 12 aprile e andare tranquillamente a Milano», gli concede Palamara. «Ok grazie», ribatte grato Ermini. Il 22 febbraio 2019 Il Fatto pubblica un articolo intitolato: «Ermini e i pasdaran pd, la rimpatriata a pranzo». Palamara: «Ho letto ora quello schifo». Ermini: «Grazie». Gli ultimi messaggi vengono scambiati alla vigilia dell' esplosione dello scandalo.

Palamara: «Caro David siamo in ripartenza da Pristina ci vediamo presto a Roma. Buona permanenza (in Kosovo, ndr) un abbraccio». Ermini: «Grazie. Buon Viaggio! Ho visto la foto della squadra!». Dalle carte spuntano anche le presunte invasioni di campo di Stefano Erbani, consigliere giuridico di Mattarella, ex magistrato segretario del Csm ed esponente di spicco di Magistratura democratica. A parlarne sono Palamara e Valerio Fracassi, capogruppo al Csm del cartello di Area, quello dei giudici di sinistra. Il 27 marzo 2018 Fracassi chiede a Palamara di spingere su Fuzio per rinviare la nomina del vicesegretario del Csm. Dice testualmente: «Erbani non può imperversare così». In un altro messaggio si lamenta: «Decide tutto Erbani». Il 10 aprile aggiunge: «Erbani sta contattando anche Fuzio. Credo che ora esageri e merita una risposta».

Il 12 aprile commenta: «Siamo alla volata finale. Erbani sostiene di aver parlato con ciascuno di voi e di avere ottenuto assenso». A voler credere a queste chat Erbani si comporta come se fosse un consigliere del Csm o un capo corrente. Fracassi continua: «L' uomo è pericoloso! Fidati!». E fa un invito a Palamara: «Usa la stessa determinazione che hai adoperato quando hai fatto vincere Fuzio contro le indicazioni di Giovanni Legnini (all' epoca vicepresidente del Csm, ndr)». Dalle chat si evince che un altro tema di discussione è la riorganizzazione della sezione disciplinare. Fracassi: «Chi sai tu (forse un altro consigliere di Area, ndr) si è sentito più forte e ha pensato che ormai se rovescia il tavolo può farlo senza conseguenze perché io sono più debole. Per il disciplinare qualcuno è andato anche da Erbani che ne ha parlato a chi puoi immaginare. Tutto si collega a una delegittimazione complessiva e alla solita doppiezza di chi occupa i posti, ma poi fa il moralista sugli altri».

Grazia Longo per lastampa.it il 15 maggio 2020. Travolto dallo scandalo Palamara, si è dimesso il capo di Gabinetto del ministero della Giustizia. In una nota ministeriale si legge che Fulvio Baldi ha abbandonato il suo incarico «per motivi personali»,  dopo un colloquio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, avvenuto ieri sera. Ma la decisone presa coincide con le polemiche scaturite dopo le rivelazioni di un articolo de «Il Fatto quotidiano» che rivelava alcune conversazioni intercettate nell’ambito dell’inchiesta di Perugia tra il pm (ora sospeso) Luca Palamara e l’ex capo di Gabinetto del ministero, che risulta però estraneo alle indagini. L’inchiesta di Perugia è stata chiusa e dalle intercettazioni della Guardia di finanza emerge uno spaccato di forte ingerenza di Palamara anche al ministero. Bonafede ha comunque ringraziato Baldi per il lavoro portato avanti dal giugno 2018. La reggenza è stata momentaneamente affidata al capo dell’ufficio legislativo, Mauro Vitiello. Dalle carte delle indagini perugine si evince lo stretto rapporto di amicizia e «collaborazione» tra Fulvio Baldi e Luca Palamara. Quest’ultimo lo chiamava «Fulvietto» e lo contattava per ottenere favori in via Arenula. Gli suggeriva magistrate da sistemare negli staff nei ministeri. E Baldi rispondeva: «Te la porto qua stai tranquillo, perché è una considerazione che ho per te, un affetto che ho per te e lo meriti tutto». E se Palamara era perplesso Baldi lo rassicurava: «Se no che cazzo li piazziamo a fare i nostri?». Per  «nostri», con molta probabilità, si intendono  i magistrati di Unicost, la corrente moderata delle toghe, il cui leader era proprio il pm indagato nell’inchiesta sulle nomine al Csm. Fulvio Baldi, ex sostituto procuratore generale della Cassazione, candidato nel 2012 al Comitato Direttivo dell’Anm per Unicost per quasi due anni è stato il capo di Gabinetto di Alfonso Bonafede. Oltre a Baldi aderisce a Unicost anche Francesco Basentini, scelto dallo stesso Bonafede per guidare il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), fino alle recenti dimissioni. Basentini è il magistrato che a Potenza ha seguito le indagini su Total e poi su Eni. La sua inchiesta petrolifera nel 2016 portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo Federica Guidi. Nell’ufficio di gabinetto del ministero della Giustizia c’è anche Leonardo Pucci, vice di Baldi ed ex compagno di studi a Firenze di Bonafede. Assistente volontario del professor Giuseppe Conte dal 2002 fino al 2009, poi giudice del lavoro a Potenza dal 2009 al 2015. In Basilicata Pucci frequenta non solo Basentini ma anche Luigi Spina, che è diventato consigliere del Csm di Unicost, ed è stato travolto dall’indagine per le intercettazioni con l’amico Palamara.

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera il 16 maggio 2020. «Mi sono dimesso per tutelare il ministro e l' istituzione, che vengono prima di tutto», spiega il magistrato Fulvio Baldi, da poche ore ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia per via di alcune intercettazioni tra lui e l' ex componente del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara. Il quale è indagato per corruzione dalla Procura di Perugia, come s' è scoperto un anno fa, ma fino ad allora era una delle toghe più influenti d' Italia; per le cariche ricoperte (è stato anche presidente dell' Associazione magistrati) e la disponibilità a dare e ricevere indicazioni e segnalazioni. È ciò che svelano le registrazioni dei suoi colloqui e dialoghi WhatsApp , emersi con la conclusione dell' inchiesta perugina. Compresi quelli in cui Palamara insisteva con Baldi (appartenente a Unità per la costituzione, la sua stessa corrente, scelto come capo di gabinetto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel giugno 2018) perché portasse al ministero una collega: il 27 novembre 2018 la nominava scrivendogli «Ricordati», e il 15 aprile 2019, fallito ogni tentativo da parte di Baldi, si lamentava con i gruppi della sinistra giudiziaria: «L' hanno bruciata... i soliti». Un contesto che ha molto irritato Bonafede, ignaro di tutto e già turbato dal «caso Di Matteo», dall' emergenza scarcerazioni (vera o presunta che sia) che l' ha spinto a cambiare il vertice dell' Amministrazione penitenziaria, dalla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni, in calendario la prossima settimana. E dopo il faccia a faccia con il ministro, il suo più stretto collaboratore non ha avuto alternative al passo indietro. Per provare a salvare il salvabile. Baldi non può negare di aver cercato di soddisfare le richieste di Palamara (anche con frasi poco piacevoli, del tipo «allora che cazzo piazziamo a fare i nostri?»), e ammette che «le chiamate al ministero si fanno su base fiduciaria, attraverso i filtri della conoscenza personale e la mediazione di altri; non ci vedo alcuna patologia». Dopodiché aggiunge: «Certe frasi appartengono al gergo sindacale, ma il ministro Bonafede non ha mai voluto sentire parlare di correntismo; io ho avvertito il suo imbarazzo e ho deciso di dimettermi». Conclusione: «Io parlavo con Palamara, autorevole esponente della mia corrente, già componente del Csm e presidente dell' Anm, che non aveva scritto "indagato" sulla fronte. Ma in questi due anni il ministro e il ministero non sono stati minimamente intaccati dal fenomeno del correntismo». Resta però il «fenomeno Palamara», che nonostante avesse lasciato il Csm continuava - per come emerge dalle intercettazioni - a tentare di condizionarne il funzionamento e le decisioni. Non solo con le ormai note riunioni segrete a cui partecipava assieme ai deputati Cosimo Ferri (giudice anche lui, leader-ombra di Magistratura indipendente) e Luca Lotti. Il 27 settembre 2018, giorno dell' elezione dell' ex parlamentare pd David Ermini a vice-presidente del Csm, frutto di un accordo tra Unicost e Mi, Ferri scrive: «Luca ho voglia di abbracciarti! Sei stato decisivo, straordinario, ma soprattutto ho trovato un amico che vale un tesoro». Palamara risponde: «Insieme non ci ferma più nessuno!!». In seguito i neo-alleati avranno di che lamentarsi dei comportamenti di Ermini, ma qualche ora dopo Palamara propone di fare «un bello scherzetto sul disciplinare (la sezione disciplinare da costituire nel nuovo Csm, ndr )», e Ferri replica: «Ci stavo pensando ora, incredibile». Una settimana dopo, evidentemente a fronte di un problema per il quale Palamara chiedeva un colloquio urgente, Ferri scrive: «Se regge blocco con Unicost è irrilevante. Non ti fidare tanto di quelli di Forza Italia, c' è dietro la Casellati (presidente del Senato, ex «laica» del Csm, ndr )». Tra i mille contatti di Palamara c' è pure il segretario del Pd Nicola Zingaretti, al quale il magistrato, di cui molti intuivano le aspirazioni politiche, fa grandi complimenti ad ogni affermazione o evento importante: la rielezione a governatore del Lazio, il lancio della candidatura alle primarie, l' elezione a segretario: «Grande Nicola!!!». Il resto del messaggi conservati sono per lo più appuntamenti per caffè o aperitivi, uno per la presentazione del nuovo commissario dell' istituto giuridico regionale. Il 28 maggio Palamara chiede un altro incontro, Zingaretti propone il 30, il 29 esce sui giornali la notizia che il magistrato è indagato per corruzione, l' appuntamento viene rinviato. L' indomani scatta la perquisizione a Palamara e il sequestro del telefonino.

Carceri, dopo le scarcerazioni dei mafiosi via il capo dell’ufficio detenuti.

Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it Era stato condannato per l'omicidio dell'agente Magli. Giulio Romano era al vertice della struttura che si occupa specificatamente del controllo sui detenuti. Si sarebbe dimesso "per ragioni personali". Ancora dimissioni al vertice delle carceri. Dopo il direttore Francesco Basentini, lascia adesso il direttore dell’ufficio detenuti Giulio Romano, una figura gerarchicamente strategica nel Dap, poiché sovrintende proprio alla collocazione dei reclusi nelle singole prigioni, ne controlla e autorizza gli spostamenti, si occupa anche del loro trattamento. Per intenderci, quando al vertice di questa struttura c’era l’attuale pm di Marsala Roberto Piscitello fu lui che seguì i casi di Riina e Provenzano che chiedevano, per gravi motivi di salute, di lasciare i rispettivi penitenziari per essere trasferiti in normali ospedali. Piscitello invece propose soluzioni interne, cioè le sezioni degli ospedali già attrezzate per ospitare i detenuti posti al 41bis. Il vertice dell’ufficio detenuti, lo dice la parola stessa, è strategico nella gestione di chi entra ed esce dalle carceri, della sua sistemazione, dei suoi trasferimenti per i processi, dei compagni di cella. Si tratta di un vero e proprio osservatorio che deve avere una sensibilità estrema su quanto accade ogni giorno nelle prigioni. Giulio Romano era al Dap da febbraio, quindi da pochi mesi. Proveniva dalla Cassazione, dov’era stato sostituto procuratore generale dopo un passato da magistrato di sorveglianza. Lo scrive il sito Poliziapenitenziaria.it che dà la notizia delle dimissioni, senza fornire ulteriori informazioni. Arido di notizie anche il ministero, nonché il vertice del Dap: per tutti è stato Romano stesso a lasciare. Ma non ci vuol molto a leggere le sue dimissioni dopo le polemiche dei giorni scorsi sulle scarcerazioni dei quasi 500 mafiosi (di cui però la metà non definitivi, quindi in stato di carcerazione preventiva), di cui tre al 41 bis, ma gli altri collocati nell’area cosiddetta di Alta sorveglianza Tre, quella più attenuata, nella quale comunque sono reclusi capi e picciotti organici a Cosa nostra. Ormai è noto che una causa scatenante delle scarcerazioni decise dai magistrati di sorveglianza è stata  la circolare del 21 marzo in cui il Dap scriveva ai suoi provveditori e direttori delle carceri per sollecitare l’invio senza ritardo alla magistratura, in relazione al rischio Covid, degli elenchi di detenuti con gravi patologie (di cui c’era anche l’elenco), nonché di quelli che superavano i 70 anni.  Un foglio firmato di sabato da una funzionaria. Che invece, proprio per il suo significato e le conseguenze che poteva produrre (come in effetti ha prodotto), avrebbe dovuto essere firmato da un responsabile ad alto livello delle prigioni. Quel foglio, comunque, una volta giunto sui tavoli dei magistrati, ha sortito l’unico effetto che poteva avere: valutare la segnalazione del Dap come un motivo in più per scarcerare e mettere ai domiciliari chi chiedeva di uscire in quanto malato. Così è avvenuto. La circolare, di fatto, è già costata la testa del direttore Basentini, che il primo maggio ha rassegnato le dimissioni. Nel frattempo il Guardasigilli Alfonso Bonafede aveva nominato anche un vice capo del dap, l’ex pm Roberto Tartaglia, occupando una poltrona che era rimasta vuota. Nonché il nuovo capo, l’ex procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia. Adesso, con il passo indietro di Romano, si chiude il cerchio delle responsabilità che hanno portato alle scarcerazioni, anche non valutando a fondo le conseguenze di una circolare come quella del 21 marzo. Ma nel frattempo non solo è scoppiata la polemica su Bonafede, ma il governo ha dovuto fare ben due decreti legge per rivalutare le scarcerazioni già fatte. Sono tornati dentro Francesco Bonura, Cataldo Franco, Carmine Alvaro, Antonino Sacco. Ieri è stata rinviata, per difetti nella notifica, la seduta del tribunale di sorveglianza di Sassari che deve rivalutare i domiciliare di Pasquale Zagaria. 

Uno scandalo il ministero di giustizia in mano ai Pm. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 17 Maggio 2020. Come era del tutto prevedibile, le intercettazioni depositate dalla Procura di Perugia a conclusioni delle indagini su quello che si è voluto fino ad oggi spacciare come “il caso Palamara”, terremotano da subito gli assetti e gli equilibri della magistratura italiana: si è appena dimesso il capo di Gabinetto del Ministero di Giustizia, e ne vedremo ancora delle belle. Intanto, sarebbe il caso di piantarla con questa definizione di comodo della inchiesta, che non riguarda una persona ma, come è del tutto evidente, un sistema ben radicato e strutturato, da sempre al centro dell’attenzione e dell’impegno associativo della magistratura italiana. È il sistema dei “fuori ruolo”, cioè del massiccio trasferimento di centinaia di magistrati dal ruolo per il quale hanno vinto il concorso a ruoli di primo piano nei vari Ministeri, in primis quello di Giustizia ovviamente, per i quali non è ben chiaro quali titoli possano esattamente vantare più di un pubblico funzionario che abbia invece vinto uno specifico concorso nella Pubblica Amministrazione. Il sistema funziona benissimo da anni, è strutturato ed oliato a puntino per riprodurre in questo organigramma di vero e proprio sconfinamento tra poteri dello Stato i tumultuosi equilibri correntizi della magistratura. Come tutti i sistemi di potere, esso esprime di volta in volta uno o più protagonisti, uno o più leader, con connotazioni e qualità personali diversi, con inciampi o degenerazioni più o meno evidenti e gravi: ma il sistema resta, ed è quello il problema, non le persone che lo interpretano meglio o peggio. Siamo un caso unico nel mondo, e non c’è verso che qualcuno ce ne spieghi la ragione in modo convincente. Soprattutto perché si tratta di un sistema che letteralmente sovverte il principio fondamentale della separazione dei poteri. O vogliamo forse sostenere che la foglia di fico della collocazione fuori ruolo risolva questo scandalo costituzionale? Le intercettazioni depositate dalla Procura perugina dovrebbero finalmente porre fine alla sceneggiata delle solite anime belle che ora trasecolano, e dell’esercito di ipocriti o di pavidi che da sempre fingono di non capire. Il Ministero di Giustizia nel nostro Paese è consegnato mani e piedi alla Magistratura associata, che lo occupa con scientifica precisione quale che sia il colore del governo democraticamente eletto […]. Questo quadro di alterazione del rapporto tra poteri costituzionali è aggravato e reso ancora più inquietante dal peso davvero abnorme che la giurisdizione penale ha, come è a tutti noto, assunto da venticinque anni a questa parte sull’ordinario fluire della vita politica ed amministrativa nel nostro Paese. La Politica, sia locale che nazionale, è sempre più evidentemente ridotta ad un ruolo ancillare rispetto al potere giudiziario. D’altronde, non potrebbe essere diversamente, visto come in questo Paese possa essere sufficiente la iscrizione nel registro degli indagati per segnare le sorti politiche di un Ministro, di un sindaco, di un Governatore, e delle rispettive maggioranze politiche […]. Dunque, quello che va in scena a Perugia non è il caso Palamara ma è il caso Italia: una democrazia malata, con un potere giudiziario strabordante ed incontrollabile, dentro e fuori dai propri ambiti funzionali, ed una classe dirigente che, da ultimo, conquistato il potere proprio con le armi della criminalizzazione dell’avversario politico e la santificazione della magistratura, ora raccoglie i cocci di questo disastro e ne viene travolta […]

Dagospia il 17 maggio 2020. Rispondendo a un lettore del Fatto, ieri Travaglio ritorna sul caso Di Matteo-Bonafede: “Di Matteo ha accettato in prima battuta l’incarico agli Affari penali, allora Bonafede ha affidato il Dap a Basentini, ma poche ore dopo Di Matteo ha cambiato idea. Cosa legittima, che però gli ha impedito di andare al Dap, già occupato”. "Non ho mai fatto trattative politiche con nessuno, ma venni raggiunto da una telefonata del ministro Bonafede che mi chiese se ero interessato a diventare capo del Dap o prendere il posto di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo, nel frattempo ero stato informato della reazione preoccupata all'indiscrezione da parte del mondo mafioso. Dopo meno di 48 ore andai trovare il ministro che mi disse che ci aveva ripensato e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli affari penali del ministero. Nel giro di 48 ore mi sono ritrovato a essere designato a capo del Dap e quando accettai mi trovai di fronte a questo cambio".

Liberoquotidiano.it – del 6 maggio 2020. Nino Di Matteo non smentisce una virgola di quanto annunciato in diretta a Non è l'Arena sulla sua mancata nomina alla presidenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. "I fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato" ribadisce in una lunga intervista a Repubblica. Il pm antimafia racconta di una telefonata di Alfonso Bonafede avvenuta il 18 giugno scorso. "In quell'occasione il ministro della Giustizia mi pose l'alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere io e subito perché mercoledì ci sarebbe stato l'ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali". E così Di Matteo decise: "Andai a Roma da lui e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato". Una vera e propria sorpresa. Per il pm "quella notte qualcosa mutò all'improvviso". Il Guardasigilli - stando al racconto di Di Matteo - insistette sugli Affari penali. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione". Ma queste non erano più le condizioni ottimali per il magistrato che, a quel punto, lo chiamò per dirgli che così non poteva andare. "Cose come queste sono indimenticabili - sottolinea -. Come il nostro ultimo scambio di battute. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali 'non c'è dissenso o mancato gradimento che tenga'. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare".

Giacomo Amadori per la Verità il 17 maggio 2020. Dopo le dimissioni del capo di gabinetto del ministro Alfonso Bonafede «Fulvietto» Baldi, a traballare sono le poltrone di due consiglieri del Csm, il vicepresidente David Ermini, membro del parlamentino dei giudici in quota Giglio magico, e Marco Mancinetti, portabandiera della corrente Unicost in consiglio. Le loro chat, non meno imbarazzanti di quelle di Baldi, sono diventate di dominio pubblico, ma loro resistono. Almeno per ora. Il problema è che la marea di carte depositate nel cosiddetto caso Csm contiene messaggi e intercettazioni che non risparmiano neppure la coalizione dei giudici di sinistra, il cartello di Area. Infatti per un decennio Palamara ha deciso e spartito incarichi e promozioni con toghe progressiste come Valerio Fracassi, ex capogruppo di Area nella consiliatura 2014-2018. Il 15 marzo 2018 Fracassi scrive: «Ricordati che ti ho votato Pasca a patto che mi sistemassi Orlando!!!». Non basta. Prima di lasciare il posto al Csm Francassi chiede di non pubblicare il posto di presidente di sezione del tribunale di Brindisi «che è quello in cui tornerò». Così i vecchi portabandiera. Ma anche il nuovo capogruppo di Area al Csm, Giuseppe Cascini era legato a Palamara. Il quale, ai magistrati che lo interrogavano, un anno fa ha spiegato: «Con lui ho avuto sempre un rapporto stretto di amicizia, ho condiviso un' importantissima esperienza all' Anm e sono stato una delle persone che più di tutti ha favorito la sua nomina di aggiunto a Roma, che fu una nomina molto controversa e ostacolata». In effetti nel novembre 2017 Palamara incontra l' amico in un bar poco prima della votazione per la promozione. Poi lo informa in tempo reale degli esiti della prima tranche di nomine in quinta commissione. Ma il messaggio più atteso è questo: «4 voti Cascini, 1 Colaiocco». Palamara domanda: «Quando festeggiamo da Piero anche con Annina?». I due si danno appuntamento per diverse pause caffè e, in una chat, Cascini chiede come sia «messo» il collega Stefano Pesci per «aggiunto Bologna». Palamara ammette che è dura. Qualche mese dopo andrà meglio: «Anche Stefano ok. Lo porto unanime la prossima settimana», annuncia trionfante il king maker delle nomine nel febbraio 2018. Il 3 aprile Cascini, candidato al Csm, chiede a Palamara di potersi accodare in una trasferta per una partita di pallone, a cui non vuole, però, partecipare come calciatore («Ho appeso le scarpette al chiodo. Come Totti»): « Hai già fatto la squadra per Lecce? Io verrei come mascotte per bieche ragioni elettorali». Il 4 maggio 2018 Cascini chiede a Palamara di intervenire per arginare l' onnipresenza mediatica di Pier Camillo Davigo, oggi suo grande alleato: «Tu che hai rapporti con Enrico Mentana fagli presente che è una grave scorrettezza far fare tutte queste ospitate a Davigo candidato al Csm. In una settimana ha fatto Dimartedì e Piazzapulita». Palamara: «Già lo avevo fatto è una vergogna quello che fanno con Davigo». II 27 settembre 2018 sui giornali appare la notizia dell' informativa su Palamara per una presunta storia di corruzione inviata a Perugia dallo stesso Cascini e da altri colleghi. Eppure il 4 ottobre Cascini e Palamara fissano l' ennesimo appuntamento al bar Settembrini di Roma. Forse il campione di Area non riteneva particolarmente grave l' accusa formulata contro Palamara di aver scroccato qualche viaggio all' imprenditore Fabrizio Centofanti. Fatto sta che il 18 ottobre Cascini, nel suo piccolo, prova ad avere gratis un biglietto per il figlio per la partita di Champions league Roma-Cska Mosca. Infatti i consiglieri hanno diritto a un posto in tribuna autorità, i parenti no: «Ciao Luca hai qualcuno da indicarmi al Coni con cui posso parlare per i biglietti dello stadio per portare anche Lollo (il figlio ventenne, ndr)?». «Bisogna parlare direttamente con la segreteria. Ora mi informo e ti faccio sapere» lo ragguaglia l' amico. Cascini: «Io ho fatto la tessera per me. Ma quello che ho in segreteria al Csm dice che non danno altri biglietti». Per fortuna verrebbe da dire. Palamara chiede i dati di Lollo, ma purtroppo «le scorte biglietti in tribuna autorità sono esaurite» e il pm indagato prova a trovare un' altra soluzione: «Se vuoi chiediamo per altro posto alla Roma come per Rocco (figlio di Palamara, ndr)». «Non ti preoccupare ora vedo io», ribatte Cascini. Il quale prova a rendersi autonomo: «Però dammi contatto. Non posso romperti i coglioni per ogni partita». Grazie alle chat apprendiamo che Palamara si è dovuto preoccupare anche del fratello minore di Giuseppe Cascini, Francesco. Quest' ultimo, alla fine dell' estate del 2017, dopo essere stato fuori ruolo per quasi 11 anni al ministero, sta provando ad andare come pubblico ministero alla Procura di Roma anziché tornare a Napoli. Fortuna vuole che i tempi del suo rientro si allunghino sino alla pubblicazione del bando per un posto da pm nella Capitale. «Luca, ho mandato l' integrazione (documenti per aumentare il punteggio, ndr), sai qualcosa? [] secondo te come si mette?», scrive il candidato che si contende la poltrona con il collega Carlo Villani. Palamara: «Sto cercando di rimetterla a posto. Sono fiducioso». Cascini jr: «Luca grazie speriamo bene al plenum [] Grazie davvero senza di te non avevo speranze». Palamara: «Devo tenere a bada la San Giorgio (Maria Rosaria, una delle esponenti di punta di Unicost, ndr)». Qualche giorno dopo Palamara informa il suo pupillo che «sta andando bene in commissione (la terza, quella che si occupa dei trasferimenti, ndr)». Cascini jr: «Meno male, grazie. Ma sai quando va in plenum?». Palamara: «Non ancora, è combattuta». Cascini jr: «Ma non è già passata 3 a 3?». Palamara: «Stanno discutendo di nuovo». In quelle ore è in fibrillazione pure Cascini senior. A cui Palamara scrive: «Ora in terza (commissione, ndr) a difendere tuo fratello». Dopo poche ore la battaglia è vinta. «Francesco ok». «Grazie Luca», digita il fratello maggiore. «Grazie Luca», gli fa eco il fratello minore.

Simone Di Meo per la Verità il 17 maggio 2020. Quando esplose l' inchiesta per corruzione a carico di Luca Palamara, il procuratore di Milano Francesco Greco fu tra i più duri a fustigare quel «mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord... ci ha lasciato sconcertati». Era il giugno 2019. Eppure, agli atti dell' indagine di Perugia emergono anche i suoi Whatsapp con il Belzebù romano in toga. Messaggi di simpatica complicità. Come quello dell' 1 ottobre 2017, quando a Palamara dedica un «Grandi!!!». I due fanno riferimento a un viaggio non meglio specificato, e Greco spiega: «No, a Milano non ci vado... per scaramanzia! Comunque la squadra comincia a girare». La replica di Palamara è positiva: «Si sta migliorando nettamente». La conversazione continua ancora per qualche minuto e si conclude con un appuntamento a Roma. «Al solito posto», gli ricorda Greco (ovviamente non indagato). Con la Procura del capoluogo lombardo, l' ex presidente dell' Anm sembra avere un feeling particolare. Angelo Renna, che da membro della segreteria Unicost definì l' inchiesta di Perugia una «Caporetto» per la magistratura, è tra i contatti più frequenti nel Whatsapp di Palamara. Non solo in occasione degli auguri per le feste comandate, ma soprattutto per parlare delle politiche correntizie e delle nomine negli uffici giudiziari del distretto. «Si, ho proprio grande interesse di fare il punto della situazione con te. Ps: giunge fino qui, nel profondo nord, l' eco della tua maestria nelle nomine dei vertici della Cassazione», gli scrive il 16 dicembre 2017 Renna (anche lui non indagato). Il sostituto procuratore milanese coltiva l' ambizione di andare a fare l' aggiunto («pensavo di chiedere pure Brescia oltre a Bergamo») e spesso si rivolge all' amico per ottenere qualche consiglio. Il 12 marzo, infatti, gli invia questo messaggio: «Caro Luca, venerdì Greco mi ha manifestato sostegno per Brescia, dicendosi disposto a dire ai suoi di sostenermi. Ho raccolto l'endorsement, ma non mi muovo senza che tu mi dica se e che fare... Te lo dico, perché sia tu a valutare. Sei certo molto più bravo di me e, se mi consenti, ti considero un amico e quindi mi affido totalmente. Un abbraccio». Le risposte di Palamara quasi mai entrano nel vivo della questione, almeno quelle che sono state trascritte e depositate agli atti, limitandosi a valutazioni generiche o di attesa. Eppure, Renna pende dalle sue labbra. Tant' è che, dopo una promessa di interessamento da parte del più navigato magistrato, il pm milanese gli rivolge questa dedica affettuosa: «Grazie, quasi mi vergogno a dirlo, ma mi emozioni». E aggiunge, per meglio chiarire il concetto, due emoticon sorridenti. Non sempre però i propositi di Renna si realizzano, e allora giunge il sostegno consolatorio dell' amico pm di Roma. A cui la toga milanese risponde così: «... grazie per la franchezza e la schiettezza della telefonata (sic, ndr) di ieri. Per me significa molto, significa stima e amicizia cioè quello che conta nella vita. Buon fine settimana, caro Luca!». Oltre che alla sua carriera, Renna è interessato anche a quella degli altri. Per questo lancia a Palamara qualche palla da schiacciare. Il 7 ottobre 2017, di buon mattino lo stuzzica con questo messaggio: «E che ne pensi di fare lo sgambetto a Massenz e votare Serafini in Plenum? In Area (il cartello di sinistra dei magistrati, ndr) volerebbero stracci». Una decina di giorni dopo, ritorna alla carica, ma con un altro obiettivo: «Se riuscite a fottere la Savoia sarebbe un gran colpo». Ma Palamara non gli risponde. Dalla chat di Renna si intuisce anche che il suo capo, Greco, avrebbe segnalato all'ex boss di Unicost il nome di Laura Pedio come procuratore aggiunto a Milano nel corso dell' incontro romano del 3 ottobre 2017. Nomina poi arrivata a metà novembre di quello stesso anno.

Guerra tra toghe, Mi denuncia “l’occupazione” del potere delle correnti. Il Dubbio il 18 maggio 2020. Caso Palamara, il durissimo attacco di Magistratura Indipendente: “I protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici”. “Già all’indomani dei fatti dello scorso maggio Magistratura indipendente ebbe a indicare il pericolo della superficialità e sommarietà con cui si stavano valutando i noti fatti, tanto da ricordare l’espressione trasformista propria del gattopardismo: "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Con un insopportabile moralismo di maniera ci si è accaniti in modo feroce contro pochi individui, convinti di poter così eludere la realtà e far finta di voler cambiare voltando frettolosamente pagina. Nulla di più errato, insensato e delegittimante”. E’ quanto sottolinea Magistratura Indipendente, in una nota a forma del presidente Mariagrazia Arena, e del segretario Paola D’Ovidio. “Ci trovavamo di fronte ad un allarme, un problema ben più serio e generalizzato che avrebbe richiesto in sede associativa una immediata autocritica collettiva Invece si è preferito cercare la strada più rapida e antidemocratica per la occupazione del potere da parte di una corrente in danno dell’altra”. “Negli ultimi giorni, con una seconda ondata di notizie giornalistiche, sono stati pubblicati stralci di messaggi whatsapp. Per uno strano scherzo del destino, i protagonisti involontari dei nuovi dialoghi sono i Savonarola di un tempo: i duri e puri che gridavano il loro sdegno li vediamo arroccati nel bunker, si cimentano in sottili distinguo o in maldestri equilibrismi dialettici. La Giunta dell’Anm, che un anno fa convocò un Cdc d’urgenza ed assemblee immediate chiedendo dimissioni ed esprimendo giudizi morali, oggi tace – denuncia Mi – evidentemente incapace di individuare soluzioni basate su una, smarrita quanto inutilmente sbandierata, Etica della responsabilità”. Il gruppo di Magistratura Indipendente, ricordano presidente e segretario, “ha avviato per tempo, rispetto a quelle drammatiche vicende, un percorso di sofferta autocritica, operando subito un radicale cambiamento e procedendo, nel segno del totale rinnovamento, unico gruppo nel panorama associativo, a un avvicendamento integrale nelle cariche statutarie al fine di favorire il più ampio contributo di sensibilità ed esperienze professionali”. “Se si vuole (tentare di) restituire credibilità e decoro alla magistratura, è necessario, ora come allora, un atto di riflessione e di autoresponsabilità anche da parte delle altre componenti associative e di tutti coloro che si trovano coinvolti: costoro pensavano forse di essere esenti e che quanto sta emergendo sulla libera Stampa non li colpisse, ma così non è stato. Ciò senza indulgere affatto – assicura Mi – sulle condotte che hanno investito anche Magistratura Indipendente per le quali, è bene ricordarlo, tre Consiglieri del Csm si sono dimessi un anno addietro, a ciò determinati, oltre che per sensibilità istituzionale, da una inaudita, terribile ferocia condita da processi sommari con l’individuazione delle loro persone quali unici capri espiatori”.

L’ATTACCO ALL’ANM. “In questi giorni più testate giornalistiche, con la curiosa assenza di quelle più diffuse, hanno nuovamente consegnato, con un tempismo che fa riflettere, al pubblico dei lettori porzioni di conversazioni di tenore simile a quelle dell’ormai noto caso Palamara, con alcuni nuovi, e molti noti, protagonisti” ma “il governo dell’Anm, con alla guida Area, tace, osserva, medita e non si scandalizza, non favella; eppure alcuni dei timonieri attuali si stracciarono le vesti nel mese di maggio 2019 a fronte di pubblicazioni di intercettazioni con protagonisti, in parte, diversi”. A denunciarlo, in una nota, sono i rappresentanti di Magistratura indipendente nel Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati Gli esponenti di Mi chiedono che “chi governa l’Associazione nazionale magistrati sui più recenti accadimenti prenda posizione; non intendiamo imbastire processi mediatici o di piazza, che lasciamo agli altri, ma vogliamo capire quale reale percorso di rinnovamento abbiano intrapreso i colleghi che, scossi dagli eventi del maggio 2019, oggi governano l’Associazione”.

Bruti Liberati: «Cari magistrati, è ora di finirla con i deliri di onnipotenza». Errico Novi su Il Dubbio il 16 maggio 2020. L’ex procuratore capo di Milano: «Si volti pagina, come chiede il presidente Mattarella: i magistrati devono ritrovare la fiducia dei cittadini». Con Edmondo Bruti Liberati l’espressione “leadership” può declinarsi a pieno anche rispetto alla magistratura. Non solo perché si tratta di una figura che ha guidato l’ufficio inquirente chiave del Paese, la Procura di Milano: Bruti Liberati è stato anche leader in senso stretto di Magistratura democratica, gruppo storico e decisivo dell’associazionismo giudiziario. Ora assiste ai tormenti delle toghe, che non risparmiano gli uffici di via Arenula. E usa un’espressione: amarezza. «È amaro», dice, «vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio».

Le notizie sull’indagine di Perugia possono radicare nell’opinione pubblica un’immagine desolante della magistratura?

«Le notizie emerse mostrano un preoccupante decadimento di costume, di cui è indice anche un linguaggio non commendevole, che coinvolge alcuni magistrati in posizioni di rilievo. È amaro vedere un magistrato in preda a un delirio di onnipotenza e altri, non tutti, che non hanno la prontezza di rigettare il suo approccio».

Ma non si tratta di fatti di rilievo penale.

«No e, pare, neppure di rilevo disciplinare: riguardano alcuni singoli magistrati, ma non voglio minimizzare perché viene coinvolto il Csm. Le vicende che oggi vengono alla luce sono degli anni scorsi e arrivano fino ai primi mesi del 2019 toccando il Csm attualmente in carica. Ricordiamo il severo monito rivolto dal presidente Mattarella nella seduta straordinaria del Csm del 21 giugno dello scorso anno: “Oggi si volta pagina nella vita del Csm, la prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. Occorre far comprendere che la Magistratura italiana – e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione – hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità”».

Quel monito si è tradotto in un effettivo cambio di passo?

«A me pare che una risposta vi sia stata: sia pure dopo qualche titubanza, tutti i consiglieri in qualche modo coinvolti hanno rassegnato le dimissioni, taluni dall’incarico al Csm, altri dalla magistratura. E viviamo in un Paese in cui le dimissioni, a prescindere da un’indagine penale, sono un evento tutt’altro che frequente».

Ma nel Paese la magistratura è stata a lungo considerata un baluardo di credibilità e autorevolezza, nel vuoto di classi dirigenti sempre più pallide: crede che quel baluardo regga ancora, agli occhi dell’opinione pubblica?

«La giustizia si regge sulla credibilità della magistratura, i magistrati sono espressione di un Paese che vede una crisi delle classi dirigenti e una pericolosa svalutazione delle competenze. Le riforme degli studi universitari e post universitari, con le migliori intenzioni, hanno prodotto effetti pessimi. Si è creato un lungo periodo di parcheggio, di pochissima utilità sotto il profilo della formazione, che induce i migliori a trovare altri sbocchi professionali, seleziona per censo coloro che hanno alle spalle una famiglia in grado di mantenerli agli studi fino a trent’anni, stempera nella attesa gli entusiasmi».

Quadro desolante: come si fa a cambiarlo?

«È urgente consentire ai giovani laureati, dopo il quinquennio di studi di giurisprudenza, di affrontare subito il concorso per l’accesso in magistratura. Per i vincitori si deve prevedere un più lungo e organizzato periodo di tirocinio presso la Scuola Superiore della Magistratura. La nostra Scuola, arrivata buona ultima in Europa, ha acquisito efficacia e autorevolezza, grazie anche alla guida dei tre presidenti che si sono succeduti, non a caso tutti ex presidenti della Corte costituzionale. Occorre investire sulla Scuola, sia per il tirocinio iniziale che per l’aggiornamento professionale, e tra i corsi dovrà essere potenziato lo spazio dedicato alla deontologia».

Ma è possibile che la magistratura, avvilita anche da alcune vicende poco commendevoli, rinunci a esercitare un ruolo culturale nel dibattito pubblico e finisca per ritirarsi in una sorta di minimalismo sindacalistico?

«Questo rischio esiste. L’Anm deve occuparsi anche di temi strettamente sindacali, ma la sua lunga storia ha evidenziato la capacità di superare una visione grettamente corporativa e contribuire alle riforme del sistema giustizia. La magistratura deve conquistarsi la fiducia dei cittadini, che non vuol dire assenso acritico e neppure adeguamento al volere della piazza. Si citano spesso sondaggi di opinione sulla percentuale di fiducia nella magistratura che si attesterebbe intorno al 45 per cento. Ebbene, un sondaggio francese del settembre 2019, di Ifop per L’Express, indica la percentuale del 53 per cento per la fiducia nella giustizia, in quadro complessivo in cui tutte le istituzioni hanno un grado di fiducia di circa dieci punti superiori rispetto alla situazione italiana. I molteplici fattori di crisi delle nostre società si ripercuotono ovunque anche sul sistema di giustizia».

Le campagne sulle “scarcerazioni dei boss” e i provvedimenti assunti a riguardo dal governo possono indebolire l’indipendenza dei magistrati di sorveglianza?

«Vi è stata una clamorosa disinformazione: basti pensare che i 3 casi che hanno riguardato detenuti delle categorie pericolose sono divenuti più di 300… Il ministro della Giustizia e il Governo si sono sottratti alla responsabilità di affrontare la situazione di grave sovraffollamento nella emergenza covid- 19 e il problema è stato rovesciato sulle spalle della magistratura e di quella di sorveglianza in particolare. Ogni provvedimento può essere discusso, ma è inaccettabile l’allarmismo sui numeri manipolati e la campagna di aggressione verso chi si è assunto responsabilità, a fronte di una politica latitante».

Ma per tornare alle vicende delle ultime ore, crede che favoriranno la rivincita di chi chiede il sorteggio per eleggere il Csm?

«Il sistema elettorale in vigore, che si proponeva di scardinare il sistema delle correnti, ha ottenuto l’effetto opposto. Il sorteggio è il sistema proposto nel 1972 dall’onorevole Almirante, ma con modifica costituzionale. I tentativi di costruirne oggi declinazioni variamente mitigate ne evidenziano il limite insuperabile. La elettività dei componenti, posta in Costituzione, mira a far vivere il Csm ai magistrati come organo di cui portano la responsabilità. Si fonda anche sulla esigenza di valorizzare l’attitudine per una funzione, che richiede, oltre a tutte le qualità del buon magistrato, anche una ulteriore: la capacità di misurarsi con la organizzazione di un sistema complesso come quello della giustizia».

Non è dunque il sorteggio, la soluzione.

«Le clamorose vicende che hanno investito alcuni componenti del Csm indicano che le peggiori derive sono conseguenza di ambigui occulti rapporti tra “notabili”, sensibili al demone dell’esercizio del potere e delle pratiche di accordi occulti, che si muovono del tutto trasversalmente rispetto a quello che dovrebbe essere l’aperto e trasparente confronto. Le “correnti” della magistratura devono mostrarsi all’altezza del monito del presidente Mattarella: “Voltare pagina”. Il sistema elettorale deve mirare a ridurre il peso degli apparati allargando le possibilità di scelta degli elettori che continuino a fare riferimento ad una o altra corrente. Qualunque riforma deve misurarsi con principi fondamentali: la libertà di opinione e di associazione e il contributo che i corpi intermedi apportano alla vita di un ordinamento democratico, in tutte le sue articolazioni».

Parla Luca Palamara, il magistrato più intercettato e sputtanato d’Italia. Giovanni Minoli su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Pubblichiamo un ampio stralcio dell’intervista di Giovanni Minoli al magistrato Luca Palamara, trasmessa giovedì pomeriggio su Radio 1 (“Il Mix delle cinque”). Questa intervista fa seguito a una precedente intervista che andò in onda a novembre e nella quale Palamara aveva proclamato la sua innocenza e aveva detto che aspettava che venissero rese pubbliche le carte dell’inchiesta, visto che fino a quel momento erano usciti (illegalmente) solo brandelli di intercettazioni pubblicati sui giornali. Le carte dell’inchiesta della Procura di Perugia su Luca Palamara sono state depositate, ora sono pubbliche e gli stessi PM di Perugia hanno escluso ogni forma o tipo di corruzione per i 40 mila euro di cui si è lungamente parlato.

Eppure noi abbiamo letto sui giornali i contenuti di tutti gli incontri registrati che lei ha avuto con gli altri magistrati per discutere le nomine delle Procure italiane. Com’è possibile?

«La Procura di Perugia ha trasmesso le intercettazioni al Consiglio Superiore della Magistratura, dopodiché nel mese di maggio quelle intercettazioni sono state interamente pubblicate e riportate dagli organi di stampa».

La titolarità, e quindi, la responsabilità di quei materiali registrati ce l’ha la Procura, Csm? Chi ce l’ha?

«Direi entrambi perché il Codice di Procedura Penale individua come titolare il Procuratore della Repubblica. In questo caso si aggiunge il Consiglio Superiore della Magistratura che aveva la disponibilità di queste carte».

Uno dei due o tutti e due insieme l’hanno fatta uscire?

«Questo non sta a me dirlo. Sarà oggetto di accertamenti. Si trattava di atti non depositati dei quali gli indagati non erano a conoscenza, ma come nel mio caso, ne sono venuto a conoscenza tramite la lettura dei giornali».

Una volta il Procuratore Gratteri, durante un’intervista, mi ha detto che la titolarità e la custodia, quindi la responsabilità di quei materiali è di esclusiva pertinenza dei pm o della polizia giudiziaria. In questo caso si aggiunge il Csm.

«Il Procuratore Gratteri è un esperto in materia. In questo caso, si aggiunge, l’organo al quale erano state trasmesse per primo».

Parliamo del Trojan, di quello strumento, nuovo, che è stato utilizzato per indagini su di lei e in tante altre indagini. È uno strumento valido?

«Assolutamente sì, parlo da vecchio giurista, sia nei casi di mafia che di terrorismo, che in quelli di corruzione ha sicuramente consentito un livello ulteriore di aggressione ai criminali e alla scoperta di tutti questi delitti. Ovviamente deve essere maneggiato con attenzione soprattutto perché coinvolge un tema assolutamente rilevante che è anche quello della tutela della privacy delle persone estranee al reato, che possono trovarsi catapultate in vicende che non le riguardano».

È mai possibile che lei, che ha fatto delle inchieste molto importanti, ricordo una per tutte, Calciopoli, non si sia accorto che gli avevano messo il Trojan nel telefono?

«Assolutamente no, perché le mie conversazioni riguardavano prevalentemente o la mia attività di lavoro o attività politico-giudiziaria, per questo non pensavo potessero mai avere rilievo penale».

Un pubblico ministero come lei che non si è accorto di essere intercettato… Difficile da credere.

«Io ho ispirato la mia vita sempre al rispetto delle regole, alla lealtà e alla trasparenza dell’agire, quindi non pensavo mai che potesse capitare a me».

Per essere concreti, io ho letto sul Fatto quotidiano, che nel caso della nomina a vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura del dottore Ermini, lei avrebbe avuto un ruolo decisivo.

«Io su questo non voglio rispondere. È una considerazione del giornale e come tale la domanda va posta al giornalista. Posso dire che le correnti sono state assolutamente determinanti nella nomina del vicepresidente».

Anche nel caso di Ermini, il ruolo delle correnti è stato determinante come lo è stato in tutte le nomine finora?

«Il ruolo delle correnti è determinante perché il Vicepresidente, la Costituzione prevede che venga eletto tra i laici, quindi è necessario un accordo tra le componenti della Magistratura che notoriamente al Consiglio superiore della Magistratura si raggruppano nelle cosiddette correnti. Quindi se non c’è l’accordo delle correnti non vi può essere alcuna nomina».

Dunque è valso anche per Ermini il metodo delle nomine correntizie: me lo conferma?

«Certo che sì, se non ci fosse accordo, non vi potrebbe essere nomina».

Ancora uno stop. noi abbiamo cercato tre volte il presidente Ermini per avere la sua versione dei fatti, ma il Presidente si è sempre sottratto ad ogni domanda in proposito. Ma riprendiamo l’intervista con Palamara.

Lei pensa che ci sia una relazione tra le nomine da fare nelle Procure italiane all’epoca delle intercettazioni che sono state fatte e le intercettazioni che la riguardavano?

«Diceva qualcuno che a “pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”».

Gli altri indagati: Amara, Calaforiore e Longo. Chi sono esattamente?

«Guardi, l’avvocato Calafiore non l’ho mai visto e conosciuto in vita mia. L’Avvocato Amara penso di averlo visto due volte in eventi conviviali e il dottor Longo l’ho visto una volta. Non ho mai avuto né rapporti, né frequentazioni, né numeri di telefono né quant’altro con loro».

Ancora uno stop : rispetto all’intervista di novembre c’è una novità: oggi con le carte depositate, si vede che anche i pubblici ministeri di Perugia riconoscono la verità di quello che afferma Palamara e ritorniamo all’intervista.

Perché partecipava alle nomine…

«Perché c’era una necessità di capire quello che era il mio ruolo.

Comunque tutto è sembrato un suk, un mercato delle nomine… Le nomine nella magistratura funzionano come un mercato?

«Il termine suk è qualcosa di estremamente negativo, nel quale non mi riconosco. Io posso dire che ho fatto parte del Consiglio Superiore dal 2014 al 2018, sono state realizzate più di mille nomine. Sfido chiunque a dire quali sono state al di sotto del livello di soglia. Io penso che tanti uffici giudiziari hanno tanti importanti magistrati che li guidano. Si può fare meglio, sicuramente, ma da qui a demonizzare tutto quello che è stato fatto è un’operazione sbagliata».

… senza demonizzare, sempre nominati dalle correnti.

«Perché è innegabile che le correnti siano il momento attraverso il quale la gestione del potere giudiziario viene effettuato. Le correnti dominano il mondo della magistratura. L’obiettivo è far sì che le correnti possano aspirare sicuramente a valori più alti».

Nel suo caso, c’erano anche parlamentari insieme a voi a discutere di quelle nomine. Magistrati e politici che si spartivano la giustizia italiana. Questa è l’impressione che c’è stata. Ma le sembra normale?

«Io non voglio affrontare in questa sede la sfera etica dei comportamenti e non mi ritrovo assolutamente nella definizione o nell’accusa che magistrati e politici si distribuiscono gli incarichi. Nel caso dell’On. Ferri, si tratta di un collega Magistrato che conosco sin da bambino, i nostri padri erano Magistrati. Nel caso dell’On. Lotti, ho avuto modo di conoscerlo come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio al quale due grossi esponenti del mondo politico-istituzionale della magistratura stessa si rivolgevano per affrontare questioni relative alla giustizia».

Però l’On. Lotti che era presente era un parlamentare inquisito proprio dalla Procura di Roma…

«Io non ho frequentato l’On. Lotti come indagato del procedimento Consip, ma l’ho frequentato prima come Sottosegretario e poi come Onorevole. Nel momento delle cene, tengo a precisare che l’On. Lotti era stato già tecnicamente rinviato a giudizio, quindi la sua vicenda processuale con la Procura di Roma era già finita e mai e poi mai ho potuto in qualche modo interferire o influenzare qualcuno».

Quindi i parlamentari non erano protagonisti attivi delle discussioni? Comunque non erano decisivi…

«Erano discussioni fatte in assoluta libertà, il luogo decisionale delle nomine è uno solo: la Quinta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura e, tutto quello che avviene fuori è sempre avvenuto come momento di discussione politico-giudiziaria».

Lo stesso pm di Perugia che raccomandava alla polizia giudiziaria di spegnere i microfoni nel caso di incontri con parlamentari che fossero frutti di appuntamenti prefissati. In quel caso c’erano stati appuntamenti prefissati?

«Io mi sono sempre mosso con appuntamenti prefissati. Raramente non sono incontri prefissati».

Fino a oggi, ogni nomina nelle procure ha alle sue spalle una storia di accordi tra correnti.

«Le correnti sono immanenti, dominano il sistema giudiziario. Non solo nel senso deteriore del termine, come momento fisiologico e inevitabile di trovare un meccanismo attraverso il quale gestire il più corretto funzionamento del potere giudiziario».

Dopo tutto quello che abbiamo detto, lei ha capito cosa c’è dietro l’angolo?

«In questi ultimi tempi ho spesso l’immagine ricorrente di un palazzo che rischia di crollare, però è necessario che tutti si adoperino affinché questo non accada».

Francesco Grignetti per la Stampa il 16 maggio 2020. Porta al Giglio magico, alla fine, l' inchiesta di Perugia sul caso Palamara. Erano tutti renziani: Cosimo Ferri, Luca Palamara, ovviamente Luca Lotti. E porta alle grandi manovre non solo dentro la magistratura, ma anche nelle società di Stato. L' inchiesta di Perugia s' è così incrociata con una di Milano su un complotto al vertice dell' Eni. Luca Lotti è interrogato nel luglio 2019 a Milano, dai pm Laura Pedio e Paola Storari, sui suoi rapporti con Piero Amara, il faccendiere siciliano che a sua volta è dietro il lobbista Fabrizio Centofanti e indirettamente dietro Luca Palamara. Ammette di avere conosciuto Amara nel dicembre 2015 su sollecitazione di Andrea Bacci, un imprenditore fiorentino, altro amicone di Renzi. «Ho incontrato Amara almeno un paio di volte nel 2016 in occasioni private: una volta insieme con Bacci ci siano visti in un bar all' intero della galleria Colonna a Roma; l' altro incontro è avvenuto a Firenze o nel mio ufficio a palazzo Chigi. Il tema di cui abbiamo parlato è stato l' Eni». E lui? «Ho sempre dato risposte interlocutorie». C' era un problema di cui Amara si interessava moltissimo: la guerra tra Claudio Granata, potente responsabile per gli Affari istituzionali, e Antonio Vella, il numero due, amico di Claudio Descalzi. Nel computer di Amara c' era un promemoria, palesemente scritto per Bacci, cui si chiede di intercedere presso «il Capo» a difesa di Vella. E Lotti: «Non ho ricordi». Lotti e l' Eni Anche Luca Palamara e Cosimo Ferri coinvolgono Lotti per una vicenda collegata all' Eni. Era un tema che stava loro a cuore: come rovinare la reputazione di Paolo Ielo, il procuratore aggiunto di Roma. La storia s' intreccia con la famosa cena romana del 21 maggio 2019, quando Palamara, Ferri e Lotti tentarono di far quadrare i conti con le nomine in magistratura, a partire da Roma. I magistrati milanesi fanno sentire a Lotti l' intercettazione, e l' uomo politico non può non agitarsi sulla sedia. «Ricostruisco come segue la vicenda Qualche giorno prima, precisamente il 9 maggio, presso l' hotel Champagne di Roma, ho avuto un incontro con Palamara e Ferri dopo la mezzanotte. Nel corso di quell'incontro tra le altre cose Palamara ha riferito sommariamente il contenuto di un esposto presentato da Stefano Fava (un pm amico di Palamara, ndr) nei confronti del dottor Ielo e del dottor Pignatone». Già è anomalo che un esposto presentato da un magistrato sia portato a conoscenza di un uomo politico, oltretutto con il dente avvelenato con Ielo e Pignatone perché sotto scacco nell' inchiesta Consip. Grave è che gli sia offerta la possibilità di vendicarsi. «In quell' occasione Palamara ha aggiunto che gli risultava che Domenico Ielo avesse avuto degli incarichi dall' Eni e mi ha chiesto se potevo verificarlo. Ho detto che avrei potuto farlo chiedendo a Granata». Lotti andò avanti nel suo lavoro di intelligence. «Pochi giorni dopo ho incontrato Granata presso l' hotel Montemartini. Tra gli altri argomenti, chiesi se gli risultasse che Domenico Ielo aveva avuto una consulenza». Di più, Lotti non vorrebbe dire. Sostiene che le sue richieste sarebbero cadute nel nulla. Ma c' è un ma. Nel corso del 21 maggio, in occasione di un secondo rendez-vous dei congiurati, dove confluirono anche cinque membri del Csm, ormai tutti fuori per dimissioni, si sente la sua voce raccontare di avere ricevuto documentazione da Descalzi, e che Domenico Ielo avrebbe ricevuto ben 228 mila euro dall' Eni. Vero? Falso? Lotti se la cava così: «Non avevo ricevuto documenti che certifichino un incarico dato a Domenico Ielo e per quell' importo. Mi chiedete se io abbia quindi millantato con i miei interlocutori e dico che effettivamente è andata così».

I giornalisti finiti nella rete delle intercettazioni per aver chiamato Palamara. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Milella, Bianconi e Minoli: la procura di Perugia “scheda” chi ha contattato il pm indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Csm. La procura di Perugia “scheda” i giornalisti che chiamavano il magistrato Luca Palamara, indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Csm la scorsa estate. Tutte intercettazioni, però, che non hanno alcun elemento di rilevanza con l’inchiesta in corso. Come scritto dal quotidiano La Verità, nell’informativa dell’inchiesta compare il nome della giornalista di punta del quotidiano La Repubblica, Liliana Milella, che il giorno in cui il suo giornale ha pubblicato la notizia dell’indagine avrebbe chiamato Palamara, che era una sua fonte: “La Milella riferisce che ha saputo dell’articolo leggendolo all’1,30 di notte e dice di aver sbagliato a non chiamarlo prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se lei avesse chiamato prima Palamara "l’avremmo scritta, ma non in questo modo". La stessa, in un’altra telefonata, avvisa il pm che la collega Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua, probabilmente per cercare di strappare una dichiarazione». In un’altra telefonata la giornalista sembra molto preoccupata per la sorte dell’ex capo dell’Anac Raffaele Cantone e alla fine propone: “Potrebbero (i membri del Csm, ndr) pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte (…)? Cioè perché poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni”. Nell’informativa ci sono anche alcune chiamate di Francesco Grignetti della Stampa, alla ricerca di notizie sull’inchiesta. C’è anche un capitoletto su Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, dall’inizio in prima linea nello spingere mediaticamente l’inchiesta. Agli atti finiscono persino le telefonate per organizzare un incontro di persona con Palamara. Poi per il resto i finanzieri riportano alcune considerazioni di Palamara su Bianconi, che viene gentilmente definito come “vicino ai servizi segreti” e “cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”. Infine Palamara giudica così l’intervista di congedo rilasciata dall’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone allo stesso Bianconi: “Hai visto ieri che pompino gli ha fatto al Pigna?”. Nella stessa conversazione aggiunge: “L’altra volta (Bianconi, ndr) mi è venuto a riparlare di Perugia a me”, ovvero dell’inchiesta che al momento era ancora segreta. I finanzieri annotano “l’esistenza di contatti intercorsi tra Palamara e Giovanni Minoli, giornalista saggista e conduttore televisivo”. I due, stando alle captazioni, sono in confidenza. Si confrontano sugli articoli pubblicati nel periodo clou della tempesta sulle toghe e sulla possibilità di rendere un’intervista per la trasmissione condotta da Lucia Annunziata. Tra il 13 marzo 2019 e il 5 giugno, periodo monitorato dagli investigatori, si parlano otto volte. In una conversazione Minoli fa a Palamara i complimenti per un’intervista. Ci sono anche telefonate durante le quali Minoli sembra quasi lo spin doctor della toga. Il 29 maggio si sentono due volte. «’La Repubblica è la risposta al Fatto’, dice Palamara. E chiede a Minoli un consiglio, visto che Claudio Tito, cronista di Repubblica, gli ha chiesto se voglia replicare e la toga non sa cosa rispondere, scrive La Verità. Si vedono anche per parlare dell’invito dell’Annunziata, che Minoli definisce pericolosa, perché è dall’altra parte. La giornalista è stata una delle prime a saltare sull’inchiesta perugina. Il 29 maggio, data dei primi articoli sull’argomento, alle 9 del mattino, Palamara viene chiamato da Silvia Barocci, autrice della trasmissione Mezz’ora in più, quella dell’Annunziata. Lo invita per la domenica. La toga prende tempo. Poi richiama e accetta, ma con riserva. E annuncia che ’se andrà in trasmissione parlerà di cose importantì. Per quella comparsata Palamara si confronta persino con Giovanni Legnini, già vicepresidente del Csm». “Cioè, se Lucia mi dà la possibilità… faccio un discorso politico…”, dice Palamara. Legnini lo riprende: “No, tu le cose tue le devi gridà… seguono milioni di persone, viene ripreso dalla stampa”. Poi fanno strategia sulla necessità di avviare una interlocuzione con redattori a livello apicale di Repubblica, al fine di riequilibrare gli articoli usciti su altre testate di fronte avverso, e reindirizzare, attraverso nuovi articoli di stampa, la figura del procuratore uscente di Roma Pignatone. Tra gli “schedati” ci sono anche Rosa Polito e Simona Olleni dell’Agi, Sandra Fischetti dell’Ansa, Valeria Di Corrado del Tempo e Federico Marietti del Tg5. Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano lo cerca per chiedergli informazioni sul conto della moglie, che ha un impiego alla Regione Lazio, ma anche su eventuali contatti con Nicola Zingaretti. La toga afferma di non aver fatto pressioni e che la moglie “ha un curriculum di tutto rispetto”.

Ecco chi sono i giornalisti nelle intercettazioni al telefono con il magistrato Luca Palamara. Il Corriere del Giorno il 13 Maggio 2020. I magistrati della procura di Perugia indaga anche su chi ha contattato il pm indagato per corruzione nell’inchiesta che ha terremotato il Consiglio Superiore della Magistratura. Nell’informativa della Guardia di Finanza nell’inchiesta della Procura della repubblica di Perugia sul Csm, compaiono molti nomi di giornalisti intercettati mentre parlavano con il magistrato Luca Palamara l’ex-presidente dell’ ANM l’associazione nazionale dei magistrati ed ex-componente del Csm, “protagonista” principale dello scandalo che ha letteralmente terremotato il Consiglio Superiore della Magistratura ribaltando anche gli equilibri “politici” interni fra le varie correnti della magistratura italiana, Intercettazioni che non hanno scaturito iscrizioni dei giornalisti nel registro degli indagati in mancanza di elementi di rilevanza con l’inchiesta. Una delle persone maggiormente presenti nelle intercettazioni è la giornalista barese Liliana Milella del quotidiano La Repubblica, che avrebbe chiamato Palamara (che era una sua fonte) il giorno stesso in cui il quotidiano romano aveva pubblicato la notizia dell’indagine: “La Milella riferisce che ha saputo dell’articolo leggendolo all’1,30 di notte e dice di aver sbagliato a non chiamarlo prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se lei avesse chiamato prima Palamara ‘l’avremmo scritta, ma non in questo modo’. La stessa, in un’altra telefonata, avvisa il pm che la collega Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua, probabilmente per cercare di strappare una dichiarazione». La giornalista barese sembra molto preoccupata in un’altra telefonata per il destino del magistrato Raffaele Cantone l’ex capo dell’Anac ed alla fine della conversazione addirittura consiglia nomine e strategie per i componenti del Csm : “Potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte (…)? Cioè perché poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni”. Uno dei passaggi più imbarazzanti delle intercettazioni riguarda il giornalista Giovanni Bianconi, inviato del Corriere della Sera, giornale che sin dall’esplosione dell’inchiesta si è posizionato in prima fila nell’amplificare giornalistiche le tristi vicende del Csm. Agli atti delle indagini dei magistrati di Perugia ci sono anche delle telefonate per organizzare un incontro di persona con Palamara. Poi per il resto i finanzieri riportano alcune considerazioni di Palamara su Bianconi, che viene definito come “vicino ai servizi segreti” e “cassa di risonanza del gruppo di potere attuale”. Con queste parole il magistrato Luca Palamara commenta l’intervista di Bianconi all’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone al momento del suo congedo in pensione : “Hai visto ieri che pompino gli ha fatto al Pigna?”. Sempre nel corso della stessa telefonata Palamara, riferendosi a Bianconi aggiunge: “L’altra volta mi è venuto a riparlare di Perugia a me”, cioè dell’inchiesta che al momento era ancora secretata. Le Fiamme Gialle in ascolto annotano “l’esistenza di contatti intercorsi tra Palamara e Giovanni Minoli, giornalista saggista e conduttore televisivo”. I due, secondo quanto emerso dalle intercettazioni captate, hanno rapporti stretti di confidenza, e si confrontano sugli articoli pubblicati nel periodo “caldo” del terremoto sulle toghe, prospettandogli la possibilità di rendere un’intervista per la trasmissione “Mezz’Ora in più” (RAITRE) condotta dalla giornalista Lucia Annunziata. Nel periodo monitorato dai finanzieri, tra il 13 marzo ed il 5 giugno 2019 , i due si parlano ben otto volte. In una telefonata Minoli fa addirittura i complimenti a Palamara per un’intervista. Telefonate durante le quali Minoli sembra essere lo “spin doctor” del magistrato. I due si sentono due volte il 29 maggio 2019. “’La Repubblica è la risposta al Fatto” afferma Palamara e chiede un consiglio a Minoli, poichè il giornalista di Repubblica Claudio Tito, gli aveva chiesto se volesse replicare ma il magistrato è dubbioso e non sa cosa rispondere. Palamara e Minoli si incontrano anche per discutere dell’invito dell’Annunziata, che è stata una delle prime a saltare sull’inchiesta perugina, definita Minoli “pericolosa, perché è dall’altra parte” . Il 29 maggio 2019, giorno dei primi articoli pubblicati sullo scandalo del Csm, Palamara viene contattato telefonicamente alle 9 del mattino, dalla giornalista Silvia Barocci, autrice della trasmissione dell’Annunziata, e lo invita per la domenica successivo . Il magistrato inizialmenteì prende tempo, poi la chiama ed accetta, ma con riserva. E annuncia che “se andrà in trasmissione parlerà di cose importantì“. Prima della trasmissione televisiva il magistrato Palamara si confronta incredibilmente con l’esponente del Pd Giovanni Legnini, ex-vicepresidente del Csm, e gli dice: “Cioè, se Lucia (la Annunziata n.d.r.) mi dà la possibilità… faccio un discorso politico…”. Legnini lo incalza ed incita: “No, tu le cose tue le devi gridà… seguono milioni di persone, viene ripreso dalla stampa”. Poi imbastiscono una strategia sulla necessità di avviare dei contatti con dei giornalisti ai vertici del quotidiano La Repubblica, per riequilibrare gli articoli usciti su altre testate di fronte avverso, ed attraverso nuovi articoli di stampa, offuscare la figura di Pignatone procuratore uscente della Capitale. Tra gli “intercettati” compaiono anche Sandra Fischetti dell’ Agenzia Ansa, Simona Olleni e Rosa Polito dell’ Agenzia Italia, Federico Marietti del Tg5 e Valeria Di Corrado del Tempo. Il giornalista Vincenzo Bisbiglia del Fatto Quotidiano invece chiama Palamara per chiedergli delle informazioni sul conto di sua moglie, Giovanna Remigi, che per quasi tre anni è stata dirigente esterna della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti, . Un ruolo ricoperto dal 2015 al 2017 nell’ufficio staff del direttore Coordinamento del contenzioso nella Direzione Salute e Politiche Sociali alla cifra di 78 mila euro l’anno più retribuzione di risultato. Palamara risponde di non aver fatto pressioni e che la moglie “ha un curriculum di tutto rispetto” aggiungendo “ha un curriculum di tutto rispetto nei più importanti studi amministrativi“”. Sempre dall’inchiesta viene fuori che nel 2017, dopo il rapporto con la Regione Lazio, la moglie di Palamara ha successivamente ottenuto un contratto triennale (ancora in corso) all’Agenzia Italiana del Farmaco. Nell’informativa della Guardia di Finanza sul tavolo dei magistrati umbri risultano delle chiamate a Palamara anche del giornalista Francesco Grignetti del quotidiano La Stampa, alla ricerca di notizie sull’inchiesta. Il magistrato Luca Palamara nonostante avesse svolto per anni le funzioni di pm alla  Procura di Roma, ha “abboccato” alla trappola informatica tesa dalle Fiamme Gialle.  All’improvviso la sua linea telefonica mobile aveva avuto dei disservizi (causati ad hoc) ed aveva risposto ad un link che sembrava essere proveniente  da Vodafone. “Gentile cliente stiamo riscontrando problemi sulla linea. Per risolverli, clicchi qui”. Un “click” che si è rivelato fatale per il “terremoto” giudiziario interno all’Organo di autogoverno della magistratura. La strategia del messaggio “fake” da parte del gestore di telefonia era stata consigliata al pm di Perugia, Gemma Milani, dai tecnici informatici del Gico della Guardia di Finanza.

Le trame di Palamara che hanno “inguaiato” Borrelli nella corsa alla procura di Perugia. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Maggio 2020. C’è anche una intercettazione “autoprodotta” fra le tante contenute nel fascicolo di Perugia sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. A realizzarla è stato Giuseppe Borrelli, attuale procuratore di Salerno e all’epoca aggiunto a Napoli. L’autoascolto avviene all’indomani della perquisizione a carico di Palamara disposta dai magistrati umbri lo scorso 30 maggio. Il pm romano, intercettato nell’ambito di una indagine per corruzione, il precedente 7 maggio aveva discusso con Cesare Sirignano, sostituto procuratore presso la Dna, di temi non particolarmente originali per le toghe: le nomine. I due si conoscono da molti anni. Oltre ad essere della stessa corrente, Unicost, giocano a pallone nella “Rappresentativa magistrati italiani”. Il risiko degli incarichi riguarda tutt’Italia. Nel disegno di Palamara, Borrelli è destinato a diventare il nuovo procuratore di Perugia, Massimo Forciniti il presidente del Tribunale di Salerno, Marcello Viola il procuratore di Roma, Antonio Chiappani il procuratore di Brescia, Dino Petralia il procuratore di Torino e Leonida Primicerio il procuratore di Salerno. Palamara punta a diventare aggiunto a Roma. La procura di Perugia, però, è fondamentale per Palamara in quanto dovrà decidere sull’esposto presentato dal pm romano Stefano Fava contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e dovrà definire l’indagine a suo carico. Sirignano conviene con Palamara sul nome di Borrelli. La diffusione di questa conversazione, riportata dai pm umbri nel decreto di perquisizione a carico di Palamara, allarma Borrelli che è in corsa, oltre a Perugia, per altre Procure. L’aggiunto napoletano decide allora di vedere di persona Sirignano, registrando l’incontro, per capire cosa abbia detto su di lui a Palamara. «M’hai inguaiato a me», gli dice. «Mi hai inguaiato», ripete, «in buona fede ma mi hai inguaiato». «Non aggio fatto niente in questa vicenda, aggio fatto la domanda per Perugia», aggiunge in una tiratissima conversazione nella quale Sirignano tenta di ricordare le esatte parole utilizzate con Palamara. «Mi interessava sostenere l’amico Borrelli e rassicurare Palamara sulla sua serietà e capacità», «i magistrati napoletani non sono stati valorizzati a sufficienza. Per noi magistrati napoletani è una cosa che ci ha sempre pesato», racconterà poi a luglio ai pm di Perugia. «È uno sconcio di dimensioni internazionali», il commento invece di Borrelli dello scandalo che aveva travolto le toghe, per poi aggiungere: «Non si fa una nomina decente in vent’anni in questo cavolo di Csm». Ed a proposito di nomine, sfumata Perugia, Borrelli venne votato a luglio all’unanimità in commissione, relatore Piercamillo Davigo, procuratore di Salerno. Il colloquio con Sirignano sarà trascritto dai magistrati umbri due mesi più tardi. A novembre il colpo di scena: al momento del voto finale in Plenum, Davigo chiede il ritorno in commissione della pratica su Borrelli. Il definitivo via libera in Plenum arriverà solo lo scorso gennaio. Avrà pesato il colloquio con Sirignano? Non lo sapremo mai in quanto la pratica è stata secretata.

Luca Palamara, chiuse le indagini sull’ex presidente dell’Anm: rischia processo con l’ex consigliere del Csm Spina e altri tre. A rischiare il processo, per le accuse della procura di Perugia al termine dell'inchiesta della Guardia di finanza, oltre al pubblico ministero e all’ex consigliere Spina, sono l’amica di Palamara, Adele Attisani, l’imprenditore Fabrizio Centofanti e Giancarlo Manfredonia. Tra gli episodi di corruzione contestati ci sono viaggi a Londra, Dubai e Ibiza, soggiorni, lavori di ristrutturazione e anche un trattamento di bellezza. I difensori: "Cadute le accuse più gravi". Il Fatto Quotidiano il 20 aprile 2020. Il pubblico ministero Luca Palamara rischia il processo nell’ambito dell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. La procura di Perugia – al termine dell’inchiesta della Guardia di finanza – ha notificato la chiusura indagini all’ex presidente dell’Anm, all’ex consigliere del Csm Luigi Spina, all’amica di Palamara, Adele Attisani, all’imprenditore Fabrizio Centofanti e a Giancarlo Manfredonia. Tutti, come il pm romano, sono quindi a rischio processo. La decisione dei pm di Perugia non potrà arrivare prima del 31 maggio, a causa della sospensione dell’attività giudiziaria per l’emergenza coronavirus. Tra gli episodi di corruzione contestati ci sono viaggi a Londra, Dubai e Ibiza, soggiorni, lavori di ristrutturazione e anche un trattamento di bellezza. A Palamara, all’epoca dei fatti consigliere del Csm, i pm umbri contestano anche un viaggio a Madrid insieme con un familiare per assistere alla partita Real Madrid-Roma di Champions League dell’8 marzo 2016, per il quale Centofanti avrebbe versato oltre 1.300 euro. L’imprenditore inoltre, avrebbe pagato lavori per diverse decine di migliaia di euro tra il 2013 e il 2017, nell’appartamento romano di Attisani, ritenuta dai pm umbri “istigatrice delle condotte delittuose e beneficiaria in parte delle utilità”, tra cui interventi edili, opere di impermeabilizzazione delle terrazze e la realizzazione di una veranda. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, che si è dimesso in seguito alla bufera sulle nomine in diverse procure d’Italia, è accusato di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento perché avrebbe informato Palamara di un esposto presentato dal pm Stefano Fava contro l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e un procuratore aggiunto della Capitale. Spina inoltre avrebbe passato informazioni a Palamara sull’inchiesta che lo riguardava aiutandolo “ad eludere le investigazioni”. A Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, nell’atto di conclusione delle indagini, i pm di Perugia, contestano di aver fornito “false informazioni” e “documentazione artefatta” ai finanzieri che stavano procedendo a far luce sui viaggi organizzati da Centofanti presso la sua agenzia, “in modo da aiutare quest’ultimo e Palamara ad eludere” le indagini. Palamara “non non è più accusato di aver ricevuto la somma di 40mila euro per nominare il dottor Longo come procuratore di Gela – spiegano i suoi avvocati Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti – o per danneggiare il dottor Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto”. L’inchiesta a maggio dello scorso anno ha terremotato il Csm (si sono dimessi ben 5 consiglieri) perché ha scoperchiato le trattative sulle nomine ai vertici delle procure. Il 9 aprile era stata chiusa l’inchiesta sull’ex procuratore generale di Cassazione, Riccardo Fuzio, per il quale i pubblici ministeri ipotizzato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio perché avrebbe rivelato a Palamara, tra le altre cose anche ex componente del Csm, dettagli sull’indagine per corruzione ora chiusa dalla stessa procura. Nell’inchiesta a Palamara viene contestato di avere violato i suoi doveri quale componente del Consiglio superiore della magistratura. In particolare di avere messo le sue funzioni a disposizione dell’imprenditore e suo amico Fabrizio Centofanti in cambio di viaggi e regali. Gli atti erano stati quindi trasmessi dalla procura di Roma – che inizialmente aveva condotto l’indagine su Centofanti – a quella di Perugia competente a occuparsi di tutti i fascicoli che coinvolgono i magistrati romani.

“Palamara non prese 40mila euro per la nomina del procuratore di Gela”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 aprile 2020. Crollano le accuse nei confronti del magistrato ex presidente dell’Anm. Luca Palamara non venne corrotto per nominare Giancarlo Longo procuratore della Repubblica di Gela. E’ quanto si legge nell’avviso di conclusioni indagini notificato ieri all’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm.I pm di Perugia hanno escluso quindi che Palamara abbia ricevuto 40.000 euro dal faccendiere Fabrizio Centofanti per nominare Longo a capo della Procura di Gela o per danneggiare il pm Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto. Dopo circa due anni di indagini si affievoliscono le accuse nei confronti di Palamara che avevano scatenato lo scorso maggio, quando vennero pubblicate alcune intercettazioni, un terremoto a Palazzo dei Marescialli con le dimissioni di cinque consiglieri del Csm. Gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Palamara, per i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, sarebbe stato a libro paga di Centofanti anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, come scrisse il gip, “il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara”. Nello specifico a Palamara vengono contestati dei viaggi in Italia e all’estero. Un’altra contestazione riguarda invece l’ex consigliere Luigi Spina che avrebbe violato il segreto avvisando Palamara di un esposto presentato dal pm romano Stefano Fava contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. “In relazione alle ipotesi di reato ancora contestate a Palamara questa difesa è certa di poter portare all’attenzione degli organi inquirenti ulteriori e decisivi elementi per dimostrare da un lato l’insussistenza di accettazione di qualsiasi forma di utilità dall’altro l’assenza di qualsiasi forma di istigazione per conoscere notizie già ampiamente note in quanto riportate dai principali quotidiani nazionali”. E’ quanto si legge in una nota degli avvocati Roberto Rampioni Mariano e Benedetto Buratti.

Antonio Massari per il “Fatto quotidiano” il 23 aprile 2020. Era una manciata di secondi che mancava, nell' intercettazione tra il pm romano Luca Palamara e l' ex procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio. Ora che c' è, si sta trasformando in un dettaglio interessante dell' inchiesta, ormai conclusa, che vede i due magistrati accusati di violazione del segreto istruttorio. Per la procura di Perugia, Fuzio rivelò a Palamara dettagli sull' inchiesta che lo riguardava. É un filone nato dall' indagine, anch' essa ormai conclusa, che vede Palamara indagato per corruzione con l' imprenditore Fabrizio Centofanti e che, la scorsa primavera ha costituito un autentico terremoto per il Csm (si sono dimessi cinque consiglieri) e per la stessa nomina del futuro procuratore di Roma. L' audio tra le 21.53 e le 21.58 del 21 maggio scorso è stato - in gran parte lo è tuttora - classificato dal Gico della Guardia di Finanza come "rumori". In effetti il fruscio è altissimo. La difesa di Palamara - assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Buratti e Roberto Rampioni - aveva chiesto di trascrivere quella manciata di secondi mai verbalizzata. Il Gico della Gdf - con gli strumenti del Ris dei Carabinieri - ha coperto la falla. C' è quindi una trascrizione inedita. Il Fatto ha ascoltato l' audio e rilevato delle potenziali difformità con la trascrizione del Gico. Invece della parola "carabinieroni" sembra che si dica il nome dell' ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. In un' altra frase sembra che si parli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui nome, nella trascrizione del Gico non c' è. "A nostro avviso esiste una difformità tra l' audio e la trascrizione - sostiene la difesa di Palamara ed effettivamente i nomi da voi citati rientravano nel colloquio tra Fuzio e Palamara". Non si tratta peraltro dell' unica divergenza tra accusa e difesa: secondo gli avvocati di Palamara, la contestazione sulla ristrutturazione dell' appartamento di Adele Attisani, legata a Palamara, della quale l' accusa ha acquisito i documenti, si basa su "fatture palesemente false". Ma torniamo all' intercettazione mai trascritta prima. Ecco la versione del Gico.

Fuzio: alla fine hanno definito male () in che senso perché hanno già fasciato la testa ma perché è per venire fuori

P: uhm carabinieroni

F: no che cosa sono P: eh be

F: no ricollegandola probabilmente a

P: ma loro lo fanno sai

F: il 6 o il 7 agosto? di più

P: non lo so

F: non ho capito prima mi avete detto di farla presto di farla presto mo se la facciamo presto dice perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te ma nessuno l' ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo non è che chi è figlio.

Questa è l' altra - secondo la difesa di Palamara verosimile - versione.

F: alla fine hanno definito male perché hanno nel senso che la verità ma purtroppo può venire fuori

P: quella di Pignatone dici?

F: no (interlocutorio)

P: mbe

F: ricollegandola probabilmente alla storia di Pignatone (poi sembra che dica Amara)

P: Erbani

F: sì però questa cosa di Mattarella è dopo Mattarella mi avete detto di farlo presto perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te ma nessuno l' ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo non è che chi è figlio.".

Se invece di "carabinieroni" leggiamo Pignatone, il passaggio diventa interessante: evoca l' esposto che il pm Stefano Fava aveva presentato al Csm su Pignatone. Se così fosse sarebbe interessante capire perché Fuzio e Palamara ne stessero parlando.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2020. L' inchiesta per corruzione a carico dell' ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura Luca Palamara si allarga fino a coinvolgere un altro ex membro dell' organo di autogoverno dei giudici: l' avvocata Paola Balducci (all' epoca «laica» in quota centrosinistra), è stata iscritta nel registro degli indagati per corruzione, in un fascicolo separato, dopo che dagli atti sono emerse presunte «utilità» dispensate da Fabrizio Centofanti, l' imprenditore amico di Palamara inquisito per lo stesso reato. E destinatario, come Palamara e la sua amica Adele Attisani (altra neo-indagata), di un ordine di sequestro preventivo del giudice di Perugia di oltre 60.000 euro. Nel provvedimento si riportano - oltre alle parole del magistrato intercettato su «vacanze pagate» - le spese per un paio di soggiorni in altrettanti alberghi e qualche altro servizio. L' avvocata è già stata interrogata dai pm di Perugia, e i suoi difensori Antonio Villani e Marco Franco commentano: «Si tratta di un' iscrizione a nostro avviso eccessiva a seguito delle parole in libertà captate al dottor Palamara; riteniamo di avere già offerto ai pm ogni elemento di chiarimento tanto da attenderci una richiesta di archiviazione». Ma il fulcro dell' inchiesta resta il magistrato che, oltre ad essere coinvolto nelle manovre occulte extra-Csm per le nomine ai vertici di alcuni uffici giudiziari, è accusato di essere stato corrotto per avere «messo a disposizione» le sue funzioni di consigliere. E tra le «regalie» ricevute da Centofanti (interessato, secondo i pm, a molte nomine dei magistrati decise dal Csm) spunta anche il pagamento di una trasferta in Spagna dal 7 a 9 marzo 2016 di Palamara e figlio in occasione della partita di Champions League Real Madrid-Roma. Poi ci sono alcune vacanze sia con la famiglia che con l' amica Adele, nonché i lavori di ristrutturazione dell' appartamento di Attisani per decine di migliaia di euro. Il magistrato ha sostenuto che si trattava di anticipi di spese restituiti in contanti, in virtù di una disinteressata amicizia, ma la Procura e il giudice la pensano diversamente: «Sono emersi dati oggettivi e difficilmente contestabili che denotano come la relazione tra Palamara e Centofanti sia stata inquinata da interessi non confessabili». E a dimostrazione di ciò si sottolineano sia le modalità semiclandestine dei loro incontri, soprattutto dopo le inchieste giudiziarie che hanno portato all' arresto di Centofanti, sia le intercettazioni e gli interrogatori di indagati in altri procedimenti e testimoni vari. La semplice amicizia, accusano i pm, non giustifica «un atteggiamento costantemente munifico di Centofanti verso Palamara», protrattosi nel tempo e senza che il magistrato risultasse bisognoso di aiuti o prestiti. Piuttosto «sono emersi elementi, che denotano modalità relazionali ambigue e volutamente occulte». Dopo l' arresto di Centofanti a inizio 2018 Palamara ha cancellato i messaggi WhatsApp con l' imprenditore, ma dal telefono della Attisani gli investigatori sono riusciti a ricostruire almeno dodici incontri tra i due, fino alla vigilia dell' arresto dell' imprenditore e dopo il suo ritorno in libertà. Il pagamento dei lavori a casa della donna è avvenuto dopo le perquisizioni subite da Centofanti nel 2017, quando il magistrato avrebbe potuto avere maggiore prudenza nei suoi rapporti con l' imprenditore. Tanto più che dopo la visita degli investigatori a casa di Centofanti scrisse subito un messaggio alla donna: «Ci sono delle rogne». E poco dopo: «Quante cose mi tornano in mente ora tipo Favignana», che per i pm è un chiaro riferimento a uno dei soggiorni pagati dall' imprenditore a Palamara e Attisani nel 2014. Per i pm si tratta di «continui benefici» accordati al magistrato per la sua «stabile disponibilità» alle «istanze esterne» di cui il lobbista Centofanti era «portatore», e poco importa se non sono emersi atti in cui l' ex componente del Csm abbia fatto qualcosa che non doveva fare. Basta il «generico mercimonio della funzione».

 “Danneggiare il sostituto Bisogni”: l’indagine sul pm Palamara porta anche a Siracusa. Gianni Catania il 30 maggio 2019 su siracusaoggi.it. Piero Amara e Giuseppe Calafiore: ancora loro. I due avvocati siracusani, secondo la procura di Perugia, avrebbero “veicolato” regali, viaggi e altre utilità al pm Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Indagato con loro per corruzione anche il manager Fabrizio Centofanti. Lo scopo dei “benefit” a Palamara, secondo i magistrati umbri, sarebbe stato “danneggiare Marco Bisogni” che all’epoca era sostituto procuratore a Siracusa ed in precedenza oggetto di esposti al pg di Catania presentati da Amara e Calafiore. Palamara, per i pubblici ministeri, faceva parte della sezione del Csm che “rigettava la richiesta di archiviazione proposta dal procura generale della Cassazione, avanzando richiesta di incolpazione coatta a carico del medesimo Bisogni, che di seguito veniva assolto dalla commissione in diversa composizione. Ma quel giorno Palamara era assente”. Bisogni, oggi a Catania, venne poi assolto dalla Commissione in diversa composizione a gennaio 2018. La Guardia di Finanza di Roma, intanto, ha perquisito l’abitazione dell’ex presidente dell’Anm, indagato per corruzione dalla procura di Perugia. Palamara, da consigliere del Csm, avrebbe ottenuto “viaggi e vacanze (soggiorni presso svariati alberghi anche all’estero) a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti”.

"Sistema Siracusa", il pm Bisogni: “Inascoltata battaglia sul lato oscuro della magistratura”. Redazione di blogsicilia.it il 18/06/2019. Una presunta compravendita di sentenze, la magistratura non trasparente così come il rapporto tra alcuni colletti bianchi e la magistratura stessa. Uno scandalo giudiziario sfociato un anno e mezzo fa nel cosiddetto “Sistema Siracusa“ che ha portato anche all’arresto del sostituto procuratore Giancarlo Longo. Vicende ripercorse durante il vertice del Comitato di coordinamento di Unità per la Costituzione, in occasione del quale è intervenuto Marco Bisogni, sostituto della Dda di Catania, che ha raccontato la sua esperienza da pm alla Procura di Siracusa dove ci sarebbero stati accordi e connivenze tra magistrati, professionisti e imprenditori. Come riporta il Giornale di Sicilia di oggi in edicola, nel suo intervento Bisogni ha rimproverato, in un certo senso, al Csm, alcune scelte nella composizione dell’allora vertice della Procura di Siracusa. “Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia – ha spiegato il pm Bisogni – provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un procuratore aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo procuratore trasferito per incompatibilità ambientale”. Bisogni si riferisce all’ex procuratore Ugo Rossi, condannato in via definitiva per abuso d’ufficio in concorso assieme all’ex pm di Siracusa, Maurizio Musco, rimosso dalla magistratura nei giorni scorsi a seguito di un provvedimento disciplinare del Csm. Gli altri due magistrati ai quali fa cenno Bisogni sono l’ex procuratore aggiunto di Siracusa Giuseppe Toscano e l’ex procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano. Bisogni, ripercorrendo quanto accaduto, parla della battaglia di legalità sua e di alcuni suoi colleghi, dai quali partì un esposto contro il lato oscuro della Procura di Siracusa. Come si legge ancora Nel Giornale di Sicilia, Bisogni ha dichiarato: “Abbiamo sopportato per anni esposti che trovavano sponda in magistrati, che ora si può dire, avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi; campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura; azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti; un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro”. Bisogni ha concluso il suo intervento con un commento-appello relativo allo scandalo per le nomine in seno al Csm: “Rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico – ha detto – per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali”.

“A Siracusa il lato oscuro della magistratura”, lo sfogo del Sostituto Bisogni. Oriana Vella il 17/06/2019 su siracusaoggi.it. “A Siracusa pensavo di poter fare la differenza. Entrando in magistratura ero convinto che avrei fatto parte di un’organizzazione composta da persone votate al sacrificio e dedite al dovere”. Il sostituto della Dda di Catania, Marco Bisogni affida al sito UniCost dichiarazioni forti, importanti, relative al periodo siracusano e non soltanto. Il Pm, a lungo impegnato in Procura, a Siracusa, è stato tra quanti hanno subito una serie di ripercussioni per contrastare quello che è poi emerso come Sistema Siracusa, con gli avvocati Giuseppe Calafiore, Pietro Amara e tutti coloro i quali sono rientrati, in un modo o nell’altro, nell’inchiesta, che si è poi allargata ben oltre i confini di Siracusa. “Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura - racconta - e  non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare - bene o male - tutto il mio lavoro”. Parla di una vicenda personale, per la prima volta, e ne spiega anche la ragione. “Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura-prosegue il magistrato-  e, per questo, abbiamo sopportato per anni  esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi, campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura, azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti, un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro, la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino”. Bisogni racconta anche la parte bella, pulita, trasparente della sua esperienza. “Ho incontrato altri magistrati -prosegue il magistrato– quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno-dice ancora-  ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore traferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto”.

Questo il suo intervento integrale:

“Sono dovuto restare otto anni nella prima sede perché lavorando e quasi per caso (come avviene spesso nel nostro lavoro) ho progressivamente capito che la magistratura, quando perde la sua carica ideale e smarrisce il desiderio di rendere Giustizia, diviene un potere come gli altri, permeabile alla lusinghe esterne che arrivano attratte dalla possibilità di sfruttare l’enorme potere che abbiamo sulle persone e sulle cose. Ho dovuto condividere l’ufficio con il lato oscuro della magistratura e non ho voluto andar via fino a quando non sono riuscito a completare – bene o male – tutto il mio lavoro. Mi scuso se parlo di una vicenda personale, non l’ho mai fatto e non è il mio stile, ma oggi credo che sia giusto fare un piccolo accenno a questa storia proprio qui e proprio a voi. Abbiamo cercato di condurre e portare a termine indagini e processi contro alcuni colletti bianchi legati proprio al lato oscuro della magistratura e, per questo, abbiamo sopportato per anni:

• esposti che trovavano sponda in magistrati – che ora si può dire – avevano piegato la loro funzione anche ad interessi diversi;

• campagne stampa denigratorie pagate dagli imputati eccellenti con amicizie importanti nella politica e nella magistratura;

• azioni di responsabilità civile per milioni di euro coltivate e portate avanti anche grazie al mercimonio di atti giudiziari da parte di colleghi disonesti;

• un abuso d’ufficio commesso dal capo della Procura nella quale prestavo lavoro;

• la difesa da esposti disciplinari pretestuosi e costruiti a tavolino.

Ho però incontrato altri magistrati – quasi tutti giovani e incoscienti – che si sono fatti, anche loro, carico del fardello e oggi abbiamo sotto gli occhi di tutti voi, l’enorme scandalo di questi mesi. Mentre tutto questo accadeva, mentre giovani magistrati di provincia provavano a riaffermare la legalità negli uffici il nostro autogoverno ha scelto e ha scelto male e ha mandato nell’ufficio un Procuratore poi condannato per abuso d’ufficio, un Procuratore Aggiunto ora imputato per lo stesso reato ed un nuovo Procuratore trasferito per incompatibilità ambientale. Vi abbiamo delegato l’autogoverno e la nostra rappresentanza nella speranza che i candidati, poi eletti consiglieri ne facessero buon uso. Non è accaduto. Negli anni abbiamo visto anche qui il progressivo stravolgimento dell’ordine delle cose:

– ho visto carriere politiche interne alla corrente nascere dal nulla a cavallo tra l’ANM ed il CSM; carriere, a volte, sganciate da una reale credibilità professionale negli uffici, testimoniata con il lavoro quotidiano, ovvero dal parametro che dovrebbe essere il più importante per la selezione dei nostri rappresentanti;

– ho visto nomine di direttivi e semi-direttivi contraddittorie, se non immotivate, e di origine clientelare evidente (colleghi provenienti da lunghissimi fuori ruolo proiettati a dirigere sezioni di grandi Tribunali, colleghi con lunghi trascorsi in politica preferiti nella direzione dei Tribunali, con motivazioni risibili, a magistrati da sempre impegnati negli uffici), nomine – che so bene essere state possibili grazie ad una pessima scrittura delle circolari del Consiglio in tema di selezione, nomina e valutazione dei semi-direttivi e direttivi; Circolari troppo spesso rivendicate a vanto da parte di questo gruppo;

– ho visto in occasione di ogni competizione elettorale il rincorrersi di tatticismi associativi e politici con la rinuncia a competizioni elettorali effettive per il nostro Autogoverno;

– ho visto selezionare i candidati di UNICOST al CSM eludendo le regole che noi stessi ci siamo dati (abbiamo stabilito che un giudice cambiasse funzioni anche nella prospettiva di essere eletto come PM, abbiamo deciso – con un’interpretazione formalista del nostro statuto – che non vi fosse incompatibilità tra i membri del comitato direttivo della SSM e la candidatura al CSM);

– ho visto la corrente silente e immobile mentre la magistratura subiva quotidianamente la divisione in caste (rievocando momenti e fasi storiche che ritenevamo superate): quella dei dirigenti, dei fuori ruolo, dei consiglieri e degli ex consiglieri e quella dei magistrati chiusi negli uffici a spalare fascicoli e ho visto, progressivamente, prendere piede nei colleghi piegati sui fascicoli speranza e timore. La speranza di potere ascendere alla casta superiore e il timore di non riuscire a farlo;

– ho visto, così, in modo irresistibile, anche la stragrande maggioranza dei magistrati adagiarsi e adattarsi a questo stato di cose cercando di cavalcare l’onda della degenerazione correntizia per perseguire proprie ambizioni personali.

Tutto questo ci ha portato al punto in cui siamo e quello che avviene in questi giorni non accade per caso: perdonatemi – lo dico con sincero dolore e rabbia – siamo la corrente che ha scelto di evocare nel suo nome la Costituzione, ma non siamo stati in grado di pretendere il rispetto del codice etico dagli associati e dai nostri rappresentanti che dovrebbero essere i migliori di noi, quelli con i quali i magistrati identificano Unità per la Costituzione.

Mi piacerebbe, però, che questo fosse anche un momento per ricostruire e ripartire. Mi sono accostato ad Unità per la Costituzione perché mi riconosco nell’idea di un magistrato privo di pregiudizi politici, rispettoso delle idee altrui e felice di avere come unica protezione della sua azione la forza della Costituzione e della sua professionalità. Vi confesso, però, che quando un collega, subito dopo le prime notizie, mi ha detto “non voglio più sentire il nome di Unità per la Costituzione”, non ho trovato nell’immediatezza alcuna argomentazione per replicare in modo convinto e credibile. Se sono qui oggi con voi e insieme a voi è perché, invece, gli argomenti li voglio trovare. Li voglio trovare perché sono fortemente convinto che il fallimento definitivo dell’associazionismo giudiziario e dei gruppi associativi – unico antidoto che salvaguarda l’ANM dall’infiltrazione di lobby e centri di interesse – costituirebbe il fallimento della magistratura nella quale sognavo di entrare da liceale e nella quale voglio continuare a lavorare. Un fallimento che sarà l’anticamera di una magistratura burocratizzata esposta all’influenza della politica e pertanto assoggettata al consenso popolare. Li voglio trovare perché la magistratura – soprattutto quella più giovane – è portatrice di una straordinaria carica ideale che funziona come carburante di un corpo professionale che sta dimostrando con orgoglio in ogni sede di avere gli anticorpi necessari per fare pulizia al suo interno. Gli argomenti e le proposte che dobbiamo trovare richiedono, però, rigore, coraggio e determinazione, la stessa che si deve, a volte, mettere nel nostro lavoro quando si lavora per mesi ad un’indagine difficile con la consapevolezza che, se le cose possono andare male, sappiamo comunque di aver fatto il nostro dovere. E allora rendiamo utile a noi stessi e all’intera magistratura italiana questo momento drammatico per rimettere al centro dell’azione associativa i nostri valori e non le nostre ambizioni e facciamolo senza guardare quello che avviene nelle altre correnti, per una volta, senza calcoli elettorali. Quanto è stato fatto in questi terribili giorni dall’attuale gruppo dirigente va nella direzione giusta: riconoscere i clamorosi errori commessi e subire le conseguenze politiche di quanto accaduto è, però, solo l’inizio del percorso. Dobbiamo avere la forza ora di cambiare veramente:

– i nostri Consiglieri siano magistrati al servizio degli altri magistrati che – all’onore di sedere negli scranni del CSM – affianchino maggiori oneri. Chiediamo ai nostri candidati l’impegno a non presentare domanda per incarichi direttivi o semi-direttivi per la consiliatura successiva a quella nella quale hanno operato;

– al CSM e sulle questioni che non sono di principio – come il conferimento degli uffici direttivi o semi-direttivi – le decisioni dei nostri consiglieri non siano il frutto di una scelta di gruppo, ma dei singoli sulla base delle diverse sensibilità individuali;

– nelle more della necessaria modifica alla possiamo legge elettorale del CSM, dobbiamo allentare la nostra presa sulle candidature e sulle liste accettando più candidati e più rappresentanti dai territori;

– l’ANM nazionale non può essere l’anticamera del CSM. Non siamo stati in grado di gestire il passaggio dal ruolo associativo a quello istituzionale. Prevediamo incompatibilità effettive tra i nostri rappresentanti all’ANM e quelli al CSM;

– rendiamoci primi promotori di una riscrittura delle circolari sulla dirigenza e riduciamo la distanza tra alta e bassa magistratura. I dirigenti devono essere valutati secondo i risultati che hanno effettivamente conseguito valorizzando anche le valutazioni dei colleghi d’ufficio con criteri obiettivi e verificabili. La dirigenza non può essere uno status onorifico permanente ma, tra un incarico e l’altro, ci deve essere un congruo periodo di giurisdizione ordinaria.

Solo se metteremo – conclude il dottor Bisogni – tutti veramente testa e cuore in queste battaglie avremo ancora i colleghi al nostro fianco e restituiremo senso alle cose terribili di questi giorni. Rita Levi Montalcini ha detto ”non temete i momenti difficili, il meglio viene li”.

Caso Palamara, Csm e Anm fanno sparire l’indagine. Giovanni Altoprati il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. E tre. Sparita dai radar l’indagine della Procura di Perugia, perse le tracce del procedimento disciplinare del Csm, anche la decisione dei probiviri dell’Anm sulle toghe coinvolte nel caso “Palamara” è finita nel cassetto. Dal Palazzaccio di piazza Cavour, sede dell’Anm, non si hanno da mesi più notizie sullo stato del fascicolo per violazione del codice etico aperto a carico dei magistrati coinvolti nelle cene dello scorso maggio con i deputati del Pd Cosimo Ferri, ora Italia viva, e Luca Lotti, dove si discuteva delle nomine di alcune Procure, iniziando da quella di Roma. Gli incontri romani fra toghe e politici furono registrati tramite il Trojan installato nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm e membro del Csm, Luca Palamara, sotto indagine a Perugia dal 2018 per corruzione. Secondo l’accusa, Palamara avrebbe ricevuto denaro e benefit in cambio della nomina, non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Era il 5 giugno quando il Comitato direttivo centrale dell’Anm decise all’unanimità di deferire al collegio dei probiviri i magistrati investiti dalla bufera scaturita dall’indagine della Procura del capoluogo umbro. Venne anche diramato un comunicato: il Comitato, «deferisce al collegio dei probiviri, cui spetterà di verificare la sussistenza di violazioni del codice etico, i colleghi Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Gianluigi Morlini, riservandosi di deferire altri colleghi che risultassero coinvolti nella medesima vicenda o in altre simili». Trascorsi sei mesi da allora, il nulla. I cinque ex consiglieri, costretti alle dimissioni, sono da tempo tornati in servizio nei rispettivi uffici. Spina, indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento nei confronti di Palamara, è addirittura procuratore facente funzioni a Castrovillari, una delle Procure più impegnate sul fronte del contrasto all’ndrangheta. L’inerzia dell’Anm non ha molte giustificazioni. Il procedimento disciplinare per violazione del codice etico è di prassi molto rapido. La particolare natura del giudizio disciplinare associativo riguarda, infatti, esclusivamente violazioni delle regole associative, senza alcuna censura di carattere morale, ma con un giudizio solamente giuridico. È un procedimento celere, in ragione dei diritti associativi in gioco, e non necessita della conclusione di altri procedimenti, ad esempio penali, aperti nei riguardi degli interessati. La decisione dei probiviri è poi sottoposta al voto del Comitato direttivo centrale, che può anche decidere, nei casi estremamente gravi, di espellere il magistrato dall’Anm. Considerati i tempi, sarà molto però difficile che si arrivi ad una qualsiasi decisione. L’attuale Comitato direttivo centrale terminerà il mandato fra poche settimane. Le elezioni per il suo rinnovo sono state già fissate per il prossimo 22 marzo. A febbraio scadrà il termine per la presentazione delle candidature fra i rappresentanti delle varie correnti. Di questa vicenda, quindi, l’unico che al momento ha avuto “contraccolpi” è stato Palamara, dallo scorso autunno in “ferie forzate”. Sospeso dal servizio e con lo stipendio ridotto, l’ex presidente dell’Anm attende la decisione delle Sezioni unite della Cassazione sul provvedimento cautelare disposto dalla sezione disciplinare del Csm. La tesi di molti commentatori secondo cui l’indagine di Perugia non sarebbe stato altro che un pretesto per il ribaltone degli equilibri all’interno magistratura associata prende sempre più corpo.  Travolta Magistratura indipendente, la corrente di destra della magistratura e di cui facevano parte tre dei cinque consiglieri dimissionari, destinata alla scomparsa Unicost, la corrente di Palamara, l’asse vincente per i prossimi anni sarà quindi quello Davigo-Magistratura democratica. Con la massima soddisfazione del ministro Alfonso Bonafede, il primo supporter dell’ex pm di Mani pulite.

Caso Palamara, per il Gip non ci sono prove. L’ex Pm vittima di congiura. Giovanni Altoprati de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Tre soggiorni a San Casciano dei Bagni (SI), uno a Favignana (TP), uno a Madonna di Campiglio (TN), uno a Dubai e uno a Madrid. Sette viaggi per un totale di 7.619,75 euro. L’indagine di Perugia che ha travolto le toghe italiane e ha “consegnato” la maggioranza nel Consiglio superiore della magistratura al gruppo di Piercamillo Davigo ruota intorno a questi sette soggiorni effettuati da Luca Palamara fra il 2014 ed il 2017 e pagati dall’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti. È quanto emerge dal provvedimento di sequestro preventivo nei confronti di Palamara disposto lo scorso 4 marzo dal Tribunale umbro. L’emergenza Covid-19 deve aver risvegliato dopo mesi di silenzio gli inquirenti: in circa duecento pagine, con dovizia di particolari, il gip di Perugia Lidia Brutti ricostruisce la genesi dell’intera indagine, iniziata nel 2016 dalla Procura di Roma nei confronti di Centofanti, svelando gran parte delle carte in mano all’accusa. Il tema su cui si concentra l’attenzione degli investigatori è il rapporto, iniziato nel 2008, fra Centofanti e l’ex consigliere del Csm ed ex presidente dell’Anm. Una relazione, afferma il gip, «inquinata da interessi non confessabili». «Centofanti – scrive il gip – da tempo operava come lobbista, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito». Il rapporto fra i due, sottolinea il gip, è “opaco” e “anomalo”. Il motivo? Gli incontri avvenivano “soltanto con modalità semi/clandestine”, con numerose accortezze da parte di Centofanti, come ad esempio “lasciare il telefono in auto” prima di incontrare Palamara. Tale rapporto, che espone a pericolo di «pregiudizio l’imparzialità e il buon andamento della funzione pubblica esercitata da Palamara», manca però della pistola fumante. «Non vi è prova che Palamara abbia compiuto in conseguenza delle utilità ricevute atti contrari ai doveri d’ufficio» e «non vi sono elementi sufficienti per affermare che un effetto dannoso sia stato concretamente prodotto», puntualizza il magistrato umbro. Sui fascicoli rinvenuti nell’ufficio del pm romano e sottoposti a sequestro, «non vi è prova che Palamara abbia effettivamente dato seguito alle segnalazioni ricevute». «Io ho scontato il fatto – si difende Palamara – che con tutto quello che ho fatto nella carriera ho ricevuto segnalazioni e richieste da parte di tanti», in primis «magistrati e forze dell’ordine». Per i magistrati le segnalazioni non riguardavano solo gli incarichi direttivi ma anche per “la legge 104”. «Non dico mai no, ma cerco di rallentare, di non esaudire nella speranza che le persone desistano. Quando è possibile, nei limiti del consentito, cerco di esaudire le richieste come ho fatto con tantissime persone», aggiunge Palamara. Nella tesi investigativa gli inquirenti contestano a Palamara l’articolo 318 del codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Insomma, Palamara sarebbe stato a libro paga di Centofanti, anche se non è chiaro a quale scopo, dato che, è lo stesso gip a ricordarlo, «il contributo del singolo consigliere non può assumente rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara». Il sospetto, allora, è che qualcuno fra le toghe abbia voluto preparare il classico “piattino” a Palamara nel momento in cui la magistratura italiana aveva cambiato rotta. Con Unicost, la corrente di centro di cui Palarmara era stato per anni ras indiscusso, che aveva rotto lo storico rapporto con le toghe di Magistratura democratica per allearsi con la destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Alleanza che aveva determinato, ad esempio, l’elezione nel 2018 del vice presidente del Csm David Ermini (Pd). Il 16 maggio scorso, avvisato dal collega Luigi Spina che la Procura di Perugia ha trasmesso l’informativa al Csm, Palamara capisce di essere finito nel mirino. In una concitata telefonata con la sorella Emanuela, avvenuta il successivo 29 maggio, Palamara si sfoga: «Me la vogliono far pagare». Il pm romano, dalla scorsa estate sospeso dal servizio, è assistito dagli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti. Nel procedimento disciplinare sarà invece assistito da Stefano Guizzi, consigliere della Corte di Cassazione.

“Intercettazioni su Cesaro e Pentangelo inutilizzabili”, deputati colpiti dalla macchina del fango. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Ci sono almeno tre argomenti che per il caso dell’ex Cirio, inchiesta per presunta corruzione a Castellammare di Stabia, invitano a usare cautela nei giudizi, evitando quelli affrettati e che potrebbero risolversi in una bolla di sapone. Non sarebbe la prima volta, del resto, che accuse su cui si sono inizialmente sollevati grossi scandali giudiziari si siano poi ridimensionate nelle aule di tribunale. Ci sono almeno tre passaggi, dunque, su cui la difesa di Luigi Cesaro (avvocati Giovanbattista Vignola e Giuseppe De Angelis) e di Antonio Pentangelo (avvocato Antonio Cesarano) punta l’attenzione in attesa della decisione delle Camere sulla richiesta di arresti domiciliari avanzata dagli inquirenti nei confronti dei due politici, oggi parlamentari di Forza Italia e già presidenti della Provincia di Napoli, e in attesa del possibile, quasi scontato, ricorso al Riesame da parte dei difensori. Due argomenti sono di carattere tecnico giuridico, un terzo va invece dritto al cuore delle vicende al centro dell’inchiesta. Ed è quest’ultimo un punto centrale nella ricostruzione difensiva. “Tutta l’operazione oggetto delle indagini sembrerebbe non essere affatto finalizzata alla emanazione di provvedimenti illeciti ma piuttosto a rimuovere un’inspiegabile inerzia burocratica ai limiti dell’ostracismo, tanto da dover sollecitare la nomina di un commissario ad acta per l’espletamento delle incombenze richieste”, osservano i difensori di Cesaro. È un ragionamento che si basa su una chiave di lettura dei fatti diversa da quella proposta dalla Procura di Torre Annunziata che coordina l’indagine, e su una ricostruzione che considera l’interesse della politica verso una simile opportunità per il territorio come un’attenzione legittima e confinata nei limiti dei compiti istituzionali di un politico. “Nessun atto illegittimo è stato fatto, nessun atto contrario ai doveri di ufficio”, spiega l’avvocato Cesarano, difensore di Pentangelo, evidenziando come il ruolo del suo assistito si sia limitato alla nomina del commissario. Un commissario ad acta di cui nelle intercettazioni si parla come di uno che lavora per 1.800 euro. “Ma stiamo scherzando?”, si commenta in una delle intercettazioni agli atti, come a meravigliarsi secondo la chiave di lettura che offre la difesa. Uno stupore che si ritrova anche quando un consigliere comunale si meraviglia di avere a che fare con una politica che non chiede nulla, non chiede soldi: “Ma quando l’hanno avuta una cosa del genere senza cacciare una lira?”. Eppure il progetto di riconversione dell’ex Cirio era un’operazione imponente, operazione che, come si ascolta in una delle conversazioni intercettate, avrebbe trasformato “le baracche in oro”. Centrale nell’inchiesta è la figura di Adolfo Greco, imprenditore molto conosciuto nella zona, uno con tantissimi amici e una fitta rete di relazioni con tutti i partiti, dal centrosinistra al centrodestra passando per gli esponenti di Scelta Civica. “In nessun passaggio emerge che Cesaro e Pentangelo abbiano chiesto soldi o altro”, spiega la difesa a proposito dei rapporti con l’imprenditore. Quanto all’orologio avuto in dono da Pentangelo si sarebbe trattato di un regalo di compleanno arrivato a distanza di molto tempo dai fatti, mentre a proposito dello sconto per il fitto della sede di Forza Italia di cui pure si parla nell’inchiesta, la difesa smonta l’ipotesi accusatoria evidenziando come il canone fosse a carico del partito a Roma e non già del coordinamento regionale. I fatti, a volte, si prestano a più chiavi di lettura. Poi ci sono le argomentazioni più strettamente tecniche e riguardano le intercettazioni al cuore delle accuse e la tempistica delle richieste di misura cautelare. Sulle intercettazioni i difensori di Cesaro e Pentangelo sollevano una questione di legittimità e utilizzabilità essendo state, le intercettazioni al cuore di questa inchiesta, disposte e autorizzate in relazione a un reato non connesso a quello ipotizzato a carico dei politici. La seconda perplessità difensiva riguarda la tempistica delle richieste di misura cautelare, e quindi l’attualità delle esigenze cautelari su cui base la Procura ha basato la richiesta di arresti domiciliari per Cesaro e Pentangelo: i fatti si riferiscono agli anni dal 2013 al 2015. “E di essi già da tale epoca – spiega la difesa – l’autorità giudiziaria ne era a conoscenza. Perché allora la decisione di emettere a distanza di tale lasso di tempo una misura così grave come quella adottata?” Questo è uno dei tanti interrogativi che su questa vicenda restano ancora aperti.

Caso Palamara, spunta il "salvagente" per le toghe. Non utilizzabili le intercettazioni compiute per altre inchieste. Appiglio pure per Maroni. Luca Fazzo, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Una svolta che potrebbe salvare Roberto Maroni, l'ex presidente della Regione Lombardia recentemente condannato anche in appello per induzione indebita. Ma che sullo sfondo ha anche un'altra vicenda, e di rilevanza ancora maggiore: lo scandalo che ha investito il Consiglio superiore della magistratura, le cui manovre sottobanco sono state messe in luce da una serie di intercettazioni che hanno portato a incriminazioni eccellenti e dimissioni. A partire da quelle del giudice Luca Palamara, leader della corrente di Unicost, e del procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio. A unire le due vicende (ma anche molte altre di minor rilievo) è la sentenza, per alcuni aspetti rivoluzionaria, emessa il 2 gennaio dalle Sezioni Unite della Cassazione. Tema cruciale: la utilizzabilità in un'inchiesta e in un processo di intercettazioni compiute in un'altra indagine. È il sistema invalso da anni, con verbali che rimbalzano da una inchiesta all'altra. Finora la Cassazione aveva lasciato le briglie sciolte alle Procure: bastava che il contesto fosse più o meno uguale, che uno o più indagati comparissero in entrambi i filoni, e tutto si poteva utilizzare. Il caso più recente e lampante era stato proprio quello di Maroni: intercettato in una costola dell'indagine sugli appalti in India di Finmeccanica, finita in nulla, ma poi inquisito e condannato per i favori fatti in Lombardia a una collaboratrice del suo staff. La motivazione della condanna in appello, depositata l'altro ieri, dice che le intercettazioni erano utilizzabili essendoci «connessione soggettiva e probatoria tra i due procedimenti», «siccome erano evidenti le necessità di approfondire i rapporti tra Maroni e i suoi più stretti collaboratori». Macché, dicono ora le Sezioni Unite della Cassazione: le intercettazioni possono transitare da un indagine all'altra solo nei casi previsti dall'articolo 12, cioè se i reati sono commessi «con una sola azione» o con un «unico disegno criminoso», o il secondo reato per coprire il primo. Maroni, quando il suo caso approderà in Cassazione, potrà giovarsi della svolta. Ma lo stesso potranno fare esponenti di spicco della magistratura coinvolti dall'inchiesta sul Csm, e intercettati insieme a Palamara. Dovrebbero salvarsi l'ex procuratore generale della Cassazione, Fuzio, e l'ex membro del Csm Luigi Spina, accusati di avere rivelato a Palamara l'esistenza dell'inchiesta a suo carico. L'inutilizzabilità delle intercettazioni in sede penale potrebbe essere fatta valere anche in sede disciplinare dai numerosi ex membri del Csm finiti sotto procedimento. Per non parlare di cosa accadrebbe se la Corte Costituzionale desse ragione a Cosimo Ferri, senatore di Italia viva, che accusa la Procura di Perugia di averlo intercettato abusivamente mentre parlava con i membri del Csm.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 gennaio 2020. L'inchiesta perugina sul presunto mercato delle nomine al Csm ci regala un nuovo colpo di scena. L' uomo le cui dichiarazioni sono la principale fonte d' accusa dei magistrati umbri è finito sotto indagine per calunnia presso la Procura di Messina. Direte: magari si tratta di storie completamente diverse. Sbagliato. Il grande accusatore, l' ex pm Giancarlo Longo, che, nel dicembre 2018, dopo aver lasciato magistratura, ha patteggiato una pena di cinque anni per corruzione e altri reati, è stato iscritto per alcune delle cose che ha riferito anche a Perugia. Da una parte le sue dichiarazioni hanno giustificato perquisizioni e atti d' indagine, dall' altra sono state prese come un tentativo di infangare il buon nome dell' ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale di prima istanza del Vaticano. Ma procediamo con ordine. A fine maggio la Procura perugina ha spedito i finanzieri a casa e nell' ufficio del pm romano Luca Palamara, ex consigliere del Csm. Nel decreto di perquisizione e nell' avviso di garanzia il primo capo d' accusa per corruzione era così formulato: «Perché quale componente del Csm, riceveva da Calafiore Giuseppe e Amara Piero - in concorso tra loro e con Longo Giancarlo - la somma pari ad euro 40.000 per compiere un atto contrario ai doveri d' ufficio, ovvero agevolare e favorire il medesimo Longo nell' ambito della procedura di nomina del procuratore di Gela alla quale aveva preso parte Longo». Un reato che sarebbe stato commesso intorno all' aprile del 2016, quando Palamara era membro del Csm. Amara e Calafiore, lo ricordiamo, sono due avvocati accusati da diverse Procure di aver aggiustato processi, corrompendo giudici (a Roma hanno già patteggiato rispettivamente 36 e 33 mesi di reclusione; Amara ha chiuso la pratica anche a Messina incassando altri 14 mesi). La succitata accusa contro Palamara nasce dalle dichiarazioni rese da Longo a Perugia il 26 aprile 2019: «È stato Calafiore a dirmi che la candidatura a Gela, in particolare non era andata a buon fine, nonostante lui fosse intervenuto su Palamara con una dazione di 40.000 euro». Ma il 26 aprile Longo fa anche sapere ai pm di non essere così certo di quanto gli riferisse Calafiore: «Raccontava molte circostanze similari e non so dire se millantasse o altro». Per i magistrati probabilmente, almeno su questo punto, no. Ma nella stessa giornata, l' avvocato di Longo, Bonaventura Candido, fa presente che nel luglio 2018 il suo assistito aveva riferito a Messina di una circostanza «presumibilmente di vostra competenza relativa a un altro magistrato». Nel verbale sintetico si legge quanto Longo dichiarò subito dopo: «Ho riferito che attraverso un telefono cellulare poi non rinvenuto ero stato avvisato da Calafiore che Amara era stato informato di una mail che De Lucia (procuratore di Messina, ndr) aveva inviato a Pignatone (che stava indagando su Amara e Calafiore a braccetto con i colleghi messinesi, ndr), contenente in allegato la bozza della richiesta di misura cautelare nei nostri confronti (di Longo, Amara e Calafiore, ndr)». Arresto poi in effetti avvenuto nel febbraio 2018. Di quella bozza, secondo il grande accusatore, Amara «era venuto a conoscenza attraverso il fratello del dottor Pignatone», Roberto, il quale in passato era stato un consulente dello stesso Amara. La notizia gli sarebbe stata confermata dall' avvocato su una chat riservata (Wickr, dove i messaggi si autodistruggono) inviata su un telefonino che gli era stato fornito dai due coimputati per interloquire con loro e che «al momento dell' arresto è stato gettato nella spazzatura». Tutto ciò sarebbe avvenuto «nel settembre/ottobre 2017». A Messina Longo aveva riferito all' incirca le stesse cose, aggiungendo: «Sia Amara che Calafiore avevano un rapporto diretto col fratello di Pignatone a loro dire, a quello che so è un professore che si occupa di economia». Non è finita: «Calafiore mi disse che mi stavano arrestando. Mi consigliò di trovarmi un avvocato bravo e di fare una memoria difensiva. Ho poi visto due cnr (comunicazioni notizie di reato, annotazioni degli investigatori ndr) delle quali intendo riferire». Calafiore nell' incidente probatorio del 3 luglio 2018 prima avverte i giudici che «Longo è uno dei miei più cari amici», ma poi smentisce il compare sia a proposito delle dichiarazioni su Palamara sia di quelle sui fratelli Pignatone. «Io non ho riferito a Longo di nessuna mail [] Non ho rapporti diretti con il fratello del dottor Pignatone, non so nemmeno se l' ho mai incontrato. Io non ero a conoscenza della misura di custodia cautelare». Calafiore ammette solo di aver mostrato le cnr a Longo, carte riservate che Amara avrebbe ricevuto da sue fonti («Mi ha detto: "Guardia di finanza, persone mie"»). Sulla base di quei documenti, ma, a suo avviso, anche della notizia dell' imminente arresto, l' ex magistrato, a tambur battente, nell' ottobre del 2017 nominò un avvocato a Messina (Candido) e preparò una memoria e una consulenza tecnica sui suoi conti correnti. Il legale depositò anche una comunicazione in cui faceva presente agli inquirenti che il suo assistito non era più magistrato di Siracusa (dove era ipotizzata la commissione di condotte illecite), ma aveva «assunto le nuove funzioni di giudice istruttore della quinta sezione civile del Tribunale di Napoli». Una mossa dall' obiettivo chiaro anche per uno studente del primo anno di giurisprudenza: il suo cliente non poteva reiterare il reato e quindi non doveva essere arrestato. Nel 2018 a Messina hanno iscritto Longo sul registro degli indagati per la presunta calunnia ai danni di Pignatone e di suo fratello Roberto, per averli incolpati di rivelazione di segreto, «pur sapendoli innocenti, poiché attribuiva a Calafiore Giuseppe delle propalazioni rivelatesi non vere». In pratica Longo oltre che corrotto sarebbe una specie di kamikaze: mentre ammetteva i reati a lui contestati alla ricerca del patteggiamento, avrebbe deciso di infangare il nome del più potente procuratore d' Italia, non si sa bene con quale fine. Fatto sta che il 10 ottobre scorso Longo ha ricevuto in carcere l'avviso di chiusura indagini e il 31 ottobre, su sua richiesta, è stato sentito a Rebibbia (dove è rinchiuso da agosto) da due pm messinesi, volati a Roma per interrogarlo sulla presunta calunnia ai danni dei fratelli Pignatone. L'indagato, nell'occasione assistito anche dall' avvocato Itana Crialesi, ha consegnato ai magistrati alcune pagine di spontanee dichiarazioni, con cui, a quanto ci risulta, avrebbe confermato le precedenti versioni. Resta inspiegabile l' atteggiamento suicida di Longo, a meno che non si voglia prendere in considerazione l' ipotesi che stia ripetendo in buona fede quanto gli è stato realmente riferito. Quel che è certo è che di fronte a valutazioni apparentemente così difformi da parte di due diversi uffici giudiziari sulle sue dichiarazioni qualcuno potrebbe trarre l' errata conclusione che Longo è un testimone credibile quando parla di Palamara, mentre è un calunniatore quando coinvolge Pignatone e famiglia.

Antonella Mascali per il Fatto Quotidiano il 10 gennaio 2020. Ha accusato il Procuratore di Catanzaro anti 'ndrangheta, Nicola Gratteri, via telecamere, di condurre inchieste "evanescenti" e per questo, ma non solo, il Procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, potrebbe essere trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale. Ieri, la Prima commissione del Csm, presieduta da Sebastiano Ardita, ha votato all' unanimità la procedura e già lunedì Lupacchini sarà sentito dalla Prima con il suo avvocato Ivano Lai, che assicura: "Il Pg con serenità si sottoporrà alle domande del Csm". Lupacchini ha anche chiesto che la seduta sia pubblica, dovrà decidere il Csm se acconsentire. Contemporaneamente, la Prima Commissione, su richiesta di Magistratura Indipendente, Area e del laico M5S , Gigliotti ha aperto una pratica a tutela di Gratteri per le dichiarazioni di Lupacchini e per quelle della deputata del Pd Enza Bruno Bossio che aveva definito l' operazione di Gratteri uno "show" destinato a finire "in una bolla di sapone come il 90% delle sue indagini", con lo scopo di "colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi". Dopo i 300 arresti di dicembre chiesti e ottenuti dal procuratore Gratteri, Lupacchini aveva rilasciato una dichiarazione su Tgcom24 che ha determinato la decisione della Prima: "I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa, che evidentemente è più importante della Procura generale. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della Procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l' evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro stessa". Cioè il Procuratore generale accusa pubblicamente il procuratore del suo distretto di condurre inchieste basate sul nulla e di non averlo informato. Secondo la Prima commissione ci sono gli estremi per valutare un trasferimento per incompatibilità ambientale perché Lupacchini avrebbe espresso un giudizio su inchieste su cui dovrà esserci una valutazione di merito di giudici; formula un giudizio su un magistrato su cui, per funzione, deve vigilare come su tutte le altre toghe del distretto. Il Procuratore generale fa anche parte, come membro di diritto, del Consiglio giudiziario, il "Csm locale", che concorre alla valutazione professionale dei magistrati e alla loro nomina per incarichi direttivi o semi direttivi. Proprio per questo ruolo, è il ragionamento della Prima, con tale comportamento Lupacchini potrebbe aver compromesso la sua immagine di imparzialità in quel distretto. Lunedì non sarà contestata, però, solo l' intervista ma anche, ci risulta, la pubblicazione sulla pagina Facebook del Pg di una petizione contro la decisione dei giudici disciplinari del Csm di trasferimento cautelare a Potenza, come giudice civile, del procuratore Eugenio Facciolla di Castrovillari (distretto di Catanzaro), messo sotto inchiesta a Salerno dopo aver ricevuto un fascicolo dal procuratore Gratteri.

Gratteri intoccabile, il Pg critica e rischia sanzioni. Lupacchini in tv ha accusato: «Avvisa stampa e non noi». Aperto procedimento disciplinare. Felice Manti, Venerdì 10/01/2020 su Il Giornale.  Chi tocca Gratteri muore. Il procuratore capo di Catanzaro non è molto amato negli uffici giudiziari del capoluogo calabrese, e questo il coraggioso magistrato antimafia l'aveva messo in conto. Ma quando le critiche al suo operato si sono spostate dalla macchinetta del caffè alle telecamere di Tgcom il disagio del tribunale calabrese è venuto fuori in maniera esplosiva. A innescare la miccia sono state le dichiarazioni del Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Non certo un dilettante ma un gigante della magistratura, con alle spalle inchieste e processi pesantissimi, dallo strano suicidio del «banchiere di Dio» Roberto Calvi all'omicidio del giuslavorista Massimo D'Antona per mano delle nuove Br passando dalla strage di Bologna e un libro-inchiesta sulla Banda della Magliana. Nei giorni successivi alla maxi inchiesta di 'ndrangheta che ha portato a 416 indagati tra politici, avocati, amministratori, funzionari e forze dell'ordine Gratteri si è beccato via etere la durissima reprimenda di Lupacchini con frasi del tipo «abbiamo saputo i nomi degli arrestati dalla tv», «per Gratteri è più importante informare la stampa della procura generale», aggiungendo una postilla al vetriolo su «l'evanescenza di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro». «Dichiarazioni allarmanti», dicono i magistrati di Area e Magistratura indipendente, che hanno innescato il «processo» a Lupacchini, che adesso rischia il trasferimento. Anche perché contro si trova anche l'Anm, sceso in trincea a difendere Gratteri da «un'inaccettabile forma di condizionamento dell'autonomia e indipendenza dei titolari delle indagini». «Frasi sconcertanti, non argomentate e infondate» espresse da chi, dice il sindacato delle toghe, «è al vertice della magistratura requirente del distretto». Se la mafia calabrese a casa sua fa il bello e il cattivo tempo un motivo c'è. E Gratteri lo sa benissimo. La Procura calabrese è un colabrodo, tanto che per scongiurare la fuga di notizie aveva anticipato il maxiblitz anti 'ndrangheta di un giorno. Lo sa bene anche l'ex pm di Catanzaro Luigi de Magistris, anche lui «costretto» nel 2007 ad agire all'insaputa dell'allora suo capo Mariano Lombardi perché voleva indagare sui rapporti tra le toghe e i politici come l'ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, che di Lombardi era il legale di fiducia. E oggi è in carcere per 'ndrangheta nell'inchiesta firmata Gratteri che ha scoperchiato il vaso di Pandora pieno di colletti bianchi al servizio delle 'ndrine. È in questo clima di sospetti incrociati che, tra i pm litiganti, la 'ndrangheta gode.

Il procuratore generale Lupacchini rischia il trasferimento per le critiche a Gratteri. Redazione de Il Riformista il 9 Gennaio 2020. Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini rischia di dover lasciare il suo posto per aver criticato la Procura della Repubblica del capoluogo e il suo capo Nicola Gratteri per l’inchiesta sulla ‘ndangheta che nelle scorse settimane ha portato all’arresto di oltre 300 persone. In particolare la Prima Commissione del Csm ha aperto nei confronti di Lupacchini, convocato per lunedì prossimo, la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale. La ‘colpa’ del procuratore generale sarebbe quella di aver delegittimato pubblicamente l’operato di Gratteri. La stessa Commissione del Consigli superiore della magistratura ha anche aperto una pratica a tutela di Gratteri per le accuse ricevute sia da Lupacchini che dalla deputata Pd Enza Bruno Bossio. Gratteri in una intervista a TgCom24 aveva parlato di “evanescenza di molte operazioni della Procura di Catanzaro”, lamentando di aver appreso soltanto dalla stampa le ragioni dei provvedimenti e i nomi degli arrestati. Nelle scorse settimane anche l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, si era espressa contro Lupacchini. “Le valutazioni del Procuratore Generale Lupacchini, come riportate dalla stampa, relative a ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip in seguito ad indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro e in attesa di ulteriori verifiche giurisdizionali, sono sconcertanti in sè e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”, era la posizione netta dell’associazione di categoria.

'Ndrangheta: Lupacchini si difende al Csm: "Gratteri non mi ha informato". Il pg di Catanzaro per 5 ore davanti alla Prima Commissione del Csm, che dopo un'intervista critica verso l'operato del capo della procura, ha aperto nei suoi confronti una pratica per valutare se sussistano o meno i presupposti per un trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale. la Repubblica il 13 gennaio 2020. E' stata un'audizione fiume, durata quasi 5 ore, quella in cui il pg di Catanzaro Otello Lupacchini ha risposto alle domande della Prima Commissione del Csm, che ha aperto nei suoi confronti una pratica per valutare se sussistano o meno i presupposti per un trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale, come richiesto al plenum del Consiglio superiore della magistratura. Lupacchini si è difeso confermando quanto esposto nell'intervista rilasciata lo scorso dicembre a Tgcom, nella quale aveva criticato il fatto che il capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri non lo avrebbe informato, come dovuto, sull'indagine che ha portato di recente ad oltre 330 arresti. Il pg, dunque, ha ricostruito, anche in chiave critica, i suoi rapporti con Gratteri, nonchè il suo operato svolto in servizio a Catanzaro. Lupacchini ha ribadito di aver appreso solo dalla stampa i nomi degli arrestati e la ragione dei provvedimenti, e dunque di non essere stato informato preventivamente come invece imporrebbero le regole sul rapporti tra la procura ordinaria e la procura generale. La Commissione dovrà decidere ora se andare avanti nell'istruttoria o se procedere al deposito degli atti. In questo caso Lupacchini avrebbe dieci giorni di tempo per presentare le sue istanze, poi sarebbe il plenum a pronunciare la parola definitiva sul trasferimento. La Commissione, che oggi ha respinto la richiesta, avanzata dalla difesa di Lupacchini, di svolgere l'audizione in seduta pubblica, dovrà ora decidere se proseguire l'istruttoria oppure depositare gli atti: Lupacchini, prima che si giunga a una proposta al plenum, potrà trasmettere al Csm ulteriori memorie difensive. "Ho chiesto l'udienza pubblica e non è stata accordata, anzi la seduta è stata addirittura secretata, dunque per quanto mi concerne non posso dichiarare nulla. Mi auguro solo di non trovare domani le mie dichiarazioni su qualche organo di stampa", ha detto Lupacchini al termine dell'audizione al Csm. "Tutto avviene nei cunicoli bui - si limita a dire, non celando un po' d'amarezza, facendo riferimento alla richiesta di seduta pubblica respinta - e questo darà corpo certamente ad altri attacchi: mi si chiamerà 'ndranghetista, mafioso, nemico della patria... ma non per questo - assicura - verrò meno al mio obbligo di riservatezza".

Scontro Gratteri-Lupacchini, chiesto il trasferimento del procuratore generale di Catanzaro. Simona Musco su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il pg nel mirino dopo le critiche al procuratore della Dda di Catanzaro: «non mi ha informato sul blitz, preferisce i giornali». «Otello Lupacchini va trasferito». È questa la misura cautelare invocata dal pg di Cassazione Giovanni Salvi e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per il procuratore generale di Catanzaro. Una decisione che il plenum del Csm prenderà giovedì prossimo, quando si stabilirà il destino del magistrato, finito nell’occhio del ciclone per le sue esternazioni critiche nei confronti della Dda di Catanzaro e, in particolare, nei confronti del suo capo, Nicola Gratteri. Tutto era nato dalle dichiarazioni rilasciate in un’intervista a TgCom, dopo il blitz “Rinascita-Scott”, che ha portato ad oltre 300 misure cautelari e a un totale di 416 indagati. A chiedere la pratica a tutela del procuratore della Dda Nicola Gratteri erano stati i consiglieri di Area e Magistratura Indipendente, preoccupati per l’intervista, che aveva fornito al pg il pretesto per riprendere i fili della polemica ingaggiata ormai da mesi con Gratteri, lamentando il «mancato rispetto delle regole di coordinamento con altri uffici giudiziari». «I nomi degli arrestati – aveva dichiarato – e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare. Al di là di quelle che sono poi, invece, le attività della procura generale, che quindi può rispondere soltanto sulla base di ciò che normalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa». Per il Csm, Lupacchini avrebbe così delegittimato pubblicamente l’operato del procuratore Gratteri, tenendo tutta una serie di comportamenti che macchierebbero l’immagine del magistrato. Il pg era comparso in prima commissione lo scorso 13 gennaio, nel corso di un’audizione a porte chiuse, nonostante la richiesta avanzata dal legale di Lupacchini, Ivano Iai, di renderla pubblica per evitare «di notizie distorte». Richiesta respinta, però, per esigenze di segretezza degli atti e per la delicatezza della vicenda. Ed oggi, dopo la richiesta cautelare avanzata da Bonafede e Salvi, il difensore del magistrato torna a chiedere che tutto venga reso pubblico: una richiesta motivata con la «necessità» di tutelare l’immagine del pg,«oggetto di diverse centinaia di insulti che, precipitati in rete con inusitata virulenza (soprattutto attraverso social network) hanno ingenerosamente e immotivatamente apostrofato il magistrato con espressioni offensive della sua dignità personale e professionale». Appare inoltre «indispensabile – sostiene il legale – portare a conoscenza della collettività, nei minimi dettagli, fatti estremamente gravi in ragione dei quali il dottor Lupacchini vede aggravarsi ulteriormente il pericolo per la propria incolumità».

Il “capo” di Gratteri va cacciato, ha osato criticare l’indagine Rinascita Scott in tv. Giovanni Altoprati il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nessuno poteva immaginare, tanto meno il diretto interessato, che a pochi mesi dalla pensione Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, avrebbe affrontato un procedimento disciplinare, con lo spauracchio del trasferimento d’ufficio, davanti al Csm. E tutto per “colpa” di una intervista. Sia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi hanno chiesto, infatti, alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli di allontare Lupacchini da Catanzaro. Motivo? Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Lupacchini aveva criticato la maxi operazione anti ‘ndrangheta condotta pochi giorni prima dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’indagine, denominata “Rinascita Scott”, aveva portato in carcere 334 persone, circa 50 già scarcerate dal tribunale dei riesame, e alla denuncia di altre 400 in Italia e all’estero. «Per me – aveva detto Gratteri nella conferenza stampa “fiume” durata circa due ore – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano». «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», erano state le parole di Lupacchini al giornalista Mediaset che gli chiedeva informazioni al riguardo. «Non siamo stati portati a conoscenza – aveva aggiunto Lupacchini – prima della vicenda, non ne siamo stati portati a conoscenza dopo: i nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare». Tutto qui. Poche parole sufficienti però a scatenare gli strali delle correnti dell’Anm. Sia i togati di sinistra di Area-Md che quelli di destra di Magistratura indipendente, la corrente di riferimento di Gratteri, avevano subito chiesto l’apertura di una pratica al Csm per valutare “la posizione” di Lupacchini. L’udienza è stata fissata per il prossimo giovedì. Il difensore di Lupacchini ha già fatto istanza affinché sia pubblica, sottolineando la «necessità» di tutelare l’immagine del pg, «oggetto di diverse centinaia di insulti che, precipitati in rete con inusitata virulenza (soprattutto attraverso social network) hanno ingenerosamente e immotivatamente apostrofato il magistrato con espressioni offensive della sua dignità personale e professionale». Appare inoltre «indispensabile – ha aggiunto – portare a conoscenza della collettività, nei minimi dettagli, fatti estremamente gravi in ragione dei quali Lupacchini vede aggravarsi ulteriormente il pericolo per la propria incolumità». Per non farsi mancare nulla, su Lupacchini, oltre al trasferimento d’ufficio, pende pure una procedura di trasferimento per “incompatibilità funzionale”. Il legale del pg sul punto ha ricordato di aver già segnalato al Csm «il vulnus all’assoluto riserbo che avrebbe dovuto caratterizzare la procedura, a carico di Lupacchini, a suo tempo concretizzatasi con la reiterata fuga di notizie relativa agli atti di precedente procedura riservata, da cui è derivata la diffusione di notizie distorte, con grave pregiudizio per il magistrato». Il riferimento è all’audizione di Lupacchini avvenuta lo scorso 13 gennaio a Roma. E sempre il legale di Lupacchini ha chiesto di sapere che fine abbiano fatto gli esposti del suo assistito «inoltrati al ministro della Giustizia e al procuratore generale presso la Corte di cassazione, relativi alle criticità riscontrate anche in materia di coordinamento e collegamento tra Procure». E Gratteri invece? Dopo essersi “lamentato” per la poca copertura mediatica fornita alla sua indagine, sarà ospite d’onore del convegno “I nostri ideali per costruire il futuro, per cambiare e condividere” organizzato il prossimo 8 febbraio a Roma da Magistratura indipendente. A lui il compito tenere un intervento sul tema “La comunicazione degli uffici giudiziari: sostanza e forma”.

Accuse a Gratteri, azione disciplinare del Csm nei confronti del Pg Lupacchini. Va a Torino, accolta richiesta del ministro Bonafede. Alessia Candito il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Il procuratore generale Otello Lupacchini dovrà lasciare Catanzaro per incompatibilità ambientale. Così ha deciso la prima sezione del Csm, che come chiesto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi lo ha trasferito altrove, spedendolo alla Corte d’appello di Torino con funzioni di sostituto procuratore generale. Alla base della pesantissima ordinanza del parlamentino dei giudici, le dichiarazioni di Lupacchini in diretta tv, all’indomani degli oltre 340 arresti dell’operazione “Rinascita-Scott”. “I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti – si era lamentato il magistrato in diretta nazionale – li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare”. Ma a far discutere era stata soprattutto l’affermazione successiva del magistrato, che aveva parlato di “evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro stessa”. Inutilmente Lupacchini ha tentato di giustificarsi di fronte al Csm, sostenendo di non aver mai avuto intenzione di criticare Gratteri e i magistrati della sua procura. Per il parlamentino dei giudici, le sue affermazioni sono inaccettabili e tanto gravi da rendere impossibile la permanenza di Lupacchini nel distretto di Catanzaro. Il diretto interessato non commenta, ma il suo legale, Ivano Iai, si scaglia contro il parlamentino dei giudici. Per l’avvocato, Lupacchini ha "subito ingiustamente un trasferimento d'ufficio lontano dal Distretto nel quale ha, con disciplina e onore, semplicemente cercato di esercitare le proprie funzioni". E a detta sua, “appare evidente che al Dott. Lupacchini non sia stata semplicemente applicata una misura cautelare quanto una vera e propria anticipazione di sanzione, oggettivamente e severamente punitiva, oltre che ostile, avendo disposto il trasferimento del magistrato, con perdita delle funzioni direttive, a 600 Km di distanza dalla città di Roma e a oltre 1000 Km da Catanzaro". Per il Csm quelle parole che l’ormai ex pg di Catanzaro ha affidato ai microfoni di Tgcom24 sono state non solo gravi, inopportune e denigratorie, ma sono arrivate anche in un momento estremamente delicato per l’Ufficio diretto da Gratteri. Dopo Rinascita-Scott, la procura di Catanzaro è finita al centro di attacchi mediatici e politici, a partire da quelli della deputata dem Enza Bruno Bossio. Moglie di uno degli indagati, l’ex consigliere regionale Nicola Adamo, dopo l’ennesima inchiesta che ha travolto il marito la deputata su facebook aveva scritto “È giustizia? No è solo uno show! Colpire mille per non colpire nessuno. Anzi sì. Colpire la possibilità di Oliverio di ricandidarsi”. Il Pd si era immediatamente dissociato e il post poco dopo era sparito, ma era rimasto in bella vita tempo sufficiente ad alimentare le polemiche contro la procura in generale e Gratteri in particolare, proprio mentre l’Ufficio finiva nel mirino dei clan. La maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta vibonese non solo ha colpito duramente storici casati di ‘ndrangheta che per quasi dieci anni sono riusciti a dribblare indagini e arresti, ma per la prima volta nella zona ha toccato le strutture massonico-mafiose che hanno permesso ai clan di interfacciarsi con il mondo politico, bancario, istituzionale e finanziario in tutta Italia. Un lavoro iniziato da tempo dalla procura di Reggio Calabria nel distretto di competenza e che Catanzaro ha condiviso e proseguito nella restante parte della regione. Risultato? I clan, che per la prima volta hanno assistito ad un’azione coordinata delle due procure, che da qualche anno hanno iniziato a lavorare in tandem, si sono sentiti accerchiati e attaccati da due fronti. E la reazione è stata immediata e violenta. Nelle prime settimane di gennaio gli investigatori hanno scoperto che alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta della regione avevano già assoldato un killer, specializzato nell’uso di armi da guerra, incaricato di un attentato contro il procuratore Gratteri. Immediatamente sono state rafforzate le misure di sicurezza a protezione del magistrato, dai suv corazzati che hanno sostituito le normali auto della scorta alla blindatura le finestre della procura che danno sulla piazza. Un rischio che in procura avevano messo in conto quando sono scattati gli arresti di Rinascita Scott. E che anche fuori dal distretto le toghe avevano compreso. Per questo contro le parole di Lupacchini unanime è stata la reazione di sdegno non solo dell’Anm, che le aveva “sconcertanti in sé e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”, ma anche di tutte le correnti.

Critiche in tv a Gratteri, il Csm trasferisce il Pg Lupacchini a Torino. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini sarà destinato Procura generale di Torino come sostituto Pg. È la decisione della sezione disciplinare del Csm che ne ha disposto il trasferimento dopo la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi. Lupacchini era finito nel mirino per le parole critiche pronunciate alla vigilia di Natale a Tgcom24, quando aveva criticato la maxi operazione anti ‘ndrangheta condotta pochi giorni prima dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. L’indagine, denominata “Rinascita Scott”, aveva portato in carcere 334 persone, circa 50 già scarcerate dal tribunale dei Riesame, e alla denuncia di altre 400 in Italia e all’estero. “Per me – aveva detto Gratteri nella conferenza stampa “fiume” durata circa due ore – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano”. “Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”, erano state invece le parole di Lupacchini al giornalista Mediaset che gli chiedeva informazioni al riguardo. “Non siamo stati portati a conoscenza – aveva aggiunto Lupacchini – prima della vicenda, non ne siamo stati portati a conoscenza dopo: i nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti, in una sintesi estrema, li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della Procura generale da contattare ed informare”. Per questa parole i togati di sinistra di Area-Md e quelli di destra di Magistratura indipendente all’interno dell’Anm avevano chiesto l’apertura di una pratica al Csm per valutare “la posizione” di Lupacchini.

Criticò le indagini di Gratteri, il procuratore Lupacchini trasferito a Torino. Simona Musco il 27 gennaio 2020 su Il Dubbio. Dopo la maxiretata del magistrato antindrangheta, l’ex pg di Catanzaro aveva osato parlare di indagini evanescenti. La sezione disciplinare del Csm ha disposto il trasferimento d’ufficio per il Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, destinandolo alla Procura generale di Torino come sostituto Pg. Il “tribunale delle toghe” ha accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi, che hanno avviato l’azione disciplinare nei confronti dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro accusandolo di aver “delegittimato” il procuratore della Dda Nicola Gratteri. Nei giorni scorsi, Lupacchini aveva sottolineato che alla base delle sue critiche non c’era alcuna intenzione di denigrare i magistrati del Distretto e il loro operato, ma soltanto di sollecitare una riflessione su circostanze e criticità nei rapporti istituzionali tra Procure. L’avvocato Ivano Iai, difensore del magistrato, ha invece sottolineato l’assenza di fumus di fondatezza dell’azione disciplinare e l’insussistenza dell’urgenza di provvedere alla misura poiché l’ufficio di Procura generale garantisce il buon andamento della giustizia nel Distretto di Corte d’appello di Catanzaro. Il casus belli, l’ultimo di una lunga, serie sta nelle considerazioni fatte da Lupacchini nel corso di un’intervista rilasciata a TgCom 24, all’indomani del maxi blitz “Rinascita- Scott”, che a dicembre ha portato all’arresto di oltre 330 persone: il pg lamentò un mancato coordinamento tra la procura antimafia e quella generale, definendo «evanescenti» le inchieste dei colleghi guidati da Gratteri e affermando di aver saputo dagli arresti solo dalla stampa, «evidentemente molto più importante della procura generale contattare e informare». Da qui, su richiesta dei consiglieri del Csm di Area e Magistratura Indipendenti, la prima commissione del Csm ha aperto una pratica per verificare se sussistano o meno i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale, pratica conclusasi con il trasferimento d’ufficio del magistrato.

«La “punizione” a Lupacchini è un avviso a tutti i magistrati». Giovanni M. Jacobazzi il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista a Ivani Iai, l’avvocato del procuratore che ha osato criticare Nicola Gratteri. «Le affermazioni del dottor Otello Lupacchini vanno considerate come il classico “grido di dolore” della persona che non trova risposta alle sue istanze», dichiara al Dubbio l’avvocato Ivano Iai, legale dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro, trasferito lunedì in via cautelare dalla sezione disciplinare del Csm, di cui fa parte Piercamillo Davigo, a Torino come sostituto pg. Intervistato alla vigilia di Natale da Tgcom24, Lupacchini aveva usato parole molto dure per commentare la maxi indagine anti ‘ndrangheta denominata “Rinascita Scott”, condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che aveva portato all’arresto di 334 persone, molti dei quali, nel frattempo, già scarcerati dal riesame, e alla denuncia di oltre 400, in Italia e all’estero. «Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale», le parole “incriminate” di Lupacchini. Palazzo dei Marescialli, anche su pressione dei togati di Area, il cartello progressista, e Magistratura indipendente, il gruppo di riferimento di Gratteri, aveva deciso di aprire una pratica nei confronti di Lupacchini per incompatibilità ambientale. A rincarare la dose, la Procura generale della Cassazione e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che avevano esercitato l’azione disciplinare nei confronti del magistrato romano. L’accusa contestatagli era quella di aver violato i doveri di imparzialità, correttezza e riserbo. «Il dott. Lupacchini – spiega l’avvocato Iai – in questi anni ha inviato diversi esposti alla Procura generale della Cassazione e al Ministero della giustizia per segnalare criticità e violazioni riscontrate circa il mancato coordinamento della Procura distrettuale con la Procura generale di Catanzaro». Il riferimento è all’art. 118 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e agli articoli 371 e 372 comma 1 bis del codice di procedura penale, i quali prevedono che il procuratore generale debba essere informato dei procedimenti riguardanti i reati particolarmente gravi, fra cui appunto quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso pendenti nelle Procure del distretto. In caso ci fossero indagini collegate, il procuratore generale deve farsi parte attiva per garantire e promuovere il loro coordinamento, sia nell’ambito del distretto della Corte d’Appello e sia – d’intesa con gli altri procuratori generali interessati – in ambito nazionale. Un compito che, secondo quindi quanto riferito dal suo difensore, Lupacchini avrebbe svolto con estrema difficoltà. «Il dott. Lupacchini non ha mai avuto riscontro delle sue segnalazioni», prosegue l’avvocato Iai, evidenziando come gli esisti di tali esposti sarebbero stati importanti «per la difesa nel procedimento disciplinare. Abbiamo ricevuto un diniego dalla Procura generale e da via Arenula», puntualizza. «Appare evidente – prosegue il legale di Lupacchini – che non è affatto facile difendersi in un procedimento disciplinare senza sapere quali siano state le determinazioni da parte della Procura generale e del Ministero della giustizia». Per Iai, aver trasferito, seppure in via cautelare, Lupacchini ad oltre mille km da Catanzaro e seicento da Roma è stata una decisione quanto mai “ostile”. «C’e poi un altro aspetto da considerare: il provvedimento del Csm mina la libertà di pensiero e di espressione. Un grave precedente per tutti i magistrati», sottolinea ancora Iai. Che la vicenda di Lupacchini sia particolarmente complessa si evince dal fatto che il collegio disciplinare che doveva essere presieduto dal vice presidente del Csm David Ermini ha subito uno stravolgimento. Ermini è stato sostituito dal laico in quota Cinque stelle Fulvio Gigliotti, calabrese come Gratteri. Il motivo, che ha portato all’astensione del vice presidente e di altri componenti, va rintracciato in un altro procedimento che è stato aperto a carico di Lupacchini per la petizione a favore di Eugenio Facciolla, ex procuratore di Castrovillari ( Cs), anch’egli rimosso dal Csm, pubblicata sulla pagina Fb dell’ex pg di Catanzaro. L’avvocato Iai ha annunciato che impugnerà il provvedimento della sezione disciplinare del Csm davanti alle sezioni unite della Corte di Cassazione. Nel frattempo, però, appena il Guardasigilli avrà firmato il decreto, Lupacchini dovrà prendere servizio a Torino.

Dagospia  il 28 gennaio 2020. Caro Dagospia, Il diritto di critica morto defunto... Non c’è un politico un giornale qualcuno che almeno avanzi un dubbio neppure minimo sulla decisione del CSM di trasferire il pg di Catanzaro Lupacchini a Torino degradandolo a sostituto pg…Lesa maestà è l’accusa.. Aveva osato criticare Gratteri, autorizzato di fatto a trasformare le conferenze stampa in comizi e a fare il caporedattore dei giornaloni... Del Riesame che sta facendo a pezzi l’inchiesta con scarcerazioni a raffica è vietato parlare e scrivere...trasferiranno anche il Riesame a Torino?

Magistratura, rinviato a giudizio l'ex procuratore Facciolla. Sarà processato a Salerno per corruzione e falso. A gennaio in aula anche il poliziotto Tignanelli e il carabiniere Greco. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2020. L’ex procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, è stato rinviato a giudizio ieri con l’accusa di corruzione in atti d’ufficio e falsità ideologica. Il processo che lo riguarda avrà inizio il prossimo 19 gennaio davanti al Tribunale di Salerno in composizione collegiale e vedrà imputati anche il poliziotto Vito Tignanelli, sua moglie Marisa Aquino, il maresciallo dei carabinieri forestali Carmine Greco e il suo collega Alessandro Vincenzo Nota. Si conclude così il primo round di una vicenda giudiziaria che si è trascinata per mesi, con l’udienza preliminare, lunghissima, che ha regalato anche un anticipo di dibattimento con le dichiarazioni fiume rese in aula dal principale imputato, il magistrato cosentino oggi retrocesso a giudice civile e trasferito a Potenza per volontà del Csm. Durante la sua arringa, Facciolla si è dichiarato vittima «di un omicidio professionale», non lesinando frecciate all’indirizzo di Nicola Gratteri del suo ufficio che, in questa vicenda, hanno giocato un ruolo per certi versi seminale. La Procura di Salerno gli contesta una serie di incarichi per attività di intercettazioni telefoniche e ambientali assegnati dal suo ex ufficio del Pollino alla “Stm srl”, un’azienda del settore che, a sua volta, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbe ricambiato la cortesia mettendogli a disposizione due sim card e un sistema di videosorveglianza sotto la sua abitazione. Con Facciolla sono indagati anche i titolari della ditta, i coniugi Tignanelli-Aquino, già noti per il loro coinvolgimento nell’affaire Exodus, il sofware spia – commercializzato proprio da Stm – che per via di un difetto di fabbrica potrebbe aver messo a rischio i segreti delle Procure di mezz’Italia. È un’altra storia sulla quale indagano le Procure di Benevento e Napoli, impegnate a far luce su una vicenda ancora oscura e dalle conseguenze a tutt’oggi imprevedibili. Ormai privo di veli, invece, è il capitolo salernitano della saga, la cui genesi risale al 2018. In quei giorni, infatti, la Procura di Catanzaro indaga sui rapporti pericolosi tra la ’ndrangheta e il maresciallo Greco, un tempo stretto collaboratore di Facciolla, ma oggi sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Gli accertamenti disposti sul conto del sottufficiale fanno emergere anche dubbi di irregolarità a carico dell’allora procuratore di Castrovillari, tra cui una serie di presunte falsificazioni di atti d’indagini oggi contestate ai due in un altro capo d’imputazione. Tali circostanze inducono l’ufficio di Gratteri a inviare la documentazione del caso a Salerno, competente per indagini a carico di magistrati del distretto di Cosenza e Catanzaro, e sono anche all’origine del deterioramento dei rapporti tra lo stesso Gratteri e il già procuratore generale della Corte d’Appello, Otello Lupacchini. Quest’ultimo, in seguito, contesterà al dominus dei pm catanzaresi di essersi spogliato in ritardo della competenza sull’inchiesta che coinvolgeva anche Facciolla, continuando così a indagare in modo da lui ritenuto illegittimo. Lo scontro tra i due, acuitosi fino a sfiorare profili di incompatibilità ambientale, approderà poi all’attenzione di un Csm non ancora travolto dagli scandali, per concludersi con un’archiviazione. La resa dei conti, però, è solo rimandata di qualche mese. Lupacchini, infatti, critica apertamente Gratteri durante una trasmissione televisiva e, stavolta, il Csm interviene anche nei suoi confronti, trasferendolo in quel di Torino dopo aver retrocesso anche lui al ruolo di viceprocuratore.

Giustizia nel caos, tutta la verità del procuratore Facciolla (di Saverio Di Giorno). Da Iacchite il 7 Luglio 2020. Saverio Di Giorno. Il procuratore Facciolla è esattamente come ce lo si immagina. Sarà forse che è vestito all’incirca come lo si vede sui giornali, o che gli abiti vestono perfettamente le sue movenze, ma è come se non usasse quei filtri e quelle dissimulazioni che si usano nella comunicazione. È una giornata caldissima, tuttavia il mare è vicino quindi c’è una bella corrente. Il procuratore vuole sedersi di fronte al mare e capita, quindi, che mentre risponde e riannoda i fili di vicende passate scruti l’orizzonte. Per la magistratura corrono tempi difficili, c’è Palamara con le sue chat, le nomine pilotate. E nel bailamme di dichiarazioni e strane fughe di notizie, tutti sembrano avere qualcosa da perdere o da nascondere. Perché non lui? Mi viene provocatoriamente da pensare. Certo una cosa è chiara: se ci sono stati movimenti esterni nella procura di Castrovillari sono serviti a estrometterlo e non a nominarlo, come negli altri casi; e poi in questi mesi è l’unico protagonista a non essere mai apparso sulla stampa. Eppure, sotto i suoi occhi sono passati i più interessanti avvenimenti di cronaca e in Calabria, in qualche modo, è l’epicentro della questione magistratura. Come mai questa riservatezza? “Attendo che la mia posizione si chiarisca definitivamente nelle giuste sedi – risponde Facciolla -. Ormai non manca molto e solo allora racconterò la mia versione dei fatti per come sono avvenuti e avrò l’opportunità di dimostrarlo… è deformazione professionale: non si parla senza possibilità di dimostrare”. E di riferimenti a carte e sentenze, questa chiacchierata sarà piena. Il punto di partenza necessario è la sua situazione e dal racconto emergono considerazioni interessanti. Il trasferimento avviene essenzialmente per suoi rapporti con Tignanelli, poliziotto in rapporti con il maresciallo Greco, finito al centro dell’indagine Stige per i suoi rapporti con Spadafora, imprenditore in odor di mafia. “I miei rapporti con Tignanelli erano strettamente professionali, ci sono le intercettazioni a dimostrarlo. O meglio non ci sono, dal momento che sono veramente pochi i casi di dialoghi. Ci siamo sentiti al di fuori solo per degli auguri. Leggendo le carte si rimane sbalorditi. Mi si indaga sostanzialmente per la riorganizzazione che ho fatto all’interno della Procura di Castrovillari per quanto riguarda l’affidamento alle aziende che forniscono materiale investigativo (telecamere, microspie ecc.) quando mesi prima in una ispezione per lo stesso lavoro mi si facevano i complimenti. Ci sono coincidenze e anomalie molto particolari in questa storia”. È una cosa forte. Bisogna approfondire il perché di questa impressione ed emergono particolari che forse un giorno dovrebbero essere approfonditi. “Per lavorare bene su questo territorio occorre prendersi squadre di ragazzi giovani che non abbiano il minimo contatto con il territorio, per evitare di pestare il meno possibile piedi di parenti, amici. In molti casi i rapporti di parentela tra tribunali, procure, agenti e aziende sono inestricabili. Avevo dei bravi ragazzi, collaboratori, tra la polizia giudiziaria e nell’avanzare dell’indagine ci sono state promozioni molto tempestive altrove e poi hanno preso posto in pochissimi giorni, una cosa molto rara”. Vengono in mente altre promozioni fulminee e spostamenti avvenuti in questi territori. E viene in mente anche che andando a controllare il trasferimento (momentaneo) del procuratore Facciolla non avviene nemmeno secondo tutti i protocolli. In effetti stranezze ci sono, ma perché spostarlo? In quei giorni stava indagando sul gruppo Alimentitaliani (si scrive così ma tutti sanno che si legge gruppo iGreco) e sull’oscuro sistema fallimentare, oltre che sull’omicidio Bergamini. Consulenze fantasma pagate migliaia di euro. Un’indagine grossa che arriva a toccare parlamentari. Anche qui quello che ascolto è solo un insieme di fatti l’uno dietro l’altro. Poi sta a ognuno farsi un’idea. L’indagine portava fino al MISE (Ministero dello Sviluppo Economico), dove all’epoca c’era il ministro Calenda (governo Renzi). Bisognava accedere per acquisire alcuni dati ed evidenze investigative. Risulta anche un incontro con alcuni senatori e tale Castano, che ha diretto la task force sulle crisi aziendali nel decennio aperto dalla recessione del 2008. Alcune indiscrezioni circolate parlavano anche di lui tra i nomi in lizza per le grandi aziende. Per inciso, in quelle aziende (ENI, ENEL, Poste ecc.) Renzi ha fatto incetta di poltrone nonostante il suo 3%. Insomma, pare che Facciolla fosse andato a parlare di corde in casa dell’impiccato e come se non bastasse, quando va a riferire al Csm si trova davanti persone che sarebbero poi state al centro della bufera. Altro che indipendenza dei poteri, viene da pensare…

Calenda e Castano. E tra le varie vicende che legano i gruppi imprenditoriali della Sibaritide e i suoi referenti politici (l’ex parlamentare Pd Aiello), resta impigliato l’altro procuratore calabrese, Luberto, per aver insabbiato, secondo l’accusa, le intercettazioni. Una vicenda che si lega a doppio filo con le indagini di Facciolla e non è difficile credere quindi al fatto che il ruolo di Luberto fosse emerso già in tempi precedenti rispetto alla denuncia. Ma allora viene da chiedersi: perché tanta attesa prima di comunicarlo a Salerno? È una risposta che può arrivare solo dalla DDA di Catanzaro. In realtà, il procuratore non è sorpreso nemmeno di quanto sta emergendo dalle inchieste di Salerno e dalle indiscrezioni su 15 magistrati indagati. “Scopriamo l’acqua calda e non dico nulla di nuovo”. Questa volta è facile anticipare dove vanno i suoi pensieri: l’ispezione ministeriale di Lupacchini (e ancora prima Why Not) che aveva denunciato le commistioni all’interno della procura di Cosenza. “Forse non tutti sanno che quella relazione circolò parecchio, arrivò anche all’interno delle carceri, ma soprattutto arrivò sulla scrivania dell’allora ministro della Giustizia Mastella e lì rimase ferma senza azioni per due anni. Ovviamente la conoscevano anche alla Procura di Salerno, che aveva aperto un fascicolo su input degli ispettori. Addirittura fu notificata la chiusura di indagini a carico di magistrati e avvocati che ritroviamo oggi colpevoli, secondo gli ispettori, di illeciti funzionali e disciplinari e forse reati. Ovviamente era passato troppo tempo tra una fase a e l’altra e nel settembre 2011 dopo un’avocazione si arrivò all’archiviazione. Da quando ho iniziato a interessarmi di criminalità nel Cosentino, ricordo pentiti come Franco Pino che già in tempi remoti e non sospetti parlarono e mi misero in guardia sui problemi che ci sarebbero stati nel toccare il livello misto di salotti buoni e criminalità”. Forse bisognerebbe riprendere quelle dichiarazioni. Le denunce di queste commistioni, in effetti, Facciolla le fece già all’epoca e finirono in un articolo de l’Espresso insieme ad altri intercettazioni tra Franco Pacenza ed Ennio Morrone che tirano in ballo procuratori e politici, tra cui Nicola Adamo. Nomi che ritornano. Mastella risultava indagato anche all’interno dell’inchiesta di Why Not di De Magistris. C’è una sua dichiarazione circa l’appartenenza a una loggia massonica. Ironia della sorte, anche questa inchiesta passò sotto gli occhi dell’allora giovane Facciolla. Lui e il dottore Lia impugnarono lo storico decreto di proscioglimento, quello riguardante, in buona sostanza il sistema Saladino e il giro di lavori pubblici. Genchi ha recentemente dichiarato che Bruno Bossio e Adamo in proposito si rivolsero ai buoni uffici di alcuni magistrati. Facciolla aggiunge: “Quell’impugnazione per associazione a delinquere fu accolta dalla Cassazione e ricordo che a Roma incrociai Minniti. Era interessato alle vicende calabresi e riconosceva la difficoltà di indagare in Calabria. Ricordo che si mise a completa disposizione”. I ricordi e i racconti si susseguono tumultuosi. Come se seguissero il moto delle onde che guarda. Nomi, eventi, date, carte, davvero un oceano sconfinato … come si può non sentirsi affogati in questo rincorrersi di eventi sempre uguali da anni? Come si esce fuori? È vero che ora, come stiamo scrivendo, sta venendo meno una serie di appoggi e per questo si possono provare vicende finora passate sotto silenzio? Come si può altrimenti guardare l’orizzonte con tutto ciò in mente. “Indubbiamente ora una rete si sta sfilacciando. È una transizione storica, ma finché resteranno queste dinamiche ci saranno sempre informazioni da poter usare per bloccare tutto o una parte e che una nuova rete può usare per inserirsi. Ho l’impressione che sta sfuggendo dalla vicenda Palamara il fatto che le nomine pilotate dei direttivi non servono solo al potere delle correnti, ma servono perché chi viene nominato poi deve rispondere a chi l’ha nominato. Rispondere alle chiamate in ufficio, a casa, ai favori. Questo è il sospetto grave e inquietante, non le singole chat o invidie personali. Ad un certo punto alcuni colleghi diventano più impeditivi delle minacce dei criminali, ma sono cose che ripeto da anni” – Ma quindi come se ne esce? – “Ora l’unica soluzione sarebbe avere una nuova legge elettorale e poi sciogliere il Csm e riformarlo, altrimenti non cambierà nulla”. Ci si è davvero allontanati molto in questo racconto, ma tuttavia un ultimo passaggio vale la pena farlo, perché tra le inchieste del procuratore Facciolla alcune riguardano anche il clan Muto. È passato poco tempo dal ricordo dell’omicidio Losardo e molte delle vicende riguardanti il clan sono tuttora oscure, tra cui molti omicidi. Un buon modo per ricordare questi uomini è fare passi in avanti nella verità e chissà che non è utile anche ad aprire un piccolo faro su questo lato del territorio: “Ho fatto rilegare le indagini riguardanti il clan, andrebbero studiate come storia. Per imparare. Ricordo che quando c’era da abbattere una pescheria abusiva, con il procuratore Emanuele non si riusciva a trovare una ditta disposta a farlo. L’unico modo fu organizzare un grande evento in pompa magna. Un potere simbolico e pratico. In tutti i procedimenti ci sono stati impedimenti o cavilli che hanno ridotto o evitato le pene. Ci furono anche collaboratori che parlarono di giudici compiacenti a Bari, ma nessuno ha approfondito. In una perquisizione trovammo una foto che ritraeva la famiglia Muto con un allora parlamentare DC calabrese alla sua festa di compleanno”. Sono gli anni ’80 o giù di li. Le commistioni tra criminalità e Stato hanno radici lunghe e profonde. Quando la fiducia nelle istituzioni è al minimo, non resta che quella nelle persone. D’altra parte queste vicende si intersecano con quelle personali, di quando da studenti, in anni caldi di militanza politica, c’erano futuri politici che facevano cordoni e occupazioni e si scontravano con chi era dall’altra parte della barricata, studente di legge. Ma una cosa è stare da due parti diverse della barricata politica, un’altra è essere contrapposti nella barricata della legge e allora come oggi c’erano colleghi che questa barricata l’attraversavano in un senso e nell’altro e che poi ne avrebbero attraversate altre. Non resta altro quindi che rimanere ai propri posti, in trincea perché altrimenti a furia di guardare questo bel mare con il suo orizzonte viene la voglia di prendere il largo, e di andarsene via…

Facciolla non doveva essere trasferito. La Cassazione sbugiarda Gratteri e i suoi giochi di potere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Quel trasferimento non s’aveva da fare. E va rivisto e ripensato, e sarà un’altra commissione del Csm ad occuparsene. È intervenuta la Corte di cassazione a sezioni riunite a riportare un po’ di giustizia in terra di Calabria. Con annessa Basilicata, nel caso del dottor Eugenio Facciolla, l’ex procuratore capo di Castrovillari che, entrato in rotta di collisione con il collega Nicola Gratteri, si era ritrovato un anno fa indagato e prontamente trasferito a fare il giudice civile a Potenza. Strano destino, quello dei magistrati poco allineati con il procuratore di Catanzaro. Il casus belli aveva riguardato, pensa un po’, il sistema delle intercettazioni in Calabria. Il dottor Gratteri pretendeva di centralizzare al suo ufficio quelle di ogni procura di tutta la regione. C’era stata un po’ di rivolta, di cui Eugenio Facciolla era stato protagonista. L’ha pagata cara. Aveva anche presentato esposti contro certi sistemi d’indagine dell’antimafia, che al Csm gli erano poi stati rispediti indietro come boomerang, arricchendo il fascicolo accusatorio che sarà alla base del suo degradante trasferimento, perché «volti a screditare l’operato e la figura dei colleghi della Dda e della Pg da essi delegata per le indagini». Fatto sta che il procuratore Gratteri comincia anche a indagare su di lui, partendo dall’incriminare per concorso esterno in associazione mafiosa un carabiniere forestale che era stato suo collaboratore. È stato proprio a partire da quelle indagini, che secondo il procuratore generale si erano protratte troppo a lungo prima che le carte fossero passate agli uffici di Salerno, come previsto dalle legge quando i fatti riguardino un magistrato, che si creò la frattura tra Gratteri e il procuratore generale Otello Lupacchini. Il quale aveva protestato e denunciato, quindi anche lui speditamente degradato e trasferito dal Csm a Torino. Chi tocca Gratteri fa una brutta fine, pare dirci l’organo di autogoverno dei magistrati. Del resto, non è lo stesso procuratore di Catanzaro ad affermare con una certa strana soddisfazione in ogni intervista (più o meno una al giorno) che in Italia ci sono almeno quattrocento giudici corrotti? Lui li tiene d’occhio e se può li sottopone a indagini, anche quando sarebbe opportuno spogliarsi in gran fretta di un fascicolo che riguarda un collega, e passarlo alla procura del distretto contiguo, l’unica competente. La vicenda giudiziaria dell’ex procuratore capo di Castrovillari, uno dei pochi a poter vantare l’assenza del suo nome nelle intercettazioni di Luca Palamara, ruota tutta nel mondo delle intercettazioni. È accusato di essersi fatto corrompere dai titolari di una società per il noleggio di apparecchiature attraverso l’affidamento di un incarico che gli avrebbe fruttato l’omaggio di una scheda telefonica e di un sistema di videosorveglianza davanti al portone di casa sua. All’ipotesi di corruzione, per la quale il pm Luca Masini (quello che aveva i titoli per diventare procuratore di Perugia quando gli fu preferito Cantone) ha già chiesto il rinvio a giudizio, si aggiunge quella di falso ideologico. Nelle prime udienze davanti al giudice per le indagini preliminari il dottor Facciolla si è difeso in modo appassionato. «Il mio è un omicidio professionale», ha detto con enfasi, e poi ha parlato per quattro ore. Dichiarazioni spontanee, ma massima disponibilità anche all’interrogatorio, ha precisato. Non sono un magistrato corrotto, ha quasi gridato, con una certa commozione, contestando punto per punto ogni sospetto. Molti dei quali del resto, i tanti ipotizzati dal procuratore Gratteri, sono già caduti. E ricordando che la Guardia di finanza ha fatto gli esami del sangue a ogni suo conto, spulciando persino l’atto d’acquisto di un’auto del 1990, cioè di quando ancora lui faceva l’avvocato, senza mai trovare alcuna anomalia. Vittima di un omicidio professionale, vuol dire che la sua toga era d’intralcio. A chi? Al ministro Bonafede, per esempio, titolare dell’azione disciplinare, che la ha esercitata a piene mani nei suoi confronti, portandolo davanti al Csm. Situazione diversa per quel che riguarda un altro soggetto titolare della stessa prerogativa, il procuratore generale presso la cassazione Salvi. Il quale è parso quasi aver preso le distanze quando, su richiesta dell’avvocato difensore di Eugenio Facciolla, Ivano Iai, ha accettato di incontrare l’ex procuratore di Castrovillari e ha precisato che non è dipesa dal proprio ufficio l’estensione dell’azione disciplinare nei confronti del dottor Facciolla. Un punto a favore della difesa, rafforzato dalla decisione di ieri della cassazione a sezioni riunite. E un bello smacco per Bonafede, per il Csm con le sue decisioni frettolose e anche per il procuratore Gratteri.

Gratteri va tutelato dallo Stato, ma mai mitizzato. Ilario Ammendolia il 9 Gennaio 2020 su IL Riformista. Si svolgerà il 18 gennaio a Catanzaro la manifestazione nazionale “Io sto co Gratteri” che secondo gli organizzatori coinvolgerà i fans del procuratore di Catanzaro da “Aosta alla Sicilia”. La manifestazione intende contrastare quanti con le loro critiche hanno causato e causano la “delegittimazione” del magistrato “ utilizzando la stessa tecnica che la mafia ha messo in campo con Falcone già qualche mese prima della strage di Capaci”. Si stabilisce l’equazione: chi critica il procuratore di Catanzaro sta dalle parte degli stragisti. Pertanto noi che abbiamo avuto l’ardire di fare qualche rilievo su alcune inchieste di Gratteri (che poi i giudici hanno raso al suolo), dovremmo sentirci in colpa e vivere con l’angoscia di essere collocati dalla parte dei mafiosi e degli assassini di Falcone. Chiariamo subito che tocca allo Stato proteggere Gratteri ed ha l’obbligo di farlo qualunque sia la somma da spendere e le forze da impegnare. Il procuratore di Catanzaro, come chiunque altro, deve essere messo in condizioni di lavorare nel massimo di sicurezza e di serenità. In una democrazia liberale ogni magistrato, quindi anche Gratteri, va tutelato e rispettato ma mai mitizzato. Ma questo non c’entra niente con la manifestazione di Catanzaro. E’ difficile non percepire le motivazioni di alcuni organizzatori della manifestazione di Catanzaro – forse sponsorizzata da alcuni palazzi – come un oggettivo ricatto verso chiunque si azzardi a criticare i provvedimenti di Gratteri anche se palesemente ingiusti. Un pesante invito al silenzio, un attacco alla libertà di critica, una specie di minaccia verso chi si schiera dalla parte dei più deboli che – non bisognerebbe mai dimenticarlo- sono gli innocenti gettati in galera. Ed anche tra i 334 ammanettati nel blitz “Rinascita-scott”, e sin dalle prime battute, s’è registrata una raffica di scarcerazioni di persone messe in carcere con accuse inconsistenti e tutte da verificare. E’ provato da precedenti inchieste che il numero altissimo di arrestati ha una grande importanza nel ricercato impatto mediatico e serve per dare la sensazione d’un evento eccezionale aldilà del risultato finale. Ed infatti la procura di Catanzaro arrestando così tante persone ha ottenuto tanto clamore ma ne è scaturita una inchiesta ingestibile di 450 mila pagine più gli audio ed i video, cosicché solo per avere gli atti bisognerebbe spendere 39 mila euro. Ora riflettete: c’è uno studio legale capace di un lavoro così imponente? E perché – se non per far numero – mischiare l’estorsione d’una torta o d’un paio di pantaloni, la raccomandazione ad una piccola impresa , l’abuso di potere, una ipotizzata intestazione fittizia di beni avvenuta tra il 2007 ed il 2009, il “traffico di influenze” – reati tutti da dimostrare- con omicidi, traffico di droga, pestaggi mafiosi, occultamenti di cadaveri e quant’altro? Non è questo un modo di fare “giustizia” che garantisce una oggettiva tutela e la probabile impunità ai ricchi, ai capi mafia ed ai colpevoli mentre punisce i poveri e gli innocenti? Siamo mafiosi o stragisti perché muoviamo tali rilievi? Oppure vengono meno al loro dovere quanti hanno scelto di restare in silenzio rispetto al quotidiano strazio delle garanzie costituzionali?

·         E’ scoppiata Magistratopoli.

«Luca Palamara è la “spia” del Fatto e dalla Verità». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 dicembre 2020. Secondo Cantone, l’ex magistrato accusato di aver gestito le nomine avrebbe anche rivelato ai giornali notizie coperte da segreto istruttorio al Fatto di Travaglio e alla Verità. La Procura di Perugia ha notificato ieri pomeriggio all’ex presidente dell’Anm l’avviso di conclusione indagini, propedeutico al rinvio a giudizio, per il reato di rivelazione del segreto d’ufficio. Secondo l’ufficio guidato da Raffaele Cantone, già numero uno dell’Anac, Palamara, in concorso con il collega pm Stefano Rocco Fava, «in data antecedente e prossima al 29 maggio 2019», avrebbe rivelato ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative alle pendenze penali dell’avvocato Piero Amara, uno dei principali protagonisti del cd Sistema Siracusa, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi.Amara, già avvocato dell’Eni, era stato indagato a Roma per bancarotta e frode fiscale. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la Pa, coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto per Amara la custodia cautelare in carcere ma il procuratore Giuseppe Pignatone non aveva voluto apporre il visto.Lo scopo dei due magistrati sarebbe stato, allora, quello di avviare una “campagna mediatica” contro Pignatone, che era da poco andato in pensione per raggiunti limiti di età, e contro Ielo. Pignatone e Ielo sarebbero stati i “responsabili” dei guai giudiziari di Palamara, avendo trasmesso a Perugia, competente per i reati commessi dai magistrati della Capitale, il fascicolo sui rapporti avuti dall’ex capo dell’Anm con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Palamara, a tal riguardo, venne poi iscritto nel capoluogo umbro per il reato di corruzione e sottoposto ad intercettazione mediante il trojan.Fava, invece, è anche accusato di abuso d’ufficio, avendo acquisito, in maniera ritenuta non regolare, documenti dal sistema informatico Tiap per provare l’incompatibilità e la violazione dell’obbligo di astensione da parte di Pignatone e Ielo in un paio di procedimenti. Il 27 marzo 2019 Fava aveva presentato un esposto al Csm in cui sarebbe stata riportata una versione, secondo i magistrati umbri, “incompleta” degli atti adottati da Pignatone e da Ielo nei procedimenti in questione. A far compagnia a Palamara nel reato di rivelazione del segreto, Riccardo Fuzio, l’ex procuratore generale della Cassazione. Fuzio avrebbe confermato a Palamara che Fava aveva effettivamente presentato un esposto al Csm contro Pignatone e Ielo. Esposto che era stato secretato una volta giunto a Palazzo dei Marescialli. La circostanza emergerebbe da una telefonata fra i due intercettata il 3 aprile dello scorso anno.L’ex pg della Cassazione è attualmente indagato anche per un’altra rivelazione del segreto, e cioè quando a maggio del 2019 aveva informato Palamara che al Csm era arrivato il fascicolo da Perugia per corruzione nei suoi confronti. Fava, sul punto, si era “autoaccusato”. Interrogato dai pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani aveva dichiarato di aver effettivamente fatto verifiche nelle banche dati, finalizzate alla redazione del citato esposto. Tutto regolare, quindi, trattandosi di procedimenti che erano stati definiti con sentenze passate in giudicato.Se per Fava questo è il primo procedimento penale, per Palamara si tratta invece della terza indagine. Ma quali sarebbero, poi, gli articoli incriminati del 29 maggio 2019? Per il Fatto, a firma Marco Lillo, “Esposto bomba al Csm: Incarichi ai fratelli di Pignatone e Ielo”. Per la Verità, a firma Giacomo Amadori,”Sotto inchiesta al Csm l’ex capo dei pm di Roma e il suo aggiunto: Esposto al Csm su Pignatone e Ielo, affari fra indagati e i loro fratelli”. Lo stesso giorno, Repubblica, Corriere e Messaggero apriranno sull’indagine di Perugia a carico di Palamara. Repubblica titolerà “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, il Corriere “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma” e il Messaggero “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”.

"C’è il segreto d’ufficio". Palamaragate, Davigo a Cantone: “Non parlo più con Ardita ma non vi dico il perché…” Paolo Comi su il riformista il 18 Dicembre 2020. C’è un segreto “inconfessabile” che si nasconde dietro il più grande scandalo che ha investito la magistratura italiana dal dopoguerra. Uno scandalo che, con l’avallo dei Palazzi romani e dei grandi giornali, si sta cercando in questi mesi di mandare in tutta fretta nel dimenticatoio. L’ultimo dei misteri del Palamaragate ha avuto come conseguenza la rottura di ogni rapporto fra due dei più importanti e famosi pm del Paese: Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. I due magistrati, che non hanno bisogno di presentazioni, erano stati tra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata nel 2015 dopo la scissione dalla destra giudiziaria di Magistratura indipendente. Motivo? Contrasti con l’allora leadership di Cosimo Ferri. A&i, prima del pensionamento di Davigo, era il gruppo di maggioranza al Csm, con cinque consiglieri, contando anche l’indipendente pm antimafia Nino Di Matteo, eletto a Palazzo dei Marescialli nelle liste “davighiane”. Il rapporto di Davigo ed Ardita, prima del Palamaragate era solidissimo. Insieme avevano scritto nel 2017 un libro, Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, edito da Paperfirst, la casa editrice del Fatto Quotidiano, che ebbe un discreto successo. L’anno successivo si erano entrambi candidati al Csm venendo eletti. Per Davigo l’elezione fu plebiscitaria, risultando il magistrato più votato di sempre. La clamorosa circostanza della rottura fra i due è emersa dall’interrogatorio dello scorso 19 ottobre condotto personalmente dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e depositato all’udienza del 25 novembre nel processo per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Interrogatorio che il Riformista ha potuto leggere integralmente. Davigo era stato convocato a Perugia per essere sentito come persona informata dei fatti nel procedimento penale che vede coinvolto Palamara. Lo stesso giorno al Csm era discusso della sua permanenza a Palazzo dei Marescialli anche dopo il compimento dei settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati. Durante il tesissimo dibattito in Plenum si consumerà una spaccatura all’interno di A&i. L’interrogatorio era incentrato essenzialmente sull’esposto presentato dal pm della Capitale Stefano Rocco Fava contro il procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Pignatone e Ielo, secondo Fava, avrebbero violato il dovere di astensione in diversi fascicoli. Fava, poi, aveva avuto forti contrasti con Pignatone sulla gestione di alcuni procedimenti che si erano conclusi con l’avocazione degli stessi da parte del procuratore di Roma. La domanda di Cantone è secca: «Conosce Fava?» Davigo rispose dicendo che Ardita, volendo fare proselitismo a Roma, dove A&i era debole, in vista delle elezioni dell’Anm, aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con Fava e un altro pm. Durante il pranzo si parlò di questioni associative e «non posso escludere che si parlò delle problematiche dell’ufficio di Roma». «Escludo categoricamente che il dottor Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Ovviamente se mi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest’ultimo da anni», puntualizzò Davigo. «Ha parlato con Ardita dell’esposto presentato da Fava contro Pignatone?», aggiunse Cantone. «Ho parlato con Ardita dell’esposto contro Ielo e non contro Pignatone una volta uscite le intercettazioni», rispose Davigo per poi aggiungere: «Siccome lo avevo visto agitato dopo la pubblicazione delle intercettazioni, gli chiesi di indicarmi se aveva avuto un ruolo nel gestire tale esposto. Lui mi disse che il suo ruolo era stato istituzionale». Cantone non molla: «Perché Ardita era preoccupato?» «Io non posso spiegare interamente la vicenda, in quanto coperta da segreto d’ufficio», la secca risposta di Davigo. Cantone non rimase soddisfatto. Ed aggiunse: «Il dottor Ardita esternò le ragioni delle sue preoccupazioni?». Davigo: «Questa è la parte coperta da segreto d’ufficio su cui non posso rispondere». Per poi sparare il colpo: «Si tratta della ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo del 2020». Cantone, da toga esperta, forse avendo intuito cosa era successo, chiese allora: «Ha avuto modo di parlare con il consigliere Ardita dell’esposto Fava prima di marzo 2020?». «Non ho mai parlato con il consigliere Ardita. Non mi spiegavo le ragioni delle sue preoccupazioni in quanto ho sempre pensato ‘male non fare, paura non avere’». A cosa si riferiva Davigo? Qual è il segreto che non può essere rivelato ed è talmente grave che ha costretto l’ex pm di Mani pulite a togliere il saluto ad Ardita?

Magistratopoli, l’Ue deve intervenire a tutela della legalità della giustizia in Italia. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Le dichiarazioni dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Luca Palamara, e la registrazione della clamorosa “confessione” del relatore della sentenza di condanna da parte della Corte di Cassazione di Silvio Berlusconi, ha provocato grande attenzione e sconcerto anche fuori dell’Italia, e nell’ambito delle Istituzioni Ue. Ue che, va ricordato, è sinora stata ed è un sicuro argine a potenziali derive autoritarie nei singoli stati membri. Deriva che alcuni, come chi scrive, hanno temuto negli anni di tangentopoli. Perché tra i benefici dell’Ue, al di là degli zero virgola dei vincoli economici, non dobbiamo mai dimenticarlo, vi sono anche quelli di legalità, democrazia, e rispetto delle libertà fondamentali, che legano tutti gli stati membri dell’Ue.  In altri termini, lo stare all’interno dell’Ue è anche un antidoto ai demoni antidemocratici e anti-libertari che, a seconda del momento storico, possono risvegliarsi nei singoli paesi a seguito di situazioni contingenti. Siano essi incarnati nell’uso della forza delle armi che delle sentenze manettare. È quello di cui sono convinto, avendo vissuto dall’osservatorio europeo, con grande preoccupazione per la stabilità democratica del nostro paese, il periodo di tangentopoli, e la deriva giudiziaria e giustizialista che ne è seguita. E che nulla ha a che fare con la Giustizia. Quella con la G maiuscola. Perché penso che, se non ci fosse stata l’Unione Europea che non l’avrebbe mai permesso, il rischio che a qualcuno saltassero i nervi, trascinando il Paese in pericolose avventure, è stato in qualche momento tutt’altro che teorico. L’Ue è sempre stata, e rimane, un faro del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche all’interno dei suoi Stati membri e nel mondo. E lo è ben prima ancora di essere un mercato unico. Ed è per questo che Antonio Tajani, nella sua qualità di Vicepresidente del Partito Popolare Europeo, si è rivolto alle istituzioni europee chiedendone l’intervento di vigilanza della singolare situazione in cui si è trovato l’ex presidente del consiglio italiano. Per alcuni vittima di un golpe giudiziario e mediatico, del quale hanno forse beneficiato altri paesi, ma che ha compromesso non solo i diritti della persona e della famiglia di Silvio Berlusconi ma, ed è ben più grave, pure le sorti politiche ed istituzionali del Paese, in un significativo e delicatissimo momento storico. In una lettera inviata oggi alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ed agli altri vertici delle istituzioni Ue, Tajani ricorda che “molte volte, negli ultimi anni, le Istituzione europee si sono espresse per tutelare lo Stato di diritto nei Paesi membri dell’Unione europea”. Riferendosi alla sentenza di condanna per frode fiscale, nel 2013, del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisa che “negli ultimi giorni, sono emersi nuovi elementi inquietanti: i quotidiani italiani pubblicano frasi del magistrato relatore della sentenza che definisce il Collegio giudicante “un plotone d’esecuzione” e quella sentenza “già scritta e ordinata dall’alto”.  Inoltre, una recente sentenza del tribunale civile di Milano ribalta quanto già deciso e smonta la vecchia accusa, dichiarando che non ci fu frode fiscale.” “Quella del 2013, quindi”, prosegue Tajani, “è stata una sentenza politica che ha condannato il nostro partito e il nostro leader ad una forte campagna denigratoria che ha causato una evidente distorsione nei nostri processi democratici. Infatti, questa condanna che oggi scopriamo infondata, ha successivamente costretto Silvio Berlusconi, democraticamente eletto dagli italiani, ad abbandonare il Senato della Repubblica e gli ha impedito per anni di candidarsi a cariche pubbliche.” “Come già accaduto in passato”, continua l’ex presidente del Parlamento Europeo, “oggi, le Istituzioni europee devono valutare se in Italia la magistratura abbia adempiuto al proprio compito in maniera assolutamente imparziale.” L’utilizzo politico della giustizia contro gli avversari, secondo Tajani, “sarebbe una ferita profonda alla nostra democrazia e ai valori a cui ci ispiriamo. In un Paese sano non ci può essere spazio per giudizi basati su ragioni puramente ideologiche. Questa frangia di giudici fa danno a tutta la magistratura onesta e alla credibilità del sistema e delle Istituzioni italiane.” Tajani, impegnandosi a tenere informate le Istituzioni Ue sugli sviluppi che avrà la vicenda nelle prossime settimane, conclude sottolineando che quello che è emerso negli ultimi giorni è preoccupante non solo per il proprio partito, ma anche “per ogni cittadino italiano ed europeo”. E per questo motivo informa anche la von der Leyen ed i presidenti delle altre Istituzioni UE che, a livello nazionale, ha chiesto l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta su quanto è accaduto a Silvio Berlusconi e sul cattivo funzionamento della giustizia penale in Italia.

Magistratopoli e i Pm che da soli valgono un partito. Alberto Cisterna su Il Riformista il 12 Luglio 2020. Esiste in Italia un partito dei pubblici ministeri? In senso formale sicuramente no. E la stessa risposta negativa si deve dare se si ricorre alla definizione politologica più accreditata di partito: «Un partito è qualsiasi gruppo politico identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche» (Sartori, Oxford, 1976). La partecipazione alle elezioni e il vaglio del consenso popolare sono indispensabili perché un’azione politica possa dirsi organizzata nella forma-partito. Un’associazione che si definisse partitica e che si sottraesse sistematicamente alle competizioni elettorali sarebbe un guscio vuoto, una polisportiva delle chiacchiere. Partito-elezioni-potere è una triade inscindibile a prescindere, come ricordava Sartori, dal fatto che le votazioni si svolgano liberamente o meno. La storia è piena di partiti fantoccio a copertura di tirannie. Certo, però, se la discussione politica e i mass media – sia pure con accenti più o meno critici – ritengono tutti e da anni che questo partito dei pubblici ministeri esista e operi la questione merita di essere presa in esame secondo prospettive diverse. In questa declinazione vicaria per “partito” si dovrebbe intendere l’agglutinarsi delle toghe intorno ad alcune convinzioni, la condivisione di alcune idee circa la funzione giudiziaria, cui seguirebbe una vera e propria azione di influenza politica. Ma anche questa volta i conti non tornano. I tornei correntizi del Csm disvelati di recente hanno per oggetto, quasi esclusivo, la scelta dei titolari di uffici di procura (Roma, Perugia, Torino, Napoli, la Nazionale antimafia e via seguitando). Da quel materiale emerge che queste competizioni hanno dato luogo a scontri ferocissimi, a raid senza esclusione di colpi. Sino all’idea di una manipolazione delle indagini per sopprimere gli avversari. Insomma, nulla che sia corrispondente al modello di un partito unico dei pubblici ministeri che normalmente circola. I duellanti per il monopolio dell’azione penale nella Capitale o nel borgo più sperduto si guardano in cagnesco, si fanno causa e lanciano veleni e veline di ogni genere gli uni contro gli altri, al punto tale da poterli definire con grande difficoltà componenti di uno stesso movimento o gruppo. E quindi? Una mano ce la può dare il Sommo: «Sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso» (Paradiso, canto XVII, 69). Non esiste un partito dei pubblici ministeri per la semplice ragione che – da un certo punto in poi, dallo sgorgare di una certa smisurata ambizione in poi – l’ego tendenzialmente ipertrofico dell’inquirente volge lo sguardo a sé stesso e rimirandosi (verrebbe da dire) insieme alla sua corte di poliziotti, carabinieri e via seguitando, matura l’idea di essere il migliore o uno dei migliori. Lo ha detto con chiarezza il reprobo ex-presidente dell’Anm: tutti immaginavano di meritare, tutti ritenevano di aver diritto, tutti sentivano di poter primeggiare. E insieme a loro entra in fibrillazione anche la selezionata corte di investigatori da questi scelta nel tempo che, in uno con il nubendo, partecipa dei suoi fasti e soffre per i suoi nefasti, che intravede prospettive di carriera o di promozioni a seconda che il “proprio” pubblico ministero gareggi e vinca oppure soccomba. La questione dovrà essere ripresa e completata, ma un primo punto deve essere messo in evidenza. Certi pubblici ministeri – ma sempre tanti pubblici ministeri – interpretano il proprio ruolo come immancabilmente volto alla costituzione di una immagine mediatica spendibile. Per realizzare questo fine occorre una compagine appropriata che sia cooptata e fidelizzata e che si muova a testuggine, scalzando chiunque si frapponga al successo di quel micro-cosmo e di quel micro-partito in toga. È come in certi consigli regionali o, un tempo, alle Camere in cui bastava anche un solo componente per costruire un gruppo e rappresentare un partito. Talvolta sono i pubblici ministeri a essere fagocitati da apparati investigativi, enormemente più efficienti e capaci di loro, che li trasformano in proprie appendici giudiziarie e trojan nel plesso della magistratura italiana di cui apprendono segreti e maldicenze e di cui condividono odi e alleanze. La combinazione delle due direttrici ha, poi, nei rari casi in cui si realizza, effetti “eversivi” rispetto all’ordinato funzionamento delle istituzioni e all’insopprimibile separazione dei poteri dello Stato. Si creano Leviathan promiscui, ibridi poliziesco-giudiziari, meticci investiganti che si sorreggono vicendevolmente, che scalano posizioni e uffici, che condizionano finanche i vertici ergendosi a poteri autonomi, autoreferenziali e autocontrollati. Meglio ancora se questi “partiti”, nei propri flussi migratori, hanno a disposizione giornalisti embedded da manovrare per mirate fughe di notizie, per tempestive campagne di stampa o per approntare selezionate divulgazioni di atti riservati. Questi raggruppamenti purulenti e maleodoranti aleggiano inquietanti nelle vicende dell’ex presidente dell’Anm e di essi è sembrato, a più riprese, che il dottor Palamara intenda parlare. Non si tratta più di proteggere la corporazione dagli scandali, né le toghe da qualche disdicevole prassi spartitoria. La magistratura italiana – come la Chiesa – è da decenni una «casta meretrix» (Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca) e da sempre ha ceduto a simili debolezze. La posta in gioco che si intravede nei ritagli delle dichiarazioni sembra essere un’altra e ben più importante. La sola impressione che qualcuno si stia freneticamente operando per mettere in lockdown un’angosciante verità e porre a tacere chi custodisce segreti indicibili dovrebbe allarmare la pubblica opinione. I troppi pm-partito che sono cresciuti all’ombra di questa diversione costituzionale hanno da preoccuparsi e molto per ciò quello che potrebbe avvenire. Non è in discussione un sistema di nomine (se ne troverà un altro), ma il patto scellerato che si potrebbe essere realizzato in alcuni cupi anfratti della corporazione inquirente tra magistrati, pezzi delle forze di polizia e segmenti del giornalismo. Un patto che rappresenterebbe, purtroppo, una parte della Costituzione materiale del paese e sul quale invano, come sempre, aveva lanciato i propri moniti Giovanni Falcone: «Una polizia giudiziaria, che dipende direttamente dal pubblico ministero, ben poco serve ad accrescere la sua autonomia e indipendenza, se poi il pubblico ministero non è in grado di dirigerla» (Interventi e proposte. 1982-1992) o vi instaura reciproche relazioni di servizio e utilità.

L’identità smarrita dei magistrati italiani. Ernesto Galli Della Loggia su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2020. Il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Una trasformazione che non è partita dal suo interno ma che ha rispecchiato un cambiamento più generale del Paese. Le donne e gli uomini dell’apparato giudiziario, infatti, sono stati forse le maggiori vittime di quella duplice assenza di etica e di spirito di corpo comune a tutta la struttura socio-statale italiana nel periodo della Repubblica. Un breve salto nel passato farà capire meglio cosa voglio dire. Ricordo bene quando molti e molti anni fa i magistrati italiani erano dei conservatori. Lo erano innanzi tutto da un punto di vista culturale, in un modo che spesso appariva perfino patetico. E naturalmente lo erano in senso politico. Ma lo erano, dirò così «naturalmente». Cioè non già perché coltivassero personali legami con la politica o con qualche partito di centro o di destra, o perché se ne attendessero qualche vantaggio o magari si sentissero impegnati in una qualche battaglia ideale a sfondo socio-politico. Erano politicamente conservatori soprattutto perché provenivano pressoché totalmente dalla borghesia, la quale allora era conservatrice, spesso e volentieri anche reazionaria. Sicché era normale, ad esempio, che nei processi a sfondo politico — penso a quelli allora frequentissimi riguardanti l’ordine pubblico — sugli imputati di sinistra grandinassero per un nonnulla anni di galera. Poi le cose cambiarono. Grazie alla mobilità favorita dalla crescente scolarizzazione, la provenienza sociale dei magistrati così come quella di ogni altro gruppo professionale fu in buona parte liberata dagli stretti vincoli classisti precedenti. Da un carattere dominante cetuale di tipo liberal-borghese con forti tratti reazionari la società italiana passò almeno tendenzialmente a una struttura democratico-interclassista. Sebbene con il vincolo in Italia sempre fortissimo della trasmissione ereditaria delle professioni, tutti poterono diventare giudici, medici o notai. Un fatto indubbiamente positivo ma con una conseguenza inevitabile: il venir meno all’interno delle varie corporazioni professionali di quell’omogeneità/ solidarietà di fondo che in precedenza erano assicurate dalla comune origine socio-culturale. In altri Paesi questo venir meno di valori di tipo classista nei ceti professionali e degli alti uffici pubblici, verificatosi in tutte le democrazie, è stato compensato da un insieme di altri caratteri risalenti: da una diffusa cultura civica, da un’orgogliosa deontologia delle identità professionali, da antiche tradizioni di servizio allo Stato e di spirito di corpo.

Svelamento. Le intercettazioni dal cellulare di Luca Palamara hanno fatto conoscere a tutti il clima di intrallazzo correntizio. Tutte cose che per ragioni storiche da noi erano invece introvabili o solo debolmente esistenti. Sulle quali quindi la Repubblica non ha potuto contare e alle quali tantomeno essa è riuscita a dare vita. Nata dai partiti, infatti, e rimasta sempre dei partiti (anche per effetto di uno sciagurato sistema di governo), la Repubblica ha potuto trovare solo nella politica, nella politica di partito, la sua vera ragion d’essere, in un certo senso la sua ideologia fondativa. Per ragioni storiche ormai consolidate ma abbastanza uniche nel panorama europeo, nel nostro Paese la stessa Costituzione non sfugge al destino di essere oggetto da sempre di continue dispute di segno politico. Non è dunque per caso se nella democrazia italiana anche l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica. Non è per caso se una volta andata in soffitto l’antica unità classista, il ruolo e la funzione dei magistrati, ai loro stessi occhi, nei loro stessi discorsi, si sono andati caricando immediatamente di significato e contenuto politico. Se ben presto per l’identità della grande maggioranza di essi la dimensione della politica e delle relative ideologie è diventata la sola dimensione realmente significativa. Anche perché nel frattempo la politica dei partiti non lesinava certo seduzioni, minacce e allettamenti di ogni tipo avendo scoperto quale ruolo importante potesse avere (o non avere) un procuratore della Repubblica al posto giusto nel momento giusto.

Memoria. La stragrande maggioranza dell’opinione pubblica intuiva l’involuzione ma preferiva non parlarne. Sia chiaro: è evidente che anche per ciò che riguarda la giustizia vale il principio che «tutto è politica». Ma un conto è che tale principio informi di sé la discussione sulle grandi linee generali, sulle opzioni di sistema, un conto ben diverso è che immediatamente, cioè senza alcuna mediazione, la politica diventi di fatto l’unico elemento di autoidentificazione dei singoli, del loro profilo, dei loro atti, del modo di esercitare le proprie funzioni. Secondo una deriva che rende impossibile — non bisogna stancarsi di ripeterlo — qualunque immagine d’imparzialità e che di conseguenza dissolve virtualmente ogni idea di giustizia. Perché questo è il danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità. Una magistratura, per giunta, apparsa finora, tranne rarissime eccezioni, totalmente ignara del problema, accecata dal suo enorme potere, trincerata in un Consiglio superiore impegnato perennemente nella bassa cucina delle nomine o nella difesa della corporazione, incapace sempre di dire un’alta parola di verità e di autocritica.

Magistratura_poli. Alessandro Bertirotti il 29 giugno 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… schifezza. Prima o poi (nella nostra nazione, potremmo togliere il “prima” e lasciare sempre e solo il “poi”…) sarebbe venuto fuori “lo stile organizzativo” di uno dei poteri fondamentali dello Stato. Il fatto è, nella sostanza e per arrivare immediatamente al punto centrale del mio articolo, che questo stile alligna ovunque nella nostra nazione. Questo procedere per tradizione culinario-familistica è nella politica, nella magistratura, nella vita quotidiana di ogni italiano. Perché? Perché siamo levantini, ed abbiamo la corruzione e la collusione nel DNA, con una particolare cura a tramandarla come essenziale ai nostri figli, quando desiderano farsi una posizione che permetta loro di sopravvivere. Una sopravvivenza al minimo, perché se si vuole ascendere agli alti gradini della scala sociale, entrano in gioco le diverse qualità dei rapporti clientelari e familistici. In altri termini, dipende da quali famiglie si conoscono, quali rapporti precostituiti esistono nella tradizione amicale con le diverse famiglie, e se è ancora spendibile la serie quasi infinita di crediti e debiti esistenziali. Ecco, tutto qui e semplicemente. Infatti, è il primo articolo che dedico alla questione Palamara (e non penso affatto sia un caso isolato), mentre ritengo che una parte della magistratura abbia vita assai difficile nel fare onestamente il proprio mestiere, utilizzando comportamenti e convinzioni etiche para-nazionali. Siamo ad un punto tale di sfiducia nelle Istituzioni italiane, che, certamente, nel prossimo futuro qualche cosa dovrà ben accadere, specialmente da parte di un popolo italiano che, per ora, ha ancora di che nutrirsi. Non so quanto potrà durare tutto questo. Siamo di fronte ad un tale livello di collusione massificata, non disgiunta dalla relativa corruzione, che non restiamo affatto sorpresi di fronte ai “furbetti del cartellino”, alle tangenti metropolitane milanesi, ai vari “Bibbiano”, ai milioni non restituiti di qualche partito, alla presenza di parlamentari indagati e persino condannati, ai condoni edilizi romani, e via elencando. Come potersi fermare, di fronte a questa decadenza? Ci penserà l’evoluzione, con la determinazione di quelle catastrofi che da sempre sono accadute, salvando i nuovi posteri, e con l’aiuto di quella umanità che continua a rendere la specie un insieme di individui abortivi. La natura non tollera al suo interno la presenza di sistemi viventi che vadano contro la sua stessa sopravvivenza. Ed io… che speravo in zio Covid-19. Dovrò attendere, ma, come sapete, non perdo la speranza.

Federico Novella per “la Verità” il 6 luglio 2020. «Non è una questione di ideologia, ma di potere: ci sono gruppi nella magistratura che vanno per conto proprio, in cerca di vantaggi personali. E i magistrati che lavorano onestamente hanno il dovere di reagire, altrimenti verranno trascinati a fondo».

Luciano Violante, ex magistrato, ex presidente della Camera ai tempi dell'Ulivo, docente di diritto penale, che impressione le hanno fatto le intercettazioni di Palamara finite sui giornali?

«Più che inopportune, frasi indecorose».

«Ora bisogna attaccare Salvini», diceva Palamara sulla questione della nave Diciotti. È indubbio che molti magistrati non nutrano simpatie per il leader della Lega?

«Salvini suscita antipatie non solo nella magistratura; ma l'antipatia non può diventare presupposto per incriminazioni».

Abbiamo a che fare con una frangia di magistrati ideologizzati?

«Chi ha tenuto comportamenti deprecabili è schierato soprattutto con sé stesso e con il proprio potere, senza essere contiguo a nessuno».

Però quando da giudice istruttore a Torino si occupava di terrorismo, lasciò Magistratura democratica. Perché?

«Un settore di Md assunse atteggiamenti equivoci nei confronti dei terroristi. Alcuni cadevano nel sociologismo nei confronti di chi sparava. Non potevo starci, e non fui l'unico».

E questa non è ideologia?

«Era una stortura inaccettabile, dettata da ideologia».

E oggi?

«Oggi le ideologie non c'entrano. Non commettiamo l'errore di pensare che destra e sinistra abbiano qualcosa a che fare con la magistratura di oggi. Ci sono elementi patologici: più che all'ideologia, ci troviamo di fronte a strutture di potere».

Possiamo chiamarle frange affaristiche?

«Piccole oligarchie che si sono costituite per esercitare grande potere dentro e fuori la magistratura. Nelle conversazioni emerse, l'obbiettivo non era collocare il magistrato migliore, ma quello che sarebbe stato più fedele, per mettere nei guai Tizio e garantire Caio. Questo è inaccettabile».

È sempre stato così e ce ne accorgiamo solo adesso?

«È una degenerazione contemporanea. Il Csm in base alla Costituzione è sempre stato il luogo del confronto tra politica e magistratura. Finché il dialogo è pubblico e trasparente, non c'è nulla di male. Quando il dialogo invece è clandestino, notturno, è segno che c'è qualcosa da nascondere».

Un problema destinato ad allargarsi?

«Per quello che sappiamo, Palamara si è comportato in modo non degno, facendo ricadere le macchie della propria condotta su quel grandissimo numero di magistrati che lavorano onestamente».

Questo gruppo di potere, come lo chiama lei, non è il motore di un sistema?

«No, è la degenerazione di un sistema. La magistratura fino alla fine degli anni Sessanta è stata solo una corporazione di funzionari pubblici, alla periferia dell'ordinamento politico. In seguito le sono state delegate con leggi funzioni sempre più ampie, sempre più discrezionali, sempre più politiche, sempre più fondate sull'ideologia del sospetto».

Con quali conseguenze?

«Leggi occhiute e pervasive hanno attribuito soprattutto alla magistratura penale, ma anche ad altri organi dello Stato, funzioni di sorveglianza e di controllo sulla intera società italiana. La politica ha ceduto il passo, delegando alla magistratura molte delle sue funzioni. Oggi le toghe decidono persino chi può stare nelle liste elettorali e chi no».

Dunque?

«Quando si delegano funzioni politiche ad un altro corpo, quel corpo diventa politico. Perciò, oggi la magistratura per delega della politica fa parte del sistema di governo del paese».

Con buona pace della separazione dei poteri?

«Il rapporto tra sovranità della politica e potere giudiziario è squilibrato. L'equilibrio costituzionale va ricostruito».

Quali sono i cascami più evidenti di questo squilibrio?

«Siamo una società sotto sorveglianza».

Una deriva giustizialista?

«Siamo oltre. C'è stata ed è tuttora in corso una delega alla magistratura delle funzioni di controllo della legalità. La magistratura dovrebbe intervenire quando c'è una notizia di reato, non per accertare se c'è una notizia di reato: questo lavoro, nello Stato di diritto, spetta alla polizia e ad altri settori della pubblica amministrazione».

Un quarto potere?

«Un potere che ormai governa insieme alla politica per decisione della politica. Accade in Italia più che altrove perché abbiamo un sistema politico fragile».

Come si può riformare il Csm, per contrastare lo strapotere delle correnti?

«Il Csm è un organo fermo agli anni Sessanta, bisogna renderlo adeguato al mutato ruolo della magistratura. Pensare di risolvere problemi con un nuovo sistema di elezione è un'ingenuità».

Quindi cosa propone?

«Anzitutto il vicepresidente del Csm dev' essere nominato dal capo dello Stato. Altrimenti già nel primo giorno di lavoro cominciano trattative oscure tra politici e magistrati su chi debba ricoprire quel posto. E già da subito inizia una trattativa spesso oscura fatta di negoziazioni, promesse e minacce tra le correnti e con le correnti, tra i partiti e con i partiti».

Poi?

«Poi si deve costituire un'Alta corte per la responsabilità disciplinare di tutte le magistrature. Composta da magistrati ordinari, amministrativi, contabili, tributari e una quota di laici. E questa corte deve decidere anche sui ricorsi contro le nomine interne».

Oggi la questione morale di berlingueriana memoria investe le toghe anziché la politica?

«Sì, c'è una questione morale, anche più grave di quella sollevata da Enrico Berlinguer nei confronti dei partiti. All'epoca si assistette alll'incardinamento del potere dei partiti nel sistema pubblico, oggi siamo di fronte a una degenerazione del potere della magistratura. Un pezzo di questo potere va per conto suo, al fine di acquisire prerogative personali, influire illecitamente sugli altri magistrati e dunque anche sulla società e sul sistema delle imprese».

Quanto è alto il rischio per la democrazia?

«Dovrebbe essere la stessa magistratura a prendere atto della condizione difficile in cui si trova. La spirale è verso il basso, ogni settimana succede qualcosa. Se la magistratura non si attiva per riforme profonde, sarà trascinata giù».

Parliamo del premier Giuseppe Conte: si sente rappresentato da questo governo?

«Il governo non mi deve rappresentare: deve decidere».

Troppi rinvii, soprattutto sulle misure economiche, e poca sostanza?

«Governare è difficile. Ma occorrerebbe maggiore chiarezza sulle priorità».

L'indecisione del governo sta logorando il Pd?

«Con il sistema proporzionale i partiti di governo sono alleati ma anche concorrenti. Anche i Cinque stelle rischiano il logoramento. È un tema che si pone quando le alleanze non scaturiscono dal voto dei cittadini, ma attraverso le negoziazioni parlamentari. Accadde anche nel precedente governo».

Silvio Berlusconi sarebbe disponibile a un nuovo governo senza i Cinque stelle. Si immagina il Pd al potere con Forza Italia?

«Ho l'impressione che sarebbero avventure, non governi».

A proposito, che cosa ne pensa dell'audio in cui il magistrato Amedeo Franco parla di «plotone di esecuzione» giudiziario contro Berlusconi?

«Bisogna innanzitutto liberarsi dai preconcetti pro e contro. Poi stare ai fatti».

Berlusconi ha ragione a sentirsi un perseguitato?

«È stato assolto diverse volte».

Siamo un Paese a rischio autoritarismo?

«Il Parlamento è marginale. Il decreto legge sulle semplificazioni, per esempio, affida a un Dpcm l'indicazione delle opere strategiche da realizzare. Non ci sono gli strumenti parlamentari per decidere, e il Dpcm diventa strumento di governo autonomo rispetto al Parlamento. Se non si riforma il bicameralismo paritario sarà inevitabilmente sempre peggio».

Durante il periodo più buio dell'emergenza qualcuno al governo si è fatto prendere la mano?

«La realtà è più complessa: è mutato dappertutto il contratto sociale. Oggi i governi dicono al cittadino: dammi le tue libertà, io ti garantisco la vita. E se la vita è a rischio, il cittadino accetta qualsiasi cosa».

L'esecutivo giallorosso è nato per scegliere il nome giusto per il Quirinale?

«Può darsi, ma programmare queste cose è difficile. Se qualcuno ha in mente di farlo, è un po' troppo ottimista».

Sarebbe favorevole a un gentiluomo legato al centrodestra come capo dello Stato?

»Un gentiluomo o una gentildonna. Se ci sono i voti, perché no? Ci sono personaggi adatti in tutto il mondo politico».

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 6 luglio 2020. «Benvenuti nell'Italia dei disvalori, un Paese in confusione totale, in guerra con i padri costituenti, dove ogni anno che passa aumentano le violazioni alla Carta e cala il tasso di democrazia». Requisitoria di Antonio Di Pietro, il pm più famoso della storia della Repubblica. Da magistrato, ha puntato il dito contro la politica; mollata da tempo la toga, allarga il j' accuse a molti suoi ex colleghi. «Ma non alla categoria», ci tiene a precisare, «perché sono gli individui che hanno umiliato la magistratura, come sono i singoli parlamentari che hanno fatto sì che ora tutto il Palazzo venga visto come il luogo del malaffare. La responsabilità, d'altronde, è sempre personale».

Questo però non impedisce all'eroe di Mani Pulite di processare come al solito, non l'individuo, ma il sistema.

«Non condivido l'idea per cui Palamara è il male assoluto. Non era da solo a manovrare. Più dell'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, di cui ormai sappiamo anche troppo, mi preoccupano i tanti Palamara non emersi, tutti coloro che non sono stati intercettati ma comunque hanno trasformato la magistratura da servizio in occasione di potere personale, realizzando una mutazione genetica di un'istituzione nata per difendere lo Stato e i cittadini».

Ma Di Pietro, è tutta colpa vostra se la giustizia è diventata strumento di potere politico, siete stati voi a iniziare.

«Nella mia vita sono stato accusato di aver fatto un uso politico della giustizia, ma la verità è che altri hanno fatto un uso politico della mia attività giudiziaria, sia contestandomi, sia per sfruttare il vento e farsi portare al traguardo».

Berlusconi l'ha contestata e la sinistra l'ha sfruttata?

«Guardi, Mani Pulite era un'inchiesta che partiva dai reati e poi è arrivata alla politica, quando abbiamo trovato i soldi nascosti nei divani. Le inchieste politiche oggi partono dalla persona per vedere se si riesce ad arrivare a qualche reato. Mani Pulite era un'operazione chirurgica, noi eravamo dei medici; poi sono subentrati i paramedici, e i risultati si sono visti».

I paramedici sono quelli che usano la giustizia a scopi politici?

«Sono i magistrati che aprono le inchieste pensando alla propria realizzazione privata anziché alla loro funzione istituzionale. E se poi l'inchiesta si chiude con un nulla di fatto, nel frattempo loro ne hanno tratto beneficio».

Può farmi degli esempi?

«Pensi al reato di abuso di ufficio, in cui il politico di turno deve dimostrare di non essere colpevole. È la resa del diritto: si anticipa la condanna non essendo in grado di provare il reato. Sono inchieste che garantiscono notorietà ma non giustizia».

Il caso Palamara è la Tangentopoli dei giudici?

«A volerla tirare molto sì, perché allora tutti i politici si mettevano d'accordo per spartirsi le mazzette mentre oggi le toghe si accordano per dividersi il potere. E in entrambi i casi c'è stata una degenerazione, un tempo dei partiti, adesso della magistratura. Però è anche vero che, ora come allora, anche nelle categorie screditate ci sono molte brave persone. Lei non deve guardare all'Anm, che per quel che mi riguarda neppure dovrebbe esistere, visto che i sindacati servono per difendere i lavoratori dal potere ma i magistrati, che hanno il potere più grande, da che cosa si dovrebbero mai difendere? Deve guardare i giudici della porta accanto, quelli che frequento tutti i giorni in tribunale da avvocato, gente preparatissima e laboriosa».

E allora perché comandano le mele marce?

«Perché l'Italia è divisa da sempre in chi lo mette e chi lo prende. La scelta di accentrare i poteri della magistratura nella figura del capo e nelle super Procure inibisce molti giudici e li priva di libertà nel loro lavoro».

In magistratura c'è una dittatura dei peggiori?

«Diciamo che chi canta fuori dal coro poi ne paga le conseguenze. Io ero un cane sciolto, quando fui attaccato processualmente, nessun collega mi difese. E lo stesso capitò, più o meno negli stessi anni, a Falcone. Guardi, un magistrato può essere fermato solo facendolo saltare in aria, come capitò a Giovanni, o da un altro magistrato, come capitò a me».

Anche Palamara è stato fermato da altri magistrati: regolamento di conti?

«E qui torniamo al discorso dei magistrati non intercettati. Se Palamara oggi ha perso, significa che qualcun altro ha vinto. La storia d'Italia è dominata dall'invidia e dall'accidia».

Palamara si difende dicendo che così fan tutti «Come disse Craxi in Parlamento, un discorso di alta responsabilità, ma che di fatto era una confessione». Come se ne viene fuori?

«Il Csm ha creato il cancro che lo sta uccidendo, scegliendo il sistema elettivo e aprendo delle vere e proprie campagne elettorali, dove ciascun aspirante a posizioni di vertice ha i suoi sponsor, le sue promesse, i suoi debiti da onorare. Le nomine dei capi della magistratura non devono essere fatte dalle correnti ma dal presidente della Repubblica, dalla Corte Costituzionale e, per la restante parte, tirate a sorte».

Perché lei fu fermato?

«Perché stavo indagando sui collegamenti tra la mafia e l'imprenditoria del Nord; e questo dava fastidio a molti».

Cosa pensa dell'audio del magistrato che condannò Berlusconi e poi andò da lui per scusarsi?

«Berlusconi da sempre fa la vittima e gioca sugli attacchi alla propria persona. È un gioco che non mi piace. Ma se chiudo gli occhi, la cosa che mi fa più male è il magistrato che rinnega se stesso: una sentenza o non la firmi o, se la sottoscrivi, poi te ne assumi le responsabilità».

I magistrati non parlano un po' troppo?

«Si è diffusa la dipietrite».

Me la spieghi meglio.

«Tutti vogliono diventare delle star, avere i loro cinque minuti di gloria, come me ai tempi di Mani Pulite, solo che io non me la sono cercata».

Però l'ha cavalcata bene.

«Ho fatto tutte le parti in commedia del processo penale, compreso quella dell'imputato. E le garantisco che non mi sono divertito. Oggi sto bene nei panni dell'avvocato».

Avvocato, perché la giustizia non funziona se la maggior parte dei giudici è così brava?

«Per carenza di strutture e di personale».

Faccio appello: quando le cose non funzionano il difetto va cercato nel manico.

«Allora le dico che non mi piace come si fanno le inchieste oggi: si procede per associazione a delinquere per poter fare intercettazioni a strascico alla ricerca del reato. Io ho fatto tutta Tangentopoli senza mai ricorrere a certi mezzucci».

Md contro Ferri e Palamara: “Ci delegittimano per salvarsi”. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Luglio 2020. È un’offensiva a tutto campo quella lanciata ieri dalle toghe di sinistra di Magistratura democratica. Diversi gli obiettivi: Amedeo Franco, il giudice “reo” di aver detto in un colloquio che il processo sui diritti televisivi fu “un plotone d’esecuzione” e che la sentenza era “schifosa”; Cosimo Ferri, il leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra da sempre invisa a Md; Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm che con le sue chat ha svelato il sistema delle nomine, a cui partecipavano tutte le correnti della magistratura (anche Md), al Csm. Una vicenda dai «profili torbidi ed inquietanti», esordisce il comunicato delle toghe di sinistra diffuso ieri pomeriggio. «La registrazione, della quale è ignoto il contesto e non è stata appurata la genuinità e l’integralità, viene divulgata a molti anni di distanza, dopo la morte del giudice Franco, in un contesto che appare favorevole ad accreditare qualsiasi ignominia per screditare e delegittimare i magistrati e la giurisdizione». «Questo clima è oggettivamente determinato dalla vicenda Ferri/Palamara, disvelata a maggio dello scorso anno, e dalle successive propagazioni delle chat telefoniche di uno dei due protagonisti, effettuata in modo strumentale da una parte della stampa compiacente (verosimilmente i giornali che stanno pubblicando le chat di Palamara, ndr) con i due protagonisti principali della vicenda”. «C’è chi in questo momento per salvare se stesso è disposto a far pagare un prezzo altissimo alla magistratura e al Paese: la posta in gioco non è una tardiva, quanto improbabile dimostrazione di un complotto ordito dalla magistratura ai danni di Berlusconi; non è l’impossibile occultamento delle responsabilità dei protagonisti dello scandalo di maggio 2019, né l’obliterazione delle oggettive responsabilità delle correnti e delle persone coinvolte che non vogliono abbandonare certe pratiche di potere e clientelari. La posta in gioco è l’autonomia e l’indipendenza della magistratura». Un classico. Ma non solo: «La posta in gioco è anche la credibilità e l’onore del corpo sano della magistratura, che è fatto della stragrande maggioranza dei magistrati, che rifiutano e hanno sempre rifiutato logiche e pratiche clientelari e che sono i primi danneggiati da esse e da coloro che le hanno messe in atto». «È necessario in questo momento che le responsabilità specifiche per i fatti emersi vengano affermate con ponderazione, rigore e fermezza e che, nel contempo venga difesa gelosamente la credibilità della magistratura e della giurisdizione che è rimasta estranea a tali deviazioni e che deve poter proseguire a svolgere le proprie funzioni in un contesto di serenità e fiducia», concludono le toghe di sinistra. Parole durissime che arrivano alla vigilia del disciplinare nei confronti di Ferri e Palamara, il cui inizio è fissato per il 21 luglio. Immediata la replica dei difensori di Palamara gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, e il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi: «In uno Stato di diritto si chiede al giudice di “accertare” e non “affermare” le responsabilità solo ipotizzate a carico degli incolpati. Il processo è sede di giudizio, non fabbrica di colpevoli, stupisce che dei magistrati lo dimentichino».

Dal “Corriere della Sera” l'11 luglio 2020. fine della «carriera» sindacale in seno all' Associazione nazionale magistrati per Cosimo Ferri, toga scesa in politica, attualmente deputato nelle file renziane di Italia viva e per cinque anni sottosegretario alla Giustizia. Ex leader di Magistratura Indipendente, Ferri aveva saputo portare la corrente più a destra delle toghe all' apice dei consensi raccogliendo molti voti nel segno del ritorno alle rivendicazioni più corporative. La Giunta del parlamentino delle toghe, riunita nella sede romana di Piazza Cavour, con mascherine e diretta streaming, ha deciso di accogliere le dimissioni che Ferri aveva presentato alla precedente convocazione e ha così evitato sanzioni pesanti, come quelle dell' espulsione inflitta a Luca Palamara. Con l' accoglimento delle dimissioni (solo quattro i voti contrari) l' Anm ha dichiarato «il non luogo a provvedere» per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio che pendeva sul capo di Ferri e lo spettro della radiazione, che era il pericolo maggiore.

Luca Palamara, Renato Farina: può chiudere una stagione di oscuri traffici giudiziari. Se non gli tappano la bocca. Renato Farina su Libero Quotidiano il 12 luglio 2020. E se Luca Palamara fosse, omicidi e Andreotti a parte, il Tommaso Buscetta dei tempi nuovi? Somiglianza paradossale, certo. E però siamo davanti a due pentiti di grosso calibro che, dopo aver subito torti inescusabili, hanno girato il cannone contro le rispettive famiglie dove facevano il bello e il cattivo tempo, e dalle quali sono stati rinnegati e puniti per essersi messi di traverso ai nuovi equilibri di potere. Ci sono due differenze. 1- La magistratura non è la mafia, non ci permetteremmo. Migliaia di oneste toghe dedicano la vita alla giustizia e qualche volta la rischiano e per la buona causa l'hanno perduta. Resta il fatto che il Trojan infilato nel cellulare dell'ex presidente dell'Anm, nonché ex capo corrente ed ex membro del Csm, e presto ex pm tout-court, ha rivelato un intrico di relazioni tra procuratori e giudici, inciuci con giornalisti a scopo promozionale per entrambi, pressioni per far condannare politici poco amici delle procure, eccetera, dove la preoccupazione degli eminenti capo bastone è quanto di più lontano dall'equità e dall'imparzialità si possa immaginare. 2- Buscetta ha finito il suo lavoro e ha sistemato per le feste i suoi nemici d'alto rango criminale. Palamara non ha ancora cominciato. Vedremo se glielo lasceranno fare. Il 20 giugno era stato espulso dall'Anm, dopo che gli era stato vietato sulla base di un codicillo moscovita di difendersi. È allora che ha annunciato un'operazione verità, che somiglia alquanto ad un'auto-bomba con lui al volante diretta nelle sacre aule dei Tribunali, e soprattutto nei retrostanti corridoi e camere di scarso consiglio. Un repulisti che di sicuro coinvolgerà anche lui, ma sarà l'occasione di un lavacro di categoria mai visto.  Toghe ed ermellini finiranno chi in tintoria chi in pellicceria. La decisione è di vuotare il sacco: non con un chiacchiericcio di corridoio o tra le urla di un talk-show ma davanti a un'Alta Corte. In questo caso non come testimone in una commissione parlamentare d'inchiesta che serve di solito a colorare ideologicamente la realtà, ma in un vero e proprio processo, sia pure disciplinare, davanti al Consiglio superiore della magistratura, dove comparirà il 31 luglio per la prima udienza. È convocato a Palazzo dei Marescialli nelle vesti di incolpato. Ha pronta una lista di circa cento testimoni delle proprie e altrui malefatte. Glielo lasceranno fare? Sergio Mattarella per l'occasione, come fece Francesco Cossiga in casi drammatici, non dovrà perdere l'occasione per esercitare di presenza il suo ruolo costituzionale di presidente, per garantire trasparenza ed equità. Lui ha autorità e autorevolezza perché la più grave crisi istituzionale che sta travolgendo il terzo potere della Repubblica, il più delicato, non si risolva nel rito ipocrita del capro espiatorio ma neppure nell'altrettanto furbesco tutti colpevoli -nessun colpevole.  Cosa nostra fece di tutto per tappare la bocca a Tommasino, detto Il "boss dei due mondi": gli ammazzò figli e parenti. Tenne duro. Finché ebbe Giovanni Falcone al fianco non inciampò in contraddizioni e fu determinante nel maxi-processo dove disegnò l'architettura della Cupola, sbugiardò in confronti leggendari i mamma santissima che pensavano di intimidirlo e ne fece condannare a centinaia. Don Masino, così era chiamato, pur essendo un conclamato assassino si meritò un trattamento coi fiocchi da Enzo Biagi che scrisse un libro con lui trattandolo da eroe, e da Marco Bellocchio che gli dedicò un film mitologico. Con Palamara l'apparato opaco della sua casta punta a renderlo inoffensivo. Escludiamo - e ci mancherebbe - metodi da lupara, non siamo a Gomorra, ma conoscendo i metodi degli alti pennacchi scommettiamo sulla volontà di radiarli in fretta e senza cerimonie. Una mela marcia da buttar fuori in fretta dal cesto. Tre o quattro testimoni e chiusa lì. Non provateci. Palamara, alias don Luca Buscetta, riconosce di essere stato ingranaggio importante di un sistema che si reggeva su regole pessime ma condivise, e praticate da magistrati di ogni fazione della consorteria togata. L'omertà non è ammessa. 

Magistratopoli, rischio processo farsa per Palamara: verrà radiato rapidamente o verranno ascoltati i 100 testimoni? Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Il 21 luglio Luca Palamara dovrà comparire davanti alla commissione disciplinare del Csm per essere giudicato. È stato il Procuratore generale della Cassazione a chiederlo. Sarà un processo in piena regola. Probabilmente molto diverso da tanti altri processi tenuti in questa sede. La sezione disciplinare del Csm, tra tutti i possibili tribunali, è certamente il più generoso. Gli imputati sono solo magistrati, la pubblica accusa è sostenuta da magistrati e la difesa, di solito, da ex magistrati, i giudici sono magistrati, la sentenza, salvo ragioni speciali, è l’assoluzione o il perdono. I casi più famosi di assoluzione dei quali si è parlato recentemente sono quelli del Pm John Woodcock, che era accusato di avere interrogato un testimone, che in realtà stava per diventare imputato, senza l’avvocato e di avergli fatto capire che se non parlava finiva a Poggioreale, e poi di avere rilasciato un’intervista a Repubblica, violando dei segreti; assolto due volte. Poi c’è il caso del quale parliamo anche oggi, del giudice Esposito che anticipò in una intervista le motivazioni di una sentenza (guarda caso quella contro Berlusconi) ma anche lui, dopo molti rinvii (credo sette) e un ragionevole cambiamento dei membri della corte che avrebbe dovuto giudicarlo, fu assolto nonostante l’evidenza indiscutibile della scorrettezza. Stavolta però, con Palamara, il clima è cambiato. la Procura generale della Cassazione vuole la condanna e la condanna vogliono quasi tutti i suoi colleghi. A patto che sia una condanna rapida, senza fronzoli, senza addentellati, e che sia la condanna alla radiazione della magistratura, alla sepoltura di Palamara: deve scomparire. Perché deve scomparire? E allora ripartiamo dal 21 luglio. Si sa che Palamara, per difendersi, chiamerà al banco circa 100 testimoni. Cioè, Palamara vorrebbe, prima di essere condannato, poter raccontare a tutti come funzionava la magistratura che lui ha conosciuto e che ha contribuito a dirigere, come si facevano le nomine, come si scambiavano i piaceri ( e i poteri), quali fossero i rapporti di sudditanza tra Pm e alcuni giudici, come le correnti avessero in mano il bandolo di tutte le matasse, come molte sentenze e molte inchieste avessero origini non giudiziarie, quali e quanto grandi nomi della magistratura fossero coinvolti in questo gioco, come la stessa Anm fosse non un limpido luogo di trasparenza e di lotta etica ma un punto di incontro dei poteri interni alla magistratura e della loro compravendita e suddivisione, e infine, e anche per riassumere, come funzionasse l’unica Casta (vera casta, fondata sulla cooptazione e sull’autogoverno, e sull’impermeabilità a influenze esterne) che domina il potere, anche il potere politico, in Italia. Mi rendo conto di avere scritto una frase lunghissima, molto più lunga di quello che è permesso dai normali canoni giornalistici. Ma qui, in questa storia un po’ infame, di normale non c’è quasi nulla, e la lunghezza dei difetti della magistratura italiana è senza precedenti. Il Csm accetterà i cento testimoni di Palamara o procederà, come ha fatto l’Anm, a un processo sommario? Senza garanzie, senza riscontri, senza nessun anelito né ricerca della verità? Vedete, la materia della quale si dovrà parlare è sconfinata. È un pezzo piuttosto grande della storia pubblica e privata di questo paese. Si tratta di capire se il sistema giustizia, negli ultimi trent’anni (ma forse molti di più) è stato solo sfregiato da alcuni episodi di malcostume e di degenerazione, comunque ad altissimo livello, o se invece è stato un sistema interamente marcio e lontano da ogni criterio di giustizia. Ed è molto importante scoprirlo, perché non solo dobbiamo dire a migliaia di imputati se i loro processi sono stati giusti o se erano condizionati e teleguidati, ma dobbiamo decidere in che modo recidere il cancro e ricostruire una magistratura credibile, non più casta, non più autoreferenziale, non più tesa a considerare l’indipendenza non un dovere ma un privilegio di discrezionalità e una garanzia di potere assoluto. Capite quanto è grande la partita? Qui si ricostruisce la struttura della democrazia italiana oppure la si distrugge. La sentenza pilotata contro Silvio Berlusconi del 2013, che sicuramente ha deviato il corso della politica italiana e ha cambiato la natura della destra politica, spingendola su posizioni estremiste e xenofobe, è una piccolissima parte del problema. È una parte molto vistosa, perché riguarda uno dei quattro o cinque più importanti leader politici del dopoguerra, liquidato da una piccola cospirazione giudiziaria. Ma la questione vera è quella generale dell’imbarbarimento della giurisdizione e della sua caduta nelle mani del partito delle Procure, e in particolare di alcune Procure (e giornali annessi). Se i testimoni sono quasi cento o più di cento devono parlare tutti. Palamara deve avere la possibilità di raccontare tutto quello che sa e di indicare quelli che sanno quanto o più di lui. Se non sarà così sarà la fine di ogni credibilità della magistratura italiana. Se lo spettacolo che darà il Csm – come ha fatto l’Anm – sarà quello di un tribunale fascista o sovietico, con la sentenza scritta e la fretta di concludere e di nascondere la verità vera, nessuno più, nessuno mai potrà più, neppure per scherzo, dire di avere fiducia nella magistratura. Se il Csm non accoglierà tutti i testimoni di Palamara – anche a costo di far durare un anno questo processo, e di svolgerlo in modo trasparente e pubblico – toccherà alla politica intervenire. In modo secco, drastico: non solo con una commissione di inchiesta ma con una riforma che tolga alla magistratura quella indipendenza che ha usato solo per coltivare i suoi privilegi e il suo potere e le camarille che hanno spinto verso l’ingiustizia. Non ci sono più tempi supplementari. O la magistratura si salva accettando di farsi processare, e di essere in parte smantellata, o, insieme ai corrotti, cadranno tutti. Anche quelle migliaia di magistrati onesti che hanno milioni di pregi e un gigantesco difetto: quello di non ribellarsi.

Berlusconi, la verità sulle trame nella lista dei teste di Palamara. L'ex pm alla sbarra prepara il suo contrattacco al Csm. Un elenco di 120 colleghi che possono far luce sul caso. Luca Fazzo, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. Ultimi due giorni di lavoro, chiuso nello studio dei suoi avvocati, a limare, ad aggiungere, a ragionare. Ora Luca Palamara è pronto. E domani mattina depositerà al Consiglio superiore della magistratura l'atto che segna ufficialmente l'inizio dello scontro: la lista dei testimoni che il pm romano, ex leader di Unicost e ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, chiede che vengano interrogati dalla sezione disciplinare del Csm quando il 21 luglio inizierà il procedimento contro di lui, Palamara, e gli altri cinque magistrati sotto accusa. Sono i cinque ex membri del Csm che si sono dovuti dimettere l'anno scorso in seguito alla divulgazione delle prime intercettazioni sull'allegro mercato di nomine e di favori in cui le correnti dei giudici hanno trasformato il Consiglio superiore. Nel frattempo, altre ondate di intercettazioni hanno dipinto un quadro ancora più devastante. Per questo la lista dei testimoni che verranno indicati da Palamara assume una importanza cruciale. Perché sarà una lista molto lunga, si parla di centoventi nomi: tutti necessari, secondo Palamara, ad accertare fin in fondo la trasversalità del degrado all'interno del Csm, la partecipazione di tutte le correnti al sistema; e soprattutto a capire come e perché sia iniziata l'inchiesta di Perugia, chi l'abbia ispirata e governata. Se non si capisce questo, dice Palamara, è impossibile valutare correttamente l'enorme mole di intercettazioni compiute dalla Guardia di finanza. Capirne il senso. Spiegarne i buchi, le alterazioni. La mega-lista testi di Palamara mette la sezione disciplinare del Csm in una situazione apparentemente senza sbocchi. Perché se dice di no, come vorrebbe una parte del Csm, a quasi tutti i testimoni chiesti dall'incolpato, e riduce all'osso la lista, si presta all'ovvio sospetto di accontentarsi di una verità minimale, di voler insabbiare le responsabilità delle correnti che oggi chiedono la testa di Palamara dopo avere bussato per anni alla sua porta; e dà fiato alla tesi dell'ex presidente dell'Anm che ritiene - in sostanza - di pagare la sua opposizione alle manovre della sinistra sulla Procura di Roma. Se invece la sezione disciplinare accetta le richieste di Palamara, il processo che inizia il 21 rischia di trasformarsi in un processo a dieci anni di storia del Csm, in cui verrebbero a galla gli accordi sotterranei che hanno portato alla spartizione di tutti i più importanti uffici giudiziari del Paese, in combutta con le forze politiche e a volte con l'intervento diretto del Quirinale. Una catastrofe, insomma. E a rasserenare il clima a Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio, non contribuiscono di certo le ultime uscite di Palamara, che si dice pronto a parlare anche dei processi a Silvio Berlusconi e della loro gestione. Il tema è reso bollente dalle registrazioni del giudice di Cassazione Amedeo Franco che descrive la condanna del Cavaliere per frode fiscale come un processo preconfezionato e diretto dall'alto. Ma il tema è più vasto, e riguarda direttamente anche il Csm: perché sul tavolo ci sono le promozioni a raffica disposte dal Consiglio per molte delle toghe che in questi anni hanno partecipato a vario titolo alle condanne dell'ex premier; ma anche, specularmente, il destino infausto dei pochi giudici che hanno firmato sentenze di assoluzione. A Milano, per fare un esempio, tutti i giudici che hanno prosciolto Berlusconi hanno dovuto, per un motivo o per l'altro, cambiare aria. Che davanti a questo marasma, al Csm non sappiano più che pesci pigliare lo racconta bene anche il fatto che a dieci giorni dall'udienza ancora non si sa chi saranno i componenti della sezione, cioè i «giudici» di Palamara. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, si è già dovuto tirare fuori perché anche il suo nome compare nelle intercettazioni. Piercamillo Davigo è stato ricusato da Palamara per alcune sue dichiarazioni che suonavano, secondo il pm, come una condanna anticipata. L'altro giorno sono stati nominati alcuni membri supplenti, col rischio - denunciato dal membro laico Alessio Lanzi - che si costruisca un tribunale su misura. E insomma ancora non si capisce se tutto finirà con una formalità dall'esito scontato o se davvero il processo diventerà il processo a un sistema: come il processo Cusani fu per i partiti della Prima Repubblica.

Repubblica e il fango su Palamara, Molinari all’assalto dell’ex leader Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Prosegue violentissimo “l’assalto” contro Luca Palamara e Cosimo Ferri in vista del loro processo disciplinare che inizierà il 21 luglio al Csm e che, secondo le aspettative, dovrebbe concludersi con l’espulsione dei due dalla magistratura. I primi colpi sono stati sparati venerdì scorso dai magistrati di Area, il correntone di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica. «È necessario che le responsabilità specifiche per i fatti emersi vengano affermate con ponderazione, rigore e fermezza e che, nel contempo venga difesa gelosamente la credibilità della magistratura e della giurisdizione che è rimasta estranea a tali deviazioni e che deve poter proseguire a svolgere le proprie funzioni in un contesto di serenità e fiducia», il diktat delle toghe progressiste ai giudici della disciplinare. Domenica è stato il turno del Fatto Quotidiano con l’editoriale del direttore. «Ma che deve ancora fare Cosimo Maria Ferri per essere cacciato dalla magistratura», l’incipit del pezzo di Marco Travaglio il quale, per non farsi mancare nulla, elencava anche le vicissitudini giudiziarie dei fratelli dell’ex sottosegretario alla Giustizia. Ieri, infine, il botto con due articoli su Repubblica: “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome”, e “Operazione Confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici”. Nel primo pezzo Palamara viene indicato come “socio occulto”, il titolare è un commercialista romano, di uno stabilimento di fronte l’isola di Tavolara. Dal maxi fascicolo di Perugia sono stati ripresi alcuni passaggi circa l’acquisto da parte dell’ex presidente dell’Anm di una quota per 23mila euro di un chiosco per la vendita di bibite e panini. Episodio senza rilievo penale, come certificato dal gip del capoluogo umbro, in quanto la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie. Nulla di illecito, insomma, ma sufficiente per il titolone ad effetto di Repubblica. L’altro articolo, senza citarli espressamente, punta ai giornali, fra cui anche il Riformista, che in questi mesi hanno sollevato perplessità sul modo di conduzione delle indagini. Una strategia per allontanare il processo disciplinare.Fra i temi dibattuti, la raccolta illegittima delle intercettazioni da parte della finanza e la successiva manipolazione del contenuto. Tutto, ovviamente, falso per Repubblica. Il Riformista, invece, ha dato conto di un provvedimento del pm titolare del fascicolo, Gemma Miliani, indirizzato al comandante del Gico della guardia di finanza di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle discussioni di Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Cosa non accaduta. E poi errori di trascrizione come quello della conversazione tra Palamara e l’ex pg della Cassazione Riccardo Fuzio. «Dall’ascolto dell’audio emerge che Palamara e Fuzio discutono delle problematiche insorte a seguito della presentazione dell’esposto presentato al Csm da parte di Stefano Fava (già pm a Roma) nei confronti di Pignatone», puntualizza la difesa di Palamara, sottolineando come «i comunicati di gruppi associativi o gli articoli di giornali» abbiano il «chiaro intento di cercare di influenzare e di anticipare il giudizio della sezione disciplinare». Leggendo il fascicolo di Perugia, si scopre infatti che i rapporti fra Pignatone e Fava non fossero idilliaci. L’elemento scatenante è una richiesta di intercettazioni da parte di Fava, nell’ambito di una indagine per corruzione in atti giudiziari, a carico di avvocati e magistrati, fra cui Francesco Caringella, giudice del consiglio di Stato. Siamo nell’estate del 2016. Pignatone scrive una piccata nota a Fava, per conoscenza all’aggiunto Paolo Ielo. «Rileva che permangono violazione dei criteri organizzativi dell’ufficio che prevedono il visto dell’aggiunto per le nuove intercettazioni». E poi: «Rimangono senza esito le mie richieste, formali ed informali, di essere informato degli sviluppi delle indagini più importanti». Il procedimento è ritenuto da Pignatone di “particolare delicatezza”. L’ex procuratore di Roma ordina allora di «non dare corso alla richiesta e ad attenersi alle regole dell’ufficio». Ielo è d’accordo con il procuratore e stronca l’annotazione della guardia di finanza «piena di affermazioni apodittiche e gronda di condizionali e giudizi probabilistici, assolutamente inidonei a radicare un giudizio di sussistenza di indizi». «Si è in presenza di illazioni e nulla di più», scrive Ielo. «Occorre non solo un controllo critico più intenso delle affermazioni della pg ma a mio giudizio anche una più pregnante direzione della sua attività secondo le prerogative proprie del pm», l’affondo nei confronti di Fava.

Palamara e il lido "occulto" in Sardegna. “Io, prestanome del Pm”: favori e incarichi. Niccolò Magnani su Il Sussidiario il 7.07.2020. Luca Palamara, spunta nuovo “filone” su gestione da proprietario “occulto” di un lido in Sardegna: “sì, sono un prestanome del pm”. Incarichi e presunti favori. Il caso Palamara non riguarda più “solo” presunte corruzioni e nomine pilotate di Procure quando il magistrato ora espulso dall’Anm era consigliere del Csm: secondo due scoop di Repubblica e Corriere della Sera emergono nuove intercettazioni in cui Palamara risulterebbe, in attesa di verifiche in sede di indagine, proprietario “occulto” di un lido in Sardegna tramite un suo fidato “prestanome”. Il possibile nuovo filone del “sistema Palamara” sbarca in una spiaggia vicino ad Olbia, nel lido “Kando Istana Beach” dove pare avesse più di un interesse nella gestione. «Non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell’interesse dei figli una piccola quota, per un valore di 23 mila euro, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite senza alcuna velleità imprenditoriale e per chi conosce la Sardegna a distanza di circa un’ora di auto da Porto Cervo», hanno spiegato gli avvocati di Palamara al CorSera dopo le intercettazioni emerse su Repubblica il giorno prima. Eppure la storia parte ancora una volta da lontano, dal 2016 quando l’amministratore unico del lido – il commercialista Andrea De Giorgio – diventa effettivo e per “conto” di Palamara. Lo avrebbe ammesso lo stesso De Giorgio alle domande degli inquirenti: «sì, è vero, sono un prestanome di Palamara».

LE NUOVE INTERCETTAZIONI CONTRO PALAMARA. Nel mare magnum delle intercettazioni sullo smartphone del pm romano si sarebbero visti tutti gli scambi per le decisioni da prendere sulla spiaggia sarda: «La somma di denaro necessaria per acquisire la quota, 23mila euro, era stata anticipata per conto del magistrato dal suo amico De Giorgio, come prestanome, al quale Palamara ha restituito nel corso del tempo l’importo di 14mila euro», spiegano le carte della Procura di Perugia riportate dal Corriere della Sera. I dubbi degli inquirenti si fissano sul fatto che non l’intera cifra è stata restituita da Palamara e, parallelamente, vi sarebbero stati diverse “intercessioni” fatte dal magistrato ex Anm presso amici giudici e procuratori: «Il commercialista aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla procura di Roma […]. In un’occasione ha ringraziato l’amico magistrato per un incarico ricevuto da un altro sostituto procuratore», si legge ancora negli atti allegati all’inchiesta. Gli scambi sui messaggi tra i due sono tutti riferiti a come rendere al meglio quella spiaggia financo ai temi più gestionali e personali («Non è dignitoso avere una spiaggia così. Ti assicuro che la spiaggia libera è dieci volte più ordinata. Trova tu un rimedio perché così è inaccettabile»).

I SOCI DI PALAMARA. Secondo il Corriere della Sera, dalle carte emerge anche un secondo “socio” di Palamara per il Kando Istana Beach, di nome Federico Aureli: in prima battuta, l’uomo interrogato avrebbe prima negato la compartecipazione di Palamara salvo poi riferire «Io penso che le quote sono state formalmente acquistate da Andrea De Giorgio, ritengo però che l’interessamento alla società fosse di Palamara Luca. Nel senso che ritengo che De Giorgio figurasse al posto di Palamara. Fermo restando che gli aspetti contabili venivano gestiti da me insieme a De Giorgio. Penso che le quote, quindi la proprietà del chiosco interessasse a Luca Palamara ma in ogni caso io ho gestito gli aspetti formali e commerciali con Andrea De Giorgio». Anche in questa occasione vi sarebbero state delle informazioni rivelate da Palamara circa vicende giudiziarie della famiglia dell’imprenditore De Giorgio, «[…] mia moglie è stata denunciata dalla controparte ed è iniziato a suo carico un procedimento penale. Il processo è in corso. Sapevo che il pm conosce Luca Palamara», spiega De Giorgio ai pm di Perugia durante l’interrogatorio redatto con ampi stralci dal CorSera. Gli affari sul «Kando Istana Beach» non fanno parte per il momento delle contestazioni penali a Palamara eppure, secondo il giudice di Perugia «emergono rapporti poco trasparenti o, comunque, commistioni di interessi quantomeno sintomatici di un impiego non appropriato della posizione e della qualità di magistrato».

Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome. Giuliano Foschini il 5 luglio 2020 su La Repubblica. Il titolare della società è un commercialista romano, che secondo i magistrati ha ottenuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma. E l’ex leader Anm si interessò di un procedimento penale riguardante la moglie di un altro socio. Comincia in Sardegna, nella meravigliosa spiaggia di Porto Istana a Murta Maria - all'orizzonte si intravede l'isola di Tavolara e a 30 chilometri c'è Porto Cervo - un pezzo della storia del magistrato Luca Palamara tutta ancora da scrivere. È la storia di un chiosco su una delle spiagge più belle di Italia, il Kando Istana Beach, che - così come hanno ricostruito la Guardia di finanza e la procura di Perugia - era di proprietà di un graf...

Un lido in Sardegna per il magistrato Palamara ma spunta l’amico prestanome e segue smentita dei suoi legali. Il commercialista titolare del Kando Beach a Tavolara riceveva incarichi dalla Procura di Roma. Il titolare della società è un commercialista romano, che secondo i magistrati ha ottenuto incarichi dai tribunali e dalla Procura di Roma. E l’ex leader Anm si interessò di un procedimento penale riguardante la moglie di un altro socio. Comincia in Sardegna, nella meravigliosa spiaggia di Porto Istana a Murta Maria – all’orizzonte si intravede l’isola di Tavolara e a 30 chilometri c’è Porto Cervo – un pezzo della storia del magistrato Luca Palamara tutta ancora da scrivere. È la storia di un chiosco su una delle spiagge più belle di Italia, il Kando Istana Beach, che – così come hanno ricostruito la Guardia di finanza e la procura di Perugia – era di proprietà. Il caso Palamara non si sgonfia, ma anzi si arricchisce sempre più di nuovi particolari. Come quello che riporta Repubblica, relativo ad un lido di una spiaggia in Sardegna, tra Tavolara e Porto Cervo, di cui sarebbe proprietario proprio Luca Palamara, l’ex boss di Unicost a processo a Perugia per corruzione, dirigeva attraverso un prestanome, che avrebbe anche ricevuto incarichi presso i tribunali e la Procura di Roma. L’amico di Palamara Andrea de Giorgio, a verbale, stretto dalle domande della Finanza ha dovuto ammettere «Sì, è vero, sono un prestanome di Palamara». Analizzando i messaggi del pm romano i finanzieri si sono imbattuti in questo commercialista che, nell’interrogatorio, lo stesso Palamara ha definito essere «un vero amico». Si conoscono dai tempi della scuola e contavano uno sull’altro, anche nelle situazioni più delicate. «Dalle indagini» si legge negli atti depositati all’inchiesta di Perugia. «è emerso che Palamara sia socio occulto della Kando Beach srl. La somma di denaro necessaria per acquisire la quota, 23mila euro, era stata anticipata per conto del magistrato dal suo amico De Giorgio, come prestanome, al quale Palamara ha restituito nel corso del tempo l’importo di 14mila euro». Il capitale per rilevare il ramo d’azienda lo versa De Giorgio per conto di Palamara e, secondo il suo racconto, solo in parte gli viene restituito. Anche perché Palamara aveva sempre un pensiero per gli amici. «Il commercialista – si legge ancora negli atti allegati all’inchiesta – aveva ricevuto incarichi dai tribunali e dalla procura di Roma». E Palamara sapeva. «In un’occasione ha ringraziato l’amico magistrato per un incarico ricevuto da un altro sostituto procuratore ». Fonte: Repubblica- Affari

Comunicato smentita legali di Luca Palamara. “Non si farà intimorire da comunicati di gruppi associativi o da articoli con funzione anticipatoria di giudizio”. “In data 6 odierna sul quotidiano la Repubblica venivano pubblicati due articoli, il primo dal titolo “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome” il secondo dal titolo “Operazione confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici” a firma rispettivamente di Giuliano Foschini e Carlo Bonini. Quanto al primo articolo dal titolo “Un lido in Sardegna per Palamara ma spunta l’amico prestanome” l’articolo nel riportare stralci del provvedimento del GIP del Tribunale di Perugia, ha riferito notizie non vere riguardanti il dott. Palamara e comunque ha omesso di riferire circostanze assolutamente rilevanti per la reale ricostruzione dei fatti in violazione del corretto dovere di informazione da parte del giornalista. Infatti sono destituiti di ogni fondamento i seguenti passaggi del citato brano giornalistico:

“E’ la storia di un chiosco…di proprietà di un gruppo di amici…tra cui Luca Palamara che si è schermato con un prestanome…Andrea De Giorgio che a verbale stretto dalle domande della Guardia di Finanza ha dovuto ammettere “si è vero sono un prestanome di Palamara.…“. A parte l’accostamento suggestivo per adombrare chissà quali malefatte compiute dal dott. Palamara, il giornalista ha tuttavia omesso di riportare nell’articolo le seguenti circostanze assolutamente decisive per la reale ricostruzione degli accadimenti e precisamente che:

a) il dott. Palamara non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna come enfaticamente afferma il titolo dell’articolo, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell’interesse dei figli una piccola quota, per un valore di € 23.000, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite senza alcuna velleità imprenditoriale e per chi conosce la Sardegna a distanza di circa un’ora di auto da Porto Cervo;

b) si tratta di fatti e vicende ampiamente approfonditi nel corso delle indagini preliminari all’esito delle quali come emerge dal capo di imputazione formulato nell’avviso 415 bis c.p.p. non è stato ravvisato alcun profilo di rilevanza penale da parte dell’autorità giudiziaria nei confronti del dott. Palamara;

c) la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie (quello che normalmente avviene nella vita quotidiana quando ad esempio anche i magistrati acquistano azioni di società quotate in borsa, spesso addirittura per importi superiori a quello in questione);

d) in questo caso l’acquisto della quota societaria è avvenuto mediante intestazione formale ed in via fiduciaria al dott. De Giorgio in virtù di un familiare rapporto di amicizia intrattenuto sin dalla nascita con lo stesso;

e) il dott. De Giorgio è stato nominato consulente tecnico non su indicazione del dott. Palamara ma in via del tutto autonoma e per le sue riconosciute capacità professionali da parte dei magistrati titolari dei rispettivi procedimenti in osservanza delle norme sul conferimento degli incarichi professionali;

f) il Presidente della Corte d’appello di Roma con una nota del 5 luglio del 2019 ha escluso qualsiasi interessamento del dott. Palamara su procedimenti giudiziari in corso;

g) il dott.Palamara è stato sempre estraneo alle vicende relative alla moglie dell’Aureli imputata nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto la mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile come facilmente si può evincere dagli atti depositati dalla Procura di Perugia. Quanto al secondo articolo dal titolo “Operazione confusione. Le manovre dell’ex pm per sfuggire ai suoi giudici” lo stesso ha riferito notizie non vere riguardanti il dott. Palamara. Infatti sono destituiti di ogni fondamento i seguenti passaggi del citato brano giornalistico:

“E’ un interesse, quello di Palamara…. “a sottrarsi dal processo”. La difesa del dott. Palamara in vista delle citate udienze del 16 e del 21 luglio p.v. agisce nella assoluta certezza di poter dimostrare nelle sedi processuali istituzionalmente preposte ad accertare il reale accadimento dei fatti la correttezza personale e professionale del dott. Palamara, senza farsi intimorire allo scopo da comunicati di gruppi associativi o addirittura da articoli di giornali evidentemente mossi dall’intento di interferire e di svolgere una funzione anticipatoria del relativo giudizio. Anzi sin da ora possiamo dire che sarà molto agevole dimostrare l’assoluta inesistenza di qualsiasi adesione ad associazioni massoniche e segrete da parte del dott. Palamara, affermazioni in relazione alle quali riserviamo le più incisive azioni a tutela del nostro assistito;

Per rovesciare i due tavoli quello penale e disciplinare è necessario per Palamara accreditare due circostanze. False entrambe. La prima: che la Guardia di Finanza abbia raccolto illegittimamente le intercettazioni…… La seconda: che la stessa Guardia di Finanza abbia manipolato il contenuto……” In palese violazione del dovere di verità, nell’articolo in questione il giornalista ha omesso di riportare circostanze assolutamente decisive per ricostruire il reale accadimento dei fatti atteso che dagli atti dello stesso procedimento di Perugia emerge che:

a) vi è un provvedimento del 10 maggio del 2019 con il quale il Pubblico Ministero impartisce al colonnello Mastrodomenico del GICO della GDF di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle discussioni del dott. Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Disposizione questa disattesa sul presupposto che gli ascolti avvenivano nelle giornate successive in violazione di quanto stabilito dall’art.68 della Costituzione;

b) nella trascrizione della conversazione tra il dott. Palamara ed il dott. Fuzio in data 21 maggio 2019, il GICO della GDF trascriveva “carabinieroni” anzichè “Pignatone”. Dall’ascolto dell’audio in realtà emerge che  il dott.Palamara ed il dott. Fuzio discutono delle problematiche insorte a seguito della presentazione dell’esposto presentato al CSM da parte del dott. Fava nei confronti del dott. Pignatone, relativamente ai motivi che avevano indotto quest’ultimo a richiedere di astenersi per gli incarichi conferiti da un imputato di un procedimento al di lui fratello Roberto Pignatone;

c) nella giornata del 9 maggio del 2019 le registrazioni delle conversazioni si interrompevano alle ore 16.02 dopo che nel corso di una conversazione il dott. Palamara riferiva al suo interlocutore che la sera stessa sarebbe stato a cena con il dott. Pignatone.” E’ quanto dichiarato dai legali di Luca Palamara.

Giacomo Amadori per ''La Verità'' il 7 luglio 2020. La Repubblica l'anno scorso aprì le danze del caso Palamara con un articolo intitolato «Corruzione al Csm». Lo scoop anticipava un'ipotesi investigativa relativa al pagamento di mazzette in cambio di nomine, congettura che nel procedimento penale in corso a Perugia si è dimostrata priva di fondamento. Eppure quella discesa in campo, ispirata da suggeritori ben informati sulle indagini in corso, contribuì a far saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, considerato candidato in controtendenza rispetto all'ex procuratore Giuseppe Pignatone. Raggiunto l'obiettivo, il sommergibile di Repubblica si è inabissato ed è rimasto sott' acqua per circa un anno, nonostante ad aprile siano state depositate dai pm di Perugia 49.000 pagine di chat ben più succulente dei brandelli di informative, a volte solo orecchiate, pubblicate con ardore e sprezzo delle querele un anno fa. Ma in vista dell'udienza stralcio riguardante Luca Palamara del prossimo 16 luglio in cui si dovrà decidere quali intercettazioni salvare e quali distruggere e dell'udienza del 21 luglio davanti alla sezione disciplinare del Csm per Palamara e altri sei incolpati, il sottomarino ha ritirato fuori il periscopio e sparato un paio di missili a salve. Dopo mesi di quasi totale assenza il quotidiano ha spedito un cronista su una spiaggia sarda per indagare su un chiosco di cui Palamara ha acquistato una quota attraverso il commercialista Andrea De Giorgio, il quale avrebbe ricevuto incarichi sospetti da parte del tribunale di Roma. Questo servizio, che non ci sembra in grado di far tremare il modo della magistratura, ha permesso ai cronisti di ribadire quella che ci sembra la loro principale preoccupazione: che l'inchiesta di Perugia e le intercettazioni captate dal Gico non hanno ombre né buchi. Di fronte a ciò gli avvocati di Palamara, Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti, hanno inviato alle agenzie un comunicato così intitolato: «Falsa la notizia del lido in proprietà. Palamara non si farà intimorire da pressioni volte a cercare di manipolare l'esito del giudizio disciplinare del 21 luglio». A proposito del chiosco i legali hanno scritto che «Palamara non ha la titolarità di nessun lido in Sardegna come enfaticamente afferma il titolo dell'articolo, essendosi più modestamente limitato ad acquistare nell'interesse dei figli (all'epoca minorenni, ndr) una piccola quota, per un valore di 23.000, di un chiosco adibito alla vendita di panini, gelati e bibite».  Hanno, inoltre, precisato che dai pm perugini «non è stato ravvisato alcun profilo di rilevanza penale» sulla questione, che «la legge consente ai magistrati la possibilità di acquistare quote societarie» e che il commercialista a cui «in via fiduciaria» è stata intestata la partecipazione è un amico d'infanzia. Quanto agli incarichi i difensori hanno puntualizzato che «il dottor De Giorgio è stato nominato consulente tecnico non su indicazione del dottor Palamara», ma di altri magistrati. Quindi hanno citato una nota del presidente della Corte d'appello di Roma di un anno fa che escludeva «qualsiasi interessamento del dottor Palamara su procedimenti giudiziari in corso». Di fronte al risveglio di Repubblica gli avvocati di Palamara, in vista delle udienze del 16 e del 21 luglio, hanno voluto far presente che il loro assistito intende difendersi «senza farsi intimorire da comunicati di gruppi associativi (le toghe progressiste di Area, ndr) o da articoli di giornali» che, a loro dire, hanno «il chiaro intento di cercare di influenzare e di anticipare il giudizio della sezione disciplinare». Sull'ulteriore allusione a una presunta appartenenza di Palamara ad associazioni massoniche i legali giudicano «agevole» dimostrare «l'assoluta inesistenza di qualsiasi adesione» a logge segrete da parte del loro assistito e annunciano querele. Infine, sul tema degli svarioni investigativi, i difensori hanno fatto presente come sia stata «disattesa» la disposizione della pm Gemma Miliani di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle conversazioni di Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare. Riguardo alla presunta infallibilità del trojan gli avvocati hanno ricordato che «in data 21 maggio 2019, il Gico trascriveva "carabinieroni" anziché "Pignatone"» e hanno rammentato come «nella giornata del 9 maggio del 2019 le registrazioni delle conversazioni si interrompevano alle ore 16.02 dopo che il dottor Palamara riferiva al suo interlocutore che la sera stessa sarebbe stato a cena con il dottor Pignatone». Prima o poi qualcuno dovrà giustificare l'interruzione di quel servizio di captazione.

Palamaragate fa emergere una magistratura avvelenata da tensioni, spartizioni, ambizioni e litigi. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Giugno 2020. Come si potrebbe chiamare un luogo con meno di 10.000 abitanti? Un paese o giù di lì. I magistrati italiani in servizio sono circa 9.000. Non molti in una nazione con un tasso di litigiosità tra i più alti in Europa e che patisce la presenza di gravi fenomeni criminali, spesso organizzati in mafie e consorterie di vario genere. Ma le toghe sono comunque abbastanza per dar vita a ben quattro (forse cinque) sigle associative che hanno una loro vivace proiezione in seno all’Associazione nazionale magistrati e al Csm. Gruppi che periodicamente, anzi con una certa frequenza – tra elezioni ai Consigli giudiziari, al Csm, alle Giunte distrettuali dell’Anm e al parlamentino associativo che recentemente ha defenestrato il proprio ex-presidente – si danno battaglia per contarsi e per pesarsi. L’associazionismo in magistratura vanta una storia illustre e battaglie decisive per l’assetto democratico delle istituzioni. Una storia che, però, sembra giunta al proprio epilogo – non da ora – e che fatica a giustificarsi in nome di un pluralismo culturale ormai sbiadito e appannato da troppe prassi condivise. Per essere un modesto paesino di 9.000 abitanti la magistratura italiana galleggia su un tasso di conflittualità altissimo (è di poche ore or sono l’ennesimo ricorso al Tar contro una nomina controversa) e ha rivelato un malcostume purtroppo praticato in molti anfratti. Il risentimento e l’avversione che circola tra un numero non esiguo di toghe ha radici difficili da esplorare e, in qualche caso, si alimenta di palesi ingiustizie e insopportabili protervie. Purtroppo non esiste sede giudiziaria di medie e grandi dimensioni che non consumi nelle proprie mura faide associative e professionali di una certa intensità. Le chat pubblicate in queste settimane, dopo l’oblio di oltre un anno, offrono innanzitutto lo spaccato di un clima nella magistratura italiana avvelenato da tensioni, spartizioni, ambizioni spesso smisurate, da litigi e ripicche senza tregua. Più che la corsa alle poltrone, più dei magheggi tra boss delle correnti, è questo il dato che dovrebbe preoccupare l’opinione pubblica. I magistrati esercitano una funzione delicata che richiede sobrietà, serenità, pacatezza d’animo. Come nessuno si metterebbe nelle mani di un chirurgo che ha appena litigato con l’anestesista o che ha fatto a pugni con un collega, così i cittadini hanno diritto di pretendere per i propri processi una sala operatoria asettica, sanificata da ogni tossina e protesa solo all’accertamento della verità dei fatti. La stragrande maggioranza dei processi civili e penali che si celebrano non ha un rilievo mediatico, spesso non ha neppure un apprezzabile rilievo economico. Tutti questi processi hanno un solo elemento che li tiene insieme: sono importanti per chi attende una decisione, spesso a distanza di anni e spesso dopo aver sborsato molti denari per ottenerla in un’aula di giustizia. E a costoro, alla moltitudine esterrefatta dei cittadini e dei loro avvocati che occorrerebbe volgere lo sguardo in queste settimane per cercare un rimedio efficace a questo vuoto di credibilità che minaccia di ingoiare la magistratura italiana. Sia chiaro la riforma della legge elettorale del Csm o qualche pannicello caldo in tema di porte girevoli tra politica e magistratura (a proposito a oggi i magistrati fuori ruolo per incarichi politici sono 4, un paio di stanze del già piccolo villaggio) nel giro di un decennio potrebbe anche dare qualche risultato e potrebbe contenere il peso delle correnti nell’autogoverno della magistratura. Ma non sembra questa la necessità più impellente. Né lo è il progetto di attuare furiose epurazioni che pagherebbero il prezzo di una certa dose di ipocrisia visto che tutti sapevano e che le toghe, a spanne, si possono distinguere solo tra chi partecipava al mercato e chi ne restava lontano disprezzandone le regole. Anzi, a ben guardare, v’è il rischio che azioni punitive pulviscolari lascino al riparo da sanzioni qualcuna delle toghe altolocate che sono coinvolte nell’affaire Palamara e i cui nomi hanno pur occupato le pagine dei giornali in queste settimane tra esilaranti attese in piazza con tanto di scorta e improbabili segnalazioni amicali di candidati ritenuti ipermeritevoli. Se dovesse davvero arrivare una purga ad ampio compasso si spera almeno che inizi dalle teste coronate, come in ogni rivoluzione che si rispetti. In verità il primo obiettivo, quello più impellente, dovrebbe essere il rasserenare il clima tra le toghe e all’interno della magistratura. Da questo punto di vista l’Anm farebbe forse bene a meditare un’adeguata sospensione dei cicli elettorali interni congelando gli organi statutari e limitando le competizioni a quelle che riguardano i soli organi istituzionali (Consigli giudiziari e Csm). Al contempo, forse, sarebbe opportuno attuare una capillare ricognizione nelle proprie sedi più “calde” per tentare la ricomposizione di un clima di serenità e di collaborazione che la stagione delle chat a rate ha solo ulteriormente esasperato. Questi sono i giorni dell’ira, della resa dei conti, delle probabili chiamate in correità, delle minacce appena sibilate, dei sorrisini malevoli e ammiccanti al pettegolezzo. Un clima davvero poco degno per una Nazione che conta decine di migliaia di morti contagiati, una devastazione economica e sociale imponente e che meriterebbe da una delle principali istituzioni parole e atteggiamenti più composti, rassicurazioni più persuasive e gesti più efficaci. Tra uffici giudiziari in protratto lockdown, cause rinviate, avvocati in subbuglio e dosi quotidiane di pizzini informatici la magistratura è chiamata a uno sforzo ulteriore di impegno e di attenzione verso i cittadini. La peste virale è stata tenuta fuori dai palazzi di giustizia quasi ovunque, ma dentro quelle stanze rischia di allignare per molto tempo un’aria mefitica. I vertici dell’Anm revochino le dimissioni, restino al loro posto e inizino a visitare i lazzaretti in cui si è propagata senza limiti la diceria degli untori e dove servono con dignità la Repubblica tanti eccellenti magistrati. Una vicinanza e un ascolto per uscire dalle mura assediate.

Vittorio Sgarbi a Quarta Repubblica: "Palamara come Buscetta, voi state tranquilli?" Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Luca Palamara "come Tommaso Buscetta". Vittorio Sgarbi "legge" nella testa dei magistrati e in studio a Quarta Repubblica ospite di Nicola Porro si lascia andare a uno dei suoi classici, clamorosi commenti. "Nella logica dei buoni processi serve un pentito e Palamara è come Buscetta". Insomma, taglia corto il deputato eletto alla Camera con Forza Italia, è giunta "l'ora di Palamaropoli!". Il professore si fa però più serio quando alle intercettazioni di Palamara lega lo scontro tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il pm anti-mafia Nino Di Matteo. "Palamara e Di Matteo dicono che nella magistratura c'è un inquinamento mafioso e stiamo tranquilli?". La risposta può darsela ciascuno di noi. 

Vittorio Sgarbi, il deputato ha ragione nel volere indagare le toghe. Farina condanna la cacciata dall'Aula. Renato Farina su Libero Quotidiano il 27 giugno 2020. Vittorio Sgarbi - stavolta, e non è la prima volta - ha perfettamente ragione. Di più: è stato vittima di un rito barbarico nel cuore stesso della democrazia repubblicana. E con lui a essere stata matata in una arena di vigliaccheria è stato il diritto di dire la verità e il dovere di consentirlo. La cronaca è nota. Ma non è quella che è stata raccontata. Anche chi infatti è benevolo con il critico d'arte e parlamentare, trasferisce l'essenza dell'accaduto sul piano del costume. Come quando si litiga da Barbara D'Urso o da Lilli Gruber: un gioco dove non conta la tensione alla verità ma l'efficacia della battuta o la gravità dell'offesa. Bisogna saltar fuori dal pregiudizio negativo o positivo sul «solito Sgarbi». E osservare quello che ritengo non uno sketch, ma se è stato uno spettacolo appartiene al genere della tragedia. Esagero? Neanche un po'. La vergogna di quel che è accaduto mercoledì a Montecitorio non consiste affatto nelle parole e nei comportamenti di Vittorio Sgarbi, deputato nell'esercizio delle sue funzioni di rappresentante del popolo italiano. L'oscenità sta tutta nell'aver falsificato le sue parole, tramutandone il senso, e averlo perciò sbattuto fuori dall'aula impedendogli di votare un provvedimento infame che allarga all'infinito la possibilità per la magistratura di intercettare chiunque, dovunque e comunque, senza alcun controllo salvo quello della magistratura medesima. Il parlamentare di Ferrara aveva osato l'inosabile. Chiedere un'inchiesta parlamentare non contro la classe politica, o contro un delitto di 40 anni fa, bensì su «magistratopoli, palamaropoli», ovvero sullo scempio dell'onestà e della buona fede del popolo italiano ad opera di una cricca in toga che governa carriere e (a quanto si è udito) sentenze, e che è stata ai vertici dell'Associazione nazionale magistrati, quella che - ha citato correttamente Sgarbi - Cossiga definì «associazione mafiosa». Con una spudorata deformazione, senza avere alcun diritto di interloquire con un collega in dichiarazione di voto, l'onorevole di Forza Italia Giusi Bartolozzi, ex magistrato in Sicilia, ha attribuito a Sgarbi d'aver qualificato come criminali tutti i magistrati. Chi stava dalla parte di Sgarbi (buona parte del centrodestra) non ha contraddetto la deputata che mentiva, mentre grillini e sinistra unanime sono balzati in trecento contro uno addosso a Sgarbi che cercava di far udire il suo non-ho-detto-questo. Lo hanno sommerso di urla. Visto che non lo facevano replicare ed anzi lo inondavano di improperi, ha lanciato invettive, e ha pronunciato, oibò, un sonoro vaffanculo. Dicono anche si sia lasciato andare a parolacce e ingiurie che lui nega di aver profferito (nella registrazione però non si ode l'epiteto «troia» che gli è attribuita nello stenografico della Camera). Fatto sta che appena la canea ha cominciato ha scandire fuori-fuori, immediatamente la presidente Mara Carfagna, per la quale la mia stima resta intatta, ha obbedito e ha letteralmente ripetuto «fuori» cacciandolo dall'aula, con accompagnamento teatrale di commissari che lo tenevano per le mani e per i piedi. Ripeto. Si tende a trattare l'episodio come un fatto di cabaret, tifando alcuni pro e quasi tutti contro Sgarbi, riducendo la cosa a un accidente caratteriale. Si incolpa la sregolatezza linguistica del professore di Ferrara. Molto comodo. È il classico della censura. Usare un frase particolare, che si può vendere all'opinione pubblica come sgradevole, in nome del linguaggio tutto tè e pasticcini che sarebbe in voga in Italia (ma dai), per squalificare ed espellere dall'agorà democratica e civile una denuncia accorata e urgente. Guai a chi tocca il totem, a chi viola il tabù: la degenerazione della magistratura, nei suoi massimi organi rappresentativi (Anm) e di autogoverno (Csm) non può essere nominata. Sgarbi è il migliore - e di gran lunga - oratore a braccio di questa legislatura. Sa alternare e mescolare la raffinatezza al genere retorico dell'invettiva anche salace e veemente, tale da lacerare la camicia o lo chemisier degli avversari di oratoria. L'insulto però all'essenza del Parlamento è quello che è accaduto intorno a lui e contro di lui, per trafiggere e trascinare fuori il dissidente dal pensiero unico. Sgarbi ha avuto la temerarietà di indicare la nudità sporcacciona del re. Ha detto la verità sul potere sommo che si è seduto sull'Italia schiacciandola, e tiene sotto schiaffo minacciando - e quanto accaduto alla Camera ne è la prova - chi non si genuflette. Ci siamo capiti, l'ordine giudiziario ha in mano lo scettro anche in Parlamento. Con abilità mostruosa il centro della questione non è più se e quanto il malaffare sia diffuso nella magistratura, e se non sia il caso di investigarvi da parte di un soggetto terzo (il potere legislativo). Il cuore del problema italiano diventa il vaffa. Il filmato mostra il deputato del Pd Emanuele Fiano correre al banco della Carfagna e ripeterle piano con l'aria di chi ha udito la formula con cui Voldemort dissolve il mondo: «...ha detto "vaffanculo"!». Sul serio. Ho trascritto lo stenografico. Dio mio, ha detto vaffanculo! Qualcuno chiami De Luca con i lanciafiamme. Che razza di ipocrisia. Fiano e i suoi dem così pudichi sono alleati e governano con chi di questa sollecitazione al meretricio posteriore ha fatto l'essenza della sua politica. E adesso diventa pretesto per trasferire nel mondo delle parolacce un giudizio politico e morale sullo scandalo di una magistratura malata.  

Sgarbi querela Carfagna e Bartolozzi: “Indignate a comando”. Notizie.it il 26/06/2020. Sgarbi annuncia querela per Carfagna e Bartolozzi dopo essere stato cacciato dal Parlamento. Il video di Vittorio Sgarbi trascinato via dal Parlamento è già diventato un capitolo di storia repubblicana assolutamente da dimenticare che ha indignato tutte le componenti politiche. Ma adesso, il parlamentare e critico d’arte annuncia di non voler restare a guardare ma, anzi, di passare alla controffensiva tanto da aver già comunicato l’intenzione di presentare querela per Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, e Giusi Bartolozzi, collega forzista. Così, attraverso la sua pagina Facebook, Sgarbi smentisce le accuse in merito ai presunti insulti rivolti alle due parlamentari: “Le sole parole irripetibili che ho pronunciato all’indirizzo delle due indignate di comodo sono: ridicola alla Bartolozzi e fascista alla Carfagna. Parole perfettamente aderenti ai loro comportamenti”. Vittorio Sgarbi è un fiume in piena e promette guerra alle due parlamentari che lo hanno costretto ad abbandonare l’aula del Parlamento: “Quanto alla Bartolozzi, ex magistrato – continua il critico d’arte -, le ho anche evocato il nome di Berlusconi, solo per ricordarle che si trova in Parlamento proprio grazie alla generosità del Cavaliere, l’uomo più perseguitato d’Italia da certa magistratura”. Sgarbi fa riferimento a quella stessa magistratura che: “Io ho denunciato nel mio discorso alla Camera e che lei ha ciecamente difeso, come se lo scandalo delle chat di Palamara fosse una invenzione. Tra l’altro io a quei magistrati del caso Palamara ho fatto riferimento, e non genericamente alla categoria dei magistrati”. E non mancano le accuse agli indirizzi della Carfagna che Sgarbi definisce soubrette in catene: “Lo so, ricordare ciò che siamo stati è sempre un esercizio faticoso. Ma a lei ribadisco che impedirmi di parlare e votare è un atto fascista. Ma le due indignate a comando cosa fanno? Montano una ignobile strumentalizzazione politica mostrandosi come vittime. Evocano il sessismo pretendendo in quanto donne, una sorta di immunità alle critiche, esercitando, loro sì, una forma di intimidazione nei miei confronti”. Tutti questi motivi spingono Vittorio Sgarbi ad agire per via legali: “Vista la grave diffamazione consumata ai miei danni con accuse false, dovranno portare le prove in un tribunale, il solo luogo in cui si potrà parlare liberamente di ciò che ho detto, visto che il Parlamento è diventato un luogo di censura e di restrizioni. In quella sede si potrà anche ricostruire il percorso che ha portato la Bartolozzi e la Carfagna in Parlamento. In modo che, anche se con anni di ritardo, si possa poi dire: aveva ragione Sgarbi”.

Salvini a processo il 19 ottobre: definì magistratura “cancro da estirpare”. Notizie.it il 25/06/2020. Il 19 ottobre Salvini è atteso a Torino per il processo che lo vede imputato per villipendio nei confronti dell'ordine giudiziario. É slittata al 19 ottobre la data in cui Matteo Salvini dovrà presentarsi al Tribunale di Torino per prendere parte al processo intentatogli: il reato che gli viene contestato è quello di villipendio nei confronti della magistratura a causa di un episodio del 2016 in cui la definì “un cancro da estirpare“. L’udienza ha subito diversi slittamenti per motivi di vario titolo. L’ultima volta i giudici l’avevano fissata per il 2 marzo ma, a causa della chiusura dei tribunali e del fermo delle attività giudiziarie, alla fine non ebbe luogo. Il leader della Lega è dunque atteso lunedì 19 ottobre alle ore 15 insieme al suo legale Claudia Eccher che a marzo aveva ribadito “la piena disponibilità di Salvini a partecipare all’udienza“. L’episodio a cui fanno riferimento le carte del processo risale al 14 febbraio 2016. In tale data il numero uno del Carroccio stava partecipando al congresso regionale della partito tenutosi al palasport di Collegno, in provincia di Torino, per l’elezione del nuovo segretario regionale. Durante il suo intervento pronunciò alcune frasi nei confronti dell’ordine giudiziario che lo stesso ha ritenuto offensive. Riferendosi in particolare ad un’inchiesta sulle spese dei politici in Liguria, Salvini aveva affermato la sua disponibilità a difendere “qualunque leghista indagato da quella schifezza che si chiama magistratura italiana, che è un cancro da estirpare“. Sempre ad ottobre dovrebbe poi affrontare il processo che lo vede indagato per sequestro aggravato di persona in merito al caso Gregoretti. Il Senato, che deve ancora votare l’autorizzazione a procedere per quello relativo alla Open Arms, ha infatti concesso alla magistratura il via libera alle indagini.

Vittorio Feltri su Luca Palamara: "Evviva, sto con lui. Crepi chi gli vuole male". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 23 giugno 2020.  Il magistrato Luca Palamara dicono che sia nei guai essendo stato espulso dal sindacato della sua categoria, l'Anm. Penso che a lui non gliene freghi niente, dato che le associazioni dei lavoratori, siano pure togati, sono importanti per trafficare eppure non decisive. A me personalmente Palamara è simpatico, ha tenuto per il bavero decine di suoi colleghi che pendevano dalle sue labbra e ha agito proprio come i suoi predecessori, mettendo le mani in pasta e talvolta sporcandosele ma non troppo. Senza dubbio la pubblicazione delle intercettazioni riguardanti le sue conversazioni con Tizio Caio e Sempronio hanno suscitato scalpore. Tuttavia non era il caso. L'ex presidente, in fondo, si è comportato come coloro che lo hanno preceduto, influenzando promozioni, favorendo taluni e danneggiando altri. Cose che sono sempre avvenute nell'ambito giudiziario, che non è diverso da quello di ogni altro potere. È noto che nelle corporazioni c'è qualcuno che mena le danze e qualcuno che si muove ubbidendo agli ordini. Tutto ciò non è edificante, ma non rappresenta una novità. Palamara peraltro non arrivò al vertice della Anm per fatalità, bensì mediante elezioni: egli cioè ricevette dei voti che gli consentirono di giungere all'apice. Dov' è lo scandalo? Una considerazione generale. Sappiamo da sempre che l'umanità non è mai pulita al massimo, i filibustieri, i furbi e i mentecatti costituiscono un genere trasversale: esistono personaggi discutibili tra i geometri, tra i medici, tra i muratori e in particolare tra i giornalisti, che ben conosco. Ovvio che anche i giudici, essendo persone in carne e ossa, non sfuggano alla regola: pure tra loro vi è chi non è santo. Palamara, in realtà, facendo pur parte di un ceto fin troppo rispettato, ha adottato una condotta non molto biasimevole, esattamente come la maggioranza di quelli che egli ha manovrato. Non mi risulta opportuno dargli addosso. Del resto, era soltanto un influencer, un tipo intelligente cui una massa si rivolgeva per ottenerne favori. Io gli conferirei un premio, non fosse che per convincerlo a non sputtanare la sua casta che si è già sputtanata abbastanza per conto proprio. Basta leggere certe sentenze e prendere atto di determinati e frequenti errori giudiziari per accorgersene. Palamara ha un aspetto inquietante, con quei capelli corvini e lo sguardo penetrante, ma è intelligente e non ha compiuto nulla di peggio dei suoi compagni di lavoro. Pertanto mi schiero con lui, lo stimo, e mi aspetto che nella sua disgrazia trascini numerosi suoi detrattori, meritevoli di essere sfruculiati. Colpevolizzare lui di aver intrattenuto rapporti di convenienza con i suoi sodali e assolvere chi ha beneficiato di spinte e agevolazioni è una operazione sporca. Viva Palamara e crepino coloro che gli vogliono male. Noi siamo con lui e non con i suoi nemici comunisti. 

Virginia Piccolillo per corriere.it il 20 giugno 2020. «Gravi violazioni del codice etico». Il comitato direttivo dell’Anm, espelle Luca Palamara. Accolta la richiesta dei probiviri in una seduta difficile. Segnata dalla richiesta dell’ex presidente dell’associazione nazionale magistrati di potersi difendere. E dal rifiuto dei colleghi di lasciare parlare, in audizione o tramite una memoria scritta, lui o il suo collega difensore, Roberto Carrelli Palombi. Poi l’illustrazione delle colpe individuate dai probiviri nelle sue condotte: «Si sono collocate inusitatamente quanto indegnamente fuori dalle regole deontologiche». Infine il voto: fuori dall’Anm. Lui protesta.

Palamara: «Nemmeno nell’inquisizione». L’istanza di Palamara è stata ritenuta «inammissibile», in base allo statuto, oltre che «irrituale». Secondo i colleghi l’ex pm avrebbe dovuto parlare solo di fronte ai probiviri, dove invece non si è mai presentato. Non è stato concesso neanche al collega che aveva preso le sue difese nel procedimento di parlare in favore alla sua richiesta. L’ex pm denuncia: «Mi è stato negato il diritto di parola. Nemmeno nell’inquisizione». All’Adnkronos ha affidato il discorso che avrebbe voluto pronunciare. «Volevo il cambiamento ma mi sono lasciato inghiottire dal sistema», avrebbe detto. «Mi son sempre ispirato a un imparziale esercizio della giurisdizione», avrebbe aggiunto. E ancora: «Non farò il capro espiatorio», le «responsabilità politiche per avere accettato le regole del gioco sono discutibili» e sulle nomine dei dirigenti giudiziari avrebbe scandito: «Sono frutto di accordi politici».

Anm decimata. La riunione si è aperta con la presa d’atto di altre dimissioni: quelle di tutti i componenti di Magistratura Democratica che hanno seguito quelle dei 7 componenti di Magistratura indipendente, di Silvia Albano di Area, dell’ex presidente Francesco Minisci e di Bianca Fieramosca di Unicost, due di loro facevano parte della giunta.

Il monito di Mattarella. «Nessun contrasto può giustificare l’abbandono del luogo deputato al confronto» ha detto il presidente dell’Anm Luca Poniz, in apertura del Comitato sul quale pesa il monito lanciato dal capo dello Stato, Sergio Mattarella: «La magistratura recuperi credibilità. Sotto accusa dei probiviri anche i magistrati Lepre, Morlini, Cartoni e Spina che hanno già dato le dimissioni dall’associazione (motivo per il quale il Cdc ha deciso di non esprimersi a riguardo), Criscuoli e il deputato Cosimo Ferri.

La verità di Luca Palamara: “Così funziona il potere esagerato delle Procure”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Giugno 2020. «Posso affermare tranquillamente che sono stato io a creare il “partito dei pm”». Incontriamo Luca Palamara a Roma in un bar vicino al Csm. Sabato scorso il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha deciso di espellerlo dall’associazione di cui è stato per quattro anni il presidente. Nella secolare storia dell’Anm non era mai successo con un suo presidente venisse espulso perché accusato di condotte gravemente lesive nei confronti dei colleghi. Dalle chat si è scoperto che decine di colleghi si rivolgevano a lui, anche quando formalmente era cessato da tutti gli incarichi, per una ottenere una nomina o un posto di prestigio. Da quello che abbiamo capito in questi mesi, la valanga che ha travolto il Csm e la credibilità della magistratura è iniziata con la convulsa successione di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. La nomina di Michele Prestipino è stata impugnata al Tar del Lazio dagli sconfitti: Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, e Giuseppe Creazzo, procuratore del capoluogo toscano.

Dottor Palamara, perché queste “tensioni” sulla nomina del procuratore di Roma e, in generale, ogni volta che si deve nominarne uno?

«I pm sono i “front runner” della magistratura. A torto o a ragione è così».

Cerchiamo di spiegare il perché.

«Il pm è ruolo di potere grandissimo. Rappresenta la pubblica accusa ma è un magistrato. Con tutte le garanzie e guarentigie del caso.

Autonomo e indipendente…

«Sì. E ha il controllo pieno della polizia giudiziaria. Penso che chiunque comprenda cosa significhi avere il controllo della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza. Vuol dire scegliere a quale forza di polizia far fare le indagini, dettarne i tempi, stabilire i criteri di priorità».

E poi ci sono i giornalisti…

«Il procuratore è l’unico titolato ad avere i rapporti con la stampa. La sapiente gestione degli organi d’informazione assicura la grancassa mediatica e la conseguente visibilità».

Dopo di lei alla presidenza dell’Anm si sono succeduti solo pm…e di ognuno di loro tutti sapevano quali indagini avessero condotto.

«Esatto».

Quando il sistema è definitivamente esploso?

«Si riferisce al potere delle correnti?»

«Nel 2007. Con la riforma dell’Ordinamento giudiziario che introdusse la temporaneità degli incarichi. Un procuratore adesso può rimanere al massimo otto anni, poi deve lasciare».

Il legislatore, conoscendo il potere del pm, ha tentato di arginarlo.

«Questa riforma trasformò i generali in soldati e i soldati in generali. Prima del 2007 una volta nominato procuratore rimanevi fino alla pensione. Con la temporaneità dell’incarico non più. Dopo aver diretto uffici importati molti non hanno voglia di tornare indietro. Oggi “comandi” e domani vai a fare il turno».

Quindi il carrierismo sfrenato è anche frutto di questa legge?

«Certo, soprattutto se si diventa procuratori da giovani. Le aspettative aumentano in maniera esponenziale. Bisogna dirlo chiaramente e non prenderci in giro. A oggi non c’è allo studio alcun sistema diverso per la nomina dei dirigenti».

Le correnti, da luogo di elaborazioni culturale, sono ora soggetti politici che si comportano come tali.

«Vuoi il mio voto? Cosa mi dai in cambio?»

Sì, questo.

«Il sistema è andato in tilt per tutti. Anche per le correnti maggiormente ideologizzate. Ovvio che se devo scegliere un magistrato per un incarico devo anche tenere conto di chi mi ha dato il voto. Cerchiamo di non essere ipocriti».

Dalle chat emerge che le correnti si impegnavano sui territori ma era fondamentale portare a casa “qualcosa”. Altrimenti non si raccoglievano i voti. Si organizzavano, ad esempio, la presentazione dei candidati al Csm all’indomani di qualche voto favorevole. Per dire: hai visto? Grazie alla corrente abbiamo ottenuto tot posti.

«È così».

Perché i magistrati non si ribellano a questo sistema infernale?

«È il sistema».

Non esiste un grande manovratore?

«No. Il sistema è ormai congegnato in questo modo. Il magistrato non ha alternative. Se non sei dentro, sei fatto fuori».

Cosa fare per le prossime elezioni Anm?

«Una candidatura senza liste contrapposte. Dare l’Associazione dei magistrati a chi non è stato nelle correnti».

Lei è accusato di aver “tramato” con i politici. Cosa dice?

«Ci sono tanti magistrati che hanno parenti politici e sono sempre rimasti al proprio posto».

La politica condiziona le nomine?

«Si riferisce a Luca Lotti? Trovate una nomina che è stata fatta su indicazione di Lotti. Al Csm i componenti togati sono il doppio dei laici. Sulle nomine il peso di quest’ultimi è relativo. Per certi incarichi poi, tipo magistrato segretario o ufficio studi del Csm, sono solo le correnti, in base ai rapporti di forza, a decidere».

Comunque lei è indagato per corruzione. Ed è fra le prime “vittime” del trojan.

«Che cosa ha scoperto il trojan? Nulla. Chiediamoci invece come ha funzionato».

Si riferisce alla registrazioni ad intermittenza?

«».

Perché?

«Dovranno spiegarlo».

Sa che il suo destino è segnato?

«Mi difenderò fino alla fine».

Luca Palamara, il signore delle nomine che i colleghi dicono di non conoscere. Paolo Comi su Il Riformista il  23 Giugno 2020. Come funzionava il sistema delle nomine al Csm by Palamara, fresco di espulsione dall’Anm? Per capirlo è sufficiente leggere la chat del pm romano con Giovannella Scaminaci, procuratore aggiunto a Messina. La conversazione fra i due inizia il 20 novembre 2017. «Sono il segretario Upc (Unicost, la corrente di centro di cui Palamara era il ras, ndr) di Messina – scrive Scaminaci – Ha avuto il tuo recapito dal pres. Totaro (Antonino, presidente Tribunale di Messina, ndr). Volevo chiederti, anche da parte sua, se potevi darmi notizie sulla trattazione del posto di presidente sezione del Tribunale di Messina. Il pres insiste molto, visto che si tratta del Riesame ed Assise, ed è molto preoccupato data la delicatezza del posto. Il gruppo potrebbe valorizzare Grimaldi (Maria Eugenia, ndr), molto anziana di servizio e con esperienza giudicante a 360°. Altri aspiranti appaiono troppo giovani e forse non ancora pronti per il ruolo». Immediata la risposta di Palamara: «Ti terrò aggiornata ancora non lo abbiamo in trattazione ma cercherò di anticiparlo il prima possibile». Ed infatti, il 13 dicembre: «Per pst domani dovremmo votare. Io sostengo Grimaldi e spero di portarmi dietro gli altri. Ma Area (il cartello di sinistra, ndr) seguita da Magistratura indipendente (le toghe di destra, ndr) vuole andare su Micali (Massimiliano, ndr). Scaminaci è perplessa: «Se non ci sono accordi che però mi sembrano singolari da parte di Mi che odia il tipo… mah». Palamara: «Morgigni (Aldo, esponente dei davighiani al Csm) dovrebbe essere con me». Scaminaci: «Mi locale sostiene che le esigenze di un piccolo distretto come il nostro non possono incidere sulle scelte dell’autogoverno, in sintesi sopporteranno quella scelta ingoiando amaro. Quindi pst Messina è tutto nelle tue mani per ciò che è possibile». Il 21 dicembre 2017, ancora Scaminaci: «Ho parlato con Grimaldi; sarebbe troppo umiliante non avere neanche il tuo voto. Potresti votarla e poi lei revocherebbe per non farsi comparare in condizioni di minoranza. Poi dobbiamo parlare del resto. Ti devo informare di tutte le vicende che ti serve sapere per dare dei segnali di attenzione di Upc sul territorio messinese. Ne abbiamo bisogno!». Palamara: «Rassicurala che oggi la voterò». Ed infatti: «Pst Messina 5 Micali 1 Grimaldi». Con l’anno nuovo Scaminaci riparte alla carica: «È ora di tornare alle nomine messinesi, anche perché dovrei organizzare un incontro con i candidati Csm e vorrei farlo subito dopo qualche risultato significativo per il gruppo». Questo l’elenco: «Presidente sezione lavoro Tribunale Messina; presidente Tribunale Patti, procuratore aggiunto Messina». Sempre Scaminaci: «Per pst lavoro Messina, Area (Ardituro, Antonello consigliere Csm) ha manifestato gradimento sulla prima in graduatoria (la ns Catarsini Beatrice). Volevo informarti subito non si sa mai cambiassero idea. Fammi sapere se mantengono la parola». E ancora: «Poi dobbiamo parlare di Patti e Messina prima che ne discutiate in Commissione. Devi sapere alcune cose importanti sulle intese esistenti e sulle possibilità ulteriori, prima che altri si muovano». Sapendo che Palamara chatta sull’intero territorio nazionale, il 26 febbraio 2018, Scaminaci scrive: «Ti invio un piccolo promemoria su Messina (nomine). I posti sono tre. La cosa migliore sarebbe trattarli insieme nella medesima seduta. Per pst lavoro la ns. Catarsini è la prima in graduatoria ed è molto stimata. La concorrente è una giovane rampante di Mi (Laura Romeo, ndr) di tredici anni meno anziana ma mi auguro proprio che stavolta non si faccia un’ingiustizia. Sarebbe l’ennesima in favore di Mi e certamente la pagheremmo carissima in termini elettorali. Per Patti dovrebbe esserci accordo sul ns. Cavallo (Angelo, ndr), sempre il più anziano e meritevole dei restanti candidati, su procuratore aggiunto Messina il ns candidato è Di Giorgio (Vito, ndr), meritevole per specificità di funzioni. A Messina abbiamo bisogno di conforto. In mancanza, riprendere a lavorare per il gruppo sarà praticamente impossibile». Passa qualche giorno, e capita l’imprevisto. Sempre Scaminaci: «Su pst lavoro Messina ho saputo che da Reggio (Calabria, ndr) ti hanno segnalato Conti (Fabio, ndr) quale candidato Upc. Debbo dirti che per il distretto di Messina la candidata preferibile è la Catarsini. Intanto fa parte del distretto; poi è una vecchia militante Upc che aveva perso fiducia ed è stata recuperata, quindi la sua nomina sarebbe un importantissimo segnale; infine almeno apparentemente su di lei sarebbe stato raggiunto un accordo con Area (se Ardituro non se lo rimangia). Probabilmente a Reggio, in buona fede, non conoscevano le dinamiche messinesi. Era bene che tu fossi informato». Palamara risponde secco: «Conti ha fatto un doppio errore diplomatico: sia Upc sia Area Reggio». Passa qualche giorno e Palamara scrive a Scaminaci: «Purtroppo in previsione di Patti e Messina ho dovuto cedere sulla Romeo». Il 18 aprile è la notte prima del voto. Palamara scrive: «Domani si vota incrociamo le dita: poi ci togliamo qualche sassolino dalla scarpa». «Cavallo unanime Patti, Di Giorgio unanime Messina», comunica Palamara appena terminato il voto in Commissione: la missione compiuta. «Ci terrei lo comunicassi tu a chi in questi giorni si è molto lamentato», aggiunge soddisfatto il signore delle nomine che i colleghi adesso dicono di non conoscere.

Magistratopoli, così sono nate le correnti che hanno cancellato il merito. Giuseppe Di Federico Il Riformista il 11 Giugno 2020. Le confessioni televisive di Palamara sulle disfunzioni generate dal c.d “correntismo” e la lettura delle intercettazioni che ne documentano la diffusione non dicono nulla che le ricerche sul Csm non conoscessero da più di 40 anni. Peraltro già all’inizio di questo secolo, e ricorrentemente nel corso del suo lungo mandato, il Presidente Napolitano aveva condannato pubblicamente e con parole durissime, quel fenomeno, anche per i suoi collegamenti con la politica, sollecitandone l’abbandono. Nei suoi discorsi in Consiglio ha, infatti, definito le modalità decisorie del Csm come «malsani bilanciamenti tra le correnti» e frutto di «pratiche spartitorie rispondenti a interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici». Il fenomeno dell’influenza delle correnti sui processi decisori del Csm è stato, peraltro, ripetutamente e duramente criticato dalle stesse correnti della magistratura. È quindi una condanna unanime del fenomeno cui non si è dato rimedio anche perché manca la volontà di individuarne le principali cause e di adottare soluzioni efficaci. Varie sono le ragioni del cosiddetto “correntismo” e del perché esso sia da vari decenni una componente rilevante e, a mio avviso, ineliminabile delle modalità decisorie del Csm. La principale ragione deriva dal fatto che al momento di decidere tra le domande, a volte numerose, di trasferimento a funzioni direttive e/o a sedi più gradite, la documentazione ufficiale sui singoli candidati spesso non fornisce ai consiglieri del Csm informazioni utili o sufficienti a scegliere chi tra i concorrenti sia il più meritevole. Ciò dipende in larga misura dal fatto che a partire dagli anni 60 il Csm ha, in vario modo, smantellato tutte le preesistenti e competitive valutazioni di professionalità e ha dato a tutti i magistrati valutazioni positive sulla base dell’anzianità, valutazioni positive che, occorre ricordarlo determinano anche il passaggio da una classe stipendiale a quella di volta in volta più elevata. Le valutazioni negative, di regola solo momentanee, hanno variato tra lo 0,9 e lo 0.5%. Questo è avvenuto nonostante l’articolo 105 della nostra Costituzione preveda espressamente che il Csm debba effettuare le promozioni dei magistrati. Il Csm non ne ha tenuto conto ed ha smesso di farle da cinquanta anni circa. Da allora lo stesso termine “promozioni” non appare più nelle decisioni e nei verbali del Csm. Negli altri paesi dell’Europa continentale ove, come da noi, i magistrati rimangono in servizio per circa 40 anni (ad esempio Germania e Francia), si ritiene necessario, per garantire qualità ed efficienza della giustizia, che i magistrati vengano sottoposti periodicamente a sostantive e selettive valutazioni della professionalità nel corso della lunga permanenza in servizio e solo un numero limitato di loro raggiunge i vertici della carriera. Le graduatorie di merito generate da quelle valutazioni limitano drasticamente la discrezionalità nella assegnazione degli incarichi e nei trasferimenti.  Da noi, invece, l’assenza di sostantive valutazioni e di graduatorie di merito rendono formalmente quasi tutti i nostri magistrati altamente qualificati e di grande diligenza. L’unica graduatoria di merito rimasta è quella basata sugli esami di ingresso in magistratura. Di necessità, quindi, le scelte del Csm sono molto spesso caratterizzate da ampi margini di discrezionalità, e non potrebbero non esserlo. Una discrezionalità che ha generato e consolidato nel tempo il cosiddetto correntismo e le disfunzioni ad esso direttamente collegate sotto almeno tre profili. In primo luogo perché l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili e prive di graduatoria di merito da un canto fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio, dall’altro perché spinge i magistrati a considerare l’appartenenza alle varie correnti come condizione necessaria per ottenere decisioni consiliari a loro favorevoli. In secondo luogo perché le decisioni discrezionali, frutto di appoggi correntizi, sono spesso sorrette, nel dibattito consiliare che le precede, da motivazioni insufficienti e contraddittorie. Cosa che ha generato un numero crescente di ricorsi al giudice amministrativo contro le decisioni del Csm: nei tre anni per cui ho dati certi (ero componente del Consiglio) i ricorsi sono stati complessivamente 777. Sono ricorsi che spesso hanno successo e costringono il Csm a modificare le sue decisioni, il che è sovente accaduto anche con riferimento a incarichi giudiziari apicali (come quelli di Presidente e di Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di due presidenti titolari di sezione e del procuratore generale aggiunto della Corte stessa). È un fenomeno che non si verifica in nessun altro paese europeo in cui, come da noi, si prevedono ricorsi al giudice amministrativo (ad esempio in Francia e Germania). In terzo luogo perché l’assenza di elementi di valutazione su cui basare con relativa certezza le proprie decisioni è particolarmente gravosa per i consiglieri laici, i quali per avere informazioni più attendibili sui candidati in lizza non possono che rivolgersi ai consiglieri togati, e finire quindi di necessità coinvolti essi stessi nella morsa del correntismo. Le proposte di riforma avanzate dal Ministro Bonafede non sono certamente in grado di restringere la discrezionalità con cui il Csm gestisce il personale di magistratura e le sue aspirazioni. Né a tal fine egli potrebbe proporre di adottare le stesse soluzioni in vigore nei paesi democratici dell’Europa continentale che non conoscono il correntismo. Proponendo cioè di adottare anche da noi severi vagli di professionalità, graduatorie di merito, e promozioni limitate dal numero di vacanze che si creano ai livelli superiori della giurisdizione. Si tratta di innovazioni per varie ragioni impraticabili anche se giuridicamente possibili (la Costituzione prevede infatti che il Csm effettui le promozioni dei magistrati). Per comprendere l’impraticabilità di una tale proposta basti pensare al solo fatto che il Csm, utilizzando i suoi poteri discrezionali per promuovere i magistrati in base all’anzianità (cosa non prevista da nessuna legge), ha tra l’altro anche consentito a tutti i magistrati italiani di raggiungere i più elevati livelli della retribuzione (più di 8000 euro netti al mese). Toccare questi privilegi in un sistema in cui la magistratura ha da decenni acquisito un incontrastato controllo sulla legislazione che la riguarda è assolutamente impensabile. Aggiungo tre postille.

La prima: nel corso delle mie ricerche sui sistemi giudiziari di altri paesi sono riuscito ad avere informazioni precise sui livelli salariali, ma non in Italia. Non quando ero consigliere del Csm, e neppure successivamente facendo presentare da un parlamentare, l’On. Lehner, una dettagliata interrogazione. La cifra che ho indicato dianzi per le retribuzioni nette negli ultimi anni della carriera l’ho dedotta dalla pubblicazione nel 2008 della busta paga mensile di 7.673 euro netti del Presidente della Corte d’appello di Milano. La cifra un po più elevata da me dianzi indicata (8000 euro) tiene con molta cautela conto del fatto che dal 2008 ad oggi i magistrati hanno ottenuto 4 adeguamenti salariali.

La seconda postilla: una verifica sull’efficacia delle valutazioni sostanziali della professionalità e delle graduatorie di merito come strumento per ridurre la discrezionalità delle scelte fatte dal Csm e con essa anche il correntismo può essere fatta con riferimento ai difficili esami per le promozioni in Appello e Cassazione che si sono tenute fino al 1977, in contemporanea con le promozioni generalizzate effettuate dal Csm a partire dal 1968. Gli 80 vincitori di questi difficili concorsi che avevano sopravanzato i colleghi nella graduatoria del “ruolo della magistratura” fino ad un massimo di 2962 posizioni, hanno sempre visto soddisfatte le loro richieste di incarichi da parte del Csm e nessun ricorso è mai stato presentato contro le loro nomine, nonostante essi abbiano monopolizzato per molti anni le posizioni di vertice sia al livello distrettuale che della Corte di cassazione, cioè le posizioni direttive più ambite. Quel monopolio è caduto solo all’inizio di questo secolo (con la nomina di Nicola Marvulli alla Presidenza della Corte di Cassazione nel 2001 e di Mario delli Priscoli a Procuratore generale della Corte stessa nel 2006), e sono subito iniziati i ricorsi anche per quelle posizioni.

Terza postilla: nella sua determinazione di promuovere tutti i magistrati sino al vertice della carriera il Csm ha sistematicamente valutato positivamente anche la professionalità di magistrati che non hanno svolto funzioni giudiziarie per molti anni, a volte decenni. Con ciò stesso il Csm ha di fatto deciso che neppure l’esperienza giudiziaria è necessaria per valutare positivamente la professionalità dei nostri magistrati. Lo scrivo da molti anni, ma la cosa sembra non interessare nessuno.

Palamara vittima sacrificale per salvare lo strapotere dei magistrati. Fabrizio Cicchitto Il Riformista il 23 Giugno 2020. Sic transit gloria mundi. Nel ‘92-‘94 in Italia prese il potere un nucleo composto dal pool dei pm di Milano, da alcuni direttori di giornali e telegiornali, con annessi cronisti giudiziari: fu quello che uno scrittore francese chiamò “il circo mediatico giudiziario”. Conservarono il potere precedente alcuni signori dei poteri forti economico-finanziari. Entrarono in rampa di lancio per ereditare il potere politico della Dc e del Psi i cosiddetti “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni e altri) e fino agli inizi del 1994 tutto filò liscio come l’olio. Malgrado il sistema di Tangentopoli coinvolgesse tutto e tutti, il circo mediatico giudiziario fece le opportune selezioni: Bettino Craxi dovette rifugiarsi in Tunisia, inseguito da avvisi di garanzia, insulti e monetine, successivamente Andreotti si salvò per il rotto della cuffia da una trentina d’anni di galera per l’omicidio Pecorelli e il concorso esterno in associazione mafiosa, gli altri leader di centrodestra della Dc come Forlani e Prandini furono liquidati, mentre la sinistra Dc fu salvata insieme al Pds nel suo complesso. Sembrava che fosse aperta la via della conquista totale del potere da parte degli eredi del comunismo italiano. Passata però la prima fase di euforia, il gruppo dirigente del Pds, si trovò ingaggiato in uno scontro durissimo poi durato vent’anni con Silvio Berlusconi e la sua geniale invenzione di fondare un partito per tutti i centristi, i moderati, i liberali, e i socialisti riformisti, privati del rispettivo partito di riferimento. Per il Pds-Ds-Pd si è trattato di una via crucis, ancor più dolorosa in quanto inaspettata. L’establishment politico costituito da Ciampi, Prodi, Amato, D’Alema, Veltroni, Violante, con il concorso di menti assai raffinate come quelle di Andreatta, Bernabè, De Gennaro, Bassanini, si trovò ingaggiato in una rissa di piazza e di talk show con un personaggio senza il pedigree culturale di lorsignori ma che però costituì un enorme problema a ogni elezione: una volta vinceva lui e il centrodestra e un’altra Prodi e il centrosinistra ma nulla era mai certo e sicuro. Solo nel 2011-2013 a colpi di spread, di azioni giudiziarie che avevano il retroterra adesso evidente a tutti di interpretazioni retroattive della legge Severino, quell’insopportabile contraddittore fu ridimensionato e emarginato, ma fu sostituito da soggetti ancora più insopportabili come i grillini e la Lega nella versione Salvini. Però in parallelo alla sovrastruttura politica partitica malgrado la contestazione berlusconiana il nucleo di potere giudiziario-mediatico costituito da alcune procure, da alcuni direttori di giornali e telegiornali con annessi cronisti giudiziari, ha mantenuto intatto quello che, per usare il linguaggio gramsciano, più che una egemonia è stato un autentico dominio perché dotato di poteri coercitivi e del massimo potere in assoluto, cioè quello di sputtanare la vita delle persone: Borrelli – che diversamente dal suo campiere Di Pietro ha sempre usato un linguaggio forbito – chiamò il tutto “la sentenza anticipata”. Però l’eccesso di potere finisce col dare alla testa anche ai cervelli più sofisticati. Per di più, il livello della classe politica dal 2018 in poi, si è sempre più abbassato, per cui sono arrivati al potere politico anche soggetti come i grillini, che certamente sono degli ultragiustizialisti ma che poi combinano incredibili pasticci nella gestione del potere, a cui inaspettatamente sono stati chiamati: vedi quello che sta combinando Bonafede come ministro di Grazia e Giustizia. Di conseguenza, anche per questo vuoto della politica, un nucleo d’acciaio di pm distribuiti fra le varie correnti dell’Anm, avendo i loro cronisti giudiziari al seguito, avendo sbaragliato tutti gli altri concorrenti nella gestione del potere, sono entrati in rotta di collisione fra di loro. A quel punto, del tutto inaspettatamente, è scoppiato il dramma: emarginato Berlusconi, silenziati e totalmente subalterni per parte loro gli esponenti del Pd, usati e spremuti come limoni i fanatici e le tricoteuses del M5s, ecco che gli unici dotati di un enorme potere sono rimasti i vari signori della guerra, padroni delle procure, che hanno cominciato ad azzuffarsi fra di loro direttamente o per interposto sostituto, non guardando troppo per il sottile, anzi usando addirittura quell’arma segreta, le intercettazioni, non a caso difese da ogni tentativo di regolamentazione, intercettazioni non solo valide per fatti penali, ma ancor più quando riguardano la vita privata dei singoli. La forza dirompente di quest’arma segreta è aumentata in modo esponenziale grazie alla tecnologia, perché a un certo punto si è passati dalla bomba a mano alla bomba atomica, nel senso che con l’uso del trojan è possibile non solo registrare le telefonate, ma anche ogni momento della vita privata dell’intercettato. È così avvenuto che l’immissione del trojan nel telefonino di Palamara ha avuto lo stesso effetto di un contagiato di coronavirus messo in una Rsa. A quel punto non sono emerse solo le telefonate di un “maneggione” che trattava le cariche, ma è andato a finire in piazza tutto un sistema, quello della contrattazione degli incarichi dei magistrati, realizzata fra capi corrente dell’Anm e plenipotenziari delle correnti dei partiti, con il concorso e la consulenza dei cronisti giudiziari. Questo sistema non è stato certamente inventato da Palamara ma è in atto almeno dagli anni Settanta con un degrado successivo perché è avvenuta una crescente estensione della lottizzazione e un forte depauperamento del confronto culturale tra le correnti assai vivo negli anni Sessanta e Settanta. Ora non c’è niente di peggio che quando un potere riservato viene messo in piazza, oppure quando integerrimi padri di famiglia vengono ripresi da un cinefilo mentre insidiano la cameriera. Allora ecco allo stato la condizione della magistratura associata (sia ben chiaro, non di quella inquirente e giudicante che butta l’anima nei processi e nelle inchieste): è in una condizione assai simile a quella dell’Integerrimo signore con l’aggravante che adesso esiste un sistema di intercettazioni che mette in evidenza che quasi a ogni piano del Palazzo dei Marescialli si svolgeva la stessa scena con diversi protagonisti. Non crediamo che il problema possa essere risolto solo intimando ad abbandonare il caseggiato all’infuori o del terzo piano. Fuor di metafora, se la magistratura – parte della quale dagli anni Novanta sta gestendo il potere con una durezza e una arroganza straordinari, anche perché sostenuta da giornali, telegiornali e talk show, – pensa di risolvere il problema intimando a Palamara di abbandonare lo stabile mentre tutti gli altri rimangono al loro posto, fa un gravissimo errore perché non c’è niente di peggio, quando il re è nudo, spiegare invece che si tratta solo di un equivoco. Diciamo tutto ciò perché, al di là delle miserie degli attuali detentori del potere mediatico-giudiziario che si trovano circa nelle stesse condizioni nelle quali essi stessi negli anni Novanta misero una larga parte della classe politica, c’è il problema del ruolo e del prestigio della magistratura che è fondamentale in una democrazia liberale e in uno Stato di diritto. Ora, il pm Di Matteo per vendetta si fa usare da Giletti, altri hanno teso a Palamara una imboscata per una contesa sulla assegnazione della Procura della Repubblica di Roma, non rendendosi conto che in quel modo facevano crollare tutto il Palazzo: al di là di questo e di altro, c’è il problema della magistratura e della sua credibilità. Se dopo aver ridotto, grazie al colpo del ‘92-‘94 la classe politica nelle condizioni che oggi vediamo, avviene la stessa cosa con la magistratura, non sappiamo proprio che fine farà l’Italia. Tutti coloro che oggi dileggiano Giuseppi, non si rendono conto che l’Italia si è dovuta aggrappare a un avvocato di medio livello perché aveva eliminato tutta la classe politica dotata di cultura e di credibilità.

Respinta la richiesta di audizione. Palamara cacciato dall’Anm: “Espulso da chi veniva da me a chiedere aiuto”. Redazione su Il Riformista il 20 Giugno 2020. “Ha commesso gravi e reiterate violazioni del codice etico: è per questo che l’Associazione nazionale magistrati ha decretato l’espulsione del pm romano Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione”. È la prima volta che un provvedimento così drastico viene assunto nei confronti di un ex presidente dell’Anm. “Ognuno aveva qualcosa da chiedere, anche chi oggi si strappa le vesti. Penso ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unicost, o addirittura ad alcuni di quelli che siedono nell’attuale Comitato direttivo centrale e che hanno rimosso il ricordo delle loro cene e dei loro incontri con i responsabili Giustizia dei partiti di riferimento“, è l’attacco di Palamara contro i suoi ex colleghi. “Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato ‘regole del gioco‘ sempre più discutibili. Ma dev’essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo”. Dichiarazioni presenti nella memoria che avrebbe voluto presentare al Comitato direttivo centrale dell’Anm che all’unanimità questa mattina aveva respinto la richiesta del pm romano Luca Palamara di essere ascoltato. Il parlamentino delle toghe si è poi pronunciato sulla richiesta del collegio dei probiviri di espellerlo dall’Anm, di cui in passato Palamara è stato presidente. “Mi è stato negato il diritto di parola. Nemmeno nell’Inquisizione“, è stato il commento dell’ex pm. Solo qualche giorno fa Palamara aveva chiesto di essere ascoltato per poter chiarire la sua posizione. Ma il Comitato direttivo centrale ha ritenuto che questa audizione non si potesse compiere perché non è previsto dal suo statuto. L’audizione può avvenire solo davanti al collegio dei probiviri, dinanzi al quale Palamara non si è mai presentato.

L’Anm replica a Palamara: «Non lo abbiamo sentito perché nostro statuto non lo prevede». Il Dubbio il 21 Giugno 2020. Con una nota della giunta, l’associazione di cui il pm era stato presidente spiega di aver espulso il collega senza dargli la possibilità di un’ultima autodifesa per coerenza con le norme interne. Ma anche perché «Palamara era stato già ascoltato dai probiviri e non aveva mai risposto sulle cene all’hotel Champagne». «Non lo abbiamo sentito perché il nostro statuto non lo prevede». Punto. L’Anm, come organismo, non ha altro da replicare, per ora, alle nuove bordate dell’uragano Palamara, alle accuse rilanciate dall’ex presidente dell’associazione, in queste ore, dopo esserne stato espulso nella riunione di ieri. Luca Palamara ha pronunciato diverse chiamate in correo nelle conversazioni pubblicate stamattina da Repubblica, dal Fatto e dalla Verità: per esempio nei confronti di Eugenio Albamonte, che ha già annunciato querela, o di Giuliano Caputo, che del “sindacato” delle toghe è attualmente il segretario.«Un giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione», si legge dunque nella nota diffusa dalla giunta dell’Anm, «ancora di più quando ne è stato presidente. Il dottor Palamara non è stato sentito dal Cdc», il “parlamentino” dell’associazione, «semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni». In realtà sembra abbastanza chiaro che la scelta di non accogliere, nella riunione di sabato, la richiesta avanzata da Palamara di poter pronunciare un estremo atto autodifensivo sia derivata da rischio che Palamara potesse sferrare in assemblea le stesse “accuse” lanciate poi dai giornali, con la conseguente trasformazione della riunione in una vera e propria corrida. «Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente: è stato sentito dai probiviri, e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati», incalza, nella propria nota, la giunta dell’ Anm. «Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo». Palamara, sostengono i suoi colleghi, «cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti: la contestazione riguardava gli incontri notturni all’hotel Champagne e l’interferenza illecita nell’attività consiliare, fatti purtroppo veri, e per questo sanzionati».

«Difesa negata a Palamara». Il difensore del magistrato replica all’Anm. Il Dubbio il 27 giugno 2020. Ecco la lettera inviata ai vertici dell’Anm da Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Luca Palamara nel procedimento dinanzi all’associazione. Di seguito la lettera inviata giovedì ai vertici dell’Anm da Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Luca Palamara nel procedimento dinanzi all’associazione. Carissimo Presidente e carissimi colleghi, ho letto con molta sorpresa ed altrettanta amarezza il Vostro comunicato in data 24.6.2020 tuttora presente sul sito dell’Anm. Non mi sarei aspettato che, in risposta ad una mia intervista al quotidiano il Dubbio che conteneva, tra l’altro, legittime critiche ad una decisione assunta dal C. d. c. con particolare riguardo alle procedure adottate, mi venisse replicato di avere reso affermazioni false. Al di là dei toni utilizzati nei miei confronti che mi sembrano un po’ sopra le righe e non in linea con l’abituale dialettica associativa alla quale da tanto tempo partecipo anche con molti di Voi, mi permetto di rilevare quanto segue. Al contrario di quanto da Voi affermato, nella mia intervista non si dice affatto che la proposta del Collegio dei Probiviri e la delibera del Comitato direttivo centrale si fonda su articoli di stampa; viceversa io ho affermato che il dott. Palamara si è potuto difendere davanti al Collegio dei Probiviri sulla base di una contestazione che faceva riferimento a notizie tratte da articoli di stampa ( nota indirizzata al dott. Palamara a firma del presidente del Collegio del 22.7.2019 prot. 31/ 19/ BDM/ es); non a caso, in quella sede nel corso dell’audizione del dott. Palamara tenutasi in data 2.3.2020, ho eccepito il difetto della contestazione, per la mancata specificazione dei comportamenti attraverso i quali si sarebbero consumate le plurime violazioni del codice etico addebitate allo stesso dott. Palamara ( verbale audizione del dott. Palamara dinanzi al Collegio dei Probiviri in data 2.3.2020). È vero, allora era già stata acquisita da parte del Collegio dei Probiviri l’ordinanza cautelare emessa dalla sezione disciplinare del Csm ed era conosciuta la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione con la quale era stato respinto il ricorso proposto dal dott. Palamara; ma di detti atti non vi era alcuna menzione nella suddetta contestazione elevata dal Collegio dei Probiviri al dott. Palamara. Evidenziavo, quindi, che solo attraverso le conclusioni del Collegio ( atto a firma del presidente del Collegio del 2.3.2020 comunicato mio tramite al dott. Palamara solo in data 12.6.2020), quelle contestazioni, inizialmente del tutto generiche e tali da non consentire un’adeguata difesa, si erano poi materializzate nella descrizione dei comportamenti contestati; proprio in ciò, a mio avviso, poteva giustificarsi la richiesta avanzata dal dott. Palamara di rendere dichiarazioni dinanzi al Cdc, richiesta, peraltro, già preannunciata dinanzi al Collegio dei Probiviri. In sostanza, pare evidente che al dott. Palamara è stato negato il diritto di difendersi rispetto a comportamenti questa volta ben dettagliati e circostanziati per come descritti nelle conclusioni dei Probiviri al Cdc. Ed è stata negata anche al sottoscritto la possibilità di intervenire al Cdc per illustrare le ragioni sottese alla richiesta del dott. Palamara; ciò ha determinato la necessità dell’intervista, resa peraltro, nonostante la forte attenzione mediatica alla vicenda, esclusivamente ad un quotidiano particolarmente attento alle problematiche attinenti al funzionamento della Giustizia ed alle attività delle componenti delle associazioni di categoria coinvolte. Mi sembra ancora necessario precisare che il procedimento disciplinare a carico del dott. Palamara dinanzi al Csm non è stato affatto definito, essendosi esaurita solo la fase cautelare ed i rinvii della trattazione del procedimento dinanzi al Collegio dei Probiviri sono stati determinati, come può evincersi dai verbali del Collegio, solo da impedimenti dello scrivente o dello stesso dott. Palamara; solo in data 12.12.2019 era stato chiesto, tra l’altro, di attendere il deposito della sentenza della Corte di Cassazione sul ricorso proposto dal dott. Palamara, la cui trattazione era avvenuta all’udienza del 3.12.2019. Nulla posso dire sulla strategia difensiva del dott. Palamara nel procedimento che lo riguarda pendente dinanzi alla Procura di Perugia e su eventuali acquisizioni di atti da parte dell’Anm; viceversa, come a Voi certamente noto, al dott. Palamara, da quell’Autorità giudiziaria, è stata negata, allo stato, la possibilità di acquisire elementi probatori, a suo dire utili, per chiarire i fatti oggetto di contestazione da parte del Collegio dei Probiviri. Alla luce di quanto fin qui esposto e risultante dagli atti in Vostro possesso e dal testo chiarissimo della mia intervista al quotidiano Il Dubbio, Vi invito a rettificare il contenuto del Vostro comunicato in data 24.6.2020, sicuramente frutto di un fraintendimento delle mie dichiarazioni.

Carrelli Palombi: «Negare a Palamara l’ultima difesa: la scelta scellerata dell’Anm». Errico Novi su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Roberto Carrelli Palombi è il collega che ha difeso Palamara dinanzi al comitato direttivo dell’Anm. Roberto Carrelli Palombi è persona elegante. Che sa nascondere con eleganza anche le proprie origini nobiliari ( ha più cognomi di quanto sembri). È stato un leader storico di Unicost, la corrente di Luca Palamara, ma nessuno ha osato sfregiarlo a colpi di intercettazioni. È stato il difensore tecnico di Palamara nel procedimento “deontologico” dinanzi all’Anm, ma si permette di dire, in questa intervista, che si dissocia «profondamente» dalle accuse indiscriminate che ora il suo assistito rivolge all’intera magistratura. È presidente di Tribunale, a Siena, ma non per questo ha pensato di snobbare ( come altri fanno) l’attività associativa. Insomma, Carrelli Palombi è persona sufficientemente libera per dire esattamente quello che pensa. Anche quando definisce così la scelta di negare a Palamara un’ultima difesa dinanzi al “tribunale” che sabato scorso ne ha deliberato l’espulsione dall’Anm: «Scellerata».

Perché scellerata?

«Mi permetto di dirlo a un quotidiano particolarmente sensibile alla tutela del diritto di difesa. Ho assunto la difesa tecnica di Palamara nel procedimento conclusosi dinanzi al comitato direttivo centrale dell’Anm e davvero non trovo un solo ragionevole motivo per negargli la possibilità di parlare per ultimo, come credo dovrebbe spettare a qualsiasi persona accusata in qualunque tipo di procedimento a suo carico».

Partiamo da un dato generale. In un’intervista al Dubbio, Flick ha sostenuto che il codice deontologico è stato ignorato per anni dalla magistratura. C’è il rischio che ora alle sanzioni deontologiche appunto, come per Palamara, si faccia ricorso in una prospettiva da resa dei conti?

«Giovanni Maria Flick è figura autorevolissima. Va data particolare attenzione a quanto dice. A me sembra che negli ultimi anni ci sia stata una scarsa attenzione alla deontologia all’interno della magistratura. Non mi pare che finora la reazione dell’Anm sia stata adeguata. Le proposte che provengono ora dai suoi vertici sono le stesse da me avanzate anni fa nelle vesti di segretario generale di Unicost: riforma elettorale del Csm, limiti al rientro da incarichi politici e fuori ruolo, criteri meglio definiti per orientare le nomine del Consiglio. Non mi pare esaustiva neppure la pur motivata affermazione del presidente Poniz secondo cui esiste in magistratura una questione morale grande quanto una casa: certo che è così, ma davvero riteniamo sia solo colpa di chi recepiva le affannose ricerche di raccomandazione? Forse dobbiamo riflettere anche sul comportamento di chi quelle raccomandazioni chiedeva».

Prima di venire al dunque del Palamara zittito: ma com’è che la magistratura è finita in una spirale simile?

«Guardi che l’esasperata ricerca di occasioni e scorciatoie per la carriera, l’adesione a un gruppo che potesse favorirla, sono fatti non nuovi che risalgono quanto meno al libro “Diario di un giudice” di Dante Troisi, già citato da autorevoli colleghi in questi giorni. Parliamo degli anni Cinquanta. Solo che allora con la carriera c’era in ballo pure un incremento della retribuzione. Oggi, com’è noto, fare carriera non produce vantaggi economici, solo un maggiore prestigio. Credo che un buon antidoto possa consistere nel promuovere una più realistica concezione della carriera dirigenziale. Da consigliere di Cassazione lavoravo tantissimo, ma da quando sono presidente di Tribunale devo fare i conti con un’enorme mole di incombenze che si affianca al lavoro giudiziario al quale il dirigente non può sottrarsi. Anche un magistrato che ricopre un incarico semidirettivo deve nello stesso tempo continuare a fare il giudice e svolgere la funzione di coordinamento della sezione alla quale è assegnato. Se si ha un’idea simile dell’incarico direttivo, forse si perde anche un po’ l’ossessione per la carriera».

Con la scelta di non dare la parola a Palamara, sabato scorso, lo si è di fatto rappresentato come principale responsabile al punto da mettere in ombra le degenerazioni generali?

«Ho definito la scelta scellerata perché non sussisteva alcun ragionevole motivo per impedirgli di parlare. Oltre a ciò, la decisione è stata adottata da un comitato direttivo la cui rappresentatività della categoria si era molto ridimensionata».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che l’attuale direttivo è in prorogatio perché l’epidemia ha imposto il rinvio delle elezioni da marzo scorso al prossimo ottobre. E anche perché rispetto all’insediamento di quattro anni fa il comitato stesso ha visto subentrare, in ben 22 casi su 36, i primi dei non eletti, dopo che altrettanti componenti avevano lasciato, per varie ragioni, l’incarico. Spesso chi ora è nel direttivo come subentrato aveva raccolto, nel 2016, non più di una cinquantina di voti, a fronte degli oltre 300 del collega avvicendato. Mi chiedo se una decisione così grave come quella di impedire all’incolpato il diritto all’ultima parola poteva mai essere assunta da un organo dalla così indebolita rappresentatività».

È stato obiettato che lo Statuto non prevede la difesa davanti al comitato direttivo centrale.

«Non la prevede ma neppure la impedisce, in alcun modo. È stato persino impedito a me di rappresentare, come difensore, le ragioni dell’istanza con cui Palamara chiedeva di essere ascoltato».

È grave negare la parola all’avvocato.

«Palamara ha potuto difendersi davanti ai probiviri, è vero. È quanto mi è stato obiettato. Però all’epoca di quella difesa non si poteva disporre che di contestazioni tratte da notizie di stampa, non da atti di un procedimento. Notizie peraltro diffuse in violazione del segreto istruttorio, cioè illegalmente».

Bene.

«Solo dopo, quelle contestazioni sono state rimodulate in fatti materiali, nell’atto conclusivo dei probiviri. Inoltre Palamara avrebbe potuto finalmente parlarne anche per aprire una discussione più ampia sulle responsabilità politiche per quanto emerso dalle indagini di Perugia, responsabilità senz’altro diffuse e non attribuibili a lui in modo unico. Tanto per intenderci: il dottor Palamara non poteva e non doveva essere assimilato a chi promuove un’associazione a delinquere ex 416 codice penale. Ha interpretato in una chiave senz’altro contestabile il ruolo delle correnti, ma certamente non è stato l’unico, negli ultimi anni, ad agire in tal modo. C’ ancora un’altra controdeduzione».

Quale?

«Gli altri magistrati coinvolti nella vicenda contestata a Palamara si sono dimessi prima di ricevere gli addebiti dal collegio dei probiviri, evitando così l’espulsione perché non erano più soci dell’Anm. Luca Palamara, chiedendo di parlare dinanzi al Cdc, si è esposto alla certezza di essere espulso, in quanto pur essendo intenzionato a rassegnare verbalmente, proprio dinanzi al Cdc, le dimissioni dall’Anm, il Comitato legittimamente avrebbe potuto sospendere la procedura di accettazione delle dimissioni fino alla conclusione del procedimento disciplinare, conclusione che non poteva che essere l’espulsione. Si è scelto di non farlo parlare. Sarebbe stato invece giusto concedergli un’ultima ed effettiva difesa, come peraltro è previsto nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati dinanzi al Csm».

Lei non discute tanto il merito di tale esito, dunque.

«No, ma siamo magistrati. In tutti i processi, anche in quelli di un’associazione privata come l’Anm, la forma è sostanza. L’accertamento deve avvenire secondo un percorso il più rispettoso possibile delle regole e dei diritti di chi viene accusato, perché il postulato del nostro sistema giuridico è che solo il rigoroso rispetto delle regole del giudizio consente il massimo avvicinamento possibile della verità processuale alla verità storica.

È il giusto processo.

«Sì, il giusto processo».

La giustizia (interna) sommaria delle toghe. Errico Novi su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Se la caccia a ogni possibile colpevole, più o meno grande, del cosiddetto caso Procure si traducesse in una sorta di interminabile guerra, sarebbe sì la fine della magistratura per com’è oggi. Nessuna punizione, troppe punizioni. Il dramma della magistratura è il pendolo fra questi due estremi, rischiosissimo perché indefinito. Nel senso che se la caccia a ogni possibile colpevole, più o meno grande, del cosiddetto caso Procure si traducesse in una sorta di interminabile guerra, sarebbe sì la fine della magistratura per com’è oggi. Della sua autorevolezza, del suo protagonismo culturale, probabilmente necessario, del suo governo autonomo e della sua solidarietà interna. Come il ministro Bonafede vuol far presto con la riforma del Csm, così il Csm, il vicepresidente Ermini in primis, vuole accelerare sulle sanzioni. Al punto da ipotizzare l’adozione di provvedimenti amministrativi, quali sono i trasferimenti per incompatibilità, quasi come surrogato provvisorio delle sanzioni disciplinari, tanto potenzialmente numerose da richiedere ancora diversi mesi perché le si possa valutare. È un rischio enorme. La deriva di una giustizia ( interna) sommaria è dietro l’angolo. La strada maestra l’ha indicata Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, in un’intervista pubblicata ieri dal Dubbio. Ha ricordato che esiste un codice etico. E che le violazioni deontologiche non avranno certo la stessa natura di quelle disciplinari, né delle responsabilità penali per le quali Palamara, per esempio, rischia il processo a Perugia. Eppure un eventuale accertato tradimento della deontologia dovrebbe poter costituire, per il magistrato, una minaccia seria. Perché, sempre come ha spiegato Flick, a rigore di norme del Csm potrebbe e anzi dovrebbe avere ricadute sulla carriera. Se anziché trasferire, deportare in massa tutti e 50 i magistrati citati nelle intercettazioni perugine, li si portasse davanti ai probiviri dell’Anm, ci vorrebbero certo tempi non brevissimi, come per le sanzioni disciplinari di Palazzo dei Marescialli. Ma già l’avvio di una valutazione etica sulla condotta di quel magistrato avrebbe fin da subito effetti sulle sue aspirazioni di carriera. Non definitive, ma neppure trascurabili. Sarebbe una strada piu ordinata, logica, coerente. D’altronde, non è detto che si debba per forza essere radiati. Un comportamento semplicemente non ortodosso può costare anche conseguenze meno devastanti, come un richiamo. Non si deve pensare per forza a una giustizia da ayatollah, neppure fra toghe. L’equilibrio, per citare ancora Flick, dovrebbe essere la stella polare. Anche per evitare che la crisi dei magistrati degeneri in una guerra fra bande.

Cosimo Ferri su Luca Palamara: "L'Anm non lo ha fatto parlare perché sa molto più di quanto ha detto". Libero Quotidiano il 23 giugno 2020. “Luca Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire”. Cosimo Ferri è uno dei politici finiti nelle intercettazioni, dalle quali è emerso che rappresentava una pedina importante sulla scacchiera di Palamara. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il deputato di Italia Viva ha avvisato la magistratura del pericolo che incombe su di essa: “La verità è che adesso non c’è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Le cose che ha iniziato a dire e i nomi che ha iniziato a fare? Non serve grandissimo fiuto per capire che non siamo neanche all’inizio”. Ferri però non teme per sé stesso: “Palamara ha chiarito che col sottoscritto c’era un rapporto di amore e odio. La parte relativa all’odio, glielo confesso, mi incuriosisce. Se parlasse e facesse i nomi, per esempio, chiarirebbe perché nel 2012 hanno mandato me, che pure ero stato il più eletto della storia dell’Anm, all’opposizione”. Un argomento che Ferri non ha mai affrontato nelle chat con Palamara: “Certe cose non si chiedono”. Infine il deputato renziano ha espresso il suo parere sulla polemica tra il pm romano e il sindacato delle toghe, che lo ha espulso senza concedergli la possibilità di parlare prima del voto: “Si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo stato. Io l’avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un’accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione”. 

Cosimo Ferri: “Palamara sa molte più cose, se lo faranno parlare qualcuno tremerà”. Il Dubbio il 23 giugno 2020. Per il deputato renziano “Da quando Palamara ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione che ha portato alla sua espulsione”. Di certo Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire. Adesso all’Anm si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo statuto”. Lo dice intervistato dal Corriere della Sera, Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, finito nello scandalo intercettazioni del 2019. ”Parlo da cittadino, non da magistrato o deputato: io – osserva – l’avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un’accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c’è stata una grande accelerazione”. E afferma: ”La famiglia, il dolore che possono procurare le intercettazioni sui giornali. Io ho tre figli. Di tredici, undici e otto anni. Ovvio che leggevo i giornali con una certa apprensione, la mattina. La cosa che fa paura a me è la stessa che temo oggi per lui. La famiglia”. ”La verità – sottolinea – è che adesso non c’è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Francesco Cossiga, che non l’aveva in grande simpatia, lo chiamava Tonno Palamara “. “Se fosse vivo oggi, il presidente emerito magari avrebbe iniziato a stimarlo e a spingerlo ad andare avanti con le sue picconate… Sa, le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Chissà se lo farà”. “Non serve grandissimo fiuto – conclude – per capire che non siamo neanche all’inizio”.

Il magistrato Palamara è stato espulso dall’Anm che lo ha giudicato “colpevole” prima del Tribunale…Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2020. Il magistrato Luca Palamara, attualmente sospeso dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm, è stato già giudicato “colpevole” dai suo colleghi dell’ Anm, ed espulso dal sindacato dei giudici di cui è stato presidente tra il 2008 al 2012. L’ex pm di Roma imputato di corruzione dalla Procura di Perugia dopo la pronuncia dei probiviri del sindacato dei giudici ha chiesto inutilmente di essere ascoltato , ma i suoi colleghi hanno detto di no perché avrebbero dovuto essere gli stessi probiviri che lo hanno giudicato, e non il Comitato direttivo centrale, ad ascoltarlo. Lapidario il commento di Luca Palamara, mentre aspettava la decisione passeggiando davanti al Palazzaccio di piazza Cavour che ospita la Corte di Cassazione ed al sesto piano la stessa Anm: “Mi è stato negato il diritto di parola, nemmeno nell’Inquisizione“. “La richiesta del collega Palamara di rendere dichiarazioni davanti dal Cdc non è stata accolta ai sensi di Statuto, giacché esso assegna non alla fase decisoria, bensì a quella istruttoria, affidata ai probiviri, l’ascolto dell’incolpato e la possibilità di raccogliere sue memorie e documenti. Di tali facoltà il dottor Palamara ha potuto avvalersi compiutamente in quella sede, venendo convocato allo scopo più volte, come da sue richieste”, spiega una nota del Comitato direttivo centrale dell’ Anm. La riunione si è aperta con la presa d’atto di altre dimissioni: quelle di tutti i sette componenti componenti di Magistratura indipendente più quelle di Silvia Albano di Area, dell’ex presidente Francesco Minisci e di Bianca Fieramosca di Unicost, due dei quali erano membri della Giunta. Palamara ci teneva molto a parlare davanti all’intero parlamentino delle toghe. La sua non sarebbe stata una difesa tecnica sulle contestazioni, ma un discorso il cui senso è riassumibile nella chiusa: “Non farò il capro espiatorio di un sistema”. “Io non ho agito da solo” con queste parole che rappresentano un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dei suoi stessi accusatori, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, ammette di aver “fatto parte del sistema delle correnti, quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto. Io non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo“. Il magistrato al centro dell’inchiesta che ha coinvolto il mondo delle toghe, rivendica un passaggio fondamentale: non è solo lui l’artefice della degenerazione rappresentata dal sistema delle correnti. “All’inizio ero animato dal sacro fuoco del cambiamento, perché ovviamente anche io mi rendevo conto che era un meccanismo infernale, dal quale però mi sono lasciato inghiottire. Ma ciò non per sete di potere bensì in una logica – che oggi riconosco, comunque, erronea secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli. Ma il fine, ora non posso non ammetterlo, non giustifica mai i mezzi”. “Responsabilità non è soltanto mia”. Nel suo discorso Palamara ribatte: “Le nomine dei dirigenti giudiziari sono il frutto di estenuanti accordi politici. Talvolta essi conducono alla designazione di persone degnissime e meritevoli di ricoprire i posti per cui hanno fatto domanda. Nella consiliatura a cui ho preso parte, sono stati nominati più di mille nuovi dirigenti. E tra essi – alla guida delle Procure di Milano, Napoli, Palermo (solo per citarne alcune) – magistrati di grande valore come Francesco Greco, Giovanni Melillo, Franco Lo Voi“. Palamara ammette che in “alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza. Dei risultati virtuosi di quella esperienza consiliare non ho la presunzione di dirmi l’artefice, ma solo un testimone. Degli altri che non hanno risposto a questa logica sento, invece, il peso della responsabilità. Che però non è soltanto mia”. Nel suo discorso Palamara non si difende dalle contestazioni:  “Sugli aspetti deteriori del correntismo e sulle vicende che mi hanno riguardato all‘hotel Champagne devo potermi difendere nella competente sede disciplinare e spiegare quando sarà il momento a tutti i magistrati le mie ragioni e lo stato d’animo che mi ha accompagnato in quei giorni. Non posso farlo oggi perché  per difendermi ritengo di dover utilizzare  tutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mette a mia disposizione. Non mi sottrarrò alle mie responsabilità su questi fatti: oggi posso dire che ho sottovalutato le mie frequentazioni di quel periodo perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile”. Dichiarazioni queste che contrastano sulle valutazioni dei pm di Perugia, che non la pensano nella stessa maniera mandandolo a processo dinnanzi al Gip...Oggi l’ Anm doveva affrontare anche le espulsioni delle toghe coinvolte nell’inchiesta di Perugia e che si sono già dimesse un anno fa dal Csm. Ma per tre di queste, i magistrati Antonio Lepre e Corrado Cartoni della corrente di Magistratura indipendente e Luigi Spina di Unicost , è stato applicato il “non luogo a procedere”, votato affermativamente dal Comitato direttivo centrale, in quanto le tre toghe si erano già dimessi dall’Anm.  Un vecchio trucco procedurale per non essere espulsi. Il pm milanese Luca Poniz, esponente della corrente di sinistra di Area, che attualmente è al vertice dell’Anm, il sempre più squalificato sindacato dei magistrati, , in apertura del Comitato direttivo centrale che doveva decidere sull’espulsione di Luca Palamara, ha citato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo sferzante discorso di giovedì, ricordando le sue parole “Esiste una gigantesca questione morale che riguarda il senso stesso della magistratura” . Paniz è allineato all’ analisi del Capo dello Stato quando ha detto che “la stragrande maggioranza dei magistrati italiani è estranea alla modestia etica” rivelata dall’indagine di Perugia sull’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.  L’ attuale presidente dell’ Anm ha subito parlato dell’inchiesta di Perugia, che ha svelato i traffici delle toghe sugli incarichi, e manifestando l’immediata presa di distanza della stessa Anm, ha parlato di “momento difficile“, auspicando un necessario rinnovamento dell’ Associazione dei magistrati. Nonostante tutto ciò Poniz ha detto, “l’ Anm svolgerà comunque il suo compito in modo coerente con la sua tradizione” aggiungendo “un anno dopo, altri pezzi di dialoghi, svelano un diffuso carrierismo e correntismo, le influenze su Csm, le relazioni improprie, che avevamo denunciato subito dopo l’esplosione del caso di Perugia, denunciando la portata sistemica dei comportamenti“. “Adesso – dice Poniz – siamo chiamati tutti a una rifondazione, a partire dalla responsabilità dei singoli. L’Anm, già da tempo e anche al congresso di Genova (ottobre 2019) aveva invitato la politica a intervenire con urgenti riforme. “Abbiamo proposto la modifica del sistema elettorale per garantire la più ampia rappresentatività, viste le critiche feroci sul sistema attuale, di cambiare i criteri per gli incarichi direttivi, due anni per chi dal Csm vuole un posto direttivo, due anni anche per chi è fuori ruolo, no alle porte girevoli dalla politica alla magistratura, criteri rigidamente cronologici per le nomine”.  Riforme che parole i magistrati chiedono, ma che in realtà non vogliono, a partire dalla separazione delle carriere. Fra le toghe da espellere dall’ Anm anche Cosimo Maria Ferri ex esponente di Magistratura indipendente di cui è stato per anni leader, nonché membro togato Csm (fra i più votati) dal 2006 al 2010, deputato eletto nelle liste del Pd, già sottosegretario alla Giustizia nel governo guidato da Enrico Letta ed in quello successivamente guidato da Matteo Renzi, per poi “migrare” ad Italia Viva. Ferri è anche uno dei “protagonisti” delle trattative notturne con il senatore Luca Lotti (Pd) e Luca Palamara per la nomina del procuratore di Roma, partecipando all’ incontro in stile “carbonaro” dell’8 maggio 2019 all’Hotel Champagne, adiacente a Palazzo dei Marescialli (sede del Csm) rivelato dal Trojan inoculato dai tecnici del Gico dalla Guardia di Finanza su disposizione della Procura di Perugia nel cellulare di Palamara. In quel momento il senatore Lotti era indagato dalla procura di Roma per l’inchiesta “Consip“. Tutti i magistrati coinvolti vennero deferiti ai probiviri, e la richiesta di espulsione è stata formulata per tutti, ma la maggior parte di loro si sono nel frattempo dimessi dall’Anm. Non Palamara che passerà probabilmente alla storia della magistratura per essere stato il primo ex presidente dell’Anm ad essere espulso. Ferri per non farsi espellere sostiene di non essere più iscritto all’Anm e di non versare più le quote, venendo smentito dalla segreteria amministrativa dell’ associazione dei magistrati che ha verificato che anche questo mese c’è stata la trattenuta sullo stipendio di Ferri. Marcello Basilico, magistrato di Area che presiede i lavori dell’Anm, ha testimoniato che Ferri nel 2016 a Massa ha votato per le elezioni dell’Anm sostenendo che non era più sottosegretario, ma comunque iscritto al sindacato dei giudici. A questo punto saranno i probiviri a questo punto a decidere per la pressochè certa sua espulsione. Quello che nessuno dell’ Anm ricorda, in particolar modo gli esponenti di Area, è quanti accordi di bottega sono stati raggiunti da loro proprio con la “cricca” di Palamara e le altre correnti sindacali rappresentate al Csm, pur di “piazzare” i loro magistrati, come ad esempio il procuratore di Potenza Francesco Curcio esponente di Area privo dei titoli e requisiti come ha sancito il Consiglio di Stato lo scorso 10 gennaio 2020, la nomina del procuratore Pietro Argentino (Unicost) a Matera concordata con lo scambio per la nomina all’unanimità di Maurizio Carbone (Area) a procuratore aggiunto a Taranto. E potremmo continuare a lungo….

Da adnkronos.com il 20 giugno 2020. Ecco il discorso integrale che il magistrato Luca Palamara avrebbe voluto pronunciare di fronte all''Anm. Il comitato direttivo centrale dell'associazione nazionale magistrati ha negato questa possibilità. L'Andkronos è entrata in possesso del documento e lo riporta integralmente di seguito.

1. Io sottoscritto Luca Palamara, con riferimento alla trattazione del procedimento disciplinare nei miei confronti rappresento quanto segue.

2. Inizio dalla mia vicenda penale. Sono stato originariamente accusato di aver preso € 40.000 per la nomina a Gela del dott. Longo (mai avvenuta perché a Gela venne nominato il dott. Asaro). Per questa vicenda su richiesta del Gico della Gdf di Roma mi è stato inoculato il trojan horse per il reato di corruzione in atti giudiziari e sono stato indagato con gli aw. Amara, Calafiore e con il dott. Longo soggetti con i quali mai ho avuto rapporti nella mia vita. Oggi quell’accusa è caduta perché il trojan non ha trovato fatti corruttivi come correttamente hanno ritenuto i pubblici ministeri ed il gip del procedimento che mi riguarda. Devo rispondere ancora di alcuni viaggi effettuati con Fabrizio Cento fan ti (persona che frequentava mia sorella dal 2006 e con il quale da allora ho intrattenuto un rapporto di amicizia sia in ambito familiare che in ambito istituzionale con magistrati e forze dell’ordine) e dei lavori di rifacimento di un lastrico solare (sul quale pende un contenzioso condominiale) della sostituzione dei vetri di una veranda di 6 mqx3 e di venti coprivasi presso una abitazione non di mia proprietà ma di una persona a me vicina che mi sono limitato ad aiutare in un momento di difficoltà della sua vita. Su questa vicenda per la quale mi viene contestato un asservimento della mia funzione (anche se il gip concorda di non aver mai riscontrato un atto contrario ai doveri di ufficio) mi difenderò nel processo per dimostrare la mia totale estraneità alle residue contestazioni. Le carte del procedimento che mi riguarda sono state depositate ex art. 415 bis c.p.p. contengono ogni notizia utile sulla mia vicenda ed oggi stiamo ancora procedendo all’ascolto di tutti i files audio relativi alle intercettazioni telefoniche e telematiche. Tale ascolto si rende necessario essendo emerse delle difformità tra alcuni audio e la trascrizione dei verbali.

3. Ho iniziato la mia carriera nel 1996. Ho fatto sempre il pubblico ministero: fino al 2007 a Reggio Calabria e poi a Roma. E’ il lavoro che ancora oggi amo e che ho svolto con passione, ispirandomi sempre all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria. Se ho svolto il lavoro di inquirente bene o male non spetta a me giudicarlo, metto ovviamente a disposizione i pareri sulle mie valutazioni di professionalità, ma sicuramente l’ho fatto con impegno e abnegazione anche quando sono ritornato a Roma, in quello che ancora oggi considero il mio ufficio e nel quale a parte le ultime dolorose vicende siamo stati sempre una grande famiglia. E come accade nelle migliori famiglie capita di litigare, di non accettare i consigli giusti e nei momenti di rabbia di esternare il proprio malumore a persone estranee per poi pentirti un momento dopo di averlo fatto.

4. Dal 2007 tanti colleghi (forse sbagliando) mi hanno investito di una funzione rappresentativa. In tale ambito ho fatto parte del sistema delle correnti, quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto. Io non mi sottrarrò alle responsabilità “politiche” del mio operato per aver accettato “regole del gioco” sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo. Quello della rappresentanza è un lavoro totalmente diverso da quello del giudice o del pubblico ministero. Per fare un esempio è lo stesso rapporto che corre tra il leader di una organizzazione sindacale ed il lavoratore che svolge il suo lavoro in una fabbrica. Si viene catapultati in un’altra realtà e personalmente sia la guida dell’ANM che l’attività di consigliere del CSM mi hanno portato ad avere frequenti e costanti rapporti con la politica e con il mondo istituzionale. In questo contesto: non si scrivono sentenze; non si vive nelle anguste stanze che caratterizzano il lavoro del magistrato sommerso dai fascicoli; si passa il tempo a rispondere alle più svariate richieste di quei colleghi che di quel sistema fanno parte; ci si relaziona con gli esponenti degli altri gruppi per trovare estenuanti accordi su chi nominare capo di un ufficio, su chi mandare in cassazione o alla Dna o alla commissione concorso, su come fare comunicati contro questo o quel malcapitato politico di turno. Tutte queste attività - e, in particolare, le nomine dei dirigenti giudiziari - sono il frutto di estenuanti accordi politici. Talvolta essi conducono alla designazione di persone degnissime e meritevoli di ricoprire i posti per cui hanno fatto domanda. Nella consiliatura a cui ho preso parte, sono stati nominati più di mille nuovi dirigenti. E tra essi - alla guida delle Procure di Milano, Napoli, Palermo (solo per citarne alcune) - magistrati di grande valore come Francesco Greco, Giovanni Melillo, Franco Lo Voi. E’ stato il Consiglio superiore del quale ho fatto parte a promuovere un ampio rinnovamento “di genere”, nominando colleghe di valore alla guida delle Corti di Appello di Milano, Venezia, Firenze, Genova (li anche l’incarico di Procuratore Generale è stato conferito ad una donna) e Salerno. E per la prima volta, ad una collega è stato conferito un incarico apicale di legittimità: quello di Presidente del Tribunale Superiore delle Acque. Ma la politica - ce lo ha insegnato un grande intellettuale come Canetti - ha anche un lato oscuro. Fuor di metafora, in alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza. Dei risultati virtuosi di quella esperienza consiliare non ho la presunzione di dirmi l’artefice, ma solo un testimone. Degli altri che non hanno risposto a questa logica sento, invece, il peso della responsabilità. Che però non è soltanto mia. Le chat divenute pubbliche, purtroppo, altro non sono che uno spaccato di questa situazione. Non le ho mai cancellate perché mai pensavo che il mio telefono potesse diventare oggetto di un provvedimento di sequestro. Ognuno aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ancora oggi ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unità per la Costituzione, o addirittura ad alcuni di quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento. Sarebbe bello che loro raccontassero queste storie. Non devo essere io a farlo. Io ascoltavo sempre tutti, anche gli esponenti della politica, esprimevo le mie opinioni in libertà, forse troppa, e poi decidevo con la mia testa da solo come ho sempre fatto in vita mia senza farmi mai condizionare da nessuno e senza mai barattare alcunché. Su questo sono pronto a sfidare chiunque. All’inizio ero animato dal sacro fuoco del cambiamento, perché ovviamente anche io mi rendevo conto che era un meccanismo infernale, dal quale però mi sono lasciato inghiottire. Ma ciò non per “sete di potere”, bensì in una “logica” - che oggi riconosco, comunque, erronea - secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli. Ma il fine, ora non posso non ammetterlo, non giustifica mai i mezzi.

5. Quanto agli aspetti più “ameni” (eufemismo) della mia vicenda, più che le feste la mia passione sin dai tempi dell’uditorato è stata per il gioco del calcio. In questo ambito abbiamo creato una Rappresentativa di Magistrati Italiani che si è cimentata nel sociale con la nazionale cantanti e la nazionale attori. Siamo andati in terra di mafia, di ndrangheta, nei centri di accoglienza e di recupero tossicodipendenti per dare un nostro contributo insieme a gente dello sport e dello spettacolo che ha voluto unirsi a noi. In questo ambito sono nati contatti e amicizie con questi noti personaggi.

6. Sugli aspetti deteriori del correntismo e sulle vicende che mi hanno riguardato all'Hotel Champagne devo potermi difendere nella competente sede disciplinare e spiegare quando sarà il momento a tutti i magistrati le mie ragioni e lo stato d’animo che mi ha accompagnato in quei giorni. Non posso farlo oggi perché per difendermi ritengo di dover utilizzare tutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mette a mia disposizione. Tra questi rientrano anche le questioni processuali attinenti l’utilizzabilità del trojan che insieme ai miei avvocati riteniamo fondamentali in ottica difensiva. Non mi sottrarrò alle mie responsabilità su questi fatti: oggi posso dire che ho sottovalutato le mie frequentazioni di quel periodo perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile. L’idea che si potesse pensare il contrario su di me mi ha fatto diventare un animale ferito e questo mi ha portato spesso ad utilizzare espressioni sbagliate verso colleghi con i quali ho sempre avuto rapporti di stima. I fatti poi mi hanno dato ragione. Sono andato in tv perché i giornali un anno fa titolavano: “corruzione al Csm: Palamara accusato di aver preso 40.000 euro e di aver danneggiato il dott. Bisogni nel disciplinare”. Come ho detto con il recente deposito degli atti della Procura di Perugia queste accuse sono ora cadute e la mia certezza di non aver mai commesso alcuna condotta illecita nella mia attività ha ora trovato conforto nella decisione degli stessi inquirenti. Per questo ho ritenuto doveroso un chiarimento pubblico vista l’ondata mediatica che mi ha travolto e visto che dalla lettura delle carte stanno emergendo delle anomalie nell’utilizzo del Trojan che impediscono di avere una visione realmente completa di tutto quello che è realmente accaduto. D’altra parte ritengo imprescindibile per questo CDC l’acquisizione completa degli atti del procedimento penale che mi riguarda anche perchè l’informativa del 10 aprile del 2019 del GICO della GDF fotografa solo una parte del mondo della magistratura essendo limitata all’ascolto delle telefonate tra il sottoscritto e Ton.Ferri, e più in generale tra gli allora esponenti dei gruppi di Unità per la Costituzione e magistratura indipendente.

7. In questo contesto ritengo convintamente di dover chiedere scusa ai tanti colleghi che nulla hanno da spartire con questa storia, che sono fuori dal sistema delle correnti, che ogni giorno “evadono” numerosi fascicoli dietro ai quali si annidano vicende personali complesse e che inevitabilmente saranno rimasti scioccati dalla “ondata di piena” che è montata in questi giorni e che rischia, ingiustamente, di travolgere quella magistratura operosa e aliena dalle ribalte mediatiche che rappresenta la parte migliore di noi. Per loro io sono disposto a dimettermi solo se ci sarà una presa di coscienza collettiva ed insieme a me si dimetteranno anche tutti coloro che hanno fatto parte di questo sistema, per dare oggi la possibilità a tutti quei magistrati che ingiustamente ne sono rimasti penalizzati di attuare un reale rinnovamento della magistratura senza infingimenti, senza più tensioni e senza sterili ed inutili contrapposizioni ideologiche. Spero che i prossimi 36 componenti del Comitato direttivo centrale possano essere questi ultimi e che loro stessi possano difendere l’autonomia della magistratura, bene supremo per tutti. Il d.m. 30 maggio 1996 è il mio concorso e lo ricorderò sempre come il più bel momento della mia vita anche se mi ha portato via i due colleghi a cui tenevo di più e con i quali condividevamo l’orgoglio di essere diventati magistrati della Repubblica italiana soggetti soltanto alla legge. Tutto quello che è accaduto in questo anno non ha nulla a che vedere con l’imparziale esercizio della giurisdizione al quale io sempre mi sono ispirato nel rispetto di tutti i cittadini italiani. Non farò il capro espiatorio di un sistema. Roma 20 giugno 2020, Luca Palamara.

Palamara fa i nomi ed è bufera sulla magistratura italiana. Il Dubbio il 22 Giugno 2020. L’ex presidente Anm denuncia il sistema delle correnti. Giulia Bongiorno gli dà ragione, Albamonte lo querela. C’è chi minaccia querela, chi invece chiede l’azzeramento dell’Anm. Insomma, il caso Palamara trascina come un valanga tutta la magistratura italiana. Soprattutto dopo la deciosione dell’ex presidente dell’Anm coinvolto nello scandalo intercettazioni di “fare i nomi”. “Io mi assumo le mie responsabilità. Ma non posso assumermi quelle di tutti”, ha dichiarato Palamara. Che poi ha aggiunto “Non ho agito da solo: il clientelismo all’interno della magistratura non è certo un problema che ho inventato io. Limitarlo solo a me o a un gruppo associativo significa ignorare la realtà dei fatti, o peggio ancora mentire”. “Io sono andato lì per parlare di fronte a chi mi stava giudicando. È un diritto insopprimibile per chiunque”, ha detto parlando della sua espulsione dall’Anm decisa senza che gli fosse data la possibilità di difendesi. Poi Palamara mette sul piatto i nomi: “Su cinque componenti probiviri Anm, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l’altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela. – ha continuato – C’è Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi. Fermo restando il suo indiscusso valore”. “Viazzi, storico esponente di Md, che ho sempre stimato ma che poi sacrificai per la nomina di presidente della Corte di appello di Genova, a vantaggio dell’alleanza con Magistratura indipendente, che portò a preferire al suo posto la collega Bonavia. ha concluso Palamara – Sono loro per primi i beneficiari del sistema di cui solo io oggi sono ritenuto colpevole”.

Albamonte querela. Il primo a reagire alle parole di Palamara è Eugenio Albamonte: “Questa mattina ho ricevuto mandato da Eugenio Albamonte – ha fatto sapere l’avvocato Paolo Galdieri – per proporre querela nei confronti di Luca Palamara. Quest’ultimo, in una serie di interviste lo ha diffamato parlando di fatti mai avvenuti ed in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’On. Donatella Ferranti, già presidente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del Vice Presidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. Così in una nota.

Orlando: riforma del disciplinare delle toghe. “Nei prossimi giorni credo si debba riflettere su una seria riforma del disciplinare dei magistrati, sottraendolo al Csm ed istituendo un’apposita corte che si occupi di tutte le magistrature. Credo sia utile lavorare ad una legge costituzionale che vada in questa direzione coinvolgendo tutte le forze parlamentari”, scrive su facebook Andrea Orlando, vicesegretario Pd.

Cicchitto: vogliono far passare per matto Palamara. “Adesso per chiudere il cerchio e omettere la verita’ manca solo far passare Palamara per matto. La verita’ e’ che il trojan e’ stato messo per boicottare la scelta di Viola a procuratore capo di Roma e non per scoprire episodi di corruzione mia esistiti di Palamara. Chi ha usato il trojan ha fatto ricorso alla bomba atomica per colpire un obiettivo molto delimitato e cosi ha distrutto una intera città vale a dire l’intero Csm e le fiamme si stanno spargendo per tutta l’Anm”, ha dichiarato Fabrizio Cicchitto.

Bongiorno: “Palamara dice la verità”. “E’ corretto quello che dice Palamara: i riflettori sono accesi su di lui ma è poco credibile che il problema riguardi solo Palamara”, dichiara la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno, intervenendo su Radio radicale alla tre giorni organizzata sulla riforma Radicale della giustizia. “E’ verissimo che la stragrande maggioranza dei giudici sono persone per bene,ma un’autoriforma è impossibile perché sarebbe già stata fatta” , ha osservato ancora Bongiorno, che ha poi definito “ridicola” la riforma della giustizia del ministro Bonafede. “Suscita il sorriso che di fronte alle necessarie riforme radicali si risponda con minime modifiche che non impattano su nulla”. “La separazione delle carriere non è più rinviabile- ha aggiunto- A me non basta, vorrei anche la separazione del Csm e il cambiamento dell’accesso in magistratura che oggi non consente una selezione adeguata”.

Luca Palamara punta in alto: "Ricordate le parole di Elisabetta Casellati?", poi fa i nomi del "sistema". Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Luca Palamara è diventato un personaggio mediatico ricercatissimo dopo l’espulsione dall’Anm con annesse polemiche di fuoco con gli ex colleghi togati. In un’intervista rilasciata a Repubblica, il pm romano ha persino tirato in batto Elisabetta Casellati per avvalorare la difesa delle sue posizioni: “Io mi assumo le mie responsabilità, ma non posso assumermi quelle di tutti. Non ho agito da solo. Questo ormai non lo dico solo io, ma anche molti autorevoli commentatori come la presidente del Senato e magistrati di sinistra come Livio Pepino. Riferiscono che il clientelismo all’interno della magistratura non è certo un problema che ho inventato io. Limitarlo solo a me o a un gruppo associativo significa ignorare la realtà dei fatti, o peggio ancora mentire”. Poi Palamara ha fatto nomi e cognomi dei probiviri dell’Anm che, a suo dire, avrebbero usato le correnti per fare carriera: “Su cinque componenti, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l'altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela". E poi c’è “Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi”. Ma non è finita qui, perché Palamara ha lanciato accuse pesanti anche al comitato direttivo centrale dell’Anm: “Mi riferivo ad esempio ai rapporti tra l'allora presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti eletta nel Pd, ed Eugenio Albamonte, pm di Roma e della sinistra di Area, come ad esempio in occasione della nomina del vice presidente del Csm David Ermini o degli avvocati generali della Cassazione”. Fermo restando che per Palamara tutto questo rientra nei “rapporti fisiologici tra magistratura e politica”. 

Da huffingtonpost.it il 21 giugno 2020. Il pm romano Eugenio Albamonte, segretario di Area e in passato presidente dell’Anm, querelerà Luca Palamara, ex presidente dell’associazione magistrati che è stato espulso. Lo annuncia lo stesso avvocato Paolo Galdieri. “Palamara in una serie di interviste rese oggi (a La Repubblica, a firma di Liana Milella, a Il Fatto Quotidiano a firma di Antonio Massari, a La Verità a firma Giacomo Amadori) lo ha diffamato - spiega Galdieri - parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. Pochi minuti dopo la notizia dell’espulsione dall’Anm, Palamara - che era andato al Palazzaccio per chiarire la sua vicenda ma, per una norma statutaria, non gli è stata data la parola - aveva detto “non farò il capro espiatorio”. Parlando con Repubblica ha detto: “Trovo fisiologico che chi ha determinate cariche rappresentative nella magistratura interloquisca con la politica. Ma trovo meno condivisibile che ci siano procuratori della Repubblica che vadano a cena con i politici”, facendo, a questo punto, anche il nome di Eugenio Albamonte.

Estratto dell'articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 21 giugno 2020. «Tanto paga per tutto Palamara ». Cacciato dall'Anm, di cui è stato presidente, l'ex pm di Roma sotto inchiesta a Perugia per corruzione parla con Repubblica . E fa i nomi dei colleghi che, a suo dire come lui, tenevano in piedi il sistema delle correnti. Se Palamara è colpevole tutti sono colpevoli.

Perché?

«Perché Palamara non si è svegliato una mattina e ha inventato il sistema delle correnti. Ma ha agito e ha operato facendo accordi per trovare un equilibrio e gestire il potere interno alla magistratura».

Mattarella farebbe un salto sulla sedia se la sentisse parlare di "potere interno".

«La Costituzione ha voluto che la magistratura fosse autonoma e indipendente. Per esercitare questo potere i magistrati hanno scelto di organizzarsi in correnti che nascono con gli ideali più nobili, ma che storicamente hanno poi subito un processo degenerativo...».

... e quindi lei si ritiene non colpevole perché tutti si comportavano così?

«Io mi assumo le mie responsabilità. Ma non posso assumermi quelle di tutti».

(...) Sì, ma la sua è una chiamata di correo. A chi si rivolge?

«Non è così. So che devo rispondere dei miei comportamenti e di quello che è accaduto all'hotel Champagne. Ma, allo stesso tempo, non posso essere considerato solo io il responsabile di un sistema che ha fallito e che ha penalizzato coloro i quali non risultano iscritti alle correnti. A questi magistrati volevo chiedere scusa».

Palamara, non giriamoci intorno. A fronte delle scuse ci sono delle accuse. Chi, tra i probiviri Anm, usava le correnti per fare carriera?

«Su cinque componenti, tre li conosco assai bene. Sono stati noti esponenti di altrettante correnti. Tra l'altro, il presidente Di Marco, dalle carte di Perugia, è risultato essere il difensore disciplinare di Giancarlo Longo, il magistrato che, secondo le originarie accuse rivoltemi da Perugia, ma poi cadute, io avrei favorito per la procura di Gela».

E poi?

«C'è Gimmi Amato, che nel 2016 venne nominato procuratore di Bologna secondo i meccanismi di cui tanto si parla oggi. Fermo restando il suo indiscusso valore».

Amato la chiamava e le scriveva?

«Né più né meno di quello che hanno fatto tutti gli altri».

E ancora?

«Viazzi, storico esponente di Md, che ho sempre stimato ma che poi sacrificai per la nomina di presidente della Corte di appello di Genova, a vantaggio dell'alleanza con Magistratura indipendente, che portò a preferire al suo posto la collega Bonavia».

Che colpe fa a questi tre?

«Di essere loro per primi i beneficiari del sistema di cui solo io oggi sono ritenuto colpevole».

Quindi questi colleghi avrebbero dovuto astenersi?

«Penso ci avrebbero dovuto pensare prima di far parte di quel collegio».

(...) Quanto al mio promemoria, mi riferivo ad esempio ai rapporti tra l'allora presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti eletta nel Pd, ed Eugenio Albamonte, pm di Roma e della sinistra di Area, come ad esempio in occasione della nomina del vice presidente del Csm David Ermini o degli avvocati generali della Cassazione».

 Un momento, lei sta lanciando accuse pesanti. Cosa ci sarebbe stato di compromettente e illegale in questi incontri?

«Io non sto lanciando assolutamente accuse. Io considero tutto questo come rapporti fisiologici tra magistratura e politica per acquisire ulteriori notizie e informazioni rispetto a quanto scritto nei curriculum che spesso sono sovrapponibili».

Ma sarebbero solo questi i nomi o ce ne sono altri?

«È chiaro che ce ne sono tanti altri. I rapporti di frequentazione tra magistrati e politici non li ho certo inventati io».

Lei però incontrando Lotti e Ferri voleva pilotare la scelta del procuratore di Roma...

«Io non avrò difficoltà alcuna a rispondere a questa domanda. Siccome su questi fatti ho un'incolpazione disciplinare potrò farlo però solo in quella sede, perché su questa vicenda i miei avvocati intendono sollevare tutte le problematiche sull'utilizzo del Trojan».

Sta di fatto che lei vedeva sistematicamente Lotti e Ferri e con loro pianificava le nomine. «Ma io non mi sono mai fatto influenzare da nessuno nelle mie scelte...».

Siamo alla megalomania... allora perché li incontrava?

«Perché Ferri era un magistrato che conoscevo da sempre, con cui ho avuto alterni rapporti di amore-odio. Lotti l'ho conosciuto come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l'ho frequentato con altri magistrati e politici, e anche quando ha cominciato a contare di meno sono rimasto in contatto con lui, né più né meno di quanto avviene con un amico».

Accusa anche i componenti dell'Anm che «forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri» come scrive nel promemoria? I nomi?

«Se penso a Giuliano Caputo (il segretario dell'Anm di Unicost, ndr) penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti. Quanto ad altri componenti del Cdc, penso a Minisci, Ferramosca e Salvadori, si tratta di colleghi che certo non hanno disprezzato questo rapporto di cooptazione. Ma oggi mi rendo conto che c'è una magistratura silenziosa che preferisce non affrontare questi problemi. Tanto paga per tutto Palamara».

Sta chiedendo le dimissioni in blocco di tutti?

«Ognuno risponderà alla sua coscienza. Ma non è giusto che io paghi per tutti e che venga strumentalizzata la mia vicenda penale a Perugia».

Si proclama già innocente anche su quel fronte?

«È caduta l'accusa più grave di corruzione per le nomine al Csm. Dimostrerò che non ho mai mercanteggiato la mia funzione e che non ho ricevuto il pagamento dei viaggi, e la mia estraneità ai lavori di sistemazione di una veranda presso l'abitazione di una mia amica».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 21 giugno 2020. L' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati Luca Palamara ieri ha vissuto il giorno più nero della sua carriera: l' espulsione dall' associazione che aveva presieduto. Per l' appuntamento si era preparato un' accorata difesa di quattro pagine, in cui si leggono frasi come questa: «Ognuno aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione».

Chi sono questi probi viri che si strappano le vesti?

«In particolare mi riferisco a Bruno Di Marco, Giuseppe Amato, detto Jimmy, e Claudio Viazzi Di Marco è un esponente del sistema clientelare catanese, rientra perfettamente nelle logiche clientelari di Unicost, oltre a essere il difensore nel disciplinare di Giancarlo Longo, il mio coindagato nel penale. Quando finiva i disciplinari al Csm, dove faceva il difensore, mi è capitato spesso di trovarlo dentro alle stanze dei giudici».

Viazzi che cosa le aveva chiesto?

«Lui, storico esponente di Md, nulla. Venne fregato quando scegliemmo il presidente della Corte d' appello di Genova. Lì io feci nominare Maria Teresa Bonavia».

Quindi secondo lei aveva il dente avvelenato?

«Non dico questo, io le porto dei dati di fatto».

E Amato, come è diventato procuratore di Bologna?

«Jimmy è un amico, ma con me ha utilizzato quello stesso sistema per cui io sono stato espulso».

Un episodio specifico?

«Oltre a me frequentava in modo assiduo i componenti laici per arrivare all' obiettivo della nomina ed ero io a introdurlo personalmente».

Sono in conflitto d' interessi solo i probiviri? Oggi la segretaria della seduta era Alessandra Salvadori ed è intervenuto ripetutamente il segretario generale Giuliano Caputo. Nel voto contro di lei si è astenuta solo una sua fedelissima, Alessia Sinatra.

«Salvadori e Caputo sono due magistrati che hanno beneficiato del sistema delle correnti e che oggi individuano in me l' unico responsabile».

La Salvadori si era interessata alla nomina del marito, è esatto?

«Forse non se lo ricordava».

Alcuni membri del Cdc, come Bianca Ferramosca e Francesco Minisci, si erano già dimessi da qualche settimana per le chat con lei. Mentre l' ex presidente dell' Anm Eugenio Albamonte, attuale segretario generale di Area, ha assistito al suo processo da dentro all' aula del Cdc al sesto piano della Cassazione.

«Quello di Albamonte è un altro bel capitolo. Come è diventato magistrato segretario del Csm? Come è avvenuto il suo rientro in ruolo alla Procura di Roma?».

Come?

«Non voglio essere impreciso: vada a guardarsi le carte».

Lei parla delle cene e degli incontri «con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento»: a chi pensa?

«Proprio al "compagno" Albamonte. Come io vedevo Cosimo Ferri lui frequentava la parlamentare del Pd Donatella Ferranti per discutere di nomine come quella dell' avvocato generale della Cassazione Francesco Salzano, uno degli scoop della Verità. Le frequentazioni tra magistrati e politici sono sempre state all' ordine del giorno. C' è poi il discorso, inesplorato, dei rapporti tra procuratori e componenti laici. Questi ultimi vogliono avere il dominio sulle nomine e la dipendenza della magistratura dalla politica è un tema che non è mai stato sviluppato».

Oggi ha detto che neanche ai tempi dell' Inquisizione le avrebbe impedito di parlare.

«Il 3 marzo scorso io sono andato davanti ai probiviri con il mio difensore Roberto Carrelli Palombi. Nell' occasione domandai se mi contestassero i contenuti degli articoli di stampa, perché non capivo le accuse.  

Sottolineai pure che quegli articoli erano basati sui brogliacci delle intercettazioni o su sbobinature mal fatte e spiegai che per potermi difendere avrei dovuto sentire gli audio originali. Che sono molto diversi dalle loro trascrizioni, come sto scoprendo in queste ore. Quando ho sollevato il problema, ho anche anticipato che non avrei reso dichiarazioni quel giorno, ma davanti al Comitato direttivo centrale, dove mi sarei assunto le mie responsabilità. Ma mi è stato impedito».

E poi?

«Complice l' uscita delle chat, c' è stata l' accelerazione per farmi male».

Ma lei si aspettava che non l' avrebbero fatta intervenire?

«Assolutamente no. La storia dell' Anm è una storia di libertà, di idee, di opinioni. Nel 1926 il regime fascista sciolse l' Anm perché c' era chi voleva esprimersi liberamente. Nel mio piccolo, anche a me è stato impedito di parlare».

La mozione per impedire al suo difensore di parlare è stata proposta da Giovanni Tedesco.

«Un imputato che si trova come giudice Tedesco, che non ha bisogno di sentire le ragioni dell' accusato, che cosa deve fare, spararsi? Come fa un giudice a dire di non aver bisogno di sentirmi? Siamo di fronte a un principio di civiltà giuridica. Non avevo chiesto di essere assolto, ma di potermi difendere».

Tedesco ha detto che la fase istruttoria era delegata ai probiviri.

«E se io voglio parlare davanti al mio giudice, che è il Cdc e non i probiviri? A mio giudizio avrei dovuto poter prendere la parola oggi, per il ruolo che ho ricoperto e per la gravità delle contestazioni. A marzo non l' ho fatto perché quel giorno non erano formulate pienamente e chiaramente le contestazioni».

Come si sente l' ex presidente dell' Anm a essere espulso dall' Anm?

«Ho provato un profondo dispiacere, ripensando ai tanti sacrifici fatti in quegli anni da presidente».

Il suo ex collega Antonio Ingroia ha detto che lei era stato scelto dal presidente Giorgio Napolitano come possibile ambasciatore per risolvere il conflitto tra il Quirinale e la Procura di Palermo.

«Di questo argomento preferirei parlare in commissione antimafia, dove sono disponibile a farmi ascoltare».

Uno dei suoi sassolini nella scarpa sembra essere stata la scelta del procuratore di Palermo Franco Lo Voi. Gliela suggerì l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone?

«C' era un rapporto molto stretto tra Pignatone e Lo Voi».

Ha parlato di comunicati contro «i malcapitati politici di turno». Si riferiva a Salvini?

«Non solo a lui, è un discorso di carattere generale sulle prese di posizione politiche che in ambito associativo erano frequenti».

Nel discorso che non le hanno fatto pronunciare ha fatto cenno a nomine che hanno seguito solo logiche di potere nelle quali il merito è stato sacrificato sull' altare dell' appartenenza alle correnti, ma che la colpa di queste scelte non era solo la sua. A chi si riferisce?

«A tutti coloro con i quali mi relazionavo per trovare accordi che favorissero la realizzazione di un equilibrio nelle nomine».

I famosi pacchetti?

«Esattamente, che rappresentano l' aspetto più deteriore del correntismo».

Mi fa un esempio?

«Penso alle nomine del Massimario e dei consiglieri della Cassazione o della Direzione nazionale antimafia».

Perché ha scritto di non voler fare il capo espiatorio?

«Perché non posso essere individuato come l' unico responsabile di un sistema che non ha funzionato. Ero uno dei referenti di quel sistema, non il referente. Ogni gruppo associativo aveva il suo Palamara. Ed anche dentro a Unicost le logiche clientelari erano molto diffuse, a prescindere dal mio ruolo. Soprattutto nell' area napoletana e catanese. Ma su questo e molte altre questioni ci sarebbe da scrivere un libro».

Emiliano Fittipaldi per espresso.repubblica.it il 21 giugno 2020. Squadernando le migliaia di chat di Luca Palamara, un fatto sembra chiaro anche al cronista più distratto: il gran visir di Unicost era (e per molti è ancora) uno degli uomini più potenti di Roma. Non solo perché signore indiscusso delle nomine della magistratura italiana, ma pure per essere fondamentale referente dei salotti buoni della Città eterna per questioni giudiziali di ogni tipo e forma. Come  già evidenziato dall'Espresso due giorni fa , la fila davanti allo “Sportello Palamara” è più lunga di quelle della posta all'ora di punta: politici, attori, sportivi, magistrati e – come vedremo – pure vertici dei servizi segreti aspettavano pazienti per un aiuto, un consiglio, una raccomandazione.

Da Zingaretti a Bova fino alla AS Roma: tutti alla corte di Palamara, Mr Wolf della Capitale. Le chat su WhatsApp del pm romano descrivono il sistema di potere del magistrato. Basate su prebende e piaceri. Oltre ai giudici che chiamano per favori e promozioni, tra i referenti ci sono anche vip, politici e ministri. Palamara ottiene una nomina da Zingaretti, fa pressioni per la scorta all'ex titolare del Viminale, intesse rapporti con il dg della Roma Mauro Baldissoni. Palamara è un “facilitatore” dalla rubrica telefonica sterminata, un Mr Wolf infaticabile che risolve problemi H24. Con un modus operandi ben oliato, basato sul classico “do ut des” e sullo scambio di informazioni con il potente di turno. Una merce che nei suk dei palazzi romani ha, da sempre, altissimo valore aggiunto. Perché Luca sarà pure «er cazzaro», come lo chiamano il suo amici e colleghi Giovanni Bombardieri e Massimo Forciniti, ma è fuor di dubbio che nel tempo sia diventato custode dei segreti di mezza città. E di un pezzo importante della classe dirigente del Paese. «Ora il suo regno è finito», chiosano i nemici. È probabile. Ma il pm calabrese indagato a Perugia per una presunta corruzione di funzione in merito ai rapporti con Fabrizio Centofanti (a proposito: nelle chat non c'è traccia del lobbista) ha fatto favori importanti a così tante persone, che sa benissimo che in molti gli devono riconoscenza. Tra i messaggi su WhatsApp più sorprendenti depositati dalla procura umbra qualche settimana fa, ci sono certamente quelli di Alessandro Pansa, ex capo della Polizia e, dal 2016 al 2018, direttore del Dis, il Dipartimento di Palazzo Chigi che coordina le attività operative dei nostri servizi segreti. Pansa scrive a Palamara a partire dal 5 luglio 2017, chiedendo al pm – allora membro del Consiglio superiore della magistratura – informazioni su una pratica di adozione di un bambino bielorusso. Una pratica fatta da un'avvocatessa romana, un fascicolo a cui Pansa sembra tenere molto.

PANSA: «Puoi chiedere qualche informazione sulla vicenda adozione? Pare che si sia fermato l'iter...Mi riferisce l'interessato che al termine del colloquio la dottoressa le aveva detto che la documentazione era sufficiente è che anche la parte dei servizi sociali era definita».

PALAMARA: «Perfetto. Lo comunico subito».

PANSA: «Grazie».

Passa qualche giorno, e il capo degli 007 manda informazioni più dettagliate sull'istanza. Spiega che «da un controllo effettuato in cancelleria e sul terminale la causa (Il numero di ruolo è....) è presso il giudice relatore, la Dottoressa Scribano, in attesa della camera di consiglio». L'ex poliziotto segnala poi il nome di chi ha fatto l'istanza per l'adozione di un bambino nato in Bielorussia, e termina il messaggio con un «Grazie infinite». A settembre 2017, dopo qualche incontro vis à vis, colazione a tre con “Giovanni” «con caffè e cornetti con la crema», messaggi tranquillizzanti del direttore del Dis sulla scorta a cui Palamara tiene molto («per il momento hanno prorogato scorta fino al 30/9 e poi si riesaminerà situazione»), l'epilogo della pratica di adozione sembra positivo.

PANSA: «Estratto della sentenza è agli atti della commissione per le adozioni che ha accettato la domanda. Insomma tutto a posto. Grazie tantissimo da parte di tutta la famiglia».

PALAMARA: «Benissimo!!! Un abbraccio e a presto per festeggiare».

PANSA: «Certo».

Se Pansa bussa allo sportello Palamara per velocizzare la burocrazia per un'adozione, l'ex deputato Ignazio Abbrignani, vicinissimo a Denis Verdini, all'inizio del 2018 chiede invece a Palamara «riscontri in merito al documento che ti ho dato». Sentito al telefono, Abrignani ci racconta che ha conosciuto il pm al «Futbol Club dove lui si allenava». Non ricorda bene il documento, «mi pare fosse un parere su un atto civile che dovevo fare». Se delle conversazioni e chat con politici come Luca Lotti, Cosimo Ferri, Nicola Zingaretti e Marco Minniti abbiamo già dato conto in passato, anche la lista dei magistrati di peso che chiedevano favori al re di Unicost è sterminato. Le chat pubblicate dai giornali nei giorni scorsi stanno terremotando non solo il Csm, ma anche l'Associazione nazionale magistrati, le correnti di sinistra (nemmeno sfiorate dalle intercettazioni pubblicate un anno fa, oggi anche loro protagoniste di mercanteggiamenti vari) e – grazie a chat inedite – pure i vertici dei più importanti uffici giudiziari italiani. A Roma, per esempio, un gip importante come Gaspare Sturzo (finito in prima pagina qualche mese fa perché, a febbraio 2020, ha ordinato alla procura di Michele Prestipino nuove indagini su Tiziano Renzi e altri indagati del caso Consip, respingendo la richiesta di archiviazione degli inquirenti coordinati da Paolo Ielo) sembra in rapporti strettissimi con Palamara. A luglio 2018 Sturzo domanda al potente collega «qualche notizia sulla mia nomina a sostituto procuratore in Cassazione». Poi, dopo due ore, spiega perché sarebbe proprio lui il miglior candidato possibile.

STURZO: «Luca: io ho la settima valutazione altri non mi pare. Ho anche i titoli pubblicati e poi Dda Palermo con pentimento Siino e gestione del processo mafia e appalti. Poi ho coordinato le indagini per cattura Provenzano. Con la catturandi ho preso Benedetto Spera, al tempo nr. 2 dopo Provenzano. Ho fatto parte dell’alto commissario anti corruzione, ufficio legislativo presidenza del Consiglio e gabinetto del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dei procedimenti Romani quale GIP E GUP non occorre parlarne perché dovrebbero essere noti al CSM PER LA RILEVANZA. Ti voglio solo dire che De Lucia che era con me a Palermo nei procedimenti citati(ma le carte le facevo io) è procuratore della repubblica di Messina. (Mio stesso concorso). Altro collega coassegnatario era Michele Prestipino. Tuo Gaspare». Il tentativo di spostarsi in Cassazione non riuscirà. I rapporti tra i due rimangono comunque ottimi. Tanto che il 29 maggio 2019, quando Repubblica dà conto dell'iscrizione del registro degli indagati di Palamara a Perugia per corruzione (fascicolo girato dal pool di Ielo in Umbria per competenza) scrive un messaggio di stima:

STURZO: «Luca mi dispiace, ti sono vicino e certo ne uscirai a testa alta».

PALAMARA: «Caro Gaspare. È una guerra».

Anche un procuratore capo come Giuseppe Creazzo, diventato celebre dopo le inchieste della procura di Firenze sugli affari dei genitori di Matteo Renzi e sulla Fondazione Open e l'anno scorso in pole per il dopo Pignatone, telefona a Palamara in caso di necessità. «Creazzo ha scritto su WhatzApp a Palamara solo per le necessità che riguardavano il funzionamento del suo ufficio», chiariscono all'Espresso fonti di Viale Guidoni. Vero. Le richieste di velocizzare l'arrivo di un aggiunto appaiono infatti comprensibili («Carissimo Luca, come sai sono rimasto con un solo aggiunto su tre, la situazione è difficile davvero, ti prego di considerare l'opportunità di deliberare presto sul posto messo a concorso fin da marzo 17. Grazie, un abbraccio»), come pure l'ansia sulla calendarizzazione di alcune nomine come quella dei pm Sandro Cutrignelli e Gabriele Mazzotta («Carissimo Luca scusa se ti disturbo ancora ma qui la sofferenza è grande. Puoi dirmi quando va al plenum la nomina di Mazzotta? Grazie», scrive Creazzo il 19 marzo 2018, chiudendo il giorno dopo con un «Grande!!!Grato»). Di diverso tenore, invece, i messaggi che riguardano altri uffici giudiziari. E quelli sulla promozione di colleghi di Unicost, corrente a cui appartiene anche Creazzo. Il 29 marzo 2018 in chat si legge:

CREAZZO: «Grazie per Reggio Calabria. Sono davvero contento. Buona Pasqua».

PALAMARA: «Sono contento Peppe spero che Tommasina (il magistrato Cotroneo, ndr) e Giovanni (il pm Bombardieri, ndr) si possa dare un bel segnale al territorio. Un abbraccio.

CREAZZO: «Avevamo bisogno di uno come Giovanni, serio equilibrato e capace».

Per inciso, sempre il 29 marzo, la mattina del voto su Giovanni Bombardieri, Palamara si preoccupa già di organizzargli il suo “debutto in società” («Il 20 aprile a San Luca farai la prima uscita come procuratore di Reggio Calabria a San Luca. Con me, Cafiero e il capo della polizia»; giratogli la notizia della nomina, Bombardieri risponde con un «Grande Palamara!»). Mentre le chat tra il magistrato e Tommasina Cotroneo, diventata presidente della sezione penale del Tribunale di Reggio Calabria, rischiano di imbarazzare la magistratura calabrese. La Cotroneo parla infatti malissimo di altri colleghi. Come la rivale Tassone, su cui Palamara chiede informazioni di familiari.

COTRONEO: «E poi devo dirti a questo punto delle cose sulla Tassone visto che si deve giocare con le loro carte. È una persona pericolosa e senza nessuna sensibilità istituzionale con un padre pieno di reati fiscali ed una impossibilità di vedere un suo bene in esecuzione immobiliare a Vibo per le pressioni che evidentemente esercita. Lei peraltro a seguito di una causa civile che la vedeva parte soccombente rispetto ad un vicino di casa ha mandato al giudice civile che aveva la causa una foto wapp con le immagini del suo appartamento e sotto scritto "senza parole" stigmatizzando così la decisione di quel giudice. Quest'ultimo ha raccontato tutto a Gerardis che non gli ha detto di relazionare altrimenti a quest'ora la signorina Tassone sarebbe stata sotto procedimento disciplinare. Fagliele sapere queste cose al suo mentore. Non l'hanno mai voluta la Tassone perché conosciuta da tutti come pericolosa per i suoi tratti caratteriali».

PALAMARA: «Sui reati fiscali del padre mi dai qualche elemento in più? Cosa fa il padre?»

COTRONEO: «Non so di preciso. È un personaggio oscuro. Lei non parla mai del padre. Non pervenuto . Qualcosa mi aveva detto la grasso e sulla esecuzione immobiliare dicono in corte. Sarebbe un presidente di sezione pericolosissimo».

Torniamo a Creazzo. Perché il giorno dopo la promozione di Bombardieri, il 30 marzo, un suo messaggio chiarisce bene l'importanza delle correnti per le carriere dei magistrati:

CREAZZO: «Carissimo Luca oggi ho incontrato Cosimo Ferri che mi ha espressamente chiesto chi preferisco per il terzo aggiunto fra i due di MI. Se la scelta si riduce a questa ristrettissima rosa secondo me Dominijanni è meglio per profilo e attitudini e per la circostanza, che ritengo ancor più decisiva, che non appartiene già a questo ufficio al contrario dell’altro e dunque porterebbe un rinnovamento, cosa sempre positiva. Questo è il mio pensiero, per quel che vale, nell'ovvio rispetto di ogni decisione che verrete a prendere. Ciao».

Giancarlo Dominjanni è dunque il prescelto da Ferri. Che però, oltre a essere grande sodale di Palamara e boss di Magistratura indipendente, tre mesi prima era stato eletto deputato alla Camera dei deputati nelle file del Pd. La Suburra della magistratura nazionale prevede – nonostante conflitti d'interesse evidenti tra i poteri dello Stato - che un procuratore capo come Creazzo debba discutere con un politico dei curriculum dei candidati al suo ufficio. Che, almeno in teoria, dovrebbero essere scelti dal Csm solo per puri meriti professionali. Un altra chat, quella tra Palamara e il fratello di Dominijanni Gerardo (anche lui magistrato) chiude il cerchio:

GERARRDO DOMINIIJANNI: «Ciao Luca state trattando in Quinta Commissione aggiunto a Firenze dove MI porta mio fratello Giancarlo. Area (altra corrente di sinistra, ndr) porta Tescaroli o Pesce. Sinceramente che possibilità ha mio fratello?

PALAMARA: «Grande Gerry, secondo me buone. Dobbiamo però trovare giuste convergenze ci aggiorniamo in serata un abbraccio».

Per la cronaca, la partita il 28 luglio 2018 la vincerà Luca Tescaroli, mentre Giancarlo Dominijanni è ancora sostituto a Pisa.

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2020. «La verità è che adesso non c'è trojan che tenga. Il pallino è in mano a lui. Resta da vedere se e che cosa Palamara avrà voglia di ricostruire, di dire, di raccontare. Francesco Cossiga, che non l'aveva in grande simpatia, lo chiamava Tonno Palamara. Se fosse vivo oggi, il presidente emerito magari avrebbe iniziato a stimarlo e a spingerlo ad andare avanti con le sue picconate Sa, le sue rivelazioni magari aiuterebbero sia la magistratura che la politica a procedere verso una vera separazione dei poteri. Chissà se lo farà. Certo, le cose che ha iniziato a dire e i nomi che ha iniziato a fare? Non serve grandissimo fiuto per capire che non siamo neanche all'inizio». La chiacchierata con Cosimo Maria Ferri era iniziata sotto ben altri auspici. Il deputato di Italia Viva - il terzo nome del tridente, insieme a Palamara e Luca Lotti, finito nelle intercettazioni del 2019, all'alba della grande inchiesta i cui rivoli stanno mettendo in subbuglio la magistratura - usa un tono fermo e cortese per scandire che «io interviste non ne faccio; e poi, mi scusi, ma sto scappando in commissione Giustizia». Dalle ultime dichiarazioni in ordine cronologico dell'ex presidente appena espulso dall'Associazione nazionale magistrati - ieri mattina a Omnibus , su La7 - sono passate poche ore. Nomi e nomine, nomine e nomi. Pedine su una scacchiera di cui Ferri è stato una pedina importante: giovanissimo membro del Csm dal 2006, poi leader di Magistratura indipendente, quindi recordman tutt' ora imbattuto di preferenze alle elezioni dell'Anm del 2012, poi sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. Se Palamara iniziasse a fare i nomi, difficile che «Alt, qui la fermo. Palamara stesso ha chiarito che col sottoscritto c'era un rapporto di amore e odio. La parte relativa all'odio, glielo confesso, mi incuriosisce. Se parlasse e facesse i nomi, per esempio, chiarirebbe perché nel 2012 hanno mandato me, che pure ero stato il più eletto della storia dell'Anm, all'opposizione», ribatte Ferri. Unicost e Area, che con i rispettivi leader Palamara e Cascini avevano guidato l'associazione nel quadriennio precedente, rinnovano il patto ed eleggono Rodolfo Sabelli. Certo, visto che le loro conversazioni negli anni successivi sarebbero tornate ad essere tante e continue - de visu al ristorante o in chat - avrebbe potuto chiederglielo. «Eh no», ribatte il magistrato deputato di Italia Viva, «certe cose non si chiedono. Però sarei curioso di sapere le cose che Palamara avrebbe voglia di raccontare su quel periodo Visto che, ripeto, io venni spedito all'opposizione dell'Anm». La domanda delle domande rimane quasi sospesa nell'aria, mentre Ferri accelera il passo verso l'appuntamento con la seduta della commissione Giustizia. Palamara parlerà oppure no? Siamo all'alba di uno scandalo di proporzioni indefinite oppure nel bel mezzo di un grande bluff? «Questa, in effetti, è una bella domanda», risponde Ferri. Che, per esempio, avrebbe concesso all'ex presidente dell'Anm la facoltà di potersi difendere prima dell'espulsione. «Hanno scelto di cacciarlo senza consentirgli di poter parlare. E adesso sono problemi». Secondo lei, per paura di quello che poteva dire? «Io non ho una risposta a questa domanda. Di certo Palamara di cose ne sa, e parecchie. Molte ma molte di più di quelle che ha iniziato a dire. Vede, adesso all'Anm si trincereranno dietro lo statuto per giustificare la scelta di non consentirgli di difendersi. Ma da un giudice ci si aspetta che usi il buon senso e la terzietà anche andando oltre lo statuto. Parlo da cittadino, non da magistrato o deputato: io l'avrei fatto parlare. E comunque, che ci sia stata un'accelerazione nella scelta di espellerlo è fuori di dubbio. Da quando ha iniziato a parlare in tv e sui giornali, c'è stata una grande accelerazione». C'è anche una questione che riguarda l'uomo, prima ancora che il magistrato. «La famiglia, il dolore che possono procurare le intercettazioni sui giornali. Io ho tre figli. Di tredici, undici e otto anni», scandisce Ferri. «Ovvio che leggevo i giornali con una certa apprensione, la mattina. La cosa che fa paura a me è la stessa che temo oggi per lui. La famiglia».

Giovanni Bianconi per il ''Corriere della Sera'' il 22 giugno 2020. La prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, quella che decide sulla sanzione para-disciplinare dei trasferimento d'ufficio «per incompatibilità ambientale», ha già avviato una ventina di istruttorie preliminari per valutare le posizioni di altrettante toghe che compaiono nelle chat di Luca Palamara. Se gli accertamenti dovessero confermare che le conversazioni e gli argomenti trattati superano soglie di inopportunità e imbarazzo tali da rendere problematico restare nell'incarico ricoperto senza perdere prestigio e credibilità, si potrebbe proporre la rimozione, da sottoporre al plenum dell'organo di autogoverno. Come è accaduto con Cesare Sirignano, già sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, mandato via perché ritenuto coinvolto «nelle intenzioni e nelle strategie» dell'ex pm accusato di corruzione, tra cui il condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Perugia; con espressione di valutazioni e giudizi su colleghi che ne hanno determinato un «appannamento dell'immagine di indipendenza ed imparzialità» che non gli consentiva di rimanere in quell'ufficio. Per Sirignano è in corso anche un procedimento disciplinare avviato dalla Procura generale della Cassazione, come per Palamara e i cinque ex componenti del Csm dimessisi dopo che, un anno fa, sono state diffuse le intercettazioni del loro incontro con l'ex pm e due deputati in cui si mettevano a punto le strategie per nominare un procuratore di Roma gradito ai presenti. Decisioni analoghe per altri magistrati potrebbero arrivare per decisione del procuratore generale Giovanni Salvi, che da un paio di mesi ha messo al lavoro un gruppo di sostituti per analizzare tutto il materiale trasmesso dalla Procura di Perugia. Che a conclusione dell'inchiesta  penale è diventato molto più voluminoso: tutte le conversazioni telefoniche e via chat di Luca Palamara, sia quando sedeva al Csm sia dopo. Fino a maggio 2019, quando è venuta alla luce l'indagine a suo carico. L'attuale Csm, rinnovato per quasi un quarto proprio a seguito del «caso Palamara», attende le determinazioni del pg della Cassazione, ma nel frattempo s' è dato nuove regole e nuove procedure per le nomine. Che hanno determinato scelte considerate di prestigio, a volte sofferte ma comunque trasparenti. A volte all'unanimità, o con maggioranze molto ampie; altre volte frutto di divisioni e dibattiti alla luce del sole e schieramenti diversificati, anche trasversali e non predeterminati. Fra queste ultime ce ne sono tre considerate particolarmente importanti proprio perché più o meno direttamente connesse alle vicende di cui è stato protagonista l'ex pm indagato per corruzione. La nomina del pg Salvi, il titolare delle azioni disciplinari prossime venture, è stata decisa il 14 novembre 2019 con 12 voti a favore (i togati di Area e Autonomia e indipendenza più i laici indicati dai Cinque stelle); 4 e 3 sono andati ad altri due candidati, 5 consiglieri si sono astenuti. Michele Prestipino è stato nominato procuratore di Roma, il 4 marzo scorso, con 14 voti al ballottaggio con un altro candidato, raccogliendo il consenso dei togati di Area e Unità per la costituzione, e 3 su 5 dei consiglieri eletti con Autonomia e indipendenza, più i togati di espressione grillina. Più di recente, mercoledì scorso, Raffele Cantone è diventato procuratore di Perugia grazie ai 12 voti espressi dai togati di Area e i sette laici espressione di Cinque stelle, Forza Italia e Lega (l'unico indicato dal Pd, David Ermini, è vicepresidente e di norma non vota). Maggioranze diversificate, a volte persino risicate. Che hanno dato luogo anche alle spesso evocate «spaccature» in seno all'organo di autogoverno, che però al Csm rivendicano come segnale di libertà di espressione: niente a che vedere come accordi di potere e lottizzazioni.

PALAMARA FINGE DI FARE I NOMI MA SONO QUELLI NOTI (PER ORA). Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 22 giugno 2020. Che un uomo come Luca Palamara, passato in una manciata di giorni dagli altari del potere alla polvere dell'incriminazione, abbandonato e misconosciuto da tutti quelli che gli baciavano la pantofola, perda alla fine equilibrio e lucidità, fa parte dell'animo umano. Così la reazione apparentemente furibonda di Palamara alla sua espulsione dall'Associazione nazionale magistrati, di cui era stato a lungo presidente e leader indiscusso, rischia di venire letta come un gesto scomposto. Perché in una serie di dichiarazioni Palamara tira in ballo con nomi e cognomi una sfilza di magistrati che finora sono scampati ai guai giudiziari e disciplinari che lo stanno travolgendo: e che lui indica invece come collusi o comunque beneficiari del sistema di spartizione delle cariche giudiziarie da parte del Consiglio superiore della magistratura passato alle cronache come «sistema Palamara». Ma se Palamara, come dice ieri qualcuno, «ha dato fuori di matto», bisogna riconoscere che in questa follia c'è del metodo. Infatti se si esaminano con attenzione i nomi che Palamara squaderna dopo avere promesso «adesso faccio i nomi», si scopre che il pm romano (attualmente sospeso dal servizio) fa solo e soltanto i nomi di magistrati che erano già comparsi negli articoli di stampa che riferivano il contenuto delle chat trovate sul suo telefono dal virus della Guardia di finanza. C'è una sola eccezione: Eugenio Albamonte, una delle «toghe rosse» più in vista d'Italia, esponente dell'ala sinistra di Magistratura democratica. Ad Albamonte, Palamara rinfaccia due vicende: una sono gli incontri con Daniela Ferranti del Pd per scegliere il nuovo vicepresidente del Csm; l'altra, più scomoda, è il passaggio come segretario al Csm e poi il ritorno in Procura a Roma. «Quello di Albamonte è un altro bel capitolo», dice nell'intervista alla Verità, invitando a verificare come avvennero i passaggi. Ma il trattamento riservato ad Albamonte ha una spiegazione: il rientro della «toga rossa» in ruolo avvenne quando Palamara non faceva ancora parte del Csm. E quindi viene citato solo per dimostrare che anche prima di questi anni, i sistemi in voga non erano diversi. Per il resto, Palamara picchia a destra e manca: ricorda che Bruno Di Marco, il presidente dei probiviri che lo hanno espulso, difendeva un magistrato finito in carcere, Giancarlo Longo, siciliano come lui; accusa un altro proboviro, il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, di avere ottenuto il suo posto grazie ai «meccanismi di cui oggi si parla». E poi ce n'è per tutti, da toghe di sinistra come Claudio Viazzi e Francesco Minisci, ex presidente dell'Anm, a giudici di centro come Giuliano Caputo, attuale segretario dell'associazione, o Bianca Ferramosca di Roma, o Alessandra Salvadori di Torino. Colleghi che vengono tirati in ballo da Palamara a volte con le buone, specificando che si tratta di gente di valore; a volte più brutalmente. Un gesto scomposto? Mica tanto. Perché in realtà le rivelazioni di Palamara non rivelano niente. I nomi che detta ai taccuini sono gli stessi che le chat, compulsate in queste settimane da buona parte dei magistrati italiani, avevano già messo in luce. Possibile che non ci sia almeno un caso di nomina «aggiustata», un solo esempio di carriera trattata a forza di lusinghe e promesse, oltre a quelle intercettate dal trojan dell'indagine perugina? Ovviamente no, perché i buchi temporali dell'inchiesta sono enormi: le intercettazioni telefoniche partono il 3 marzo 2019, quando Palamara non fa più parte del Csm da sei mesi; il trojan risale ai messaggi scambiati da Palamara a partire dal 2018. Tutto il prima, i tre anni iniziali di Palamara al Csm, quelli di molte scelte decisive, sono rimasti fuori dall'inchiesta. Ci sono nomine cruciali, e manovre sottobanco: la più clamorosa di tutte, quella che nel 2017 fece inserire da una «manina» la norma che permetteva ai magistrati fuori ruolo di rientrare e venire subito promossi. Se saltassero fuori i dialoghi di quegli anni, sulla magistratura si abbatterebbe un'altra bufera. Sono quelli i veri segreti che oggi Palamara custodisce ancora. E ieri manda un messaggio implicito ma chiaro: «di quelle cose per ora non parlo». Per ora.

Caso Palamara, 20 magistrati coinvolti nelle chat sotto esame del Csm per «incompatibilità». Giovanni Bianconi il 22 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Già avviate le istruttorie preliminari per valutare le posizioni delle toghe. Nelle ultime nomine i segnali di un «nuovo corso». La prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, quella che decide sulla sanzione para-disciplinare dei trasferimento d’ufficio «per incompatibilità ambientale», ha già avviato una ventina di istruttorie preliminari per valutare le posizioni di altrettante toghe che compaiono nelle chat di Luca Palamara. Se gli accertamenti dovessero confermare che le conversazioni e gli argomenti trattati superano soglie di inopportunità e imbarazzo tali da rendere problematico restare nell’incarico ricoperto senza perdere prestigio e credibilità, si potrebbe proporre la rimozione, da sottoporre al plenum dell’organo di autogoverno. Come è accaduto con Cesare Sirignano, già sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, mandato via perché ritenuto coinvolto «nelle intenzioni e nelle strategie» dell’ex pm accusato di corruzione, tra cui il condizionamento della nomina del nuovo procuratore di Perugia; con espressione di valutazioni e giudizi su colleghi che ne hanno determinato un «appannamento dell’immagine di indipendenza ed imparzialità» che non gli consentiva di rimanere in quell’ufficio.

Luca Palamara, la prima pagina del Tempo: "Tonno espiatorio", Franco Bechis accusa l'intera magistratura. Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Un altro titolo ficcante, sarcastico, pungente e cattivo. Si parla del titolo di apertura de Il Tempo di domenica 21 giugno. Un titolo cattivo più che contro Luca Palamara, protagonista della prima pagina, contro tutta la magistratura. Franco Bechis, infatti, sceglie "il tonno espiatorio". Che sarebbe ovviamente Palamara, il riferimento è al celebre sfogo di Cossiga che, in diretta tv, lo apostrofò sostenendo che avesse faccia e cognome da tonno, appunto. Anzi, doppio riferimento: "Non farò da capro espiatorio", ha tuonato Palamara ieri, dopo l'espulsione dall'Anm. Ne segue, "il tonno espiatorio". Tesi che Bechis condivide e rilancia, appunto, per attaccare la magistratura. Recita l'occhiello: "L'Anm caccia Palamara. Che si difende: Pago colpe di tutti. È vero, e i magistrati non possono far finta di niente", conclude.

Luca Palamara "mente e mistifica i fatti": l'Anm lo infilza tra incontri notturni e silenzi colpevoli. Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Non si placa la polemica tra Luca Palamara e l’Anm. Il pm romano è stato espulso dal sindacato delle toghe: un’onta che è stata una prima volta ben poco lusinghiera per un ex presidente e che evidentemente ha lasciato dei segni. Perché il magistrato si è scagliato contro il comitato direttivo centrale, lamentando il fatto che la sua richiesta di essere sentito prima del voto è stata respinta. “Un giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo statuto di un’associazione, ancora di più quando ne è stato presidente - è la replica dell’Anm - non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni”. Poi l’affondo più duro: “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente. È stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non ha mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati”. Un atteggiamento che accomuna il magistrato con gli altri incolpati, almeno secondo la ricostruzione della giunta dell’Anm. Ma non è tutto, perché il sindacato delle toghe smaschera il tentativo di Palamara di “ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti: la contestazione riguardava incontri notturni all’hotel Champagne e l’interferenza illecita nell’attività consiliare, fatti purtroppo veri, e per questo sanzionati”. 

Luca Palamara fa i nomi dopo l'espulsione dall'Anm: "Che ci faceva la Ferranti del Pd a cena con Albamonte?" Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Cacciato dall'Anm per lo scandalo intercettazioni, sin da subito Luca Palamara ha minacciato vendetta. "Non farò da capro espiatorio", "farò i nomi". E la toga che insultava Matteo Salvini non ha perso tempo. Inizia a fare nomi, a raccontare il "sistema". Lo fa anche in un'intervista al Fatto Quotidiano, dove tira in ballo subito il Pd. "Quante persone in questi anni sono venute da me a proporsi?", premette. E aggiunge di essere determinato a "dimostrarlo in qualunque sede". Ma a chi si riferisce? "A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio". Ritiene insomma che abbiano discusso di nomine negli uffici giudiziari? "Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva anche un rapporto tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito". Per intendersi, Albamonte è segretario della corrente Area ed ex presidente dell'Anm. Ferranti invece è un magistrato, ex deputata Pd. "Che facevano a cena insieme Albamonte e Ferranti?", incalza Palamara. Per inciso, la Ferranti nelle chat intercettate di Palamara si interessa una sola volta alla nomina di un ufficio giudiziario: chiede a Palamara, a novembre 2017, di fare da "garante" per Francesco Salzano come avvocato generale. Nessuna richiesta personale. E Palamara, riferendosi a quelle intercettazioni, aggiunge tagliente: "Possiamo escludere non ne abbia parlato con con Albamonte?".

Luca Palamara da Gaia Tortora a Omnibus: "Mi pare di capire che se parla..." Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. “Mi pare di capire che se parla Luca Palamara…”. Così Gaia Tortora ha commentato il caso del pm romano, che è stato espulso dall’Anm non senza polemiche. L’ex presidente ha picchiato duro contro il sistema delle toghe, assicurando che non si presterà a ruolo di capro espiatorio. “Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro - ha tuonato Palamara - che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo”. L’impressione è che se dovesse fare nomi e cognomi, potrebbe provocare un ulteriore terremoto all’interno della magistratura. Proprio per questo c’è una certa attesa per la prossima ospitata televisiva di Palamara, che aveva già annunciato che non sarebbe rimasto in silenzio: quale strumento migliore della tv per offrire la sua versione dei fatti? E allora l’ex presidente dell’Anm sarà proprio dalla Tortora: l’appuntamento è per lunedì mattina, dalle 9.10 ad Omnibus su La7. 

Luca Palamara, l'Anm replica: "Non abbiamo bisogno di capri espiatori ma di riforme". Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. S’infiamma lo scontro a distanza tra Luca Palamara e l’Anm, con quest’ultima che oggi ha ratificato l’espulsione dell’ex presidente. Il pm romano, divenuto famoso suo malgrado per le intercettazioni e le chat emerse dall’inchiesta di Perugia, ha attaccato il sindacato definendolo “peggio dell’Inquisizione” per aver respinto la richiesta di essere sentito e avvertendolo che non farà "da capro espiatorio”. Inoltre Palamara si è detto pronto ad assumersi le “responsabilità politiche” del suo operato “per aver accettato ‘regole del gioco’ sempre più discutibili”, ma allo stesso tempo ha chiarito che “non ho mai agito da solo, sarebbe troppo facile pensare questo”. Immediata è arrivata la replica dell’Anm: “Non abbiamo bisogno di capri espiatori, ma di tornare a prendere coscienza della diffusione di comportamenti che dimostrano un modo distorto di formazione del consenso in magistratura, non intorno ad idee e valori ma sulla base di interessi strettamente individuali, nonché su impropri rapporti tra consiglieri o esponenti di correnti e magistrati aspiranti ad un incarico”. Secondo Giuliano Caputo, segretario del sindacato delle toghe, da un lato è necessario un “ripensamento dell’operatività delle correnti” e dall’altro un intervento delle “riforme legislative” che facciano venir meno “gli evidenti spazi all’interno dei quali si sono generate e poi autoalimentate le degenerazioni alle quali abbiamo assistito”. 

Luca Palamara, Vittorio Sgarbi sull'espulsione Anm: "hanno infilzato il tonno, ma tutti i beneficiari delle sue trattative?" Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. Vittorio Sgarbi commenta gli ultimi sviluppi riguardanti Luca Palamara, che è diventato suo malgrado il primo ex presidente ad essere espulso dall’Anm. “Ma tutti i beneficiari delle sue ‘trattative’ e mediazioni (da Torino a Palermo) restano al loro posto”, è l’acuta osservazione del critico d’arte. Non a caso il pm romano ha avvertito il sindacato delle toghe che non ci sta a fare da capro espiatorio: “Mi assumo le responsabilità politiche per aver accettato regole del gioco sempre più disponibili - ha dichiarato Palamara - ma sia chiaro che non ho mai agito da solo, sarebbe troppo facile pensare questo”. Fatto sta che i componenti del ‘parlamentino’ hanno accolto la proposta avanzata dal collegio dei probiviri e hanno espulso Palamara per “inaudita gravità dei fatti” legati alla “violazione dei doveri imposti dal codice etico”. Secondo Sgarbi l’Anm non è però esente da colpe: “Hanno infilzato il tonno Palamara, ma tutti gli altri peschi che gli nuotavano attorno?”. 

Guido Crosetto su Luca Palamara espulso: "Troppo facile", l'affondo contro la magistratura italiana. Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. Mai scontato né banale. Senza pregiudizi, sempre dritto al punto. Si parla di Guido Crosetto, che dice la sua su Luca Palamara, espulso oggi, sabato 20 giugno, dall'Anm. Il Gigante e fondatore di Fratelli d'Italia cinguetta: I magistrati hanno deciso di fare di Palamara il capro espiatorio", e proprio Palamara ha usato le parole "capro espiatorio". Riprende Crosetto: "Troppo facile. Se Palamara è arrivato a presiedere l’Anm, significa che non era il solo ad usare questi metodi ma che gli altri erano forse più furbi di lui o avevano gli amici giusti. Come direbbe Davigo...", conclude sornione. Il riferimento, tagliente, è alle parole di Piercamillo Davigo, secondo il quale di fatto tutti gli indagati fino a sentenza sono tutti colpevoli. Insomma, tutti colpevoli in magistratura fino a prova contraria? I magistrati hanno deciso di fare di Palamara il capro espiatorio. Troppo facile. Se Palamara è arrivato a presiedere l’ANM, significa che non era il solo ad usare questi metodi ma che gli altri erano forse più furbi di lui o avevano gli amici giusti. Come direbbe Davigo....

Il giudice Savarese lascia l’Anm: “Dopo Magistratopoli ci voleva riflessione, Palamara capro espiatorio”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 9 Luglio 2020. «Dall’estate 2019 a oggi l’Anm non ha avviato un radicale percorso di approfondimento e ripensamento di certe dinamiche. Perciò ho avvertito la necessità di prenderne le distanze»: parola di Eduardo Savarese, giudice del Tribunale di Napoli che ha ufficializzato il suo addio all’associazione. Nel 2019 cinque magistrati sono stati costretti alle dimissioni dopo le polemiche legate all’incontro durante il quale Lotti, Ferri e Palamara avrebbero discusso delle nomine per le Procure di Roma. Oggi Palamara è di nuovo nell’occhio del ciclone. Che quadro emerge da queste due vicende? «Un quadro avvilente. Gli intrecci con poteri propriamente politici sembrano ramificati ed estesi. Il rispetto del merito è annichilito. La trivialità culturale e morale delle logiche e dei linguaggi intristisce. Il terremoto è cominciato a maggio e giugno 2019 e, a un anno esatto, è ancora in atto. L’Anm ha messo in sicurezza la magistratura che rappresenta reagendo severamente alla prima scossa, ma non avviando un processo chirurgico di verifica dei fatti. Ed è così arrivata alla seconda scossa, dinanzi alla quale l’Anm è rimasta inerte. L’unica conseguenza possibile? Parlo per me: recedere».

Come si spiega il diverso approccio tenuto dall’Anm?

«La disparità di trattamento tra il “sisma 2019” e il “sisma 2020” è per me inspiegabile: anche se si vuole sostenere che i gradi dei due terremoti sono stati differenti, da maggio 2020 a oggi una reazione “di sistema” poteva e doveva iniziare».

Che cosa avrebbe dovuto fare l’Anm?

«Mi aspettavo uno sguardo di prospettiva e di insieme sugli accadimenti emersi allora. L’associazione si è invece limitata invece a circoscrivere un evento che però aveva radici profonde. Siamo magistrati, sappiamo analizzare e valutare i fatti: sarebbe stato importante costituire subito una sorta di commissione interna all’Anm, composta da membri sorteggiati tra tutti i magistrati disponibili: una commissione di inchiesta e anche di “conciliazione” per capire e sanzionare, ma pure per cercare un punto di incontro e cicatrizzare le ferite».

I cinque membri del Csm sono stati processati “in piazza”: nella magistratura c’è una tendenza alla giustizia sommaria?

«La tendenza alla giustizia sommaria è figlia delle passioni umane, da un lato, e del Fato, dall’altro: arriva il momento storico in cui la misura è colma e ci si illude che bisogna liberarsi velocemente del colpevole. I processi di liberazione dai colpevoli richiedono tempo e fatica. Il teologo Bonhoeffer dice che non esiste la grazia a buon mercato. Ecco: non esiste neppure la giustizia a buon mercato».

Il garantismo è finito in soffitta?

«No. Il garantismo non è un valore desueto, almeno nella stragrande maggioranza dei veri giuristi. Ci stiamo tutti domandando molte cose. Spero soltanto che si mantenga viva l’urgenza di fornire o esigere risposte».

L’uso del trojan che si fa nelle indagini ordinarie, oltre che nella vicenda Palamara, la preoccupa?

«Affiorano molte domande sull’uso del trojan. Le risposte arriveranno, spero. E solo allora sarò meno preoccupato».

C’è il rischio che anche Palamara diventi un capro espiatorio e che la magistratura perda l’occasione di rinnovarsi anche stavolta?

«La mancanza di un esame sistemico, fatto da noi magistrati, rischia di introdurre la logica del capro espiatorio e della vittima con due effetti negativi: nulla cambia; chi ha pagato, anche quando abbia pagato giustamente, lamenta di essere stato immolato».

Come valuta l’atteggiamento dei “giornaloni” italiani, rimasti in silenzio davanti a certi fatti? C’è una connessione tra certa magistratura e certi giornali?

«Non sono a conoscenza di connessioni. Nella lettera di recesso mi limito a registrare che il “sisma 2019” si avvantaggia di giornali solerti nel comunicare tutto, mentre col “sisma 2” quegli stessi giornali sembrano affaticati nel seguire la quotidiana cronistoria delle chat».

La credibilità della magistratura è ai minimi storici: come si può salvare?

«Al giudice indipendente e imparziale il diritto è iscritto nel cuore prima ancora che nel cuore della civiltà giuridica occidentale. È più di un diritto umano, è un fondamento. Non tengo il conto dei colleghi che rispettano questo fondamento. È il momento di dedicare tempo e fatica, oltre che ai processi, alla nostra identità e alla giusta, ragionevole, misurata, colta, preparata rappresentanza di questa identità. Vanno bene le proposte di riforma del sistema che stanno circolando, ma serve un percorso culturale capace di portare alla luce quanto siano povere le micro-ambizioni di potere e quanto sia importante il principio secondo il quale i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni».

Luca Palamara, Nicola Porro: "Espulsione Anm? Chi se ne frega, conta il Csm. Fanno i fenomeni ma i favori li prendevano". Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Nicola Porro nella sua Zuppa quotidiana non si esime dal commentare gli ultimi sviluppi del caso Luca Palamara. Il pm romano è stato espulso dall’Anm, diventando il primo ex presidente della storia ad essere cacciato dal sindacato delle toghe. “E chi se ne frega?”, è la provocazione del giornalista di Rete4: “Capisco che da ex presidente essere espulso è una macchia, ma dal punto di vista sostanziale vale zero. Questo oggi non lo leggo su nessun giornale, il punto è che deve essere espulso dai magistrati, non dai sindacati”. Probabilmente però il Csm non affronterà il caso fino a quando non terminerà il procedimento penale: “Intanto Palamara si vende come capro espiatorio - sottolinea Porro - oggi sui giornali fa i nomi dei probiviri che lo hanno mandato via. Magistrati che fanno i fenomeni e lo attaccano, ma che avevano usato lo stesso meccanismo. Su questo sono dalla parte di Palamara, in Italia è sempre così: i moralisti di oggi sono quelli che ieri prendevano i favori”. Porro però ricorda un dettaglio fondamentale, che non va mai trascurato: “Palamara era al vertice di questo sistema delle correnti, ha fatto le battaglie contro Berlusconi e Salvini. Non era uno dei tanti, ma il capo assoluto di questa situazione”. 

Luca Palamara, Renato Farina e la scomoda verità: "Come un reprobo da sacrificare a buon nome della categoria". Renato Farina Libero Quotidiano il 21 giugno 2020. Con una colonna sonora di sonagli e campanellini per festeggiare la ritrovata purezza, l'Associazione nazionale magistrati (Anm) ha espulso per "gravi e reiterate violazioni del codice etico" il pm Luca Palamara. A deciderlo è stato il direttivo, cioè la crème del sindacato unico delle toghe. Quanto accaduto è sembrato - a vederlo dall'esterno - una riedizione in altri ambiti di una seduta persino un tantino più dignitosa: quella del Gran Consiglio di un certo 25 luglio 1943. E così ieri, gli alti papaveri per preservare le proprie prerogative e giustificarsi davanti al popolo hanno liquidato (usiamo un diminutivo-vezzeggiativo per ragioni di proporzioni storiche) il ducetto del consesso di cui il reprobo era stato osannato presidente. Altri, in riferimento a quanto accaduto, hanno già usato l'immagine del capro espiatorio. Francesco Cossiga avrebbe parlato piuttosto - per assonanza del cognome e per una impressionante somiglianza dello sguardo - di tonno espiatorio, ma siamo lì: comunque lo si chiami è stato un rito decrepito e indecentemente tirannico. Il direttorio o direttivo o comitato centrale, non ci ricordiamo come si chiama, ma ci viene bene usare l'appellativo sovietico, ha infatti deliberato senza ascoltare l'accusato. Condanna in contumacia. Il socio degenere ha cercato di farsi ammettere mentre il politburo era riunito nel Palazzaccio. Non l'hanno fatto entrare. Galileo poté ribattere all'Inquisizione: "Eppur si muove". Palamara - e il genio pisano ci scusi dell'accostamento - non ha potuto neppure alzare davanti agli accusatori i cospicui sopraccigli! Dicono che così recita il regolamento dell'Anm, e che Palamara semmai avrebbe potuto farsi interrogare e difendersi prima, davanti ai probiviri. Accidenti che finezza spirituale, che adesione specchiata alla sostanza del diritto. Siamo sarcastici? Diciamo che non siamo sorpresi da questi metodi, che evidentemente albergano nel profondo dell'ordine giudiziario italiano. Siamo alla cavillosità propria di chi a tutti i costi vuole impedire che l'incolpato vuoti il suo sacco in testa a chi non ha alcuna voglia di farsi sporcare la parrucca immacolata. Se avessero potuto, riteniamo che avrebbero fucilato Palamara a Dongo. Non abbiamo nessuna intenzione di difendere Palamara nel merito. Ha cercato di influenzare (e non da solo!) il corso della giustizia quando nel mirino c'era Salvini, spingendo il procuratore di Agrigento a mettere sotto accusa l'allora ministro dell'Interno per sequestro di persona. Per il resto ci viene da dire un mozartiano "così fan tutte" le toghe entrate nell'orbita del pianeta Palamara come satelliti o meteoriti. La gerarchia dei valori vede sul podio: al primo posto, la carriera mia; al secondo, la soddisfazione di mettere i piedi sulla giugulare dei colleghi; al terzo, un biglietto allo stadio per sé e i propri parenti. Orribile. Logico fosse preferibile per il bene della causa che il nuovi capi dell'Anm non dessero occasione a Sansone di perire con tutti i filistei. I filistei ci tengono a tener su il loro tempio, anche se sputtanato e sconsacrato. Ma il diritto alla difesa dovrebbe essere sacro persino durante i regolamenti di conti dei pescecani. Non abbiamo letto la milionata di intercettazioni che sono confluite nei verbali. Esse sono state raccolte grazie a un metodo che non tutela gli estranei all'indagine: il Trojan è come un missile che ammazza la reputazione delle persone nel raggio di un chilometro intorno al destinatario del procedimento di intercettazione; è un erpice che strappa i segreti a chiunque si aggiri intorno all'indagato, senza riguardo di strappare le mutande a chi passi da quelle parti per caso. In Italia funziona così. E la politica ha fornito quest'arma di distruzione di massa alle Procure. Per ironia della storia, la magistratura è cascata nella sua stessa rete. Per catturare un pesce grosso della medesima razza togata ha disvelato un mondo che il presidente Mattarella ha duramente censurato. Ascoltando Palamara in ogni istante della sua vita (meno quando si è intrattenuto con pesci grossi almeno come lui, cioè Davigo e Pignatone, perché in quel caso il Trojan ha fatto cilecca, misteri della scienza e della tecnica) si è potuto capire come funzionino le carriere dei magistrati, di come i più astuti tra costoro cerchino di aggrapparsi alla toga del capo corrente come un bambino con la sottana della mamma per fregare l'amichetto cattivo. Palamara era il Dominus da cui tutti passavano, a cui centinaia di magistrati si rivolgevano per sorpassare un collega magari bravo ma senza meriti correntizi, o addirittura da far fuori perché non abbastanza nemico del centrodestra. L'espulso di ieri era, nel novero della magistratura organizzata, il ras della fazione considerata di centro-sinistra o moderata. Come tale, essendo quella corrente assai forte e flessibile, Palamara è diventato prima presidente dell'Anm e quindi eletto nel Consiglio superiore della magistratura. Com' è salito a quei vertici? Grazie a quali metodi? Di certo non è la pecora nera circondata da velli nivei di agnelli da latte. Le intercettazioni - quelle che almeno sono state pubblicate sui quotidiani e sui siti internet - non rivelano la bassa etica di un singolo magistrato: lui. Esse manifestano l'esistenza di un sistema. Palamara, oggi trattato come un cane morto dai colleghi che prima lo aizzavano a mordere i loro rivali per un posto a Torino o a Palermo, era il mozzo di una ruota. Il mozzo funziona se ci sono i raggi che lo congiungono al cerchio. E che convergenza di intenzioni e di meccanismi tra il mozzo e i raggi così da far girare la ruota e far muovere la bicicletta. Non è marcio il mozzo e basta. Bisogna cambiare la ruota. Revisionare la bicicletta. Ma la bicicletta non può riformarsi da sé. In democrazia se un potere è marcio, toccherebbe al popolo sovrano. attraverso il Parlamento, provare a risanarlo. Ma con questo Parlamento è impossibile.

«Siamo a un punto di non ritorno». Il pg di Cassazione Salvi chiede il processo disciplinare per 10 magistrati. Il Dubbio il 25 giugno 2020.Il pg Giovanni Salvi, annuncia di aver ha chiesto il processo al disciplinare del Csm per 10 magistrati, per l’incontro avvenuto in un albergo di Roma in cui si discuteva di nomine. La Procura generale della Corte di Cassazione ha concluso la prima fase dell’istruttoria disciplinare a carico dei magistrati coinvolti nel caso Palamara e ha chiesto il processo alla sezione disciplinare del Csm per 10 magistrati, relativamente all’incontro avvenuto in un albergo di Roma in cui si discuteva di nomine ai vertici delle principali procure italiane. Ada annunciarlo, in conferenza stampa, il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Il giudizio disciplinare è stato chiesto oltre che per Luca Palamara, per i 5 ex togati del Csm dimissionari lo scorso anno, Antonio Lepre, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli, Cosimo Ferri, l’ex pm romano Stefano Fava, l’ex pm della Dna Cesare Sirignano più due magistrati segretari del Csm, per uno dei quali la richiesta di giudizio disciplinare era già stata avanzata. «Un’interferenza nell’esercizio dell’attività del Consiglio». Questa l’incolpazione che la procura generale della Cassazione ha ritenuto sussistente chiedendo il processo disciplinare in relazione alla riunione all’hotel Champagne in cui si parlava di nomine ai vertici di uffici giudiziari, come emerso dagli atti dell’inchiesta di Perugia. «L’elemento differenziale sta nel fatto che le scelte venivano esposte in relazione a condotte o richieste o tenute rispetto a posizioni processuali, per favorire uno o danneggiare l’altro», spiega il procuratore generale. «Ciò che è successo è irreversibile, ciò che è emerso ha segnato un punto di non ritorno. L’impatto di queste vicende è pessimo ma ora si stanno facendo passi avanti importanti al Csm e all’opinione pubblica direi di guardare con fiducia. C’è stato un grave colpo alla credibilità, e abbiamo tutti desiderio di dimostrare che vogliamo cambiare pagina». Negli atti depositati nell’ambito dell’inchiesta di Perugia  «ci sono conversazioni che riguardano anche alcuni consiglieri, ma dobbiamo fare un lavoro completo, valutare le diverse condotte». Perché quello  della Procura generale è un lavoro incentrato sulla «assoluta correttezza e trasparenza». Salvi parla di «assoluta riservatezza, non per ciurlare nel manico, ma per rispettare le regole» e assicura che non sarà fatto un «calderone» e che per gli incolpati «ci sarà la più ampia possibilità di difendersi». «Faremo il nostro lavoro con serietà, nessun coperchio sopra», seguendo «criteri chiari e trasparenti, che saranno resi pubblici assieme alla conclusione dell’istruttoria». Ma il vaglio della Procura generale sulle chat contenute agli atti dell’inchiesta di Perugia, estrapolate dal telefono di Luca Palamara, è ancora in corso, fa sapere Salvi. Che poi aggiunge: «Su nomi e numeri non è possibile fare anticipazioni ora e nemmeno tra qualche giorno, il lavoro deve essere completato e non ci può essere alcuna comunicazione prima che la persona eventualmente incolpata non ne abbia avuto la legittima conoscenza».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 26 giugno 2020. Sono dieci i magistrati per i quali la procura generale della Cassazione chiederà provvedimenti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Chi si aspettava grandi nomi, ieri, è rimasto deluso. In una conferenza stampa, voluta dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, indetta alla Suprema corte, sono stati indicati i soliti noti. Togati, come lo stesso Luca Palamara, espulso dall'Anm, indagato per corruzione a Perugia, e i 5 consiglieri del Csm che si erano già dimessi Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, dopo la scoperta del famoso incontro all'hotel Champagne dell'otto maggio del 2019 in cui si sarebbe tramato, con il deputato Luca Lotti, per la nomina del procuratore capo a Roma. Richiesta di azione disciplinare anche per il deputato, magistrato in aspettativa, di Italia Viva Cosimo Maria Ferri per il quale la procura generale ha chiesto al Csm l'autorizzazione alla Camera per l'utilizzo delle sue intercettazioni. Anche lui era presente allo Champagne. Accuse per le quali rischiano anche «le sanzioni più gravi», come dice in conferenza stampa Giovanni Salvi. Si tratta di una «vicenda di particolare gravità»; quello che è successo «ha segnato un punto di non ritorno» e l'impatto sull'opinione pubblica «è stato pessimo». Perché nomine fatte «sulla base dell'orientamento di corrente» rappresentano una «violazione grave delle funzioni del Csm». Occorre però ora avere «fiducia: il Csm sta compiendo dei passi avanti. Proprio perché è così grave il colpo che ognuno di noi ha subito nella sua credibilità, abbiamo forte il desiderio di mostrare che siamo in grado di voltare pagina», assicura il Pg. In tutto sono 10 le toghe finite a giudizio disciplinare. Le altre quattro hanno posizione «di contorno» a quella vicenda : sono l'ex pm Stefano Fava e Cesare Sirignano (il primo adesso giudice civile e il secondo trasferito d'ufficio per incompatibilità dal Csm ) e due magistrati segretari di Palazzo dei marescialli, questi ultimi con un ruolo minore. E a breve, «certamente prima delle ferie estive», potrebbero essere formalizzate altre azioni disciplinari. L'attesa riguarda i nomi futuri passibili di sanzioni in seguito alla discovery dei messaggi risalenti al 2017 e 2018 che sono state estrapolate dallo smartphone di Palmara. «Non posso anticipare niente, nemmeno tra qualche giorno, perché il lavoro va completato e perché non vogliamo dare comunicazioni prima che le persone eventualmente incolpate abbiano avuto legittima conoscenza attraverso il provvedimento che dovremo notificare», afferma Salvi. Tuttavia il difensore domiciliatario del magistrato Fava ha saputo della richiesta di udienza disciplinare ascoltando via radio la diretta della conferenza stampa. Solo dopo alcune ore è stato consegnato l'atto ufficiale. Al suo fianco ci sono il procuratore aggiunto Luigi Salvato e l'avvocato generale Pietro Gaeta, asse portante della task force, forte di 3 sostituti, istituita un mese fa proprio per valutare la montagna di materiale arrivato dalla procura di Perugia. «È stato un lavoro molto impegnativo, non tanto per la mole di documenti (il contenuto delle chat in larga parte è di carattere privato e non ha nulla a che vedere con possibili ipotesi disciplinari), ma perché sono di difficile lettura per chi non conosce le vicende - spiega Salvi- Per questo è stato necessario elaborare dei criteri di valutazione, che saranno resi pubblici sul nostro sito, quando sarà possibile comunicare l'esito dei nostri lavori». Il tutto in un'ottica di «trasparenza» per l'opinione pubblica e «correttezza» per le persone coinvolte. Tra le chat alcune sono di consiglieri del Csm in carica, ma è presto per dire come finirà. «Lavoreremo con molta serietà e determinazione», conclude. «L'udienza disciplinare sarà il luogo in cui chiarire i fatti e la vicenda», ha affermato ieri Palamara, che ha aggiunto: ero «visto come un punto di riferimento, una persona a cui chiedere consigli», una «sorta di sfogatoio». E infine: «negare che nel rapporto tra politica e magistratura ci siano criticità significherebbe negare la realtà».

Magistratopoli, finisce tutto a tarallucci e vino: solo 10 imputati su 1.000 coinvolti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Giugno 2020. Magistratopoli si avvia alla conclusione. Il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, cioè il magistrato più in alto nella gerarchia della giustizia, ha annunciato che saranno presi provvedimenti molto severi nei confronti delle toghe che sono state coinvolte nello scandalo. Cioè – uno potrebbe immaginare – nei confronti di un migliaio almeno di magistrati che hanno ottenuto, o chiesto, nomine, spostamenti, favori, prebende, benefit e altro. Giusto? O che hanno scambiato amicizia, intimità, frequentazione con la controparte (cioè i Pm coi giudici e viceversa, magari Pm e giudici dello stesso processo). Giusto? O che hanno usato l’Anm come strumento di potere, o di alleanze, o di strategie. E che forse hanno determinato, di conseguenza, sentenze o rinvii a giudizio non sulla base delle prove e degli indizi ma delle convenienze politiche o di potere, o dei teoremi. Giusto? Beh, i provvedimenti chiesti da Salvi, non sono mille. Sono 10. Riguardano semplicemente quella cena in hotel con Luca Lotti che fu intercettata illegalmente dai Finanzieri romani. Punto. Magistratopoli si chiude qui. Aspettiamo ora di vedere se il Csm accoglierà o no le richieste di Salvi, se si accanirà come richiesto, il più fortemente possibile, sul capro espiatorio designato e sui suoi fratellini (parlo di Palamara, che è stato accusato ingiustamente di corruzione e poi, prosciolto, messo in croce per le sue manovre, allo scopo di farlo pagare per tutti) e se con un gigantesco colpo di spugna chiuderà il caso. Magistratopoli ci ha dimostrato una cosa semplicissima: che in gran parte il funzionamento della magistratura era illegale. È illegale. Non risponde alle leggi ma al potere. E i magistrati – in una percentuale da stabilire, ma di sicuro non piccolissima – non sono leali alla Costituzione (come Mattarella ha esortato a fare) ma alla propria corrente o al proprio capo corrente. Ieri, in una intervista al nostro giornale, Luca Palamara ha spiegato come nacque e come funziona il partito dei Pm. Lo ha detto lui: partito dei Pm. E ha detto “come funziona”, all’indicativo presente, perché è ancora in buona salute quel partito, molto più dei partiti che boccheggiano in Parlamento. Luca Palamara ci ha spiegato, in parole povere, che il sistema giustizia, in Italia, vive nell’illegalità. Molti di noi lo sapevano già da parecchio tempo. Noi usiamo la formula “partito dei Pm”, beccandoci insulti vari, da molti anni. Chiunque fosse in buonafede (quindi non la stragrande maggioranza dei giornalisti giudiziari) sapeva benissimo come funzionavano le cose. Ora nessuno più può far finta di non saperlo. E la reazione qual è? “Se la veda la magistratura”. È un suicidio questo. Non è ammissibile l’idea che la magistratura risolva da se stessa il problema della sua non-credibilità e della situazione di evidente illegalità (a me viene da parlare di eversione) nella quale vive. Non può il Parlamento restare lì a guardare. Si sono formate commissioni di inchiesta, in passato, per fatti infinitamente meno gravi. Questo scandalo è gravissimo, e mette in discussione anni e anni di processi e di sentenze, probabilmente in buona parte teleguidati e ingiusti. È inaudito che non si formi subito una commissione d’inchiesta, che non si azzerino gli incarichi, che non si riduca ai minimi termini il potere delle toghe nel Csm, che non si separino le carriere, che non si azzeri la situazione di illegalità attraverso una amnistia. Sarebbe bello, davvero, se fosse proprio la magistratura, in uno scatto di orgoglio, a chiedere queste cose. Per salvare il suo onore. Per rinascere. La magistratura, se è una cosa seria, deve pretendere che sia una autorità esterna a giudicare, deve rinunciare a giudicarsi da sola. Nessuno può giudicarsi da solo in uno stato di diritto. P.S. se un pentito ha delle cose da dire, sa che fare: va in Procura e parla. Possibile che Palamara da mesi vada dicendo che lui ha tante cose da dire e nessuno vuole ascoltarlo? Lo abbiamo intervistato noi del Riformista, è stato facile. In commissione Antimafia stanno ascoltando mezzo mondo per risolvere gli insulti di Di Matteo a Palamara. E sul gorgo di fango che sta travolgendo la magistratura nessuno ha voglia di sentire i testimoni? Non ditemi che esagero se parlo di regime…

Carlo Nordio sul caso Palamara: "Un mercato delle vacche collaudatissimo, tutti sapevano. Farà i nomi? Bene" Libero Quotidiano il 25 giugno 2020. "Contiguità politiche, lottizzazioni, accordi tra correnti... Quello che oggi molti autorevoli commentatori definiscono verminaio, mercato delle vacche o sistema mafioso era collaudatissimo, e noto a tutti noi. Alcuni lo hanno denunciato, altri no. Ma tutti sapevamo", Lo ammette Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia. Il magistrato boccia però l'espulsione di Luca Palamara dall'Anm: "Un procedimento stalinista, non gli hanno neppure consentito di parlare. Il vero scandalo poi è che Palamara parlando con un altro pubblico ministero ha convenuto che l'allora ministro dell'interno Matteo Salvini fosse innocente, ma che bisognava attaccarlo. E questo è un peccato mortale per una toga. Nessuno più crederà alla nostra indipendenza", sottolinea in una intervista a Italia Oggi. Nordio poi svela che la logica delle correnti nella magistratura è micidiale: "Personalmente, nonostante all’interno dell Anm avessi molti avversari per le mie idee eretiche, nessuno ha mai cercato di condizionare le mie inchieste, che pure hanno coinvolto, come nel recente caso del Mose, importanti esponenti di destra e di sinistra. Ma se ambisci ai posti cosiddetti apicali la logica correntizia è ferrea. Se si libera una Procura o una Presidenza importante bisogna aspettare che se ne liberino altre tre o quattro. Cosi ogni corrente manda il meglio che ha, e avviene la spartizione. Se poi l'Ufficio è strategico, allora la lotta diventa più cruenta. Ma in genere i candidati sono tutti degni della carica.".Infine chiarisce un particolare sempre sul caso Palamara: "Quando un anno fa scoppiò lo scandalo scrissi in un editoriale che auspicavo che Palamara vuotasse il sacco subito. È un peccato che cominci a fare i nomi solo ora dopo l’espulsione, perché sembra una rappresaglia. Ma i nomi credo li farà, e sarà un bene, perché conosce contiguità politiche e lottizzazioni". Nordio boccia anche la riforma del Csm del ministro Bonafede:  "Peggio del sistema attuale. Le correnti si spartiranno i collegi elettorali in anticipo, faranno accordi di desistenza, insomma si organizzeranno come fecero i partiti nel '94 con l'introduzione dell'uninominale".

«Pochi i giudici a non ottenere benefici da intese tra correnti». Valentina Stella su Il Dubbio il 26 giugno 2020. Cricenti, consigliere della Cassazione: «È un fenomeno diffuso in tutta la magistratura. Palamara doveva essere sentito dall’Anm. Separare le carriere? Sarebbe una misura di garanzia». Non usa mezzi termini per censurare alcuni comportamenti della magistratura e per criticare il suo attuale assetto ordinamentale. Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema corte di Cassazione, commenta duramente il caso Csm aperto un anno fa dall’indagine di Perugia su Luca Palamara e altri colleghi.

Consigliere Cricenti si aspettava che sul ruolo delle correnti emergessero elementi così pesanti?

«La realtà non è emersa nella sua vera gravità: si cerca di accreditare l’idea che si tratti di un fenomeno di malcostume di alcuni magistrati o di alcuni gruppi. Invece, è diffuso in tutta la magistratura e sono pochi quelli che possono dirsene esenti o che nel corso della loro carriera non hanno tratto beneficio da un qualche accordo di corrente. Come spesso accade in questi frangenti, allignano moralisti senza morale, che dopo avere partecipato al sistema se ne tirano fuori e additano gli altri».

Le correnti andrebbero sciolte?

«Sono, in astratto, espressione della libertà di associazione, e sarebbe come limitare quest’ultima. Ma non si può negare che si tratta di associazioni dal ruolo oramai anomalo: un organo a rilevanza costituzionale come il Csm è condizionato da associazioni private e non c’è delibera che non risponda a un interesse correntizio. Alcuni di quelli che hanno beneficiato del sistema, anche oggi, ripetono che le correnti erano sorte come fucine di pensiero, luoghi attenti allo sviluppo culturale della magistratura e che solo di recente sono degenerate in sistemi di spartizione degli incarichi. Ma è una mistificazione: precisino allora quale modello culturale hanno visto nascere e coltivare a iniziativa delle correnti. E soprattutto dimostrino che gli adepti di ciascuna corrente hanno adeguato i loro comportamenti alla dottrina di quelle fucine di pensiero».

Al di là delle prerogative statutarie, Palamara andava sentito sabato nel direttivo dell’Anm?

«Andava sentito, certo. È una regola a priori, diremmo, di ogni procedimento sanzionatorio che chi è accusato debba avere la possibilità di dichiarare le sue ragioni».

Il presidente dell’Anm Luca Poniz, in una intervista a questo giornale, ha detto che “la carriera ha fuorviato alcuni magistrati” ma che vanno accantonate le “ipocrisie della politica”, a proposito, per esempio, della scelta dei magistrati nei ministeri.

«Ai magistrati le correnti hanno offerto un certo modello di carriera, fondato sul sostegno del gruppo, piuttosto che sul merito, requisito ritenuto, se non dannoso, perlomeno inutile; hanno imposto l’idea che studiare è un’applicazione del tutto superflua, poiché basta avere amicizie in un gruppo influente. I magistrati si sono adeguati. Dunque, non è la prospettiva di carriera ad aver fuorviato i magistrati. Detto questo, la politica ha poche colpe, se si allude alla scelta dei collaboratori nei ministeri, i quali sono piuttosto indicati dalle correnti che scelti dal ministro per simpatie politiche. A ogni cambio di ministro c’è tendenzialmente un cambio di corrente. Basti verificare a quale corrente, ad esempio, appartengono i diretti collaboratori dell’attuale ministro».

Sabino Cassese ha definito le Procure un “quarto potere” indipendente dalla magistratura stessa.

«È vero. Intanto, a fronte della formale obbligatorietà dell’azione penale, di fatto le Procure scelgono, a volte per fondate ragioni pratiche, a quali notizie di reato dare precedenza e questa scelta è di natura “politica”, incide sugli interessi della collettività e sugli stessi rapporti sociali, lasciando di fatto impuniti determinati fatti illeciti, perseguendone altri. Ed è questa un’azione che sfugge al controllo istituzionale, nella quale le Procure operano con una certa discrezionalità. C’è poi da considerare il ruolo sociale assunto dai pm negli ultimi anni, che è di maggior visibilità e di maggior contatto con l’opinione pubblica: mai visto un giudice delle locazioni diventare il beniamino di una certa quota di popolazione. Fino ad ora, né il Csm né l’Anm hanno assunto decisioni chiare sulla caratterizzazione “populista” che le Procure rischiano di avere: alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura».

Quale è il suo giudizio in merito alla separazione delle carriere?

«La separazione delle carriere è in primo luogo una misura di garanzia e di adeguatezza istituzionale: di garanzia in quanto la terzietà del giudice passa anche attraverso l’appartenenza di questi a un ordine diverso da quello della parte pubblica. Spesso si denuncia l’“appiattimento” del gip/ gup sulle richieste del pubblico ministero: è in gran parte vero. Ed è un esito di certo condizionato dalla contiguità che l’appartenenza ad un medesimo ordine favorisce. È una misura di adeguatezza istituzionale, anche, nel senso che si tratta di due mestieri diversi e di due ruoli istituzionali diversi. Si obietta che separando i Pm dall’ordine giudiziario si finisca con assoggettarli al potere esecutivo. È ovviamente un’obiezione incongruente: nulla vieta di creare un ordine distinto, con distinto organo di autogoverno».

Cosa ne pensa delle allusioni sul Csm fatte trapelare da De Magistris nella trasmissione di Giletti?

«Il solito argomentare per illazioni: siccome nel collegio della disciplinare c’era il tale che però è anche citato nelle intercettazioni, allora vuol dire che la decisione disciplinare è viziata. Oppure peggio: siccome il tale da me indagato, e poi però assolto, è stato arrestato per altri fatti allora anche la mia indagine era fondata. Da un punto di vista giuridico nessuno si fa suggestionare da queste illazioni, tanto è vero che le sentenze di assoluzione a favore degli indagati di quell’ex pm non saranno di certo messe in discussione, ma l’illazione non è uno strumento retorico innocuo: condiziona i sistemi simbolici di cui fruisce l’opinione pubblica e mina la fiducia nei giudicati».

Il consigliere Csm Sebastiano Ardita, commentando la scarcerazione di Carminati, ha detto che i cittadini non capiranno e occorre una riforma per rendere più semplice il sistema penale. Non le sembra un discorso populista?

«Le procedure italiane, ormai da qualche decennio, producono decisioni formalmente corrette, ma che per l’opinione pubblica risultano assurde e ciò a prescindere da come vengono divulgate. Da un punto di vista teorico, il tema è complesso: appartiene alla tradizione liberale l’idea che la garanzia stia nella forma e non nel contenuto della regola, ma il problema è l’idea distorta che si ha proprio della forma. Da un punto di vista della politica del diritto, è vero che ci sono settori della magistratura inclini a pensare che la giustizia coincida con l’accusa e che basti quest’ultima per fare dell’accusato un colpevole. In questa strategia v’è il sostegno di buona parte dell’informazione. Sicuramente è una forma di populismo giudiziario, ossia di quel modo ritenuto più semplice perché un magistrato possa assumere le vesti di interprete delle esigenze e degli interessi del popolo: quest’ultimo vuole giustizia dei corrotti e dei mafiosi? La semplice accusa soddisfa quel bisogno».

Andrea Reale: «Gruppi di potere privati, le correnti, hanno in pugno la casa di noi magistrati». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 giugno 2020. «Il Csm è un organo di garanzia per tutte le toghe, ma chi non fa parte delle correnti abusivamente istituite in Plenum non è tutelato. Abbiamo creato un blog, pronti alla scissione dall’Anm». «Gli estremi per i procedimenti disciplinari ci sono tutti. Mi auguro che vengano istruiti e portati a compimento», dichiara Andrea Reale, gip al Tribunale di Ragusa, fra i promotori del blog toghe.blogspot.com, una piattaforma nata per evidenziare i mali del correntismo in magistratura, commentando le chat dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.

Dottor Reale, è rimasto sorpreso dalla lettura delle chat? Erano tantissimi i suoi colleghi che si rivolgevano a Palamara per una nomina o un incarico.

«Per nulla. Sono anni che denunciamo, ovviamente inascoltati, queste condotte».

Pensa che oltre al disciplinare ci possano essere anche degli aspetti di rilevanza penale?

«Mi rendo conto che denunciare fatti penalmente rilevanti è complicato e non è facile capire chi poi dovrebbe indagare. Ma comunque penso di si.

Chi è stato indicato per un incarico direttivo in base a queste logiche cosa dovrebbe fare?

«Queste nomine devono essere tutte annullate. C’è un vizio di legittimità dell’atto: violazione di legge o eccesso di potere, se non entrambi. E poi serve massima attenzione alle nomine effettuate “a pacchetto”, tipo la Procura generale della Cassazione o il Massimario».

Spieghiamo per chi non è un magistrato cosa è il “pacchetto”.

«Il Csm aspetta che ci siano un certo numero di posti vacanti in quegli uffici e poi li mette a concorso tutt’insieme. In questo modo i posti vengono assegnati in base ai rapporti di forza fra le correnti».

Il pg della Cassazione Giovanni Salvi ha messo in campo una task force per analizzare le chat.

«Spero che chi sia preposto a tale compito sia avulso da queste dinamiche».

È trascorso oltre un anno da quando lo scandalo Palamara è esploso. È cambiato qualcosa al Csm?

«Nulla. L’ultimo esempio di resilienza è stata la nomina del neoprocuratore di Perugia, votato in maniera compatta dal gruppo di Area, nonostante gli anni trascorsi fuori ruolo, oltre che da tutta la componente laica».

Con alcuni suoi colleghi avevate chiesto lo scioglimento del Csm.

«Era, ed è, l’unica soluzione. Mi rendo conto che possa sembrare imbarazzante per il presidente del Csm, che è il capo dello Stato, ma non penso sia possibile al punto in cui siamo procedere in maniera diversa».

Perché?

«Io, e tanti come me che non sono iscritti a nessuna corrente, abbiamo ormai contezza che questo Csm non è imparziale e trasparente nel suo funzionamento. E le correnti hanno, dopo l’elezione dei componenti togati, costituito abusivamente e, a mio parere, in modo incostituzionale, i cosiddetti gruppi consiliari. Chi non aderisce ad alcuno di essi non può contare sull’organo di garanzia nato a tutela di ciascun magistrato, soprattutto di chi orgogliosamente non intende "appartenere"».

Parole forti.

«Il problema sono i gruppi dentro il Csm. Deve trovarsi un modo, immediato, per tagliare fuori le correnti dal Csm. Sono associazioni di carattere privato che si sono impossessate del Csm. Ed io, ripeto, che non sono iscritto ad alcuna di loro, non sento tutelata la mia autonomia ed indipendenza. Io pretendo che il Csm sia diverso. L’ha ricordato recentemente anche il Capo dello Stato quando ha affermato che si “impone, in modo categorico, che si prescinda dai legami personali, politici o delle rispettive aggregazioni, in vista del dovere di governare l’organizzazione della Magistratura nell’interesse generale”».

Visto che lo scioglimento del Csm e delle correnti non è fattibile, cosa si potrebbe fare?

«Subito il sorteggio per l’elezione del Csm.

Sul sorteggio i suoi colleghi sono contrari.

«Certo che chi oggi ha in mano il Csm e l’Anm è contrario. É ovvio».

Stanno girando diverse proposte.

«Le ho studiate tutte. Ho letto recentemente quella presentata da Area, il cartello progressista. Sono tutti palliativi che non servono assolutamente a nulla. Maggioritario, proporzionale, doppio turno, sono tutte riforme gattopardesche che permetteranno alle correnti di spadroneggiare come fanno ora».

Comunque il dibattito c’è.

«Il dibattito interno, sulle mailing list della magistratura, non ha mai dato frutti. Ora abbiamo questo blog per cercare solidarietà all’esterno. Un’apertura alla società civile: giuristi, accademici, avvocati, giornalisti. Sta dando grandi soddisfazioni. Se pensa che anche un ex presidente della Corte costituzionale si è detto favorevole al sistema del sorteggio».

Torniamo all’Anm: Palamara è stato espulso la scorsa settimana.

«Non avrebbero dovuto pronunciarsi; erano tutti in una situazione di grave conflitto di interessi. Sono stati tutti a contatto con Palamara. Ad iniziare da quelli del suo gruppo che gli hanno votato contro. E poi con quale autorevolezza dopo quello che è successo è stato possibile prendere una decisione del genere?»

Palamara voleva essere sentito ma gli è stato vietato.

«Ecco, infatti. Lo statuto non dice nulla al riguardo. Ma in decine di altri casi esso non è stato rispettato dagli organi esecutivi dell’Anm: penso in materia di convocazione di assemblee generali, o di pubblicità dei bilanci, o di votazioni segrete per la designazione della giunta esecutiva centrale».

Le nuove elezioni per il rinnovo dell’Anm sono fissate a fine anno.

«Ma non servono a nulla. Alcuni, nell’uscente Comitato direttivo centrale, sostengono addirittura che le liste siano chiuse. Io non condivido. In compenso l’alternativa sarebbe da subito costituire un, altra associazione ovvero procedere a una scissione di quella esistente».

Un giudizio sull’Anm di cui lei ha fatto anche parte anni addietro?

«Assolutamente deludente e incapace di una efficace azione sindacale e istituzionale».

Insomma, è scettico sul cambiamento?

«Dall’interno della magistratura il cambiamento è alquanto improbabile. Dall’esterno forse è più verosimile, ma è difficile».

Il processo disciplinare. Magistratopoli, ecco i capri espiatori di Salvi: 10 espulsi (tra cui Palamara) per ripartire. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Giugno 2020. Si profila “l’espulsione” dalla magistratura, tecnicamente si tratta della “rimozione dall’ordine giudiziario”, per tutti i partecipanti all’incontro avvenuto la sera dell’8 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma. Questi i nomi delle toghe coinvolte: l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, gli ex consiglieri del Csm Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, e Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e attualmente deputato di Italia viva. Durante il dopo cena, alla presenza di Luca Lotti (Pd), i sette magistrati discussero di alcune nomine di importanti uffici giudiziari, in particolare del futuro capo della Procura di Roma.  Colloqui che configurano una «condotta scorretta nei confronti dei colleghi che correvano per la Procura di piazzale Clodio» e «interferenza nell’esercizio degli organi costituzionali, per l’offensività delle condotte tenute». Espulsione in vista anche per Stefano Fava e Cesare Sirignano. Il primo, ex pm a Roma, autore di un esposto contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il secondo, ex sostituto alla Direzione nazionale antimafia, interlocutore privilegiato di Palamara in materia di nomine. Nel disciplinare sono coinvolti anche due magistrati segretari del Csm, ma le loro posizioni non sono state ritenute particolarmente gravi. Non dovrebbero, quindi, perdere il posto di lavoro. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, pressato da giorni, ha deciso di dare un segnale forte.  Per la prima volta ieri è stata indetta una conferenza stampa sul tema “delle azioni disciplinari”. Una decisione assolutamente irrituale – le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono decine ogni mese – che ben descrive il clima che sta attraversando la magistratura italiana. Un clima pesante le cui avvisaglie si sono avute la scorsa settimana con l’espulsione di Luca Palamara dall’Anm. Gli osservatori di piazza Cavour leggono nell’iniziativa di Salvi la volontà di “tranquillizzare” la pubblica opinione che le condanne ci saranno e, al contempo, di mandare un avviso ai “naviganti” delle Procure di smettere con le chat per cercare sponsorizzazioni. È stato lo stesso Salvi ad affermare che questa vicenda «ha segnato un punto di non ritorno, quello che è successo è irreversibile: l’impatto sull’opinione pubblica è stato pessimo ma proprio per questo c’è un gran desiderio di voltare pagina». Il rischio, ora, è che questi magistrati paghino per tutti. Complice l’estate, il Covid-19, la memoria corta, lo scandalo che ha travolto il Csm potrebbe chiudersi con il licenziamento dei magistrati che hanno avuto la “sfiga” di essere registrati dal trojan inoculato nel telefono di Palamara. Quanti sono i magistrati che si trovano in posti di prestigio e che possono giurare di non aver mai cercato “sponde” per essere nominati? Salvi, sul punto, ha anche precisato che l’esame delle chat in cui una pletora di magistrati cerca aiuto da Palamara per un incarico o una nomina è in corso. «Un lavoro impegnativo, non tanto per la mole dei documenti, perché le chat per lo più hanno un carattere privato, quindi senza ipotesi disciplinari, ma sono di difficile lettura rispetto alle vicende di cui si tratta, per cui è necessario valutare i pro e i contro», ha precisato Salvi, sottolineando «criteri chiari e trasparenti» che saranno anche pubblicati sul sito della procura generale”. Aggiunge: «Possiamo anche sbagliare, ma garantiamo la massima trasparenza sui criteri». Sul fronte dei tempi la road map è segnata. Entro l’estate verranno ultimati gli accertamenti, poi sarà il turno della Sezione disciplinare del Csm. Questi i togati che comporranno il collegio presieduto dal laico in quota M5s Fulvio Gigliotti: Piercamillo Davigo, Marco Mancinetti, Giuseppe Cascini, Paola Braggion. Ognuno di loro esponente di una delle correnti della magistratura. È probabile, però, che fra astensioni e ricusazioni il collegio possa subire modifiche. Si pensi, ad esempio, al caso di Mancinetti fra i più assidui chattatori con Palamara e legato dalla comune appartenenza ad Unicost.

Magistratopoli, il caso Cascini: lascia Md per aver chiesto un accredito a Palamara. Paolo Comi de Il Riformista il 7 Agosto 2020. Giuseppe Cascini avrebbe lasciato Magistratura democratica. La notizia, certamente inaspettata, attende solo la conferma del diretto interessato. Sulla decisione, verosimilmente, deve aver pesato la pubblicazione nelle scorse settimane della chat, intercettata nell’ambito dell’indagine di Perugia, con Luca Palamara. Nulla di penalmente rilevante ma messaggi che hanno creato grande imbarazzo nella sua corrente che della questione morale in magistratura ha sempre fatto un vanto. A finire nel mirino, la richiesta di informazioni per l’accredito del figlio nella tribuna vip dello stadio Olimpico e sull’iter del tramutamento del fratello minore Francesco, ora pm a Roma e all’epoca fuori ruolo presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia. All’indomani della pubblicazione della chat, Cascini aveva diffuso una nota sulle mailing list dell’Anm in cui chiariva quanto accaduto, minacciava querele per i giornali che avevano pubblicato i suoi messaggi con Palamara, e ribadiva di non aver mai chiesto favori a nessuno per se o altri. Da sempre esponente di punta della corrente di sinistra delle toghe, dal 2018 è consigliere del Csm. Classe 1965, già sposato con una collega, dal 2008 al 2012 ha condiviso con Palamara il vertice dell’Anm. Era il periodo dello scontro frontale fra politica e magistratura durante il governo Berlusconi. Nel 2014 tentò per la prima volta la candidatura al Csm. Un eccesso di fiducia nelle proprie capacità in quanto la sinistra giudiziaria aveva già due candidature importanti, quella di Fabio Napoleone, storico pm di Milano, e Antonello Ardituro, sostituto anticamorra a Napoli, poi eletti. Un “triplete” di pm di sinistra, i posti per i requirenti al Csm sono quattro, era improbabile. Esploso lo scandalo “Palamara” lo scorso anno, non ha mai rinnegato l’amicizia che lo legava all’ex ras delle nomine. In pieno Covid-19, la scorsa primavera, rilasciò un’intervista a Lucia Annunziata su Rai Tre: «Sono anni che lanciamo un grido d’allarme: questo scandalo getta un discredito sull’intera magistratura, è un problema che riguarda tutta la classe dirigente della magistratura». E poi: «Ho sempre detto che l’autogoverno rischiava di suicidarsi. Abbiamo tutti la responsabilità». Fra i motivi della degenerazione del sistema, i troppi posti apicali: «Su 9mila magistrati ci sono 1.200 dirigenti: è un esercito di generali ed eserciti così raramente vincono le guerre. Dobbiamo ridurre drasticamente il numero di dirigenti. Serve un passo indietro delle correnti rispetto alla gestione del potere. C’è una pressione enorme di parte della magistratura per acquisire incarichi direttivi». Come realizzare questi buoni propositi, però, non è dato sapere. «Le iniziative del ministro Bonafede sulla riforma del Csm vanno in una giusta direzione», aveva poi aggiunto. Pur sapendo, in cuor suo, che la legge di riforma dell’organo di autogoverno delle toghe difficilmente verrà approvata per le prossime elezioni del rinnovo del Csm. Alla presenza del capo dello Stato, nel drammatico Plenum di giugno 2019, si lanciò in un parallelismo con lo scandalo P2, quando gli allora vertici di Magistratura indipendente, la corrente più coinvolta nel Palamara gate, erano finiti negli elenchi di Castiglion Fibocchi. Confronto sopra le righe è duramente criticato da molti. Arrivato al Csm ha preso per mano il suo gruppo uscito con le ossa a pezzi dopo le elezioni del 2018, da sette consiglieri a quattro, e lo ha rilanciato. Ora le toghe progressiste sono cinque e, mai successo prima, sia il primo presidente della Cassazione che il procuratore generale di piazza Cavour sono esponenti di Md. Si è spesso scontrato con i nuovi “alleati”, i davighiani di Autonomia&indipendenza. Fra i temi divisivi il carcere e alcune nomine. Ad iniziare da quella di Raffaele Cantone che ha stracciato il candidato di Davigo, Luca Masini, per il posto di procuratore di Perugia. Da pm a Roma ha avuto buoni rapporti con Giuseppe Pignatone, condividendone i metodi d’indagine. In qualità di procuratore aggiunto ha gestito il processo ex Mafia capitale. Fra due anni tornerà in Procura a Roma dove troverà Michele Prestipino ma non Paolo Ielo, l’altro aggiunto di spicco di piazzale Clodio, in pole position per diventare il nuovo procuratore di Milano. Il primo appuntamento è previsto per ottobre per le elezioni per il rinnovo dell’Anm.

Anm, Palamara adesso rivela: "Le nomine? A cena..." La toga cacciata dall'Associazione nazionale magistrati svela come venivano assegnati gli incarichi ai colleghi. Alberto Giorgi, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Luca Palamara ancora e sempre sotto i riflettori. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, espulso dall’organo, è sotto giudizio disciplinare – peraltro insieme a nove toghe – per l'incontro avvenuto in un hotel di Roma in cui si discuteva di nomine ai vertici delle principali procure italiane. A tal proposito, come scritto nei giorni scorsi, la procura generale della Corte di Cassazione ha concluso la prima fase dell'istruttoria disciplinare a carico dei magistrati coinvolti nel caso Palamara e procure, richiedendo il processo alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Oggi Palamara, intervistato dall’Huffingtion Post, svela quello che era il meccanismo per l’assegnazione degli incarichi ai colleghi. Le nomine, dice, avvenivano a cena. "Dietro ogni nomina c’è una cena. Tante volte, però è successo che le nomine siano state negoziate prima che arrivassero nella loro sede naturale: la quinta commissione del Csm e poi il plenum", racconta candidamente all’HuffPost. "Stabilire quale magistrato mandare in un posto e quale in un altro? In questo caso i partecipanti erano esponenti e Magistratura indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri gruppi. Presente il manuale Cencelli? (assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso, ndr) Ecco, si applica anche alla magistratura. Si spartiscono gli incarichi in base all’appartenenza", prosegue nella chiacchierata con l’HP. "Quante cene o incontri ho fatto dal 2007 ad oggi? Vede, dietro ogni nomina ci sono cene, discussioni, accordi tra correnti. Questo deve essere chiaro: non si muove foglia che corrente non voglia". E la politica? "L’interlocuzione con la politica c’è. Io, ad esempio, quando ero presidente dell’Anm ho incontrato tanti esponenti politici. Ritenevo di dovere parlare con tutti". Questo, insomma, lo spaccato offerto da Palamara. Ma non è finita qui. L’ex presidente dell’Anm, infatti, parla anche delle nomine alla Direzione nazionale Antimafia e per l’esattezza a quella mancata a Nino Di Matteo, sostenendo che è stato penalizzato perché non apparteneva a una corrente. Infine, Palamara chiosa così: "Ci sono tanti magistrati che non hanno mai fatto parte di questo sistema. Non hanno mai usato una corrente per avere un incarico. Ed è a loro che dobbiamo chiedere scusa, oltre che a tutti i cittadini…".

Le cene segrete di Palamara, le toghe rosse e le nomine. "La Verità" pubblica nuove intercettazioni di Palamara, stavolta si parla di una cena organizzata per un pm in cerca di un ruolo prestigioso. Federico Garau, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Nuove sconcertanti rivelazioni sul pm Luca Palamara, finito al centro di una vera e propria bufera dopo la pubblicazione di alcuni suoi messaggi Whatsapp in cui si parlava del leader della Lega Matteo Salvini e della necessità di "attaccarlo". Col proseguire delle indagini, sempre più elementi stanno venendo a galla e mettendo in imbarazzo la magistratura. Il quotidiano "La Verità", il primo a lanciare la bomba con la pubblicazione delle chat, riporta oggi una nuova notizia, parlando di una cena privata a cui parteciparono non solo Palamara e l'amico Cosimo Ferri, ma anche Luigi Birritteri, rappresentante della sinistra giudiziaria all'epoca candidato per entrare a far parte della segreteria generale del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ed oggi sostituto Procuratore generale della Corte di cassazione. Stando a quanto riferito da "La Verità", che ha riportando quanto scoperto dagli inquirenti, l'incontro fra i tre magistrati era avvenuto nella serata del 9 aprile 2019. Ad occuparsi dell'evento l'avvocato Giuseppina Rubinetti, conosciuta con il soprannome "Gippy": la cena, infatti, si svolgerà proprio a casa sua, nel quartiere dei Parioli. Il nome della donna, collaboratrice dell'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, era già emerso nel corso di un'altra indagine aperta dalla procura della Repubblica di Roma, spiegano gli investigatori. La cena in onore di "Gigi" (Luigi Birritteri) aveva certamente "finalità propagandistica", proseguono gli inquirenti. Ad avvalorare questa ipotesi, il contenuto di una telefonata avvenuta fra Luca Palamara e Giuseppina Rubinetti. Durante la conversazione, la Rubinetti dice di dover sentire "Gigi". Un nome che, inizialmente, non viene riconosciuto da Palamara, che chiede spiegazioni. "Birritteri non volevamo farla anche con lui?", precisa allora l'avvocato. "Gigi non l'ho sentito eh i miei", risponde allora il pm. "Ma Gigi perché non l'avevo messo nella chat? Però ti ricordi che avevamo detto facciamo una cena per Gigi?", continua la Rubinetti.

Il magistrato sembra tentennare, e replica: "Ma se tu vuoi fare per tirargli la sponda a lui e tutto quanto...". "Esatto!", conferma la Rubinetti.

"Però questo fammi parla' pure con loro... almeno li preparo pure, hai capito?", dice allora Palamara, tirando in ballo anche altre persone. "Gli vogliamo tutti bene oh", aggiunge poi.

La discussione si sposta poi sulla pm Francesca Loy, anch'ella invitata alla cena. "A che ti serve?", domanda Palamara, evidentemente poco contento di quella presenza. La Rubinetti spiega che "stanno sempre insieme loro due e lei è chiaramente molto amica sua".

In un'altra conversazione, stavolta con Cosimo Ferri, Luca Palamara si sfoga: "Gippy vuole portare la Francesca Loy con Birittieri, però quella ce vuole venì a rompere il cazzo sul segretario generale, io direi di non... che dici?".

La cena, dichiarano gli inquirenti, doveva restare riservata, ed il contenuto di una seconda telefonata avvenuta fra Palamara e Ferri in data 9 aprile avrebbe confermato la presenza di Birritteri. "Cosimino, ma stasera non parliamo davanti a Gigi eh... parliamo dopo che ti devo dire un sacco di cose", dice infatti Palamara nel corso della conversazione.

A svelare la natura degli incontri anche alcune scioccanti dichiarazioni di un'amica di Palamara, Adele Attisani. "Non dovete parlare di lavoro... dovete fare le cagate che organizzate voi", dice infatti quest'ultima, parlando al pm. Poi continua, furiosa: "Tutti voi, di questi... di quell'ambiente, capito? Tutto una porcheria, una porcheria... E la prima è quella che organizza, Gippy, che organizza per voi perché è una che cerca di farvi accoppiare, ma fate schifo... siete una categoria schifosa. E meno male che ti rendi conto di quello che fate, meno male che ti rendi conto che fate delle marchette, Gippy vi porta le donne, ciao e non mi chiamare più".

Scambi di messaggi con Luigi Birritteri, riporta "La Verità", erano avvenuti anche nel 2018, quando quest'ultimo incalzava Palamara per essere aiutato a rientrare nella Procura generale della Cassazione.

"Ogni cena una nomina". Intervista a Luca Palamara. Il magistrato espulso dall'Anm racconta il meccanismo che ha governato negli anni l’assegnazione degli incarichi alle toghe. "Sapevo che il sistema non poteva reggere per sempre così. La politica? Dice la sua, ma l'ultima parola spetta alle correnti". Federica Olivo il 26/06/2020 su huffingtonpost.it. “Dietro ogni nomina c’è una cena”. E poi un accordo e una serie di discussioni, in cui la politica prova a fare la sua parte, ma sa che alle correnti spetterà l’ultima parola. Luca Palamara racconta così il meccanismo che ha governato negli ultimi anni l’assegnazione degli incarichi ai magistrati. Soprattutto di quelli più importanti, soprattutto delle procure. Non c’è solo la riunione all’hotel Champagne, è il senso del discorso che il pubblico ministero, oggi sospeso, al centro dell’inchiesta della procura di Perugia sulle nomine delle toghe, fa con HuffPost. Non c’è stata, cioè, solo quella cena con Luca Lotti, Cosimo Ferri e cinque togati del Csm, captata dal trojan installato nel cellulare di Palamara nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2019. In quel caso si parlava della designazione del procuratore capo di Roma, quello che sarebbe diventato il successore di Pignatone. Tante volte, però, - dice Palamara - è successo che le nomine siano state negoziate prima che arrivassero nella loro sede naturale: la quinta commissione del Csm e poi il plenum. “Il trojan ha fotografato un accordo tra due gruppi. In questo caso erano Magistratura Indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri”. E’ il suo modo, ancora una volta, di ricordare che nelle negoziazioni portavano agli incarichi più prestigiosi non giocava da solo. E’ passata quasi una settimana dall’espulsione dall’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. E appena una giornata dall’annuncio del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, della richiesta di un provvedimento disciplinare per il magistrato e per altre nove toghe in qualche modo coinvolte nella vicenda che sta travolgendo il potere giudiziario italiano. Palamara racconta la sua versione. “Ha presente il manuale Cencelli?”, dice. “Ecco, noi lo usavamo stabilire gli incarichi, ma assicuro di aver sempre spinto per i più bravi”. Almeno per gli incarichi più importanti, precisa poi.

Lei negli ultimi giorni ha sottolineato più volte di non voler fare da capro espiatorio. Di essere stato parte di un sistema. Perché ha iniziato a parlare ora?

«Perché solo ora sono state depositate le carte della Procura di Perugia, che offrono uno spaccato diverso e quindi mi impongono un dovere di chiarimento. Per raccontare il meccanismo, ordinario, con cui si trattava per scegliere i magistrati da destinare agli incarichi. Il trojan, ferme restando le tutte eccezioni di inutilizzabilità, quando ha registrato la riunione all’Hotel Champagne, ha fotografato l’attività tipica delle associazioni dei magistrati: quella di negoziare gli incarichi. Stabilire quale magistrato mandare in un posto e quale in un altro. In questo caso i partecipanti erano esponenti e Magistratura indipendente e Unicost. Bisogna vedere cosa fanno gli altri gruppi. Ha presente il manuale Cencelli?»  

Certo. 

«Ecco, si applica anche alla magistratura. Si spartiscono gli incarichi in base all’appartenenza»

Un’affermazione che non deve essere molto facile da digerire per un cittadino che ha tutt’altra idea della magistratura. Ma, quindi, non c’è stato solo l’Hotel Champagne? Ci sono state altre cene?

«Vuole sapere quante cene o incontri ho fatto dal 2007 ad oggi? Vede, dietro ogni nomina ci sono cene, discussioni, accordi tra correnti. Questo deve essere chiaro: non si muove foglia che corrente non voglia».

Alla cena di cui stiamo parlando partecipavano due esponenti politici: parliamo di Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa e già leader della corrente Mi, oggi parlamentare) e Luca Lotti. La magistratura dovrebbe essere, è per Costituzione, un potere indipendente. La politica incide nelle nomine?

«Partiamo dal presupposto che il ruolo preponderante lo hanno i magistrati, anzi, le correnti. Ma la politica vuole contare. I laici al Csm vogliono contare. E, lo ricordo, questi ultimi sono eletti dal Parlamento. Dalla politica. Non dimentichiamo che gli ultimi vicepresidenti del Csm sono stati dei politici».

Va bene. Ma fin quando parliamo di discussioni all’interno delle commissioni del Consiglio superiore della magistratura o in plenum è un conto. Fare nomine, e quindi parlarne, è uno dei ruoli dell’organo di autogoverno. Qui, invece, stiamo parlando di riunioni che si svolgevano fuori da Palazzo dei Marescialli.

«Certo, ma l’interlocuzione con la politica c’è. Io, ad esempio, quando ero presidente dell’Anm ho incontrato tanti esponenti politici. Ritenevo di dover parlare con tutti».

Ma, parliamoci chiaro: succede che un politico chieda, le abbia chiesto, di intervenire su una nomina?

«Lo ribadisco, una parte fondamentale nella partita delle nomine la giocano le correnti. Certo, poi spesso l’accordo tra loro non basta. Succede, certamente, che il politico voglia dire la sua sulle nomine. Ma sa bene che l’ultima parola spetta sempre e comunque alle correnti»

Non l’ha mai spuntata la politica?

«Guardi, io sfido chiunque a censire una a una le nomine fatte quando ero consigliere del Csm (2014-2018) e a vedere se ho mai anteposto l’interesse personale o soddisfatto le pretese della politica. Su questo non temo nessun giudizio del pubblico, anzi sono io che lo chiedo. Voglio, però, che sia chiaro: il politico chiede, ma sa che la magistratura è dominata dai rapporti di forza tra le correnti»

Da questo racconto non esce un ritratto edificante dei gruppi delle toghe. Lei dice che era prassi agire così. Ma non ha mai pensato che, continuando di questo passo, prima o poi qualcosa sarebbe esploso?

«Sì, ne ero consapevole. Sapevo che il sistema non avrebbe potuto reggere per sempre così»

E infatti oggi ci troviamo con una magistratura che fatica a riprendersi la credibilità perduta. Ma c’è stato un momento di cesura? Che ha dato l’occasione alle correnti di prendere più potere?

«Sì, c’è un anno da prendere come riferimento: il 2007. Quando si decise che il criterio preminente per le nomine non sarebbe stato più l’anzianità. Non si doveva optare per chi era magistrato da più tempo, ma per chi era più bravo. Ma il punto è questo: chi lo decide chi è più bravo? E da qui il carrierismo, l’attitudine di alcuni magistrati ad autoproporsi ai leader delle correnti. E tutto il resto. Voglio, però, ribadire che almeno per i posti più importanti, quando io ho avuto un qualche ruolo, sono stati scelti i più bravi. Penso a Napoli, a Milano, a Genova. E che non ho mai messo in discussione l’indipendenza della magistratura».

“Tutto il resto” sono i cocci che raccogliamo ora. Nei posti più importanti, dice lei, sono stati scelti i più bravi. In altri casi non è successo?

«Certo, basti pensare alle nomine alla Direzione nazionale Antimafia, ad alcuni incarichi semidirettivi. Il cittadino deve sapere che se ad un certo punto c’erano otto nomine da fare per la Cassazione, si decideva che dovessero essere spartite tra le correnti».

La Dna, dice, si riferisce alla mancata nomina di Di Matteo?

«Esatto. In quel caso è stato penalizzato perché non apparteneva a una corrente».

Non solo lui, immagino.

«Già, ci sono tanti magistrati che non hanno mai fatto parte di questo sistema. Non hanno mai usato una corrente per avere un incarico. Ed è a loro che dobbiamo chiedere scusa, oltre che ai cittadini».

Subito dopo la notizia dell’espulsione dall’Anm (arrivata sabato 22 giugno, ndr) lei ha iniziato a parlare, a chiamare in causa alcuni colleghi. Ma perché farlo ora, dopo più di un anno da quando l’inchiesta è iniziata, e non prima?

«Perché mi sembrava giusto parlare davanti a quello che in quel momento era il mio giudice, il Comitato direttivo centrale dell’Anm. Non mi è stata data la possibilità di farlo e sono stato espulso, decisione che non condivido ma rispetto. Ho ritenuto quindi di spiegare il meccanismo attraverso il quale ho svolto i 15 anni della mia vita associativa. E dovevo riferirmi a dei fatti».

Quindi, in sostanza, ha deciso di fare nomi perché l’Anm non le ha dato modo di difendersi?

«Ho reso pubblico il documento che avrei letto se mi avessero fatto parlare. Non è altro che una ricostruzione dei fatti che potrebbero essere utili alla mia difesa. L’avrei voluto fare davanti al cdc, lo farò nelle altre sedi competenti. Ho voluto rendere noto il meccanismo attraverso il quale ho fatto associazionismo in magistratura negli ultimi 15 anni»

Ieri il pg della Cassazione ha annunciato di aver chiesto l’azione disciplinare nei suoi confronti. A Perugia molto probabilmente dovrà affrontare un processo penale. Cosa si aspetta?

«Intanto faccio presente che l’accusa di corruzione più grave - quella di aver preso 40mila euro per la nomina del procuratore di Gela - non esiste più. Quanto al giudizio disciplinare, avrò modo di chiarire una volta per tutte - e con tutti gli atti a disposizione - come sono andate le cose. Fino ad ora è stato analizzato solo un frammento. Gli audio acquisiti faranno capire come si sono svolti i fatti».

Lasciamo un attimo da parte l’inchiesta di Perugia. Di recente il dottor Di Matteo in audizione alla Commissione Antimafia, ha parlato di un presunto contatto che, nel 2012, il Quirinale avrebbe tentato con la procura di Palermo. Siamo nei mesi del conflitto di attribuzioni per le intercettazioni di Napolitano, giudicate irrilevanti e capitate nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Di Matteo, riportando parole di Ingroia, sostiene che dal Colle volevano avvicinare i pm. E che lei avrebbe potuto essere uno dei possibili mediatori. E’ vero?

«Guardi: una cosa è certa. Nella mia vita non ho mai voluto interferire nelle vicende altrui. Sono disposto però ad approfondire la mia attività di quel periodo».

Mi sta dicendo che se la cosa fosse andata avanti, lei avrebbe effettivamente potuto avere un ruolo?

«Sto dicendo che se mi chiameranno nelle sedi opportune a spiegare cosa facevo in quei mesi, lo riferirò».

Palamara ora cambia idea: “Sui magistrati politicizzati Berlusconi aveva ragione”. Il Dubbio il 13 Ottobre 2020. L’ex magistrato appena radiato dal Csm era presidente dell’Anm nel momento in cui lo scontro tra toghe e politica era più aspro. ”L’allarme lanciato da Berlusconi sulla politicizzazione della magistratura? Non era infondato”. Lo dice Luca Palamara, l’ex magistrato appena radiato dal Csm, in un’intervista a ”Le Iene Show”. “Io non sono stato mai contro qualcuno nella mia carriera… Mai… E questo lo dico per tranquillità dei cittadini, io non sono stato un magistrato politicizzato, al di là di quello che può emergere dalle chat ma ho cercato sempre di battermi per l’affermazione di una giustizia giusta”, assicura Palamara, che è stato tra l’altro presidente dell’Anm “nel periodo più acuto” dello scontro tra politica e magistratura ai tempi di Berlusconi. “Assolutamente è stata una fase che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista, anche come dire alla luce di quello che è accaduto – spiega l’ex magistrato – In quell’epoca tanto per fare una battuta ero fortemente alleato con le correnti di sinistra, quando poi c’è stato lo spostamento con le correnti di destra, mi lasci dire che è successo quel che è successo. Quindi nella vita non c’è nulla di immutabile ma bisogna comprendere i fenomeni e le situazioni, anche interne alla magistratura e riflettere su tutto quello che è successo”. “Devo ritenere – precisa Palamara – che questa idea che io potessi in qualche modo fare un accordo che tagliasse fuori la sinistra della magistratura ha sicuramente inciso su quello che è accaduto”. Insomma, “il mio accordo con Ferri è stato fortemente visto come un qualcosa che non andava bene”, cioè l’accordo tra Luca Palamara di Unicost e Cosimo Ferri, “inteso come rappresentante della corrente di destra”, di magistratura indipendente, “anche se era sì, parlamentare”.

Palamara alle “Iene”: «Magistrati politicizzati? Berlusconi aveva ragione. Le correnti dominano». Redazione martedì 13 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. «Ancora ritengo che la partita non sia finita… e non lascerò nulla di intentato affinché possa essere scritta veramente la verità di quello che è accaduto». Lo dice Luca Palamara, in un’intervista esclusiva, che andrà in onda stasera, martedì 13 ottobre, in prima serata su Italia1 a Le Iene Show. Palamara dà la sua versione dei fatti ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Spiega come – secondo lui – in Italia le nomine dei magistrati sarebbero tutte dettate da logiche di spartizione tra le correnti politiche delle toghe e non dalla meritocrazia. Per la prima volta in tv da quando ha dovuto dismettere la toga, ripercorre tutte le tappe della vicenda balzata agli onori della cronaca negli ultimi mesi. Le intercettazioni telefoniche a sua insaputa durante una cena che l’ha messo nei guai per trovare i voti ad uno dei candidati per il posto di Procuratore a Roma.

E su come funzionano le cose tra i magistrati alle Iene dice: «Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato», dichiara.

«Ci stanno dei casi ma molti rari di cui un non appartenente a una corrente ricopre un incarico perché questo avviene soprattutto per i posti di minore importanza, per i più importanti le correnti sono dominanti».

Palamara spiega come funzionano le nomine. «Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato. Se un candidato non ha l’appoggio delle correnti non riesce a diventare Procuratore della Repubblica». E poi ancora. «Chi partecipa ad un concorso per diventare Procuratore della Repubblica, normalmente lo fa facendo una cosiddetta autorelazione», racconta Palamara. Spiegando che l’autorelazione «spesso diventa una sorta di autoesaltazione del magistrato, dove elencano una serie di titoli che ha ovviamente conseguito in carriera. Chi la fa è normalmente una persona sicuramente titolata». Dal «punto di vista dell’anzianità e del merito. Cioè vuol dire che è uno in grado di poterlo fare altrimenti non è che fa la domanda l’ultimo sprovveduto. È vero – ammette però l’ex magistrato – che in quel momento e quel contesto chi vince deve avere un appoggio delle correnti, se non ha l’appoggio delle correnti non riesce a diventare procuratore della Repubblica».

Se è più importante essere bravo o avere amico Palamara? Palamara «adesso non c’è, diciamo è importante avere come amici gli esponenti delle correnti». Perché «chi è bravo rischia di essere penalizzato se non ha l’appoggio degli esponenti delle correnti, questo ci dice la storia».

«L’allarme lanciato da Berlusconi non era infondato». «L’allarme lanciato da Berlusconi sulla politicizzazione della magistratura? Non era infondato». «Io non sono stato mai contro qualcuno nella mia carriera… Mai… E questo lo dico per tranquillità dei cittadini, io non sono stato un magistrato politicizzato. Al di là di quello che può emergere dalle chat ma ho cercato sempre di battermi per l’affermazione di una giustizia giusta». Assicura Palamara, che è stato tra l’altro presidente dell’Anm “nel periodo più acuto” dello scontro tra politica e magistratura ai tempi di Berlusconi. «Assolutamente è stata una fase che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista. Anche come dire alla luce di quello che è accaduto. –spiega l’ex magistrato – In quell’epoca tanto per fare una battuta ero fortemente alleato con le correnti di sinistra…».

Palamara sulle elezioni di Ermini. «Per le elezioni di Ermini ho interloquito con Lotti, Ferri, Movimento 5 Stelle e Forza Italia». Parlando della nota cena all’Hotel Champagne, Palamara spiega: «La presenza col politico, in questo caso l’onorevole Lotti, è avvenuta anche in altre situazioni, era già avvenuto in passato ad esempio come ho detto era tranquillamente avvenuta in occasione dell’elezione del vicepresidente del Csm». L’elezione, racconta, “si è svolta con la stessa dinamica… Per eleggere un vicepresidente occorre”. E «d’altra parte io ho avuto interlocuzioni anche con gli esponenti del Movimento 5 Stelle». Come «con quelli di Forza Italia, era una prassi dialogare in quell’occasione con chi voleva diventare vicepresidente. Chi diventa presidente deve avere l’appoggio delle correnti, se non lo ha non lo diventa».

Palamara: «Funzionava così». «Funzionava così. Io ho agito in quel sistema. Oggi poi se diventa una situazione diversa, ne prendo atto però fuori dall’ipocrisia, funzionava così bisognava fare degli accordi tra i gruppi per individuare il miglior nome da scegliere, sia per il vicepresidente…». Poi aggiunge: «Le elezioni del vicepresidente hanno funzionato così, presupponevano gli accordi tra i gruppi». Anche prima di Ermini. Le sembra giusto, le sembra equo che lei sia fuori ed Ermini no? «Guardi a me non sembra giusto perché io so di non aver commesso dei fatti illeciti, quindi non mi sembra giusto». E poi ancora: «Io sono sicuro di non aver mai barattato la mia funzione. Di questo sono sicuro, posso aver sbagliato come dire una frequentazione. Posso aver sbagliato un incontro ma quello che facevo era ricercare gli accordi come sempre avevo fatto nella mia attività. Quindi da questo punto di vista è il motivo per cui intendo ovviamente ricorrere e il momento in cui intendo far comprendere veramente quello che è accaduto».

Nomina di Pignatone a Roma. Quanto invece a quando il Csm ha nominato Giuseppe Pignatone procuratore capo di Roma l’accordo si è fatto, assicura Palamara, «assolutamente nei medesimi termini degli accordi tra le correnti». Cioè riunioni tra esponenti. «Chi individua il nome sono solo i magistrati – precisa – La politica, ovviamente, diciamo così dà un indice di ascolto di comprensione di quello che accade perché sono cariche importanti nella vita pubblica del paese e quindi chiaramente non rimane estranea a questi importanti momenti».

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 14 ottobre 2020. «Ero fortemente alleato con le correnti di sinistra della magistratura, quando c' è stato lo spostamento verso quelle di destra (al Csm, ndr) è successo quel che è successo». Ovvero l' inchiesta per corruzione della procura di Perugia e il ribaltamento di poteri dentro palazzo dei Marescialli. Questo, almeno, è ciò che ritiene Luca Palamara, ex magistrato espulso il 9 settembre dal Csm. Per i togati che l' hanno giudicato e condannato alla radiazione, la colpa di Palamara è stata quella di aver ordito e «organizzato la strategia sulle nomine» dei vertici delle più importanti procure italiane. Tra tutte quella di Roma diretta dal suo (ex) amico Giuseppe Pignatone. Palamara ex uomo forte di Unicost, la corrente centrista delle toghe, che aveva spostato il baricentro del Csm verso i conservatori di Mi alle ultime elezioni a discapito dei progressisti di Area, non ci sta a fare da capro espiatorio e attacca. Lo fa in una intervista a Le Iene, spiegando che del sistema nomine lui sarebbe stato solo un protagonista e non il protagonista. Questa è la sua narrazione. Perciò in queste vesti si sarebbe adoperato, spiega lo stesso Palamara, per far nominare Davide Ermini nell' incarico che attualmente ricopre di vicepresidente del Csm: «Per la sua elezione ho interloquito con Luca Lotti, Cosimo Ferri, M5S e FI», sostiene l' ex magistrato. Insomma l' accostamento che cerca di fare Palamara è chiaro: alcuni degli attori presenti all' Hotel Champagne, che congiuravano per il nuovo vertice della procura di Roma, che di fatto gli è costato la toga, erano gli stessi che ha consultato per il secondo scranno del Csm: «La presenza col politico, l' onorevole Lotti, è avvenuta anche in altre situazioni, ad esempio in occasione dell' elezione del vicepresidente del Csm. Si è svolta con la stessa dinamica».  C' è poi il capitolo che riguarda Giuseppe Pignatone al comando della più importante procura d' Italia, Roma, dal 2012 al 2019. La sua investitura avvenne «assolutamente nei medesimi termini degli accordi tra le correnti». «Chi individua il nome sono solo i magistrati. La politica, ovviamente, non rimane estranea a questi importanti momenti». E infine Palamara parla della cena con Pignatone e ricorda un fatto. Il famoso trojan installato nel suo smarthpone che non ha registrato la conversazione: «Non ha funzionato. Cosa ci siamo detti quella sera? Se fosse stata trascritta i giornali avrebbero avuto materiale per scriverci sopra».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 14 ottobre 2020. «L' allarme lanciato da Berlusconi sulla politicizzazione della magistratura? Non era infondato». Fa un po' specie, ha il suono del paradosso, sentire pronunciare questa frase da un magistrato che ha vissuto il suo massimo fulgore nella scia del giudiziarismo antiberlusconiano. Eppure, benvenuto nel club, dottor Palamara. Luca Palamara l' ex magistrato appena radiato dal Csm con l' accusa di aver "pilotato" per interessi personali la nomina del procuratore di Roma, in un' intervista esclusiva andata in onda su Italia1 a Le Iene Show, ha praticamente approfondito un tema - e un dramma - comune a chiunque, di riffa o di raffa, ci sia finito dentro. Il cosiddetto "uso politico della magistratura", il riempimento del vuoto di potere legislativo, l'"incompatibilità" in realtà compatibilissima tra politici e toghe in liaison costituzionalmente inaccettabili. Sicché, Palamara il radiato, il reietto, l' espulso dal sistema di cui era un pezzo pregiato e pietra angolare da presidente dell' Anm, membro del Csm e capo di Unicost, be', ora è un fiume in piena. «Assolutamente è stata una fase (quella dei processi al Berlusca, ndr) che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista, anche, come dire, alla luce di quello che è accaduto» continua il magistrato alle Iene, «in quell' epoca, tanto per fare una battuta, io ero fortemente alleato con le correnti di sinistra, quando poi c' è stato lo spostamento con le correnti di destra, mi lasci dire che è successo quel che è successo. Quindi nella vita non c' è nulla di immutabile ma bisogna comprendere i fenomeni e le situazioni, anche interne alla magistratura e riflettere su tutto quello che è successo». In effetti, nella vita nulla è immutabile. Tranne, parrebbe, il corporativismo d' acciaio di molte toghe. Palamara in tv è un Masaniello carico a pallettoni. Da qui l' invocazione al Berlusconi di cui sopra, al San Sebastiano di Cologno martire trafitto da mille sentenze. Sicché, alla Iena Antonino Monteleone che gli chiede lumi sulla percezione del Berlusconi per anni tacciato di complesso della vittima, Palamara ribadisce: «Bisogna svolgere un serio momento di riflessione sulla storia politico- giudiziaria del paese, per valutare in che modo le nomine e determinati processi abbiano poi influito. È chiaro poi che il tema dell' uso politico della giustizia è un tema presente anche nel dibattito interno alla magistratura». È chiarissimo. Ora anche per Palamara. L' intervista prosegue con varie dichiarazioni che sono altrettanti colpi d' ascia non si sa quanto funzionali. L' ex pm ripercorre tutte le tappe della sua vicenda: dalle intercettazioni telefoniche a sua insaputa durante una cena nella quale, appunto, si discuteva di nomine e voti a favore di un candidato per il posto di Procuratore a Roma («Così funziona la magistratura: nomine, carriere e la lotta tra le correnti, chi non vi appartiene è sicuramente penalizzato. Se un candidato non ha l' appoggio non riesce a diventare Procuratore della Repubblica») alla nomina del vicepresidente del Csm David Ermini («Se ho orchestrato l' elezione di Ermini a vicepresidente del Csm come può Ermini rimanere al suo posto in maniera indifferente? Questo glielo dovrebbe dirglielo lui, non io»); dalla cena col procuratore Pignatone in cui - sostiene sempre Palamara - il trojan sul suo telefono smise stranamente di funzionare («Cosa ci siamo detti quella sera? Se quella telefonata fosse stata trascritta i giornali avrebbero avuto materiale per scriverci sopra...»), fino al segreto di Pulcinella. Cioè quel definitivo «le nomine in magistratura sono frutto di spartizioni e di accordi. Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato». Il che, diciamo così, non illumina alcuna verità inedita, ma che l' affermi un (ex) magistrato fa sempre un certo effetto.

Da Dagospia. Le Iene il 14 ottobre 2020. Queste sono solo alcune delle clamorose rivelazioni rilasciate da Luca Palamara, l’ex magistrato appena radiato dal Csm, che andranno in onda in un’intervista esclusiva,  in prima serata su Italia1 a “Le Iene Show”. Palamara, parla senza freni da quando è finito nella bufera. Da la sua versione dei fatti ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, e spiega come – secondo lui – in Italia le nomine dei magistrati sarebbero tutte dettate da logiche di spartizione tra le correnti politiche delle toghe e non dalla meritocrazia. Lo fa attraverso affermazioni inedite, nell’intervista integrale che segue, all’indomani della radiazione dalla magistratura. Per la prima volta in tv da quando ha dovuto dismettere la toga, ripercorre tutte le tappe della vicenda balzata agli onori della cronaca negli ultimi mesi: le intercettazioni telefoniche a sua insaputa durante una cena che l’ha messo nei guai per trovare i voti ad uno dei candidati per il posto di Procuratore a Roma. La nomina del vicepresidente del Csm David Ermini - per cui Palamara ammette che è stata frutto di un accordo politico siglato con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, e anche altri esponenti di partiti, come il Movimento Cinque Stelle e Forza Italia. Come si è arrivati alla nomina di Giuseppe Pignatone a capo della procura più importante d’Italia. Quella cena con Pignatone in cui - sostiene - il trojan sul suo telefono smise, guarda caso, di funzionare. Fino ad arrivare agli ultimissimi sviluppi. Luca Palamara, il magistrato da mesi al centro dello scandalo intercettazioni, è colpito da accuse molto gravi: avere pilotato le nomine delle maggiori procure italiane. Non è un pm qualunque, perché in 23 anni di carriera ha rivestito posizioni di rilievo: ex consigliere del Csm (Consiglio Superiore della Magistratura, ndr), l’organo di autogoverno della magistratura, ex presidente di Anm (Associazione Nazionale Magistrati, ndr), l’associazione nazionale cui aderisce circa il 90% dei magistrati italiani, e capo di Unicost, la corrente di centro dei magistrati italiani. E su come funzionano le cose tra i magistrati ci dice: “Chi non appartiene a una corrente è sicuramente penalizzato, - dichiara - ci stanno dei casi ma molti rari di cui un non appartenente a una corrente ricopre un incarico perché questo avviene soprattutto per i posti di minore importanza, per i più importanti le correnti sono dominanti”. A seguire l’intervista integrale:

Iena: Dottor Palamara buongiorno

Palamara: Giorno…

Iena: Come sta? 

Palamara: Abbastanza bene diciamo...

Iena: Come si sente ad aver perso uno dei lavori più intoccabili che esistono in Italia ed essere ad oggi disoccupato?

Palamara: Ancora ritengo che la partita non sia finita… e non lascerò nulla di intentato affinché possa essere scritta veramente la verità di quello che è accaduto. Come si nomina un magistrato in un “posto chiave”.

Iena: La magistratura italiana è salva adesso che quel cattivone di Palamara è fuori?

Palamara: Questo non spetta a me dirlo, io sono sicuro di aver sempre operato nella correttezza e di non aver mai barattato la funzione. Sono consapevole che c’è la volontà di farmi pagare per tutti, ma io questo ovviamente cercherò di evitarlo con tutte le mie forze possibili.

Iena: Quando lei dice io ho pagato per tutti, pagato per tutti, cosa?

Palamara: Questo sistema, diciamo meccanismo spartitorio delle correnti che è venuto fuori e che ha voluto individuare in me l’unico responsabile di un meccanismo che nei fatti, si è dimostrato obsoleto e superato…

Iena: Cioè tutte le nomine in magistratura si fanno attraverso votazioni del CSM, secondo, se uno leggerà le motivazioni della sentenza che l’ha esclusa, le orchestrava tutte lei.

Palamara: Le nomine in magistratura sono frutto di spartizioni e di accordi tra i gruppi associativi che ciò non significa che non portino poi a individuare una persona meritevole, ma quella persona indubbiamente è una persona che fa parte del meccanismo delle correnti.

Iena: Aspetti

Palamara: Però mettiamoci…

Iena: Cioè mi faccia capire una cosa, lei perché esce dalla magistratura, qual è il fatto che le è stato in qualche modo non perdonato?

Palamara: L’accusa che mi viene contestata è che io sono stato a cena con gli onorevoli Lotti e Ferri, quindi essere stato a cena con onorevoli.

Iena: Cioè due deputati del partito democratico, cioè Italia Viva.

Palamara: Del partito democratico, uno dei quali, l’onorevole Lotti era indagato a Roma. Questo.

Iena: E lei che ci faceva a cena con questi?

Palamara: Sotto il profilo dell’opportunità, della presenza dell’onorevole Lotti, già l’ho detto. Io non facevo nient’altro di più o di meno di quello che ho fatto nel corso della mia attività, l’onorevole Lotti l’ho conosciuto nel corso della mia attività istituzionale e come era avvenuto in occasione della nomina del vicepresidente Ermini, dove ho avuto incontri e accordi con gli onorevoli Ferri e Lotti, anche in occasione della nomina del Procuratore di Roma c’era una contrapposizione sul nome del Procuratore Lo Voi, sostenuto dalla sinistra della magistratura, e quello di Viola sostenuto dalla corrente di destra, io cercavo come al solito di individuare il migliore accordo possibile.

Iena: Il migliore accordo possibile, però qua leggendo i giornali cioè lei è sul centro della scena di questa storia da più di un anno e leggendo i giornali dice c’era una combriccola, c’erano i furbetti della, del CSM che pilotavano le nomine…

Palamara: Sì, si assume che quell’incontro dovesse poi servire a fare qualche favore all’onorevole Lotti

Iena: Cioè pilotano la nomina del procuratore di Roma in maniera tale che poi in cambio la posizione di Lotti

Palamara: Infatti di questo non vi è nessuna traccia perché quell’accordo era un accordo tra correnti, tra gruppi associativi, frutto appunto di un trojan che ha poi registrato questo incontro, ma questo incontro è un incontro tra due gruppi associativi quindi dà una fotografia parziale, non sappiamo quello che contestualmente ad esempio avveniva sugli accordi per i nomi degli altri concorrenti, non lo sapremo mai…

Iena: Però a Roma i candidati erano il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il procuratore capo di Firenze Creazzo e il procuratore capo di Palermo, Lo Voi. Questi tre nomi erano, come dire, papabili per diventare procuratore capo di Roma.

Palamara: In quel momento erano sicuramente i nomi più papabili, il nome di Lo Voi era un nome gradito alle correnti di sinistra, alle quali era inviso il nome del concorrente Viola, alle correnti di destra era invece gradito il nome del procuratore Viola. Questo era lo spaccato con il quale noi ci trovavamo ad operare.

Iena: E Creazzo non piaceva a nessuno?

Palamara: Oltre al nome del procuratore Creazzo che era un nome sostenuto dalla corrente di Unicost ma che in quel momento non riusciva a coagulare i voti né della parte sinistra né della parte destra.

Iena: Lei di che corrente era?

Palamara: Di Unicost. Della corrente di Creazzo.

Iena: Della corrente di Creazzo. Solo che Creazzo aveva compiuto una cosa imperdonabile dall’area di Lotti, dal punto di vista di Lotti, aveva messo in carcere cioè ai domiciliari Babbo Renzi.

Palamara: Sicuramente non per quanto riguarda il lato di Unicost, perché in quel momento noi, e meglio ancora, i consiglieri del CSM, trattavano il profilo professionale del dottor Creazzo come è sempre avvenuto nella sua carriera, che è stata una carriera costellata di soddisfazioni per i posti che ha ricoperto, quindi non venivano in rilievo le attività svolte dal procuratore Creazzo nei confronti di questo o quell’imputato. Veniva in rilievo solo come a maturare e coagulare i voti. La mia preoccupazione era che il procuratore Creazzo non venisse sconfitto, e quindi in quel caso, secondo quella che era stata la mia pregressa attività, bisognava cercare di coagulare dei voti, o con la parte sinistra o con la parte destra, e quell’incontro.

Iena: Cioè se non hai i voti non ti candidi per una posizione, così funziona.

Palamara: Se non hai voti... Per ottenere diciamo la carica bisogna arrivare a 13 voti, al consiglio superiore e per fare 13 voti bisogna avere degli accordi prima di tutto tra i gruppi associativi e poi ovviamente con la componente laica.

Iena: Ma questi voti io li chiedo sulla base di che cosa, su quanto sono bravo, su quanti processi ho vinto, su quanto sono tecnicamente preparato o su quanti amici come Palamara ho?

Palamara: Allora, chi partecipa ad un concorso per diventare Procuratore della Repubblica, normalmente lo fa facendo una cosiddetta autorelazione. Spesso…

Iena: Cioè dice io voglio andare là perché sono bravo.

Palamara: Che spesso diventa una sorta di autoesaltazione del magistrato, dove elencano una serie di titoli che ha ovviamente conseguito in carriera. Chi la fa è normalmente una persona sicuramente titolata.

Iena: Titolata dal punto di vista dell’anzianità?

Palamara: Dal punto di vista dell’anzianità e del merito, cioè vuol dire che è uno in grado di poterlo fare altrimenti non è che fa la domanda l’ultimo sprovveduto. È vero che in quel momento e quel contesto chi vince deve avere un appoggio delle correnti, se non ha l’appoggio delle correnti non riesce a diventare procuratore della Repubblica.

Iena: Ma è più importante essere bravo o avere amico Palamara?

Palamara: Palamara adesso non c’è, diciamo è importante avere come amici gli esponenti delle correnti.

Iena: Però mi faccia capire.

Palamara: Perché chi è bravo rischia di essere penalizzato se non ha l’appoggio degli esponenti delle correnti, questo ci dice la storia.

Iena: La riunione all’hotel Champagne, siete un gruppo di magistrati che fanno parte del CSM, c’è Lotti e c’è l’onorevole Ferri. Ferri in qualche modo fa parte della famiglia della magistratura, perché è un magistrato temporaneamente prestato alla politica. Lotti, cosa rappresenta in quel momento?

Palamara: Allora innanzitutto si è molto favoleggiato su questo incontro, come ho detto…

Iena: Perché dice favoleggiato?

Palamara: Perché si è data l’idea che fosse un incontro segreto, clandestino, di incappucciati, non era nulla di più e nulla di meno che un normale incontro tra persone che si conoscono e che in un dopocena decidono di vedersi anziché nei pressi di casa mia, nei pressi del luogo di residenza di uno dei consiglieri del CSM.

Iena: Ma se parlavate di nomine, perché non vi siete visti dentro il CSM?

Palamara: Perché io…

Iena: Cioè il luogo preposto.

Palamara: Oltretutto io non facevo parte all’epoca del CSM, e perché la tradizione tradizionalmente spesso quando si concludevano i lavori consiliari era prassi abituale vedersi per cena o per dopocena per discutere di quella che era la normale attività, cose che sono sempre avvenute in magistratura. 

Iena: Uno maligno dice però al CSM non poteva entrare Lotti.

Palamara: Però al CSM non poteva entrare Lotti e infatti è vero che sotto al profilo dell’opportunità, la presenza dell’onorevole Lotti con il senno di poi è stata una presenza. 

Iena: Sbagliata.

Palamara: Sicuramente inopportuna. però…

Iena: Però se era inopportuna la presenza di Lotti con voi all’Hotel Champagne, per quale motivo Lotti riesce, cioè dice, poi lei mi dica se è vero o no. Dice: io ho parlato con Mattarella di Lo Voi, dice Lotti, quindi significa che Lotti era un interlocutore non indegno per essere ricevuto al Quirinale ed essere ascoltato su un tema nomine.

Palamara: Ma io sul contenuto di quei colloqui non parlo, perché come penso è stato ampiamente riportato dagli organi di stampa, c’è un’eccezione da parte della mia difesa sulla utilizzabilità, perché sono state captazioni che noi riteniamo non dovessero essere utilizzate per la presenza dei parlamentari, come dice l’art. 68 della costituzione. Posso dire che però la presenza col politico, in questo caso l’onorevole Lotti, è avvenuta anche in altre situazioni, era già avvenuto in passato ad esempio come ho detto era tranquillamente avvenuta in occasione dell’elezione del vicepresidente del CSM.

Accordi, meritocrazia e appartenenza a correnti.

Iena: Cioè l’elezione di fatto del capo politico, dell’organo di governo dei magistrati ha avuto la stessa dinamica mi sta dicendo?

Palamara: Non è un capo politico, è un organo di rilievo costituzionale, però si è svolta con la stessa dinamica…  Per eleggere un vicepresidente occorre.

Iena: Cioè eravate sempre lei, Lotti, Ferri…

Palamara: Occorre, assolutamente, occorre… Come d’altra parte io ho avuto interlocuzioni anche con gli esponenti del Movimento 5 Stelle.

Iena: Scusi l’hanno puni... Scusi lei è fuori dalla magistratura.

Palamara: Come con quelli di Forza Italia, era una prassi dialogare in quell’occasione con chi voleva diventare vicepresidente. chi diventa presidente deve avere l’appoggio delle correnti, se non lo ha non lo diventa.

Iena: Chi ha incontrato dei 5 Stelle lei?

Palamara: Eh ebbi interlocuzioni con i candidati che in quel momento si volevano presentare a diventare presidente del 5 stelle, c’era il consigliere Gigliotti, ma i 5 stelle sostenevano fortemente la candidatura del professor Benedetti, che poi contese fino all’ultimo il posto di vicepresidente all’onorevole Ermini.

Iena: Che però non aveva amico Palamara e quindi segato.

Palamara: No, in quel caso ci fu questo accordo tra il gruppo di Unicost e magistratura indipendente che portò alla nomina del vicepresidente Ermini.

Iena: Quindi?

Palamara: A prevalere diciamo.

Iena: Quindi sulla nomina di ermini rispetto a quella, lei non è colpevole di niente, il fatto di avere… no, mi dica se orchestrato è una parola eccessiva… l’aver orchestrato la nomina di Ermini.

Palamara: Eh.

Iena: A vicepresidente del CSM con Lotti e Ferri.

Palamara: Eh.

Iena: Va bene, lei non è stato punito per quello.

Palamara: Io proporrei una cosa, così per farci… Togliamo la parola orchestrare.

Iena: Tramare.

Palamara: Tramare, diventare stratega.

Iena: Complottare…

Palamara: Funzionava così. Io ho agito in quel sistema. Oggi poi se diventa una situazione diversa, ne prendo atto però fuori dall’ipocrisia, funzionava così bisognava fare degli accordi tra i gruppi per individuare il miglior nome da scegliere, sia per il vicepresidente.

Iena: Scusi il procuratore capo di Roma oggi è Michele Prestipino, come è stato votato?

Palamara: Questo io non lo so, perché non c’ero più ormai nei fatti, quindi...

Iena: Ma ci sarà stata una riunione anche per parlare.

Palamara: Oggi si afferma esserci un nuovo corso che privilegia solo ed esclusivamente il merito, senza fare accordi tra le correnti, questo…Poi voglio dire io ne prendo atto quando c’ero io c’erano gli accordi.

Iena: Ma quando il Csm ha nominato Pignatone procuratore capo di Roma, come si è fatto l’accordo?

Palamara: Assolutamente nei medesimi termini degli accordi tra le correnti.

Iena: Cioè sempre riunioni tra esponenti?

Palamara: Assolutamente.

Iena: E c’era sempre qualche parlamentare che non ci doveva stare anche lì?

Palamara: Ma la politica quando sono nomine importanti comunque come dire, non è che necessariamente deve scegliere la politica, la politica non è in grado di scegliere il nome. Chi individua il nome sono solo i magistrati. La politica, ovviamente, diciamo così dà un indice di ascolto di comprensione di quello che accade perché sono cariche importanti nella vita pubblica del paese e quindi chiaramente non rimane estranea a questi importanti momenti.

Iena: Ma Lotti?

Palamara: Gli accordi li fanno i magistrati.

Iena: Ma Lotti faceva, quando era lì a parlare con i magistrati, faceva gli interessi dei cittadini italiani che vogliono una giustizia migliore o dei cazzi suoi?

Palamara: Questo ovviamente al di là della terminologia non posso essere io a rispondere. io dico che si è trovato presente ad una discussione tra altre persone, rispetto alle quali non aveva nessuna capacità di influire.

Iena: Nessuna capacità di influire?

Palamara: No.

Iena: Ma prima di Lotti?

Palamara: Assolutamente.

Iena: Ma prima di Lotti?

Palamara: Non avrebbe mai potuto influire.

Iena: C’era un magistrato, un politico di destra magari ex magistrato con il quale lei interloquiva con la stessa naturalezza rispetto?

Palamara: Ma io ho sempre avuto un'interlocuzione con la politica.

Iena: Mi dica un nome.

Palamara: Perché la politica non è ma al di là di nome, adesso non, c’è questa tensione che io debba fare… I nomi li farò quando c’è bisogno di farlo, io dialogavo. Dialogavo con la politica di destra, dialogavo con la politica di sinistra perché per me tutte le istituzioni non sono in contrapposizione, ma fanno parte di un’unica famiglia che è lo stato. La magistratura per me è fisiologico che debba interfacciarsi con la politica, non per fare un favore in un processo, perché quello è un reato e io non è che vado a fare reati in pubblico con una persona… Interloquisco, dico, parlo, a lotti come poteva essere a un ministro di destra, la situazione che si sta creando nella magistratura è una convergenza verso il nome di… Questo ho fatto, sempre. e questo ritengo di averlo fatto lecitamente… Oggi mi si dice che così non era.

Iena: Ma qual è lo sfondo, è l’interesse dei cittadini o gli equilibri tra correnti?

Palamara: Gli equilibri tra correnti vengono.

Iena: Prevalenti.

Palamara: Prevalgono, prevalgono ovviamente rispetto a un interesse dei cittadini che però devono sapere che le persone che concorrono a quel posto sono persone sicuramente titolate per farlo.

Iena: Cioè un magistrato bravo e un magistrato meno bravo.

Palamara: Prevalgono dentro la magistratura delle logiche correntizie, le logiche correnti.

Iena: Cioè il meno bravo riesce a fregare quello bravo.

Palamara: Quello che avviene nella politica, quello che avviene nelle aziende pubbliche, quello che avviene nella rai, quello che avviene nei ministeri. ci sono delle cordate, si portano delle persone, c’è una cordata che vuole prevalere sull’altra per affermare un potere interno, questo è quello che avviene nella magistratura…

Iena: Questo è quello che avviene… Ma lei ne parla così con tranquillità… La gente a casa...

Palamara: Non ne parlo con tranquillità.

Iena: Trema, ha paura?

Palamara: La gente non deve tremare perché le persone che concorrono, non sono persone che non sono degne di ricoprire quei posti...sono persone che hanno svolto per tanti anni il lavoro del magistrato e l’hanno svolto pure bene. però è un meccanismo di potere interno che non influisce poi sulla decisione dei singoli cittadini, sulla quale ci sono ben altre problematiche legate all’organizzazione degli uffici.

Iena: Ma lei è sicuro di no alla mancanza di interventi ma se nominiamo i magistrati con l’appartenenza politica, lei è sicuro che questo non abbia un riflesso sulla qualità del servizio offerto ai cittadini?

Palamara: Allora, allora, sull’appartenenza politica dei magistrati, sul riflesso dei processi, io penso che bisogna fare una considerazione seria, cioè non diciamo ci saranno altri luoghi e altre situazioni mi auguro, rispetto alle quali.

Iena: Cioè quando Berlusconi vi accusava di essere politicizzati rispetto alle quali cioè diceva una ca**ata come gli abbiamo sempre rinfacciato noi giornalisti?

Palamara: Allora rispetto alle quali bisogna svolgere un serio momento di riflessione sulla storia politico giudiziaria del paese, per valutare in che modo le nomine e determinati processi abbiano poi influito. è chiaro poi che il tema dell’uso politico della giustizia è un tema presente anche nel dibattito interno alla magistratura.

Iena: Anche nelle sue intercettazioni, Palamara.

Palamara: Anche nel, eeh assolutamente, ne avrò sicuramente modo.

Iena: “Salvini ha ragione, ma lo dobbiamo menare” (con questa frase Monteleone cita una dichiarazione di Palamara, intercettata. ndr).

La politicizzazione della magistratura denunciata da Berlusconi?

Palamara: E non lo dico con, come dire, con disarmante tranquillità. lo dico su quella frase già ho avuto modo di esprimermi, io non sono stato mai contro qualcuno nella mia carriera… Mai… E questo lo dico per tranquillità dei cittadini, io non sono stato un magistrato politicizzato, al di là di quello che può emergere dalle chat ma ho cercato sempre di battermi per l’affermazione di una giustizia giusta.

Iena: Ma lei è stato il presidente della NM nel periodo più acuto?

Palamara: Nel periodo più acuto.

Iena: Dello scontro tra politica e magistratura ai tempi di Berlusconi.

Palamara: Assolutamente è stata una fase che sicuramente meriterà di essere approfondita e rivista, anche come dire alla luce di quello che è accaduto. In quell’epoca tanto per fare una battuta ero fortemente alleato con le correnti di sinistra, quando poi c’è stato lo spostamento con le correnti di destra, mi lasci dire che è successo quel che è successo. quindi nella vita non c’è nulla di immutabile ma bisogna comprendere i fenomeni e le situazioni, anche interne alla magistratura e riflettere su tutto quello che è successo.

Iena: Mi dice che effetto…?

Palamara: Ecco perché chi dice parli, non parlino, io sto solo riflettendo, adesso come un cittadino comune.

Iena: Il Corriere della Sera la accusa un po’ di alludere dire e non dire, lei prima ha detto se parlo io crolla la magistratura.

Palamara: Ma io questa frase non l’ho mai detta, io mi auguro che pure il giornalista del Corriere della Sera possa parlare e farci dire perché Viola non era gradito alla procura di Roma perché considerato uomo di destra di Ferri…

Iena: Questo, lei mi dice, lei sta citando l’inviato del Corriere della Sera che copre diciamo le vicende magistratura, Csm…

Palamara: No vabbè sono fatti emersi nella mia vicenda, ho detto mi auguro anche io di comprendere perché, per quale motivo viola era considerato l’uomo di destra vicino a Ferri…

Iena: Senta possiamo dire che la sua vita… Dovrebbe spiegare proprio il giornalista del Corriere della Sera.

Palamara: Perché c’era stata, questo c’era agli atti di Perugia un’intercettazione nella quale si parla proprio di questo, che c’era una parte dell’ufficio che non gradiva il candidato di destra.

Iena: E giusta cosa gliela fa sapere il collega del Corriere della Sera?

Palamara: Me la fa sapere… Già la sapevo da me perché parlavo con i miei colleghi all’interno dell’ufficio, sapevo bene che la corrente di sinistra non voleva il nome di Viola.

Iena: E che aveva fatto Viola di male nella vita?

Palamara: E questo io non lo so, appunto…

Iena: Ma Viola faceva parte di questo progetto? Cioè lui aveva chiesto di essere sostenuto dalla combriccola…

Palamara: Ma penso che il profilo professionale di viola come di Lo Voi, come di Creazzo e come di Prestipino, proprio per rispondere alla sua domanda dei cittadini, sia un profilo al di sopra di ogni sospetto, siano persone degnissime e per bene che tutte meritavano e avevano i titoli per diventare procuratore di Roma. Come in tutte le cose se deve vincere uno solo, per vincere uno solo, vanno realizzati degli apporti, quello che poi in quel momento si cercava di fare, non per fare favori all'uno o all’altro.

Iena: Senta, uno dei magistrati più intransigenti che l’ha giudicata, si chiama Pier Camillo Davigo ed è stato un magistrato di mani pulite, famosissimo in Italia perché considerato un duro e puro, però proprio il giudice Davigo che l’aveva giudicata aveva votato per viola, all’inizio al CSM. Come avete fatto a convincere Davigo a votare secondo il progetto della combriccola?

Palamara: Questo non me lo deve chiedere a me, non posso rispondere io a questa domanda.

Iena: Ma è lei che ha chiamato Davigo e ha detto vota per Viola?

Palamara: No no, assolutamente, in quei momenti e in quelle occasioni tutti i gruppi organizzati della magistratura sono in movimento per così dire, e quindi ognuno è alla ricerca di un accordo… Eehhh questo non devo essere io a spiegarlo ovviamente…

Iena: Chi ha letto i giornali ha letto che il procuratore, diciamo il grande accusatore, l’avvocato generale dello Stato Pietro Gaeta ha detto di lei, il caso palamara è un unicum nella magistratura… E il livello di condizionamento per l’asservimento della funzione al servizio di interessi diciamo torbidi. un unicum. Cioè, come lei nessuno prima.

Palamara: È un’affermazione che ovviamente non condivido e che sono sicuro nel corso del prosieguo e dei ricorsi di smentire anche documentalmente.

Iena: Cioè lei dice c’era un Palamara prima di me e ci sarà un Palamara dopo di me?

Palamara: Il sistema delle correnti esiste da sessant'anni, è caratterizzato il potere interno della magistratura, ed è un sistema con il quale tutti coloro che hanno ambito alle nomine si sono dovuti confrontare, sono stati fatti addirittura dei cartelli elettorali per coagulare più voti, penso addirittura l’hanno fatto magistratura democratica, le correnti di sinistra, quindi per avere più consenso interno alla magistratura, quindi si figuri se posso pensare che è un discorso che…

Iena: Che significa, cioè i giudici fanno campagna elettorale, vanno a chiedere voti, come funziona…

Palamara: Funziona che dopo le domande, cioè ognuno presenta le domande…

Iena: Cioè io sono un magistrato.

Palamara: C’è un bando di concorso.

Iena: C’è un concorso aperto di procuratore a Bari.

Palamara: Si fa un bando per un posto di procuratore a Bari, e una volta fatto il posto di procuratore a Bari c’è un termine per presentare le domande, le domande possono essere 10, possono essere 15 e una volta che l’hanno presentato, normalmente si tratta di persone che hanno come dire un ottimo curriculum, perché si vinca, come ho detto, bisogna arrivare a 13 voti. Se per arrivare a 13 voti occorre un appoggio delle correnti e della componente laica.

Iena: Ma quindi io che voglio diventare procuratore di bari che faccio, mi prendo la macchina e vado a fare visita ai miei colleghi nelle altre città, li porto a cena, che faccio?

Palamara: Nella normalità funziona così, come esattamente li prendo a cena, prendo la macchina e vado.

Iena: Li faccio entrare nella nazionale magistrati (ride, ndr).

Palamara: Noo questo fa parte diciamo di una cosa. A parte che non c’entra su quello però nella normalità funziona così.

Iena: Se c’è una campagna elettorale.

Palamara: Altre persone, ci sono persone degnissime, che hanno fatto domande senza rivolgersi e chiedere mai favori a nessuno.

Iena: Cioè ma se io voglio prendere un posto e voglio fare questa “campagna elettorale”, cioè vengo a trovare Luca Palamara a Roma perché ho bisogno del suo voto. Che cosa chiedo a Luca… Votami perché?

Palamara: Votami perché appartengo alla corrente, sono titolato, ho i titoli per poter rivestire questo importante incarico. E poi normalmente è un primo passaggio, perché non basta solo questo ma ripeto, occorre l’appoggio della politica intesa come componente laica, occorre l’appoggio delle altre correnti.

Iena: Se il meccanismo di funzionamento delle correnti è come lo dice lei, perché si accaniscono contro di lei?

Palamara: Eh questo… Penso da questo momento in poi che è successo, io ho necessità di ristabilire un momento di verità su quello che è accaduto, anche con riferimento alla mia persona. Devo ritenere che questa idea che io potessi in qualche modo fare un accordo che tagliasse fuori la sinistra della magistratura ha sicuramente inciso su quello che è accaduto.

Iena: Cioè lei dice che…?

Palamara: Il mio accordo con Ferri è stato fortemente visto come un qualcosa che non andava bene.

Iena: Cioè l’accordo tra luca Palamara di Unicost e Cosimo Ferri.

Palamara: Inteso come rappresentante della corrente di destra.

Iena: Di magistratura indipendente.

Palamara: Anche se era sì, parlamentare.

Iena: Cioè eravate destra più centrodestra diciamo.

Palamara: Allora, queste sono categorie sempre di, come dire, difficili da riflettere esattamente con la dinamica politica, però tendenzialmente ripropongono questo schema. La corrente di Unicost è un po’ l’ago della bilancia storicamente della magistratura, essendo una corrente così definita di centro, e come tale può… aver fatto questo.

Iena: Quindi lei è fuori dalla magistratura per aver tentato di condizionare la nomina a procuratore capo di Roma ma non le è stato punito per aver di fatto stabilito chi doveva fare il vicepresidente del Csm, ho capito bene?

Palamara: Sì, esattamente.

Iena: Cioè Ermini lo ha ringraziata quando è stato eletto vicepresidente del Csm?

Palamara: Vabbè io su queste vicende personali non torno, ormai sono pubbliche.

Iena: Cioè sì.

Palamara: ormai ci sono pure delle chat che vengono pubblicate.

Iena: Cioè leggendo le chat.

Palamara: Non lo deve dire a me.

Iena: È pieno di magistrati che la ringraziano.

Palamara: Sì.

Iena: E io mi chiedo, lo ringraziano perché hanno ottenuto un posto che probabilmente avrebbe meritato qualcun altro e quindi bisogna ringraziare il deus ex machina.

Palamara: Il nostro sistema funzionava così, era previsto anche il ringraziamento successivo.

Iena: Perché usa l’imperfetto? Perché non ne fa più parte o perché si è fermato.

Palamara: No, vabbè io per forza mi sono fermato, adesso ovviamente assisto e sono curioso di vedere e auspico che ci sia un sistema migliore avendo di mira prima di tutto l’interesse dei cittadini e una giustizia giusta.

Iena: Qualcosa è cambiato però.

Palamara: Questo è il motivo per cui sono andato poi a fare la conferenza stampa dai radicali.

Iena: No dico i tempi, qualcosa è cambiato rispetto ai tempi in cui si accertano le responsabilità disciplinari perché in tre settimane il suo processo si è aperto e si è chiuso, ora una parte dice, cioè l’accusa Gaeta dice l’abbiamo velocemente perché era sottoposto a una misura che era la sospensione dello stipendio, è quindi nel suo interesse che abbiamo fatto un processo veloce, lei che risponde?

Palamara: Eh che il mio interesse che mi ritrovo fuori è stato un interesse per così dire che poi non c’era diciamo, se fossi rimasto dentro poteva essere mio interesse non rimasto e penso che è un dato di fatto quello che è accaduto.

Iena: Lei che ne pensa del fatto che uno dei giudici che l’ha giudicata sarebbe andato in pensione tra pochissimi giorni, questa cosa ha influito sulla durata del suo processo?

Palamara: Allora non penso che io in questo momento debba essere colui il quale esprima un giudizio su questa vicenda e su questa situazione.

Iena: E se non lo può fare lei chi lo può fare?

Palamara: Eh che devo dire.

Iena: Ormai è fuori.

Palamara: Beh sicuramente è stato un tema di dibattito che è venuto fuori che il 20 ottobre il consigliere Davigo dovesse andare in pensione, questo è venuto fuori nel corso del processo, quindi quanto ha inciso e ha determinato eh questo poi cercheremo di comprenderlo.

Iena: Cioè lei aveva chiesto tanti testimoni e tanti di questi testimoni anzi diciamo.

Palamara: Sono stati ritenuti non ammissibili da questo punto di vista.

Iena: Ma erano inammissibili perché avrebbero dilatato i tempi o perché erano superflui? Perché poi…

Palamara: Per me erano necessari per difendermi rispetto alle accuse che mi venivano mosse questo non è stato, questa mia richiesta non è stata accolta e adesso penso sarà uno dei motivi dei nostri ricorsi.

Iena: Qualcuno a casa dice “Oh ma questi stanno a parla’ da mezz’ora con Palamara ma non gli hanno chiesto la cosa fondamentale, ha preso i soldi per condizionare una nomina secondo le accuse dei procuratori di Perugia”.

Palamara: Questa accusa è caduta, è stata dichiarata infondata da parte degli stessi inquirenti di Perugia, è l’accusa sulla base della quale mi è stato messo il trojan che non ha trovato fatti corruttivi ma fotografato questa cena all’hotel Champagne, quindi io non ho mai preso 40mila euro per una nomina, non ho mai preso 1 euro per nessuna nomina perché quello che ho fatto l’ho fatto solo ed esclusivamente nell’interesse dei magistrati di coloro i quali mi chiedevano di intervenire per le loro ambizioni professionali e personali.

Iena: Ma quando attraverso il trojan hanno scoperto che lei i soldi non li aveva presi che poi cosa serve il trojan, se mai dovevano controllare i conti corrente per scoprire, fare un’indagine patrimoniale per sapere se lei ha preso soldi oltre il suo stipendio no?

Palamara: Questo è tema di oggetto di indagine a Perugia quindi.

Il Trojan e l’indagine di Perugia.

Iena: A Perugia, ci spiega, a chi è a casa, cos’è il trojan? 

Palamara: Il trojan è una sorta virus informatico che ormai viene inoculato nei telefoni e registra, è un registratore acceso nel telefono.

Iena: Come caxxo ha fatto lei a cascarci?

Palamara: Eh eh perché ho sempre agito nella convinzione di non aver mai fatto nulla di illecito e quindi mai ritenevo e pensavo che qualcuno potesse inocularmi il trojan.

Iena: Però nel suo caso ci si è come dire ingegnati per farla cascare in trappola.

Palamara: Sì, sono emerse difficoltà nell'inoculazione tant’è vero che il mio telefono è stato poi bloccato dal gestore e una volta bloccato mi è stato detto di riconfigurarlo e in quell’occasione…

Iena: Cioè le è apparso un popup?

Palamara: Mi è stato bloccato totalmente il telefono, non funzionava più e poi è arrivato un messaggio del gestore.

Iena: Cioè lo stesso telefono che usa adesso.

Palamara: Sì.

Iena: E ce l’ha il telefono? Ce lo fa vedere? È questo telefono qua?

Palamara: Sì.

Iena: cioè lei ha praticamente a un certo punto le è apparso sul display del telefono.

Palamara: Un messaggino del gestore Vodafone.

Iena: Che le diceva?

Palamara: Che mi bloccava il telefono e la comunicazione.

Iena: E questo messaggino che diceva? Clicca qui?

Palamara: Di essere stato contattato per riconfigurare il telefono.

Iena: E quindi lei ha cliccato ok e cosa.

Palamara: Sono stato contattato, il telefono è ripartito infettato diciamo.

Iena: Infettato, da quel momento.

Palamara: Era un registratore vivente.

Iena: Ma continuo?

Palamara: No

Iena: Come no?

Palamara: Eh no.

Iena: Cioè a comando?

Palamara: Pensavamo fosse continuo e invece è un registratore diciamo intermittente che funziona diciamo a momenti.

Iena: Un po’ funziona un po’ non funziona.

Palamara: Un po’ funziona un po’ non funziona.

Iena: Perché quando lei.

Palamara: Si programmano delle registrazioni in parte la mattina, in parte il pomeriggio, in parte la sera e...

La cena con Pignatone

Iena: Sa perché glielo dico, perché io ho letto a un certo punto, ho trovato una sua intercettazione in cui lei dice che quel giorno avrebbe incontrato l’ex procuratore capo di Roma, Pignatone, che era appena andato in pensione e ho detto “Adesso scorro scorro e leggo che cosa”.

Palamara: Quella sera non ha funzionato, non funzionava.

Iena: Quindi non sono io che non l’ho trovata proprio non c’erano.

Palamara: Non ha funzionato, era spento.

Iena: Cosa vi siete detti?

Palamara: Era una cena di commiato rispetto al suo pensionamento.

Iena: Lei la dice così ma se quella cena fosse stata trascritta i giornali avrebbero avuto materiale per scriverci sopra?

Palamara: Si rievocavano un po’ 7, 8 anni di esperienza romana quindi.

Iena: Ma eravate nemici lei e Pignatone?

Palamara: No assolutamente.

Iena: Però voi avete fatto un esposto contro la sua procura.

Palamara: No io non ho fatto nessun esposto, l’esposto è un’iniziativa autonoma di un mio collega d’ufficio, il dottor Fava, sul quale io penso poi in qualche modo bisognerà comprendere quello che è realmente accaduto, le iniziative dei magistrati sono autonome…

Iena: Ma Pignatone era in una situazione di incompatibilità avendo il fratello che difendeva un indagato alla procura di Roma?   

Palamara: Questo era uno dei temi contenuti nell’esposto su questo io penso dovranno rispondere le autorità competenti e direttamente chi l’esposto lo ha presentato.

Iena: Ormai lei è fuori dalla magistratura, sulla base della sua esperienza è opportuno che un procuratore capo.

Palamara: Mi faccia fare i ricorsi, sarò fuori quando finiranno i ricorsi ancora i ricorsi gli voglio fare nella magistratura.

Iena: No dico, se è inopportuno incontrare un deputato indagato, è opportuno avere il fratello che rappresenta gli interessi difensivi di un indagato della stessa procura?

Palamara: Questo ce lo devono dire gli organi competenti visto che è stato un esposto che poi è stato presentato alle autorità competenti.

Iena: Se l’accusa nei suoi confronti di corruzione per aver pilotato una nomina, quindi di aver asservito per denaro le sue funzioni al Csm è caduta, lei a Perugia oggi di cosa è accusato? Sono rimaste delle accuse che riguardano dei miei viaggi con il dottor Centofanti e degli interventi su una veranda a casa di una persona a me estranea, vicina ma estranea nel senso che erano lavori fatti presso la sua abitazione.

Iena: Questa è l’accusa?

Palamara: Sì.

Iena: Quindi lei in questo momento è incensurato, lei è radiato dalla magistratura ma lei non ha...

Palamara: Ci sarà un’udienza preliminare il prossimo 25 novembre 2018 eh del 2020.

Iena: La sua vita è stata sputtanata, lo posso dire? Cioè io ho detto i dettagli della sua vita privata, abbiamo letto tutti i dettagli della sua vita privata, come ci si sente a stare dall’altra parte?

Palamara: Mi viene rinfacciato da molti dice te ne accorgi adesso guarda che funziona così, quando si passa da questa parte fa molto male è inutile che dico che vengono fuori molte riflessioni che prima non c’erano, questo è un dato evidente.

Iena: Tipo?

Palamara: Quindi… e, che la riservatezza delle persone comunque e soprattutto delle persone estranee che non c’entrano niente deve essere tutelata, non può essere calpestata in questo modo, il processo è una cosa ma la riservatezza è un bene che in qualche modo lo stato deve tutelare senza ledere l’interesse pubblico perché è giusto che la gente venga informata.

Iena: Perché così sono, così sono.

Palamara: Però io penso.

Iena: Buoni tutti. Dicevo così sono buoni tutti quando…

Palamara: Così si rischia di mischiare no? Ciò che riguarda il penale, ciò che riguarda il gossip, ciò che riguarda una sorta di vendetta nei confronti delle persone…

Iena: Questa cosa l’ha fatta quasi come un politico diciamo.

Palamara: Io non ho mai, io non ho mai concepito la giustizia così, mai, nemmeno quando ero dall’altra parte, errori ne abbiamo fatti, ne ho fatti sicuramente anche io ci mancherebbe altro però così non è la mia concezione.

Iena: Un errore, un errore che ha fatto lei?

Palamara: Nel corso delle attività si fanno molti errori, ho detto sicuramente… Non avrei fatto partecipare il politico all’incontro sicuramente avrei prestato più attenzione quando facevo le intercettazioni, però questo sono temi che penso che possano essere per me utili per una riflessione più approfondita sul tema della giustizia.

Iena: Ma con la posizione di potere che ha un magistrato come lei, lo stipendio che ha un magistrato come lei, il rilievo sociale e le sue funzioni, ma non si può comprare da solo i biglietti per la Roma?

Palamara: Io ho trascorsi quasi quarantennali sui biglietti della Roma, ne ho comprati talmente tanti.

Iena: Quasi azionista.

Palamara: Che mi conosce... Potrei… Quasi rivendicare qualche quota.

Iena: Però per andare a Barcellona erano introvabili.

Palamara: I biglietti per il Barcellona erano introvabili, in quell’occasione erano introvabili, poi li ho trovati.

Iena: Che cos’era là il magistrato o il papà che vuole fare un regalo al figlio?

Palamara: Entrambe le cose, prevale la volontà di fare un regalo al figlio soprattutto quando come dire non mi sento un tifoso dell’ultima ora ma un tifoso di sempre quindi da questo punto di vista ho poco da rimproverarmi.

Quale futuro per Palamara?

Iena: Quand’è che lei si deciderà a vuotare il sacco?

Palamara: Io voglio dare il mio contributo per una giustizia giusta, quest’idea di vuotare il sacco, di il nome, di il cognome, di l’indirizzo, fa parte di un discorso di miglioramento della giustizia nell’interesse dei cittadini, punto, questo è quello che mi propongo, non tirare le persone dentro, spiegare come e perché sono successe determinate cose, voglio capire perché anche per quanto mi riguarda sono successe determinate cose, da questo punto di vista mi sento di poter mettere a disposizione la mia attività politico-associativa.

Iena: Lei adesso si candida? Che fa?

Palamara: No non è che mi candido, io intanto inizio a fare un discorso penso di impegno pubblico e sociale.

Iena: Che lavoro farà? Che lavoro farà Palamara adesso?

Palamara: Adesso pure io farò le mie riflessioni su quello che sarà il mio futuro quindi ovviamente nella vita ho fatto questo quindi ho studiato diritto, ho scritto di diritto, in quell’ambito, in quel contesto voglio rimanere.

Come è stato nominato a Vicepresidente del Csm David Ermini.

Iena: Lì vede la sua vita?

Palamara: Sì.

Iena: Rimane ancorata la sua vita?

Palamara: Per adesso sì.

Iena: Più di 5 consiglieri del Csm in questa storia si sono dimessi, forse 6, non lo so, si dovrebbe dimettere anche il vicepresidente Ermini?

Palamara: Questo non posso dirlo io, non spetta a me dirlo.

Iena: Se lei ha concorso diciamo ha tramato, come dicono i giornali, come dice l’accusa nei suoi confronti, per scegliere il procuratore capo di Roma ma sempre.

Iena: Dice c’è una questione però, lei la conferma l’esistenza di una questione del genere.

Palamara: L’elezione del vicepresidente hanno funzionato così, presupponevano gli accordi tra i gruppi.

Iena: Cioè anche Legnini prima, per Vietti prima ancora.

Palamara: Assolutamente sì così ha funzionato.

Iena: Così ha funzionato e così funzionerà.

Palamara: Eh adesso.

Iena: Le sembra giusto che lei è sbattuto fuori con un calcio in culo mi permetta dalla magistratura ed Ermini invece sta al suo posto da vicepresidente?

Palamara: Io rispondo di me stesso adesso al di là delle parole.

Da Dagospia il 15 ottobre 2020. Le Iene.it il 15 ottobre 2020. Il Vicepresidente del CSM David Ermini, ai vertici della Magistratura Italiana, risponde all’ex magistrato Luca Palamara, appena radiato, in un’intervista esclusiva in onda questa sera, giovedì 15 ottobre, in prima serata su Italia1 a “Le Iene”. Palamara, attraverso le sue clamorose dichiarazioni, rilasciate due giorni fa, aveva provato a difendersi dall’accusa di aver cercato di pilotare le nomine in alcuni posti chiavi come quello di Procuratore Capo a Roma. Ermini dà la sua versione dei fatti ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. A seguire l’intervista:

Iena: Buonasera.

Ermini: Ciao.

Iena: Come sta?

Ermini: Bene.

Elezione di un vicepresidente diversa da nomina di un procuratore

Ermini: No no, non è che non le posso dire nulla, magari, perché io alla fine qualche, dovrò… vorrò dire tutto, mio malgrado non posso parlare perché sento dire tantissime inesattezze, compresa quella vostra che ho letto sulle agenzie di ieri.

Iena: Cioè?

Ermini: Perché avete paragonato l’elezione del vicepresidente su una sua domanda, l’ho letto sulle agenzie, l’elezione di un vicepresidente alla nomina di un procuratore, e sono due cose completamente diverse... perché la nomina del vicepresidente è un accordo, previsto per altro in Costituzione perché, tra togati e laici per cui è un accordo, tra virgolette, politico.

Iena: Però lei ha preso tredici voti per diventare vicepresidente del CSM.

Ermini: Certo, certamente.

Iena: E tredici voti servono al plenum per diventare procuratore di Roma.

Ermini: Mmmh... in realtà servirebbero quattordici perché la maggioranza…

Iena: Però nel caso specifico…

Ermini: Sì ma questo è un numero, che c’entra? Questa è la maggioranza, come in Parlamento ci va la maggioranza… il problema della Procura della Repubblica o di un altro ufficio direttivo, è che l’ufficio.

Ermini: Ad un concorso uno partecipa e deve avere i titoli per farlo, mentre il vicepresidente è un accordo che si fa a livello politico, lei pensi a Rognoni che fu eletto, Rognoni, mentre c’era un governo di centro destra. Però l’accordo che fu fatto qua fu diverso, fu eletto uno che era un esponente sostanzialmente dell’opposizione…

Iena: Quindi lei dice è meno grave se c’è un accordo sulla mia nomina rispetto…

Ermini: Ma non è che è meno grave è così perché è previsto…

Iena: Eh ok.

Ermini: Mentre il direttivo è un concorso, per cui…

Iena: Però sono gli stessi membri del plenum che votano sia la sua elezione che quella del procuratore capo.

Ermini: E certo ma questo lo prevede la Costituzione.

Perché Palamara giudicato subito e gli altri 5 membri del CSM alla cena no?

Iena: Uno è finito subito…uno in tre…

Ermini: No, uno è finito.

Iena: In tre settimane l’avete...

Ermini: Ma gli altri… eh ho capito ma gli altri no…

Iena: Ma perché quello è finito subito?

Ermini: Questo è finito subito perché gli altri sono cinque, questo era, era...e poi c’è....

Iena: E che vuol dire, cinque più uno fa sei…

Ermini: No, qui… e vabbè ora non faccia battute, questo è un, era un, c’era un, da quello che ho capito io non ero nel collegio quindi non mi può far domande su cose che non so, però le posso dire che sul fatto, che Palamara, c’era un procedimento cautelare in corso, quindi dove ci sono procedimenti cautelari e hanno sempre la prevalenza rispetto a quelli dove non ci sono procedimenti cautelari…

Iena: E perché non c’è il cautelare anche per gli altri?

Ermini: Ah questo lo deve chiedere a chi ha l’iniziativa, io, è il Procuratore generale o il Ministro.

Iena: Della Cassazione…

Ermini: Sì.

Per eleggere il Vicepresidente ci vuole accordo politico, per nominare un procuratore ci vuole un concorso per titoli.

Iena: Se Lotti e Ferri sono d’accordo per fare.

Ermini: Lotti e Ferri sono…

Iena: Ermini vicepresidente del CSM.

Ermini: Esatto, sono due.

Iena: Che è un ruolo delicatissimo…

Ermini: Sì certo.

Iena: Di primaria importanza e sono legittimati a farlo.

Ermini: È vero.

Iena: Perché non possono mettere bocca Lotti e Ferri?

Ermini: Perché questo è un accordo tra politici e togati per eleggere una carica istituzionale, e quindi non è un concorso, quell’altro per fare il procuratore e per fare il presidente del Tribunale o della Corte è un concorso! Per titoli le ripeto, l’accordo per il vicepresidente è un accordo tra togati e parlamentari, è sempre stato così. L’accordo…

Iena: Quindi conferma che hanno contribuito Ferri e Lotti per indicare la sua figura? 

Ermini: Guardi se lei avrà, prima di fare questi servizi, avrà letto le mie interviste, io ho sempre detto che Lotti e Ferri erano in Parlamento con me, quindi non è che non ci parlavo, eh, li avevo accanto. Palamara invece io l’ho conosciuto alla fine del mese di luglio, del 2018, due mesi prima che poi io fossi votato vicepresidente, ma è sempre stato così.

Per diventare procuratore ci vogliono i voti delle correnti e i titoli.

Iena: Però per diventare procuratore capo di Roma mi servono i voti delle correnti, o no?

Ermini: Ci vogliono i voti delle correnti ma ci vogliono soprattutto i titoli, perché se non hai i titoli…gliel’ha detto anche Palamara ieri.

Iena: Ok.

Ermini: Adesso, però adesso purtroppo è stato fatto il contrario, ecco quello che non va bene… che invece di utilizzare questa discrezionalità che i magistrati hanno, di dire prevale questo perché è più bravo, prevale questo perché è meno bravo… si è scelto spesso quello che aveva diciamo il maggiore appoggio correntizio. Purtroppo questo è successo, è sotto gli occhi di tutti, e questa cosa qui deve finire.

Come combattere le spartizioni tra correnti?

Iena: E cos’è che si può fare per impedire che in una stanza di albergo 10 persone decidono…

Ermini: Si può fare che le correnti devono dare una cesura netta nei rapporti tra correnti e CSM. Questo è il problema.

Iena: E come si fa? 

Ermini: Io ho una mia idea, il problema è che adesso che succede? È che il magistrato che vuole fare attività all’interno di una corrente, attività associativa

Iena: Politica…

Ermini: Entra.

Iena: Possiamo dire?

Ermini: Politica associativa, diciamo così, entra in una corrente, fa carriera e all’interno della corrente e poi dopo si lancia al Consiglio Superiore. Quando arriva al Consiglio Superiore dovrebbe però interrompere il rapporto diretto con la corrente, perché quando si arriva quassù, tutti si deve essere persone libere.

Iena: Cioè lei mi sta dicendo la promozione dell’ingratitudine, cioè grazie alla corrente che si è arrivato lì, e poi?

Ermini: Eh però scusi, abbia pazienza. Ma quando viene eletto il presidente della Camera, il presidente del Senato, il presidente della Repubblica, viene eletto dai gruppi parlamentari… dai partiti!

Iena: Certo. Poi non vota la fiducia dice, giustamente.

Ermini: No no nel senso, che quando il presidente del Senato, vengono eletti non è che dopo devono rispondere a quelli che hanno votato.

Iena: È chiaro.

Ermini: E lo stesso succede a me, è questo dove c’è stata la rottura diciamo.

Iena: Lei dice “io rispondo al capo dello Stato”.

Ermini: Io rispondo al capo dello Stato e alla Costituzione perché questo è un organo che funziona così, io sono un vicepresidente, rilievo costituzionale, sono il vicepresidente che viaggia e lavora su delega del capo dello Stato.

Ermini è riuscito a chiudere i rapporti con i suoi sponsor politici? 

Ermini: Se lei si legge tutte le intercettazioni e spero che lo faccia, perché con me ad un certo punto si arrabbiano perché dicono…

Iena: “Se deve sveglià Ermini”.

Ermini: No “se devono sveglià”.

Iena: Lo dice Lotti eh!

Ermini: Dicono, mi devo svegliare, dicono che io non, non li seguo.

Iena: Esatto. 

Ermini: Diciamo che non, dicono che non sono grato, che non rispondo… ma perché, perché è ovvio, qui non è un rapporto fiduciario come in Parlamento, non è che c’è una maggioranza e un'opposizione. Una volta che il

vicepresidente è eletto, risponde solo al capo dello Stato. Non ha una maggioranza a cui deve rendere conto. E io non ho mai reso conto a nessuno anzi, quando, lei l’avrà visto in tutte le intercettazioni pubblicate…

Lotti parlò con Mattarella?

Iena: Lotti le ha mai detto che aveva parlato al Presidente Mattarella del tentativo di accordo su Marcello Viola?

Ermini: Io che non parlo con Lotti da un anno e mezzo forse, non mi ricordo, ma insomma più di un anno e mezzo.

Il problema è stato l’introduzione del criterio della discrezionalità.

Iena: Quindi lei si sta facendo carico di dare un impulso a cambiamento di un sistema che va così dal 1948?

Ermini: No, va così soprattutto dal 2007, da quando c’è stata questa discrezionalità che è stata male usata dai magistrati. Questo è il problema, è stata male usata, perché mentre prima c’era l’anzianità tant’è che Falcone purtroppo rimase fuori. Adesso che invece si lavora molto sulla discrezionalità bisogna interrompere.

Iena: Cioè era meglio prima, quasi.... 

Ermini: Meglio prima no, perché fu fatto fuori Falcone, quindi non va bene. Bisogna interrompere il carrierismo, cioè il carrierismo che cos’è? Quando il magistrato utilizza la corrente per potere avere l’appoggio, per potere avere un incarico. Questa è la parte che va chiusa, che deve sparire. Cioè io mi iscrivo a una corrente perché così so che riesco ad avere voti all’interno del consiglio...

Iena: Oggi è così.

Ermini: Io penso che le ultime nomine, se lei le guarda io credo che non sia più così.

Iena: Che non sia più così.

Ermini: Però poi i giudizi li date voi giornalisti perché poi.

Iena: No io non posso.

Ermini: Siete quelli che fate da tramite tra la gente e le Istituzioni quindi i giudizi dateli voi, io penso d’aver contribuito a dare, a fare non soltanto delle nomine, perché poi purtroppo i giornalisti parlano solo delle nomine, qui se fosse stato quà tutto il giorno avrebbe visto quante centinaia di cose si fanno che le persone…

Iena: Le cronache ci hanno abituato a magistrati che si sono anche macchiati di reati con sentenza definitiva.

Ermini: Certo, certo.

Iena: In questo momento Palamara è incensurato.

Ermini: Aspetti, certo.

Iena: Un anno di sospensione dallo stipendio, due anni di sospensione dallo stipendio.

Ermini: Ascolti io personalmente… 

Iena: Ma sono rimasti in magistratura.

Ermini: Io da presidente della sezione disciplinare ne ho radiati diversi in questo periodo, se lei ha la pazienza di andare a vedere, e poi ce ne sono tanti che sono sospesi per la storia dei procedimenti penali. 

Iena: Non per un tentativo di una nomina.

Ermini: Ma ce ne sono tanti che sono…

Iena: Che non è nemmeno andata a buon fine.

Ermini: Ma questo, non mi faccia giudicare su un collegio dove, di cui non facevo parte… 

Iena: Perché lei si è astenuto.

Ermini: Mi sono astenuto perché avevo... 

Iena: Perché era coinvolto Lotti.

Ermini: No, per Lotti, per Palamara, perché Lotti non c’entrava nulla in questa storia. Ma Palamara era quello che, non è un segreto, che la sua corrente…

Iena: Quello, il dottor Palamara, mo siamo arrivati a quello.

Ermini: Eh no, no.

Iena: Già proprio. 

Ermini: No e non mi faccia fare... 

Iena: Già buttato giù dalla rupe.

Ermini: No, era quello nel senso era colui che, va bene? Diciamolo in italiano, era colui che mi aveva incontrato per dirmi che la sua corrente mi avrebbe potuto votare, come consigliere, dopodiché leggendo le intercettazioni ne ha dette tante e poi tante di me, perché si vede che non rispondevo ai suoi desiderata.

Quando la discrezionalità diventa illegale?

Iena: No lui dice, il ragionamento che fa.

Ermini: No ascolti, se lei, ascolti Monteleone…

Iena: Se io vengo cacciato… 

Ermini: No, ascolti…

Iena: Per aver pensato di influenzare la nomina del procuratore di Roma, allora perché.

Ermini: No questo lo ha detto lei, ha fatto la domanda lei, non l’ha detto lui, la domanda gliel’ha fatta lei così, che è una domanda sbagliata.

Iena: Sbagliata la domanda… 

Ermini: Sbagliata, perché glielo ripeto, sono due cose diverse, una cosa è il vicepresidente che è un accordo tra togati e membri, e eletti dal Parlamento.

Iena: Giusto.

Ermini: E l’altro che sono concorsi.

Iena: Sbagliato, nel caso dei concorsi è sbagliato.

Ermini: E certamente che è sbagliato nel caso dei concorsi.

Iena: Però solo perché c’è la discrezionalità, quindi ognuno si muoveva in un solco “legale”.

Ermini: Ah sì, diventa illegale nel momento in cui, nel momento in cui, tu non utilizzi più i parametri che vengono previsti dalle circolari, ma utilizzi il fatto che quello appartiene alla mia corrente e quindi lo favorisco per questo…le dicevo non ho giudicato Palamara, perché lui me ne ha dette così tante che io non valgo.

Iena: Vabbè quello entra nel privato mica nel pubblico.

Ermini: Vabbè comunque capisce che uno legge tutte…

Iena: Lei pure ogni tanto avrà fatto commenti su... 

Ermini: Che io sono una delusione, che io, le ha dette di tutte lasciamo perdere. Però al di là di questo, è chiaro che io a quel punto non ero sereno nel giudicarlo, e perché lo dovevo giudicare potendo avere magari anche un risentimento per quelle cose che aveva detto, ho preferito astenermi. Ma perché così si fa!

Iena: Però quegli altri mica hanno parlato male di lei, gli altri cinque dai quali lei si è astenuto. 

Ermini: Mmh qualcuno sì, legga bene le intercettazioni. 

Iena: Non tutti e cinque però.

Ermini: Vabbè, se il processo è uno ehehe come faccio.

I magistrati fanno politica nell’esercizio delle loro funzioni?

Iena: Ma la gente a casa può stare tranquilla che i giudici non fanno politica con l’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali?

Ermini: Senta, se lo fanno, fanno un errore non solo per la legge, per i cittadini.

Iena: Meritano una radiazione i magistrati che fanno politica? 

Ermini: Se fanno politica e utilizzano la giurisdizione per fare politica meritano di essere sanzionati, non c’è dubbio.

Iena: Con la sanzione massima…

Ermini: Con la sanzione massima, questo dipende dalla Procura, io credo che non sarebbe male ma questo ci vuole una riforma costituzionale che la sezione disciplinare fosse fuori dal consiglio superiore…

Marcello Viola? Una persona assolutamente per bene.

Iena: Possiamo dire che Marcello Viola di questa cosa non ne sapeva niente e che è un magistrato rispettabile?

Ermini: Io non ho mai parlato con...Marcello Viola lo conoscevo da, mi si sente dall’accento, come procuratore generale di Firenze, io non ho mai avuto nessun problema e mi sembra una persona, anzi...

Iena: Assolutamente per bene.

Ermini: È assolutamente.

Iena: Questa cosa gli è piombata addosso in qualche modo la gente dice “ma che ha sto Viola che”.

Ermini: Per me è una persona assolutamente per bene quindi io non…

Iena: Come tutti e tre i magistrati in corsa voglio dire.

Ermini: Ma certo, io per quanto… assolutamente sì.

Iena: Onorevole Ermini, lei è stato gentilissimo.

Ermini: No ma io quando volete, guardate non, non c’è problema, io sono disponibile, mi fate delle domande io vi rispondo perché non ho nulla assolutamente per, ripeto, non posso dire cose che la legge mi impone di non dire… ma per il resto io vi dico tutto quello che volete.

Iena: Grazie.

Ermini: Prego. 

Iena: Grazie mille. 

Ermini: Arrivederci.

Iena: Buonasera.

Giuseppe China per “la Verità” il 22 ottobre 2020. Nell' estate scorsa La Verità ha raccontato le chat tra Luca Palamara e il vicepresidene del Csm David Ermini, così come faranno stasera Le Iene. Nei messaggi tra i due si deduceva che anche dopo l' elezione a vice presidente del Csm, una carica ottenuta grazie ad un accordo tra Palamara e i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri, lo stesso Ermini e Palamara avevano continuato ad incontrarsi ma Ermini ha sempre smentito, anche in tv, dove la settimana scorsa aveva dichiarato: «Quando si arriva al consiglio superiore si dovrebbe interrompere il rapporto diretto con la corrente, perché quando si arriva quassù, si deve essere persone libere». Palamara, nel secondo round televisivo di stasera, lo smentisce clamorosamente: «Quale interruzione di rapporti? Ci sono stati una colazione a Montemartini. Un pranzo da Mamma Angelina. Una cena a casa mia. Un aereo preso insieme. Un convegno insieme a Milano». L' inviato chiede: «Quindi tutto quello che ha detto Ermini non la convince?». Risposta del pm radiato: «Ripeto, i rapporti sono continuati tranquillamente dopo, gli incontri sono continuati tranquillamente dopo, con l' onorevole Lotti e l' onorevole Ferri ci siamo visti tranquillamente dopo, insieme al vicepresidente Ermini, così come col procuratore generale Fuzio. Sono tutte cose documentate, rispetto alle quali penso c' è ben poco da aggiungere». E di che parlavano? Palamara: «Di tutto, di tutto ciò che riguardava l' attività del Csm [] dal disciplinare fino ai direttivi, fino alle valutazioni di professionalità, fino alle commissioni dei concorsi». E quando si sono interrotti i rapporti con Ermini? Palamara: «Nel mese di maggio, cioè quando la notizia girava, era diffusa negli uffici giudiziari. Chi sapeva che esisteva l' indagine nei miei confronti mi evitava. Chi non lo sapeva c' è cascato con tutte e due le scarpe». Con le Iene Ermini è sembrato in difficoltà: «Ma che terrazza Montemartini, piano terra Montemartini [] vabbè il bar di Montemartini». Poi aggiunge: «Gennaio, è l' ultima volta che io sono stato a cena con Palamara». Si parla anche di un incontro presso il ristorante Mamma Angelina. «Sì un pranzo, no a cena no» è la risposta. Il giornalista lo incalza: «Cena a casa di Palamara». Ermini: «Adesso non mi ricordo». La Iena suggerisce «con De Raho (capo della Direzione antimafia, ndr)». E a Ermini torna la memoria: «Sì a casa di Palamara a gennaio [] È stata l' ultima volta». La Iena prosegue: «Cena a casa, cena fuori, aereo, bar». Ermini: «Eh ho capito, che ci posso fare?». Al giornalista che lo incalza sul motivo della conclusione dei rapporti fra i due, magari da ricercare nell' inchiesta della procura di Perugia, Ermini replica: «No, ma vuole scherzare?! assolutamente. Io ho interrotto i rapporti con Palamara perché non c' era più feeling, perché, venivo criticato anche per gli interventi che facevo anche sotto l' aspetto sostanziale».

“LE IENE” il 22 ottobre 2020. - SCANDALO GIUSTIZIA: PALAMARA ED ERMINI, DUE VERSIONI OPPOSTE. “Quando si arriva al Consiglio Superiore si dovrebbe interrompere il rapporto diretto con la corrente, perché quando si arriva quassù, si deve essere persone libere”  L’EX MAGISTRATO LUCA PALAMARA SMENTISCE: “Quale interruzione di rapporti? Ci sono stati una colazione a Montemartini.  Un pranzo al ristorante Mamma Angelina. Una cena a casa mia. Un aereo preso insieme. Un convegno insieme a Milano”.

Iena: Quindi tutto quello che ha detto Ermini non la convince.

Palamara: Ripeto, i rapporti sono continuati tranquillamente dopo, gli incontri sono continuati tranquillamente dopo, con l’onorevole Lotti e l’onorevole Ferri ci siamo visti tranquillamente dopo, insieme al vicepresidente Ermini, così come col procuratore generale Fuzio. Sono tutte cose documentate, rispetto alle quali penso c’è ben poco da aggiungere.

Iena: E di che parlavate?

Palamara: Di tutto, di tutto ciò che riguardava l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura.

Iena: Quindi anche voti da esprimere, anche nomine, anche incarichi eccetera?

Palamara: Si parlava di tutto, dal disciplinare fino ai direttivi, fino alle valutazioni di professionalità, fino alle commissioni dei concorsi, di tutto. Tutto ciò che riguardava la vita del Consiglio Superiore. Oggi ogni quattro anni va valutata l’attività e la carriera del magistrato e quindi anche da quel punto di vista spesso vicende che riguardano i magistrati possono sicuramente incidere.

Iena: E quando si sono interrotti i rapporti con Ermini?

Palamara: Nel mese di maggio, cioè quando la notizia girava, era diffusa negli uffici giudiziari. Chi sapeva che esisteva l’indagine nei miei confronti mi evitava. Chi non lo sapeva c’è cascato con tutte e due le scarpe.

Nuove clamorose dichiarazioni e versioni dei fatti che sembra non coincidano tra David Ermini - Vicepresidente del CSM - e Luca Palamara - ex magistrato, appena radiato - rilasciate ai microfoni di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, in due interviste esclusive in onda questa sera, giovedì 22 ottobre, in prima serata su Italia1 a “Le Iene”.

Dagospia il 22 ottobre 2020. Intervista integrale a Luca Palamara:

Iena: Rieccoci, buonasera.

Palamara: Devo stare con la mascherina.

Iena: Come va? Siamo stati da Ermini e ci ha fatto due tirate di orecchie, la prima dice: “leggete bene le intercettazioni” e la seconda è “non si può paragonare la mia elezione a vicepresidente del Csm con il concorso per procuratore di Roma”. Cioè il gruppetto Palamara-Lotti-Ferri, che ha in qualche modo organizzato la mia elezione, si può fare, è nelle cose. Che Palamara, Lotti e Ferri parlassero del procuratore di Roma, no. 

Palamara: Io ho sempre parlato delle nomine dei procuratori della Repubblica, non era la prima volta che parlavo in quella notte, come ho parlato tante altre volte delle nomine dell’elezione dei Vicepresidenti del Csm. Faceva parte dell’attività correntizia, tanto serviva un accordo per fare il Vicepresidente, tanto serviva un accordo per eleggere un direttivo. 

Iena: Dice sempre Ermini, “se voi leggete le chat capite che io ho immediatamente troncato i rapporti con “la mia corrente”, cioè il gruppo di cui sarei espressione”.

Palamara: Allora io sono sicuro e certo. Dopo la nomina del 27 settembre del 2018, che è stata la nomina del nuovo vicepresidente del Csm sono continuati regolarmente i rapporti di cortesia e direi di stima reciproca con il vicepresidente del Csm, tanto in occasioni conviviali presso la mia abitazione, tanto presso incontri nel gruppo di unità per la Costituzione, l’ultima volta addirittura il 7 maggio del 2019 ci siamo sfiorati a Pristina, in Albania, in occasione di un convegno-incontro organizzato.

Iena: Quindi mi faccia capire, lui ha interrotto i rapporti col gruppo Palamara, il vicepresidente Ermini, sintetizziamo così?

Palamara: Non c’è stata mai nessuna interruzione, come non c’è stata mai come dire nessuna variazione rispetto a quelli che erano gli ordinari rapporti che ci sono sempre stati con noi, nessuna interruzione, mai.

Iena: Però dice Ermini, “loro nelle chat parlavano male di me perché io non rispondevo ai loro desiderata”, dice testualmente.

Palamara: Le mie chat sono pubbliche oramai, trovatemi una volta in cui io parlo male del vicepresidente Ermini.

Iena: Ma quali erano sti desiderata di cui parla Ermini?

Palamara: i desiderata miei come quelli di tutti coloro i quali aspiravano a incarichi direttivi erano quelli di trovare accordi e situazioni rispetto alle quali ben poco poteva fare il vicepresidente del Csm. 

Iena: Ma lei ha notato in qualche modo un affievolirsi della cordialità, che aveva contraddistinto le fasi precedenti alle elezioni di Ermini?

Palamara: Sì, sicuramente nell’ultimo periodo diciamo chi sapeva che esisteva l’indagine nei miei confronti mi evitava, chi non lo sapeva c’è cascato con tutte e due le scarpe. L’ultimo periodo, e parlo di maggio 2019, evidentemente c’era chi lo sapeva e chi non lo sapeva.

Iena: Lui dice “semmai potete accusarmi che io sono un vero ingrato, perché faccio un avviso a tutti, non fidatevi di Ermini” - dice Ermini, però, nessun legame, nessuno scambio di favore, nessuna influenza.

Palamara: Io non ho mai preteso nulla, come sempre mi sono messo a disposizione di chi mi chiedeva di trovare una mediazione per arrivare alla nomina più funzionale allo svolgimento dell’attività Istituzionale.

Iena: Ma perché lei allora gode quando viene eletto Ermini?

Palamara: Eh perché sicuramente ero stato uno dei suoi più fermi sostenitori per la nomina del vicepresidente del Csm, posso dire oggi mal mena incolse. 

Iena: Quindi lei dice, ci siamo visti a cena a casa mia, ci siamo visti a cena fuori, ci siamo visti in giro…

Palamara: Sono continuati regolarmente i rapporti dopo quell’elezione.

Iena: E quand’è che si interrompono?

Palamara: nel mese di maggio sicuramente si interrompono.

Iena: Cioè secondo lei che è successo, un uccellino ha cinguettato?

Palamara: E questo, bisogna trovare l’uccellino, non lo so, l’uccellino e il cinguettio, io non posso...

Iena: però lei ha notato che a maggio è successo qualcosa?

Palamara: Sì c’è stato assolutamente un raffreddamento non solo del Vicepresidente Ermini, ma di tante persone che sicuramente avevano adottato le opportune precauzioni per non rimanere contaminate come poi è capitato a tutti i “malcapitati”, scusate il gioco di parole, che poi si sono dimessi.

Iena: Cioè lei quindi dice che a maggio già c’era più di qualcuno che poteva essere nelle condizioni di essere al corrente che stava per succedere qualcosa.

Palamara: Sì, la notizia girava, era diffusa negli uffici giudiziari.

Iena: Uno dei giudici che l’ha giudicata da domani sarà in quiescenza.

Palamara: Si è inteso a separare la mia posizione rispetto agli altri, quindi diciamo io ho avuto un calendario accelerato.

Iena: Ma chi l’ha decisa questa cosa?

Palamara: La sezione disciplinare. Ha fatto un calendario che poi ha portato alla decisione che sappiamo rispetto alla quale la mia difesa non lesinerà di fare tutte le impugnazioni che sono previste dall’ordinamento.

Iena: Quindi tutto quello che ha detto Ermini non la convince.

Palamara: Ripeto, i rapporti sono continuati tranquillamente dopo, gli incontri sono continuati tranquillamente dopo, con l’onorevole Lotti e l’onorevole Ferri ci siamo visti tranquillamente dopo, insieme al vicepresidente Ermini, così come col procuratore generale Fuzio. Sono tutte cose documentate, rispetto alle quali penso c’è ben poco da aggiungere.

Iena: E di che parlavate?

Palamara: Di tutto, di tutto ciò che riguardava l’attività del Consiglio Superiore della Magistratura.

Iena: Quindi anche voti da esprimere, anche nomine, anche incarichi eccetera?

Palamara: Si parlava di tutto, dal disciplinare fino ai direttivi, fino alle valutazioni di professionalità, fino alle commissioni dei concorsi, di tutto. Tutto ciò che riguardava la vita del Consiglio Superiore. Oggi ogni quattro anni va valutata l’attività e la carriera del magistrato e quindi anche da quel punto di vista spesso vicende che riguardano i magistrati possono sicuramente incidere.

Dagospia il 22 ottobre 2020. Intervista integrale a David Ermini:

Iena: Ermini buonasera, di nuovo.

Ermini: Buonasera.

Iena: Lei ci ha detto “guardatevi bene le chat”.

Ermini: Sì.

Iena: “Leggetele bene e capirete che la ricetta per slegarsi dalle correnti è la mia quella giusta”.

Ermini: No, io ho detto che se voi guardate le chat, all’inizio c’era un grande supporto nei miei confronti da parte di Palamara, di Ferri, se poi lei confronta le chat con le intercettazioni si accorgerà che nel mezzo c’è stato qualcosa che si vede non è andato secondo quello che qualcuno si aspettava.

Iena: Lei ci ha detto “non ho fatto quello”, “non mi sono in qualche modo allineato alla loro desiderata”.

Ermini: Sì, se lei ha letto le chat…

Iena: Quali erano i desiderata?

Ermini: Desiderata era quella di formare, una sorta di maggioranza stabile per cui si decideva sostanzialmente tutto quello che c’era da decidere. Io invece sono profondamente contrario alle maggioranze stabili qui dentro, perché credo che qui ognuno debba decidere secondo la propria coscienza e sull’argomento del momento.

Iena: cioè quando lei viene eletto a settembre 2018 Palamara scrive “godo”.

Ermini: Sì sì ehh me lo ricordo. Non solo, ma nelle intercettazioni dice anche che io sono stato una delusione perché si vede non lo so che cosa si aspettasse… io guardi, dal primo momento ho detto “qui ci togliamo la giacchetta e rispondiamo alla Costituzione e al Presidente della Repubblica”. E così ho sempre fatto!

Iena: Però, c’è da dire che per diversi mesi gli incontri le cene…

Ermini: No no guardi, gli incontri, io ho visto un paio di volte Ferri e Palamara, ho visto una volta a pranzo, a cena mi sembra di esserci stato una volta, ma guardi, quando si è cominciato a parlare di nomine febbraio marzo, io credo l’ultima volta di aver visto Palamara sia stata a gennaio…

Iena: Ad aprile.

Ermini: L’ho visto, no.

Iena: Aprile 2019.

Ermini: No… e dove l’avrei visto...

Iena: No?

Ermini: No ci sono dei messaggi per una partita di calcio...

Iena: No, quella di San Luca dove poi…

Ermini: Sì, no quella è fine maggio, ma prima, c’era qualcos’altro, ma io prima ad aprile non mi pare di aver visto Palamara, però guà... verifichi eh perché…

Iena: Ma può essere che ad aprile, i rapporti, contatti cessano perché qualche uccellino l’ha messa un po’ in guardia?

Ermini: No assolutamente.

Iena: Perché eh… sicuro?

Ermini: Guardi, le lamentele nei miei confronti arrivano fin... da prima…

Iena: Però.

Ermini: Controlli.

Iena: Però diciamo, terrazza montemartini…

Ermini: No che terrazza montemartini, piano terra montemartini.

Iena: Vabbè il bar di montemartini.

Ermini: Novembre… l’ultima volta.

Iena: L’ultima volta a novembre.

Ermini: Sì.

Iena: A casa di Palamara col Procuratore Nazionale.

Ermini: Gennaio.

Iena: Antimafia.

Ermini: Gennaio, è l’ultima volta che io sono stato a cena con Palamara…

Iena: E poi fine…

Ermini: E poi… no, non c’è stata proprio più occasione.

Iena: Quindi non è automatico diciamo il distacco dalla corrente di riferimento.

Ermini: Non è che è stato… non è che è stato…ma guardi, io non ho mai avuto rotture forti o litigate eccetera, io semplicemente, mi sono comportato come ritenevo opportuno comportarmi, come la mia coscienza mi diceva di comportarmi.

Iena: Gennaio 2019 a casa di Palamara con Cafiero de Raho.

Ermini: Sì.

Iena: E poi?

Ermini: E poi basta.

Iena: E perché, cioè là che è successo?

Ermini: Perché non c’è stata più occasione, nessuno… nessuno mi ha chiamato, no nulla…

Iena: Nessuno l’ha più, cioè lei dice i rapporti si sono interrotti perché nessuno.

Ermini: No nessuno...

Iena: Mi ha più chiamato.

Ermini: No erano raffreddati, non c’era… tant’è che ad un certo punto nelle intercettazioni Palamara dice alla moglie “Ermini ormai l’ho perso da tempo”…qualcuno dice” Ermini non va mai dal Presidente”, ma in realtà io dal Presidente ci andavo, spesso, ma non l’ho mai riferito a nessuno, perché non era corretto che lo riferissi…

Iena: Ma secondo lei, è anomalo il fatto che nessuno stia indagando su come è avvenuta la fuga di notizie delle indagini di Perugia?

Ermini: Io se stanno indagando o no, non lo so.

Iena: Se c’è una violazione del segreto investigativo, il Vicepresidente del Csm è al corrente di un’iniziativa giudiziaria in questo senso?

Ermini: Non non… non devo e non posso essere al corrente se c’è un’iniziativa giudiziaria almeno finché non emergesse qualcosa.

Iena: No un’iniziativa giudiziaria per scoprire com’è stata possibile una clamorosa fuga di notizie.

Ermini: Ma questo io sinceramente non lo posso sapere, a noi non ce lo direbbero… a noi ci viene comunicato.

Iena: Uno si può immaginare che se, arriva ai giornalisti la notizia che c’è un’indagine a Perugia…

Ermini: Mh, ma lo vuole dire a me? Mi scusi, abbia pazienza, ma io il 29 o adesso, il 30 di maggio ero in Sicilia, apro il giornale e vedo scritto corruzione al Csm, lei pensa che non mi sia venuto un colpo al cuore?

Iena: Cioè lei mi sta dicendo che gli uccellini che hanno fischiettato vicino alle redazioni di giornali…? qua non ci sono delle…

Ermini: Qua per quanto mi riguarda.

Iena: Barriere.

Ermini: Assolutamente, tant’è che noi lo abbiamo saputo a maggio, a metà maggio, che lui era indagato… che era stato iscritto nel registro noti.

Iena: Quindi lei non ha interrotto i rapporti con Palamara perché ha saputo per una via o per l’altra in via diciamo…

Ermini: No guardi.

Iena: …confidenziale?

Ermini: C’erano stati delle…

Iena: Informale che c’era un’attività di indagine.

Ermini: No, ma vuole scherzare?! assolutamente. Io ho interrotto i rapporti con Palamara perché non c’era più feeling, perché, venivo criticato anche per gli interventi che facevo anche sotto l’aspetto sostanziale, eccetera.

Iena: Cioè senza… perché Palamara dice in qualche modo, qualche voce al Csm sul fatto che io potessi essere intercettato.

Ermini: No assolutamente.

Iena: Ed era al corrente più di un consigliere, per questo glielo.

Ermini: Guardi io sicuramente no.

Iena: Lei sicuramente no.

Ermini: Noi abbiamo saputo a metà maggio.

Iena: Perché ad un certo punto, 21 maggio 2019, Lotti invia un messaggino a Ermini.

Ermini: Sì.

Iena: “David, io non sono un senatore che ti scrive messaggi del cazzo, senza di me non eri lì”.

Ermini: Eh, sì.

Iena: Rispondi “di che cosa voleva parlare Lotti”…

Ermini: Noi, metà maggio riceviamo l’avviso da Perugia che Palamara è indagato, va bene? Eh mi cominciano a telefonare con insistenza, cosa avrebbe pensato lei? Nella mia testa ho pensato che volessero notizie su questa roba che io non potevo e non volevo assolutamente dare, perché era un segreto. E quindi non ho più risposto a nessuno, perché non volevo e non potevo dare notizie su una cosa avevo appreso qua.

Iena: Perché uno dice, prima si vedono, si vedono a Montemartini, si vedono a cena a casa, si vedono a cena fuori…

Ermini: No.

Iena: Si vedono in aereo, si fanno i convegni…

Ermini: Aereo? Aereo dove?

Iena: C’è un messaggino in cui avete preso lo stesso aereo dove Palamara si coordina con la sua segreteria… se vuole glielo leggo.

Ermini: Sì me lo legga perché io non me lo ricordo.

Iena: 18 ottobre.

Ermini: Ah vabbè, 18 ottobre.

Iena: 2018.

Ermini: Ahhh, 18 ottobre quando sono andato al convegno della Coldiretti forse a Milano, sì sì sì.

Iena: 18 ottobre chi posso contattare? Stefania, lei gli risponde.

Ermini: Sì Stefania è la mia segretaria, sì sì sì.

Iena: E poi lei gli scrive “mi mandi un paio di punti per la traccia dell’intervento di domani”.

Ermini: No mi ma, sì sì sì.

Iena: E Palamara risponde “mi hanno assicurato che entro mezz’ora arriva tutto”.

Ermini: Sì sì ho fatto anche una querela per questo, perché uscirono su dei giornali che Palamara mi aveva scritto i discorsi.

Iena: No no qui dice “mi mandi un paio di punti per la traccia dell’intervento di domani”.

Ermini: In realtà…

Iena: Palamara dice “mi hanno assicurato che entro mezz’ora arriva tutto”.

Ermini: Mi hanno assicurato perché mi è arrivato dalla Coldiretti.

Iena: Perfetto.

Ermini: La bozza del…

Iena: In uno dice, il 27 settembre l’elezione.

Ermini: Sì…

Iena: Ad ottobre prendono l’aereo insieme.

Ermini: Sì.

Iena: A novembre cena a casa.

Ermini: No, no no no.

Iena: Cena fuori.

Ermini: Cena a casa cena fuori no, io ho un pranzo mi sembra di averlo visto.

Iena: Da mamma Angelina.

Ermini: Sì un pranzo, no a cena no.

Iena: Cena a casa di Palamara.

Ermini: Adesso non mi ricordo.

Iena: Con De Raho.

Ermini: Sì a casa di Palamara a gennaio.

Iena: Eh quindi dico…

Ermini: È stata l’ultima volta.

Iena: Cena a casa cena fuori, aereo, bar…

Ermini: Eh ho capito, che ci posso fare?

Iena: No dico, dopo settembre e poi improvvisamente cessa tutto.

Ermini: Non cessa tutto, va avanti fino, mi sembra, l’ultima volta l’ho visto a gennaio, che mi ricordi io l’ho visto a gennaio, poi lui m’ha contattato per delle partite quindi i rapporti erano tranquilli.

Iena: Cioè non è che se uno si fa eleggere al Csm e il giorno dopo stacca il telefono, questo è che…

Ermini: Ma infatti, io non ho staccato il telefono, io l’ho incontrato, l’ho visto, ci ho parlato.

Iena: No dico, tronca di netto con una cesoia.

Ermini: Io ho cominciato ad allentare come le dicevo prima, quando mi sono accorto che volevano che ci fosse una maggioranza fissa, bloccata, cosa che a me non andava bene. Questo è stato il momento il cui io ho rallentato i rapporti, perché non volevo essere la persona determinante che stabiliva che un gruppo di magistrati decidesse, in tutto il bene e male.

Iena: Cioè lei ha capito di fare parte di un disegno di altri?

Ermini: Ho capito che con me, che io ero il voto determinante e questo io non lo volevo essere… 

Iena: Perché loro dicono ma voterà, non voterà…

Ermini: Sì lo dicono, non voterà perché nonostante mi dicessero vota non ho mai votato, proprio per non far vedere che c’era questa maggioranza bloccata.

Iena: Però non le è venuto il sospetto quando lei in qualche modo aveva bisogno dei voti in Consiglio, che poi ci avrebbero provato a fare questa cosa?

Ermini: Nooo guardi, i voti in consiglio, è molto più semplice di quello che sembra anche questa, basta spiegarle…quando è venuta fuori la mia candidatura, lei pensi che quella famosa cena che ha riportato il fatto quotidiano a casa dell’avvocato Fanfani, il 25 settembre, a me mi fu detto: “guarda, noi ti votiamo ma non siamo sicuri che tu abbia i voti perché ci sono alcuni di magistratura indipendente che non ti vogliono votare”, quindi io sono arrivato qui, la mattina del 27, senza una minima certezza.

Iena: Però sapeva che Ferri e Palamara stavano lavorando assieme a Lotti per...

Ermini: Sì certo, sì.

Iena: E dico, a lei poi non è venuto il dubbio che questa, come dire, questo attivismo in suo favore avrebbe richiesto…

Ermini: Ascolti.

Iena: Una sua sensibilità.

Ermini: A me il dubbio non mi è venuto.

Iena: Ma come no?

Ermini: Ma lo sa perché? Ma perché mi conosco. Perché io lo so…

Iena: Non vi fidate di...

Ermini: Guardi non vi fidate, se qualcuno si mette in testa di… perché poi qui c’è il problema della riconoscenza, se legge le intercettazioni, si rilegga quella del 27 maggio, che dice che io sono un irriconoscente, che sono stato una delusione dopo tutto quello che ho fatto per lui, ecco, se mi dovete dare un voto per poi richiedermi il conto non mi votate.

Iena: Non mi votate, lei si sta auto, diciamo, per il suo futuro in politica Ermini: Sto tarpando tutte le possibilità.

Iena: hahah ho capito, va bene, no, è che a noi veniva un po’ il dubbio che non è che il Vicepresidente Ermini ad un certo punto, lei ci ha detto guardatevi bene le intercettazioni...

Ermini: Sì sì.

Iena: Uno vede ad un certo punto sparito tutto, non è che Ermini...

Ermini: No perché sparito, guardi, ci sono dei messaggi anche, 7-8 maggio eravamo in Kosovo, Palamara era stato a fare una partita a Pristina, lui mi manda un messaggio, non ci siamo potuti salutare perché non ci siamo incrociati, io ero con una delegazione, per cui non è che il rapporto era interrotto, era soltanto che era, era rallentato perché io non accettavo, io lo so che loro mi criticavano.

Iena: Contavano su di lei.

Ermini: No, loro ad un certo punto hanno cominciato a criticarmi perché non rispondevo, poi si vede anche dalle intercettazioni che avete mandato in onda.

Iena: Cioè Ermini ha fregato Palamara, Lotti e Ferri.

Ermini: Ma non è che ho fregato, è che quando uno assume un incarico istituzionale, deve rispondere alla Costituzione e al Presidente della Repubblica, non può rispondere a Palamara o a qualcun altro…l’unico che ti può mandare via, che ti può sfiduciare, è il Presidente. Non sono i consiglieri. cioè i consiglieri non c’è rapporto fiduciario come c’è in Parlamento. Una volta eletto sei una carica istituzionale punto e basta. Non devi dire grazie o rispondere a chi ti ha eletto, perché sennò si va fuori da quello che è il sistema Istituzionale.

Iena: Che effetto avrà la decadenza del consigliere Davigo sui procedimenti disciplinari a carico degli altri consiglieri di questo scandalo nomine?

Ermini: Guardi, eh adesso deve ricominciare il processo ai cinque.

Iena: A carico dei cinque.

Ermini: Ai cinque...

Iena: Se Palamara non fosse stato radiato, adesso ricominciava anche per Palamara? Se il processo di Palamara avesse avuto…

Ermini: Alcune sì, no.

Iena: Tempistiche più dilatate.

Ermini: Allora o c’è il consenso da parte della difesa all’utilizzo di tutti gli atti oppure alcuni atti andavano ripetuti sicuramente.

Iena: Andavano ripetuti.

Ermini: Certo.

Iena: Perché diciamo che lo stesso collegio che ha letto le prove poi sia quello che emette il verdetto.

Ermini: Esatto, esatto.

Iena: E questa cosa non è una disparità di trattamento perché gli altri cinque avranno un collegio diverso?

Ermini: Ma vuole scherzare, ma sono tutti giudici, cioè i giudici sono tutti uguali, non è che si può scegliere di dire questo giudice è migliore o è peggiore, i giudici, qui siamo un tribunale vero e proprio, è una funzione giurisdizionale per cui tutti i giudici valgono allo stesso.

Iena: Ma se sono tutti imputati della stessa condotta, abbiamo stralciato la posizione dice di quello che aveva la misura cautelare?

Ermini: No no no anche questo è un’altra cosa, a noi sono arrivate già divise. La posizione di Palamara ci è arrivata per conto proprio, la posizione di Ferri per conto proprio, la posizione dei cinque ci è arrivata già unitaria dalla Procura Generale.

Iena: I cinque sono, diciamo, nel pieno delle loro funzioni del loro stipendio, eccetera?

Ermini: Sì sì sì sì.

Iena: Palamara era sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, quindi Palamara non poteva fare danni.

Iena: Esatto.

Iena: Gli altri cinque che brigavano…

Ermini: No le spiego…

Iena: Sono operativi diciamo…

Ermini: Lo so, ma voi dovete capire che il Csm non ha potere di iniziativa, il Consiglio Superiore funge solo da giudice, per cui le richieste, le misure cautelari, ce le chiede o il Ministro o il Procuratore Generale. Noi facciamo soltanto i giudicanti, quindi non abbiamo potere di iniziativa, anche come mi ha chiesto l’altra volta dei cinque eh, non è che abbiamo potere noi di chiedere la misura cautelare.

Iena: Però riconosce oggettivamente che la posizione dei cinque è migliore?

Ermini: Ma non lo...

Iena: Sono accusati della stessa cosa.

Ermini: Ma guardi, io non faccio parte dei collegi.

Iena: Ci sarà una pressione mediatica…

Ermini: Non mi faccia…

Iena: Un’attenzione sugli altri cinque…

Ermini: Non mi fa.

Iena: Oggettivamente.

Ermini: Questo non me lo faccia dire a me..

Iena: Eh loro sì, chi ha fatto il processo in tre settimane che non si era mai visto, tre settimane.

Ermini: Io non posso parlare.

Iena: Tra le tante cose di Csm da quando c’è David Ermini.

Ermini: Eh.

Iena: L’onorevole Ermini Vicepresidente.

Ermini: Sì hehe.

Iena: Tra le tante cose nuove c’è questa novità che si è fatto il primo procedimento disciplinare che ha avuto come esito la radiazione in tre settimane. Non è mai successo nella storia del Csm. Mai.

Ermini: Senta, io…

Iena: Tre settimane di processi.

Ermini: Io questo oggettivamente non lo so, non facevo parte del Collegio quindi non posso darle nessun giudizio su quello che ha fatto un altro collega.

Iena: No nessun giudizio, le dico, è successa una cosa straordinaria al Csm.

Palamara: «Al Csm ero forte ma non ero solo: domina la sinistra». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 ottobre 2020. «Il meccanismo spartitorio tra i gruppi dell’Anm non è mia invenzione, anche se mi ci muovevo benissimo. Ora si dovrà chiarire perché le correnti progressiste non volevano che viola, uomo di Ferri, venisse a Roma». «Io non sono un corrotto». L’intervista a Luca Palamara inizia così. L’ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura la scorsa settimana al termine di un “turbo processo” al Csm, prima ancora di rispondere alla prima domanda ha voluto puntualizzare di non aver mai preso soldi in cambio di incarichi. L’iniziale accusa di corruzione, 40mila euro per nominare Giancarlo Longo procuratore di Gela, aveva consentito alla Procura di Perugia di installare il famigerato trojan nel telefono di Palamara. E sulle base delle conversazioni intercettate con il virus spia la Procura generale della Cassazione aveva esercitato l’azione disciplinare.

Dottor Palamara, lei è stato per anni un protagonista della vita associativa, una figura chiave della “politica” interna alla magistratura. La sua capacità di tenere le relazioni l’ha resa un punto di riferimento nella dinamica delle correnti. Erano centinaia, come emerso dalle chat, i magistrati che si rivolgevano a lei per una nomina o un incarico. Al di là delle vicende dell’hotel Champagne, negli anni aveva mai avuto la sensazione che questo suo correre senza mai fermarsi potesse farle rischiare di perdere il controllo?

«Il meccanismo delle correnti non l’ho inventato io. Lo voglio ripetere ancora una volta. Certo, in questo meccanismo io mi muovevo benissimo e sicuramente, a posteriori, posso dire di aver ecceduto».

Crede che la febbre per la carriera e la conseguente corsa alle nomine, radicatasi negli ultimi anni tra i magistrati, dipenda anche dal fatto che la magistratura non aveva più un grande nemico politico? Il fatto cioè che, anche per la fine della contrapposizione con Berlusconi, la dialettica tra magistrati e politica abbia perso molta della sua intensità, potrebbe aver creato tra voi magistrati una sorta di rilassamento, di ripiegamento verso l’interesse personale?

«Può darsi che sia innescata anche una simile dinamica. Però di questo che lei definisce “ripiegamento verso l’interesse personale” io non voglio essere l’unico responsabile. Se il sistema consentiva e consente di fare accordi, spesso definiti “intrighi”, è ovvio che bisogna cambiarlo. Non sono comunque disponibile a pagare per tutti le distorsioni di un sistema che per anni mi ha lasciato carta bianca e poi adesso ha ritenuto di espellermi».

Ha mai notato in altri leader delle correnti qualcosa del genere, cioè un forte coinvolgimento nella politica associativa e nelle decisioni sul Csm?

«Premesso che la magistratura deve essere indipendente, ad oggi nulla impedisce a un magistrato di “far politica” per fare carriera. La vita di un magistrato dipende troppo dalle correnti. E questo è il primo grande tema da affrontare se si vuole recidere il legame distorto tra giudici e gruppi associativi».

C’è qualcuno tra i suoi colleghi che si è particolarmente distinto per mancanza di solidarietà nei suoi confronti, che le è sembrato più ipocrita e traditore” di altri? Ci sono di contro dei colleghi che in questi mesi le sono stati sinceramente vicini, anche a costo di rischiare qualcosa?

«In tanti mi hanno voltato le spalle, ma in tanti, con cui non avevo mai avuto rapporti, si sono avvicinati. Inizialmente mi sono trovato solo poi, però, il clima è cambiato».

Crede che il suo “sacrificio” possa servire ad aprire davvero una breccia nella coscienza della magistratura, e a ritrovare un protagonismo pubblico più legato al prestigio e all’autorevolezza della funzione? O teme di più un esito opposto, ossia che il suo sacrificio diventi il lavacro in cui si perderà tutto lo spirito autocritico della magistratura italiana?

«Io pago molte colpe. Ad esempio di aver promosso, in tempi di governo giallo verde, la nomina del vicepresidente David Ermini, che in quel momento, basta vedere le rassegne stampa di quei giorni, non veniva tollerata perché espressione del Pd».

Lei è stato presidente della Quinta commissione del Csm. La più importante di Palazzo dei Marescialli, quella in cui si decidono i vertici degli uffici giudiziari Paese. Questa commissione, da quanto risulta, è sempre stata presieduta dai magistrati progressisti di Area, un tempo Md, e di Unicost, come lei. Nessuno di Magistratura indipendente, la corrente “di destra”. Come mai?

«È la conferma che la magistratura italiana, per anni, è sempre stata orientata a sinistra. Il tutto con l’avallo dei vari vicepresidenti del Csm, che decidono sulla composizione delle Commissioni».

Torniamo alla serata dell’hotel Champagne. Ma come le è venuto in mente di presentarsi con Luca Lotti?

«È stato un errore. Ma quanto accaduto fotografa solo uno spicchio di quello che è realmente avvenuto. Io ho il dovere di fare una operazione verità su quello che ha preceduto la nomina del procuratore di Roma, sulle ragioni per cui la corrente di sinistra non voleva Marcello Viola e sul perché in quanto uomo di Ferri non poteva venire a Roma».

Certo, è interesse di tutti sapere perché Viola, procuratore generale di Firenze, non fosse gradito. In Toscana va bene, a Roma no.

«Esatto. Io sono molto stanco di questa cultura del sospetto. Io non ho mai fatto alcun patto segreto con Lotti».

Non voleva, allora, garantirgli un salvacondotto nel processo Consip dove è imputato a Roma?

«Occorrono le prove di quello che si afferma».

Un’ultima domanda: parliamo sempre della Procura Roma. E delle “discontinuità” che la nomina di Viola avrebbe rappresentato. Ci sono anche altri casi. Alla Procura di Milano, ad esempio, il procuratore della Repubblica dai tempi del Patto di Varsavia e con il muro di Berlino ancora in piedi è sempre stato un esponente della sinistra giudiziaria. È una coincidenza?

«In Italia ci sono dei Palazzi di giustizia che sono dei santuari inviolabili».

L’INGIUSTIZIA DELLA MAGISTRATURA POLITICIZZATA. Cesare Alfieri il 24 giugno 2020 su L’Opinione delle Libertà. La “giustizia” come la trappola che i giudici politicizzati tendono contro tutti gli italiani che non aggradino loro, personalmente come professionalmente e politicamente. La “giustizia” come la propria clava a disposizione ed arbitrio personali dei “giudici” politicizzati. La giustizia in Italia, in assenza della sua totale riforma, non esiste. Averne il terrore, avere cioè il terrore dei giudici politicizzati non solo è legittimo ma sacrosanto, razionale e giusto. Gli italiani devono avere - così come hanno - paura. Oggi si pensa erroneamente di potere zittire tutto mentre i principali responsabili colpevoli - dolosi - si stracciano le vesti per mantenere posto e stipendio pubblici al Csm come nelle Procure, ma non è così che il grave problema della giustizia ingiusta - che attanaglia il nostro Paese alle fondamenta ostacolandone la riemersione e la crescita possibili - si risolve. Il problema è troppo vasto e complesso, incancrenito, è alla radice. I giudici politicizzati non lo comprendono neanche, a giudicare da ciò che fanno e dicono. Il “sistema”, invocato da Luca Palamara in questi giorni dopo esserne stato il protagonista, sono tutti loro, senza troppi “distinguo” tra chi ne è stato parte attiva e chi lo ha tollerato e sopportato. L’unico rimedio possibile è fare tabula rasa, cancellare il Csm dalla Costituzione, rimandare tutti i giudici a espletare solo e solamente la funzione giudicante, intesa come quella che si eroga nel chiuso delle proprie - solitarie ed isolate (l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziale si sostanzia in questo isolamento e solitudine ) - stanze dei numerosi uffici presenti e disseminati sul territorio italiano. Al contrario oggi, dopo l’ennesimo scandalo in capo ai giudici ed alla magistratura tutta politicizzati, si tenta di zittire e nascondere per andare avanti indisturbati nell’errore. Purtroppo anche chi coordina e dirige la magistratura, in quanto presidente del Csm in qualità di presidente della Repubblica, assiste immobile alla frantumazione dell’Italia stessa. Nel 1990 in Italia, i giudici d’assalto di Mani pulite sono stati lo strumento protagonista attivo della presa del potere politico da parte della sinistra comunista oggi Pd ieri Pci/Pds/Ds/Margherita/eccetera. “Sceso in campo”, Berlusconi, è stato rimpinzato di cause e processi ad opera della magistratura politicizzata. L’assalto si è tramutato in odio contro il centrodestra e i suoi elettori. Gli enti e le istituzioni pubbliche italiane, presidiate dal potere giudiziale e politico sinistro sono state rese inoccupabili ed impercorribili, infrequentabili da parte di qualsivoglia italiano di ideologia diversa. Dal 2011 ad oggi in Italia ha governato e tuttora governa, senza essere stata eletta dagli italiani, sempre la sinistra - governi non eletti Pd Monti, Letta, Renzi, Gentiloni 1 e 2, Conte 2 - oggi Pd/5stelle disperati e pronti a tutto per le proprie poltrone pubbliche. Ecco il deleterio collegamento tra la politica e la ingiustizia targata Pd. Come volete che sia mai imparziale ed equo un giudice politicizzato? Come giudicherà chi è politicamente diverso, e non irregimentato come lui? Impossibile per questi erogare equamente giustizia nei confronti di chi la pensi diversamente. Nel “sistema” che accusa oggi il giudice politicizzato ci sono moltissimi vertici delle procure d’Italia. Fare tabula rasa. Riformare e riportare a giustizia. Lo si può fare in Italia solo andando a votare. Come è evidente, è lo stesso Mattarella a non volerlo. La Costituzione al contrario è chiara sul punto in cui ci troviamo oggi in Italia: in assenza cioè di corrispondenza tra la volontà degli italiani elettori e il Parlamento ed il governo (anche Conte è un non eletto, il presidente della Repubblica avrebbe l’obbligo costituzionale di sciogliere le Camere e indire il voto elettorale portando gli italiani al voto.

Palamara, vita da sospeso: da mesi senza stipendio e con l’assegno alimentare. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 giugno 2020. Il destino di Palamara è quello che accomuna tutti i dipendenti della Pubblica amministrazione che, incappati nelle maglie della giustizia, vengono sospesi dalle funzioni e dallo stipendio. Indagato per corruzione a Perugia, recentemente espulso dall’Anm di cui è stato anche il presidente, da ieri, secondo quanto riferito in conferenza stampa dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, anche a forte rischio “rimozione” dall’ordine giudiziario, cioè il licenziamento. Non è certamente un periodo facile per Luca Palamara, il magistrato divenuto, suo malgrado, il simbolo della degenerazione delle correnti in magistratura e della lottizzazione degli incarichi al Csm. In questo contesto non propriamente idilliaco, anche perché risulta sempre più difficile credere che Palamara abbia potuto in questi anni fare tutto da solo, i commentatori dimenticano quasi sempre di aggiungere che da dodici mesi l’ex potente consigliere del Csm è sospeso dalle funzioni e, soprattutto, dallo stipendio. Palamara, con due figli a carico, percepisce infatti solo l’assegno alimentare di circa mille e quattrocento euro. Emolumento dignitoso, certamente, ma che non mette nelle migliori condizioni per affrontare un processo penale. E già: il destino di Palamara è quello che accomuna tutti i dipendenti della Pubblica amministrazione che, incappati nelle maglie della giustizia, vengono sospesi dalle funzioni e dallo stipendio. Il principio di fondo che regola questo istituto è quello di tutelare il buon nome della Pa ed impedire che il malcapitato continui a farsi corrompere come un forsennato. C’è però il rovescio della medaglia, che si traduce nel divieto di svolgere altri lavori durante la sospensione in quanto incompatibili con lo status di dipendente pubblico. Vale la pena ricordare che la sospensione non ha una durata prefissata. Teoricamente può prolungarsi fino alla pensione. Palamara, comunque, è stato “graziato” dai colleghi di Perugia: pur essendo indagato per corruzione i pm non hanno provveduto al sequestro dei conti bancari, un atto che per questo genere di reati avviene di “default”. Il sequestro preventivo è scattato infatti solo qualche mese fa. Il problema potrebbe essere archiviato con un “se l’è cercata”, ma la presunzione di non colpevolezza vale per tutti i cittadini e tutti hanno il diritto di difendersi al meglio. C’è un aspetto positivo, riguarda il procedimento disciplinare che Salvi sta istruendo per rimuoverlo. Ad assisterlo ci saranno Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena, e Stefano Guizzi, consigliere di Cassazione. Chi frequenta la Sezione disciplinare del Csm sa che si tratta di maggiormente esperti nella materia. Al Csm la difesa è “gratis” in quanto i magistrati che svolgono il ruolo di difensore del collega non percepiscono alcun compenso.

Travaglio e Davigo “bocciano” Cantone: “Non ha i titolo per la procura di Perugia”. Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 16 giugno 2020. Domani la nomina della procura di Perugia. Una poltrona strategica nel panorama giudiziario in quanto competente per i reati commessi dalle toghe della Capitale. Chi verrà nominato troverà subito un fascicolo rovente: quello a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Raffaele Cantone  “bocciato” dal Fatto Quotidiano. La scorsa settimana era stato Mario Serio, ordinario di diritto privato all’Università di Palermo ed ex componente del Csm; ieri è toccato ad  Antonio Esposito, ex presidente di sezione in Cassazione,  noto alle cronache per essere stato il presidente del collegio che confermò nel 2013 la condanna per frode fiscale a Silvio Berlusconi, stroncare con un editoriale la corsa dello zar anticorruzione verso la Procura di Perugia. Cantone, in estrema sintesi, e a dar retta al giornale di Marco Travaglio, non avrebbe i titoli per aspirare a questo incarico. Ha passato troppo tempo lontano dalle aule dei tribunali.  Se il Csm vuole effettivamente cambiare rotta, affermano i due,  Cantone non può diventare procuratore di Perugia. Gli interventi di Serio ed Esposito sul Fatto, seguono il  duro attacco di Piercamillo Davigo e dei togati di Autonomia&indipendenza, la corrente della magistratura fondata dall’ex pm di Mani pulite, Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, nei confronti del magistrato voluto da Matteo Renzi a capo dell’Anac. Ad aprile la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm aveva proposto Cantone al Plenum con tre voti (quello del togato Mario Suriano di Area, la corrente di Cantone, e dei laici Alberto Maria Benedetti (M5S) e Michele Cerabona (FI). Due voti a favore dello sfidante, il procuratore aggiunto di Salerno, Luca Masini (quello di Davigo e della togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè. Astenuto il togato Marco Mancinetti di Unicost.“Masini, dopo aver svolto tutta la sua carriera in diversi uffici requirenti, svolge da quasi cinque  anni l’incarico  aggiunto a Salerno. Inoltre  è stato per un lungo periodo anche facente funzioni della Procura di Salerno, che ha gestito in una fase notoriamente caratterizzata da indagini molto complesse”, aveva sottolineato Davigo.“Cantone – aggiunse  – dopo aver svolto il ruolo di sostituto procuratore a Napoli fino all’ottobre 2007, è stato destinato all’Ufficio del massimario e dal 2014 ad ottobre 2019 è stato nominato n. 1 dell’Anac”.Per nominare Cantone procuratore di Perugia bisognerebbe allora non tener conto dei criteri previsti per la dirigenza che puntano a valorizzare “esperienze maturate nel lavoro giudiziario”. Se il Csm vuole riacquistare la credibilità serve “coerenza delle scelte”, puntualizzò Davigo, evitando “soluzioni di continuità” tra gli incarichi fuori ruolo ed il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi. La Procura di Perugia, va ricordato, è strategica nel panorama giudiziario in quanto competente per i reati commessi dalle toghe della Capitale. Chi verrà nominato domani troverà subito un fascicolo rovente: quello a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, indagato per corruzione e coinvolto nello scandalo delle nomine al Csm.

Da blitzquotidiano.it il 17 giugno 2020. Raffaele Cantone è il nuovo procuratore di Perugia. Lo ha nominato il plenum del Consiglio superiore della magistratura, che però sul voto si è diviso. Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, tornato in ruolo all’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, ha avuto 12 voti. Prevalendo sull’altro candidato proposto dalla commissione, il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini, che ha ne ha avuti 8. Quattro astenuti. Cantone prende il posto lasciato da Luigi De Ficchy alla guida dell’ufficio che ha competenza sulle inchieste a carico dei magistrati romani e che indaga sul caso Palamara. Nato a Napoli il 24 novembre 1963, il 27 marzo 2014 l’allora premier Matteo Renzi lo propose come presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, nomina confermata dal Parlamento. Il suo mandato sarebbe scaduto a marzo 2020. Entrato in magistratura nel 1991, è stato sostituto procuratore presso il tribunale di Napoli, dove si è occupato principalmente di criminalità economica, fino al 1999. È poi entrato nella Direzione distrettuale antimafia di Napoli, di cui ha fatto parte fino al 2007. Si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi che hanno portato alla condanna all’ergastolo di boss quali Francesco Schiavone, detto Sandokan. Ma anche Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e Mezzanott, Walter Schiavone, detto Walterino. Alla presidenza dell’Anac ha dato forte impulso all’attività per prevenire l’infiltrazione della corruzione negli appalti pubblici e agli interventi sulle operazioni sospette o a rischio. Il Mose, l’Expo, la ricostruzione post terremoto nel centro Italia, la riforma del Codice degli appalti sono solo alcuni degli ambiti su cui l’Anac è intervenuta in questi anni

Cantone nominato procuratore di Perugia, Di Matteo guida l’opposizione. su Il Dubbio il 17 giugno 2020. L’ex presidente dell’Anac prenderà in mano il fascicolo sul caso Palamara. Di Matteo: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”. Raffaele Cantone è il nuovo procuratore di Perugia. Lo ha nominato il plenum del Consiglio superiore della magistratura, che però si è diviso. Cantone , ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, tornato in ruolo all’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, ha avuto 12 voti, prevalendo sull’altro candidato proposto dalla commissione, il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini, che ha ne ha avuto 8. Quattro sono state le astensioni. Cantone prende il posto lasciato da Luigi De Ficchy, in pensione da giugno dello scorso anno, alla guida dell’ufficio che ha competenza sulle inchieste a carico dei magistrati romani e che indaga sul caso Palamara. Duro l’intervento del consigliere togato del Csm Nino Di Matteo che ha provato a impedire la nomina di Cantone: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”. L’ufficio giudiziario umbro è, come rilevato da Di Matteo, quello competente su eventuali inchieste riguardanti magistrati del distretto di Roma, e, quindi, è titolare dell’indagine sul caso Palamara. Di Matteo, pur manifestando la sua stima nei confronti di entrambi i candidati, non ha negato che Cantone all’Anac “abbia perfezionato la propria professionalità in materia di contrasto alla corruzione, se non altro attraverso i rapporti con le procure”, ma il punto è, ha sottolineato, che “noi abbiamo il dovere di decidere in funzione dell’esigenza di garantire nei confronti dei cittadini l’apparenza di imparzialità: avrei sostenuto – ha aggiunto – la candidatura del dottor Cantone a una procura diversa, ma non a Perugia: l’incarico all’Anac ha una fortissima connotazione politica, una connotazione che si è perfino accentuata, almeno quanto alla sua apparenza, quando per più volte il dott. Cantone è stato indicato come possibile premier della nuova compagine governativa”. Inoltre, Di Matteo ha insistito nel ricordare che il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria esige una “prudenziale” valutazione degli incarichi fuori ruolo “in modo che mai possa ingenerarsi nell’opinione pubblica il sospetto di mancanza di imparzialità”. Per queste ragioni, ha concluso il togato indipendente, “ritengo preferibile che venga nominato un procuratore diverso, quale il procuratore Masini che ha sempre saputo coltivare il valore della indipendenza”.

Cantone nominato procuratore di Perugia, il Csm si spacca: Davigo e Di Matteo votano contro. Redazione su Il Riformista il 17 Giugno 2020. L’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone è il nuovo procuratore di Perugia, quella stessa procura che un anno fa ha svelato il cosiddetto caso Palamara (la procura umbra è competente dei reati contestati ai magistrati romani). La nomina è arrivata però con una netta spaccatura nel voto del Cms: a Cantone, che con la DDA di Napoli ottenne la condanna all’ergastolo di numerosi boss della camorra casertana, sono andati 12 voti, contro gli otto ricevuti dall’attuale procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini. Dopo l’addio alla DDA, nel 2007, Cantone è passato agli uffici del massimario della Cassazione, poi alla presidenza dell’Anac, finita ottobre 2019, e infine ritorno alla Suprema corte. A favore di Cantone hanno votato i 5 componenti di Area, i 3 laici di M5S, i 2 Forza Italia e i 2 della Lega. Per Masini si è espresso il gruppo di Piercamillo Davigo, compreso Nino Di Matteo, con 5 voti, oltre ai 3 di Magistratura Indipendente. Si sono astenuti invece i tre componenti del gruppo Unicost e il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone, mentre il procuratore generale Giovanni Salvi era assente e il vice presidente del Csm Davide Ermini non ha votato. La nomina di Cantone a Perugia, con la riforma del Csm proposta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sarebbe stata impossibile: una delle norme previste infatti vieta a chi è stato fuori ruolo di candidarsi a incarichi direttivi per 2 anni. Riforma del Guardasigilli che, non essendo stata ancora approvata, permette a Cantone di prendere il posto di Luigi De Ficchy, andato in pensione lo scorso anno. Il dibattito sulla nomina è stato particolarmente infuocato e duro, con posizioni chiare sin dal principio. Nino Di Matteo ha attaccato così la nomina di Cantone: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli Uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”, un riferimento chiaro al caso Palamara. A difesa di Cantone invece Mario Suriano, presidente della della Commissione Direttivi e membro della corrente “di sinistra” Area. “Non si può dubitare della indipendenza di Cantone. Dalle chat (il riferimento è all’inchiesta Palamara, ndr) vediamo che Cantone non doveva andare a Perugia secondo persone vicine al presidente del Consiglio che lo nominò all’Anac”.

Antonio Di Pietro e Palamara. "Ci sono due modi per fermare un magistrato". Quarta repubblica, Porro sbianca: "Sta dicendo una cosa gravissima". Libero Quotidiano il 09 giugno 2020. "Un magistrato che vuole essere indipendente può essere fermato in 2 modi: o l'ammazzano o da un altro magistrato". Antonio Di Pietro, ospite in studio a Quarta Repubblica, smantella in pochi minuti la magistratura italiana, alla faccia di Marco Travaglio e Piercamillo Davigo. E anche Nicola Porro sbianca: "Lei sta dicendo una cosa gravissima...". L'ex storico pm di Mani Pulite, commentando lo scandalo che ha travolto Luca Palamara e decine di altri (ex) colleghi, è categorico: "Io sono contrario non solo alle correnti, ma pure all'Associazione nazionale magistrati". "Ma l'Anm è il vostro sindacato, vi difende dalle ingerenze della politica", ribatte Porro. "Appunto. Si ricordi che la magistratura è un potere ed è difesa dalla Costituzione. La politica non c'azzecca niente". La critica di Di Pietro si estende al modo stesso di pensare la magistratura: "Mi preoccupano quei magistrati che fanno già la sentenza prima di accertare i fatti. Una delle persone che stimo di più è Davigo, ma non sempre siamo d'accordo. Io non ho mai usato le intercettazioni, io ero accusato di aver fatto confessare". E su Palamara allarga lo spettro: "Di quale Palamara parla? - chiede ìl fondatore di Italia dei Valori a Porro - Di quello che è stato intercettato o degli altri membri del Csm? Se lui faceva accordi c'erano altri che li facevano con lui. Abbiamo scoperto l'acqua calda!". Un po' come la vecchia storia di Tangentopoli e certi partiti (un nome su tutti, l'ex Pci) per così dire graziati dalle inchieste: "Quelli di sinistra li ho sempre considerati più bravi ad occultare le prove, a quelli di destra alzavo i puff e trovavo i soldi".

Luca Palamara, Maria Teresa Meli: "Esplode la Anm". Dito puntato contro il "marciume della magistratura". Libero Quotidiano il 08 giugno 2020. Prende la mira e apre il fuoco. Si parla di Maria Teresa Meli, la firma del Corriere della Sera, che su Twitter commenta con toni durissimi le vicende che stanno travolgendo la magistratura italiana, da Luca Palamara in giù. "L'Associazione nazionale magistrati sta esplodendo (dimissioni sia in giunta che nel comitato direttivo centrale), e le elezioni per il suo rinnovo sono state rimandate a ottobre - premette -. Il caso Palamara ha terremotato quell'ambiente svelandone il marciume, e la politicizzazione", conclude Maria Teresa Meli, che non fa sconto alcuno.

“La politica codarda ha consegnato il potere ai magistrati”. Parola di Nordio. Il Dubbio l'8 giugno 2020. Per l’ex procuratore di Venezia, “i magistrati sono indipendenti dal potere politico perché questo non li può toccare, ma sono dipendentissimi dall’Anm e dal Csm che hanno in mano carriere, incarichi e promozioni”. “II prestigio della magistratura oscilla da tempo. Con il terrorismo eravamo ai massimi. Poi con il caso Tortora siamo calati. Siamo tornati in auge con Tangentopoli. Oggi siamo al minimo del minimo. E temo che non sia finita”. Lo dice intervistato da Libero, Carlo Nordio, ex procuratore di Venezia a proposito della magistratura. Nordio spiega poi il perchè del legami tra politica e magistratura: “Perché il potere – afferma – è una forte attrattiva, e la politica, debole e codarda, l’ha consegnato a noi su un piatto d’argento, peraltro spalmato di veleno”. Quindi aggiunge che “l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono favole vuote” e “i magistrati sono indipendenti dal potere politico perché questo non li può toccare, ma sono dipendentissimi dall’Anm e dal Csm che hanno in mano carriere, incarichi e promozioni”. “Che il Csm sia l’espressione delle correnti che governano l’Anm e che la spartizione delle cariche fosse procedura consolidata lo sapevano anche le pietre”. E sui magistrati che si comportano in questo modo: “Non mi piacciono, è ovvio. Se lo facessero in mala fede – osserva – ovviamente mi piacerebbero ancora meno, ma credo che la maggior parte sia in buona fede. Cosa moralmente meno grave, ma socialmente più pericolosa, perché chi si ritiene moralmente superiore facilmente sconfina nel fanatismo. E il fanatico fa più danni del delinquente”. “Senza aiutini un giudice non fa carriera”, aggiunge poi Nordio. Come si diventa presidente dell’Associazione nazionale magistrati? Secondo l’ex procuratore veneziano Carlo Nordio “per pura contrattazione correntizia, scambio di favori e di promesse”. E poi: “La Costituzione non lo vieta, e quindi è legittimo” salvo poi affermare che “è estremamente inopportuno e vulnera il principio della separazione dei poteri”.

Scandalo Palamara, il silenzio ci rende tutti complici.  Annamaria Bernardini de Pace Lunedì, 8 giugno 2020 su Affari italiani. Scandalo magistratura, il silenzio dei colpevoli. Io sono come Dacia Maraini: quando mi metto a scrivere, sono felice come se stessi correndo verso il mio uomo amato. Purtroppo oggi penso che invece di fare l’amore, ci guarderemo allibite e indignate, la parola e io, mentre metteremo le mani sotto il lercissimo tappeto della giustizia. Anzi, di certa parte della magistratura. Sono figlia di un magistrato, arrivato alla procura generale a 37 anni, quando poi ha lasciato la magistratura perché ha capito che i suoi colleghi cominciavano a suddividersi in correnti politicizzate. Come ha sempre detto un grande magistrato mio amico e che ho sempre ammirato, non puoi fare questa professione se non sei un uomo libero. E, ormai, se sei libero te la fanno pagare. Quindi, su novemila magistrati di sicuro la maggior parte sono bravi, onesti, preparati, ma gli altri disonorano la giustizia. Che è pur sempre uno dei tre poteri dello Stato. E uno dei principi giuridici basilari dello Stato di diritto e della democrazia è la separazione dei poteri. Gli abusi di potere, la corruzione e l’insulto alla democrazia si hanno quando potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario si mescolano, anche non solo surrettiziamente, per produrre intrugli d’ogni specie. Come avviene adesso. Il potere legislativo è inesistente, ormai depauperato; il potere esecutivo, ormai, dittatorialmente fa anche le leggi; il potere esecutivo e alcuni settori del potere giudiziario hanno una relazione illecita, pornografica, e neppure tanto clandestina. In questa non democrazia c’è praticamente un despota, con tre corpi e una sola testa. In qualsiasi paese civile del mondo, oggi, malgrado i problemi del covid, si parlerebbe soprattutto dello scandalo magistrati; i giornali sfornerebbero pagine e pagine di intercettazioni, di editoriali colti, di interviste eccellenti. Invece qui niente. Sui grandi quotidiani se ne parla en passant come fosse una notizia di quarta; il Fatto, foglio governativo, difende il sistema stellato, pur essendo scritto da chi una volta era liberale e ora si spreca nel difendere, con grande abilità peraltro, chi è indifendibile. In qualsiasi posto civile, questa tirannia sarebbe combattuta. Dunque, in realtà, viviamo una vera schifezza. È indecoroso per un paese, ancora autoproclamantesi civile, che la giustizia non solo non sia inattaccabile, ma si riveli una fogna puzzolente di giochi di potere, protezioni, strafottenza della legge e dell’onore. A discapito non solo degli italiani in genere, ma soprattutto dei magistrati sani e onesti che vengono coinvolti nel cocktail maleodorante. Loro malgrado. E senza potersi difendere dai despoti che li manovrano. Del resto, criticare l’operato della magistratura vuol dire essere definiti, con disprezzo, berlusconiani, salviniani, fascisti. Come se fosse più inverecondo dell’essere magistrati inadeguati e corrotti. D’altra parte l’intreccio di potere e di sudicie costruzioni tra politica e magistratura, sembra essere – finora – solo con la sinistra. Quale mai può essere la difesa dei maneggioni? Il silenzio. O l’attacco. Ormai non si riesce a parlare più dell’oggetto della questione: se si affronta un tema, si aggredisce subito l’avversario politico, insultandolo. Così non si esamina per nulla il problema, ma si cerca di abbattere chi l’ha proposto. Forse perché fa bruciare la coscienza, il parlarne. Ma è normale che non ci siano centinaia di dibattiti televisivi o sulla carta stampata, per ragionare obiettivamente sugli “obiettivi” di Palamara? “Bisogna fermare Gratteri”, “bisogna fermare Salvini” e nel frattempo escono centinaia di detenuti e boss mafiosi dalle carceri. Col beneplacito di certi svagati magistrati di sorveglianza e del ministero della giustizia. E che dire del ministro coinvolto in una burletta di sfiducia fiduciata? Mille autori televisivi e altrettanti giornalisti non saprebbero creare tanto materiale di confronto e discussione, quanto ne emerge dalle intercettazioni di Palamara e dai fatti che, in un modo o nell’altro, riguardano il mondo della giustizia. Non sono pochi 9.000 magistrati. E moltissimi sono eccellenti. La verità è che non tutti meritano il privilegio di esserlo. Molti sono incapaci, improduttivi, lottizzanti e lottizzati. Sono scelti dal CSM non in base al merito, ma in base agli interessi di chi li sceglie. È ovvio che la magistratura perda di credibilità. Quando poi peraltro le sentenze vengono fatte ad usum delphini o contro il nemico politico. Pensiamo solo all’avvocato di 32 anni precipitato da un parapetto interno del Tribunale di Milano e rimasto paralizzato. Cosa hanno deciso i magistrati, dopo avere indagato, in silenzio, i capi degli uffici giudiziari milanesi? Hanno archiviato e quindi non ci sono né colpevoli né risarcimenti. Ma chi doveva pensare a transennare e avvertire del pericolo per la balaustra bassa? Secondo me i capi degli uffici giudiziari, i quali avevano anche chiesto soldi al Ministero per sistemare. Ma i giudici sono stati “assolti” dai loro colleghi; quando invece per un bimbo precipitato nel cortile della scuola sono state indagate, pubblicamente, maestra e bidella. Vedremo se anche questi giudici saranno garantisti, come gli altri con i loro colleghi, sostenendo che negli spazi usati da tutti non c’è responsabilità di nessuno… Ecco, questo non va bene! Non va bene che ci sia quella che appare una trattativa Stato-mafia e non se ne parli. Non va bene che ci siano gli obbrobri comportamentali dei magistrati, quali appaiono dalle intercettazioni, e non se ne parli. Non va bene che l’azione penale – che è obbligatoria – si attivi e proceda in prevalenza se dà notorietà al PM o se può asfaltare un politico di destra. Non va bene che molti giornalisti, complici e servi del connubio licenzioso e osceno fra magistratura e politica, si muovano solo all’ordine del capo politico o giudiziario di turno, dimentichi anche loro dell’indipendenza. Non va bene che ci sia la censura su tutto questo. Che si reprima lo sdegno per non apparire di destra. Che non si combatta per la democrazia e per dare un senso al nostro voto. Per infrangere il silenzio criminoso. Non va bene. Bisogna ricominciare a pretendere l’etica dello Stato, l’indipendenza dei poteri, la dignità di ciascuno di noi. Continuando a subire, zitti e per quanto arrabbiati, siamo tutti complici.

Da liberoquotidiano.it l'8 giugno 2020. Silvana Ferriero ha scritto una lunga lettera per Luca Palamara, con il quale ha condiviso il tirocinio per magistrati a Roma negli anni '90. Dalla toga appartenente alla Corte d'Appello di Catanzaro è giunta una dura critica all'ex consigliere del Csm, definito "una sorta di pr", abile soprattutto nell'organizzazione delle feste. Una qualità che a quanto pare Palamara ha saputo coltivare nel tempo e che lo ha portato lontano, considerando il ruolo centrale, da "mediatore" come lui stesso preferisce definirlo, che ha svolto per anni all'interno del sistema delle correnti. Di seguito il testo integrale della missiva a firma di Silvana Ferriero. "Leggo sui giornali che durante il passaggio in tv da Vespa avresti espresso un senso di angoscia e disagio per i colleghi non legati alle correnti, ma anche che alla domanda di Vespa sulla possibilità di dimetterti avresti risposto 'non penso alle dimissioni, io amo la magistratura'. Non so se ti ricordi di me e non credo visto che appartengo alla schiera di quelli, per fortuna tanti, che non sono finiti manco per sbaglio nella rete delle tue chat. Eppure noi abbiamo fatto il tirocinio – uditorato, allora si chiamava così – insieme a Roma, siamo dello stesso concorso. Io pure non è che ricordi moltissimo di te durante quell’anno e mezzo trascorso negli uffici giudiziari romani, i pochi ricordi che ho mi ti presentano come uno che organizzava feste, una sorta di pr degli uditori DM 30/05/1996. All’epoca registrai il fatto come un dato sostanzialmente neutro, ero appena approdata in un mondo per me completamente nuovo, le miei energie e la mia curiosità erano convogliate verso il tentativo di capire e di imparare il più possibile di un mestiere di cui non sapevo niente e che mi appariva difficilissimo. Poi arrivò il momento della scelta delle sedi e ognuno di noi prese la sua strada, la mia mi portò in Calabria, a fare il giudice civile, uno di quelli che smazzano carte per dieci ore al giorno, lontani da ogni riflettore e con l’incubo costante dell’arretrato e delle possibilità di incorrere in qualche ritardo nei depositi. Per incidens questo incubo è stato per anni il cavallo di battaglia elettorale di tanti tuoi compagni di corrente, sedicenti paladini in sede disciplinare di tutti quegli sventurati che avessero avuto la lungimiranza di ovviare alla sciagura di incappare in macroscopici ritardi con la provvida adesione alla corrente giusta. Non ricordo dove ti condusse la tua strada nell’immediato, ma so che in seguito fu costellata di tappe che sulla mia mappa non erano neanche segnalate: la presidenza della Anm, l’elezione al Csm. Durante questi anni io sono stata giudice civile di primo grado, giudice penale di primo grado, giudice civile di Corte d’Appello, magistrato di sorveglianza e poi ancora giudice civile d’appello. Ho lavorato assai, con scrupolo, con zelo ma soprattutto con grande passione. Ho lavorato così tanto che alla fine mi sono innamorata di questo lavoro che, in realtà, avevo scelto quasi per caso. Ho amato la ritualità del processo (diversa per il penale e per il civile ma sempre con una sua suggestione), la logica stringente del diritto civile, quella un po’ fantasiosa del diritto penale. Ho amato l’aria che si respira nei palazzi di giustizia, la luce di certe aule in certe ore del giorno, l’atto di indossare la toga. Ho amato il confronto con i colleghi e con il foro, il rapporto speciale con alcuni cancellieri, l’incontro prezioso con una umanità a volte miserabile a volte altissima, ma sempre in qualche modo straordinaria. Ho amato e temuto il potere terribile e formidabile di entrare nella vita delle persone fatalmente legato all’esercizio della giurisdizione. Ho cercato di usarlo con sapienza, con equilibrio, ma soprattutto con rispetto. Ho amato la possibilità che talvolta quel potere fornisce di raddrizzare un torto, di rimettere le cose a posto. Da lettrice compulsiva quale sono ho amato, forse più di ogni altra cosa, la promessa di una nuova storia che mi pareva di intravedere dietro la copertina di ciascun fascicolo che ho sfogliato. Ho amato l’impareggiabile soddisfazione, dopo ore e ore di studio, di essere colta all’improvviso, magari mentre cucinavo o facevo la doccia, dalla spontanea e inaspettata presentazione alla mia mente della soluzione giuridica corretta che stavo cercando. Sono tra i tanti magistrati ai quali lo sfascio prodotto dal correntismo ha provocato solo danni indiretti: non ho mai presentato una domanda per un direttivo o un semidirettivo, quindi la mancanza di uno sponsor non mi ha mai pregiudicato in concreto; non sono mai incappata in vicende disciplinari, quindi la presenza dello sponsor non mi è mai davvero servita. Come si dice? nec spe nec metu. Condivido con molti colleghi la responsabilità di avere consentito con la nostra inerzia a te e a quelli come te di arrivare al punto in cui siamo. Potevamo fare qualcosa? Non lo so, certo non ci abbiamo nemmeno provato. La nostra responsabilità però non è neanche lontanamente paragonabile alla vostra. Il discredito della intera categoria, la rottura forse irreparabile del rapporto fiduciario che dovrebbe esistere tra noi e quel popolo in nome del quale amministriamo la giustizia sono frutto della vostra spregiudicatezza, della vostra insensibilità, della vostra insaziabile e incomprensibile sete di potere. Leggendo molte delle intercettazioni pubblicate una delle domande che mi sono posta più di frequente è stata: ma questi perché hanno voluto fare i magistrati? Che c’entrano loro con l’esercizio della giurisdizione? Che ben venga allora la tua tardiva resipiscenza nei confronti dei magistrati non legati alle correnti, ma per piacere risparmiaci la tua inconcludente professione d’amore per la magistratura. Non ho ancora capito bene che mestiere hai fatto in tutti questi anni, ma so per certo che la magistratura è un’altra cosa".

Terremoto nell’Anm dopo il caso Palamara, si dimettono presidente e segretario. su Il Dubbio il 23 maggio 2020. La decisione presa dagli interi gruppi di Area (di cui fa parte Poniz) e di Unicost (di cui fa parte Caputo) di uscire dalla Giunta. Dopo quasi 10 ore di Comitato direttivo centrale, hanno rassegnato le dimissioni il presidente dell’Anm, Luca Poniz, e il segretario generale, Giuliano Caputo. All’ordine del giorno c’era la mozione con la quale Magistratura indipendente chiedeva l’anticipo a luglio delle elezioni del Comitato (fissate per il 18, 19 e 20 ottobre prossimi dopo il primo rinvio legato all’emergenza coronavirus), motivandolo con la pubblicazione di alcune conversazioni del “caso Palamara” che avrebbero di fatto delegittimato la Giunta coinvolgendo alcuni suoi componenti. La discussione è andata avanti a lungo e ha visto emergere posizioni sempre più distanti, con la decisione degli interi gruppi di Area (di cui fa parte Poniz) e di Unicost (di cui fa parte Caputo) di uscire dalla Giunta. Nella votazione finale l’anticipo delle elezioni è stato respinto (19 no, 7 sì e 8 astenuti) mentre il Cdc è stato aggiornato a lunedì 25 maggio alle 19. Con le dimissioni dei componenti di Area e Unicost, la giunta rischia lo scioglimento. I gruppi si sono dati 48 ore di tempo per tentare una ricomposizione che consenta di arrivare a ottobre, quando si voterà (il 18, 19 e 20).

La posizione di Magistratura Indipendente. Magistratura indipendente, gruppo che aveva lasciato la giunta unitaria lo scorso anno, aveva chiesto che si votasse prima ritenendo «delegittimata» l’attuale giunta, già in regime di proroga dopo lo slittamento del voto, originariamente previsto a marzo, a causa dell’emergenza sanitaria, e denunciando la mancanza di una presa di posizione netta di quanto emerso dalle ultime intercettazioni, nelle quali compaiono i nomi di esponenti di Area, rispetto a quanto accaduto un anno fa, con lo scandalo sulle nomine e la bufera che ha travolto il Csm. Un’accusa respinta con forza dal presidente Luca Poniz che ha rivendicato «una posizione politica chiara» e replicato che «Mi non ci può incalzare su una presunta contraddizione». La segretaria di Magistratura Indipendente, Paola D’Ovidio, ha negato che ci sia stato «lo stesso rigore» e ha invece denunciato «un metodo diverso» nella gestione delle situazioni, citando a esempio il mancato coinvolgimento dei probiviri sui fatti recenti, al contrario di quanto accaduto a maggio dello scorso anno, quando tutti i magistrati coinvolti furono deferiti davanti al collegio. Da parte sua il segretario, Giuliano Caputo, ha sottolineato che «quanto emerso ora è molto diverso da quanto accaduto lo scorso anno, ma sono fatti che noi non ignoriamo».

La posizione di Area. È necessaria «l’integrale e pubblica conoscenza degli atti del fascicolo di Perugia», la cui richiesta è stata avanzata dall’Anm come persona offesa, perché così «sarebbe interrotta l’operazione in atto che mira a screditare più che a informare». A sottolinearlo sono i magistrati di Area. «Rispetto alle recenti cronache, ribadiamo di esserci schierati contro le degenerazioni correntizie e che l’attuale autogoverno si è sempre impegnato a prendere le distanze da tali pratiche», ricorda Area aggiungendo: «Constatiamo il proseguimento di operazioni mediatiche per accreditare la falsa idea secondo cui le vicende dell’albergo Champagne coinvolgerebbero tutti i gruppi della magistratura», tentativo che Area respinge perché «quelle vicende in nessun modo ci hanno coinvolto». «Non ci esimiamo dall’assunzione di responsabilità», chiariscono le toghe progressiste, perché «abbiamo sempre riconosciuto che il nostro gruppo non è stato in passato estraneo a certe pratiche, ma rivendichiamo di aver intrapreso, ben prima dei fatti di maggio scorso, un rinnovamento». Adesso, concludono, è necessaria «una riflessione di tutta la magistratura», e «collaboreremo con Anm e tutti i gruppi disponibili al cambiamento» perché «l’autogoverno torni ad essere di e per tutti e non ostaggio di correnti e potentati trasversali che a maggio cercavano di soggiogarlo e oggi cercano una improbabile rivincita».

Claudio Martelli, proposta estrema dopo le chat togate contro Salvini: "Anm parassita lo Stato, va sciolta". Libero Quotidiano il 23 maggio 2020. Tra intercettazioni, dimissioni e scarcerazioni la giustizia italiana ha probabilmente toccato uno dei punti più bassi della sua storia. Le chat private di alcuni magistrati che esprimono giudizi pesanti su Matteo Salvini sono state l’ultimo durissimo colpo alla credibilità della giustizia. Claudio Martelli, ex guardasigilli ai tempi del governo Craxi (1991-1993) ha commentato lo scambio di messaggi tra Luca Palamara e Paolo Auriemma: “Da Palamara che cosa vuole aspettarsi? In questa situazione bisognerebbe arrivare a un rimedio decisivo. È del tutto evidente che l’Anm è diventata un’organizzazione che parassita lo Stato e permette di condizionare le scelte del Csm, perché influisce sull’elezione dei suoi membri. Si comporta come un partito politico. Contesta le decisioni del Parlamento, del governo e del ministro della Giustizia ogni due minuti. È un organismo che non si capisce più bene che cos’è, ma che comunque sembra votato a mal fare”. Come si risponde ad una situazione del genere? Per Martelli c’è solo una cosa da fare: “L’Anm andrebbe sciolta. Fa del male ai magistrati e alle istituzioni, dunque è una minaccia”. 

Giustizia, giunta Anm a rischio scioglimento dopo le dimissioni delle correnti Area e Unicost. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da La Repubblica.it. La giunta dell'Associazione nazionale magistrati ora rischio lo scioglimento. Dopo la pubblicazione delle ultime intercettazioni che coinvolgono anche la corrente progressista delle toghe, Area- nell'ambito dell'inchiesta che ha travolto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara - la Giunta dell'associazione è ora a uno passo dallo scioglimento. Oggi si sono dimesse a corrente di Area e quella di Unicost, con il presidente Luca Poniz e il segretario Giuliano Caputo. La riunione delle toghe è durata oltre nove ore e il parlamentino è stato aggiornato a lunedì per trovare un accordo su nuovi equilibri o per ricompattare la Giunta. All'interno della Giunta  al momento resta solo la corrente di Autonomia e Indipendenza. Domani i gruppi faranno valutazioni interne per capire come proseguire e vedere se c'è una nuova maggioranza o equilibri tali per cui una nuova giunta possa traghettare l'Anm fino alle nuove elezioni a fine ottobre. Il consiglio del comitato direttivo centrale dell'Anm è stato convocato per lunedì, alle 19.

Giustizia, Palamara prova a difendersi: "Rammaricato, frasi non sono il mio reale pensiero".

In un messaggio inviato a Matteo Salvini, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha spiegato "di aver sempre ispirato il mio agire al più profondo rispetto istituzionale al senatore". Gabriele Laganà, Sabato 23/05/2020, su Il Giornale. In enorme difficoltà dopo le polemiche scatenatesi sui contenuti delle chat dei magistrati contro Matteo Salvini, Luca Palamara, il giudice al centro della vicenda, ha inviato un messaggio al leader della Lega chiedendo scusa per le sue improvvide affermazioni. "Sono profondamente rammaricato dalle frasi da me espresse- ha scritto Palamara secondo quanto riporta oggi "La Verità" - e che evidentemente non corrispondono al reale contenuto del mio pensiero, come potranno testimoniare ulteriori conversazioni presenti nel mio telefono". Il giudice, inoltre ha voluto specificare "di aver sempre ispirato il mio agire al più profondo rispetto istituzionale che è mia intenzione ribadire, anche in questa occasione, al senatore Salvini". Nelle conversazioni tra giudici che sono state rese note, non ci sarebbero solo attacchi contro Salvini. Parlando con l'ex membro laico del Csm, Paola Balducci, Palamara non nascondeva apprezzamenti sulla statura politica del leader della Lega. "A parte lui non c'è... non ci sono le figure, ci sono pezzetti". Il caso Palamara è emerso dopo la pubblicazione da parte de La Verità di alcune intercettazioni dell’ex presidente dell’Anm. In una chat su Whatsapp, alcune toghe ammettevano che Salvini non stava facendo niente di sbagliato ma ciononostante doveva comunque essere attaccato senza pietà. Il quotidiano ha reso pubblici i contenuti di alcune chat risalenti al 2018 in cui alcuni magistrati parlano dell’allora ministro dell’Interno. La chat più citata vede coinvolti il procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma e Luca Palamara. Il primo rivolgendosi al suo interlocutore si dice molto dubbioso su quanto sta accadendo in quei difficili giorni d'agosto di due anni fa: ''Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento”, aveva scritto Auriemma quando di Salvini si parlava soprattutto per la chiusura dei porti per bloccare l'arrivo degli immigrati.In fondo al messaggio Whatsapp la raccomandazione di non diffondere il contenuto del testo. La risposta di Palamara arriva quasi subito: ''Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo''. La discussione va avanti con il procuratore capo di Viterbo che sottolinea come potrebbe essere un pericoloso boomerang continuare ad attaccare Salvini sull'immigrazione. "Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso perché tutti la pensano come lui. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano partiti. Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili". In un altro colloquio citato da alcuni giornali, il leader leghista viene chiamato "quella merda di Salvini" da Palamara. In altri messaggi, con interlocutori diversi, è ancora Palamara ad essere protagonista. Il giudice, infatti, esprime tutto il suo disagio di fronte all'eventualità di incontrare pubblicamente Salvini. Nel frattempo, si fa inviare i pdf delle sentenze del processo di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Infine vi è anche un’altra chat tra lo stesso Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm. Quest'ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull'allora dl Sicurezza, componenti di una cordata ''pericolosissima''. Le telefonate a cui fa riferimento sono diverse e oggi il quotidiano Libero ne ha pubblicato di nuove. In quella dell’11 aprile 2019, ad esempio, si riassume bene la maggioranza al Csm prima di quella attuale. La giornalista Milella sottolinea come l'Anm sia a guida "Mi-Unicost-laici di centrodestra, quindi “secondo me le nomine che si faranno saranno tutte nomine influenzate da questa faccenda qua no". Palamara replica spiegando come sia "chiaro che siamo in una consiliatura che è figlia o meglio ancora che sta in una fase storia dove Area era più numerosa e Area non disdegnava nella maniera assoluta gli accordi con MI e in particolar modo con la Casellati basta che ti riprendi qualche articolo tuo dell'epoca e ci fai il copia e incolla e te lo ritrovi ok? Essendo mutata la situazione è chiaro che il consiglio è il luogo dove si formano maggioranze Area ha molto tra le virgolette lucrato nella precedente consiliatura oggi che partita vuole svolgere? Nella vicenda Ermini non si è sporcata le mani adesso che arriva il momento decisivo quello delle nomine che posizione prenderà?". Il giudice ha aggiunto che non "possono andare dagli elettori e dire guarda che io non ti ho portato a casa a te perché hanno ancora gente importante da sistemare che gli dicono non c'è l'hai? Come direbbe Bruti è la corrente bellezza è così e vale per tutti e vale per loro". La stesso Palamara ha rimarcato che la partita vera inizia adesso" perché la partita vera inizia con Roma, c'è una grande attenzione su Roma perché viene dopo l'era Pignatone dopo tante cose e Roma comunque ha un effetto domino". Milella concorda sul fatto che Roma sarà la prima decisa. A quel punto Palamara dice che "comunque Roma o non prima cioè Roma c' è il problema di Lo Voi se viene Lo Voi, Prestipino va a Palermo". Milella, inoltre, spiega che nel suo pezzo, se riesce a farlo, dominerà la notizia dell’accordo Mi- Unicost "e faranno man bassa di posti e io ti metto già a Torino". Poi un altro scambio di battute con Palamara che chiede: "Mettimi a Roma e stai buona" e Milella che ribatte: "Se mandano te a Torino che sei sotto il livello di anzianità loro potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte in modo da non fare i cattivi capito? Poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni". Infine, il giudice dice: "Appunto sì". Poco più di un mese dopo, esplode il caso Palamara. Il 29 maggio 2019 Milella chiama il giudice e riferisce che ha saputo dell'articolo leggendolo alle ore 01.30 di notte e dice di aver sbagliato a non averlo chiamato prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se avesse chiamato prima"l'avremmo scritta, ma non in questo modo". Due giorni dopo Milella chiama Palamara e lo avvisa che la giornalista Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua e gli dice che devono parlarne bene dell’intervista. Inoltre, sempre il 29 maggio Amadori parla con Palamara affermando che tramite il giudice "vogliono far saltare Viola". Ha notato che è lo stesso Gico di Roma a svolgere le indagini e si domanda come mai De Ficchy utilizzi la stessa pg. Continua asserendo che Paolo Ielo avrebbe detto ad un consigliere del Csm che teneva in pugno De Ficchy per delle intercettazioni relative a un commercialista indagato. Amadori riferisce che ha saputo che le carte inviate a Perugia erano firmate da Ielo, Sabelli e Cascini e che gli stessi tre sono stati nominati dal suo consiglio grazie anche ai voti di Unicost. Il 29 maggio 2019 Palamara parla con Legnini sulla necessità di riequilibrare gli articoli che sono usciti con Repubblica e domanda se si può chiedere a Liana. Legnini spiega che è possibile ma "Liana conta poco la dentro" mentre "Claudio Tito conta .. il tema è orientare il gruppo, adesso Repubblica su un linea diversa". "Io non so il Fatto Quotidiano- aggiunge- adesso La Verità, su cosa virerà perche la loro posizione è contro Pignatone”. Lo stesso Legnini afferma che “c'è una operazione di orientamento” e garantisce di poter parlare con Repubblica in quanto “ho rapporti al massimo livello dimmi tu. Riflettici”. Palamara ammette che con Claudio Tito esiste un rapporto e Legnini infine dice: "lo conosci bene e allora parla con lui deve passare la linea della vendetta nei tuoi confronti". Piero Sansonetti ha lanciato un durissimo affondo contro quelle che ha chiamato le "grandi firme” della cronaca giudiziaria italiana che compaiono nelle intercettazioni della procura di Perugia che indaga, fra gli altri, sull'ex consigliere del Csm Luca Palamara."Non sorprende, almeno a me, che i grandi giornali siano agli ordini, non subalterni, ma agli ordini, dei pm. A me sorprende il silenzio, che su questa vicenda non sia uscito nulla: la notizia è questa. Eppure dentro ci sono i nomi più prestigiosi", ha dichiarato il giornalista.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2020. A noi le intercettazioni non sono mai piaciute perché vengono trascritte alla carlona e tradiscono spesso il pensiero degli intercettati. Ma in questo caso che attiene ai rapporti spesso stretti tra magistrati e giornalisti, ci pare doveroso informare i lettori di cosa avviene a loro insaputa: fra toghe e cronisti è normale si instauri un clima di rispettosa collaborazione, non è di questo che ci scandalizziamo. Il problema è un altro. Quando pm e giornalisti diventano compari di merenda e intrecciano relazioni tese a incidere sulla corretta informazione, disinteressata, allora è bene che il pubblico sappia con chi ha a che fare. È il motivo per il quale, violando principi ai quali crediamo, rendiamo noto un rapporto della Guardia di Finanza relativo a conversazioni tra uomini di giustizia e uomini della stampa, da cui si evince l' esistenza di una sorta di sodalizio che, se non è sporco, non è neanche pulito. Non è una novità che i redattori di giudiziaria pur di avere qualche dritta su vicende tribunalizie siano disposti a compiacere le fonti primarie in cambio di soffiate. Ciò avviene da sempre. È accaduto anche a me di fare l' occhiolino a qualche investigatore per ottenere notizie riservate, per cui non mi metto ora a recitare la parte dell' anima candida. Tuttavia c' è un limite oltre il quale non si può andare onde non creare una sorta di complicità indigeribile. Chi ha voglia di leggere il resoconto presente in questa prima pagina si renderà conto che siamo di fronte a una sorta di inquinamento che non giova né ai miei colleghi scribi né agli amministratori della giustizia. Quando poi apprendiamo che un alto rappresentante del potere giudiziario, parlando a ruota libera, ammette che Matteo Salvini sul blocco navale aveva ragione, però va comunque perseguito per questioni ideologiche, ci cascano le braccia e non soltanto quelle. E la nostra fiducia, già scarsa, in chi emette sentenze in nome del popolo italiano va completamente a farsi benedire.

GIORNALISTI E MAGISTRATI, COMPAGNI DI MERENDE. Telefonate e chat pubblicate da “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2020.

11 aprile 2019. Telefonata in cui si riassume bene la maggioranza al Csm prima di quella attuale Rosso-Bruna. Poi nomine.

Milella: L' Anm è a guida MI ed Unicost, c' è un Csm dove Mi.

Palamara: No c' è pure Area.

Milella: vabbè, si, voglio dire al Csm domina quest' alleanza Mi-Unicost-laici di centro destra, quindi secondo me le nomine che si faranno saranno tutte nomine influenzate da questa faccenda qua no.

Palamara: almeno te non mi fare che non conosci la storia della magistratura cioè è chiaro che siamo in una consiliatura che è figlia o meglio ancora che sta in una fase storia dove Area era più numerosa e Area non disdegnava nella maniera assoluta gli accordi con MI e in particolar modo con la Casellati basta che ti riprendi qualche articolo tuo dell' epoca e ci fai il copia e incolla e te lo ritrovi ok? Essendo mutata la situazione è chiaro che il consiglio è il luogo dove si formano maggioranze () Area ha molto tra le virgolette lucrato nella precedente consiliatura oggi che partita vuole svolgere? Nella vicenda Ermini non si è sporcata le mani adesso che arriva il momento decisivo quello delle nomine che posizione prenderà?

Milella: Che posizione prenderà?

Palamara: Non è che possono andare dagli elettori e dire guarda che io non ti ho portato a casa a te perché hanno ancora gente importante da sistemare che gli dicono non c' è l' hai? Come direbbe Bruti è la corrente bellezza è così e vale per tutti e vale per loro.

Milella: Si Palamara: Tu devi fare un pezzo reale adesso inizia la partita vera, perché la partita vera inizia con Roma, c' è una grande attenzione su Roma perché viene dopo l' era Pignatone dopo tante cose e Roma comunque ha un effetto domino.

Milella: Roma sarà la prima decisa.

Palamara: comunque Roma o non prima cioè Roma c' è il problema di Lo Voi se viene Lo Voi, Prestipino va a Palermo.

Milella: il mio pezzo, se riesco a farlo, domina l' accordo MI Unicost e faranno man bassa di posti e io ti metto già a Torino...

Palamara: Mettimi a Roma e stai buona Milella: se mandano te a Torino che sei sotto il livello di anzianità loro potrebbero pure fare la mossa di mandare Cantone da qualche parte in modo da non fare i cattivi capito? Poi alla fine fanno pure un piacere a questo governo che glielo levano dai coglioni.

Palamara: appunto si Esplode il caso Palamara 29 maggio 2019 Milella chiama Palamara e riferisce che ha saputo dell' articolo leggendolo alle ore 01.30 di notte e dice di aver sbagliato a non averlo chiamato prima, ma a lei non avevano detto nulla dal suo giornale. Se avesse chiamato prima "l' avremmo scritta, ma non in questo modo".

31 maggio 2019. Milella chiama Palamara e lo avvisa che la giornalista Maria Elena Vincenzi sta andando sotto casa sua e gli dice che devono parlarne bene dell' intervista 29 maggio 2019 Amadori parla con Palamara. Dice che tramite Palamara vogliono far saltare Viola. Ha notato che è lo stesso GICO di Roma a svolgere le indagini e si domanda come mai De Ficchy (procuratore di Perugia, ndr) utilizzi la stessa pg. Continua asserendo che Paolo Ielo avrebbe detto ad un consigliere del Csm che teneva in pugno De Ficchy per delle intercettazioni relative a un commercialista indagato. Amadori riferisce che ha saputo che le carte inviate a Perugia (sul conto di Palamara, ndr) erano firmate da Ielo, Sabelli e Cascini e che gli stessi tre sono stati nominati dal suo consiglio grazie anche ai voti di Unicost.

7 maggio 2019 Bianconi chiama Palamara per fissare un incontro. Nessuna trascrizione Colloqui nei giorni successivi fra Palamara Lotti e Ferri: Trascrizione "Bianconi è la cassa di risonanza del gruppo di potere attuale".

16 maggio 2019 Palamara parla con Stefano Fava (pm a Roma) "Bianconi è legato ai servizi".

29 maggio 2019 Palamara parla con Legnini sulla necessità di riequilibrare gli articoli che sono usciti con Repubblica Palamara: e tu dici che con Liana lo posso fare?

Legnini: si ma Liana conta poco la dentro Palamara: no Claudio Tito.

Legnini: Claudio Tito conta .. il tema è orientare il gruppo, adesso Repubblica su un linea diversa . Io non so il Fatto Quotidiano adesso La Verità, su cosa virerà perche la loro posizione è contro Pignatone.

Palamara: esatto Legnini: quindi c' è una operazione di orientamento Palamara: e allora devo parlà pure con Repubblica...

Legnini: se vuoi parlo io , ho rapporti al massimo livello dimmi tu. Riflettici.

Palamara: io con Claudio Tito ho un rapporto.

Legnini: lo conosci bene e allora parla con lui deve passare la linea della vendetta nei tuoi confronti.

Il procuratore Gratteri ha detto che 400 magistrati sono corrotti Ho atteso tre mesi, possibile che nessuno voglia vederci chiaro? di Valter Vecellio su Italia Oggi n. 116, pag 5 del 19/05/2020. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri da anni è impegnato in una dura azione di contrasto contro una delle più feroci mafie esistenti, la calabrese 'ndrangheta. Vittima di una quantità di minacce e intimidazioni, vive una vita impossibile: movimenti limitati, l'«onere» di una sorveglianza che lo rende forse perfino più carcerato dei delinquenti che assicura alla giustizia. Spesso assume posizioni discutibili, ma questo è nell'ordine delle cose: ci mancherebbe che opinioni e comportamenti non possano essere passati al vaglio del confronto e della critica. Certi suoi atteggiamenti richiamano alla memoria il prefetto Cesare Mori, ma non per questo non si deve essere grati per quello che fa. Non è su questo però che si vuole richiamare l'attenzione. Il 9 febbraio scorso il dottor Gratteri è ospite di In mezz'ora, la trasmissione curata e condotta da Lucia Annunziata. Dice cose di un certo peso, che neppure un radicale critico della magistratura ha adombrato; e infatti quelle affermazioni sono rilanciate dalle agenzie; tra l'altro: «In magistratura c'è un problema di corruzione… Possiamo parlare del 6-7%, non di più… Grave, terribile, inimmaginabile, impensabile, anche perché guadagniamo bene. Io guadagno 7.200 euro al mese, si vive bene, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame. Si tratta di ingordigia…». Ci si aspettava una reazione di qualche tipo, una sdegnata levata di scudi, oppure conferme o richieste di chiarimenti. Sono trascorsi tre mesi, un tempo sufficiente di attesa. Niente. Eppure come dice il dottor Gratteri, è cosa grave, terribile. Colpisce quel «non di più». Al mare magnum di internet abbiamo posto la seguente domanda: quanti sono i magistrati italiani? Varie fonti li quantificano tra i 7 e i 9 mila. Si prenda la cifra più bassa. Il 6-7% stimato dal dottor Gratteri corrisponde a circa 400-450 magistrati. Altro che «non di più». È cifra enorme. Il dottor Gratteri non parla di multe non pagate o «bagatelle» simili, su cui non si dovrebbe comunque passar sopra trattandosi di magistrati; parla di «corruzione». Vale a dire: «condotta di un soggetto che in cambio di denaro oppure di altre utilità e/o vantaggi agisce contro i propri doveri ed obblighi». Art. 318 del Codice Penale: «Il Pubblico Ufficiale che, per l'esercizio della sua funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da uno a sei anni». A questo punto, inevitabili le domande. Il Consiglio Superiore della Magistratura si è attivato per sapere se quanto dichiarato dal dottor Gratteri corrisponde a verità, su quale studio, statistica o informazione, si basa una così grave denuncia? Se non si è attivato, perché? Analoga domanda al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sì? No? In caso negativo, perché? Ai parlamentari tutti, di maggioranza e di opposizione: nessuna «curiosità» da parte di nessuno? Anche una semplice interrogazione a risposta scritta. Oppure va bene così: che il 6-7% dei magistrati, «non di più», sia corrotto? L'Associazione Nazionale dei Magistrati, infine. Risulta che circa il 90%dei magistrati sia iscritto all'Anm. Dunque una buona fetta di quel 6-7%. Anche a tutela di quella maggioranza che corrotta non è, niente da dire? O la denuncia del dottor Gratteri ha un suo fondamento, e allora non la si può lasciare cadere; oppure si ritiene che le sue siano affermazioni senza fondamento; in questo caso, in qualche modo, ne dovrebbe rispondere. O no?

Magistratura e corruzione, Renato Farina: "Quelle frasi di Nicola Gratteri già a febbraio", ora si capisce tutto.  Renato Farina su Libero Quotidiano il 22 maggio 2020. Forza, cari fratelli magistrati d'Italia, rivoltate un po' anche il vostro calzino. Ci sembrate un pochino timidi nel prendere sul serio un sano desiderio di autoriforma. Come avete già lavato e rilavato da circa tre decenni i calzini degli altri, specie dei politici e degli imprenditori, al punto che spesso la calza l'avete bucata causa l'uso dello stivaletto cinese, ora magari dirigetevi con la consueta moderazione e sobrietà a dare una spazzolatina anche ai pedalini vostri. Non è un appello ironico. Abbiamo bisogno di veder documentato da fatti e risultati che l'articolo 3 della Costituzione, che predica uguaglianza, vale anche all'interno dell'ordine giudiziario, il quale non è affatto al di sopra di ogni sospetto. Fate presto, l'allarme sociale ormai riguarda anche la affidabilità non più soltanto dei poteri legislativo ed esecutivo (i quali sono sottoposti comunque al vaglio elettorale) ma anche di quello relativo alla Giustizia, che non è sottoposto ad alcun giudizio tranne quello dei suoi associati.  Il solo modo di rimediare alle brutte figure che i vostri leader - dirigenti sindacali o membri del Csm o distaccati nei ministeri - hanno fatto rivelando grazie ad un Trojan (uno solo, e guarda che casino) di che maneggi grondi il vostro mondo, è fare bene e imparzialmente il vostro dovere di controllo della legalità, controllando i peli sullo stomaco che le toghe rese trasparenti dalle intercettazioni hanno rivelato. Non è che questa idea l'abbiamo pescata nel vaso della lotteria parrocchiale. Si tratta di trasformare in ipotesi investigativa la denuncia fatta da uno tra i procuratori più eminenti e coraggiosi, Nicola Gratteri, che dirige l'ufficio inquirente di Catanzaro. Non è fresca questa requisitoria pubblica: fu pronunciata il 9 febbraio, su Rai 3, da Lucia Annunziata. Il procuratore anti- 'ndrangheta per eccellenza non fu generico. Diede i numeri: «In magistratura c è un problema di corruzione. Possiamo parlare del 6-7%, non di più. Grave, terribile, inimmaginabile, impensabile, anche perché guadagniamo bene. Io guadagno 7.200 euro al mese, si vive bene, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame. Si tratta di ingordigia». Subito dopo, Gratteri e le sue parole sparirono dai mass media, nessun magistrato corse in tivù o organizzò conferenze stampe per annunciare: rivolteremo le toghe come calzini. Allora parve non una notizia generale di reato, ma un'intemerata, una esagerazione, e fu imbalsamata subito. A differenza della gara di emulazione che di solito si scatena tra le varie procure quando si apre un filone ad alto tasso di visibilità mediatica, stavolta zero. Eppure non erano fanfaluche campate in aria. Poche settimane prima, era stato aperto un fascicolo per corruzione in atti giudiziari, con aggravanti mafiose, riguardante un giudice della Corte di appello del medesimo Tribunale calabrese. Era una pratica isolata? Nessun fermento sotto le toghe.

CALABRIA E PUGLIA.  Restammo delusi, ma anche silenti: non bisogna schiacciare la coda dell'ermellino. Vista però l'autorevolezza della fonte non ci era parsa una illazione, e ce l'annotammo. In questi ultimi giorni, dopo l'arresto e l'apertura di fascicoli per reati corruttivi riguardanti i vertici delle Procure in due sedi giudiziarie pugliesi, Taranto e Trani, quell'allarme ci sembra addirittura una notizia data in anticipo. Coraggio, signori della Corte e delle Procure, esplorate nelle cantine dei Palazzi di giustizia. Gratteri non è un igienista maniaco, se parla sa, e se invece ritenete stia diffamando una istituzione dello Stato, indagatelo.

BESTIA RARA. Ci rendiamo conto che il Procuratore calabrese è una bestia rara. Non si era mai vista una toga famosa che individuasse il marcio entro gli orli della propria divisa. Nella storia d'Italia degli ultimi trent' anni è stata la politica il campo privilegiato di rastrellamento delle patate marce (quasi tutte). Non rifacciamo qui la storia di Mani pulite. Ci piace ricordare che l'ordine giudiziario comunicò allora il suo intendimento di farsi avanguardia del popolo per realizzare la "rivoluzione italiana" (definizione del procuratore generale di Milano, Giulio Catelani). Uno tra i più brillanti pm utilizzò proprio l'espressione per cui si trattava di "rivoltare l'Italia come un calzino". Vorremmo la stessa determinazione nel bonificare la palude della giustizia, senza bisogno di intercettazioni sputtananti e suicidi in carcere. Non devono farla franca i giudici corrotti Se Gratteri ha ragione si tratta del 6-7 per cento del totale. Si tratta di 400-450 delinquenti impuniti che fanno mercimonio del bene più delicato e sacro che esiste: la libertà dei cittadini.

Il Trojan per il reato che non c’è continua a distruggere carriere sfiorate dal caso Palamara. Giulia Merlo su Il Dubbio il 22 maggio 2020. Il virus spia nel cellulare della potente toga di Unicost, Luca Palamara, ha fatto franare le mura del Csm e insinuato la regola del sospetto nel corpaccione prima impenetrabile della magistratura. Ma, ironia amara, il Trojan sarebbe da considerarsi utilizzato illegittimamente, almeno ex post, perchè l’accusa di corruzione è caduta. Cade l’ipotesi accusatoria in forza della quale era stato disposto, ma la sua potenza distruttrice continua. Non a caso si chiama Trojan horse e prende il nome da una delle tecniche di guerra più note e meno onorevoli dell’antichità, che fece cadere con l’inganno la città di Troia. Il virus spia nel cellulare della potente toga di Unicost, Luca Palamara, ha fatto franare le mura del Csm e insinuato la regola del sospetto nel corpaccione prima impenetrabile della magistratura. Ma, ironia amara, il Trojan sarebbe da considerarsi utilizzato illegittimamente, almeno ex post, perchè l’accusa di corruzione è caduta. Ricostruendo i passaggi, l’indagine contro Palamara era fondata sull’ipotesi di corruzione e, vista l’estensione dell’uso dei Trojan anche ai reati contro la Pubblica amministrazione, i magistrati perugini avevano “infettato” il cellulare dell’indagato. Tutto legittimo, dunque. Peccato che, zome i legali di Palamara hanno confermato, «Le più gravi forme di corruzione originariamente ipotizzate sono escluse» dalla Procura di Perugia, «infatti, il pm Luca Palamara non è più accusato di aver ricevuto somme di 40 mila euro per nominare Giancarlo Longo come procuratore di Gela o per danneggiare Marco Bisogni nell’ambito del procedimento disciplinare che lo vedeva coinvolto». Nel frattempo, però, la captazione, la relativa trascrizione e successiva pubblicazione sulle principali testate giornalistiche delle intercettazioni ha prodotto conseguenze devastanti all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura ( cinque consiglieri si sono dimessi) oltre alla rivelazione dei rapporti di forza tra correnti della magistratura e la loro contiguità con la politica. Ultime vittime della pubblicazione degli atti, infine, sono stati il capo di gabinetto del ministro della Giustizia ( la toga di Unicost Fulvio Baldi, dimessosi) e ieri il pm della procura antimafia Pasquale Sirignano. Il prodigio diabolico delle nuove norme sull’utilizzo dei Trojan, però, è che nonostante la caduta dell’ipotesi di reato “portante” – le intercettazioni rimangono perfettamente utilizzabili per reati diversi dai quelli per i quali ( non) si procede. E grazie a queste i pm hanno indagato su ulteriori ipotesi di reato a carico di soggetti terzi ( che però per quei reati non avrebbero potuto essere intercettati). Ecco dunque una perfetta ipotesi di doppio cavallo di Troia: basta un vettore ( un reato per il quale i Trojan sono previsti, non importa se poi non sussistente) perchè il virus spia porti alle comunicazioni non autonomamente intercettabili di altri, da cui si ricavano poi autonome e ulteriori notizie di reato. Chi giudicherà il caso Palamara non potrà che valutare solo le restanti e meno gravi ipotesi di reato a carico del magistrato. Ma per chi è già stato travolto ( togati del Csm, giornalisti, altri magistrati, capi di gabinetto) sarà ben magra consolazione.

Davigo a DiMartedì ma Floris non gli chiede nulla, e il Pm si esibisce contro il Riformista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Maggio 2020. Piercamillo Davigo ieri è andato in Tv e ha detto che ci ha querelato. Leggeremo attentamente la querela. Proveremo a difenderci. Non è la prima volta che qualcuno di noi viene querelato da un magistrato. Alcuni magistrati hanno la querela facile, anche perché sanno che saranno giudicati da loro colleghi e immaginano che i loro colleghi daranno loro ragione. Così come di solito i Gip obbediscono senza discutere ai Pm. Di solito: attenzione a quel “di solito”. Non vuol dire “sempre”. Talvolta ci sono giudici indipendenti e preparati e seri che non danno ascolto all’ordine di corporazione e giudicano secondo diritto e coscienza. In quei casi, di solito, i magistrati perdono la causa. Alcuni di loro, e ho l’impressione che Davigo sia tra loro, pensano che il diritto di critica spetti sì ai giornalisti, ma debba limitarsi alla critica ai politici ed eventualmente agli intellettuali o agli imprenditori. E agli avvocati, si capisce. Ma non ai magistrati stessi, perché i magistrati – di nuovo: si capisce – devono giudicare e quindi non possono essere giudicati e quindi neanche criticati. Di più: non è giusto dare informazioni su di loro perché se queste informazioni danneggiano il loro prestigio, oggettivamente, danneggiano il prestigio dell’istituzione, cioè della legge, e questa è una operazione disfattista e anarchica da condannare. Se vuoi dare informazioni sui magistrati, benissimo, puoi: ma che siano informazioni positive, edificanti. Che ci vuole? Così Davigo ci ha querelato. Perché noi abbiamo raccontato di un emendamento presentato da Fratelli d’Italia, e poi di un altro emendamento, presentato dal Pd, al decreto liquidità, nei quali si proponeva di spostare in avanti di due anni il limite di età e l’obbligo di pensione per i magistrati. Noi, forse un po’ arditamente e spingendoci ben oltre le nostre competenze, osavamo chiedere cosa diavolo c’entrasse l’età di pensione dei magistrati con il decreto liquidità. E notavamo, con grande impertinenza, che comunque quell’emendamento, se approvato, avrebbe permesso a Davigo, che compie 70 anni a ottobre e deve a quel punto andare in pensione, di rinviare tutto di due anni, e in questo modo si sarebbero salvati anche gli equilibri interni al Csm che attualmente si regge su una maggioranza “rosso bruna” (in gergo politico vuol dire patto tra estrema sinistra ed estrema destra a saltare il centro) che dispone di un solo voto in più dell’opposizione, voto che verrebbe a mancare col pensionamento di Davigo perché il suo successore, cioè il primo dei non eletti, è un esponente di una corrente centrista, e quindi vanno all’aria baracca e burattini. Davigo è andato su tutte le furie, ha detto che lui neanche sapeva di quell’emendamento. Noi gli abbiamo creduto. Gli abbiamo giurato che noi crediamo sempre a quelli che dicono “lo hanno fatto a mia insaputa”. Credemmo anche all’ex ministro Scajola, quando i giornali lo impallinarono. Non siamo come quei giudici feroci che hanno mandato in esilio Craxi, per esempio, sulla base della teoria del “non poteva non sapere…”. Davigo – abbiamo scritto – poteva non sapere. E dunque? Niente da fare, Davigo è irremovibile: ci querela. Dice che non è mai esistito questo emendamento? No, dice di non sapere se sia mai esistito. Dice che lui non compie 70 anni a ottobre? No, questo lo ammette: li compirà. Dice che di conseguenza non andrà in pensione? No, o almeno non precisamente questo dice. Dice però, indignato, che lui non è stato il mandante dell’emendamento. Ma noi non lo abbiamo mai scritto che era il mandante. E quindi – dico – dice che a ottobre toglie il disturbo? No, annuncia che si batterà per restare in Csm anche se non sarà più magistrato e la legge dice che quel posto spetta a un magistrato e dunque lui ne ha perduto i diritti perché – sostiene – è invece suo diritto costituzionale restare in Csm per quattro anni di fila. Quindi, se abbiamo capito bene, dice – questo sì – che anche se non sapeva niente del fatto che Fdl e Pd stavano provando a salvarlo con un emendamento, lui , comunque, a salvare il seggio al Csm ci tiene. Magari, allora, i nostri sospetti – per quanto irrispettosi e forse per questo illegali – non erano del tutto infondati. Insomma, Davigo ieri è andato in Tv a dire che ci ha querelato. E poi ha detto altre cose un po’ singolari, tipo che in detenzione preventiva in Italia ci vanno solo i senza casa e quelli beccati in flagrante e gli assassini seriali. E che all’estero ci va molta più gente. E che lui non può pronunciarsi sullo scandalo di magistratopoli, o sullo scandalo Di Matteo-Bonafede, o su altre questioni simili perché lui fa parte della commissione disciplinare del Csm e quindi potrebbe essere chiamato a giudicare, e chi giudica non può avere già espresso pubblicamente dei giudizi. È vero. Mi ricordo che queste cose le scrissi, personalmente, un paio d’anni fa quando Davigo partecipò a una votazione, in disciplinare, su Woodcock, sebbene in una intervista, molto prima di essere chiamato al giudizio in disciplinare, avesse giurato sull’innocenza di Woodcock. Sì: lo scrissi. E lui anche quella volta annunciò querela. Però quella querela non è mai arrivata. Se arriverà, porterò in giudizio a mia difesa Davigo stesso e le frasi che ha pronunciato ieri in Tv, da Floris. Sulla questione del carcere preventivo, chissà chi gliele ha fornite quelle informazioni. Le persone in attesa di giudizio, in Italia, sono mediamente 20 mila, in alcuni periodi anche di più. Un migliaio di senza tetto, d’accordo, una decina beccati in flagrante e diciamo quattro assassini seriali… Gli altri, circa 18,986? Beh, nessuno gliel’ha chieste queste cose. Nessuno gli ha chiesto se era vero o no l’emendamento pro-Davigo, nessuno gli ha chiesto – visto che parla sempre di quel che succede all’estero – se conosce molti magistrati di altissimo ruolo, come il suo, che passano le giornate in Tv. Come mai? Beh, questa è una questione che riguarda più noi giornalisti che i magistrati. I magistrati si limitano ad approfittare di condizioni di favore. Noi giornalisti, in genere, organizziamo le trasmissioni, quando ci sono i magistrati, cercando di invitare solo interlocutori – per carità autorevolissimi – che non hanno nessuna posizione critica verso i magistrati, o perché sono proprio giornalisti pro-procure, o perché sono giornalisti che si occupano di altre materie e sanno solo un po’ di giustizia. È così con Davigo, con Gratteri, con Di Matteo e con tanti altri della piccola schiera dei magistrati che stanno più in Tv che in tribunale. La minuscola pattuglia dei giornalisti o dei politici garantisti – tranne che in poche trasmissioni che fanno eccezione – sono sempre esclusi se c’è un magistrato in giro. Chissà perché. Magari perché le Tv hanno paura anche loro delle querele. Magari perché l’amore dei giornalisti per i magistrati è insopprimibile.

Napoli, il sindaco de Magistris accusa: "Se non appartieni a una corrente della magistratura non fai carriera e non ti salvi in un processo disciplinare". Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da La Repubblica.it. "Se non appartieni non ti salvi nel processo disciplinare, se non appartieni ad una corrente non arriverai mai a fare il procuratore della Repubblica, il procuratore nazionale Antimafia, il presidente del tribunale". Lo ha detto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, a radio24 interpellato dai conduttori su magistratura e politica. Dopo aver ricordato la propria vicenda professionale da ex magistrato, il primo cittadino si è soffermato sul ruolo delle correnti all'interno della magistratura spiegando che "quando lo chiedi ti dicono che le correnti nascono, ed è vero, come pluralismo di opinioni all'interno della magistratura e anche questo è vero perchè non tutti hanno la stessa testa, ognuno ha il proprio profilo culturale, filosofico e anche politico con la "p" maiuscola. Ma - avverte - altra cosa è, invece, se tu devi appartenervi per fare carriera o per essere protetto se fai qualcosa di negativo o se ti devono colpire". "Io, ad esempio - ricorda De Magistris - rimasi isolato, perchè non solo ero estraneo a qualsiasi ambiente esterno alla magistratura, ma avendo indagato sui magistrati questo non mi è mai stato perdonato. Non solo volevano che non uscissero fuori le cose ma non volevano nemmeno lavare i panni sporchi in famiglia. Quando segnalai tutto al Csm, la coltellata finale arrivò proprio da lì. Basta vedere le cronache di questi giorni - ha poi concluso - per capire cosa è diventato".

Magistratopoli, parla Carlo Verna: “Esamineremo telefonate tra giornalisti e Pm”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Il mass media più potente oggi si chiama trojan. Non è una testata registrata ma un formidabile broadcaster: tutto ciò che capta viene pubblicato e dibattuto in televisione. Tutto o quasi, perché quando il meccanismo va in cortocircuito, perché riguarda il mondo dell’informazione e in particolare alcune firme dei grandi quotidiani, il pudore e i distinguo hanno la meglio. E al feroce impeto del “pubblicare sempre, pubblicare tutto”, subentra l’improvvisa scoperta della “non rilevanza”. Verso se stessi. È bastato un trojan, inserito tramite un escamotage studiato dal Gico della Guardia di Finanza nel telefono di Luca Palamara, ex consigliere Csm ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ed apriti cielo: i verbali depositati presso la Procura di Perugia ci restituiscono impietose immagini di confidenzialità tra alcune Procure e alcune redazioni, senza soluzione di continuità. A dispetto di quanto avviene di solito, e della clamorosa complicità che trapela dalle carte tra grandi firme e Palamara, non ne troviamo alcuna traccia nel dibattito pubblico.  Chiediamo cosa ne pensa il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna. Giornalista Rai che prima di fare il giornalista indossava la toga. Da avvocato.

Ha letto le intercettazioni sui giornalisti che parlavano con Palamara?

«Veramente no. Ma lei mi ha fatto venire la curiosità. Le leggerò».

In effetti, troviamo verbalizzati rapporti di prossimità, per non dire di complicità.

«Il “giro di nera”, agli inizi della mia carriera, era fatto di telefonate quotidiane alle fonti di informazione che per la cronaca locale sono commissariati e comandi dei Carabinieri, e poi a salire… A volte si finisce per stabilire rapporti di amicizia, succede tra cronisti di giudiziaria e magistrati. E succede anche che al fine di ottenere notizie, a volte la fonte viene blandita».

Qui leggiamo di una prestigiosa firma di “Repubblica” che avvisa di corsa Palamara, mettendolo in guardia perché c’è un’altra giornalista che lo starebbe per raggiungere per strappargli una dichiarazione. Non è proprio il “giro di nera”.

«Se fosse confermato, penso dovrebbe riunirsi ed esprimersi il Comitato di Redazione di Repubblica, chiederne conto all’interessata e poi investire del caso il Consiglio di Disciplina del Lazio».

Iniziamo con i distinguo. Se Palamara fosse stato messo in guardia dall’arrivo di una giornalista da un parlamentare, invece…

«Preferisco che se ne occupino i consigli di disciplina. Prenderemo in esame questa roba e gli uffici procederanno».

Si può fare giornalismo facendo il gazzettino delle procure, limitandosi a pubblicare intercettazioni?

«L’intercettazione è un mezzo invasivo su cui va fatta una riflessione seria. Ma è un mezzo di investigazione. Il giornalista ha l’obbligo di pubblicare tutto ciò che è rilevante, se ne viene a conoscenza, quando siano notizie comprovate e di interesse sociale».

Vale anche se ad essere intercettati sono i giornalisti?

«Vale anche per i giornalisti stessi, certo. Se quel che dicono in una intercettazione è rilevante dal punto di vista pubblico».

Ma qui veniamo al secondo problema. Chi decide cosa è rilevante socialmente? I giornalisti stessi. E quando sono intercettati il conflitto di interessi esplode.

«Esiste una coscienza professionale, alla quale faccio appello. Il giornalista deve rimanere terzo, tra la fonte e il pubblico dei lettori, soprattutto quando si parla di giustizia».

I giornali possono vivere senza diventare gazzette delle procure?

«Sarebbe auspicabile. Il bravo giornalista è quello che non cede a farsi megafono ma studia, domanda, approfondisce».

Questo non avviene quando si diventa troppo familiare con una fonte.

«Cosa che può accadere e va valutata caso per caso. La “nobilitate” si fa valere quando la fonte prova ad andare al di là del mero rapporto informativo».

In Italia si continuano a celebrare quattro gradi di giudizio, il primo è il processo mediatico.

«Il processo mediatico è un male per questo Paese. Siamo d’accordo. Ci vuole molta responsabilità. Certo, se dessimo solo la notizia della condanna definitiva, non pubblicheremmo quasi più nulla».

Rimane che c’è troppa commistione.

«Non vorrei sparare giudizi sui cronisti della giudiziaria. Certo è che molti sollevano questa questione. Ai colleghi ripeto: “Magis amica veritas”, la più grande amica di tutti sia sempre la verità».

È favorevole alla separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti?

«(Ride) Questa è una cosa che dite voi».

Esistono anche troppe fabbriche dei dossier.

«È chiaro. Smentirei la realtà, se lo negassi. E spesso sono caratterizzati da fuoco amico. Casi di cronaca hanno dimostrato che c’è sempre una parte che trama contro l’altra».

Vale anche per i giornalisti?

«Vale per tutti».

E i giornalisti poco corretti vengono sanzionati puntualmente?

«Non sono del parere che non si possa querelare un collega. Se qualcuno per danneggiarti mischia il vero con il verosimile e il falso, quello va sanzionato in tutte le sedi. Anche civili e penali».

Che clima c’è tra i giornalisti?

«C’è tanto veleno nella categoria. Su questo nessuno ha la ricetta. Un clima imbarbarito dalle interazioni in Rete: prevalgono insolenza e ignoranza, anche tra i colleghi giornalisti. Il giornalista sui social alle volte dà il peggio di sé. A tutti ricordo: il giornalista è giornalista sempre, qualunque tipo di comportamento è sanzionabile. Noi incarniamo la professione 24 ore al giorno».

Come è cambiato il giornalismo in questi anni?

«Dobbiamo far capire alla gente dove sta la verità. La nostra funzione è oggi ancora più importante, in un mondo disintermediato. Io dico che i professionisti dell’informazione seri, servono più di ieri. Troppi si autoproclamano media indipendenti senza averne esperienza e competenza».

E sulla giustizia si finisce spesso per dare il peggio.

«Ricordo il libro del grande Vittorio Roidi: Coltelli di carta. Possiamo uccidere la dignità delle persone, con i nostri articoli. Stiamo attenti, stiamone distanti. Nel momento in cui interveniamo su un momento così delicato della vita di una persona come quello in cui va a processo e può perdere la libertà personale, dovremmo avere la delicatezza di parlarne come se si parlasse di noi stessi. La nostra coscienza è arbitro, e va azionata come non mai».

Sulle sanzioni disciplinari contro certi titoli l’OdG ha battuto un colpo.

«Ho pungolato il Consiglio di Disciplina. Abbiamo fatto un’operazione dicendo che come ente pubblico a carattere associativo dobbiamo difendere il buon nome della categoria dei giornalisti. E abbiamo dato mandato a una avvocatessa, Caterina Malavenda, di calcolare se anche noi tutti singoli iscritti abbiamo sùbito danni dalla condotta di Feltri, con riferimento alla campagna discriminatoria contro i meridionali».

Come si ridà dignità a questa professione?

«Ci sono molti interventi urgenti. Occorre un nuovo quadro normativo, siamo nel 2020 con una legge del 1948. La legge sulle iniziative giudiziarie temerarie deve riprendere il suo iter, interrotto dal virus a febbraio. E poi c’è una questione ordinamentale importante: noi siamo vigilati dal Ministero della Giustizia. Può un potere di controllo sottostare al Ministero della Giustizia, come in Iran? È una norma che esiste dal 1963, ma è sbagliata. E va cambiata con urgenza».

Tante battaglie, e Verna è a fine mandato.

«Finisco il mandato e non penso di ricandidarmi, largo ai giovani. Lascio a verbale tante battaglie e qualche iniziativa. A Feltri ho imposto un aut-aut: esiste l’art.21 ma anche l’art.3, che vieta ogni discriminazione. Ed esiste la legge Mancino, in primis per noi che scriviamo. Il Consiglio della Campania ha radiato il conduttore sportivo che aveva fatto una telecronaca sessista. In Piemonte una insegnante scrisse cose orrende su un agente di polizia morto, “uno di meno”. Si scoprii che era anche giornalista pubblicista, il Consiglio di disciplina del Piemonte l’ha radiata».

Renato Farina e la figuraccia della magistratura: "Si è strappata la gonna e ha mostrato le gambe pelose". Renato Farina su Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. Magistratopoli? Non esageriamo. La parola oltretutto fa schifo, ci ha stufato. Però, senza bisogno di esibire la citazione completa di Emilio Fede, viene proprio naturale constatarlo: che figura di... Nonostante tutto però nessuno incide la corazza della sua onnipotenza. Se mai dovesse verificarsi nell'ordine giudiziario un ribaltamento come quello che ha fatto passare la politica dalla Prima alla Seconda Repubblica, anche lì l'autore sarà lo stesso: le toghe, stavolta però nei panni dei sicari di sé stesse. Cominciamo dalla cronaca di ieri per constatare che la magistratura - intendiamo quella militante e caporiona - ha lasciato al suo posto il povero fantaccino, il guardasigilli Alfonso Bonafede. Costui aveva due mozioni contro, ma l'arci-mozione, la super-mozione invisibile ma pesante come le tavole del Sinai l'aveva piazzata da giorni l'unico potere vero e sovra politico che ci sia da noi. Cioè quella specie di Gigante di Rodi che nella variante italica indossa la toga. Ecco, qui il discorso si fa interessante. Il complemento di luogo è la novità. Finora è stato insieme banale e inutile denunciare che il piedone del gigante in toga sia uso calpestare campi che la Costituzione gli precluderebbe. Dirlo è ormai un vezzo, che non scalfisce il tran tran. Invece è sempre stato vietato alludere anche con delicatezza alla cancrena inesorabile del potere che corrompe l'umana specie e dunque anche l'etnia tribunalizia. Ancora un paio di mesi fa, se accennavi anche solo a questa possibilità di malattia organica dell'ordine giudiziario, qualcosa di non bello ti capitava, e non solo nel senso di un'opinione avversa. Come dice Travaglio contro chi dissente dal pensiero forcaiolo: paura eh? Paura sì.

GIGANTE DI RODI. Ma c'è un fatto nuovo, la magistratura infilando il Trojan nelle cavità di uno dei suoi più eminenti capoccia, si è strappata la gonna, e ha mostrato gambe pelose. E qui diventa utile ricordare la storia del Gigante di Rodi: aveva i piedi di argilla. E chi ha in mano il martello che ha già spiaccicato la classe politica, e che si chiama intercettazioni a strascico, è il Gigante che se lo sta dando sui piedi. Per ora l'arto estremo si è solo scheggiato. Ma qualche altro colpo suicida, e magari parte un'altra epoca della giustizia in Italia. In questi mesi, settimane, giorni con un crescendo in cui più che Rossini c'entrano le osterie, le intercettazioni che le toghe si sono fatte tra loro, hanno svelato un mondo che la plebe assocerebbe alla parola bordello. In chi ci ha messo il naso hanno suscitato lo stesso stupore che le lascivie della Monaca di Monza provocarono tra le orsoline. Nessun crimine, nel nostro caso, a occhio e croce. Ma gli sbudellamenti tipici delle guerre intestine. Del resto sono accadimenti caratteristici di ogni tribù e di qualsiasi clero. Nel caso specifico, si è capito come non sia tanto strano se alcune denunce finiscono nei cassetti e altre in bella vista per il comodo dello sputtanamento a mezzo stampa. Cosa non si fa per la carriera mia e dell'amico.

ROTTO L'INCANTESIMO. Queste costumanze da casba algerina sono state discretamente tenute a volume bassissimo. Non sono faccende che ispirano fiducia nel popolo. Il quale beveva come oro colato l'idea della immacolata imparzialità dei magistrati anche nella selezione dei migliori. Ieri noi abbiamo rotto l'incantesimo. Il re ha lo stomaco con un pelo lungo un palmo. E nessuno lo può più negare. Il fatto è che una volta gli scotennamenti e gli smutandamenti di pm del Sud contro quelli del Nord, di giudici della corrente di sinistra contro i compari della fazione di destra, erano coperti da una omertà fenomenale. Chi aveva provato a ribellarsi all'andazzo e a svelare gli intrighi della casta ermellinata per occupare i posti più ambiti, era stato subito liquidato e incriminato con ipotesi di reato fantasiose (ad esempio il pm Francesco Misiani, che provò negli anni 90, ad alzare il velo sulle "toghe rosse" essendo una di loro). Lo spettacolino imbastito ieri al Senato, con la pantomima dei giorni precedenti, voleva trasferire la biancheria sporca e piuttosto insanguinata della guerra tra toghe nel solito stanzino della politica, riducendola a una zuffa tra partiti. Calcolo sbagliato. Noi non ci caschiamo. Ehi, oggi l'unica vera guerra in corso è nei viluppi intestinali della Gigantessa (correggiamo qui il genere al femminile per rispetto della magistratura). Non è solo questione delle indagini e degli arresti che Filippo Facci ha raccontato ieri riguardanti i vertici di due Procure della Repubblica pugliesi. Quello è il bubbone-reato.

IL NUOVO GIOCHINO. Ma il vero gran teatro è la vita quotidiana dei magistrati, quelli che contano e dirigono la carriera dei colleghi, offerta come oggetto dello stesso voyeurismo finora indotto nei confronti dei politici. Non è un bel vedere, e ne vedremo ancora. Ma nella magistratura questo scoperchiarsi di vasi infetti non ha prodotto alcun moto di autoriforma. Da quando Bonafede ha dotato i pm del nuovo meraviglioso giocattolo, il Trojan, che registra qualunque sospiro anche del passante che ti chiede l'accendino, non si tengono più. È bastato il Trojan infilato nell'intimità di un solo pm di grossa tonnellaggio per aprire una gigantesca scatola di tonno Palamara. Un editorialista bravo qui citerebbe la ybris da Eschilo a Euripide, a noi pare più consono alla statura dei personaggi quali risultano dalle intercettazioni citare un rozzo proverbio popolare: chi causa del suo mal pianga sé stesso. Il problema è che i magistrati non hanno nessuna intenzione di piangere su sé stessi, ma nonostante tutto di far piangere ancora noi, con una giustizia che in nessun modo intende rinunciare alle sue prerogative di lentezza e di galera preventiva. E così i magistrati, grazie alla manina dei giallo-rossi hanno salvato il loro ministro pupillo, pur avendogli fatto prendere un pedagogico spavento. In fondo va bene a tutti l'Alfonso, somiglia tanto allo Spumarino Pallido dei racconti di Guareschi.

E’ scoppiata Magistratopoli, ma stampa e tv tacciono per servilismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Hanno arrestato un magistrato, e noi partiamo dall’idea che sia innocente. Come molti politici, molti calabresi o siciliani, molti architetti, imprenditori, operai, idraulici e medici. Succede spessissimo che una persona arrestata sia innocente. E quando uno viene arrestato e poi si scopre che è innocente, e che quindi gli è stato arrecato un danno gravissimo che ha sfregiato la sua vita, quando succede questo è l’unico caso, nel vivere civile, in cui nessuno viene chiamato a pagare per l’errore. È un errore ammesso. Se un medico sbaglia lo si stanga, se sbaglia un magistrato, spesso, lo si promuove. Il magistrato arrestato si chiama Carlo Maria Capristo, è un magistrato di altissimo grado, un Procuratore, ha una lunga carriera alle spalle. È accusato di un reato molto grave: non di avere aggiustato una sentenza o un procedimento, favorendo un imputato, ma dell’esatto contrario: di avere fatto pressioni su un Pm perché mettesse nei guai degli innocenti. Cioè di avere abusato dolosamente del suo potere per vessare persone per bene. Questo è l’unico caso (la presenza del dolo) nel quale anche un magistrato può essere processato. Il dolo viene considerato particolarmente grave quando è a favore di un imputato, in quel caso si finisce proprio in cella, perché si viene considerati traditori della funzione punitiva della magistratura. Se il dolo invece viene esercitato “contro” un imputato, il reato è considerato un po’ meno grave e quindi si ricorre agli arresti domiciliari. L’arresto domiciliare di questo Procuratore, e le indagini avviate su un altro Procuratore (quello di Trani) che sarebbe stato in qualche modo suo complice, avviene proprio nei giorni dello scandalo Csm. Cioè mentre su alcuni giornali (pochi) vengono pubblicate paginate di messaggi e intercettazioni realizzate sul cellulare di Luca Palamara (ex capo dell’Associazione Magistrati ed ex membro del Csm) grazie all’uso di quel maledetto aggeggio che è il Trojan. Cioè un virus informatico che trasforma il tuo cellulare in una centralina di spionaggio come quelle che si usavano nella Rdt ai tempi del regime comunista. Le intercettazioni pubblicate sui giornali hanno raccontato delle lotte tra correnti della magistratura e hanno scatenato nuove lotte fratricide. Il Partito dei Pm, che in questi 25 anni è stato – in genere senza farsi notare – un pilastro del sistema politico, nel nostro paese – capace di influenzare sia le scelte politiche sia, largamente, la selezione dei gruppi dirigenti – improvvisamente si è frantumato. Anche grazie agli scontri che si sono aperti nei 5 Stelle (che sono la rappresentanza parlamentare del partito dei Pm) e alla furia fratricida nelle correnti più reazionarie e giustizialiste delle toghe. Ora possiamo tranquillamente dire che ci troviamo di fronte a un fenomeno che – usando un vecchio linguaggio giornalistico – potremmo chiamare “Magistratopoli”. Come la vecchia Tangentopoli. Come allora, a creare il fenomeno non sono tanto i reati, che – francamente – soprattutto in questa occasione o non ci sono o sono minimi – ma il clima che si è creato: un inseguirsi di sospetti, accuse, vendette, e la conseguente perdita verticale di autorità morale. La magistratura si è mostrata finalmente al pubblico per quel che realmente è: il luogo di esercizio di uno straordinario potere, politico – e persino fisico – sulla società italiana, che però pretende invece di essere un luogo di moralità e di etica pubblica. Cos’è in realtà la magistratura: in un’enclave intoccabile, che impone le sue leggi a se stessa, che lottizza, che patteggia, che commercia favori, posti, Procure e naturalmente molto potere. Qual è la differenza tra Magistratopoli a Tangentopoli? C’è una differenza fondamentale, che può determinare un esito di questo scandalo ben diverso dall’esito che, negli anni Novanta, portò alla demolizione della Prima Repubblica, cioè del cinquantennio più produttivo e democratico della storia d’Italia. La differenza è semplice: è la stampa, bellezza. Negli anni Novanta la stampa e la televisione si schierarono a corpo morto con i magistrati. Trascinarono dalla loro parte anche molti imprenditori, che concessero il loro appoggio ai Pm in cambio, semplicemente, dell’impunità. Da allora, l’informazione, in Italia – soprattutto quella dei grandi giornali e delle Tv – è diventata in larghissima misura subalterna alle Procure. Spesso al servizio vero e proprio delle Procure, in una funzione del tutto ancillare. Oggi questa storia dell’informazione pesa. E se allora l’informazione si schierò contro Tangentopoli, oggi non sembra per niente intenzionata a schierarsi contro magistratopoli. La maggior parte dei mezzi di informazione tace, non riporta le notizie, sembra allo sbando di fronte allo sciogliersi del partito di riferimento (il partito dei Pm). Persino nel racconto dell’arresto del magistrato a Taranto, ieri, gli online dei grandi giornali erano reticenti in modo clamoroso. Il Corriere aveva confezionato un titolo che sembrava uno scherzo: “Ai domiciliari un magistrato: è accusato di contatti con le Alte Sfere”. E il reato? Boh. Non sono sicurissimo che il titolo fosse esattamente questo, lo cito a memoria, perché a una certa ora del pomeriggio il titolo è sparito del tutto. Su Repubblica un titolo appena appena un po’ meno reticente c’era, anche a sera, ma non certo tra i primi titoli. Cosa avrebbero fatto i grandi giornali se avessero arrestato un ministro? Ve lo immaginate? Eppure chiunque sa che un Procuratore è ben più potente di un ministro. Non solo, ma – a occhio – dovrebbe essere quello che arresta, non quello che si fa arrestare. Il problema non è un problema marginale. L’assenza, in Italia, di un giornalismo vero e attendibile, come c’è negli altri paesi, e soprattutto la totale – totale – assenza di un giornalismo indipendente dal potere e soprattutto dal potere della magistratura, crea uno squilibrio formidabile nel sistema dei contrappesi che garantisce la tenuta di una democrazia. E sta portando dei danni forse irreversibili allo Stato di diritto.

«Parla o ti faccio arrestare»: indagato ex pm di Trani. Il Dubbio il 29 Giugno 2020. Minacce ai testimoni per farli confessare, nei guai Michele Ruggiero: è accusato di violenze private aggravate e falsi. La Procura di Lecce ha chiuso le indagini su Michele Ruggiero, ex magistrato della procura di Trani e ora pm a Bari, accusato di violenze private aggravate e falsi commessi, tra ottobre e novembre 2015. Il fatto sarebbe stato commesso ai danni di due testimoni in una indagine che Ruggiero stava conducendo. I testi – secondo l’accusa – sono stati costretti «con modalità intimidatorie e violenze verbali» a dichiarare di essere a conoscenza di alcuni episodi di consegna di tangenti. Al magistrato si contesta anche il reato di falso ideologico per aver omesso i dettagli dei verbali di sommarie informazioni di altri tre testimoni. Una delle accuse di falso è contestata al Pm in concorso con un poliziotto della Digos di Bari, Michele Tisci. «A fronte delle negazioni» di un testimone che Ruggiero stava ascoltando a sommarie informazioni in un’indagine su una presunta tangentopoli tranese, il magistrato – secondo l’accusa – lo avrebbe minacciato di gravi conseguenze penali. Secondo l’accusa Ruggiero gli avrebbe detto «ti stavamo per arrestare», «anche la sola indagine a tuo carico ti creerebbe un casino di problemi per la laurea, per il tuo futuro», «stai attento a quello che dici», «io le cose le so già e te ne andrai in carcere pure tu», «ti sto sottoponendo a questa specie di chiacchierata interrogatorio che verrà tutta fono registrata per darti la possibilità di salvarti», «tu mo ti puoi alzare, te ne vai e poi ci vedremo tra un mesetto però in una diversa posizione, tu dietro le sbarre e io da un’altra parte…non ti sto impaurendo…ti sto dicendo quello che succederà perché noi sappiamo». Ad un’altra testimone – sempre secondo l’accusa – Ruggiero avrebbe contestato un «atteggiamento omertoso e mafioso».

Minacce a testimoni e falso nei verbali degli interrogatori, indagato il pm di Bari Michele Ruggiero. Pubblicato lunedì, 29 giugno 2020 da La Repubblica.it. La Procura di Lecce ha chiuso le indagini sulle presunte violenze private aggravate e falsi commessi, tra ottobre e novembre 2015, dal magistrato della Procura di Trani, Michele Ruggiero, ora pm a Bari, ai danni di due testimoni in una indagine che Ruggiero stava conducendo. I testi - secondo l'accusa - sono stati costretti "con modalità intimidatorie e violenze verbali" a dichiarare di essere a conoscenza di alcuni episodi di consegna di tangenti. Al magistrato, lo stesso che quando era Trani aveva indagato sulle agenzie di rating Standard & Poor's e Fitch e sulla presunta correlazione tra vaccini e autismo (il primo procedimento concluso con assoluzioni, il secondo archiviato), si contesta anche il reato di falso ideologico per aver omesso i dettagli dei verbali di sommarie informazioni di altri tre testimoni "fornendo una rappresentazione assolutamente falsa di quanto avvenuto in sua presenza ed una sintesi per nulla corrispondente all'effettivo tenore di domande e risposte". Atti che poi avrebbe utilizzato per chiedere e ottenere l'arresto, nel giugno 2016, del presunto corrotto, il funzionario del Comune di Trani Sergio De Feudis, attualmente imputato per quelle vicende nel processo sul "sistema Trani". Una delle accuse di falso è contestata al pm in concorso con un poliziotto della Digos di Bari, Michele Tisci. 

Giustizia, adesso i magistrati si arrestano tra di loro: i nemici delle toghe ormai sono loro stesse. Filippo Facci Libero Quotidiano il 20 maggio 2020. Evitare di scrivere «il più pulito ha la rogna» non è un problema: il vero problema è farvi leggere questo articolo, cioè non farvelo mollare dopo due righe dopo che avrete mormorato che «ormai i magistrati si arrestano tra di loro»: che è vero, beninteso, il potere politico ormai non è più antagonista della magistratura ma solo gregario (succube, nel caso dei grillini) e la lotta togata si è fatta intestina. Ma questa è materia che interessa poco. Magistrati che arrestano altri magistrati: ogni volta si parla di anonimi funzionari dello Stato che sono dotati tuttavia dei più grandi poteri (tra questi togliere la libertà e sequestrare un'attività, bloccare conti bancari, congelare intere esistenze) ma che restano gente che la maggioranza di voi non avrà probabilmente sentito nominare, perché nessun cittadino li ha mai eletti, nessuno di loro va in tv, raramente concedono interviste a meno che ci sia qualche passerella in cui esibire qualche condanna popolare. Se vi giunge nuovo il nome di Carlo Maria Capristo (noto però a Taranto, e vedremo perché) magari si può anche titolare che è stato arrestato nientemeno che un Procuratore Capo della Repubblica. Ma la carica non basta, anche se è stato arrestato per un reato gravissimo come corruzione in atti giudiziari (l'hanno messo ai domiciliari: tra i magistrati vige una certa etichetta) e con lui sono stati coinvolti anche un ispettore di Polizia e tre imprenditori. È indagato anche il procuratore di Trani Antonino di Maio, e l'inchiesta risale a un anno fa, portata avanti dalla Procura di Potenza. Azzardiamo una sintesi, ossia l'accusa. Tre imprenditori cercarono di convincere un giovane magistrato della Procura di Trani a chiudere alcune indagini per usura e quindi avviare il processo contro un imprenditore senza che ce ne fossero i presupposti - questa la pista - e solo perché gli interessati avevano un obiettivo preciso: ottenere i soldi e i benefici di legge che conseguono allo status di «vittima di usura», che in Italia è praticamente un mestiere. Il pm però non ha chiuso nessuna indagine e, anzi, ha raccontato tutto alla sua procura: che però, a quanto pare, ha incredibilmente chiesto l'archiviazione. Il fascicolo poi è stato avocato dalla Procura generale di Bari ed è stato trasmesso alla Procura di Potenza (tutti balletti di competenza, quando dei magistrati indagano su altri magistrati) che circa un anno fa ha avviato delle indagini. Ieri la svolta: tutti arrestati, con le accuse a vario titolo di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, e poi falso e truffa. Ora ripetiamola con nomi e cognomi: tre imprenditori pugliesi che sono i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo (si chiamano così, come ciò che hanno ottenuto) hanno cercato di indurre la pm Silvia Curioni (Trani) a perseguire per usura un certo Giuseppe Cuoccio; questi fratelli miravano ai vantaggi patrimoniali della posizione processuale di parte presunta offesa e aspirante parte civile con l'applicazione della legge a sostegno delle vittime di usura e relativi benefici del caso. Per riuscire nel loro intento ecco entrare in scena il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, che secondo i magistrati potentini sarebbe l'organizzatore di una corruzione in atti giudiziari che utilizzava un poliziotto («notoriamente suo alter ego» e «uomo di fiducia», Michele Scivattaro) per fare pressioni sulla pm di Trani, questo «abusando della qualità di procuratore della Repubblica di Taranto, superiore gerarchico del marito della pm Curioni, ossia di Lanfranco Marazia, che a Taranto prestava servizio come pm». In pratica le avrebbe fatto capire che avrebbe esercitato «fini ritorsivi» e ostacolato la carriera del marito, «visto che aveva già dimostrato nel 2017 di essere capace di farlo», scrivono i pm. Ovviamente a Taranto è scoppiato un casino, anche perché Capristo è quello che si era scontrato con la proprietà dell'Ilva (ora ex Ilva) ad apparente tutela della salute dei cittadini: insomma, da una parte aveva un suo seguito, dall'altra (se è vero) pare che trafficasse mica poco. Capristo comunque, secondo l'accusa, avrebbe mandato dalla pm di Trani Silvia Curioni il «suo» poliziotto ed esercitato pressioni facendole rammentare che a Trani (dov' era stato procuratore capo) manteneva ottimi rapporti in particolare col neo procuratore capo Antonino Di Maio, capo di lei e di suo marito. Anche Di Maio ora è indagato per abuso d'ufficio. Capristo e l'ispettore sono anche «gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso» perché l'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari anche se in realtà se ne restava comodamente a casa, o svolgeva incombenze per conto del procuratore. Dalle immancabili intercettazioni, secondo i gip di Potenza, emerge «l'esistenza di un centro di potere a Trani» denominato "i fedelissimi", che include pubblici ufficiali e soggetti privati tra cui l'imprenditore Gaetano Mancazzo, definito «uno del club». Tutti legati a Capristo. Parentesi: ricordiamo che Trani è la stessa procura in cui operavano i magistrati Savasta e Nardi, arrestati per corruzione nei mesi scorsi per altre vicende. Altra parentesi: Capristo era già indagato per abuso d'ufficio a Messina in ordine al cosiddetto «sistema Siracusa», una presunta organizzazione accusata di pilotare decisioni del Consiglio di Stato. I fatti su cui indagano in Sicilia risalgono a quando Capristo era capo procuratore a Trani e riguardano anche un altro famoso depistaggio: quello dell'inchiesta sulle tangenti Eni. A Trani era giunto un esposto anonimo sulla vicenda che Capristo non inviò però ai colleghi di Milano (competenti) ma a Siracusa, doveva aveva dei giri tutti suoi. Ecco, l'articolo è finito, e i cronisti in genere non scrivono mai tutto quello che sanno: ma questa volta è proprio così. Abbiamo capito solo che è un troiaio, e che avrà un seguito. 

Giovanni Bianconi e Virginia Piccolillo per il ''Corriere della Sera'' il 20 maggio 2020. C' è un'intercettazione, scrive il giudice che ha ordinato l'arresto del procuratore di Taranto (ex di Trani) Carlo Capristo, che svela «l'esistenza di un centro di potere a Trani denominato "i fedelissimi" capace non solo di influenzare le scelte di quella Procura, ma anche di coinvolgere altre istituzioni». Il 26 aprile 2018, uno dei principali collaboratori di Capristo, il cancelliere in pensione Domenico Cotugno dice al telefono: «Io servivo a lui... lui serviva a me... insieme abbiamo fatto una forza che... te ne dico una! Abbiamo messo in cottura il presidente della Repubblica una volta... lo abbiamo messo in cottura che dovevamo fare una certa manifestazione...». Un accenno che potrebbe riferirsi a una visita del capo dello Stato Sergio Mattarella del 2017, o al suo predecessore Giorgio Napolitano che a suo tempo intervenne su una ispezione ministeriale. Oppure una millanteria. Poi Cotugno prosegue. «Quello (Capristo, ndr ) ti fa impazzire perché è un vulcano... ora che per esempio hanno nominato il presidente del Senato... Casellati... che è un' amica nostra... gli telefonai, gli dissi "hai mandato un messaggio?"... vedi che quella la Casellati quando stava al Csm gli fece la relazione perché lui doveva andare a Bari. E devi vedere che bella relazione...». Oltre a questo colloquio registrato, agli atti dell' indagine di Potenza - ma anche di quelle collegate di Messina e Perugia sulla presunta corruzione di altri magistrati: inchieste diverse in cui ricorrono gli stessi nomi - gli indizi sul «centro di potere» collegato a Capristo passano dal suo amico Filippo Paradiso, di cui parla l' avvocato messinese Giuseppe Calafiore. Arrestato per corruzione assieme al collega Piero Amara e all' imprenditore Fabrizio Centofanti nel febbraio 2018, con pena successivamente patteggiata, il legale dice in un interrogatorio del 6 giugno 2019: «Attualmente è nell' entourage del ministro Salvini. Paradiso veniva quasi quotidianamente nel nostro studio, vive di pubbliche relazioni tant' è che l' appuntamento tra il pm Longo legatissimo ad Amara e a me (e arrestato con loro due anni fa, ndr ) e la Casellati, all' epoca al Csm, è avvenuto tramite Paradiso. Amara mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso, e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino, o meglio deduco, che Paradiso si sia relazionato, anche, con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Il funzionario di polizia è attualmente indagato dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite, e di lui ha parlato la ex pm di Trani Silvia Curione, titolare dell' inchiesta che Capristo voleva pilotare, secondo l' accusa, a suo piacimento. Ricorda un incontro di inizio 2016: «Nel presentarci Paradiso, a casa sua, Capristo disse che era suo amico. Quest' ultimo ci disse, parlando della Procura di Taranto, che l'allora facente funzione Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera». Il marito della Curione, Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, aggiunge: «Paradiso, spinto da Capristo che aveva evidenziato come Argentino era rimasto amareggiato perché non aveva avuto alcun voto in Commissione (del Csm, ndr ) per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per fare diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale». A luglio 2017, Argentino fu nominato dal Csm procuratore di Matera, con 11 voti. Tra cui quelli di Maria Elisabetta Alberti Casellati e di Luca Palamara. Gli atti su Capristo (compresi i verbali di Amara, che nega quanto riferito da Calafiore, e dello stesso procuratore di Taranto, che nega anche parte di ciò che ha detto Amara) sono finiti agli atti dell' indagine perugina sull' ex componente del Consiglio superiore della magistratura indagato per corruzione. Secondo l' accusa veniva pagato con viaggi e altre regalie da Centofanti, l'amico di Amara e Calafiore, in cambio del «mercimonio della funzione» di componente del Csm. Nell' interrogatorio a Palamara, i pm umbri hanno chiesto notizie di Filippo Paradiso, e l' indagato ha risposto: «L'ho visto più volte sia con Centofanti che con altri consiglieri del Csm con cui si accompagnava, anche di rilievo».

 “Io, pm antimafia, rischio la carriera per un’intercettazione”. Il Dubbio il 21 maggio 2020. Cesare Sirignano rischia il trasferimento dalla Dna perché è stato coinvolto nel caso Palamara: “Ho dato tutto me stesso nella Dna, non posso tollerare che sia in discussione la mia integrità”. ”Il mio trasferimento sarebbe ingiusto, e mi farebbe perdere la fiducia nella giustizia. Per 7 minuti di conversazione verrebbe bruciata la mia vita professionale, 26 anni di sacrifici”. Il pm della direzione nazionale antimafia Cesare Sirignano, si è difeso così, in un intervento durato oltre due ore, davanti al plenum del consiglio superiore della magistratura che discute del suo trasferimento d’ufficio per incompatibilità funzionale e ambientale a seguito di alcune sue conversazioni, emerse dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta della procura di Perugia, con Luca Palamara. ”Ho commesso errori ma non quelli che mi sono contestati, è una vicenda paradossale” ha detto Sirignano. ”Ho dato tutto me stesso nella Dna, non posso tollerare che sia in discussione la mia integrità”, ha sottolineato. ”I presupposti alla base della richiesta di trasferimento sono infondati, lo dicono le carte”. In plenum la prima commissione ha portato sue diverse proposte: una che chiede il trasferimento di Sirignano e l’altra che propone l’archiviazione. Dopo Sirignano è intervenuto il suo difensore, il procuratore generale di Potenza Armando D’Alterio, ed è stata chiesta l’acquisizione da parte dei consiglieri di ulteriore documentazione. La discussione nel merito è stata rinviata a domani. Per illustrare le due delibere su cui i consiglieri saranno chiamati a esprimersi, sono intervenuti i due relatori. Per la proposta di maggioranza, che propone il trasferimento, il togato di Area Giovanni Zaccaro ha sottolineato che ”il Csm tutela la giurisdizione, anche a fronte di condotte dei singoli che appannano l’autonomia della magistratura e la diffusione dei messaggi fra Palamara e Sirignanoha compromesso l’immagine di un ufficio importantissimo come quello della Dna dando la impressione che sia eterodirigibile”. Concetta Grillo, di Unicost, relatrice della proposta di archiviazione, ha sostenuto che “il procedimento amministrativo di trasferimento richiede che il magistrato, nella sede da lui occupata, non possa più esercitare le funzioni con immagine di piena indipendenza e imparzialità. Nel caso in esame, al contrario, il capo dell’ufficio ha escluso che il buon funzionamento della Dna sia mai venuto meno e che la sua affidabilità esterna sia mai stata intaccata dalla vicenda”. Nel corso della discussione era stata anche chiesta dal togato di Unicost Michele Ciambellini la sospensione del trasferimento, in attesa del procedimento disciplinare, proposta messa ai voti e respinta a maggioranza. Per Ciambellini “bisogna garantire l’indipendenza dei magistrati anche nei confronti del Csm, soprattutto in questo momento storico. Ma nessuno dei fatti attribuiti a Sirignano è stato provato con le garanzie che spettano a chi rischia un provvedimento gravemente sanzionatorio. Sirignano ha una carriera specchiata di 26 anni in magistratura, che sarebbe ingiustamente pregiudicata da una decisione sbagliata”. Contrario alla sospensione e favorevole al proseguimento della procedura di incompatibilità il togato di A&I Sebastiano Ardita, che ha sottolineato che ”vi è un nucleo minimale di coincidenza tra i contestati in base all’articolo 2 e la contestazione disciplinare” e che va discusso il merito senza nessuna sospensione.

Liana Milella per la Repubblica il 20 maggio 2020. Raffaele Cantone procuratore di Perugia? "Da evitare assolutamente". Scrive così, in un messaggio whatsapp del 5 febbraio dell' anno scorso, Luca Palamara a Cosimo Maria Ferri. Da un parte il king maker delle nomine marcato Unicost. Dall' altra l' ex leader di Magistratura indipendente, allora deputato del Pd poi passato con Renzi. Lo stesso che giusto oggi, davanti alla Corte costituzionale, chiederà che non si possano usare le sue intercettazioni, quelle con il Trojan del maggio 2019, perché è un parlamentare, quindi protetto dall' obbligo del via libera di Montecitorio. La Consulta dirà solo se questo conflitto d' attribuzione è ammissibile o no, ma certo è che Ferri ha iniziato individualmente la sua battaglia che poi potrebbe anche diventare un vessillo di tutta la Camera. Sull' onda delle coincidenze, la Corte si pronuncerà proprio nel giorno in cui al Csm il plenum dovrà a sua volta decidere se merita il trasferimento d' ufficio un pm della Procura nazionale antimafia, Cesare Sirignano, che al telefono con Palamara cercava a sua volta di piazzare un suo candidato al vertice della procura di Perugia. Già, Perugia, ufficio giudiziario divenuto ormai una sorta di grande tribunale dove si gioca la credibilità della magistratura italiana e del Csm che dovrebbe scegliere, in modo imparziale, senza pressioni di sorta, e solo in base all' effettiva professionalità, dove piazzare gli uomini giusti. Facile immaginare che proprio la procura di Perugia sia particolarmente sotto i riflettori. Ormai siamo quasi giunti al plenum - si dovrebbe tenere tra la prima e la seconda settimana di giugno - che dovrà decidere se dare il ruolo di procuratore a Raffaele Cantone, tornato alla Suprema Corte dopo la presidenza dell' Anac, oppure all' attuale procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini. Anche questo uno scontro durissimo, Magistratura indipendente e Davigo per Masini, Area per Cantone, Unicost ancora al balcone. E qui ecco che spunta questa chat del 5 febbraio. Dove Ferri chiede a Palamara "ma Cantone ha fatto domanda". Lui replica "ma per dove?". E Ferri: "Perugia, lo sapevi?". Palamara: "Assolutamente no.

E Sottani (Sergio Sottani, allora procuratore generale ad Ancona) non mi ha mai parlato di Cantone".

E subito dopo Palamara aggiunge: "Da evitare assolutamente". Questa chat parla da sé. Inutile chiosarla.

Sirignano: «Ho combattuto per anni i clan della camorra ora non meritavo la gogna». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 23 maggio 2020. Intervista a Cesare Sirignano, ex membro della Dna trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale. Fatali i dialoghi con Palamara. «Ma lei capisce che io per ventisei anni ho sacrificato la mia vita e la mia famiglia? Lo sa che sono sotto scorta da dodici anni per aver sempre lavorato a testa alta?». Cesare Sirignano è una toga in prima linea contro la camorra. Più volte minacciato di morte, il magistrato napoletano con le sue indagini ha portato all’arresto di numerosi esponenti di punta del clan dei casalesi. Giovedì scorso è stato trasferito dalla Dna, dove prestava servizio dal 2015, per «incompatibilità ambientale». Il Csm ha deciso che erano venuti meno i requisiti per la sua permanenza alle dipendenze del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Sirignano dovrà ora indicare a Palazzo dei Marescialli una rosa di sedi dove andare. Ad essergli stati fatali sono stati i colloqui con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Colloqui, contenuti nel fascicolo di Perugia aperto nei confronti del pm romano, finiti a più riprese sui giornali e che hanno anche costretto recentemente alle dimissioni del capo di gabinetto del ministro della Giustizia. «Sirignano – secondo il Csm – non si è limitato a condividere con Palamara critiche aspre nei riguardi di questo o quel collega (Nino Di Matteo e Barbara Sergenti, ndr) del suo ufficio» ma le ha inserite «in un disegno volto a mettere le pedine nei posti giusti e a condizionare gli assetti nell’ufficio». Ad iniziare dalla nomina del nuovo procuratore di Perugia. Questa intervista è stata effettuata prima che il Csm decidesse il trasferimento di Sirignano con un voto a larghissima maggioranza, ventuno voti favorevoli a fronte dei tre espressi dai togati di Unicost che chiedevano di archiviare il procedimento. Per evitare possibili strumentalizzazioni e polemiche l’intervista viene pubblicata oggi.

Dottore, come sta?

«Da otto mesi sto affrontando questa gogna».

Il Csm vuole trasferirla dalla Dna per “incompatibilità ambientale”.

«Potevo andarmene io in prevenzione un anno fa (procedura con cui il magistrato chiede autonomamente di essere trasferito di sede, facendo quindi venire meno l’incompatibilità ambientale, ndr) e non l’ho fatto. Se avessi chiesto il trasferimento di ufficio ero già al primo di anno di quattro (quattro anni è il periodo minimo di permanenza in un ufficio affinché il magistrato possa essere legittimato a presentare una domanda di trasferimento, ndr) prima di andarmene da qualche altra parte».

Perché non lo ha fatto allora?

«È una battaglia di giustizia. Perché deve essere chiaro quello che è stato il mio comportamento. Mi vengono contestate cose che non esistono».

Possiamo ricostruire la vicenda?

«».

L’accusano di aver “manovrato” con Palamara per l’assegnazione di incarichi. Ad esempio c’è la vicenda di Giuseppe Borrelli, allora aggiunto a Napoli e ora procuratore di Salerno.

«Su Borrelli si è creato un corto circuito. Lo conoscevo da anni, ho sempre avuto stima della sua storia professionale».

Lei voleva che Borrelli diventasse il procuratore di Perugia per agevolare Palamara?

«Borrelli aveva un suo interesse personale. Aveva coltivato per anni rapporti con tutti quelli che ora stanno sul banco degli imputati. Io, senza alcun interesse, per garantire la sua imparzialità davanti a Palamara che aveva espresso invece dei dubbi, mi trovo ad affrontare questa situazione di cui non sapevo nulla.

Quindi nessuna manovra per favorire Borrelli?

«Io ho sempre e solo agito per garantire che Borrelli venisse considerato una persona per bene. Senza altri fini».

Ma lei queste cose le ha spiegate ai suoi colleghi al Csm?

«In questi mesi ho fatto ben quattro audizioni al Csm per spiegare come stavano effettivamente le cose».

E allora dov’è il problema?

«Borrelli aveva paura di essere coinvolto nei rapporti con le correnti. Rapporti che molti seguono. Mi investiva quotidianamente delle sue ansie e delle sue preoccupazioni».

Dopo che furono pubblicate le prime intercettazioni fra lei e Palamara, lo scorso maggio, Borrelli decise di incontrarla e di registrare il colloquio.

«Durante questo colloquio Borrelli ricevette la telefonata di una giornalista che fornì una ricostruzione diversa di quanto avevo detto su di lui a Palamara. E presentò un esposto che travisava quanto effettivamente accaduto. Sul contenuto dell’esposto si è aperta la procedura di trasferimento a mio carico».

Quindi lei non voleva che Borrelli diventasse procuratore di Perugia dove era in corso l’indagine contro Palamara?

«Non c’è cosa più falsa di questo mondo! E si capisce dalla trascrizione del colloquio che ebbi con Borrelli. La trascrizione, poi, è avvenuta perché l’ho voluta io. Infatti ho fatto presente che quanto era scritto nell’esposto, una sintesi, era diverso dal contenuto della registrazione. Ho poi depositato altri messaggi e Borrelli ha chiarito meglio l’accaduto quando la pratica per la sua nomina a Salerno era tornata in Commissione per gli incarichi direttivi».

La pubblicazione dei colloqui che Palamara aveva con centinaia di magistrati hanno messo in luce quello che, comunque, tutti immaginavano: il potere delle correnti nella scelta dei capi degli uffici.

«È un sistema che non ho contribuito a creare né a mantenere e della cui esistenza ho preso semplicemente atto. Io ho sempre fatto il magistrato con passione. È vero che ho affermato che se non hai l’appoggio della tua corrente non puoi aspirare a incarichi di rilievo, ma la responsabilità di questo sistema, che sarebbe ipocrita negare, ripeto, non è certo la mia».

Spera in un ripensamento del Csm?

«Confido in una valutazione obiettiva dell’intera vicenda. Io non mi sono mai sottratto. Mi hanno accusato di millantare, insinuando ogni genere di accuse. Io, voglio dirlo ancora una volta, ho grande rispetto per le istituzioni, sono un magistrato, e mi difendo nelle sedi deputate».

Molto chiaro.

«Posso dire un cosa?»

Prego.

«Io ho fatto la guerra ai clan in questi anni, non ha mai fatto le “trastole” (azioni poco chiare in dialetto napoletano, ndr) per garantire impunità o fare indagini nei confronti di chi non le merita».

Ma se il Csm dovesse trasferirla?

«Sarebbe un sacrifico e una battuta d’arresto a cui, però, non ho voglia di credere».

Invece…

Quelle chat che inguaiano le toghe: ''Salvini? Ha ragione ma va attaccato''. In una chat su Whatsapp certe toghe sapevano che Salvini non stava facendo niente di sbagliato. Il leghista doveva comunque essere attaccato senza pietà. Federico Giuliani, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Quando era ancora ministero dell'Interno, nel 2018, Matteo Salvini veniva quotidianamente attaccato dai giudici per il suo operato sui migranti. Eppure, oggi, è emerso un fatto quanto mai clamoroso: quelle stesse toghe che in pubblico puntavano il dito contro il segretario della Lega, in privato sapevano benissimo che l'ex ministro non stava facendo niente di male. Il quotidiano La Verità svela le carte in tavola e accende i riflettori su come, in una chat su Whatsapp, certe toghe ammettessero che sì, Salvini non stava facendo niente di sbagliato ma che doveva comunque essere attaccato senza pietà. Tanti i protagonisti della vicenda, a cominciare da Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, e Luca Palamara, leader della corrente di Unicost.

Attaccare Salvini. Auriemma, rivolgendosi a Palamara, è molto dubbioso su quanto sta accadendo in quei torridi giorni d'agosto di due anni fa: ''Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento''. In fondo al messaggio Whatsapp la raccomandazione di non diffondere il contenuto del testo. La risposta di Palamara arriva quasi subito: ''Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo''. Queste, e molte altre chat, sono agli atti dell'inchiesta che ha scosso le fondamenta del Csm. La discussione va avanti, sottolinea ancora La Verità, e Auriemma è dubbioso: potrebbe essere un pericoloso boomerang continuare ad attaccare Salvini sull'immigrazione. Anche perché ''tutti la pensano come lui'', ''tutti pensano'' che abbia ''fatto benissimo a bloccare i migranti''. Già, perché in quel periodo il ''Capitano'' è nel mirino dei pm siciliani. Auriemma è titubante: ''Indagato per non aver permesso l'ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili''. In altri messaggi, con altri interlocutori, Palamara esprime tutto il suo disagio di fronte all'eventualità di incontrare pubblicamente Salvini e, nel frattempo, si fa inviare i pdf delle sentenze del processo di Umberto Bossi e Francesco Belsito. Insomma, a tenere unite, per dieci anni, le toghe rosse di Area e Palamara sarebbe il conflittuale rapporto con il centrodestra. Per finire, in una chat tra Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm (Associazione nazionale magistrati), quest'ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull'allora dl Sicurezza, componenti di una cordata ''pericolosissima''.

Sergio Mattarella al telefono con Matteo Salvini: "Quella merda", le chat dei magistrati e le ombre sulla giustizia. Libero Quotidiano il 21 maggio 2020. C’è stata una telefonata cordiale tra Sergio Mattarella e Matteo Salvini sul caso delle chat di alcuni magistrati che esprimono giudizi pesantissimi sull’allora ministro dell’Interno. Il capo dello Stato non poteva rimanere indifferente dinanzi ad una vicenda di una gravità inaudita: Salvini ha espresso lo stupore per le rivelazioni del quotidiano La Verità, la preoccupazione per la situazione economica e anche l’amarezza per gli attacchi pesanti e strumentali di alcuni parlamentari della maggioranza di governo nei confronti della Lombardia.  Inoltre il leader leghista ha preannunciato l’invio di una lettera: “L’avversione nei miei confronti è evidente - scrive Salvini - al punto che uno dei magistrati, pur riconoscendo le ragioni della mia azione politica, individuava nella mia persona un obiettivo da attaccare a prescindere. Intenzione che veniva condivisa da altri magistrati”. Tra le frasi più forti emerse dalle intercettazioni: “Ha ragione ma ora bisogna attaccarlo”, “c’è quella m***a di Salvini, ma mi sono nascosto”. Alla luce di ciò e con all’orizzonte l’udienza preliminare presso il tribunale di Catania, dove l’ex ministro sarà chiamato a rispondere dell’ipotesi di sequestro di persona, la fiducia nei confronti della magistratura vacilla più che mai. “Tutto ciò intacca il principio della separazione dei poteri - sottolinea Salvini - e desta in me la preoccupazione concreta della mancanza di serenità di giudizio tale da influire sull’esito del procedimento a mio carico”. 

“Attaccare Salvini”. Le chat dei magistrati contro l’ex ministro dell’Interno. Il Dubbio il 22 maggio 2020. Nelle chat tra i magistrati Palamara e Auriemma gli attacchi contro il leader leghista che si chiede: “Con quale serenità mi giudicheranno?”. Le chat dei magistrati contro Matteo Salvini diventano un caso politico: “Toghe contro di me? Con quale serenità verrò giudicato?”, si chiede giustamente il leader della Lega Matteo Salvini che dovrà rispondere  dell’accusa di sequestro di persona perché  mentre era ministro dell’Interno impedì per più di tre giorni lo sbarco di 116 persone tratte in salvo nel Mediterraneo centrale dalla nave della Marina militare Gregoretti.  E poi, si chiede ancora Salvini, “con quale serenità potrà esprimersi la Giustizia? Il Capo dello Stato ritiene normali questi toni?”.

Le chat tra magistrati. ‘Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento”, chiedeva Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo. La risposta di Palamara arriva quasi subito: ”Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo”. Le chat, sono agli atti dell’inchiesta di Perugia sul caso Palamara e che ha scosso le fondamenta del Csm. Per finire, in una chat tra Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm quest’ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull’allora dl Sicurezza, componenti di una cordata ”pericolosissima”.

La difesa di Nicola Morra. “Sono d’accordo con il senatore Salvini, che ha riportato quanto scritto da un quotidiano oggi: è assolutamente inammissibile, seppure in chat private, che magistrati giudichino un ministro come è stato giudicato. Un magistrato è sempre parte di un corpo terzo, c’è pur sempre una distinzione netta tra poteri”. Lo ha detto il senatore del M5S, Nicola Morra intervenendo in aula, dopo l’informativa del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. “Ma è altrettanto vero che il senatore Salvini ha indicato delle soluzioni per la fase emergenziale che materialmente non sono nelle nostre disponibilità”, ha aggiunto Morra.

Chat magistrati contro Salvini. Orlando: «Spaccato non bello, ora riformiamo il Csm». Il Dubbio il 22 maggio 2020. Le chat dei magistrati contro Salvini sono diventate un caso politico. Orlando: «Non emerge uno spaccato particolarmente bello. Io credo che ci sia una seria riflessione da fare». «Ho letto con attenzione, dopo la segnalazione di Salvini. Francamente non erano i magistrati che indagavano su Salvini e non siamo di fronte a una chat nella quale si valutano questioni di carattere politico generale». Comincia con questa premessa il ragionamento dell’ex ministro della Giustizia e attuale vice segretario del Pd Andrea Orlando che, intervistato a Radio Anch’io su Radio 1, torna sul tema delle chat delle toghe contro Salvini. Ma dopo una mezza assoluzione dei magistrati, Orlando aggiunge: «Non emerge uno spaccato particolarmente bello. Io credo che ci sia una seria riflessione da fare, e su questo sono d’accordo con Salvini, su come riformare il Consiglio superiore della magistratura, perché credo che sinceramente ci siano dei meccanismi che sono emersi che vanno affrontati». Le chat dei magistrati contro Salvini sono diventate un caso politico: «Toghe contro di me? Con quale serenità verrò giudicato?», si è chiesto il leader della Lega, che dovrà rispondere in tribunale dell’accusa di sequestro di persona, quando, in qualità di ministro dell’Interno, impedì per più di tre giorni lo sbarco di 116 persone tratte in salvo nel Mediterraneo centrale dalla nave della Marina militare Gregoretti. L’ex ministro tira in ballo il Presidente della Repubblica, che è anche capo del Csm, organo di autogoverno delle toghe. E tra i due, ieri, è intercorsa una telefonata, durante la quale Salvini preannunciandogli l’invio di una lettera – ha espresso il proprio stupore per le rivelazioni del quotidiano “La Verità” e la preoccupazione per la situazione economica e l’amarezza per i pesanti attacchi di alcuni parlamentari della maggioranza di governo nei confronti della Lombardia duramente colpita dalla tragedia del Covid- 19. «Le intercettazioni pubblicate documentano come l’astio nei miei riguardi travalichi in modo evidente una semplice antipatia. In tal senso è inequivocabile il tenore delle comunicazioni dei magistrati intercettate. Come noto, a ottobre inizierà l’udienza preliminare innanzi al Gup presso il Tribunale di Catania ove sono chiamato a rispondere dell’ipotesi di sequestro di persona per fatti compiuti nell’esercizio delle mie funzioni di ministro dell’Interno, in linea con l’azione di governo tesa al contrasto dell’immigrazione clandestina – scrive Salvini -. Non so se i vari interlocutori facciano parte di correnti della magistratura o se abbiamo rapporti con i magistrati che mi giudicheranno, tuttavia è innegabile che la fiducia nei confronti della magistratura adesso vacilla». Nelle chat tra magistrati, tirate fuori ancora una volta dagli atti depositati a Perugia sul caso che vede coinvolto l’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm Luca Palamara, Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, esprime un giudizio tranchant sull’ex ministro. «Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento», chiedeva Auriemma. La risposta di Palamara arrivò quasi immediatamente: «Hai ragione. Ma adesso bisogna attaccarlo». Inoltre, in una chat tra Palamara e Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva Anm, quest’ultima, nel novembre 2018, se la prende con i colleghi che hanno dato ragione a Salvini sull’allora dl Sicurezza, componenti di una cordata «pericolosissima». A prendere le difese di Salvini anche il suo ormai storico nemico Nicola Morra, grillino a capo della Commissione Antimafia. «Sono d’accordo con il senatore Salvini – ha detto intervenendo in aula, dopo l’informativa del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte -, è assolutamente inammissibile, seppure in chat private, che magistrati giudichino un ministro come è stato giudicato. Un magistrato è sempre parte di un corpo terzo, c’è pur sempre una distinzione netta tra poteri».

"Solita ipocrisia dei magistrati. Difendono solo i loro privilegi". L'ex pm: "Corporazione conservatrice che attacca chi chiede riforme liberali. La lottizzazione esiste da anni". Stefano Zurlo, Venerdì 22/05/2020 su Il Giornale.

Siamo alle solite.

«Solo che adesso i protagonisti delle intercettazioni sono i magistrati e questo crea grande imbarazzo. Scopriamo ora che anche dentro la corporazione togata c'è un alto tasso di ipocrisia».

Carlo Nordio, uno dei più noti pm d'Italia, oggi in pensione, ha letto i brani riportati dal quotidiano La verità: le manovre e le trame che Luca Palamara e altre toghe, poi risucchiate dall'inchiesta di Perugia, conducevano con grande disinvoltura.

Nordio, è stupito?

«Per niente. È da 25 anni che denuncio questo malcostume: la lottizzazione e gli scambi di favori fra le diverse correnti che convivono nell'Anm».

Palamara e gli altri decidevano chi far sedere su questa o quella poltrona.

«Lo sanno tutti che i meccanismi sono questi. Semplificando, potremmo dire che tutti trattavano con tutti».

Una pratica mortificante che imita il lato peggiore della politica?

«Intendiamoci: spesso per incarichi importanti vengono scelte persone di primissima qualità, tecnici del diritto di grande preparazione, ma si passa sempre o quasi attraverso mediazioni estenuanti e la stanza di compensazione delle correnti che sono ovunque. Specialmente al Csm».

Ma come se ne esce?

«Anche su questo versante è da un quarto di secolo che predico la soluzione più semplice: l'elezione per sorteggio dei membri del Csm».

Il sorteggio non svilirebbe la carica?

«L'obiezione è una colossale sciocchezza. Ovviamente non si sorteggerebbe il primo che passa per la strada, ma seguendo alcuni criteri ragionevoli».

Per esempio?

«Restringendo la rosa ai magistrati di Cassazione».

Torniamo alle intercettazioni.

«E mi faccia ripetere per l'ennesima volta che è una barbarie vedere sui giornali testi che dovrebbero rimanere segreti».

Ma così non si nasconde all'opinione pubblica quel che accade dietro le quinte?

«Eh no, così si ferma l'inciviltà. Questi brani sono selezionati senza alcun contraddittorio fra le parti, non ne conosciamo il contesto e non sappiamo nemmeno con che tono sono state pronunciate quelle parole. Si tratta di materiale carico di suggestioni, appetibile ma scivolosissimo. Quante volte abbiamo letto pagine che sembravano sentenze di condanna e invece erano il frutto di fraintendimenti, equivoci, errori grossolani».

Adesso ci imbattiamo in giudizi sorprendenti su Salvini. Ci volevano le microspie per venire a sapere che i pensieri delle toghe non sono poi così politicamente corretti come appaiono in pubblico?

«È la solita ipocrisia che alberga nella mia categoria. Nei congressi fuoco e fiamme, in privato un linguaggio assai diverso».

C'è di più. Auriemma aggiunge: «Non capisco cosa c'entri la procura di Agrigento», ma Palamara respinge la critica e detta la linea dura: «Hai ragione, ma bisogna attaccarlo».

«La magistratura è una corporazione conservatrice che attacca la politica, quasi sempre il centrodestra ma qualche volta pure il centrosinistra, quando la politica prova a eliminare o ridurre privilegi non giustificati e varare riforme liberali».

Qui c'è di mezzo anche un processo e un'accusa gravissima: sequestro di persona.

«Ho sempre sostenuto che quell'accusa non stava né in cielo né in terra e quel capo d'imputazione diventa ancora più incredibile oggi, dopo che il capo del governo ha sequestrato in casa sessanta milioni di italiani per il Coronavirus. Ma, naturalmente, non voglio nemmeno immaginare che qualcuno abbia puntato il dito contro Salvini in malafede: sarebbe un sacrilegio».

In conclusione, la giustizia ruzzola nella polvere delle intercettazioni ma il ministro resta in sella.

«Il centrodestra ha sbagliato bersaglio: le scarcerazioni dei boss sono opera dei magistrati di sorveglianza, non di Bonafede. Resta l'obbrobrio della prescrizione e la responsabilità politica della gestione scriteriata delle carceri».

Gli affari della magistratura, una piovra in stile Toga Nostra che avvelena la giustizia e offende la Costituzione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Maggio 2020. «La prima regola del Fight club è non parlare del Fight club», è vero. Ma quando il cronista ne viene a conoscenza è suo dovere parlarne. E allora va raccontato che quel geniaccio incorreggibile di Claudio Velardi, con la fondazione Ottimisti e Razionali, virus o non virus, va avanti organizzando incontri digitali riservati. A porte chiuse ma a mente aperta. Ieri si è tenuto quello per ragionare di giustizia, con Maria Elena Boschi che ha interloquito per due ore con un riservato parterre de rois. C’era con lei Lucia Annibali, deputata di Italia Viva che rappresenta il partito in commissione Giustizia alla Camera; l’avvocato Claudio Botti; Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali; Alberto Cisterna, Presidente della XIII sezione civile del Tribunale di Roma; il deputato di Forza Italia Enrico Costa; Franco Debenedetti, ineffabile opinion maker del pensiero lib-lab e graffiante editorialista; Giuseppe Fornari, Founding partner di Fornari & Associati; Andrea Ketoff, direttore generale di Assomineraria; lo storico Paolo Macry; il magistrato Andrea Mirenda; Enrico Napoletano Founder di Napoletano, Ficco & Partners; il deputato azzurro Antonio Palmieri; il presidente di Asja, Agostino Re Rebaudengo; il parlamentare di Forza Italia e avvocato Francesco Paolo Sisto, il Senior Vice President del Government Affairs di Leonardo, Michelangelo Suigo; il presidente del dipartimento Giustizia della Fondazione Luigi Einaudi, Pierantonio Zanettin; il presidente e Ad di Utopia, Giampiero Zurlo e infine il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti. A questi protagonisti del dibattito, che hanno incrociato le loro voci, ha fatto da moderatore il padrone di casa, Velardi. Punto di partenza, una analisi condivisa del pietoso stato in cui versa il sistema giustizia in Italia, alla vigilia della mozione di sfiducia verso il ministro più contestato nella storia di via Arenula, Alfonso Bonafede. La sua poltrona traballa e sarebbe già venuta giù, dopo gli innumerevoli scandali dell’ultimo anno, se a Bonafede (che è capo delegazione Cinque Stelle nell’esecutivo) non fosse legato mani e piedi il premier Conte e l’intero governo. Ed ecco che “Giustizia da rifare” mette insieme, in una tavola rotonda virtuale e riservata, ottantatré partecipanti. «Il tema della giustizia è una delle principali emergenze nazionali. Cosa si può fare per cambiare?», chiede Velardi ai convenuti. Occorrerebbe una rivoluzione in termini di competenze, e un ritorno alla legalità vera, quella prevaricata da un sistema che prende forma nel corto circuito dei magistrati che intercettano altri magistrati, corrompendo l’un l’altro nel tentativo di addossare capi di imputazione inesistenti a vittime che diventano colpevoli per un giro di interessi privati. E con un verminaio-Anm in cui trame, promozioni, esclusioni e affari pecuniari si sovrappongono del tutto a quella che dovrebbe essere la professione impermeabile per antonomasia. Un sistema tentacolare di potere, una piovra in stile Toga Nostra avvelena la giustizia e offende la Costituzione: proprio mentre l’incontro di “Giustizia da rifare” si riunisce, nell’anniversario della scomparsa di Enzo Tortora, pezzi di magistratura ne incarnano il titolo, in un profluvio di veleni sotterranei degni della penna di Sciascia. Il sistema giustizia non ha mai riscontrato tanta impopolarità nel Paese, con una gestione che tutti concordano essere fallimentare. Gian Domenico Caiazza si rivolge alla politica, ma fa qualche distinguo sul metodo della mozione di sfiducia individuale. «Non ho mai creduto nell’istituto della sfiducia personale, a meno che non sia accaduto un fatto gravissimo, eccezionale, che attenga a una condotta personale. Non riesco a capire nel caso di Bonafede come si possa distinguere tra le responsabilità del ministro e le responsabilità dell’intero governo. Non so come si possa distinguere nel giudizio l’operato del ministro da quello della maggioranza che lo sostiene. O discutiamo dell’intera politica in materia di giustizia del governo o non colgo il senso di discutere di Bonafede», dice il rappresentante degli avvocati. «Le mozioni di sfiducia sono due, di segno opposto e contrastante – ricorda Caiazza – che partono da ragionamenti diversi e in larga parte incompatibili. A me sembra un pasticcio, una vicenda parlamentare alla quale guardiamo con indifferenza e perplessità». Entrando nel merito «la mozione della Bonino, che condivido in ogni singola virgola, mette sotto accusa la politica di due anni del ministro, a partire da quella del governo precedente, condivisa dalla Lega. Sulla base del ragionamento della Bonino si deve dimettere tutto il governo, non il ministro, e questo vale anche, per diverse e contrapposte ragioni, per quella di Lega e Fratelli d’Italia, le cui conseguenze – conclude – dovrebbero pure essere le dimissioni dell’intero governo». «La macchina della giustizia non ce la fa», introduce Napoletano. Ma siamo alla ripresa dopo il lockdown, e l’amministrazione giudiziaria non riparte. Gli uffici non sono sanificati, il personale non è pronto. Neppure quel minimo sindacale che si dava per scontato, alla prova della riapertura, è presente. Claudio Botti: «Il comparto giustizia è stato molto malamente gestito durante la crisi Covid, un disastro totale. Il populismo giudiziario ha portato all’asfissia di sistema. La riforma della prescrizione è un suicidio, con i processi che iniziano e che non finiranno mai più. Smaterializzare i fascicoli non significa smaterializzare il processo penale». Francesco Paolo Sisto accusa il governo e il ministro Bonafede di «metodo di dolosa incompetenza. Diritto penale del consenso e non della ragione. La battaglia deve essere una battaglia di riappacificazione dei cittadini con la giustizia». Enrico Costa, responsabile del dipartimento giustizia di Forza Italia: «Il Decreto sulle intercettazioni ha modificato l’art. 114 del codice di procedura penale consentendo esplicitamente la pubblicizzazione del testo delle ordinanze di custodia cautelare», un assurdo. E poi affonda su Bonafede e su chi ne tenta una maldestra difesa, in maggioranza. «Il Pd è affetto dalla sindrome di Stoccolma verso chi da due anni ha messo sotto scacco il Parlamento con le sue norme giustizialiste. Un commovente sentimento di subordinazione politica nei confronti di Bonafede, che oggi i Dem esprimono attraverso una serie di minacce a coloro che in maggioranza fossero tentati di votare la sfiducia. Più il Guardasigilli li maltratta, più lo difendono. Tutte le posizioni sono legittime, ma almeno smettano di declamare i principi della giustizia liberale e del giusto processo». Per Alberto Cisterna sussiste un problema procedurale inaffrontato, con la riforma del processo penale da rifare. «Abbiamo un processo interamente scritto e uno totalmente orale». Andrea Mirenda, magistrato, prova a tracciare l’identikit del giudice “davvero imparziale, terzo, indipendente”. E parla di una «questione morale immensa in magistratura, legata alla questione delle nomine». Piero Tony, il magistrato che ha dato alle stampe Io non posso tacere, contro la gogna giudiziaria e gli eccessi di certi colleghi, invoca una riforma di sistema complessiva. Pierantonio Zanettin parla della “necessaria managerialità dei dirigenti”, provando a distinguere tra magistrati capaci e incapaci ed indicando i modelli che funzionano. Piero Sansonetti è netto: «C’è un attacco violentissimo in corso allo Stato di diritto. Bisognerà vedere chi vince e chi perde». In chiusura, è di nuovo la Boschi a prendere la parola per trarre la sintesi. «Bisogna scongiurare la possibile deriva verso il populismo: la durata irragionevole dei processi, l’invivibilità delle carceri, le misure populiste su prescrizione e intercettazioni ci dicono che è in gioco una grande battaglia di civiltà giuridica». Ma prima di salutare i convenuti, Boschi aggiunge: «Esiste un problema nella gestione del Ministero che è sotto gli occhi del mondo. Ma esiste anche una figura, quella del presidente del Consiglio, che è incaricato di armonizzare le posizioni e valorizzare anche la nostra posizione garantista». E proprio ieri nel tardo pomeriggio Boschi è entrata a Palazzo Chigi per incontrare Conte. Oggi in Senato la mozione che metterà in discussione Bonafede andrà in votazione a partire dalle 9.30. La discussione generale dovrebbe concludersi alle 11 e alle 11.05 è prevista la replica del ministro in diretta Rai. Quindi avranno luogo le dichiarazioni di voto, sempre in diretta Rai. Alla fine delle dichiarazioni di voto si svolgeranno le votazioni.

·         Magistrati alla sbarra.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 22 dicembre 2020. Una storia imbarazzante: un attico nel cuore di Milano a un prezzo di favore. Una macchia che ora costa a Ferdinando Esposito, pm a Milano prima di essere trasferito a Torino, l'espulsione dalla magistratura. Esposito junior, figlio di Antonio, presidente del collegio che aveva condannato Berlusconi in cassazione, era finito sotto processo per quella vicenda in cui le ragioni della professione erano state piegate alle pretese della vita privata. Giovedì scorso, la Disciplinare del Csm, presieduta dal vicepresidente David Ermini, affronta finalmente il caso, rinviato più volte, e dà a Esposito la sanzione più pesante: la rimozione dall'ordine giudiziario. Sulla carta l'ex pm di rito ambrosiano può ancora giocare la carta dell'appello per ribaltare quel verdetto. Si vedrà: il cartellino rosso è una pena molto rara nella faretra dei giudici disciplinari; di solito gli incolpati se la cavano con punizioni più modeste: l'ammonimento o la censura. Altre volte si infligge la perdita di anzianità e solo nelle situazioni più spinose si arriva alla misura estrema della radiazione. Questa volta però il tribunale delle toghe avrebbe agito seguendo un automatismo previsto dalla legge dopo una condanna penale, esattamente come quella che aveva colpito Esposito. I fatti risalgono al periodo compreso fra il 2012 e il 2014: Esposito avrebbe abusato dei suoi poteri facendo pesanti pressioni sull'imprenditore Michele Morenghi: così avrebbe avuto l'attico a due passi dal Duomo al prezzo di 32mila euro l'anno. Per spuntare una cifra così vantaggiosa, Esposito avrebbe fatto balenare a Morenghi possibili scenari catastrofici: «Nell'esercizio della propria attività» di pm «avrebbe potuto trovarsi a trattare procedimenti penali aventi ad oggetto» proprio l'integratore prodotto dalla Double di Morenghi. Di più, avrebbe potuto «procedere al suo sequestro», facendo capire a Morenghi «che all'interno della procura può capitare di tutto all'azienda con l'inchiesta sbagliata». E in effetti, Esposito lavorava all'epoca al VI dipartimento della Procura di Milano, quello che tratta, fra l'altro, i reati in materia alimentare e farmaceutica. Un cortocircuito perfetto, almeno nella prospettazione dell'accusa che aveva evidenziato le forzature e il comportamento disinvolto, ben oltre i confini della deontologia e del codice penale. In realtà, sul piano penale la querelle si è trascinata per molti anni, congelando di fatto anche il procedimento disciplinare. Due le contestazioni, ma una sola ha resistito alle sentenze e alla obiezioni di un iter giudiziario lungo e complesso: l'induzione a dare o promettere utilità, prevista dall'articolo 319 quater, introdotto con la riforma Severino. Così, la pena, fissata in prima battuta a 2 anni e 4 mesi, si è via via ridimensionata fino a scendere a 10 mesi e 20 giorni. Poco, molto meno di quanto stabilito in primo grado, ma sufficiente per dover passare dalle forche caudine della Disciplinare. E qui si è chiusa bruscamente la carriera del magistrato amico di Nicole Minetti, l'igienista dentale al centro dell'inchiesta su Ruby e le cene eleganti ad Arcore. A complicare le cose, dunque, la notorietà del personaggio e l'appartenenza ad una famiglia assai nota nella corporazione togata: lo zio Vitaliano è stato fino al 2012 procuratore generale della Cassazione; il padre Antonio, invece proprio nel 2013 presiede in Cassazione il collegio della sezione feriale che condanna il Cavaliere per frode fiscale. Il Paese è spaccato, le polemiche divampano e salgono ancora quando Esposito senior anticipa le motivazioni del verdetto, ancora da scrivere, in un'intervista al Mattino. Passano gli anni. Antonio va in pensione, sempre inseguito dalle rivelazioni su quella sentenza che aveva messo fuori gioco il Cavaliere; il processo disciplinare del figlio è sempre bloccato, nell'interminabile rimpallo di quello penale. Poi la sentenza diventa definitiva e giovedì tocca alla Disciplinare che stabilisce la pena massima. In realtà, un secondo filone è ancora aperto e la Disciplinare dovrebbe trattarlo nei prossimi mesi. Quasi scontato l'appello di Esposito junior alle sezioni unite civili: una mossa che potrebbe fermare, almeno per ora, la sua uscita di scena.

Estratto dell’articolo di “Alto Adige” pubblicato da “la Verità” il 7 novembre 2020. Un magistrato di Bolzano è finito indagato per un passaggio di 1 chilometro su un'auto dei carabinieri. Il pm, Cuno Tarfusser, ex procuratore capo, doveva andare a un pranzo con il sindaco Renzo Caramaschi (Pd) il 29 dicembre 2017 al ristorante Da zio Alfonso a Bolzano per gli auguri di Capodanno. Due carabinieri, storici agenti di polizia giudiziaria, hanno preso a bordo il primo cittadino e il procuratore sull'auto di servizio, una Fiat Punto, sulla quale Caramaschi e Tarfusser hanno percorso circa 1 chilometro. L'inchiesta della Procura di Bolzano è durata 2 anni e mezzo con l'accusa di peculato d'uso in concorso e si è chiusa con la richiesta di archiviazione per «tenuità del fatto». Ma Tarfusser, che è stato anche giudice all'Aja e ora è alla Procura di Milano, ha fatto opposizione chiedendo invece l'archiviazione perché il fatto non costituisce reato.   

Caso Palamara, inizia il processo alla magistratura italiana. Errico Novi Il Dubbio il 15 Settembre 2020. Inizia oggi pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm il processo dell’anno alla magistratura. Anzi, come scriveva ieri la Stampa, la “Norimberga” togata. Sul banco degli imputati Luca Palamara, ex presidente Anm e per anni potente leader della corrente di centro Unicost. Inizia oggi pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm il processo dell’anno alla magistratura. Anzi, come scriveva ieri la Stampa, la “Norimberga” togata. Sul banco degli imputati Luca Palamara, ex presidente Anm e per anni potente leader della corrente di centro Unicost. Con lui, se il collegio dovesse riunire i procedimenti, anche i cinque ex consiglieri del Csm che parteciparono a maggio 2019 all’incontro con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, in cui si discusse di nomine di importanti uffici giudiziari. Fra tutti, la Procura di Roma. La posizione di Ferri in quanto parlamentare è al momento al vaglio delle Sezioni unite della Cassazione. Dall’udienza di oggi si dovrebbe dunque capire quale “linea” prenderà il Csm in questa vicenda che ha terremotato la magistratura e che continua, con la costante pubblicazione dei messaggini inviati a Palamara dai colleghi, a riservare sorprese. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, è intenzionato a chiedere il congelamento del processo fino a quando non sarà entrato in carica il prossimo Csm. Quindi fino al 2022. Gli attuali giudici sarebbero troppo coinvolti nell’accaduto, dovendo giudicare coloro che fino al giorno prima erano stati compagni di banco all’interno della sala Bachelet di piazza Indipendenza. Il secondo punto delle difese riguarda l’utilizzabilità delle intercettazioni. Tutte le accuse che sono state mosse dalla Procura generale della Cassazione a Palamara — ad iniziare dal tentativo di discredito nei confronti dell’allora procuratore Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo — e ai cinque ex consiglieri, si basano essenzialmente su quanto carpito tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex numero uno dell’Anm. Sul punto va ricordato che il trojan era stato inserito dai magistrati di Perugia per scoprire la tangente di 40mila euro che sarebbe stata data da alcuni faccendieri a Palamara affinché nominasse Giancarlo Longo procuratore di Gela. Tale accusa però è venuta meno. Sono stati gli stessi pm umbri al momento della notifica della chiusura delle indagini a togliere l’imputazione. Le captazioni con i parlamentari, sottolineano le difese, non erano affatto casuali. Palamara prendeva sempre appuntamento prima di incontrare Ferri. La Procura generale è di diverso avviso e ha chiamato a testimoniare i finanzieri che hanno proceduto all’ascolto. Il punto nodale, in caso questi scogli tecnici venissero superati, è quindi la lista testi. Palamara, in particolare, ha presentato una maxi lista di circa 130 testimoni. Fra questi, politici, capi di correnti, parlamentari, ex vicepresidenti del Csm. La difesa ha però già fatto sapere che valuterà uno "sfoltimento". I tanti testi di Palamara si spiegano in un solo modo: da sempre i consiglieri del Csm avevano interlocuzioni con esponenti politici e capi delle correnti per le nomine. Il sistema Palamara sarebbe allora sempre esistito. Se la disciplinare effettuerà dei tagli consistenti, è chiaro che la linea difensiva di Palamara andrà rivista. Il processo si apre in un clima sempre più incandescente. La scorsa settimana le dimissioni a sorpresa del togato Marco Mancinetti, esponente di Unicost, ora sotto disciplinare proprio a causa della chat con Palamara. E poi la mai sopita querelle sulla cessazione dal servizio di Piercamillo Davigo. Il 20 ottobre il magistrato compirà settant’anni, età massima consentita prima della pensione. Davigo, a quanto sembra, intenderebbe rimanere, giacché il mandato di consigliere scade fra due anni.

Sul fronte associativo, infine, va segnalata la presentazione di una nuova lista per le prossime elezioni in programma a ottobre per il rinnovo dell’Anm. Si chiama “Articolo 101”. Fra i cavalli di battaglia, il sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm, la rotazione degli incarichi, la massima attenzione alla “questione morale” in magistratura.

Il monito. Il Csm diventa sovranista e la politica se ne frega. Luigi Compagna su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Se non la storia, almeno la cronaca, si sperava imponesse, dopo l’emergere del caso (o meglio del sistema) Palamara, una nuova composizione del Consiglio superiore della Magistratura. Benché riformisti a parole, nei fatti i partiti di maggioranza non hanno voluto che fosse così. Ci si affida a una sorta di sovranismo del Csm e ad un “autogoverno” insensibile a ogni profilo di garanzie costituzionali. Il Csm ha fretta di chiudere fra le mura domestiche ogni questione evocata dal cosiddetto caso Palamara. Il Parlamento non ha nessuna intenzione di affrontarne le implicazioni. Eppure mai come ora l’organismo è parso tanto indegno della presidenza del Capo dello Stato. Il procedimento fulmineo – e se possibile senza testimoni – che in queste settimane il Csm vorrebbe praticare sembra ispirato pregiudizialmente a tutela di quei colleghi di Palamara che con lui amavano pronunciarsi sugli incarichi di vertice della magistratura italiana. Insomma, la corporazione prima di tutto, poi la Costituzione! Il che (lo ha ricordato Paolo Mieli sul Corriere della Sera dell’altro ieri) ha finito con l’incastrare il procedimento di Palamara perfino nell’enigma del pensionamento di Piercamillo Davigo. Tutto in questa vicenda sembra miserabile, soprattutto senza alcuna considerazione della priorità del dettato costituzionale sulla legislazione ordinaria. Certo la commistione con la politica si era già fatta esplicita da tempo. E proprio grazie e in seno al Csm. Si pensi alle correnti dell’Associazione nazionale magistrati e al divenire di tali correnti il collettore principale dell’elezione al Consiglio superiore. Invano alla Costituente Piero Calamandrei e Giovanni Leone, ma non solo loro, avevano insistito sui rischi di un Csm fondamentalmente corporativo. La preoccupazione di un “corpo chiuso e ribelle” evocata allora da Calamandrei avrebbe dovuto implicare il venir meno di quell’assurda pretesa di garantire all’ordine giudiziario la maggioranza dei due terzi dei componenti del Consiglio. Nel 2004 in Senato, insieme all’amico Antonio Del Pennino, proponemmo come modello di composizione per il Csm quello previsto per la Corte costituzionale, con un terzo dei componenti eletto fra tutti i magistrati, un terzo dal Parlamento fra professori ordinari in materia giuridica e avvocati, e un terzo nominato dal Presidente della Repubblica, sia tra coloro che fossero eleggibili dal parlamento, sia tra i magistrati ordinari. Quel che si è andato affermando è un mondo in cui il diritto si muove lontano dalla legislazione, ancorato all’arbitrio della giurisdizione. Non più mero lettore, ma vero e proprio creatore della norma, il magistrato tende ormai a sentirsi “giudice”, forte di straordinarie condizioni di indipendenza e assenza di controlli del suo operato e delle sue responsabilità. Dentro e fuori il vincolo professionale si è diffusa l’idea che la magistratura possa farsi Stato da sé e guardando a sé. La scelta del Csm di risolvere esso stesso, il più presto possibile, le questioni legate alla vicenda Palamara, e quindi negandole, si commenta da sola. Ma l’abdicazione in materia di Governo e Parlamento rende fin troppo onore al “sovranismo” del Csm.

Amnistia per tutti i magistrati. La Cassazione salva i raccomandati di Palamara: era “autopromozione”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Settembre 2020. C’è una circolare della Procura generale della Corte di Cassazione – dunque una solennissima circolare – che stabilisce che per un magistrato chiedere una raccomandazione a Palamara non è reato. Non è neanche illecito disciplinare. È semplice “autopromozione”. Si chiama così. Se ho capito bene “autopromozione”, per i magistrati, equivale a quello che per i politici viene definito “traffico di influenze” (dai 1 anno a 4 anni e mezzo di prigione) o addirittura corruzione (dai 4 ai 10 anni). L’autopromozione però non è a doppio senso: non è reato per chi dovesse chiedere e ottenere un favore da Palamara (e diventare Procuratore o Aggiunto o presidente di tribunale), è reato invece per Palamara che riceve e accoglie o respinge l’autopromozione. Come conseguenza di questa circolare, il processo a Palamara dovrà svolgersi – come si sta svolgendo – evitando le indagini, dal momento che i reati e gli illeciti non esistono, o comunque sono cancellati dall’Amnistia-Salvi. Il processo deve limitarsi a proclamare la condanna di Palamara e il suo allontanamento dalla magistratura. In Italia, nel passato – prima che fosse approvata la riforma costituzionale del 1993 che praticamente le ha impedite – ci sono state molte amnistie. In genere però erano provvedimenti di clemenza erga omnes, come si dice in latino, cioè che riguardavano tutti gli imputati, non solo una categoria. L’unica amnistia “parziale” che si ricordi è quella molto famosa del 1946, scritta e curata dal ministero della Giustizia dell’epoca che si chiamava Palmiro Togliatti ed era il capo del Pci: amnistiò i fascisti. Fu un gesto clamoroso e servì a ricostruire un clima di riconciliazione, dopo la guerra civile. I fascisti però, prima di essere amnistiati, furono sconfitti (alcuni di loro anche fucilati). I magistrati invece ottengono una amnistia da eterni vincitori. Chi è stato sconfitto sono i cittadini: gli imputati. Quando si dice “amnistia tombale” si intende questa cosa qui: nella tomba ci finiscono gli imputati.

Colpo di spugna del Pg. Palamara unico colpevole, amnistia per chi gli chiedeva (e otteneva) poltrone e favori. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Settembre 2020. È arrivata “l’amnistia”. Solo, però, per i magistrati che chattavano con Luca Palamara alla ricerca di una nomina o di un incarico. Ne dà notizia il sito toghe.blogspot.com, la piattaforma creata dai magistrati “non correntizzati”, che ha pubblicato i passaggi salienti delle linee guida redatte dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per la verifica di eventuali profili disciplinari a carico dei colleghi “chattatori”. Le toghe che hanno intasato di messaggi il telefonino dell’ex presidente dell’Anm da questa settimana, dunque, possono dormire sonni tranquilli. Tutti perdonati ad iniziare, per esempio, dal pm Marco Mescolini che per perorare la sua nomina a procuratore di Reggio Emilia chiamava Palamara “il re di Roma”. La scriminante è rappresentata dall’attività di “self marketing”, cioè l’autosponsorizzazione del magistrato con i consiglieri del Csm. «L’attività di autopromozione – scrive Salvi – effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari». Il motivo, sempre secondo Salvi, sarebbe dovuto al fatto che l’attività di self marketing «non essendo ‘gravemente scorretta’ nei confronti di altri è in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari». Nessuna punizione, neppure un “buffetto”, per il magistrato “petulante” a caccia di raccomandazioni. Anzi, un bel colpo di spugna sulla montagna di chat che hanno creato in questi mesi più di un imbarazzo. Dal momento che la Procura generale è l’ufficio che condivide col ministro della Giustizia l’iniziativa disciplinare, vale a dire l’esercizio dell’accusa, sarebbe da accogliere con favore “l’anelito garantista”, commentano le toghe sul blog, stigmatizzando il fatto che Salvi abbia voluto lanciare un “salvagente” a tutti i magistrati chattatori che per perorare i propri meriti si erano rivolti direttamente al consigliere amico, piuttosto che affidarsi solo al proprio cv. Vale la pena ricordare che i comuni cittadini quando vengono sorpresi a brigare con l’assessore o col direttore di turno finiscono direttamente al gabbio. Secondo “l’indulgente” procuratore generale, il self marketing rientrerebbe nel necessario bagaglio professionale di ogni magistrato aspirante ad un incarico direttivo: se lo fa il collega allora anche il competitore è legittimato a farlo, anzi deve. Il richiamo al “vantaggio elettorale” sarebbe improprio in quanto il consigliere destinatario delle pressioni non è rieleggibile. «Quel vincolo elettorale, semmai, proviene dal passato e l’auto-promozione del petulante è legittimata da un patto precedentemente sancito, espressione di un sistema che, v’è da credere, ne esce incredibilmente rafforzato», puntualizzano sul blog. «È una scorrettezza gravissima – aggiungono – specialmente se riferita ad un magistrato. Ed è anche violazione di specifiche regole di condotta implicite nella regolamentazione dei concorsi». Quale sarà, allora, il destino dei magistrati «che conformemente alla disciplina si limitano a presentare la domanda e si astengono dal sollecitare rapporti diretti ed amicali con la commissione esaminatrice?». Se i petulanti magistrati devono essere assolti, perché allora condannare Palamara che raccoglieva le premure? La domanda è d’obbligo dopo aver letto la nota di Salvi. Ed a proposito di Palamara, ieri sono stati sentiti al Csm i finanzieri, ad iniziare dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, ex comandante del Gico di Roma, che hanno condotto le indagini nei suoi confronti. Abbiamo eseguito gli ordini, hanno detto in coro, prendendo le “distanze” dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano titolari del fascicolo. Furono i pm a voler inserire il trojan nel telefono di Palamara, hanno ricordato. «Palamara era il referente di tantissimi magistrati da Palermo a Milano in tema di nomine», ha detto in particolare Mastrodomenico, sottolineando che ai pm umbri vennero inviate, senza fare alcuna selezione, tutte le conversazioni intercettate fra l’ex presidente dell’Anm ed i colleghi. «Erano conversazioni che non c’entravano nulla con il capo d’imputazione a carico di Palamara», ha aggiunto il colonnello. Ma i pm le vollero ascoltare lo stesso.

L'insabbiamento di Magistratopoli. Magistratopoli, tutto insabbiato: paga solo Palamara, i Pm non ammettono le loro colpe. Alberto Cisterna su Il Riformista il 24 Settembre 2020. La parabola associativa di Luca Palamara si è conclusa con un voto plebiscitario. L’Assemblea plenaria delle toghe ha confermato l’espulsione del proprio ex presidente più illustre e famoso con 111 voti a favore e uno solo contro. Nulla di inatteso. In questi giorni la decapitazione associativa della toga era stata data come inevitabile e a nulla è, infatti, servito il discorso – dicono a braccio – con cui il dottor Palamara ha tentato di convincere i propri colleghi a ribaltare il voto. Un giudizio, quello invocato innanzi alla base associativa della magistratura italiana, che tuttavia in principio non doveva essere apparso come inutile o scontato all’ex presidente il quale, fino a un certo punto, avrà anche pensato che le toghe fossero disposte a riconoscere – addirittura collettivamente e pubblicamente – la condizione della magistratura italiana e delle carriere dentro di essa. Non sapremo mai in quale momento questa speranza è svanita e quando si è fatta strada la lucida consapevolezza che nessuno avrebbe potuto fargli scampare la ghigliottina associativa. Non sapremo mai quando gli ultimi tentativi di chiamare alla conta i propri fedelissimi e proni clientes di un tempo (il voto assembleare era aperto a tutti i circa 9.000 iscritti all’Anm) sono andati incontro a un fallimento totale e quando il dottor Palamara si è reso conto del terribile vuoto e della sua completa solitudine tra le fila, prima in larga misura inneggianti e plaudenti, della magistratura italiana. La parabola umana è identica a tante altre e per questo non sarebbe il caso di spargere troppe lacrime sul corpo nudo del re deposto. Se non fosse. Se non fosse per quel voto solitario e anonimo che, in una arena totalmente ostile, si è espresso contro quella espulsione in un rigurgito non sapremo mai, ancora una volta, se di amicizia o di riconoscenza o di semplice solidarietà umana. Un voto contro 111. Poco, troppo poco alla luce del vasto consenso che circondava Palamara prima di commettere l’errore di impicciarsi di una nomina pesante senza aver capito che aveva impugnato il coltello dalla parte della lama. Molto, tuttavia, se si pensa a ciò che quel voto porta con sé; se si ragiona sulla possibilità che tanti voltagabbana e tanti muti spettatori di questa vicenda hanno di identificarsi in quel singolo voto che li scagiona e ne alleggerisce le colpe. Un voto contro, dietro e dentro il quale ciascuno potrà cercare la propria giustificazione e rivestire la propria indulgente assoluzione. Appare chiaro che il dottor Palamara non ci pensava proprio a portare sul banco degli imputati il sistema i cui riti ha officiato al massimo livello, sperava piuttosto che il sistema – seduto sullo scranno del giudice – l’avrebbe perdonato e si sarebbe mostrato indulgente. Si era illuso che il sistema ammettesse spudoratamente la propria esistenza e si consegnasse, così, alla furia riformatrice dei propri detrattori. Quindi è vero, a occhio e croce, che la toga espulsa non voleva e non vuole alcuna Norimberga o alcuna purga collettiva, la cornice resta forse più modesta: appellandosi al voto segreto dei propri pari c’era la speranza che i tanti anni di militanza e di esercizio massiccio del potere generassero un moto di vicinanza, se non di riconoscenza. Quanto bastava per una riabilitazione politica prima di un giudizio disciplinare ampiamente in salita e sin troppo scontato nei suoi esiti stando a quel che si legge ogni giorno. Perso il giudizio politico, compromesso quello disciplinare, resta l’ultima istanza del processo penale a Perugia. Un circuito interamente in mano alle toghe italiane con i propri difetti, ma anche con i propri grandi meriti, per fortuna del dottor Palamara. I magistrati di Perugia hanno coraggiosamente scoperchiato il pentolone ribollente e putrido del carrierismo e degli agguati che troppe volte ne hanno macchiato le sorti. In aula non ci sarà il sistema, ma come nella caverna di Platone se ne scorgeranno le ombre. Poco, ma meglio di niente.

Vietato interrogare i magistrati per salvare il sistema. Il CSM mette il bavaglio a Palamara: cancellati 127 testimoni, l’ex presidente Anm deve essere unico capro espiatorio. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Settembre 2020. Al Consiglio superiore della magistratura i testi della difesa non sono graditi. Come previsto dal Riformista già lo scorso 15 luglio, è stata integralmente cestinata la lista dei 133 testimoni di Luca Palamara. Il collegio della sezione disciplinare, che sta processando l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, li ha ritenuti irrilevanti e non attinenti agli episodi oggetto delle contestazioni. Palamara, si ricorderà, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzare le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrando a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm. Il magistrato romano, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da oltre un anno, aveva chiamato a testimoniare ministri, ex presidenti della Corte costituzionale, procuratori, politici, ed anche i due più stretti collaboratori di Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Nelle intenzioni di Palamara costoro avrebbero dovuto raccontare il modo in cui le correnti della magistratura si spartiscono a Palazzo dei Marescialli le nomine e gli incarichi. Una prassi risalente nel tempo che “giustificherebbe”, quindi, l’incontro in questione. Testimonianze scomode che il Csm ha preferito non sentire. Troppo alto il rischio che gli italiani venissero a conoscenza del fatto che l’Organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal Capo dello Stato, sia in balia di associazioni di carattere privato. Molto meglio continuare a credere che gli incarichi vengano dati ai migliori. Ammessi, dunque, su richiesta della Procura generale della Cassazione, solo i finanzieri del Gico della guardia di finanza che hanno svolto le indagini a carico di Palamara su delega della Procura di Perugia. Il primo a testimoniare sarà il generale Gerardo Mastrodomenico, ufficiale molto stimato all’epoca proprio dal procuratore Pignatone. Gli accordi fra politici e magistrati ci sarebbero stati, a detta di Palamara, anche per la scelta del vice presidente del Csm. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarderebbe l’attuale numero due di Palazzo dei Marescialli, David Ermini (Pd). Palamara, esponente di punta della corrente centrista della magistratura e ras indiscusso delle nomine al Csm, nel 2018 aveva rotto lo storico patto con la sinistra giudiziaria per allearsi con le toghe di destra di Magistratura indipendente, di cui Ferri era il leader ombra. Ermini venne preferito all’avvocato milanese Alessio Lanzi di Forza Italia dopo una cena a casa di Giuseppe Fanfani, ex consigliere laico del Csm e vicino a Maria Elena Boschi. La sinistra giudiziaria, invece, aveva fatto accordi con i grillini, e quindi con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e avrebbe voluto come vice di Mattarella il professore pentastellato Alberto Maria Benedetti. L’alleanza fra la sinistra giudiziaria e Bonafede si è intensificata nell’ultimo periodo. Sarà una coincidenza ma attualmente i dirigenti di via Arenula, ad iniziare dal capo di gabinetto e per finire al capo del Dap, sono tutti esponenti dei gruppi progressisti della magistratura. E sono di Magistratura democratica anche il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, ha molto insistito, allora, sull’esistenza da anni degli accordi fra le correnti della magistratura e la politica. Per supportare tale assunto, ha citato anche un’intervista al Foglio del 2016, mai smentita, dell’ex consigliere del Csm Giorgio Morosini, toga di Md. «La politica entra (al Csm) da tutte le parti. Sponsorizzazioni da politici, liberi professionisti, imprenditori: mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto», disse Morosini, confermando quindi anni prima la tesi di Guizzi. Ma oltre alla discussione sui testi, ieri è stato affrontato anche il tema dell’ammissibilità delle intercettazioni effettuate nei confronti di Palamara con il trojan, relative all’incontro di maggio, su cui si basa il procedimento disciplinare. L’utilizzo del trojan da parte della guardia di finanza, ha affermato Guizzi, era dettato «dalla necessità di monitorare le discussioni sulle future nomine di uffici direttivi tra Palamara e Ferri». Perché la finanza sentisse questa “necessità”, in una indagine per corruzione a carico di Palamara, resta un mistero.

Non solo Il Riformista. Paolo Mieli sul Corriere rompe il silenzio su Palamaragate e caso Davigo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Settembre 2020. Il Corriere della Sera ieri ha pubblicato un articolo di fondo – come si diceva una volta – di Paolo Mieli che risulta una frustata in faccia alla magistratura e al suo sistema di potere. Mieli si occupa del caso Palamara e poi del caso Davigo, e racconta di come la magistratura italiana abbia deciso di respingere l’occasione per rimettersi in discussione, e per autoriformarsi, e di come un’icona della magistratura d’assalto, qual è Davigo, al momento sia all’assalto solo della sua propria poltrona di consigliere del Csm. Naturalmente in questo riassunto che ho fatto dell’articolo c’è un pochino di mia interpretazione. Ma non tanta, e non c’è forzatura. Mieli ripercorre tutte le tappe del caso-Palamara, fino al processo davanti al Csm che si è aperto nei giorni scorsi, in modo molto oggettivo e rigoroso; descrive il rifiuto del Csm di ascoltare i testimoni chiesti da Palamara a sua difesa, perché ritenuti imbarazzanti per l’istituzione magistratura; e poi racconta della decisione di Piercamillo Davigo di opporsi al proprio pensionamento (previsto dalla legge) e di come questa decisione abbia comunque costretto il Csm a stringere al massimo i tempi del processo contro Palamara in modo da concludere prima che Davigo compia i 70 anni. (Non era ancora mai successo nella storia dei processi, almeno nel dopoguerra, che un processo qualsiasi dovesse concludersi necessariamente prima del compleanno di un giudice, così come non era mai successo che i giudici fossero possibili testimoni). L’articolo di Mieli costituisce una assoluta novità. Pone fine al silenzio omertoso dei grandi giornali di fronte allo scandalo clamoroso di magistratopoli. Certo, è solo un piccolo articolo (per la verità ce n’era stato già uno un paio di mesi fa, sempre di Mieli, ma meno esplicito), e però è firmato da uno dei nomi più prestigiosi tra quelli dei collaboratori del giornale e comunque rompe, almeno per un giorno, la congiura del silenzio. Fino a oggi i giornali italiani sono stati tutti allineati e coperti e hanno rispettato l’ordine di scuderia impartito dal partito dei Pm, e cioè l’ordine di ignorare lo scandalo. In questa direzione hanno marciato compatti, senza neanche un piccolo scarto, dietro il capofila, e cioè il Fatto di Travaglio. Anche la politica è stata piuttosto silenziosa. Con l’eccezione – timida, ma pur sempre eccezione – di un paio di interventi del presidente della Repubblica. Il Presidente aveva chiesto rigore nel processo, aveva raccomandato di non guardare in faccia a nessuno. Non è stato ascoltato. Forse ci ha ripensato. Anche il Procuratore generale della Cassazione aveva fatto questa raccomandazione. Poi, quando siamo arrivati al dunque, è passata la consegna del silenzio. Diceva il Conte zio: “Sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire…”. E questa frase ora la ripetono tutti ai vertici della magistratura. Rivolti al reverendo Csm. Dicono: risolviamo il caso Palamara e chiudiamo prima che emerga in tutta la sua evidenza il metodo illegale e feudale con il quale la magistratura gestisce il potere al suo interno, condizionando in modo pesante la scelta degli incarichi direttivi, e talvolta predeterminando le stesse sentenze. Forse questo di magistratopoli è lo scandalo più grave della storia della Repubblica. A differenza di tutti gli altri scandali però è coperto dalla stampa. L’uscita coraggiosa, anche se molto solitaria, di Paolo Mieli, vuol dire che l’omertà è rotta? O Mieli, come talvolta gli accade, è e resta una rara avis, e la stampa italiana continuerà ad essere, più o meno, una adunata di funzionari direttamente dipendenti del partito dei Pm? P.S. Come riferisce nell’articolo il nostro Paolo Comi, la magistratura italiana è andata a votare e ha deciso l’epulsione dall’Anm (Associazione nazionale magistrati) del reprobo Palamara. La magistratura ormai sembra tutta presa solo da questo problema: allontanare il più possibile Luca Palamara da se stessa. Affermare l’idea che il metodo della manovra per gestire la macchina della giustizia fosse una cosa che riguardava solo e strettamente Palamara. È triste tutto questo. Un po’ meno triste quando scopriamo che su circa 9000 aventi diritto hanno partecipato a questa votazione 110 magistrati. Gli altri 8mila e 890? Da una parte ci consola l’idea che il partito dei Pm, alla fine, controlli poco più di un centinaio di persone. Vuol dire che, in fondo, la magistratura è piena di gente normale e per bene. Ci atterrisce però l’altra idea: che queste cento o duecento persone siano in grado di dominare l’intera magistratura, di condizionarla, di modellarla, senza che i loro colleghi si ribellino.

Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2020. In principio fu, la sera dell'8 maggio 2019, un incontro malandrino all'Hotel Champagne di Roma. C'erano cinque magistrati che, assieme ai deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, discussero in modo probabilmente improprio di nomine ai vertici di importanti procure. Di lì in poi un curioso trojan - che intercettava con modalità intermittenti - mise agli atti una gran quantità di altrettanto impropri scambi d'opinione, tra Palamara e altri suoi amici togati. Ne nacque una tempesta. Oltre un terzo dei consiglieri del Csm dovette lasciare l'incarico allorché furono riconosciute le loro voci captate dal trojan. Alcuni, non identificati, tremano tuttora. Ascoltate le registrazioni, il magistrato Nino Di Matteo disse che quel modo di trattare sottobanco l'affidamento di incarichi gli ricordava i «metodi mafiosi». Un suo collega, Giuseppe Cascini, osservò che mercanteggiamenti del genere gli facevano tornare alla mente «i tempi della P2». Sembrava fosse giunta l'ora del giudizio universale. Ma siamo pur sempre in Italia e, a poco a poco, abbiamo dovuto arrenderci alla costatazione che si è proceduto (e si procederà) alla maniera di sempre. E che a pagare il conto per quei tramestii sarà il solo Luca Palamara ex potentissimo capo dell'Associazione nazionale magistrati, ora abbandonato da tutti (quantomeno dagli ex colleghi). Per quel che riguarda poi l'annunciata riforma di purificazione della magistratura che, dopo la scoperta di quel verminaio, sembrava improcrastinabile - pulizia che fu sollecitata in più occasioni persino dal Capo dello Stato - se ne sono perse le tracce. Nel procedere contro Palamara gli ex colleghi del Csm per un bel po' di tempo se la sono presa comoda. Più che comoda. Adesso invece, all'improvviso, mostrano di aver fretta e di voler giungere rapidissimamente alla sentenza che segnerà la conclusione del procedimento disciplinare contro di lui. Si tratterà quasi sicuramente di un verdetto di condanna che porterà, con identica probabilità, alla espulsione di Palamara all'ordine giudiziario. Allo stesso modo con cui lo stesso Palamara è stato cacciato dall'Associazione nazionale magistrati. Palamara, per difendersi, avrebbe voluto poter provare che non era il solo a compiere quel genere di manovre. In effetti ancora oggi non è chiaro dove si collochino i confini tra l'operato suo e quello dei suoi colleghi (quantomeno una parte di loro). Possibile che Palamara decidesse da solo gli incarichi delle procure di mezza Italia? E che il suo modo di trattare con i vertici della politica fosse sconosciuto agli altri magistrati? Palamara ritiene di poter dimostrare che tutti (o quasi) sapevano e si comportavano come lui. Sarebbe stato interessante poter assistere a una pubblica discussione su questi temi, avendo a disposizione il tempo necessario ad ascoltare un consistente numero di testimoni qualificati. Qui però si è fortuitamente inserito il «caso Davigo». Che c'entra Davigo? L'ex pm di Mani pulite, dal 2018 consigliere del Csm, è entrato a far parte del collegio disciplinare che si occupa del caso in questione. Ma il 20 ottobre prossimo Davigo compirà settant' anni e, a norma di legge, quel giorno stesso dovrebbe essere collocato a riposo. Lasciando anche il Csm? Neanche per idea, è la sua risposta: il posto che si è conquistato al Csm ha una durata di quattro anni, perciò- pensione o non pensione- lui ha intenzione di restare in carica fino al 2022. La corrente di sinistra «Magistratura democratica» - per voce di un suo rappresentante, Nello Rossi - ha criticato la posizione di Davigo. Critiche a cui Davigo ha risposto con un'alzata di spalle: è vero - ha riconosciuto - che il magistrato deve essere «in funzione» nel momento in cui è eletto al Csm, ma - ha poi aggiunto - non è detto da nessuna parte che se, dopo qualche tempo, va in pensione, debba contestualmente rinunciare alla carica conquistata. Rossi e quelli di Md gli hanno fatto osservare che nel caso «da ex» commettesse scorrettezze, non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare. Ma nessuno ai vertici del Csm ha raccolto queste obiezioni. Certo, è curioso che un caso del genere si affacci - per la prima volta nella storia della magistratura italiana - proprio adesso. Tra l'altro che potesse sorgere questa complicazione non era imprevedibile: il dottor Davigo nel momento in cui è entrato nell'organismo ristretto che si occupa di Palamara era evidentemente a conoscenza del fatto che il prossimo 20 ottobre avrebbe compiuto settant' anni talché, come tutti i suoi colleghi, sarebbe stato collocato a riposo. Considerati i pro e i contro di questo singolare intrico, avrebbe potuto cedere il passo a un collega con meno anni di lui e in questo modo il problema non si sarebbe neanche posto. Ma, evidentemente, Davigo ha preferito essere presente di persona a Palazzo dei Marescialli in questo delicato frangente della vita della magistratura italiana. Desidera poter assistere direttamente al confronto con Palamara. Ed essere tra coloro che valuteranno le decisioni da assumere contro di lui. Anche a costo di sfidare la «legge dell'età». A questo punto però si pone un problema. Palamara, che tra l'altro aveva cercato (senza successo) di portare Davigo sul banco dei testimoni, potrebbe approfittare di questo garbuglio per provare a mandare gambe all'aria l'intero procedimento a suo carico sollevando, dopo il 20 ottobre, eccezioni sulla presenza tra i suoi «giudici» dell'ex pm di Mani pulite. Ed ecco che allora si è escogitata una soluzione. L'uomo della cena all'Hotel Champagne - dopo essere rimasto a bagnomaria per un anno e mezzo - verrà adesso giudicato in un lampo. Veloci, veloci, veloci. Si cercherà di giungere alla sua più che probabile decapitazione prima che sia scoccata l'ora del compleanno di Davigo. Non c'è spazio per i centotrenta testimoni di cui Palamara aveva chiesto la convocazione. Del resto gli erano già stati negati quasi tutti, diciamo pure tutti (almeno per quel che riguarda magistrati). Il processo interno al Csm deve essere rapidissimo. Gli altri magistrati pizzicati dal trojan, verranno «trattati» in tempi successivi quando ormai nessuno presterà più attenzione a questa torbida storia. Spiace che le cose siano andate in questo modo. Ci sono procedimenti giudiziari in cui il dibattimento vale davvero molto e un'accurata, attenta escussione dei testi conta forse più della sentenza finale. E questo è uno di quei casi. Va detto infine che non è un bene venga emessa una dura sentenza anche contro il peggiore dei presunti malfattori, senza che gli sia stata data la possibilità di difendersi. In particolar modo quando l'imputato appare condannato in partenza. Va infine aggiunto che con questo genere di procedimento, fulmineo e senza testimoni, ci toccherà rinunciare a capire se c'erano - e, nel caso, chi erano - i colleghi di Palamara che, assieme a lui e a qualche parlamentare, decidevano irritualmente gli incarichi apicali della magistratura italiana. Peccato. Certo, contro Palamara ci saranno altri processi. A cominciare da quello di Perugia. Ma per i modi in cui viene giudicato dal Csm, è difficile immaginare che nel prossimo futuro le cose andranno in modo radicalmente diverso.

Il processo sul Palamaragate. Il processo a Palamara va chiuso in fretta, il Procuratore generale della Cassazione Salvi mette il bavaglio a Paolo Mieli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Settembre 2020. Sembra che il Csm voglia bruciare i tempi e trasformare il processo a Luca Palamara in una gara di velocità. Tipo Berruti e Mennea. Addirittura le voci dicono che si vorrebbe chiudere tutto nella prossima seduta di lunedì, o al massimo martedì. Condanna all’unanimità e chiuso lì. Perché? Beh, naturalmente c’è di mezzo la questione della pensione di Davigo, della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi (cioè la scadenza del 20 ottobre quando Davigo, suo malgrado, dovrà lasciare la magistratura) ma soprattutto c’è la determinazione a non lasciare a Palamara né lo spazio né il tempo per difendersi, perché si teme che la difesa di Palamara possa comportare l’emergere di molto molto fango dai tombini ben chiusi della magistratura, e coinvolgere anche molti nomi eccellenti oltre che il sistema in sé. Quindi: correre, correre, correre. Questo è l’ordine che viene da tutte le parti. Anche dall’alto? Beh, spesso gli ordini vengono dall’alto. Mentre i consiglieri del Csm si organizzano per liquidare in tempi lampo il reprobo Palamara (unico reprobo riconosciuto), il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, calca la ribalta e si assume in prima persona le responsabilità dell’operazione “Palamara-speedy”. Nei giorni scorsi aveva scritto e diffuso una circolare nella quale spiegava che l’autopromozione dei giudici presso i togati del Csm che dovranno poi decidere le loro promozioni, non è una attività proibita. E che dunque non vanno aperte indagini sul comportamento di chi ha tentato – spesso con successo – le arrampicate di carriera. Affermando così il principio che i magistrati non sono semplici cittadini ma cittadini superiori. Lo stesso identico comportamento può senz’altro essere considerato “traffico di influenze” o “voto di scambio” per un esponente politico (il quale può eventualmente essere arrestato, se non è protetto dall’immunità, e detenuto anche per alcuni anni in attesa di processo) ma non per un magistrato il quale invece dispone di un diritto speciale a far figurare le influenze esercitate o richieste come puro e semplice candido self marketing. Ieri Salvi è intervenuto di nuovo. Non su La7, come in genere fa il collega Nicola Gratteri (del quale abbiamo parlato ieri su queste colonne, un po’ stupiti per la spavalderia con la quale alterna la sua funzione di Pm a quella di showman in Tv) ma dalle colonne del Corriere della Sera. Il Corriere appartiene sempre allo stesso gruppo editoriale di La 7, ma pretende, di solito, un grado di cultura un po’ più alto. E non mi pare che ci siano dubbi sul fatto che Giovanni Salvi, effettivamente, sul piano culturale e anche della preparazione giuridica sia su un piano diverso da quello di Gratteri. Sul Corriere però ha espresso concetti anche decisamente più aggressivi di quelli del Procuratore di Catanzaro. Ha spiegato che nelle 60mila pagine delle intercettazioni del telefono di Palamara non ci sono reati di altri magistrati. Non è reato, né illecito disciplinare, se Pm e giudici vanno a cena insieme sulle stesse terrazze, non è reato, né illecito, chiedere a Palamara di essere promossi, non è reato né illecito fare accendere o spegnere il trojan a seconda di chi sta vicino a Palamara in quel momento, non è reato né illecito disciplinare organizzare Procure e tribunali (e probabilmente anche sentenze) sulla base dei rapporti di forza tra le correnti. Ammenochè…Ammenochè tutto ciò non si svolga nell’Hotel Champagne. Ecco, questa – ha spiegato Salvi sul Corriere, rispondendo all’articolo dell’altro giorno di Paolo Mieli (primo, e unico finora, articolo critico verso la magistratura apparso sulla grande stampa) – è l’unica eccezione. I conciliaboli all’Hotel Champagne vanno puniti severamente, quelli sì e solo quelli. Perché? Perché a quei colloqui hanno partecipato Ferri e Lotti che sono due politici. Salvi ci spiega che un Pm può tranquillamente andare a cena col giudice che dovrà decidere il suo processo, ma non con un politico. E che se è andato a cena col politico non c’è bisogno di prove del suo reato (dice proprio così) ma bastano le intercettazioni. Perché le intercettazioni all’Hotel Champagne sono sufficienti per condannare, anche senza processo, e quelle fuori dall’Hotel Champagne, anche se molto più gravi, non servono nemmeno a far partire una inchiesta? L’unica spiegazione logica è che le intercettazioni all’Hotel Champagne erano illegali (non si può intercettare un parlamentare) mentre le altre erano legali. Non sto mica scherzando, eh. L’idea che la vera giustizia sia l’illegalità è una idea che ormai dilaga.

L'intervento sul garantismo del Corsera. Paolo Mieli ha rotto il silenzio su Palamara, ma il Corriere è sempre stato succube della magistratura. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Caro Direttore, ho molto apprezzato il tuo articolo “Magistratura da buttare: lo vede anche Mieli”, articolo ove tu ti dichiari lieto e sorpreso che sul Corriere della Sera si sia finalmente “rotto il silenzio su magistropoli” e che Paolo Mieli abbia scritto un articolo sulle vicende del caso Palamara che nella sostanza è “una frustata in faccia alla magistratura e al suo sistema di potere”.  Non so se le intenzioni di Mieli fossero così drastiche ma è comunque vero che le reticenze del Corriere sulla corporazione dei magistrati e la sua accortezza nell’evitare di pestarle i piedi non riguarda solo il caso Palamara ma è nel dna di quel giornale. Lo dico non solo come lettore quotidiano del Corriere ma anche per esperienza personale. Ricordo solo due episodi che inducono a qualche riflessione.

Il primo. Nel lontano 1986 scrissi quattro articoli molto critici sul Csm e l’Associazione nazionale magistrati e li mandai al direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino. Erano quattro articoli conclusi ma strettamente collegati tra di loro, ragion per cui al termine dei primi tre articoli avevo scritto: “continua”. Ostellino li pubblicò subito, il 4, 5, 6 e 7 marzo 1986, come editoriali di spalla. Pubblicò anche la indicazione “continua” alla fine dei primi tre articoli. Non solo, Ostellino mi telefonò per complimentarsi e mi disse che avrebbe desiderato conoscermi di persona. Una decina di giorni dopo, trovandomi a Milano per le mie ricerche sulla giustizia, gli telefonai e mi ricevette subito. Tra le altre cose Ostellino mi disse che la Procura della Repubblica di Milano aveva comunicato al suo cronista giudiziario, Paolo Graldi, che una ulteriore pubblicazione di miei scritti sul Corriere avrebbe fatto venir meno il flusso di informazioni che la Procura gli forniva per i suoi articoli. Ostellino non mi disse certo che non avrebbe più pubblicato i miei articoli. Non ce n’era bisogno. Terminò così la mia esperienza di editorialista del Corriere.

Il secondo. Alcuni anni dopo, nel periodo di Tangentopoli scoprii che uno degli editorialisti del Corriere, di cui per ovvie ragioni non faccio il nome, nutriva le mie stesse preoccupazioni per le gravi violazioni dei diritti civili che si stavano verificando ad opera della Procura di Milano. Si trattava certo di informazioni meritevoli di essere comunicate ai lettori di quel giornale. Gli chiesi perché non avesse scritto niente a riguardo. Mi rispose che non poteva. Avrebbe pregiudicato il suo rapporto di collaborazione col giornale. Mentre è vero che dopo il 1986 io non ho più scritto sul Corriere è altrettanto vero che più volte giornalisti del Corriere si sono rivolti a me per avere informazioni e dati delle mie continue ricerche sulla giustizia sul piano nazionale ed internazionale.

Verso la fine del 2003 quando ero componente del Csm, un noto giornalista del Corriere, Gian Antonio Stella, utilizzò in un suo articolo i miei dati sulle molteplici attività extragiudiziarie dei magistrati, un problema di cui mi ero occupato ricorrentemente da molti anni segnalando la sua incompatibilità con l’indipendenza della magistratura e col corretto funzionamento della divisione dei poteri. Fino ad allora i miei scritti a riguardo non avevano mai suscitato un interesse pubblico, ma solo l’irritazione dell’Anm. L’importanza del giornale che li pubblicava e la notorietà dell’editorialista sollevarono un interesse pubblico che le mie varie pubblicazioni in materia non avevano mai avuto. Venne organizzato un convegno a Roma (dall’Associazione giovani avvocati) sulle attività extragiudiziarie dei magistrati e venne invitato a parlare anche Stella che, col suo articolo, aveva suscitato il pubblico interesse sull’argomento. Al dibattito parteciparono nomi di rilievo dell’avvocatura e della magistratura e tra essi anche lo stesso presidente dell’Anm, Bruti Liberati. L’evento non generò certo nessuna riforma ed il problema permane a tutt’oggi. Fu comunque una chiara indicazione di quanto interesse per le riforme potrebbe suscitare un importante giornale quale il Corriere se decidesse di dedicare con continuità più attenzione alle disfunzioni che derivano da un assetto giudiziario come il nostro ove un’indipendenza di stampo marcatamente corporativo prevale su quelle forme di responsabilità che caratterizzano le magistrature degli altri Paesi a consolidata democrazia. Credo fosse questo il messaggio che tu volevi trasmettere nell’articolo in cui rendi merito a Mieli per aver interrotto il silenzio del Corriere su “magistropoli”, ed è anche la ragione per cui ho appezzato il tuo scritto.

Una postilla sul convegno che seguì la pubblicazione dell’articolo di Stella nel dicembre 2003. Nel suo intervento l’allora Presidente dell’Anm ed autorevole esponente di Magistratura democratica Bruti Liberati, rimproverò, tra l’altro, a Stella di aver erroneamente scritto che io, oltre ad essere componente del Csm, ero anche direttore dell’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del Cnr. Era cosa che lui da tempo sapeva benissimo essere vera, ma nelle sue intenzioni quello era il modo per sollevare pubblicamente il problema della mia presunta incompatibilità a ricoprire il ruolo di consigliere del Csm ed ottenere la mia espulsione. Efficienza operativa e disciplina sono una caratteristica della dirigenza di Magistratura democratica. Infatti, senza alcun ritardo, la mattina dopo il componente togato del Csm Giuseppe Salmè esponente di quella corrente, che non aveva partecipato al convegno e che da tempo conosceva il mio doppio ruolo, mi fece sapere che avrebbe formalmente chiesto che la commissione per la verifica dei titoli proponesse all’assemblea del Csm la mia espulsione per incompatibilità in base alle norme vigenti. In commissione l’iniziativa del consigliere Salmè non incontrò i favori della maggioranza della commissione proponente perché le altre correnti non ritenevano conveniente promuovere la mia espulsione. Non era quindi questione da decidere nel merito in base al diritto, era sufficiente non decidere. Due riflessioni su questo episodio. Esso indica ancora una volta come il Consiglio costituisca “il braccio armato” dell’Anm e delle sue correnti, un braccio armato che è pienamente efficace se le correnti sono tutte d’accordo. La seconda è che di fatto io, per ironia della sorte, sono stato beneficiato dal sistema delle correnti: se tutte le correnti avessero ritenuto conveniente la mia espulsione, diritto o no, sarei stato espulso.

Niente ricerca della verità, è pericolosa. Processo a Palamara non si farà: nessuno ha il diritto di processare la magistratura, neanche la magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Settembre 2020. La Procura generale della Cassazione è intervenuta pesantemente nel processo del Csm a Luca Palamara e ha chiesto che siano tagliati via 127 testimoni della difesa su 133. Comunque che non sia chiamato a testimoniare nemmeno un magistrato. Eppure tutta la difesa di Luca Palamara, si sa, consiste nel far raccontare ai suoi colleghi come funzionavano le nomine e il controllo della magistratura da parte delle correnti e del partito dei Pm. È chiaro che queste cose non possono raccontarle i cinque ufficiali della Finanza ammessi al banco dei testimoni. Non possono perché loro non sanno niente di come si nomina un Procuratore, o un aggiunto, o un presidente di tribunale, ed eventualmente di come si patteggia una sentenza favorevole al Pm in cambio della nomina di un giudice. La Procura generale ha chiesto al Csm di affermare un principio che resti saldo come il cemento. Il principio che nessuno può processare la magistratura, nemmeno la magistratura. Il Csm ha accolto la tesi del Procuratore generale e ha seppellito il processo a Palamara. Il processo non ci sarà, a nessuno interessa sapere come vanno le cose in magistratura, Palamara deve essere condannato ed espulso dalla magistratura perché solo così si salva il silenzio e l’onore. A questo punto sarebbe giusto e normale, in un normale Paese democratico, che intervenisse il Parlamento, nominasse una commissione di inchiesta con tutti i poteri di indagine, e iniziasse a interrogare tutti e 127 i testimoni chiesti da Palamara e rifiutati dalla Procura generale e dal Csm. Il Parlamento ha questo potere. Non possiede nessun altro strumento per contrastare o almeno contenere le arroganze e le sopraffazioni della magistratura, e difendere i cittadini. Lo farà? Non credo. Intanto il povero Luca Palamara, capro espiatorio di professione, dopo essere stato per anni il punto di riferimento delle correnti dei Pm, è costretto ad affrontare un processo di tipo sovietico. Nel quale è evitato qualunque tentativo di accertare la verità, sono cancellati tutti i diritti della difesa, e il massimo a cui può aspirare è la richiesta di clemenza della Corte. In Unione Sovietica la clemenza della corte non ci fu mai. Non ci sarà neppure questa volta. C’è da tremare – tutti noi: tutti noi – di fronte a questa prova di forza, di autoritarismo, di totalitarismo, che la magistratura italiana sta offrendo al Paese e al mondo. P.S. Ma la stampa? La stampa protesta, critica, denuncia? Oh beh, la stampa: che domanda cretina….

Il calendario fissa la sentenza il 16 ottobre. Processo Palamara, si va verso la farsa: il 16 ottobre la sentenza per la radiazione. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso: per Luca Palamara serve un “turbo” processo. Dopo aver rigettato tutte le questioni preliminari poste dalla difesa dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha anche stravolto il calendario che era stato comunicato a luglio e che prevedeva udienze almeno fino alla fine dell’anno. Il nuovo calendario, comunicato martedì scorso, prevede udienze per le prossime tre settimane e la sentenza il 16 ottobre. Tempistiche che nulla hanno a che vedere con il processo, tanto per fare un esempio, a Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, il presidente della sezione feriale della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva Silvio Berlusconi, e nipote di Vitaliano, già procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Il processo al dottor Ferdinando Esposito, giudice penale a Torino ed ex pm della Procura di Milano, iniziò nel lontano 2014 e ad oggi, per condotte illecite asseritamente commesse nel 2011, la disciplinare del Csm non ha neppure fissato l’udienza per le conclusioni. Certamente a piazza Indipendenza avranno, come sempre del resto, una spiegazione al fatto che alcuni processi a distanza di un decennio dai fatti sono ancora in corso ed altri che, invece, vengono definiti in poco più di un anno da quando il procuratore generale ha esercitato l’azione disciplinare. Tralasciando per un momento ogni valutazione su come la sezione disciplinare presieduta dal vice presidente del Csm David Ermini organizza i calendari d’udienza, l’accelerazione del processo Palamara giustifica più di un sospetto. Secondo i ben informati delle dinamiche togate, il dibattimento sprint potrebbe avere due spiegazioni. Una è quella di concludere il dibattimento prima del pensionamento di uno dei giudici, e cioè di Piercamillo Davigo, previsto per il 20 ottobre. L’altra è quella di avere una sentenza alla vigilia delle elezioni per il rinnovo dell’Associazione nazionale magistrati, in calendario il 21 e 22 ottobre. Il turbo calendario fissato dalla sezione disciplinare rende molto difficile che siano ammessi i circa 130 testimoni della lista testi di Palamara. Le più rosee previsioni dicono che i testimoni ammessi saranno al massimo dieci. Naufraga, dunque, la linea difensiva di Palamara che puntava ad affermare che il sistema della lottizzazione delle nomine non lo aveva creato lui. Nella lista dei testimoni figuravano politici, ministri, ex vice presidenti del Csm, capi delle correnti della magistratura, procuratori. E poi i consiglieri del Quirinale Stefano Erbani e Francesco Saverio Garofani. Oltre al segretario generale del Csm Paola Pieraccini che Palamara aveva chiamato a rispondere sulle fughe di notizie avvenute lo scorso anno a proposito dell’indagine di Perugia. Nella lista figurava anche Piercamillo Davigo. Per quanto riguarda l’esito, la radiazione dell’ordine giudiziario è ormai quasi certa. La Procura generale è intenzionata a chiedere il massimo della pena. E a ciò si deve aggiungere la forte e continua moral suasion del Quirinale sulla necessità di un “cambio di passo”. Diverso, invece, il destino dei cinque consiglieri del Csm che erano coinvolti nella cena all’hotel Champagne con Palamara e i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri e da cui è nato tutto. Il loro processo avrà un calendario diverso ed inizierà solo quando sarà concluso quello di Palamara. Aver tenuto un bassissimo profilo, essere tornati in ruolo senza tanti problemi, ed essersi subito dimessi dall’Anm per evitare ulteriori polemiche e strumentalizzazioni sarà certamente valutato positivamente dalla disciplinare. Salvo, quasi certamente, anche Cosimo Ferri. Palamara, a differenza loro, aveva deciso di indossare l’elemetto e lanciarsi in una battaglia persa in partenza. Ad assisterlo in questa missione impossibile, Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione, e uno dei massimi esperti di disciplinare. Di quelli coinvolti nel “Palamaragate” sarà probabilmente l’unico a pagare. Ma la sua condanna sarà necessaria per salvare la credibilità della magistratura, in caduta verticale da tempo. Domani mattina, comunque, la prima udienza del turbo processo a Palazzo dei Marescialli.

Alla vigilia dell’espulsione parla difensore di Palamara: «Domani l’Anm liquida il suo ex capo, è stato un processo indecoroso». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 18 settembre 2020. Parola a Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e difensore di Palamara davanti all’Anm. «Non voglio partecipare a un evento gestito in maniera indecorosa da parte dell’Associazione nazionale magistrati», dichiara al Dubbio Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena e storico esponente di Unicost, la corrente di centro della magistratura, alla vigilia dell’assemblea generale che dovrà decidere sul destino di Luca Palamara. Lo scorso 20 giugno il comitato direttivo centrale dell’Anm aveva deciso di espellere Palamara per indegnità, a seguito di quanto emerso nelle intercettazioni disposte dalla Procura di Perugia. Nel mirino, in particolare, le interlocuzioni per le nomine dei capi di importanti uffici giudiziari, emerse nell’incontro del 9 maggio 2019 presso l’hotel Champagne di Roma, con alcuni politici, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Contro l’espulsione, il magistrato, che dell’Anm era stato anche presidente, ha presentato ricorso. La discussione e la decisione, inappellabile, si terrà domani a Roma in un ambiente assai particolare: l’aula magna della Pontificia università San Tommaso D’Aquino Angelicum. Carrelli Palombi aveva fornito inizialmente assistenza tecnica a Palamara davanti ai probiviri dell’Anm quando venne aperto il procedimento. In occasione del direttivo di luglio, il pm romano aveva anche chiesto, senza successo, di essere ascoltato. «Non esistevano motivi seri per non consentire a Palamara di prendere la parola: potevano espellerlo lo stesso ma dovevano comunque ascoltare le sue ragioni», puntualizza amaro Carrelli Palombi. «Non c’è stata – aggiunge – e non c’è la volontà di affrontare una seria analisi di quanto accaduto». Carrelli Palombi, dopo trent’anni di associazionismo giudiziario, ha dunque deciso di «farsi da parte». Il tema, incandescente, è sempre lo stesso: il “sistema” delle nomine dei capi degli uffici con in primo piano il ruolo delle correnti nelle scelte del Csm. «Ma figuriamoci se tale sistema poteva basarsi solo sulle asserite “malefatte” di Palamara», prosegue il presidente del Tribunale di Siena. «Palamara avrà pure tutte le colpe della terra, penali e disciplinari, ma l’Anm doveva fare delle valutazioni “politiche” e non cercare di risolvere tutto con la ricerca del facile capro espiatorio». Lo scenario emerso dalle chat di Palamara è quello di decine di magistrati che si rivolgevano all’ex pm romano, allora potente presidente della commissione Incarichi direttivi del Csm, per ottenere promozioni. Non solo ruoli da dirigente, ma anche gli ambiti posti al Massimario della Cassazione, alla Procura generale presso la Suprema corte, all’Ufficio studi del Csm. E poi i ben pagati “fuori ruolo” presso il ministero della Giustizia. «Dalle intercettazioni e dalle chat emerge che erano coinvolti in tanti; anzi, eravamo coinvolti in tanti, mi ci metto anche io», precisa Carrelli Palombi, secondo il quale «serve una rifondazione dell’Anm dopo aver fatto tutti un passo indietro». Precisamente andrebbe «azzerato questo sistema che non ha portato a grandi risultati, pur considerando la qualità delle persone che sono state scelte negli anni per gli incarichi. Volevo già proporre questo tema al congresso dell’Anm di Genova ( svoltosi a dicembre 2019, ndr), una inutile parata non rappresentativa, ma mi è stato impedito», ricorda, sottolineando come «i magistrati silenziosi e meno disposti a partecipare all’Associazione sono sempre di più». E poi c’è anche il tema del “turboprocesso” a Palamara davanti alla sezione disciplinare del Csm. Stamani è prevista la prima udienza dibattumentale. La sentenza è attesa per il 16 ottobre. Il collegio ha fissato un calendario da record: tutte le udienze della disciplinare da qui al 16 ottobre saranno dedicate solo al processo a Palamara. «Lascia perplesso un tour de force simile deciso prima ancor che si sappia quali testi debbano essere ammessi o meno: capisco che ci sia di mezzo da questione  “Davigo”, ma le cose che ha scritto Nello Rossi (direttore della rivista di Md, Questione Giustizia, ndr) sul pensionamento di Davigo le avevo dette io anni prima. Come Unicost, infatti, non candidammo al Csm un autorevole avvocato generale dello Stato che sarebbe andato in pensione durante la consiliatura».

La richiesta della Procura della Cassazione. La radiazione di Palamara serve a salvare la casta delle toghe…Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. È stato il processo meno garantista, forse, di tutta la storia dei processi del dopoguerra. Anche se solennemente svolto davanti al Csm. C’era un colpevole designato, c’era il rifiuto di far sfilare i suoi testimoni, c’era una giuria composta da molti personaggi coinvolti nel “delitto”, e le prove a carico erano interamente costituite da intercettazioni in gran parte illegali. Un pasticcio staliniano. Per il resto niente di nuovo. Il rappresentante del Procuratore generale della Cassazione ha chiesto come previsto la massima pena per Luca Palamara, ex Dio delle toghe italiane, oggi Satana, e cioè la radiazione dall’Ordine giudiziario. Indegno, infame! La Procura generale della Cassazione lo ha accusato di aver tramato per influire sulla nomina del procuratore di Roma e anche del Procuratore di Perugia e di averlo fatto in combutta con uomini politici (Lotti e Ferri) e poi anche di aver tentato di infangare alcuni suoi colleghi. Cioè di aver fatto esattamente tutte quelle cose che nella magistratura italiana si fanno abitualmente da molti anni. Oggi ci sarà la sentenza. Di condanna, come è ovvio che avvenga in un processo dove sono stati eliminati i diritti della difesa e proibito ogni approfondimento, per evitare il rischio che saltino fuori un po’ troppe magagne della magistratura. il Palamara-gate dimostra senza possibilità alcuna di errore che tutta la struttura della magistratura e le sue gerarchie sono costruite in modo clientelare e illegale e sono sotto il controllo dall’Anm, cioè dal partito dei Pm. Di conseguenza dimostra la situazione di sostanziale illegalità nella quale vivono i palazzi di giustizia e della quale sono vittima migliaia e migliaia di imputati. La decisione della casta è quella di chiudere tutto, con la cacciata di Palamara dalla magistratura e con la proclamazione del principio che la casta, per definizione, non si tocca. E la legalità? Sì, vabbé, la legalità…

Giovanni Bianconi per corriere.it l'8 ottobre 2020. «Chiediamo la sanzione massima, cioè la radiazione dall’ordine giudiziario». Si conclude così la requisitoria della Procura generale della Cassazione nel processo disciplinare a Luca Palamara, davanti al «tribunale» del Consiglio superiore della magistratura. «Non si chiede un giudizio etico», precisa il vice-procuratore generale Pietro Gaeta, «ma una valutazione della particolare gravità dei fatti. L’incolpato ha tentato di condizionare la nomina al vertice del più grande e più importante ufficio giudiziari italiano, la Procura di Roma, per interessi personali, e in più voleva condizionare la nomina del procuratore di Perugia per ottenerne uno che potesse garantire interventi di vario genere nei confronti dei magistrati romani».

Il vertice all’hotel Champagne. Non solo; a Palamara si contesta anche un’opera di «denigrazione e delegittimazione sistematica, attivata su più fronti» verso alcuni colleghi. La vicenda per cui l’accusa ha chiesto l’espulsione dalla magistratura dell’ex componente del Csm ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati è quella dell’ormai famosa riunione all’hotel Champagne di Roma, la sera del 9 maggio 2019, tra cinque consiglieri allora in carica del Csm, lo stesso Palamara e i deputati Cosimo Ferri (magistrato anche lui) e Luca Lotti (imputato nel processo Consip proprio su iniziativa della Procura di Roma). In quella riunione, secondo il vice-procuratore Gaeta e il sostituto procuratore generale Simone Perelli, Palamara non ha agito secondo il solito sistema di spartizione delle nomine tra le correnti dei magistrati, ma ha organizzato in qualità di sceneggiatore, organizzatore e regista una per pilotare la nomina del procuratore di Roma in base a «interessi diversi e convergenti, condizionando il corretto funzionamento e la fisiologica interlocuzione istituzionale. C’è stata un’indebita manipolazione dei meccanismi istituzionali, in forma occulta e con soggetti esterni al Csm aventi un diretto interesse particolare alle nomine».

Il verdetto in serata. Interessi dello stesso Palamara, che dopo la scelta del procuratore indicato da lui e gli altri partecipanti alla riunione, aspirava ad essere nominato procuratore aggiunto sulla base dello stesso disegno e delle stesse alleanze; di Ferri, che dall’esterno voleva essere e apparire il «king maker» di una delle decisioni più rilevanti che il Csm era chiamato a prendere, e di Lotti, i qualità di imputato in un processo che la stessa procura avrebbe dovuto portare avanti dopo la richiesta di rinvio a giudizio. «Qui non siamo alla spartizione delle nomine tra gruppi correntizi», ha detto il sostituto pg Perelli, «ma al sovvertimento delle regole dello Stato di diritto. Altro che porto delle nebbie, siamo al porto delle tenebre!». Nel pomeriggio parlerà la difesa di Palamara, ed è possibile che il magistrato incolpato – dopo aver scelto di non rispondere alle domande del procuratore generale basate sulle intercettazioni dei dialoghi intercettati nella riunione del 9 maggio – faccia delle dichiarazioni spontanee a propria discolpa. Poi la sentenza, che a questo punto dovrebbe arrivare in serata.

Il pg della Cassazione: “Rimuovere Palamara dalla magistratura”. La difesa: “Prosciogliere Luca Palamara da tutti gli addebiti contestati”. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno l'8 Ottobre 2020. La rimozione dall’ordine giudiziario. E’ la sanzione, la più grave prevista , chiesta dalla procura generale della Cassazione per Luca Palamara. A formulare la richiesta al collegio della sezione disciplinare del Csm è stato l’avvocato generale Pietro Gaeta. Nella sua arringa il magistrato Stefano Giaime Guizzi difensore di Luca Palamara, uno dei magistrati più qualificati ed esperti di questioni disciplinari al Csm ha chiesto di prosciogliere Luca Palamara da tutti gli addebiti contestati, o in alternativa “se si dovesse comminare una sanzione sia applicata la sospensione per due anni stante la pendenza del processo penale”. Per i magistrati della procura generale della Cassazione, che ha sottolineato l’assoluta “gravità degli illeciti’’, l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara ha messo in atto ‘’condotte molteplici e plurioffensive’’quale ‘’organizzatore regista e sceneggiatore della strategia’’ messa in atto, per la quale ha avuto un ‘’ruolo primario“. L’accusa ha chiesto di espellere Luca Palamara dalla magistratura. La Procura Generale della Cassazione puntando alla sanzione massima nel processo in corso davanti alla Sezione disciplinare del Csm in cui l’ex presidente dell’Anm, già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e sotto inchiesta per corruzione a Perugia, deve rispondere dei suoi comportamenti nei confronti dei colleghi che concorrevano per un posto in diverse procure. L’avvocato generale ha sostenuto che Palamara inoltre ‘’non ha fornito elementi idonei ad attenuare la gravità delle accuse’’ e “non ha interloquito con il suo giudice naturale’’. ‘’Almeno tre soggetti estranei alla funzione istituzionale, per interessi personali hanno pilotato e promosso la nomina del procuratore di Roma, dell’aggiunto e programmato quella di un atto ufficio giudiziario “, ha detto Pietro Gaeta nella sua requisitoria, ricostruendo quanto accaduto all’hotel Champagne di Roma (che ha cessato la sua attività ! n.d.r. ) adiacente al Csm, nel corso dell’udienza al processo disciplinare Luca Palamara che discusse in quella riunione di nomine con Cosimo Ferri e Luca Lotti e 5 magistrati del Csm, che si sono dimessi dal Consiglio Superiore della Magistratura a seguito dell’esplosione del caso. Un incontro  in cui il pm romano e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri “per differenti ma cospicui interessi personali hanno pilotato e promosso la nomina” del procuratore capitolino e di un aggiunto, oltre che “programmato la nomina del direttivo di un altro ufficio giudiziario, quello di Perugia“. ’’Non si è trattato di una interlocuzione fisiologica né di una interlocuzione istituzionale tra magistrati e politici, né dell’interlocuzione tra componente togata e laica, prevista nel Csm’’, ha sottolineato Gaeta. "Proprio perché esiste un perimetro previsto dalla Costituzione, questa riunione esorbita in maniera evidente da questo perimetro". Si tratta dunque a giudizio dell’avvocato generale della Cassazione, di "un modello totalmente alterato" e l’incontro "si colloca fuori da qualsiasi schema legale". Nel corso della sua requisitoria a Palazzo dei Marescialli, il sostituto Pg della Cassazione Simone Perelli ha dichiarato che sui vertici della procura di Roma e di Perugia c’era un “disegno occulto e inconfessabile” e l’ obiettivo era “selezionare candidati che avrebbero dovuto sovvertire le regole dello stato di diritto“. A concludere la requisitoria dell’accusa è stato il sostituto Pg della Cassazione Perelli, che aumenta il carico delle accuse: Palamara mirava ad un “procuratore di Perugia addomesticato, che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo (attuale procuratore aggiunto a Roma, ndr). Condotta di una gravità inaudita“, respingendo le argomentazioni della difesa: “Non vale invocare il mantra della spartizione correntizia“. Sui vertici della Procura di Roma dove secondo l’accusa si mirava a garantire “discontinuità” con la gestione di Giuseppe Pignatone, e di Perugia si era in presenza un “disegno occulto e inconfessabile” e l’ obiettivo era “selezionare candidati che avrebbero dovuto sovvertire le regole dello stato di diritto”. Durante l’udienza si è discusso anche dei tempi adottati per il procedimento disciplinare, ritenuti dalla difesa e da una parte della stampa troppo brevi . Secondo il rappresentante della procura di Cassazione Gaeta, non c’è invece alcuna forzatura dei tempi, nessuna compressione dei suoi diritti di difesa,  e quindi nessuna volontà di far diventare il pm romano, un “capro espiatorio” ed il suo processo la “tacitazione della cattiva coscienza della magistratura”, al fine “sacrificarne uno per salvarne mille”. Gaeta ha respinto tutto ciò che ha definito “bolle mediatiche” e che rappresentano per il lavoro svolto dal suo ufficio accuse “insostenibili”. In particolare ha respinto l’accusa di aver compresso i diritti di Luca Palamara opponendosi alla lista dei 130 testimoni, presentata dalla difesa, giudicandola “avventata e strumentale per non far emergere posizioni involgenti altri magistrati” rivendicando il rigoroso rispetto delle regole anche sull’utilizzazione delle intercettazioni della riunione all’ Hotel Champagne. Quella conversazione fu captata in modo “assolutamente casuale”, non si sapeva della presenza dei due parlamentari. Intercettazioni che però sono state utilizzate. Nella precedente udienza il magistrato Stefano Giaime Guizzi difensore di Luca Palamara, uno dei magistrati più qualificati ed esperti di questioni disciplinari al Csm, aveva ricordato e contestato le fughe di notizie apparse sul quotidiano La Repubblica a firma di Carlo Bonini, contestando che “Non c’è serenità per affrontare il giudizio. Questi dubbi non sono stati ritenuti fondati” aggiungendo “Il vulnus è che non ci sia consigliere del Csm che non si sia espresso pubblicamente su questa vicenda. C’è chi ha paragonato il metodo Palamara al metodo mafioso, chi ha stabilito parallelismo con la P2. Tutte queste circostanze unite al fatto che i componenti del Csm sono indicati come persone offese. Io non conosco caso in cui il giudice sia anche persona offesa di quella vicenda. Non c’è serenità per affrontare giudizio”.

“Prosciogliere Luca Palamara da tutti gli addebiti contestati“. E’ stata la richiesta conclusiva avanzata dalla difesa di Palamara, alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. “Dissento dalla richiesta del pg della sanzione massima” ha spiegato Stefano Giaime Guizzi, chiedendo che “se si dovesse comminare una sanzione sia applicata la sospensione per due anni stante la pendenza del processo penale“. Guizzi ha anche anticipato che Palamara in merito all’utilizzo delle intercettazioni valuterà se “questo non costituisca materia di un possibile ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo” riferendosi alle intercettazioni con i deputati Lotti e Ferri che non dovevano essere utilizzate in quanto c’è la “possibile violazione dell’articolo 68 della Costituzione, visto che è stato intercettato anche il parlamentare Cosimo Ferri, entrato nel perimetro dell’indagine sin dai primi atti”. “Riteniamo quindi che il tema dell’utilizzabilità delle intercettazioni non sia chiuso e questo potrebbe portare Palamara davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo’”, ha aggiunto Guizzi, durante l’arringa. E’ molto probabile che il magistrato inquisito, dopo aver scelto di non rispondere alle domande del procuratore generale proprio in quanto basate sulle intercettazioni dei dialoghi intercettati nella riunione del 9 maggio, nell’udienza che si svolgerà domattina, faccia delle dichiarazioni spontanee. Poi la sentenza, che a questo punto dovrebbe arrivare anche domani.

La richiesta della Procura della Cassazione. La radiazione di Palamara serve a salvare la casta delle toghe…Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. È stato il processo meno garantista, forse, di tutta la storia dei processi del dopoguerra. Anche se solennemente svolto davanti al Csm. C’era un colpevole designato, c’era il rifiuto di far sfilare i suoi testimoni, c’era una giuria composta da molti personaggi coinvolti nel “delitto”, e le prove a carico erano interamente costituite da intercettazioni in gran parte illegali. Un pasticcio staliniano. Per il resto niente di nuovo. Il rappresentante del Procuratore generale della Cassazione ha chiesto come previsto la massima pena per Luca Palamara, ex Dio delle toghe italiane, oggi Satana, e cioè la radiazione dall’Ordine giudiziario. Indegno, infame! La Procura generale della Cassazione lo ha accusato di aver tramato per influire sulla nomina del procuratore di Roma e anche del Procuratore di Perugia e di averlo fatto in combutta con uomini politici (Lotti e Ferri) e poi anche di aver tentato di infangare alcuni suoi colleghi. Cioè di aver fatto esattamente tutte quelle cose che nella magistratura italiana si fanno abitualmente da molti anni. Oggi ci sarà la sentenza. Di condanna, come è ovvio che avvenga in un processo dove sono stati eliminati i diritti della difesa e proibito ogni approfondimento, per evitare il rischio che saltino fuori un po’ troppe magagne della magistratura. il Palamara-gate dimostra senza possibilità alcuna di errore che tutta la struttura della magistratura e le sue gerarchie sono costruite in modo clientelare e illegale e sono sotto il controllo dall’Anm, cioè dal partito dei Pm. Di conseguenza dimostra la situazione di sostanziale illegalità nella quale vivono i palazzi di giustizia e della quale sono vittima migliaia e migliaia di imputati. La decisione della casta è quella di chiudere tutto, con la cacciata di Palamara dalla magistratura e con la proclamazione del principio che la casta, per definizione, non si tocca. E la legalità? Sì, vabbé, la legalità…

(ANSA il 9 ottobre 2020) - Luca Palamara è stato radiato dalla magistratura. La Sezione disciplinare del Csm lo ha condannato alla sanzione massima prevista, accogliendo la richiesta della Procura generale della Cassazione . Palamara è il primo ex consigliere del Csm ed ex presidente dell' Associazione magistrati ad essere rimosso dall'ordine giudiziario.

Sandra Fischetti per l'ANSA il 9 ottobre 2020. Con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri ha "pilotato la nomina del procuratore di Roma" e ha messo in atto una strategia per arrivare a un procuratore di Perugia "addomesticato", agendo come i suoi interlocutori per puri "interessi personali" e con ciò concretizzando "un indebito condizionamento" delle funzioni del Csm.Con l'aggravante di aver così permesso a Lotti,che era imputato nell'inchiesta Consip della procura di Roma, di interloquire e concorrere alla scelta del dirigente dell'ufficio giudiziario che lo aveva messo sotto accusa. Al processo disciplinare a Luca Palamara i rappresentanti della procura generale della Cassazione descrivono così alcuni dei comportamenti di "elevatissima gravità" che non consentono più a Luca Palamara di continuare a indossare la toga. Per lui l'avvocato generale Pietro Gaeta e il sostituto Pg Simone Perelli chiedono convinti la sanzione massima e irreversibile: la rimozione dai ranghi della magistratura. Una batosta per il pm romano, già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. La sua difesa non demorde e pensa di portare la battaglia sino alla Corte europea dei diritti dell'uomo, sulle intercettazioni che sono alla base di questo processo e del procedimento penale di Perugia dove è imputato di corruzione. La sentenza potrebbe arrivare già domani dopo le repliche di accusa e difesa e le dichiarazioni spontanee di Palamara, che parlerà per la prima volta. Al centro del giudizio disciplinare c'è la ormai nota riunione del 9 maggio del 2019, in cui Palamara, i due parlamentari e cinque consiglieri del Csm - che si sono poi dimessi - discussero, secondo l'accusa, la strategia per le nomine. Una vicenda che, hanno sostenuto i rappresentanti della procura generale, costituisce un "unicum" nella storia della magistratura proprio per la presenza di soggetti completamente "estranei" al Csm e portatori di interessi "personali"(quello di Palamara rispetto alla procura di Roma era essere nominato aggiunto) e insieme di un "disegno occulto", a partire dalla scelta di un procuratore che segnasse una "discontinuità" con la gestione dell'ex procuratore Giuseppe Pignatone. Non fu una "fisiologica interlocuzione istituzionale" tra rappresentanti il Csm e politici, hanno sostenuto Gaeta e Perelli, ma una riunione "fuori da ogni schema legale". Tant è che si pianificò anche la nomina del procuratore di Perugia: Palamara sapeva di essere indagato da quell'ufficio e cercava un procuratore "che doveva assecondare il sentimento di rivalsa suo e di Lotti nei confronti di Paolo Ielo", procuratore aggiunto a Roma. Opposta la lettura dei fatti di Stefano Guizzi, difensore di Palamara, certo che il suo assistito vada assolto perchè può avere avuto condotte inopportune ma mai illecite come le strategie di discredito nei confronti di colleghi che gli vengono contestate. Quanto alla riunione all'hotel Champagne se è vero che la presenza di Lotti fu "gravemente inopportuna", l'uomo politico "non fornì alcun contributo decisorio, perchè non vi era alcun accordo blindato sulla procura di Roma". Furono invece pienamente legittime le interlocuzioni con i consiglieri del Csm di Palamara e Cosimo Ferri, in quanto entrambi riconosciuti leader delle correnti. Anche perchè la scelta del capo di una procura "dipende anche da valutazioni politiche". E' per questo che Guizzi ritiene un "grave vulnus" per i diritti di difesa il taglio drastico deciso dai giudici della lista di 133 testimoni, che serviva non a dire 'tutti colpevoli, nessun colpevole' ma a dimostrare che queste sono le prassi in tema di nomine .La battaglia a Strasburgo sarà comunque sulle intercettazioni che non potevano essere utilizzate visto che hanno coinvolto un parlamentare.

LIANA MILELLA per repubblica.it il 9 ottobre 2020. Luca Palamara è fuori dalla magistratura. Per lui c'è la "rimozione", la pena più severa prevista dalla giustizia disciplinare. Lo hanno deciso al Csm i giudici laici e togati della sezione disciplinare dopo tre ore ore di camera di consiglio. La difesa aveva chiesto l'assoluzione o solo due anni di sospensione in attesa della sentenza del processo di Perugia in cui l'ex presidente dell'Anm (2008-2012), ex consigliere del Csm (2014-2018), ma soprattutto potente leader di Unicost, la corrente di centro delle toghe, è imputato di corruzione. "Porto e porterò sempre la toga nel cuore. "Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funziona, che è obsoleto e superato", ha detto Luca Palamara in conferenza stampa. Palamara ha rinunciato alle ultime dichiarazioni davanti al collegio che pure aveva annunciato di voler fare. "Il mio avvocato è stato bravissimo, basta così" gli hanno sentito dire. Mentre, per la procura generale della Cassazione, ha confermato le accuse il sostituto procuratore generale Simone Perelli che con l'avvocato generale Pietro Gaeta non ha certo fatto sconti a Palamara, il cui comportamento è stato definito di "una gravità inaudita". Il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, ha chiesto che quella della disciplinare non fosse "una sentenza politica", ma nel merito dei fatti. Palamara era in aula al momento del verdetto, letto dal presidente del collegio Fulvio Gigliotti, laico indicato da M5S. Con lui, a giudicare Palamara, sono stati: il laico della Lega Emanuele Basile, e i giudici Piercamillo Davigo di Autonomia e indipendenza, Elisabetta Chinaglia di Area, Paola Maria Braggion e Antonio D'Amato di Magistratura indipendente. Uscendo dal Csm Palamara ha detto solo: "I valori che mi hanno portato a essere magistrato - equità, senso civico, amore per la giustizia - sono gli stessi che connoteranno il mio operato da oggi in poi". Poi non ha aggiunto altro, ma ha annunciato che parlerà alle 16 dalla sede del Partito Radicale in via di Torre Argentina, un luogo che considera rappresentativo per le sue future battaglie, a partire dal ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, dove Palamara lamenterà non solo il taglio dei testimoni richiesti (sei rispetto a 133), ma anche il diniego sull'inutilizzabilità delle intercettazioni che, a suo avviso, coinvolgendo due parlamentari, non potevano essere registrare. Ma perché Palamara ha subito la più grave condanna che, dal 2009 a oggi, è stata adottata solo per 20 toghe per lo più finite sotto processo penale? Lo hanno spiegato i procuratori Gaeta e Perelli. Che lo hanno accusato di "comportamenti di elevatissima gravità" e di "voler condizionare, in modo occulto, l'attività istituzionale del Csm". Con l'obiettivo di manipolare le competizioni e pilotare quindi i vincenti per la corsa a importanti procure italiane, Roma in primis, con i suoi aggiunti, e poi Perugia. Lo stesso Palamara aveva presentato domanda per diventare procuratore aggiunto proprio a Roma. I fatti sono quelli della sera all'hotel Champagne, l'8 maggio del 2019, quando Palamara s'incontra con Luca Lotti, deputato del Pd, e Cosimo Maria Ferri, anche deputato del pd in quel momento poi passato con Renzi. Con loro ci sono anche cinque consiglieri del Csm, Luigi Spina e Gianluigi Morlini di Unicost (il secondo presidente della commissione per gli incarichi direttivi), Corrado Cartoni,  Antonio Lepre e Paolo Criscuoli, di Magistratura indipendente. Un Trojan messo dalla procura di Perugia registra tutte le conversazioni. E rivela che, secondo la procura della Cassazione, l'obiettivo era quello di far nominare come capo della procura di Roma Marcello Viola, che era ed è tuttora procuratore generale a Firenze. Ai danni degli altri concorrenti, Giuseppe Creazzo procuratore di Firenze e Franco Lo Voi capo della procura di Palermo. Ma la strategia mirava anche a mettere gli "uomini giusti" anche al vertice della procura di Perugia, e infine delegittimare il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo.

Il Csm ha radiato Luca Palamara dalla magistratura. Il Corriere del Giorno il 9 Ottobre 2020. La sezione disciplinare lo ha condannato alla massima sanzione. Annunciata una conferenza stampa nel pomeriggio. La difesa: ‘Non è una sentenza politica” ed espresso “massimo rispetto” per la decisione. Una sentenza a nostro parere più mediatica che giuridica, per non portare alla luce e mettere in discussione antichi vizi, usi e costumi dell’intera magistratura, e delle sue varie rappresentanze correntizie, presenti nell’Anm e nel Csm. L’ex presidente dell’ Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara ex consigliere del Csm, è stato radiato dai ruoli della magistratura. La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura lo ha condannato alla sanzione massima prevista, accogliendo la richiesta della Procura generale della Cassazione .  Palamara ha lasciato il Csm senza fare dichiarazioni, annunciando una conferenza stampa per le 16 di oggi presso la sede del Partito Radicale.  A margine del verdetto ha rilasciato una stringata dichiarazione all’AdnKronos: “I valori che mi hanno portato ad essere magistrato – equità senso civico e amore per la giustizia – sono gli stessi che connoteranno il mio operato da oggi in poi”. La sentenza è arrivata dopo una camera di consiglio durata due ore e mezza. Erano stati ieri i rappresentanti della procura generale della Cassazione a chiedere la sanzione massima – impugnabile davanti alle Sezioni Unite della Cassazione – accusando Palamara soprattutto di aver “pilotato” per interessi personali la nomina del procuratore di Roma e contestandogli una strategia di discredito a danno del procuratore aggiunto Paolo Ielo. La vicenda al centro del processo è la riunione notturna all’hotel Champagne del 9 maggio del 2019, nella quale secondo l’accusa Palamara, cinque consiglieri del Csm (tutti dimessi e ora a processo disciplinare) e i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri discussero le strategie sulle future nomine ai vertici delle procure. Riunione intercettata grazie ad un trojan nel cellulare di Palamara, che era finito sotto inchiesta a Perugia dove è imputato per corruzione. Palamara ha cercato di difendersi anche con interviste e dichiarazioni tese a dimostrare di non aver commesso niente di strano ed illegale, sostenendo di essersi semplicemente adeguato al ruolo esercitato dalle correnti della magistratura nella spartizioni dei posti, che ad onore del vero ci sono sempre state e sempre ci saranno, praticate all’interno dell’organo di autogoverno dei giudici. L’ormai ex-magistrato aveva chiesto alla Sezione disciplinare del Consiglio nel tentativo legittimo di sostenere la propria tesi difensiva, di poter introdurre ed ascoltare 133 testimoni, fra i quali presidenti emeriti della Corte costituzionale, magistrati, ex ministri e politici di ogni partito, per portare alla luce nel processo disciplinare a suo carico l’intero sistema delle correnti e di gestione del Csm. Ma tutto ciò come facilmente prevedibile non gli è stato consentito. Il “palazzo delle toghe” si è blindato. La Procura generale della Cassazione ed il Csm hanno ritenuto invece che i testi citati dalla difesa esorbitassero dal perimetro delle contestazioni, limitate ai discorsi registrati quella notte e ad alcune altre conversazioni intercettate attraverso il virus trojan inoculato nel telefono cellulare di Palamara a seguito dell’indagine penale aperta a Perugia, dove l’ex-magistrato è imputato di corruzione, che di fatto l’ha fatto diventare una microspia inconsapevole. Nel corso delle udienze della sezione disciplinare, guidata dal giurista laico (nominato dal M5S) Fulvio Gigliotti, sono stati ascoltati come testimoni solo gli investigatori della Guardia di Finanza che avevano intercettato i dialoghi tra Palamara ed i cinque ex consiglieri togati, con i parlamentari Ferri, Lotti nell’incontro notturno all’hotel Champagne di Roma, dove tra l’8 e il 9 maggio 2019 si pianificavano le nomine incriminate, più un altro paio di testimoni. Le altre registrazioni e soprattutto le famose chat (60.000 pagine) di Palamara con centinaia di suo colleghi, intercorse tra il 2017 e il 2019, quando era al Csm ed al vertice della sua corrente, Unicost-Unità per la costituzione , sono state escluse dal giudizio. “Abbiamo applicato le norme e le regole che ogni giorno applicano i magistrati in tutta Italia“, ha affermato nel chiedere la condanna il vice-procuratore generale Pietro Gaeta, rappresentante dell’accusa. Il magistrato Stefano Giaime Guizzi, difensore di Luca Palamara ha risposto “assolutamente no“ alla domanda se la pronuncia del Csm sul suo assistito sia una sentenza politica, ed ha anche espresso “massimo rispetto” per la decisione, in attesa dei ricorsi che certamente ci saranno, fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo come già annunciato. Palamara ed il suo difensore hanno sostenuto l’inutilizzabilità delle intercettazioni, considerate illegittime perché coinvolgevano due deputati coperti dall’immunità parlamentare, ma la Sezione disciplinare le ha considerate pienamente utilizzabili, in quanto casuali . Un punto fondamentale questo su cui proseguirà la battaglia legale di Palamara, per tentare di ribaltare il verdetto del Csm che l’ha portato fuori dalla magistratura, e cercare di dimostrare di essere stato trattato come un capro espiatorio sacrificato per salvare l’intero “sistema” delle toghe. Una sentenza a nostro parere più mediatica che giuridica, per non portare alla luce e mettere in discussione antichi vizi, usi e costumi dell’intera magistratura, e delle sue varie rappresentanze correntizie, presenti nell’Anm e nel Csm. Adesso il Csm dovrà valutare ancora varie posizioni di altri magistrati, a partire da tutti gli ex consiglieri del Csm che hanno partecipato alla riunione all’hotel Champagne con Palamara, Lotti e Ferri, e decidere se sanzionarli o no. Da risolvere la “questione morale” che ha coinvolto l’intero sistema di gestione del potere giudiziario nella sua interezza. Come ha ricordato Palamara alcuni mesi fa: “Non ho agito da solo. Ero parte di un sistema”. Un sistema che vige tuttora e prolifera, all’interno del quale non si intravedono verginità morali.

Il Csm lo radia per salvarsi la faccia. Liquidato un Palamara se ne fa un altro, ecco perché è stato radiato il re delle nomine. Paolo Comi Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Da oggi pomeriggio, è una certezza, i problemi che affliggono da anni la magistratura italiana, ad iniziare dalla lottizzazione degli incarichi da parte delle correnti, saranno tutti risolti: Luca Palamara, l’ex potente presidente dell’Associazione nazionale magistrati, sarà radiato dalla sezione disciplinare del Csm. Il processo a suo carico è stato rapidissimo: meno di un mese. Un record assoluto. Chi ha avuto modo di parlare con Palamara in questi giorni l’ha sentito sereno. E non è una frase di circostanza. Palamara da tempo aveva capito che il suo destino era segnato. Ha provato a difendersi, assistito dal consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, uno dei magistrati più esperti di questioni disciplinari al Csm. Una difesa a 360 gradi che ha sollevato anche diverse eccezioni di costituzionalità. Ma tutto è stato vano. Quello che è successo non poteva essere archiviato con un semplice “buffetto” da parte della disciplinare del Csm, normalmente ben predisposta nel perdonare i magistrati che inciampano in qualche illecito. Il danno di immagine è stato senza precedenti per poter chiudere un occhio. Riavvolgiamo, dunque, il nastro di questi mesi. Tutto inizia a settembre del 2018. Sono gli ultimi giorni al Csm per Palamara. Il magistrato è potentissimo. Capo delegazione di Unicost, il correntone di centro delle toghe, ha ricoperto l’incarico di presidente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli nel quadriennio delle oltre 1000 nomine. Complice l’abbassamento dell’età pensionabile voluto dal governo Renzi, tanti magistrati sono andati via. Il Csm per coprire i posti vacanti ha lavorato a pieno regime, trasformandosi in un “nominificio”. Il Fatto Quotidiano pubblica la notizia che a Perugia è aperto un fascicolo nei suoi confronti. È un brutto colpo. Palamara è proiettato verso incarichi di prestigio, come del resto tutti i consiglieri uscenti. Lui punta a diventare aggiunto alla Procura di Roma. Il procedimento di Perugia non gli impedisce, però, di continuare la sua attività preferita: le nomine. Il vice presidente del Csm David Ermini, ad esempio, è una sua creatura. È stato Palamara a far convergere i voti sul responsabile giustizia del Pd, bruciando il professore di Forza Italia Alessio Lanzi e il laico pentastellato Alberto Maria Benedetti, appoggiato dalla sinistra giudiziaria. Il primo errore è questo. Abbandonare le toghe progressiste per puntare sui colleghi di Magistratura indipendente, il gruppo di destra. Uno sgarro che certi ambienti non gli perdonano. Il fascicolo di Perugia era nato da una nota trasmessa dalla Procura di Roma che stava indagando su Fabrizio Centofanti, un faccendiere tipico del sottobosco capitolino. Centofanti aveva avuto un’idea geniale. Sponsorizzare i convegni dei magistrati. In questo modo è riuscito ad “agganciare” decine di toghe, dal Consiglio di Stato alla Corte dei Conti. Oltre ad offrire cene a base di vino bianco ghiacciato e crudi di pesce ai magistrati, Centofanti paga a Palamara dei soggiorni termali in Toscana e alcuni viaggi in località esotiche. I pm di Perugia vogliono capire il perché. Acquisiscono le dichiarazioni di Giancarlo Longo, un pm che aspirava a diventare procuratore di Gela. Longo, che patteggerà una condanna per corruzione a cinque anni, riferisce di aver saputo che due professionisti avrebbero dato 40mila euro a Palamara per questa nomina. I pm di Perugia decidono allora, nella primavera dello scorso anno, di intercettare Palamara. Prima tradizionalmente e poi con il trojan. Le indagini vengono affidate al Gico della guardia di finanza di Roma comandato dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, un ufficiale fra i fedelissimi del procuratore Giuseppe Pignatone. A maggio del 2019 Pignatone deve andare in pensione. Per la prima volta ci sono i numeri per un cambio a Roma. Perché, bisogna saperlo, alcuni uffici giudiziari sono da sempre appannaggio di magistrati appartenenti alla stessa corrente. A Milano, ad esempio, i procuratori capo da oltre trent’anni sono tutti di Magistratura democratica. Ovviamente sarà una coincidenza. A Roma pare fatta per Marcello Viola, toga di Magistratura indipendente e procuratore generale a Firenze. Una manina mai identificata, una settimana prima del voto in Plenum, fa filtrare ai giornali le intercettazioni dell’incontro avvenuto la sera fra l’8 ed il 9 maggio all’hotel Champagne di Roma, un albergo di terza categoria vicino alla stazione Termini dove era solito alloggiare Cosimo Ferri. Ferri e Palamara avevano organizzato questo incontro a cui parteciperanno cinque consiglieri del Csm e Luca Lotti. Si discute di nomine. Fra cui, appunto, Roma. Dopo la pubblicazione della notizia dell’incontro sui giornali, Palamara viene perquisito ma non arrestato, sorte che sarebbe capitata a chiunque fosse accusato per i medesimi reati. L’indagine di Perugia ha la prima discovery. I giornali, tre per la precisione, Corriere, Repubblica e Messaggero, pubblicano a puntate stralci di questo incontro. La notizia costringe alle dimissioni tutti i consiglieri coinvolti. Paolo Criscuoli è l’unico che resiste. Dopo la pausa estiva tenterà di entrare in Plenum ma gli verrà impedito da alcuni togati. Non si è mai saputo chi. La nomina di Viola viene annullata e al Csm si consuma il ribaltone. Autonomia&indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo raddoppia la sua rappresentanza. Il nuovo procuratore di Roma sarà Michele Prestipino, magistrato di fiducia di Pignatone. E poi c’è lui. L’Iphone di Palamara con le sue chat. Un assedio quotidiano. Anche a notte fonda. Si scoprirà che erano centinaia i magistrati che si rivolgevano a lui per un incarico, un fuori ruolo, un direttivo. Un caso celebre è quello di Marco Mescolini, futuro procuratore di Reggio Emilia che arriva ad inviare a Palamara una bozza di parere di nomina che il Csm dovrà poi votare. Tutti i beneficiati del “sistema” Palamara sono adesso scomparsi e sono al sicuro. Il procuratore generale Giovanni Salvi ha sdoganato “l’auto promozione”. Nessuna sanzione per il magistrato che “anche in modo petulante” chiama il consigliere per attività di self marketing. Palamara fino ad oggi non ha raccontano nulla di quel sistema. Forse per timore della propria incolumità personale o forse perché sperava che non parlando si sarebbe salvato. Non è stato così. Sarebbe interessante, invece, conoscere come sono avvenute in questi anni le nomine degli uffici giudiziari più importanti del Paese. Se ci sono state trattative sottobanco con la politica, baratti, fascicoli archiviati e tenuti in sonno da parte degli aspiranti prima di passare all’incasso a Palazzo dei Marescialli. Palamara tutte queste cose le sa. Deve trovare il coraggio per una operazione verità. La Repubblica, non il quotidiano, gli sarà riconoscente per sempre.

La grande ipocrisia della rimozione di Palamara.  Maurizio Tortorella il 9/10/2020 su Panorama. La «rimozione», in psicoanalisi, è la cancellazione di un ricordo che causa troppa sofferenza. La mente non sopporta un'immagine, un momento del passato, così la seppellisce in un angolo buio della coscienza. Il termine «rimozione», nella sua accezione psicoanalitica, descrive perfezione anche che cosa sia accaduto oggi al Consiglio superiore dalla magistratura, che per l'appunto ha deciso di rimuovere Luca Palamara dalla magistratura: la pena più severa (e inusitata) prevista dalla giustizia disciplinare. Dentro quel Csm, oggi la magistratura (e di conserva la politica, che alla magistratura ormai regge la coda) ha deciso in realtà di rimuovere insieme con Palamara un problema fastidioso, o meglio la sua immagine, con un'ipocrisia degna dell'ottavo cerchio dell'inferno dantesco, il girone degli ipocriti. Sulla sorte di Palamara hanno deciso i giudici laici e togati del Csm dopo appena tre ore di camera di consiglio. La difesa dell'ex magistrato aveva chiesto l'assoluzione, o al massimo due soli anni di sospensione, in attesa della sentenza del processo di Perugia in cui l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati (dal 2008 al 2012), ex consigliere del Csm (dal 2014 al 2018), ma soprattutto potente leader di Unità per la Costituzione, Unicost, la corrente di centro delle toghe, da quasi due anni è imputato di corruzione. La procura generale della Cassazione ha confermato le accuse: il sostituto procuratore generale Simone Perelli e l'avvocato generale Pietro Gaeta hanno accusato Palamara di «comportamenti di elevatissima gravità» e di «voler condizionare, in modo occulto, l'attività istituzionale del Csm», di cui faceva parte. L'obiettivo della manovre del reietto era manipolare le competizioni e pilotare la corsa alle più importanti procure italiane, a partire da quella di Roma con la sostituzione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione nel 2019 (e dove lo stesso Palamara aveva presentato domanda per diventare procuratore aggiunto), e poi quella di Perugia. In realtà, Palamara non è un mostro, non è un alieno, non è un corpo estraneo alla magistratura. Palamara oggi paga per un sistema che non ha creato lui, ma al quale ha efficacemente e potentemente aderito come centinaia di suoi colleghi. Da decenni magistrati (quelli onesti, e ce ne sono parecchi), giuristi, avvocati, ma anche pochi politici avveduti e qualche innocuo cronista che si occupa di politica giudiziaria, denunciano l'osceno «mercato delle vacche» che si pratica ormai impunemente al Csm. Da decenni si sa che le nomine agli uffici superiori troppo spesso vengono inquinate da squallidi accordi di corrente, da interessi incrociati, da manovre sommerse, da amicizie e da inimicizie personali. Da decenni lo si dice e lo si scrive, lo si denuncia, senza però che mai nulla accada. Mai. I ministri della Giustizia s'insediano e dicono: «Ora serve una riforma del Csm». Poi, quando va bene, si adeguano all'andazzo. In certi casi ci hanno anche sguazzato allegramente. Poi, un bel giorno, capita che un magistrato che ha fatto parte del Csm ed è per di più il potente esponente di una corrente, venga casualmente intercettato mentre parla e «chatta» sul suo cellulare con decine di altri magistrati, che lo chiamano perché sono tutti interessati a fare carriera o (più meschinamente) vogliono bloccare la carriera del vicino di scrivania. E capita che quel magistrato si metta a parlare e chattare liberamente, perché è potente e si sente anche impunito e intoccabile, esattamente come capita a molti degli appartenenti alla sua stessa corporazione. E capita che anche tutti quelli che lo chiamano con lui parlino usando lo stesso linguaggio. Sul filo di quelle conversazioni, intercettate sul cellulare di Luca Palamara (e pubblicate da pochissimi giornali, come La Verità, perché la stragrande maggioranza dei media è parte dello stesso ottavo girone infernale di cui sopra), si sono letti atti di nepotismo, correntismo, carrierismo, tanti «ismi» che formano un mix velenoso, capace d'inquinare la giustizia e la stessa giurisdizione. Ma lo stesso accade, di sicuro, su decine, centinaia di altri telefonini. Ogni giorno. Insomma, così fan tutti. Ma allora, perché deve pagare soltanto uno? Quanti sono gli altri Palamara che ogni giorno giocano con le nomine delle Procure, forse anche e più di quello che oggi viene «rimosso»? Soprattutto, perché dentro il Csm non si è voluto scavare nel marcio del sistema, approfittando dell'occasione offerta dal caso Palamara, e perché quel sistema è stato lasciato inalterato? Via, nessuno è disposto a credere che tutti i magistrati che hanno avuto la fortuna di non incappare nelle chat di Palamara siano altrettante candide verginelle...Per tutto questo, ancor più di quel che si è letto nelle pagine e pagine delle intercettazioni del Palamara «rimosso», scandalizza l'ipocrita decisione del Csm, che prima ha rifiutato di ascoltare i testimoni che il magistrato incolpato avrebbe voluto chiamare alla sbarra, perché potessero raccontare quel che era effettivamente accaduto (e tutto quel che c'era da sapere), e poi ha deciso di chiudere velocemente la pratica con una veloce ghigliottinata. In realtà, è la magistratura degli ultimi 20 anni che meriterebbe la radiazione. E ha pienamente ragione Palamara, quando grida: «Sono consapevole di aver pagato per tutti, per un sistema che non funziona, che è obsoleto e superato». La speranza è che ora parli. Che dica tutto. E anche molto di più.

Il Csm fa fuori Palamara, ma la giustizia resta malata. Andrea Amata, 10 ottobre 2020, su Nicolaporro.it. L’ex presidente dell’Anm Luca Palamara è stato rimosso dall’ordine giudiziario. Così hanno sentenziato i giudici della disciplinare del Csm, accogliendo le tesi accusatorie della Procura generale di Cassazione. Nel dispositivo della condanna si fa riferimento alla “rimozione dall’ordine giudiziario”, dichiarando l’ex pm di Roma “responsabile di tutti gli illeciti”. La Procura generale della Cassazione lo ha incriminato di aver ordito un sistema per condizionare la nomina del Procuratore di Roma e di Perugia attraverso la complicità di uomini politici (Luca Lotti del Pd e Cosimo Ferri di Italia Viva). L’accusa, inoltre, ha addebitato a Palamara il tentativo di screditare alcuni colleghi. Il dibattimento si è concluso in poco meno di tre settimane, in controtendenza ai tempi biblici della giustizia “lumaca” che impiega anni per raggiungere una definizione processuale. Nel Palamaragate è mancato un momento complessivo di verità affinché si indagasse sul marciume correntizio interno alla magistratura con le degenerazioni di un sistema spartitorio sulle nomine. Tant’è che la sezione disciplinare del Csm, presieduta dal laico di estrazione M5s Fulvio Gigliotti, ha scremato l’audizione dei testimoni citati da Palamara, circa 133, preferendo soffermarsi sull’incontro dei “congiurati”, avvenuto l’8 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma, fra l’ex Pm di Roma, cinque consiglieri del Csm e i deputati Ferri e Lotti. Una premura sospetta del Csm nel liberarsi della figura scomoda di Palamara, che ha gravi responsabilità nell’aver architettato la sagra delle nomine, ma la corruzione è un reato che si consuma fra il corruttore e il corrotto, mentre con la radiazione dall’ordine giudiziario dell’ex presidente dell’Anm pare che in lui si incorporino entrambe le figure della relazione illecita. Giusto che Palamara paghi per le sue colpe senza, tuttavia, generare l’ipocrisia che la sua espulsione sia un toccasana sufficiente nel percorso riabilitante per la credibilità della magistratura. Il corpo dei togati è stato liberato da quello che può definirsi un’entità bacata, ma i mali endemici alla magistratura erano preesistenti a Palamara e probabilmente a lui sopravviveranno perché non si è avuto il coraggio di andare in profondità di un sistema patologico che premia le appartenenze correntizie, svilendo la dedizione della maggioranza dei togati estranei ai circuiti della rappresentanza ideologica. Non vorremmo che il processo a Palamara si fosse limitato a condannarne uno per salvare tutti nella velleitaria teoria che nell’ex presidente del sindacato dei togati si concentrassero tutte le colpe di un sistema che aveva delle connivenze diffuse nella magistratura. A Palamara è stato negato un compiuto diritto di difesa, escludendo dal banco della deposizione il lungo elenco di testimoni indicati dai suoi legali come se ci fosse stato il timore che potesse emergere un esteso quadro di degrado con una chiamata di correità generalizzata. Gli abusi di Palamara hanno evidenziato un’illegalità diffusa che ha tessuto una rete clientelare come mezzo di selezione degli incarichi distribuiti agli affiliati dell’Anm. Giusto condannare Palamara, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo schernì attribuendogli «una faccia da tonno», ma insabbiando l’accertamento delle plurime complicità, partecipi delle perversioni del sistema correntizio, si rischia di lasciare liberi di pinneggiare gli squali del carrierismo giudiziario: i simboli dello stato dei…”dritti”. Andrea Amata, 10 ottobre 2020

Palamara rimosso dalla magistratura: «Pago solo io, ma presto racconterò la verità». Simona Musco su Il Dubbio il 9 Ottobre 2020. La sentenza del Csm: l’ex presidente dell’Anm radiato dalla magistratura. «Da oggi parte la mia battaglia con il Partito Radicale per una giustizia giusta». «Pago io per tutti». Luca Palamara non è più un magistrato, rimosso da quel Csm di cui è stato parte e nel cui seno si sarebbe reso «infaticabile organizzatore, sceneggiatore e regista della strategia» per arrivare alle nomine ai vertici delle Procure di Roma e Perugia, secondo l’avvocato generale della Cassazione Piero Gaeta. La polvere è stata nascosta sotto il tappeto: il sistema, con la sua condanna, sarebbe stato distrutto. Perché un sistema, per il Csm, non esiste. Ma per l’ex presidente dell’Anm la partita non è chiusa: dicendosi non disposto a vestire il ruolo della vittima, annuncia di voler accogliere l’invito del Partito Radicale – che lo ha ospitato per la conferenza stampa con la quale ha commentato la sentenza pronunciata dai colleghi – per la creazione di una Commissione d’inchiesta in grado di fare luce sul mondo della magistratura. Dove a ragionare su nomine e logiche correntizie, spiega, non sarebbe stato solo lui. «Sarò in grado di fare i nomi delle persone con cui ho parlato di nomine, anche dei politici, non solo Lotti, non solo quelli del Pd», spiega. Con occhi segnati e voce pacata, Palamara annuncia ricorso. Prima alle Sezioni Unite della Cassazione, poi, se necessario, alla Cedu. Ma il processo alla magistratura, intanto, si sposta fuori dalle aule. «La mia nuova esperienza mi ha fatto maturare idee nuove e diverse, che prima non avevo», dice parlando di separazione delle carriere, tema sul quale nella sua vita da magistrato era orientato su un secco “no”. «Prima avevo una visuale dei problemi della magistratura, la visuale di chi esercita il terribile potere di giudicare, che spesso travolge fatti, persone e situazioni», sottolinea. La prospettiva ora è diversa, al punto da abbracciare le battaglie del Partito Radicale, contro il quale prima stava dall’altra parte della barricata: «Riflettiamo sul perché un fascicolo va avanti e un altro no», aggiunge parlando con i giornalisti. Non fa nomi – promettendo di farli a tempo debito -, ma descrive un sistema che «ha tagliato fuori coloro che non facevano parte». Un fatto «oggettivo», quello del mercato delle nomine, «piaccia o non piaccia», di cui lui non sarebbe stato l’unico protagonista.

"Porto e porterò sempre la toga nel cuore". Palamara fatto fuori dal Csm col processo-farsa: “Ho pagato io per tutti”. Rossella Grasso e Giacomo Andreoli su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. “Porto e porterò sempre la toga nel cuore essendomi sempre ispirato ai principi di una giustizia giusta”. Così Luca Palamara ha commentato a caldo, durante una conferenza stampa, la decisione dei giudici della disciplinare del Csm che hanno accolto le tesi accusatorie della Procura generale di Cassazione e hanno deciso che l’ex presidente dell’Anm va rimosso dall’ordine giudiziario. “Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava, che nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato – ha continuato Palamara – So che pago io per tutti che è esistita una magistratura silenziosa di tanti che mi hanno chiesto di andare avanti e non vengono allo scoperto”. Nel processo disciplinare, “il dottor Palamara aveva chiesto di difendersi depositando una lista di testi di 133 persone. Non gli è stato consentito. Non gli è stato consentito di difendersi provando”. Lo ha detto Giuseppe Rossodivita, legale di Luca Palamara, parlando alla stampa. “La prova è assolutamente mancata nel processo che ha portato alla radiazione di Palamara”, ha aggiunto. “È un modo di procedere purtroppo molto utilizzato nelle aule di tribunali quello di avere un parametro di riferimento del materiale probatorio molto molto traballante e lasco pur essendo più che sufficiente, secondo la giurisprudenza, per arrivare a sentenze che vanno a incidere pesantemente sulla vita delle persone”, ha aggiunto Rossodivita. Durante la conferenza stampa Palamara, visibilmente provato, ha detto di essere intenzionato a ricorrere tanto alle Sezioni unite, quanto, dovesse esserci bisogno, alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “23 anni di carriera ispirati ai principi della magistratura, messa in discussione per una cena con un parlamentare – ha continuato Palamara – ribadisco che non ho mai fatto nessun accordo con nessun parlamentare”. “Il sistema delle correnti nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato – ha continuato Palamara –  Io i politici li ho frequentato nel corso della mia attività. Per me il relazionarmi con la politica era funzionale alla tematica che stavo affrontando. Non ho mai barattato la mia funzione per fare un favore al politico di turno”. Si è scagliato contro il il sistema delle correnti in Italia: “Non l’ho inventato io – ha detto – Domina la magistratura da circa 40 anni e ha avuto sostenitori e forti critici all’interno della stessa magistratura. Indubbiamente ha penalizzato i non iscritti alle correnti anche sul versante delle nomine”. Continua a professare la sua innocenza e non ha intenzione di arrendersi. Spiega che di cene con politici ne ha fatte tante ma questo era sempre in virtù del suo lavoro e delle tematiche che andava ad affrontare. “Non solo Lotti – dice – I nomi dei politici che ho incontrato li farò, ma deve tutto essere documentato e circostanziato. Io sarò in grado di dire e documentare con chi mi sono trovato a parlare di nomine con politici diversi da Lotti. Di cene ne ho fatte tantissime”. A chi gli chiede se è pentito di qualcosa risponde: “La parola pentimento è una parola che faccio fatica a metabolizzare. Dal punto di vista dell’opportunità politica posso dire che la partecipazione di Lotti era meglio che non ci fosse ma è una partecipazione che in alcun modo ha alterato la nomina del procuratore di Roma”. E rimanda al mittente l’accusa di “fare la vittima” e dice: “Non voglio assolutamente assumere il ruolo di vittima, state tranquilli, così come non voglio abbattermi rispetto a quello che è accaduto oggi, il mio impegno sarà di battermi per la verità”. “La magistratura ha bisogno di uomini coraggiosi. Ci siamo difesi nel processo, sempre. Siamo stati sempre presenti in un processo che ha contingentato le udienze in 10 giorni. Questa è la mia risposta di rispetto e di ossequio delle istituzioni”.Il partito Radicale intanto chiede una Commissione di inchiesta sull’affaire Palamara. “Ci attiveremo con i capigruppo di Camera e Senato perchè ci sia una risposta a questa nostra richiesta” ha detto il segretario del partito Maurizio Turco.

La nuova vita dell'ex Presidente dell'Anm. L’accusa di Palamara: “Pago io per tutti, da indagato ho capito molte cose…” Paolo Comi su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. «Mi iscrivo al Partito Radicale». La nuova vita di Luca Palamara, da ieri ex magistrato, inizia nella sede del Partito Radicale. Terminato il processo disciplinare al Csm che ha sancito la sua rimozione dall’ordine giudiziario, Palamara si è recato ieri pomeriggio nella storica sede di piazza Argentina a Roma per rispondere in una conferenza stampa improvvisata alle domande dei giornalista e per mandare dei segnali ai tanti colleghi che fino al giorno prima gli chiedevano favori ed ora fanno finta di non conoscerlo. «Porto e porterò sempre la toga nel cuore», ha esordito visibilmente emozionato l’ex presidente dell’Anm ed ex zar indiscusso delle nomine a Palazzo dei Marescialli. «Mi ha sempre contraddistinto – ha proseguito – l’equità, il senso civico e la legalità, valori che metto ora a disposizione del Partito Radicale». Dopo aver affermato di essere pronto a ricorrere alla Corte dei diritti dell’Uomo per veder garantiti i propri diritti, Palamara ha iniziato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, lanciando messaggi ai “naviganti” delle Procure. «La mia carriera è stata messa in discussione per una cena con un parlamentare» senza che ci fosse alcuna «traccia di nominare un procuratore che potesse aggiustare i processi». Riferimento alla cena avvenuta all’hotel Champagne di Roma l’8 maggio del 2019 in presenza del deputato dem Luca Lotti, ex ministro dello Sport ed imputato a Roma nel processo Consip. Secondo l’accusa, infatti, Palamara avrebbe brigato con alcuni consiglieri del Csm per nominare il procuratore generale di Firenze Marcello Viola a procuratore della Capitale al posto di Giuseppe Pignatone, all’epoca appena andato in pensione. Viola, una volta nominato, avrebbe quindi dovuto aiutare Lotti nella sua vicenda giudiziaria. L’accusa, però, non ha mai portato alcuna prova di questo accordo. E neppure che Viola fosse a conoscenza di ciò. «Conosco bene i rapporti fra politica e magistratura negli ultimi venti anni avendo svolto un ruolo da protagonista», ha aggiunto Palamara, toccando l’argomento delle correnti. «Pago per tutti, per un sistema che non funziona, un sistema obsoleto che penalizza i non iscritti. I segretari delle correnti entrano Csm e danno disposizioni su chi nominare», ha affermato, puntualizzando che non ha comunque voglia di «passare per vittima». «Ho sempre frequentato politici, era funzionale per le tematiche che dovevo affrontare». E poi, «il sistema delle correnti domina la magistratura da circa quaranta anni. Vive di accordi prevalentemente fatti a sinistra con Area (il potente gruppo progressista della magistratura di cui fa parte Magistratura democratica, ndr). Quando ci sono stati spostamenti a destra sono venuti fuori i problemi». Non poteva mancare un accenno al famigerato trojan «che ha raccontato solo quello che è avvenuto durante la cena dell’hotel Champagne. Una foto parziale». La pubblicazione delle chat che raccontavano degli accordi sulle nomine «hanno molto infastidito all’interno della magistratura e mi duole aver letto che ho assunto una difesa che non dovevo». Una stoccata, dunque, ai colleghi che, come detto, hanno preso immediatamente le distanze. Come nelle migliori tradizioni, il meglio è arrivato al termine della conferenza stampa. «Sono in grado di raccontare degli accordi avuti con i politici per le nomine e di tante situazioni simili, e sono pronto a mettere a disposizione il materiale che ho in mio possesso». Nella nuova veste di aderente al Partito Radicale, infine, Palamara ha toccato due moloch: la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale, considerati “un mantra in magistratura”. «Da indagato ho capito tante cose», ha quindi concluso.

La radiazione a tempo record. Il giorno più nero del CSM: Palamara cacciato, ma chi trafficava con lui resta…Paolo Comi su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. L’esito era abbondantemente scontato: Luca Palamara è stato radiato dalla magistratura. La sentenza della Sezione disciplinare del Csm nei confronti dell’ex presidente dell’Anm è arrivata ieri mattina al termine di un “turbo processo” dove erano stati tagliati tutti i testimoni della difesa e dove erano state dichiarate ammissibili le conversazioni di Palamara con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, intercettate con il trojan, senza prima attendere la decisione del Parlamento. Se il dibattimento è stato sprint, la camera di consiglio non è stata da meno: poco di due ore. Il processo, durato appena tre settimane, ha segnato dunque un record per la disciplinare del Csm, caratterizzata da ben altre tempistiche. L’avvocato generale dello Stato Pietro Gaeta, che rappresentava la pubblica accusa, rispondendo a questa obiezione durante la sua requisitoria aveva sostanzialmente detto che si trattava di una fake news in quanto essendo Palamara sospeso cautelarmente dal servizio il processo doveva per forza concludersi in tempi rapidi. Dalle informazioni in possesso de Il Riformista lo scenario è però diverso. Anche in presenza di magistrati che hanno riportato pesanti condanne penali, e non era il caso di Palamara, trascorrono anni prima di giungere a una sentenza di radiazione dall’ordine giudiziario. Ma tant’è. Sulla carta l’ex presidente dell’Anm ha la possibilità di fare ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Ma anche a piazza Cavour l’esito, salvo improbabili colpi di scena, pare scontato, con la conseguente conferma della sentenza del Csm. «Non è l’esito di un procedimento disciplinare degno di questo nome, è piuttosto un esorcismo», ha commentato a caldo Giandomenico Caiazza, presidente delle Camere Penali. Il sospetto, anzi, la quasi certezza, è che la magistratura abbia voluto chiudere quanto prima la pratica Palamara ed il Palamaragate per tentare di recuperare davanti all’opinione pubblica un’immagine quanto mai compromessa. Alla domanda se si fosse trattato di una sentenza “politica”, il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, ha risposto diplomaticamente di no. Guizzi, terminando la sua arringa difensiva, aveva citato un passaggio del libro del giurista Salvatore Satta Il mistero del processo in cui era descritta l’udienza avvenuta a Parigi nel 1792 durante la Rivoluzione francese a carico del maggiore Bachmann, guardia svizzera del Re. La scena è quella dei sanculotti che invadono l’aula venendo prontamente bloccati dal giudice Lavau che gli intima di “rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada”. «Si sente dire in giro che la vostra sarà una sentenza politica e ciò per le ripercussioni che l’eventuale decisione diversa dalla rimozione di Palamara potrebbe determinare nell’ordine giudiziario e nei rapporti con gli altri poteri dello Stato: mi rifiuto di crederlo, sono convinto del contrario», aveva affermato Guizzi. Per poi aggiungere: «Sono certo che sarà frutto solo della vostra autonoma e indipendente capacità di giudizio io sono un giudice e quindi so». A nulla sono valse le ricostruzioni alternative fornite dalla difesa di Palamara, secondo cui la presenza del deputato dem Luca Lotti la sera del 9 maggio all’hotel Champagne fosse per incontrare il magistrato romano che aveva presentato la candidatura all’Authority della Privacy. Nessun patto oscuro per nominare il procuratore generale di Firenza Marcello Viola alla Procura di Roma. Anche perché l’accusa non ha mai affermato e neppure ipotizzato che Viola fosse il promotore di questi accordi o fosse a conoscenza di questi accordi che venivano discussi nel corso della riunione all’hotel Champagne. Si sarebbe trattato, insomma, di una nomina a sua insaputa per poi “sistemare” il processo di Lotti, imputato nell’indagine Consip. Mistero, infine, su cosa abbia fatto cambiare idea da parte dei davighiani a proposito di Viola, inizialmente votato in Commissione incarichi direttivi dallo stesso Piercamillo Davigo. Il pm antimafia Sebastiano Ardita, togato davighiano al Csm, aveva incontrato a pranzo Viola la mattina del 9 maggio. La circostanza, passata sotto silenzio, è emersa solo ieri. Con l’espulsione di Palamara il destino dei cinque consiglieri che hanno partecipato pare segnato. Difficile un metro di giudizio diverso. L’unica speranza per i cinque ex togati è di cercare di prendere tempo e sperare di essere giudicati da un Csm diverso, quando il clamore mediatico sarà scemato e la vicenda Palamara un lontano ricordo.

Palamara radiato dagli altri Palamara custodi nel sistema degli intrallazzi. Il suo caso  analogo agli  altri che hanno portato alla luce contrattazioni, favori, pressioni e mercati di influenze fra alcune toghe  e alcuni politici. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2020. L’hanno messo in coma giudiziario, Palamara. E da ieri come giudice non esiste più: è nella sua bara di cristallo come una barbuta Biancaneve e non può più muoversi né fiatare. Un trattamento perfetto. In questo modo il Consiglio Superiore della Magistratura ha risolto il proprio caso, nel quale il CSM è tutto: giudice ma prima di tutto imputato, testimone e corte suprema, senza far torto a nessuno, tranne che alla verità. Verità che non sfugge a nessuno: il sistema con cui il CSM funziona è stato più volte portato alla luce da giudici che indagavano su altri giudici, come nel caso di Palamara. Ma il problema non è Palamara, il problema è il sistema che va sotto la sigla del Consiglio Superiore della magistratura, che provvede a tutte le scelte e i compiti di indirizzo della magistratura. È la sua testa politica che avrebbe lo scopo di tutelare la Giustizia mettendola al riparo dalle intrusioni e dalle pressioni della politica, per poter garantire al cittadino sentenze non pilotate da altri interessi che non siano quelli della Giustizia stessa. Invece, il caso Palamara oggi e altri casi analoghi negli anni scorsi hanno portato alla luce un sistema di contrattazioni, favori, pressioni e mercati di influenze fra alcuni magistrati e alcuni politici. Dunque, l’emersione del “caso Palamara” è stato prima di tutto l’emersione del caso CSM e delle sue anomalie. E per questo il CSM, di fronte al caso Palamara che si sarebbe trasformato in un processo al Consiglio stesso, ha agito in modo tale che un tale processo non avvenisse e che tutto l’apparato difensivo e testimoniale del giudice incriminato non potesse arrivare in aula. Come? Sbarazzandosi in un colpo solo dell’imputato.

RIDOTTO AL SILENZIO. E dunque la sentenza è stata più che una condanna a morte, perché Palamara è stato cacciato dal corpo della Magistratura e allo stesso tempo ridotto al silenzio. L’imputato, come ricorderete, era stato vittima di intercettazioni Trojan che lo avevano beccato mentre in allegra socialità discuteva con altri suoi colleghi e con un paio di deputati i destini di alcune procure. Una a te, una a me, una a mamma che son tre. Tutto regolare. Le Procure – abbiamo dovuto imparare negli anni – si assegnano secondo una consultazione amicale politica a forma di cupola, in cui chi può si sceglie il giudice che gli fa comodo e chi non può s’attacca.

NON SIAMO IN PRUSSIA. Tutti conosciamo la vieta e l’edulcorante storia del “giudice a Berlino”. Bè’, noi non siamo in Prussia e il “sistema Palamara” aveva dimostrato – per iniziativa di altri giudici inquirenti, quelli di Perugia – che la nomina dei capi delle Procure avviene di norma per intrallazzo, amicizia politica, do ut des o come dicono (sbagliando) gli inglesi qui pro quo. In italiano : io ti do una cosa a te e tu mi dai una cosa a me, e stiamo pace. Povero Palamara. Lui, se abbiamo capito bene, era un giudice disciplinato e correntizio, faceva quel che gli dicevano di fare, si stava accuorto, trattava e faceva patti. Embè? Dov’è il canchero? No si fa forse così in Italia? ; ci fu un tempo, presidente del Consiglio superiore della magistratura il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in cui il suddetto Cossiga, stufo degli atti di ribellione del CSM di allora, chiamò l’Arma dei carabinieri, si fece passare il comandante generale e gli disse di spostare in piazza Indipendenza, dove ha sede la casa madre del Palazzo dei Marescialli., un reparto antisommossa con manganelli, armi e gas lacrimogeni. Poi affrontò il vice presidente del CSM (quello che comanda davvero) il democristiano Giovanni Galloni e lo minacciò di intervento militare in nome della legge. Cossiga è morto da dieci anni e l’abbiamo celebrato proprio in questi giorni. Un giorno, il povero Palamara era ospite da Maria Latella con quell’aria un po’ sgraziata e barbuta e Latella fece intervenire per telefono Cossiga il quale si rivolse al suo ospite e gli disse (lo potete rivedere su Youtube): “Lei, giudice Palamara non gode della mia stima. Io non credo che lei sia un buon giudice e inoltre il suo nome evoca quello di una specie di tonno pregiato. Vede? La sto offendendo”. Palamara impassibile mormorava: “Prendo atto signor Presidente, che cosa devo dire”. “E infatti – diceva Cossiga – lei non può dirmi niente, ma se vuole può querelarmi. Lei lo sa, sì, Palamara, che può querelarmi, vero?”. E così via. Lo fece nero. Palamara, poveretto, non fiatò. E non ha fiatato neanche ieri quando lo hanno buttato fuori dall’ordine dei magistrati che pareva il capitano Dreyfus quando lo degradarono davanti al reggimento disposto in quadrato: spezzata la spada, calpestato il kepì, via le mostrine. Così, lui, Palamara: cacciato come un cane. Col marchio della vergogna. Ormai, che Palamara abbia tutti i torti che l’intercettazione ha messo in piazza, lo sappiamo.

L’INTERCETTAZIONE. Sappiamo anche che quell’intercettazione era inutilizzabile senza il consenso della Camera perché coinvolge un deputato. Ma sta tutto lì. E il povero Palamara, non contento della disgrazia che gli era capitata fra capo e collo avendo fatto quello che fanno tutti, ebbe la malauguratissima idea di dire che era forse ora di raccontare in quale clima e con quali pressioni si erano svolti i processi contro Silvio Berlusconi. Allora si è sentita la lama della mannaia piombare giù lungo gli scalmi della ghigliottina e zàc, la testa col barbone cadere nel paniere. Aveva parlato del frutto proibito: la massa incredibile e mai vista dei processi contro Berlusconi con cui quell’uomo politico da quando è sceso in politica è stato trascinato sui banchi degli imputati più di quaranta volte. Palamara aveva detto proprio ciò che si sarebbe dovuto temere come un cecio sotto la lingua. E l’aveva spiato. Ma in che mondo credeva di essere. E a quel punto, in un disperato tentativo di muoia Sansone con tutti i filistei, il povero Palamara aveva avuto la bell’idea di stilare un listone di testimoni, tutti giudici come lui, che avrebbero dovuto sfilare davanti alla barra del tribunale del Consiglio superiore per confermare le malefatte di Palamara aggiungendo ciascuno gli altri nomi, il contesto, i mandanti e insomma quella cosa in Italia protetta dal WWF che è la verità. Era proprio pazzo quel brav’uomo: aprendo di cavallo aveva scoperto il re ed è stato subito scacco matto: ah, sì? Tu vorresti nientemeno che chiamare i tuoi testimoni? E poi li fai parlare? E pensi così di sputtanare il sistema? Ma con chi credi di avere a che fare? E gli hanno spiegato con i disegnini sul quaderno ciò che gli sarebbe capitato: non avrebbe nessun processo con testimoni, ma soltanto una sentenza fulminea, secca, definitiva e irreversibile: la condanna a morte del suo nome come giudice e la sua cacciata per sempre dai ruoli. E così è stato: Palamara vista la disgrazia puramente casuale che gli era caduta fra capo e collo, sapendo di essere come gli altri o comunque non peggio e che il sistema funziona con le sue regole, aveva pensato come in un romanzo di Victor Hugo di arrivare alla scoperta finale della verità, alla chiamata di correo, alla catarsi della giustizia e sognava di pronunciare una grande orazione che avrebbe concluso dicendo: “Se io sono colpevole, colleghi giudicanti, tutti siamo colpevole voi per primi”. Ma, come abbiamo visto, col cavolo che gli hanno permesso di esibirsi in questo pezzo di teatro. L’hanno cacciato come un cane, senza dargli la possibilità di difendersi dimostrando che la pressione ambientale era uguale per tutti, gli hanno impedito di esercitare realmente la sua difesa e di passare all’attacco e gli hanno semplicemente tagliato la testa, spedendolo nel limbo di casi collaterali della giustizia italiana, anticamera del dimenticatoio. Povero Palamara, povero giudice italiano, divorato come un tonno di scarsa qualità per aver agito come molti altri nella sua stessa condizione. Ha fatto da capro espiatorio perché certamente non era innocente, ma ha pagato per aver osato minacciare il sistema rivelando tutto quel che sapeva, con prove e testimoni.

Rischia di saltare il disciplinare per i cinque ex togati del Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 24 agosto 2020. Iniziato il “processo” ai magistrati coinvolti nella cena all’Hotel Champagne. Il difensore di uno degli incolpati: giudizio nullo per tardività. Il collegio deciderà il 5 novembre. Terminato il “turbo processo” a Luca Palamara, ieri è stato il turno di quello a carico dei cinque ex consiglieri di Palazzo dei Marescialli, Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli e Corrado Cartoni, che parteciparono con l’ex presidente dell’Anm al “celebre” dopo cena all’hotel Champagne di Roma. I cinque magistrati, come si ricorderà, incontrarono nell’albero romano i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Fra gli argomenti di discussione, la nomina del nuovo procuratore di Roma. Lotti, all’epoca, era già imputato a piazzale Clodio in uno dei filoni del processo Consip. L’udienza di ieri davanti alla sezione disciplinare del Csm è stata dedicata alle questione preliminari. Il procuratore aggiunto presso il Tribunale di Napoli Nord, Domenico Airoma, difensore del pm Antonio Lepre, ha chiesto di sospendere il processo disciplinare e trasmettere gli atti alla Corte costituzionale. Secondo il difensore del pm della Procura di Paola, va sollevata questione di legittimità in relazione alle norme che prevedono la facoltà del ministro della Giustizia di esercitare l’azione disciplinare nei confronti di consiglieri del Csm nell’esercizio delle loro funzioni. «Secondo me – ha detto Airoma – non è consentito, ed è un grave rischio, che il ministro vada a sindacare le condotte dei componenti del Csm. Serve tutelare il Csm come organo di autogoverno». Il difensore di Spina, pm a Castrovillari, l’avvocato Donatello Cimadomo, ha invece sottolineato la nullità della richiesta di giudizio disciplinare, per ‘ tardività’, rispetto a uno dei capi di incolpazione. Tesi condivisa anche dal professore bolognese Vittorio Manes, che difende il giudice di Reggio Emilia Morlini. I tre difensori hanno, poi, accennato al tema, già sollevato a suo tempa dalla difesa di Palamara, dell’utililizzabilità delle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm. Il collegio, presieduto dal laico. Filippo Donati, dopo la camera di consiglio, ha comunicato che tutte le questioni preliminari saranno affrontate nella prossima udienza, fissata per il pomeriggio del 5 novembre. In quella sede, anche la Procura generale della Cassazione presenterà le sue osservazioni sulle istanze sollevate dai difensori. All’udienza di ieri erano presenti solo Spina e Morlini. Rinnovata, infine, la composizione del collegio disciplinare. Dopo il pensionamento di Piercamillo Davigo, il posto dell’ex pm di Mani pulite è stato preso da Carmelo Celentano.

DAGONOTA il 23 ottobre 2020. Essì, la magistratura ha cambiato musica. A Roma, il nuovo capo della Procura di Roma, Michele Prestipino è cresciuto nell’ombra di Giuseppe Pignatone che è passato direttamente dalla “bocciatura” definitiva in Cassazione di “Mafia Capitale” alla Presidenza del Tribunale del Vaticano. Ora ha fra le mani il caso Marogna-Becciu. Vorrà riscattarsi dalla sconfitta sul caso “Buzzi-Carminati”? O la povera coppia di fatto Marogna-Becciu sarà solo gli obiettivi mediatici utili a coprire la vasta rete di intrecci dentro e fuori il Vaticano? Lo “sfottò” continuo e pubblico di Salvatore Buzzi, tornato libero, ha raggiunto un livello poco sopportabile, e il nuovo capo della Procura di Roma non attende l’ora di affrancarsi dal modello del suo predecessore: collegialità, delega, passo indietro rispetto al rapporto con la politica, svuotando i cassetti dei tanti dossier ancora in attesa di essere ripescati. Il caso Palamara, cresciuto dentro gli assetti precedenti del CSM e degli incroci con molte procure italiane ma soprattutto quella romana, ha talmente incrinato la credibilità della magistratura italiana, che la voglia di riscatto di molti procuratori è tale da ricominciare una stagione di inchieste e di sentenze esemplari (vedi a breve Eni e vedi l’altro ieri MPS/Profumo: a proposito, quali saranno le conseguenze di questa sentenza di primo grado all’interno di Leonardo? Qualcosa già si muove, esternamente ed internamente). Inoltre la stessa aria di cambiamento che si comincia a respirare alla Procura di Roma, la si comincerà a respirare presto in altre Procure importanti. Il nuovo CSM sarà foriero di scelte e novità che faranno aprire i cassetti un po’ ammuffiti di Milano, Palermo, per citare solo due tribunali. Attendiamoci poche inchieste mediatico-spettacolari ma più rilevanti, insieme a diverse sentenze esemplari. La Magistratura vuole dimostrare la propria autonomia rispetto agli altri poteri.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 29 ottobre 2020. Palamara? E chi lo conosce? Ora che all' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati è stata tolta la toga di dosso, cacciato per indegnità dopo un processo lampo davanti al Csm, non si trova un solo giudice in Italia disposto ad ammettere di essergli stato amico. Peccato che nei meandri dell' indagine della Procura di Perugia, analizzando le tonnellate di chat succhiate dal telefono di Palamara dal trojan della Guardia di finanza, si possa ricostruire un documento sorprendente e - per alcuni aspetti - imbarazzante. Sono i messaggi che piombano sullo smartphone del pm romano nel giorno che dà il via al putiferio: il 29 maggio 2019, quando per la prima volta sui giornali viene rivelata l' esistenza dell' indagine contro di lui. Da un capo all' altro della penisola, giudici e pubblici ministeri sommergono Palamara di dichiarazioni di stima, di solidarietà, di affetto: a volte pacatamente, a volte sfiorando quasi il ridicolo, i colleghi fanno sapere al loro leader che stanno dalla sua parte contro la «macchina del fango» che lo ha preso di mira. Tra i firmatari c' è qualche nome noto, e pure un paio di miracolati dal «sistema Palamara», le nomine spartite tra le correnti. Ma la maggioranza sono magistrati-massa, la base elettorale del grande tessitore di alleanze e di accordi. «Siamo con te!», gli scrivono. Nei mesi successivi, uno dopo l' altro, spariranno tutti. Centottanta messaggi nell' arco di poche ore: ribolle di affetto, nella lunga giornata primaverile, il cellulare di Palamara. A leggerli col senno di poi, ci sono casi eclatanti, come il presidente di tribunale che scrive: «Ti sono umanamente vicino, le notizie a orologeria quasi mai sono casuali. Sono sicuro che andrà tutto bene». Beh, è lo stesso giudice che qualche mese dopo tuonerà: «Palamara deve farsi da parte!». Ma in quelle ore la fiducia verso il leader sotto tiro è granitica. «Ciao, per me è spazzatura», fa sapere una giudice. «Ho imparato a conoscerti e a stimarti in questi anni - scrive dalla Sicilia un procuratore della Repubblica - e ti confermo la mia vicinanza anche in questa circostanza! Sono certa che tutto si chiarirà e allora festeggeremo». Un pm pugliese: «La macchina del fango è sempre pronta quando devono far fuori i migliori. È dura ma ne uscirai a testa alta». Ci sono sprazzi quasi lirici: «Richiama tutte le forze e le energie che ritenevi di avere perso, affronta il nuovo scenario, recita il ruolo, cerca di interpretarlo in armonia con la tua essenza, credi nel tuo futuro, esercita la mente, mantieni l' identità». Più concreta la dirigente di una sezione meridionale dell' Associazione magistrati: «Sono grandi carognate». Anche due procuratori della Repubblica settentrionali accorrono in sostegno di Palamara: «Tu lo sai - scrive uno dei due, da una città della bassa lombarda - che x me sei sempre il più grande di tutti , vero?». Molti si lanciano già nelle ipotesi sui motivi dell' attacco: e se c' è chi sta sul generico, «l' invidia arriva a livelli assurdi, è la stagione dei veleni», c' è anche chi entra più nei dettagli. «Hanno strumentalizzato una notizia nota da mesi per influenzare esclusivamente la nomina alla procura di Roma», scrive un giovane giudice della Capitale. «Nessunissimo dubbio - aggiunge un altro collega - sull' onestà e rettitudine di Luca che conosco da tempo immemorabile prima del nostro ingresso in magistratura; la tempistica la dice lunga: in vista delle imminenti nomine, i soliti noti hanno messo in moto la scontata macchina del fango». Il più tortuoso: «Non so quanto siano i sinistri o varie convergenze" anche di presunti amici. Ora ti dico: guarda avanti, il tempo è galantuomo». Sarebbe impietoso liquidare ora questi messaggi come casi di piaggeria: perché vi si leggono preoccupazione ed affetto sinceri. «Fratello ti voglio ancora più bene, ti abbraccio forte», scrive uno, mentre una collega porge a Palamara la sua spalla, «se hai bisogno di parlare io ci sono». C' è persino chi si preoccupa dei guai domestici, «chiarirai tutto anche in famiglia», e chi si rivolge più in Alto: «Ti sono vicina con l' affetto di sempre e prego per te». A stranire è semmai quanto accade dopo, la velocità con cui i sodali del 29 maggio svaniscono nei mesi successivi. A dire il vero, il giorno stesso degli articoli uno dei messaggi contiene una facile profezia: «Molti ti volteranno le spalle, ma io ci sarò», scrive un giudice del nord.

L’erede di Davigo al Csm? Tramava con Palamara…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Con l’uscita di scena, contro la sua volontà, di Piercamillo Davigo, dalla scorsa settimana il posto dell’icona di Mani pulite al Csm è stato preso da Carmelo Celentano, il primo dei non eletti. Sconosciuto al grande pubblico, Celentano, sostituto procuratore generale in Cassazione, è stato per anni uno dei fedelissimi dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, recentemente radiato dalla magistratura. Entrambi di Unicost, la corrente di centro, i due si sono messaggiati per anni. In particolare, Celentano sponsorizzava i colleghi che aspiravano a una nomina, chiedendo di essere costantemente aggiornato sullo stato delle pratiche. «Ho parlato con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di Pst (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». All’indomani del voto per il rinnovo del Csm, a luglio del 2018, Celentano, non eletto, è furente: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». E subito Palamara: «È una cosa vergognosa e assurda: non riesco ad accettare quello che è accaduto. Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio». Rincuorato dal messaggio dello zar, Celentano scrive: «Caro Luca, ti ringrazio per l’affetto che ricambio immutato! Io so riconoscere le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri. Un abbraccio sincero». Dopo aver chattato come un forsennato con Palamara, Celentano sarà adesso il “giudice di se stesso”, essendo stato destinato a coprire il posto di Davigo anche alla sezione disciplinare del Csm. Dopo essere stato fra i più stretti collaboratori del titolare dell’azione disciplinare, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, Celentano giudicherà adesso l’attività svolta dal suo momentaneamente “ex” ufficio. Quando fra due anni terminerà il mandato al Csm, infatti, Celentano dovrà far ritorno a piazza Cavour. Si poteva evitare questa “incompatibilità d’ufficio”? Certo. Al posto di Davigo alla disciplinare poteva andare Loredana Miccichè, già giudice in Cassazione. Sulla non scelta della togata pare (il condizionale è d’obbligo) abbia pesato nei giorni scorsi una sua intervista al quotidiano Il Giornale in cui manifestava perplessità sul modo in cui era stato condotto il turbo processo a Palamara.

Palamara silura l’erede di Davigo: “Celentano mi pressava per le nomine”. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Ottobre 2020. «Carmelo Celentano? È un ottimo cuoco. Ricordo che ogni volta che mi invitava a cena a casa sua il livello qualitativo delle portate era altissimo. Ricordo anche, però, che tutte le cene si concludevano sempre allo stesso modo: con sue continue e pressanti richieste per sistemare questo o quel magistrato». Così Luca Palamara all’indomani dello scoop del Riformista che ha pubblicato alcuni fra i tantissimi messaggi contenuti nella sua chat con Celentano, sostituto procuratore presso la Procura generale della Cassazione e attuale consigliere del Csm dopo essere subentrato, dalla scorsa settimana, al posto del pensionato Piercamillo Davigo. Dalla lettura di questi messaggi, tutti agli atti del procedimento penale pendente a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e di cui è in corso l’udienza preliminare, emergeva una strettissima e pressante interlocuzione di Celentano con Palamara per avere informazioni su nomine, tempistiche, e quant’altro riguardasse i colleghi che aspiravano ad un incarico. Secondo la recente circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il capo di Celentano, si trattava comunque di attività lecite, senza alcuna rilevanza disciplinare. Il pg nelle scorse settimane aveva, infatti, sdoganato per i magistrati l’attività di self marketing, svolta in proprio o “esternalizzata” ad altri colleghi, come nel caso di Celentano. I messaggi fra Celentano e Palamara, come tutti quelli contenuti nelle altre chat dell’ex capo dell’Anm, sarebbero da mesi all’esame della task force istituita da Salvi a piazza Cavour. Nonostante le rassicurazioni di Salvi sulla correttezza dell’auto promozione togata, il primo a intervenire in maniera critica dopo la lettura dello scoop del Riformista era stato sulla propria pagina Fb Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, neo eletto al Consiglio giudiziario di Venezia con Articolo 101, il gruppo delle toghe “anticorrenti”. Celentano è anche componente della Sezione disciplinare del Csm. Quindi “giudice dei giudici”. La Sezione, si ricorderà, che sta ora giudicando i cinque ex togati coinvolti nella cena con lo stesso Palamara all’hotel Champagne dello scorso anno quando si discuteva del futuro procuratore di Roma. Anche il collega di Articolo 101, Andrea Reale, gip a Ragusa e da poco eletto all’Anm, tramite mail aveva chiesto chiarimenti a Celentano sul contenuto di tali messaggi. Da quanto appreso, Celentano avrebbe confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi anche del loro “profilo umano”. La risposta non ha convinto il giudice Mirenda: “A che titolo si informa? Quale legittimazione aveva per chiedere ragguagli, informazioni, raccomandazioni, anche di tipo ‘umanitario’”? Il paragone, in automatico, è con tutti gli altri cittadini della Repubblica che non hanno il privilegio di indossare la toga. «Se un privato avesse interferito senza averne titolo in un procedimento amministrativo volto a conferire incarichi, appalti, concessioni a quali responsabilità si sarebbe esposto?». La risposta Mirenda non la fornisce ma ci permettiamo di fornirla noi: la prigione. Celentano, nella sua risposta, ha preso anche le distanze da Palamara. Una “pia bugia” sarebbe quanto dichiarato da Palamara sul fatto che i colleghi di Unicost non avessero votato per lui alle ultime elezioni per il Csm, preferendogli invece Davigo, poi eletto in maniera plebiscitaria. Sempre Palamara: «Un consigliere ha l’obbligo di raccontare la verità. Celentano mi accusa di aver detto una bugia. Se intende riferirsi al fatto che una parte del gruppo di Unicost di Roma di cui facevo parte aveva votato per Loredana Miccichè (togata di Magistratura indipendente, poi eletta insieme a Davigo per i due posti destinati ai giudici di legittimità al Csm, ndr) a suo danno, gli rispondo di averlo votato convintamente e di averci sempre messo la faccia». «Anche se non ho mai condiviso il metodo della cooptazione con il quale venne la sua candidatura – prosegue infine Palamara -auguro buon lavoro al consigliere Celentano. Sono personalmente contento che abbia coronato la sua aspirazione».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 29 ottobre 2020. A giugno questo giornale aveva pubblicato la chat del sostituto procuratore generale della Cassazione, Carmelo Celentano, con Luca Palamara, il kingmaker delle nomine, radiato dalla magistratura il 9 ottobre. Nel 2018 Celentano era risultato il primo dei non eletti alle elezioni per il Consiglio superiore della magistratura a causa del plebiscito in favore di Pier Camillo Davigo, da lui definito sarcasticamente in campagna elettorale «il pensionando». Adesso lo stesso Celentano è entrato al Csm proprio al posto di Davigo, spedito ai giardinetti dal voto del plenum del parlamentino dei giudici. Il neo consigliere è stato subito piazzato nella sezione disciplinare, che durante il giudizio lampo contro Palamara era stata stravolta. Un blitzkrieg che aveva costretto alla panchina pezzi da novanta come Giuseppe Cascini e il vicepresidente David Ermini. Adesso il cerino è passato nelle mani di Celentano che dovrà giudicare i colleghi spediti davanti al disciplinare dalla Procura generale della Cassazione per quelle chat in cui, però, compare a sua volta. Palamara giustifica così con La Verità la scelta del vecchio compagno di corrente: «La designazione di Celentano come candidato di legittimità della Cassazione per Unità per la costituzione è frutto di un meccanismo di cooptazione interno alle correnti e rispondeva alla necessità di trovare un punto di equilibrio con l' area napoletana di Unicost». La notizia della nomina del consigliere chattante ha incendiato la mailing list delle toghe e ha costretto Celentano a rispondere a chi lo chiamava in causa. Un' arrampicata sugli specchi di cui non era difficile immaginare lo stridore di unghie in sottofondo. Per lui i messaggi a Palamara non erano altro che innocenti «richieste di informazioni, nei limiti di quanto ostensibile, sullo stato di alcune pratiche che riguardavano colleghi del mio ufficio, o degli uffici di legittimità» oppure «sullo stato di pratiche di colleghi da me conosciuti, anche da poco e neppure vicini al gruppo che mi sosteneva elettoralmente, i quali mi avevano contattato chiedendo mere informazioni sui tempi di trattazione». Una specie di Urp a disposizione di colleghi vicini e lontani.  Celentano, nella sua autoassoluzione, specificava un altro sprone ai suoi interventi: «Mi preoccupavo, nel rispetto delle decisioni prese o da prendere, del profilo umano che coinvolgeva le persone che si erano sentite forse ingiustamente pretermesse, nella convinzione che fosse opportuno anche da parte del consigliere comprenderne lo stato d' animo». Quasi un ruolo da psicologo, verrebbe da dire. Come quando spiega a Palamara di aver «tranquillizzato» Francesco Salzano, appena stoppato dal Csm nella sua corsa ad avvocato generale, e lo invita a rasserenarlo a sua volta con la «prospettiva dei prossimi posti». Ma la mail di Celentano ai colleghi serve soprattutto a prendere le distanze da Palamara: «Notoriamente le nostre posizioni associative erano distanti su molti temi, inclusa la forte critica all' attività di quella consiliatura, critica che io svolgevo in pubblico ed in privato, nelle più svariate materie». Divergenze che non emergono nei messaggi e tanto meno nell' ultimo scambio tra i due, dopo la sconfitta di Celentano nella corsa al Csm. Palamara: «Carissimo Carmelo ancora adesso a mente fredda non riesco ad accettare quello che è accaduto. È necessaria una profonda riflessione ancora di più dopo "lo schifo" (non trovo altre parole) dell' intervista di oggi sul Fatto (di Marco Travaglio a Davigo, il vero nemico dei due, ndr). Tu hai lucidità politica e permettimi di dire io e te (ricorda il mio ultimo intervento al congresso) avevamo fiutato il pericolo Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato! E non lo accetterò mai». Celentano: «Ti ringrazio per l' affetto che ricambio immutato! Io so riconoscer e le persone che hanno testa e cuore come te. Abbiamo tuttavia entrambi la necessità di far crescere davvero il gruppo, liberandolo da qualche bassezza che la magistratura non merita. E su questo conto ancora una volta su di te e su pochi altri». Una corrispondenza di amorosi sensi che martedì Celentano ha liquidato come «saluti finali "politici"» che si collocano «in un contesto di naturale umanità, direi reciproca, in cui entrambi consapevolmente abbiamo detto due "pie bugie"». La replica di Celentano ha fatto infuriare diversi magistrati, tra questi Felice Lima, il quale, di fronte alle giustificazioni del collega, si è lanciato in una pesante invettiva: «La cosa veramente impressionante è che soggetti come questo qua stanno alla Procura Generale della Cassazione. [] le condotte di questo Celentano, ove le chat fossero autentiche e le dichiarazioni di Palamara ai giornalisti vere, non riguarderebbero solo la promozione di se stesso, benedetta dal Salvi (Giovanni, procuratore generale della Cassazione, ndr) come opera pia, ma anche interessi di altri. Ergo, immagino che Salvi, con l' aiuto di Salzano (il collega «tranquillizzato» da Celentano, ndr) starà svolgendo approfondite indagini per scoprire la verità e, se del caso, mandare il Celentano a giudizio dinanzi al Celentano stesso! Hanno davvero la faccia come altre parti anatomiche! E la magistratura è oggettivamente indifendibile!». A giugno avevamo raccontato di un incontro avvenuto nell' ottobre del 2017 al Csm tra Palamara, Celentano e l' avvocato generale Luigi Salvato (un altro dei pm che hanno indagato su Palamara & c.), questi ultimi in corsa per candidature e nomine. Ma quello non fu il solo appuntamento tra i tre. Palamara ricorda «le discussioni con Celentano sull' assetto della procura generale anche alla presenza di Riccardo Fuzio (ex pg della Cassazione, ndr) e di Salvato» presso il suo ufficio al Csm. «Ricordo bene anche le discussioni con i colleghi Massimo Forciniti e Pina Casella (mentore di Celentano)» continua il magistrato radiato, «sull' assetto interno della corrente di Unicost presso la sua abitazione». Incontri conviviali che comprendevano nel menù anche le nomine. Come sottolinea Palamara, che forse di quei banchetti ricorda ancora l' Alka-seltzer: «Carmelo prepara primi prelibati, ma purtroppo venivano resi indigesti dalle solite tediose discussioni sulla distribuzione dei posti tra gli appartenenti alle correnti». Del resto nelle chat il suo interesse per la materia balza all' occhio. Come quando si informa sulle decisioni per i posti di procuratore aggiunto di Trapani e di Bergamo o di presidente di sezione del tribunale di Padova. Mentre chiede incontri e aggiornamenti, Celentano dà l' impressione di essere un fan di Palamara. Come quando gli scrive: «Il tuo intervento è stato perfetto». Oppure: «Sei fondamentale come sempre». O ancora: «Sei la nostra speranza». O dove definisce di «significato politico inestimabile» la nomina di Fuzio. Sino all' apoteosi: «È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo». Nel marzo 2018 è fiducioso per la sua elezione al Csm: «Siamo una squadra molto efficace insieme». A luglio, dopo la sconfitta, sprofonda: «Come vedi mi hanno venduto per un pugno di voti». Qualche tempo dopo, disgustato, lascia Unicost. Adesso è arrivato il risarcimento. Con tanto di contrappasso. Davigo fuori e lui dentro. Nonostante le chat.

Le chat pubblicate dal Riformista. L’assalto degli uomini di Davigo a Celentano: è socio di Palamara, deve lasciare. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Carmelo Celentano – forse – farebbe meglio a tornare al suo ufficio in Cassazione. Dopo lo scoop di questa settimana del Riformista che ha pubblicato alcuni dei messaggi che il neo consigliere del Csm si scambiava con l’ex potente presidente dell’Anm Luca Palamara, sono tanti i magistrati che ritengono sia opportuno che Celentano lasci Palazzo dei Marescialli. La presa di posizione più forte è quella delle toghe del gruppo di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo e di cui Celentano ha preso il posto al Csm dallo scorso 20 ottobre, ultimo giorno di servizio per raggiunti limiti di età dell’ex pm di Mani pulite. I davighiani fanno appello al senso istituzionale di Celentano, già sostituto procuratore generale in Cassazione, affinché faccia proprie, prima possibile, determinazioni rispettose degli alti compiti ai quali è stato chiamato». Il motivo è da rintracciare nella ormai micidiale chat di Palamara che descrive «comportamenti perfettamente in linea con il diffuso sistema clientelare di recente disvelatosi in modo chiaro». Erano tantissimi i messaggi che i due, esponenti di primo piano di Unicost, si scambiavano. «Ho parlato – scriveva Celentano – con Salzano (Francesco, ora avvocato generale in Cassazione, ndr), lo ho tranquillizzato per il futuro e gli ho detto che lo avresti chiamato. Se gli dai la prospettiva dei prossimi posti sarà sereno», scrive Celentano a novembre del 2017. Palamara risponde: «Ho parlato con Salzano, è tutto ok». «Votato Salvato (Luigi, ndr) unanime», esordisce qualche settimana più tardi Palamara. «Sei fondamentale come sempre. È tutto nelle tue mani. Per questo sono tranquillo», replica Celentano. «Volevo notizie su PAT (procuratore aggiunto, ndr) Trapani; alcuni colleghi mi parlavano di Rossana Penna attualmente a Trapani, che a detta di Area (la corrente di sinistra, ndr) se la dovrebbe contendere con Marzella (Carlo) ora a Palermo. Oltre a questo mi hanno ricordato di PST (presidente sezione, ndr) Padova. Se puoi chiamami», scrive Celentano nella primavera del 2018. «PAT Trapani ancora non trattata. Per PST Padova lo metto prossima settimana», risponde Palamara che da zar delle nomine aveva il potere di decidere anche l’ordine cronologico dei posti da assegnare. «Scusa caro Luca, potresti aggiornarmi sulla situazione di Rossana Penna per procuratore aggiunto Trapani e procuratore aggiunto Bergamo? La dovrei sentire domani. Un abbraccio», ancora Celentano. «Bergamo ti spiego tutta situazione a Milano. Per aggiunto Trapani trattiamo prossima settimana con PAT Palermo», risponde Palamara. «Martusciello – prosegue Celentano – voleva notizie su Lagonegro, gli ho detto che tu mi hai detto che già sapevi tutto e che la situazione è un po’ complicata». E poi: «Come sta messo Raffaele Frasca per PS (presidente di sezione, ndr) Cassazione? Ce la fa? Avvisami quando sai qualcosa». Palamara, contattato dal Riformista aveva ricordato che Celentano lo invitava spesso, prima di essere candidato al Csm, a cena e che lo pressava con richieste per sistemare questo o quel magistrato. Celentano ha confermato di aver messaggiato con Palamara e di aver chiesto, su sollecitazione dei colleghi, informazioni sullo stato delle pratiche che li riguardavano, preoccupandosi del loro “profilo umano”. Leggendo la chat, però, il sostituto pg della Cassazione non si informava solo dei destini dei colleghi ma anche degli assetti del Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare dall’ufficio del Segretario generale, l’ufficio più importante di Palazzo dei Marescialli, quello che ha i rapporti con il Quirinale. Il 6 giugno del 2018 scrive Celentano a Palamara: «È in plenum la pratica vice segretario? Sai che fa Riccardo (Fuzio, procuratore generale della Cassazione, all’epoca il suo capo, ndr)?». Palamara: «Stiamo discutendo ora. Riccardo già si è espresso come Comitato di presidenza (composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente della Cassazione e, appunto, da Fuzio, ndr). Che ha portato in plenum Fiorentino (Gabriele, di Magistratura democratica, ndr). «Quindi in favore di Fiorentino?», aggiunge Celentano. «Sì», la risposta di Palamara. Il giudice Andrea Reale, neo eletto all’Anm per articolo 101, il gruppo “anticorrenti” aveva chiesto a Celentano chiarimenti sul suo comportamento. Dopo la prima risposta di quest’ultimo, Reale aveva replicato aggiungendo: «Potremmo dire a tutti i magistrati che è lecito, anche sotto il profilo deontologico, contattare direttamente un consigliere del Csm per chiedere notizie su colleghi del proprio ufficio, o degli uffici di legittimità, oppure sullo stato di pratiche di colleghi da loro conosciuti e di preoccuparsi del profilo umano dei richiedenti con i componenti del Consiglio?». E poi: «È consentito da oggi che circa 10.000 magistrati contattino i sedici consiglieri togati per chiedere notizie sulle pratiche degli altri 9.999? O sussiste, in questo genere di condotte, un profilo deontologicamente rilevante?». «Da consigliere è pronto a fornire la sua utenza cellulare a tutti i magistrati italiani che vogliano interessarsi delle pratiche di un loro collega amico?», aveva quindi aggiunto Reale. Difficile che il diretto interessato risponda nuovamente.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 31 ottobre 2020. Il Consiglio superiore della magistratura lo ha mandato in pensione e lui ha annunciato ricorso al tribunale amministrativo del Lazio, lamentando di non aver ricevuto «un cenno» da parte del presidente Sergio Mattarella (per una partita a briscola?). Ma adesso scopriamo che proprio il giorno in cui il plenum del parlamentino dei giudici lo ha sbullonato dalla poltrona, Piercamillo Davigo ha lanciato alle sue spalle una piccola bomba a mano, l' ultimo mistero dell' ex campione di Mani pulite. Infatti il 19 ottobre Davigo è stato sentito, su richiesta dei legali di Luca Palamara, come persona informata dei fatti negli uffici della Procura di Perugia, al cospetto anche del procuratore Raffaele Cantone. Gli avvocati Roberto Rampioni, Benedetto e Mariano Buratti, nell' ambito delle loro indagini difensive, stanno investigando da tempo sulle reali dinamiche dietro alla candidatura del pg di Firenze Marcello Viola a procuratore di Roma, sulle fughe di notizie sull' inchiesta del loro assistito e sull' esposto dell' ex pm Stefano Fava contro il suo vecchio capo, Giuseppe Pignatone. Come abbiamo raccontato nei mesi scorsi, Fava ha già raccontato i retroscena di un suo pranzo romano con i due consiglieri del Csm della corrente di Autonomia & indipendenza Davigo e Sebastiano Ardita. Era la fine di febbraio o l' inizio di marzo 2019. All' appuntamento era presente anche un pm romano, Erminio Amelio, il quale, sempre a Perugia, ha dichiarato: «Ardita faceva parte di una corrente nuova e ambiva a coinvolgere colleghi che non fossero schierati per altre correnti, pertanto, valutai di presentargli il collega Fava, che era estraneo a logiche correntizie». Lo stesso Fava avrebbe approfittato dell'occasione per discutere con i commensali delle «divergenze di vedute all' interno del suo ufficio e, in particolare, dei possibili conflitti d'interessi che aveva segnalato tra il procuratore e alcuni indagati», tre dei quali in rapporti economici con il fratello Roberto. Legami di cui Ardita si sarebbe detto a conoscenza. Tanto da consigliare a Fava la lettura del libro Gli intoccabili di Saverio Lodato e Marco Travaglio, in cui si raccontava come un altro indagato (l'ex governatore siciliano Totò Cuffaro) di Pignatone avesse scelto come consulente il fratello del procuratore, Roberto. Fava ha dichiarato ai difensori di Palamara che entrambi i consiglieri «giudicarono la vicenda di indubbia rilevanza» e gli avrebbero detto che «meritava approfonditi accertamenti da parte del Csm». Motivo per cui Fava, a fine marzo, presentò un esposto. Nel mese di maggio Ardita gli avrebbe comunicato che la segnalazione era arrivata alla Prima commissione, di cui faceva parte e che, pertanto, non era opportuno che i due continuassero a sentirsi per telefono. I loro contatti sarebbero continuati, ma solo tramite Amelio. Davigo a Perugia ha confermato gli incontri conviviali con Fava, Amelio e Ardita (i quattro avevano condiviso anche una cena in un locale siciliano intorno al dicembre 2018 e Davigo, nell' occasione, era afono) e questi appuntamenti, a suo dire, sarebbero stati organizzati dallo stesso Ardita, il quale aveva rappresentato la necessità di fare campagna acquisti visto che la corrente di A&i era debole su Roma. Davigo ha anche specificato che prima di quelle riunioni non conosceva né Fava, né Amelio. L' ex pm di Mani pulite ha anche detto di non rammentare che si fosse parlato dell'«esposto contro Ielo» (da lui così definito, con riferimento al procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo) e anzi lo ha escluso poiché si fida di poche persone e Ielo è una di queste e quel nome avrebbe certamente destato la sua attenzione. In realtà quando si svolse il pranzo romano l' esposto non esisteva ancora. La difesa di Palamara ha chiesto a Davigo se dopo l' uscita delle intercettazioni sui giornali abbia o meno parlato con Ardita dei fatti riguardanti l' esposto. Il testimone, prima di rispondere, ha premesso che per una parte di quell' episodio avrebbe dovuto eccepire la sussistenza del segreto d' ufficio. Il procuratore di Perugia, Cantone, ha domandato a quale segreto facesse riferimento, ma Davigo non ha dato ulteriori spiegazioni, lasciando di sasso gli interlocutori, colpiti da questo ultimo mistero. L' unica possibile spiegazione è che il riferimento fosse alle discussioni nelle camere di consiglio relative al disciplinare cautelare dello stesso Fava o a quello di Palamara. Anche se non si capisce perché Davigo non potesse farne cenno. L' ex presidente della terza sezione penale della Cassazione ha anche dichiarato di aver rimproverato energicamente Ardita poiché lo aveva visto chiudersi per molto tempo nella stanza con Antonio Lepre, uno dei consiglieri coinvolti nella vicenda dell' hotel Champagne e della nomina di Viola, e gli avrebbe detto: «Ma ti rendi conto che questo può essere un elemento di chiamata in correità?». Ma di quale reato non è chiaro. A Perugia l'ex consigliere del Csm ha voluto precisare di aver sempre contestato i metodi delle correnti e, in particolare, le cosiddette nomine a pacchetto per la Corte di Cassazione. Per questo sarebbe stato sempre distante dalle posizioni di Palamara. Non ha spiegato, tuttavia, il motivo del suo voto in favore di Viola in quinta commissione. A questo punto gli è stato richiesto per quale motivo, nonostante non lo stimasse particolarmente, avesse accettato che Palamara fosse tra gli «oratori» alla presentazione romana di un suo libro, avvenuta il 9 aprile 2019. Davigo ha risposto di aver saputo della presenza di Palamara con poco preavviso e non ha saputo indicare chi avesse organizzato l' incontro. In realtà lo stesso Palamara aveva ricevuto l' invito a marzo e addirittura copia della locandina dell' evento il 2 aprile, un manifesto in cui la foto dell' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati era quasi più grande di quella di Davigo. Possibile che quest' ultimo non l' avesse vista? Ieri abbiamo provato a domandarlo al diretto interessato. Ma il magistrato in pensione ci ha liquidato con cinque parole: «Non ho dichiarazioni da fare».

 Il suo cellulare è un vero pozzo di san Patrizio. Far fuori Palamara non assolve tutti: nessun magistrato è innocente. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1— 1 Novembre 2020. “È la toga, bellezza! La toga! E tu non ci puoi far niente! Niente!” L’ultima minaccia di Palamara-Bogart più che un potente moto dell’animo, pare veleno distillato goccia a goccia, ma ugualmente liberatorio. Così, nella storia italiana di toghe, intrighi e merletti, è il veleno a farla da padrone, giorno dopo giorno. Due toghe sono state stracciate quasi in simultanea, e hanno segnato un’ apparente sospensione del loro potere politico, quella di Luca Palamara prima e pochi giorni dopo quella di Piercamillo Davigo, che ha interpretato prima il ruolo del carnefice e poi quello della vittima. Non saranno seppellite dal silenzio, le due toghe stracciate, questo è sicuro. Perché la scimmia della politica (che loro chiamano toga, ma fa lo stesso), quando ce l’hai sulla spalla, non ti molla più. E i due paiono i fantasmi che da diversi palcoscenici arrivano di notte a tirare i piedi, beffardi e sarcastici, ai loro ex laudatores trasformati in giuda. L’uscita di scena (provvisoria, di sicuro) di Piercamillo Davigo è entrata come il coltello nel burro nel magico mondo delle manette, con il tradimento di Nino Di Matteo, l’allievo insolente, che ha reso verde di bile prima Marco Travaglio e poi il suo piccolo emulo Gaetano Pedullà. Con i drink forcaioli della domenica sera di Giletti rovinati forse per sempre. Ma Luca Palamara-Humphrey Bogart è forse quello che si diverte di più. Non gli basta aver gridato “il re è nudo”, e aver ormai sbriciolato qualunque fiducia i cittadini potessero ancora avere nei confronti della magistratura e della giustizia, mai così bassa dai tempi di Enzo Tortora e del referendum che ne seguì. Adesso sta letteralmente levando la pelle, uno a uno a tutti i suoi ex, amici e nemici. E, ne siamo certi, non è ancora finita. Il suo cellulare è un vero pozzo di san Patrizio. Basta infilarci la mano e tirar fuori il bottino. Quel diavolo di Paolo Comi con le sue rivelazioni ha reso il Riformista la lettura più avida nelle aule di giustizia e nelle sedi del sindacato delle toghe. Qualche nome è già stato fatto, altri ne verranno. Una cosa appare certa: anche i magistrati più capaci e più stimati non sono arrivati al loro posto ai vertici della magistratura per meriti ma per raccomandazioni. Da ora in avanti, un po’ come (si parva licet) fossimo a prima e dopo cristo, nessuno crederà più al fatto che l’ermellino sia una conquista realizzata con lo studio e il sudore. Quando dal pozzo del dottor Palamara (che pare più nutrito del famoso armadio pieno di scheletri di cui si favoleggiava disponesse Giulio Andreotti) escono le suppliche, gli intrighi e i ricatti, e frasi che farebbero arrossire per rudezza il mondo della politica, quel che viene da pensare è il voto di scambio, quello che il codice punisce severamente assimilandolo all’associazione mafiosa. La radiografia è impietosa, e le disgrazie che hanno investito la persona prima ancora della toga del dottor Palamara in seguito alla famosa partouze politica tenuta di notte in un albergo per decidere sul procuratore capo di Roma, dicono molto di più della famosa nudità del re. Raccontano per esempio l’uso del tempo. Quanti minuti e ore e giornate ha trascorso quel tal sostituto procuratore per essere eletto al Csm? E quanti colleghi ha ricattato nel corso della sua campagna elettorale, magari con un uso accorto e sapiente del proprio ruolo nel consiglio giudiziario? E poi, una volta raggiunto il suo scopo, quanti altri colleghi ha dovuto sostenere in sfibranti campagne elettorali per poter poi diventare capo di qualche cosa e in qualche luogo? Da qualche anno è stato introdotto nel codice penale un nuovo reato che si chiama “traffico di influenze”. Sono le vecchie raccomandazioni, di cui gli uomini politici della prima repubblica non si sono mai vergognati, anche se le chiamavano segnalazioni. Ora ci sono chat e mail e sms e whatsapp e telegram e molto altro. E c’è anche il reato. Ma le toghe hanno l’immunità. Perché, proprio dopo la lettura delle chat di Palamara con il dottor Celentano, il chiacchierone che stressava il suo amico a cena e durante le sedute del Csm e poi ha preso il posto di Davigo, è intervenuto a dare la benedizione niente di meno che il procuratore generale della Cassazione. Giovanni Salvi ha detto che la segnalazione, cioè la raccomandazione ( o l’auto-raccomandazione), insomma il traffico di influenze non è peccato. Non sappiamo se sia ancora reato. Un altro cambiamento, questa volta culturale, si sta sedimentando nella mentalità e nel linguaggio delle toghe. Questa volta saccheggio un articolo di qualche giorno fa di Luca Fazzo sul Giornale, il quale a sua volta aveva pescato nel glossario dei messaggi inviati dai suoi colleghi a Palamara il 29 maggio 2019, quando era diventata pubblica la notizia delle indagini che lo coinvolgevano presso la procura di Perugia. Ho estratto solo alcuni termini e li metto in fila: inchiesta a orologeria, spazzatura, macchina del fango, carognata, invidia, stagione dei veleni, tempistica. Vi ricorda niente, cari signori delle toghe?

Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 novembre 2020. Le indagini difensive degli avvocati di Luca Palamara hanno aggiunto un importante tassello al filone investigativo sulle fughe di notizie che hanno distrutto l' inchiesta sulla presunta corruzione del magistrato radiato. Il segretario generale del Csm Paola Piraccini, ascoltata in Procura a Perugia su richiesta dei legali di Palamara (Roberto Rampioni, Benedetto e Mariano Buratti), ha riferito informazioni fondamentali sul punto. Così la vulgata che le notizie provenissero da fonti del Csm è stata spazzata via definitivamente. Partiamo dall' inizio o quasi. Tra il 27 e il 28 maggio 2019 inizia a circolare insistentemente la notizia (come conferma una conversazione registrata dal trojan) che due giornali, La Verità e Il Fatto quotidiano, stanno per pubblicare l' imbarazzante storia dell' esposto presentato due mesi prima al Csm dal pm romano Stefano Fava contro l' ex capo Giuseppe Pignatone. Forse per questo, qualcuno dà un' accelerazione alla pubblicazione dello scoop dell' inchiesta di Perugia su Palamara, in quel momento ancora coperta dal segreto istruttorio. Solo dopo quelle prime fughe di notizie gli inquirenti umbri decidono di inviare un cd al Csm con le intercettazioni dell' hotel Champagne, considerando evidentemente le trattative per la nomina del procuratore di Roma Marcello Viola inquinate da illeciti disciplinari. Ma, come detto, la misteriosa gola profonda dei giornalisti non può essere un membro di Palazzo dei marescialli. Infatti la Piraccini ha riferito che il 29 maggio, di prima mattina, venne avvertita dal vicepresidente del Csm David Ermini delle prime pagine dedicate dai quotidiani al caso Palamara e all' esposto di Fava. In quel momento i due si trovavano in visita agli uffici giudiziari di Catania e decisero di tornare nella Capitale, annullando la visita a Napoli del giorno successivo. La Piraccini ritirò personalmente la sera del 30 maggio il plico che le venne consegnato da un carabiniere, come conferma il visto sul registro della posta. Dunque è impossibile che le fughe di notizie, almeno quelle dei primi tre giorni, siano partite dal Csm. «Su questo non c' è il minimo dubbio. Le carte di cui hanno parlato i giornali il 29 e il 30 maggio noi le abbiamo ricevute, e le ho ritirate io personalmente, il 30 alle ore 19 (scandisce il numero, ndr). E non c' erano le captazioni del trojan che sono arrivate successivamente» spiega la Piraccini. A questo punto il cerino resta in mano ai magistrati di Perugia, a quelli di Roma che stavano condividendo informazioni con i colleghi umbri e alla polizia giudiziaria, in questo caso gli uomini del Gico della Guardia di finanza. Ma ricostruiamole queste fughe di notizie. Tra l' 8 e il 9 maggio le Fiamme gialle intercettano la famigerata riunione dell' hotel Champagne, in cui risulta chiaro che Palamara, i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri hanno discusso con cinque consiglieri del Csm della nomina del procuratore di Roma. In quella serata la corruzione di cui è sospettato Palamara non emerge in nessun modo. Eppure il giorno dopo il procuratore Luigi de Ficchy decide che è arrivato il momento di informare il Csm dell' iscrizione per corruzione di tre magistrati finiti sul registro degli indagati alcuni mesi prima: Palamara, Giancarlo Longo e Francesco Musolino. La notizia, a quanto risulta dagli atti, è nuda e cruda. C' è solo lo stato del procedimento: «Indagini preliminari». C' è anche scritto: «Si allega annotazione di pg della Guardia di finanza di Roma che ha dato origine al procedimento». Si tratta di 37 pagine che ricostruiscono le presunte regalie dell' imprenditore Fabrizio Centofanti (frequentatore dello stesso de Ficchy) a Palamara. Quindi dal 9 al 30 maggio sera, le notizie in possesso del Csm erano solo queste. Eppure il 28 maggio La Repubblica e Il Corriere della sera sembrano già essere a conoscenza delle vicende dell' hotel Champagne, sebbene dalla Procura di Perugia non sia ancora partito nulla in direzione del Palazzo dei marescialli. Il 29 maggio La Repubblica titola «Corruzione al Csm», parlando di mercato delle toghe. Palamara deve ancora essere perquisito per corruzione. Ma il giornalista dimostra di essere molto più avanti e collega la vicenda alla nomina del procuratore di Roma, definita «un mercato dei pani e dei pesci». Parla anche di «giochi che entrano nel vivo» e di cui è «protagonista» Palamara, «magistrato indagato a Perugia». Poi l' articolo, facendo riferimento a fantomatiche «qualificate fonti del Csm», accende un faro sull' asse di Palamara con Ferri e con il «convitato di pietra» Lotti. Cioè i presunti complottardi dello Champagne. E cita gli asseriti nemici della squadretta, in primis quel Paolo Ielo, ampiamente citato nelle intercettazioni. Anche Il Corriere della sera pare informatissimo. Addirittura collega già nel titolo il fascicolo su Palamara alla nomina del successore di Pignatone: «Un' inchiesta per corruzione agita la corsa alla Procura di Roma». Il giornale informa i lettori che l' indagato Palamara «è uno dei protagonisti di trattative e cordate che si stanno delineando al Csm, ma anche nei palazzi della politica». Rivela pure che «nelle stesse ore» dell' arrivo dell' informativa su Palamara al Csm, «ha ripreso improvvisamente fiato l' esposto che un pm romano ha inviato contro l' ex procuratore Giuseppe Pignatone e un aggiunto». Anche questo emergeva nelle intercettazioni e, per una strana coincidenza, come abbiamo anticipato, gli articoli dei due principali quotidiani italiani sullo scandalo Palamara escono proprio lo stesso giorno in cui La Verità e Il Fatto danno notizia dell' esposto, con l' effetto (casuale o voluto?) di oscurare quest' ultima vicenda o almeno di metterla sotto una luce sinistra. Passano 24 ore e, quando le carte non sono ancora giunte al Csm, Il Corriere fa sapere che «negli atti dell' inchiesta perugina» emergono «tracce» sulla partita «politico-consiliare» per la Procura di Roma e svela gli «incontri notturni» dei pedinati: «Durante questa inchiesta sono venuti alla luce incontri dello stesso Palamara con politici e magistrati che sarebbero serviti a gestire la partita per portare alla guida della Procura romana l' attuale procuratore generale di Firenze Marcello Viola». E La Repubblica? Rivela che ci sono «quattro nomi iscritti al registro degli indagati dell' inchiesta sulla corruzione e le nomine al Csm». E aggiunge: «La storia dunque cammina». O forse deve camminare. E in fretta, per far saltare la nomina di Viola, il candidato procuratore in pectore. Per questo l' esposto di Fava nell' articolo diventa «una formidabile arma di manipolazione che la Procura di Perugia si prepara a illuminare». E in effetti quella stessa mattina il pm scopre di essere indagato e riceve un invito a comparire. L' articolista conclude con un messaggio ai naviganti: «L' indagine è arrivata a un punto dove evidentemente nessuno prevedeva arrivasse. Staremo a vedere. Siamo al primo atto. Ma il tempo si è messo a correre». Dopo quegli scoop i pm sono costretti a uscire allo scoperto, ordinando perquisizioni, interrogatori e inviando nuovi documenti al Csm. Il 30 maggio la Piraccini riceve il decreto di perquisizione nei confronti di Palamara e l' avviso a comparire per due altri magistrati, Fava e il consigliere del Csm Luigi Spina, accusati di aver informato (i reati contestati sono la rivelazione di segreto e il favoreggiamento) Palamara dell' arrivo dell' informativa inviata il 9 maggio. Nel decreto di perquisizione si scopre finalmente perché Longo e l' ex presidente dell' Anm siano indagati: il secondo avrebbe percepito 40.000 euro per far nominare procuratore il primo (accusa poi caduta). Ma, lo ribadiamo, queste notizie, che diventano ostensibili solo il 30 maggio, erano già state ampiamente annunciate sui giornali. Dopo l' arrivo delle prime carte al Csm, i cronisti perdono il freno e, sebbene nel decreto di perquisizione di Palamara, a pagina 14, si faccia solo un generico riferimento al coinvolgimento di «parlamentari», il 31 maggio, La Repubblica e Il Corriere citano i nomi di Lotti e Ferri e gli appuntamenti con Palamara e Spina. Con tanto di date. Addirittura Il Corriere titola: «Quegli incontri con Lotti e Ferri sulle nomine». E parla di «vendetta contro Pignatone». L'1 giugno, dopo aver evocato «qualificate fonti investigative» La Repubblica fa l' ennesimo scoop svelando le intercettazioni che «fulminano» i consiglieri del Csm Corrado Cartoni e Antonio Lepre, entrambi presenti allo Champagne. Inoltre, il giornalista anticipa le mosse della Procura come se facesse parte della polizia giudiziaria: «I modi dei "carbonari", il tenore dei loro conversari non devono essere edificanti se è vero, come è vero, che la Procura di Perugia, riservandosi eventuali future valutazioni penali, si prepara a trasmettere a Palazzo dei marescialli gli atti relativi a questo passaggio dell' inchiesta, perché il Consiglio valuti gli aspetti disciplinari». L' articolo è stato scritto il 31 maggio. Le carte sono state effettivamente spedite al Csm il 3 giugno. Dopo le dichiarazioni della Piraccini, a quanto ci risulta, la difesa di Palamara sta valutando la possibilità di presentare un esposto per fare chiarezza sulle incredibili fughe di notizie di fine maggio e inizio giugno 2019.

Magistratopoli, siamo alla fine o è solo l’inizio del Palamaragate? Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Giustizia è fatta? Con la rimozione dall’ordine giudiziario del primo consigliere del CSM e del primo ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) della storia repubblicana, alcuni vorrebbero farlo credere. E forse molti ci crederanno. O faranno finta di crederci. Quello che penso invece io sul “caso Palamara” e della mia unica sorpresa per chi si è sorpreso, candendo o facendo finta di cadere dal pero, l’ho scritto in altri due miei articoli qualche mese fa. Non volendo ripetermi, chi vuole può leggerseli sul Riformista: qui e qui. L’unica giustizia – e solo parziale – mi sembra essere però stata fatta – e dopo oltre 12 anni –  al Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. Le cui roventi parole, chissà perché, sono rimaste sinora inascoltate. Senza che nessuna Procura della Repubblica, neppure quelle tra le più proattive e globalmente competenti, abbia ravvisato una pur minima notitia criminis da approfondire in quello che l’ex Presidente del CSM aveva affermato pubblicamente, con indiscutibile chiarezza, in uno storico intervento telefonico, il 16 gennaio 2008, nello studio di Sky Tg 24. Dove era ospite Luca Palamara, allora Presidente dell’ANM, per commentare le dimissioni rassegnate quel giorno dall’allora Guardasigilli, Clemente Mastella, in seguito agli arresti domiciliari cui era stata sottoposta la moglie. L’ex Presidente dell’Anm, colto di sorpresa dalla durissima arringa del Presidente emerito nei suoi confronti, che lo definiva persino “faccia di tonno”, provò ad abbozzare un “mi sembra offensivo”. Ma Cossiga rilancia: “Sì, sì, è offensivo e mi quereli, mi diverte se mi querela e perché non mi querela? I nomi esprimono la realtà, lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l’ottimo tonno. La battaglia contro la magistratura è stata perduta quando abbiamo abrogato le immunità parlamentari che esistono in tutto il mondo e quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato i pantaloni sotto dettatura di quella associazione tra il sovversivo e lo stampo mafioso che è l’Associazione nazionale magistrati”.

Palamara sgrana gli occhi e cerca un sostegno nella conduttrice. Ma nessuno ha avuto il coraggio di prendere l’iniziativa di chiedere conto a Francesco Cossiga della gravità di quelle affermazioni. E tanto meno di fare chiarezza su accuse di una gravità inaudita che, se provate, avrebbero meritato ben altre attenzioni di quelle dedicate a moltissimi altri fatti di cronaca «mediatico-giudiziaria» che ci hanno assuefatto da una trentina d’anni ad oggi. Ma siamo il Paese dell’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria. Che funziona a seconda della convenienza o meno, soprattutto sul piano mediatico-giudiziario, di chi la vuole esercitare. Invito quindi tutti a riascoltare oggi la buon’anima del Presidente Cossiga, per meglio capire l’ipocrisia di tanti soloni che leggeremo (e anche di quelli dei quali leggeremo solo il loro silenzio) sulla stampa nelle prossime ore. “Sono consapevole di aver pagato io per tutti, per un sistema che non funzionava, che nei fatti si è dimostrato obsoleto e superato – ha detto Palamara oggi alla conferenza stampa organizzata dal Pratito radicale –. So che pago io per tutti, che è esistita una magistratura silenziosa, di tanti che mi hanno chiesto di andare avanti e non vengono allo scoperto”. Comincio quindi ad avere grande pena, ed anche un po’ di simpatia, per Palamara. Apparente vittima di una macchina di cui è stato il macchinista. E apprezzo il partito Radicale che, in coerenza con i propri valori di sempre, ne ha ospitato la conferenza stampa, chiedendo anche una Commissione di inchiesta. É la fine dell’affaire Palamara o siamo solo all’inizio? Poiché, come disse Ernst Junger, “la speranza conduce più lontano della paura”, noi continuiamo a sperare. Sperando di non doverci accontentare del solito caprio espiatorio gattopardesco.

Il verdetto già deciso. Prima trafficavano con Palamara, ora lo condannano. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Ancora ventiquattro ore per conoscere il destino di Luca Palamara. La sezione disciplinare del Csm, al termine di un’udienza fiume, ha rinviato la decisione a questa mattina. Il dibattimento è stato comunque rapidissimo, meno di tre settimane. Il Palamaragate poteva essere l’occasione per far luce sul sistema delle nomine e sulla spartizione degli incarichi da parte delle correnti della magistratura. Di diverso avviso la disciplinare di Palazzo dei Marescialli, presieduta dal laico in quota M5s Fulvio Gigliotti, che tagliando fin da subito tutti i testimoni richiesti dalla difesa di Palamara, aveva fatto subito intendere che non era il caso di andare oltre. Meglio evitare sorprese e limitarsi a quanto accaduto la sera dell’8 maggio del 2019, quando Palamara, insieme a cinque consiglieri del Csm, aveva incontrato all’hotel Champagne di Roma i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Appassionata è stata la difesa dell’ex presidente dell’Anm da parte del consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi. Il magistrato, valorizzando per la prima volta delle conversazioni intercettate e mai trascritte prima, aveva fornito una lettura molto diversa di quanto accaduto quella sera. Luca Palamara voleva essere nominato all’ufficio del Garante della privacy in quota Pd. Era questo il motivo per il quale incontrava Luca Lotti. La Camera, all’epoca, avrebbe dovuto proporre due nomi da scegliere fra i circa duecentocinquanta che avevano avanzato la candidatura. Non c’è mai stato alcun patto “occulto” per nominare il procuratore generale di Firenze Marcello Viola alla Procura di Roma e nessuna strategia per screditare gli altri candidati, come il procuratore del capoluogo toscano Giuseppe Creazzo. E nessuna strategia per mettere in cattiva luce il procuratore aggiunto della Capitale, Paolo Ielo. L’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio era totalmente all’oscuro che Palamara, Ferri e i cinque consiglieri del Csm, poi dimessisi, avrebbero discusso di nomine. Nella lettura “alternativa” di Guizzi emerge “l’auto promozione” di Palamara. L’ex zar delle nomine, dopo aver sempre fatto favori, chiedeva dunque un favore per un incarico molto ambito. Guizzi nella sua arringa ha ricostruito tutti i passaggi che portarono poi la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm a votare Viola come successore di Giuseppe Pignatone. Voto che, come noto, venne poi annullato all’indomani della pubblicazione sui giornali dell’incontro di quella sera. Resta un mistero su chi passò la velina e fece così saltare la nomina di Viola. Su Viola si cercava una convergenza fra le correnti , ha aggiunto Guizzi. Mario Suriano, togato di Area e componente della Commissione per gli incarichi apprezzava molto il pg di Firenze ma non poteva votarlo perché amico di Cosimo Ferri, leader storico di Magistratura indipendente. I maggiori problemi venivano da Unicost, la corrente di Palamara. Piercamillo Davigo, invece, era favorevole alla nomina di Viola a Roma. E, comunque, ha aggiunto Guizzi, non c’era nulla che impedisse un colloquio fra Lotti, Ferri e Palamara. La scelta degli incarichi direttivi è un atto politico, ha più volte sottolineato Guizzi, non si limita all’esclusiva valutazione dei curricula e le correnti giocano un ruolo di primo piano. Per la procura generale rappresentata dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta e dal sostituto pg della Cassazione Simone Perelli, Viola, che è sempre stato all’oscuro di tutto, avrebbe dovuto invece intervenire nell’indagine a carico di Lotti. Un procuratore “compiacente”. La presenza di Lotti quella sera, ha infine concluso Guizzi, era anche per capire come mai il vice presidente del Csm David Ermini avesse preso le distanze. Ermini era stato scelto da un accordo fra Unicost e Mi con la supervisione di Lotti. Si notava un cambiamento. Fra i motivi ipotizzati, un condizionamento da parte di Donatella Ferranti, magistrato di Cassazione ed ex presidente dem della Commissione giustizia a Montecitorio. Sul tema dell’utilizzabilità delle intercettazioni Guizzi ha ventilato la possibilità di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo: «Il nostro non è un gioco illusionistico per far sparire fatti, ma abbiamo posto il problema delle intercettazioni nella consapevolezza che si deve giungere alla verità nel rispetto delle regole processuali e costituzionali».

Carlo Nordio sulla radiazione di Luca Palamara: "Un processo stalinista e sommario, come nel fallito colpo di Stato contro Hitler". Libero Quotidiano il 10 ottobre 2020. "Un processo stalinista". Così Carlo Nordio liquida la radiazione di Luca Palamara, ex consigliere del Csm e numero uno dell'Associazione nazionale magistrati. Non solo perché la sentenza contro Palamara riporta al passato l'ex magistrato: "Ricorda - si legge nelle colonne del Giornale - quella del generale Friedrich Fromm che condannò e fece fucilare von Stauffenberg con processo sommario, sperando che non lo coinvolgesse" nel fallito colpo di Stato contro Hitler, "poi però non la fece franca neanche lui". Ma Nordio è in buona compagnia. Anche l'ex pm non ha dubbi su Palamara "utilizzato come capro espiatorio". Sembra che il pensiero nei confronti dell'ex consigliere del Csm sia unanime e non conosca fazione politica. A domandarsi se solo Palamara pagherà "per un sistema che si prestava alle sue macchinazioni" anche il pentastellato Nicola Morra. "Qualcuno - gli fa eco Enrico Costa di Azione - pensa di far credere agli italiani che il solo unico esclusivo problema della magistratura si chiamasse Palamara e che, eliminato lui, restino solo purissimi esempi di etica e dirittura morale? D'ora in avanti le correnti, che oggi si sono autoassolte, continueranno ad imperversare, complice la finta riforma del Csm presentata da Bonafede".

Pietro Senaldi, Luca Palamara e la sua nuova carriera: "Dopo la radiazione farsa, non è ancora finita". Pietro Senaldi Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020.  Colpirne uno per assolverne cento. La radiazione dell'ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara era un finale scontato. Prove inconfutabili ne hanno dimostrato la gestione clientelare e politicizzata delle nomine delle più alte cariche dei tribunali e procure. Lo sapevano tutti da decenni, fin da quando durante il processo Tortora, metà anni '80, l'avvocato Della Valle, futuro vicepresidente azzurro della Camera, denunciò in aula la giustizia spettacolo e le sue trame di potere. Le intercettazioni delle conversazioni di Palamara con colleghi e politici, nemesi delle toghe, hanno impedito che questa volta si facesse finta di nulla. Esse però sono solo l'inizio dello scandalo. Più imbarazzante dei colloqui tra giudici emersi è non tanto l'esito, previsto, del procedimento disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti dell'ex presidente dell'Anm, bensì il suo svolgimento. Palamara ha chiamato a sua difesa 133 testimoni, un esercito in grado di sputtanare il sistema. Se i magistrati avessero voluto fare pulizia al loro interno, avrebbero colto l'opportunità per avviare un processo di trasparenza, sanguinoso e infamante, ma che alla fine avrebbe potuto restituire un po' di credibilità al terzo potere dello Stato, la cui popolarità è scesa a quotazioni bassissime presso l'elettorato. Invece il Csm si è affrettato a chiudere il giudizio in tempi record, non ascoltando nessuno, praticamente neppure l'imputato, che forse in Cina o Turchia avrebbe avuto un procedimento più equo. Un raro spettacolo di denegata giustizia con cui la corporazione in toga si illude di mettere una pietra tombale sui propri peccati e offrire una parvenza di diritto all'opinione pubblica.

È solo ingenuità? - Il grande ex procuratore Carlo Nordio ha scritto sul Messaggero che Palamara si è difeso ingenuamente; non ha invocato misericordia, come si usa di fronte alle corti staliniste, e la sua lo era, ma neppure puntato davvero l'indice contro i suoi giudici. Si è limitato ad accuse generiche, sostenendo di essere parte di un ingranaggio e interprete di uno spartito corale, una sorta di presidente Arlecchino servo di duecento padroni in toga. Tutto vero, ma non ha fatto nomi e cognomi, e perciò Nordio lo invita a vuotare il sacco «per evitare il perdurare di un'atmosfera di sospetto che continuerà a gravare su tutta la magistratura, che davvero non se lo merita». Non abbiamo nulla da insegnare a Nordio, ma gli confidiamo un sospetto che il suo cuore da procuratore non riesce a suggerirgli. Palamara è spalle al muro ma non si difende, o lo fa poco e male. Dubitiamo per ingenuità. La sua conferenza stampa ricorda il discorso di Craxi in Parlamento, durante Mani Pulite, quando accusò tutti di essere come lui. Anche il leader socialista non fece nomi e cognomi. Non intuì quel che sarebbe successo, forse voleva tenersi una via di fuga o un'arma di ricatto. Così, i 133 testimoni inascoltati di Palamara sono altrettanti proiettili puntati alle tempie dei suoi giudici pronti a sparare.

Le responsabilità - L'ex leader dell'Anm è tutt' altro che uno sprovveduto, altrimenti non sarebbe arrivato a capo dei giudici prima dei 40 anni. Tutti lo conoscevano e l'ex presidente Cossiga ebbe a insultarlo pubblicamente, accusandolo di essere un trafficone. I magistrati lo scelsero come spiccia-faccende e lui onorò l'incarico perfettamente, tanto che a 45 anni fu premiato e nominato membro togato del Csm. Della sua carriera lampo è responsabile tutta la magistratura. Colpa in eligendo e in vigilando, dicono i tecnici: fu scelto e lasciato libero di agire, o più probabilmente agì in armonia con tutti. Ci sono tanti incarichi e altrettante poltrone che un ex magistrato di grido, ancorché radiato, può ricoprire. La testa di Palamara è rotolata sotto la furia giustizialista mediatica, e non poteva andare diversamente. Adesso o l'interessato parla, e allora è davvero finito, ma avrà la soddisfazione di trascinarsi nella fossa i suoi detrattori. Oppure sceglierà di avere una nuova vita, difficilmente come gestore di un chiosco ai Caraibi. In ogni caso, peggio di lui, solo la categoria alla quale apparteneva. La farsa non è certo finita.

Premio Stalin al Csm. Anm è un’associazione di clan incostituzionale, Palamaragate ha scoperchiato sistema corrotto e illegale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. Se esistesse ancora il premio Stalin (che temo sia stato abolito nel 1956) l’edizione del 2020 avrebbe un vincitore sicuro: il Csm. Cioè l’organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal presidente della Repubblica. Il Csm ha celebrato in un tempo brevissimo, e quindi battendo ogni record di rapidità, il processo disciplinare a Luca Palamara, che in passato è stato uno degli dei della magistratura italiana: lo ha svolto senza accettare i testimoni a difesa, senza prove, fondandosi su pochissime intercettazioni ottenute coi Trojan (sono state accettate solo le intercettazioni illegali), negando ogni diritto della difesa e rifiutandosi di svolgere una inchiesta su ciò che Palamara ha denunciato, e cioè un sistema corrotto che domina la magistratura, ne stabilisce le gerarchie, determina la distribuzione dei poteri e – purtroppo – anche l’esito di molti processi, facendo strame dei diritti degli imputati e dell’esigenza di diritto e verità. Il Csm in fondo è stato abbastanza sincero. Non ha negato che il motivo vero per il quale si è decisa la condanna di Palamara non è tanto quella cenetta alla quale ha partecipato anche l’on.Lotti, e che dunque metteva a repentaglio il principio della separazione tra politica e magistratura (principio che viene violato, ad occhio, un paio di volte al giorno, diciamo dal 1947…); ma è il disdoro che Palamara con la sua condotta e soprattutto con la sua linea di difesa ha gettato sulla magistratura. Cosa ha fatto Palamara? Ha parlato male dei suoi colleghi, ha offerto le prove che centinaia di loro avevano brigato per ottenere scatti di carriera e posti di potere, ha messo in luce un’incredibile commistione di interessi che unisce e condiziona Pm e giudici, spesso protagonisti degli stessi processi, ha mostrato come il potere giudiziario non è nelle mani di una magistratura libera, professionale e indipendente ma di una organizzazione incostituzionale, e cioè l’Anm, che è l’assemblea dei magistrati dominata dalle correnti e che garantisce, in modo persino dichiarato, la non autonomia di Pm e giudici. Questo è quello che il Csm, cioè – diciamo così – la corporazione delle toghe (soprattutto dei Pm) o se vogliamo essere ancora più precisi la “casta delle toghe” non ha potuto accettare e questa è la ragione per la quale ha deciso di espellere con grida di infamia Luca Palamara e di assolvere tutti gli altri. È intervenuto persino il Procuratore generale della Cassazione, nei giorni scorsi, per dire: se i magistrati si autopromuovevano niente di male. Traffico di influenze? Può darsi: ma chiunque capisce – deve aver pensato il Procuratore – che il traffico di influenze non è un reato, è una invenzione della componente forcaiola della magistratura e della politica, e quindi vale per tutti ma non per chi l’ha inventato. Di sicuro non per i magistrati. Ora, chiuso il Palamara-gate è chiusa anche magistratopoli? Diciamo le cose come stanno: magistratopoli, sebbene ignorata dai giornali – perché i giornali sono parte integrante dello scandalo – è il più grande scandalo politico del dopoguerra. La Lockheed era robetta, riguardava al massimo un paio di ministri che oltretutto, probabilmente, erano anche innocenti. Tangentopoli ha coinvolto solo una parte dei politici, e oltretutto lo ha fatto in modo evidentemente persecutorio, visto che l’80 per cento degli indiziati è stato assolto e molti sono stati condannati senza prove. Qui invece parliamo di un gigantesco fenomeno di corruzione – da nessuno negato – che ha stravolto le regole di funzionamento della magistratura, ne ha cancellato l’indipendenza, le ha imposto il giogo di organizzazioni private (lobby, clan, dite come volete: le correnti) e ha reso illegale l’intero sistema giudiziario italiano, probabilmente condizionando e violentando migliaia e migliaia di sentenze, passate, presenti e – al punto in cui sono le cose – anche future. Come fa il Parlamento a non intervenire? La magistratura si è rifiutata di svolgere un’inchiesta su se stessa. Il Parlamento ha il dovere – non l’occasione, dico: il dovere, l’assoluto dovere civico – di istituire una commissione di inchiesta, con tutti i poteri della commissione di inchiesta, per scoprire cosa è successo davvero. La prima cosa da fare, ad esempio, è ascoltare i 130 testimoni che Palamara aveva chiamato al banco e che il Csm ha rifiutato di ascoltare. Non c’è nessuna ragione di dividersi, in questo caso, tra sinistra e destra. La divisione, al massimo, può essere quella tra onesti e disonesti. Onesti senza H questa volta. Perché non è una questione di propaganda alla Casaleggio, ma un vero problema di lealtà alle istituzioni. Chi si dovesse opporre a una commissione di inchiesta sarebbe un traditore della democrazia.

Da "ansa.it" il 19 settembre 2020. Diventa definitiva l'espulsione per gravi violazioni del codice etico di Luca Palamara dall' Associazione nazionale magistrati, di cui è stato presidente negli anni dello scontro più duro con il governo Berlusconi. L'assemblea generale degli iscritti al sindacato delle toghe, riunita a ranghi ridottissimi ( un centinaio i presenti a fronte di 7mila soci) ha confermato il provvedimento del 20 giugno scorso del Comitato direttivo centrale dell' Anm, bocciando il ricorso del pm romano sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e imputato a Perugia per corruzione. Solo 1 voto a favore del ricorso. "L' Anm a cui pensa Luca Palamara "non esiste più e questo è un buon risultato". Così il presidente del sindacato delle toghe Luca Poniz ha concluso gli interventi all'assemblea generale dei magistrati, che si deve pronunciare sul ricorso dell'ex pm romano contro la sua espulsione. Il riferimento è a un'intercettazione in cui Palamara diceva che l'Anm, di cui lui è stato presidente, non conta più nulla. "Se intendeva dire che dopo di lui l' Anm svolge un altro ruolo, non di autocollocazione, sono contento "ha aggiunto Poniz, rivendicando all'attuale gruppo dirigente il fatto di essere intervenuto su questa vicenda "senza reticenze e paura". "Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all'Anm nell'auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati". Così Luca Palamara ha commentato la decisione dell'Anm di espellerlo. Luca Palamara in mattinata è stato ascoltato dall'assemblea dei magistrati iscritti all'Anm sul ricorso che ha presentato contro la sua espulsione dal sindacato delle toghe - di cui è stato presidente- per gravi violazioni del codice etico. Lo ha deciso la stessa assemblea. "La mia funzione non l'ho venduta né a Lotti, nè a Centofanti nè a nessuno", ha precisato dubito il magistrato. "Chiedo di essere giudicato serenamente", ha proseguito, parlando all'assemblea dell'Anm. "Sono qui perchè penso che prima vengano gli interessi di tutti, della magistratura, dei colleghi che mio malgrado sono stati travolti", ha dichiarato assicurando di non aver mai voluto sottrarsi al giudizio dell'Anm e ai processi. "Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito", ha sottolineato il magistrato intervenendo anche sulla famosa riunione all'Hotel Champagne per la nomina del Procuratore di Roma: "Non era un incontro clandestino", ha detto. "Sono stato travolto e nella fiumana mi sono perso, ma non mi sento di essere stato moralmente indegno", ha assicurato.

Palamara espulso dall’Anm, il pm: “Rispetto la decisione ma torni ad essere la casa di tutti i magistrati”. Redazione su Il Riformista il 19 Settembre 2020. L’Associazione nazionale magistrati conferma l’espulsione del pm Luca Palamara dal sindacato delle toghe, per gravi violazioni etiche. Erano 130 gli accreditati, 113 i votanti, dei quali 111 hanno votato per la conferma dell’espulsione contro cui il pm aveva presentato ricorso. Un voto contrario e una scheda bianca. “Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all’Anm nell’auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati”. Così Luca Palamara ha commentato a caldo la decisione dell’Anm di espellerlo. Palamara, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzare le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrando a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm. Il suo ricorso contro la decisione presa a luglio è stato vano, così come le parole di autodifesa che stamane ha rivolto all’assemblea: “Non ho mai venduto la mia funzione, sono stato travolto ma non mi sento moralmente indegno”. È la prima volta, nella storia del sindacato delle toghe, che un magistrato che ne è stato presidente viene espulso. L’assemblea dell’Anm convocata oggi con, al primo punto proprio il ricorso del pm di Roma contro la sua espulsione deliberata dal direttivo nello scorso luglio, ha preso una posizione netta a favore della massima sanzione per Palamara, il quale aveva anche sollecitato di rinviare il voto, in attesa che la disciplinare del Csm, davanti alla quale è sotto procedimento, sciolga la riserva sull’utilizzabilità delle intercettazioni agli atti di Perugia. “Chiedo di essere giudicato serenamente e chiedo a tutti di leggere gli atti”, ha detto all’assemblea, la quale, però, si è subito opposta a qualsiasi slittamento.

Il “siete tutti coinvolti” di Palamara alle toghe dell’Anm che lo hanno espulso. Il Dubbio il 19 settembre 2020. L’Anm conferma l’espulsione di Luca Palamara. Ma lui: “Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito”. “Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito”. Sono le ultime parole con cui Luca Palamara ha “salutato” l’Anm. Una sorta di “siete tutti coinvolti” pronunciato poco prima che l’assemblea dell’Anm confermasse la sua espulsione dal sindacato delle toghe. E parlando della famigerata riunione all’hotel Champagne sulla nomina del procuratore di Roma, Palamara ha chiarito: “Gli incontri non erano clandestini e l’hotel Champagne non è un posto per nascondersi né ho mai venduto la mia funzione, né a Lotti, né a Centofanti, né a nessuno”. Insomma, un intervento accorato e per certi aspetti drammatico quello del magistrato al centro del ciclone sul caos procure: “Non mi sono mai sottratto e non mi sottrarrò né dai procedimenti né in tutte le cose in cui sarò chiamato”, ha continuato. “Ma chiedo di essere giudicato serenamente”. “Sono qui – ha aggiunto Palamara – perché penso che prima venga l’interesse di tutti, della magistratura, di recuperare la fiducia dei cittadini, e l’interesse dei colleghi che mio malgrado sono stati travolti”. Palamara ha anche tenuto a ricordare che il Csm non si è ancora pronunciato sulla utilizzabilità o meno delle intercettazioni effettuate nel corso delle indagini delle indagini della Procura di Perugia.

L’Anm conferma l’espulsione di Palamara. L’assemblea dell’Anm ha comunque confermato l’espulsione di Luca Palamara dal sindacato delle toghe: l’assemblea ha quindi respinto il ricorso del magistrato – che dal 2008 al 2012 e’ stato presidente dell’associazione – contro l’espulsione deliberata lo scorso giugno nei suoi confronti dal direttivo Anm in relazione ai fatti emersi dagli atti dell’inchiesta di Perugia. Su 130 accreditati, hanno votato in 113: 111 i voti favorevoli alla conferma dell’espulsione di Palamara e solo uno contrario, mentre una scheda e’ risultata bianca. “Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione”, ha dichiarato PAlamara dopo il voto di espulsione. “Auguro buon lavoro all’Anm nell’auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati”.

Il sollievo di Poniz: l’Anm di Palamara non esiste più. “L’Anm a cui pensa Palamara non esiste piu’: oggi l’Anm non pensa alle carriere ma alla tutela dei colleghi”. Cosi’ Luca Poniz, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha concluso il dibattito relativo alle dichiarazioni che Luca Palamara ha voluto rivolgere all’assemblea del sindacato delle toghe: “Abbiamo avuto il privilegio di sentirlo e per questo lo ringrazio – ha detto Poniz – ma la sua fuga con telecamere al seguito mi ha impedito di fargli una domanda: cosa intendeva dire quando diceva che voleva mettere paura ai colleghi che si opponevano alla sua domanda? E cosa intendeva dicendo che l’Anm non conta un c.? Se intendeva dire che dopo di lui l’Anm ha svolto un altro ruolo, sono contento – ha concluso Poniz – perche’ e’ un primo, buon risultato”.

Luca Palamara, Filippo Facci: "Cosa c'è dietro all'espulsione", scomoda verità sulla magistratura. Libero Quotidiano il 20 settembre 2020. «Qual è la notizia?», «Hanno espulso Palamara dal sindacato unico, come si chiama, l'Associazione magistrati», «Ma no, figurati, quello si sa, l'espulsione è del 20 giugno», «Ma lui aveva fatto ricorso», «Appunto: ieri l'hanno respinto»; «Chi l'ha respinto?»; «L'assemblea dell'Associazione magistrati», «Ah, capirai», «Forse la notizia è quella che per il suo processo disciplinare, quello al Csm, lui aveva chiesto la convocazione di 133 testimoni ma gliene hanno accettati solo 6», «Ma no, pure quello è sui giornali dell'altro ieri», «E allora qual è la notizia?». La notizia è che le notizie, a forza di diluirle e spezzettarle con aggiornamenti continui, si perdono e vengono a noia: il famoso «quadro d'insieme» va a ramengo. La vera notizia, quindi, è di ieri, di domani, perché è di questo tempo della storia italiana: non ha scadenza. È questa: la magistratura è uno strapotere che non rende conto a nessuno e che non lo farà neanche stavolta; la notizia (di ieri) è che hanno fatto fuori un singolo e indifendibile magistrato per non far esplodere ulteriormente lo scandalo della magistratura italiana; l'hanno fatto fuori dall'Associazione magistrati (sindacato unico, come nelle dittature) di cui lo stesso Palamara è stato il più giovane presidente dal 2008 al 2012 (a 39 anni) e peraltro l'hanno fatto fuori nonostante non sia stato ancora processato: né sotto il grottesco profilo disciplinare (al Csm) né al processo dove è indagato per corruzione (a Perugia) e in cui non è neppure imputato: hanno solo chiesto il rinvio a giudizio. La notizia è che il corporativismo mafioso della magistratura italiana (ripetiamo: mafioso, come metodo, come omertà) è più potente di qualsiasi politica vecchia e nuova, dei prima o seconda o terza Repubblica, perché sotto la giurisdizione della magistratura c'è tutto, al di sopra non c'è nulla. Non viviamo propriamente in una democrazia, e non ci viviamo più da molto tempo: è sufficiente, come notizia? Serve un giorno particolare, per scriverlo?

COSA È ACCADUTO. Poi, se volete, parliamo della puntata di oggi, anche se nessuno di voi - come è giusto - ricorderà tutte le puntate precedenti, annegate nel tempo e nel Covid. Ecco qua: già espulso il 20 giugno, Palamara aveva fatto ricorso e ieri appunto l'hanno respinto. Ha solo ottenuto di essere ascoltato: «Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito», ha detto, «e ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all'Anm nell'auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati». Bravo Palamara, che la terra ti sia lieve. Dopodiché l'impresario funebre, pardon, il presidente del sindacato delle toghe, Luca Poniz, ha chiuso gli interventi: «l'Anm a cui pensa Palamara non esiste più, e questo è un buon risultato». Poi ha fatto riferimento a un'intercettazione in cui lo stesso Palamara aveva detto che l'Anm non conta più nulla: «Se intendeva dire che, dopo di lui, l'Anm svolge un altro ruolo, non di autocollocazione, sono contento». L'ha detto senza ridere: ai funerali non sta bene). Palamara a dire il vero aveva detto anche altro, ieri: «Sono stato travolto, ma non sento di essere stato moralmente indegno. Fino al 2008 ho fatto lo scribacchino di atti, poi la mia posizione nella vita politico-associativa mi ha dato un altro ruolo. Ho vissuto un'altra vita, una vita di rappresentanza, se ho fatto bene o male non posso dirlo io».

IL MEDIATORE. Riassunto delle puntate precedenti: tra il 2019 e il 2020 si è lentamente saputo del ruolo di mediatore tra correnti della magistratura che Palamara orchestrava, dei metodi di assegnazione nell'assegnazione di incarichi di rilievo (tipo procuratore capo) e durante un'intervista spiegò testualmente: «Non ho inventato io le correnti. Essere identificato come male assoluto può fare comodo a qualcuno. Io mediavo tra le singole correnti dell'Anm. Non esisteva solo un Palamara, esistevano tanti mediatori. Mi chiamavano tantissime persone, avevo una funzione di rappresentanza, ero diventato una figura di riferimento tutti erano frutto di un accordo». E ancora: «I posti di procuratore capo sono posti di potere, è vero che il sistema delle correnti penalizza chi non vi appartiene: negare che le correnti siano una scorciatoia è una bugia Il politico dall'esterno non può incidere sui magistrati, ma questo sistema favorisce una commistione». Tutte cose che in realtà avevamo già capito grazie alle intercettazioni del suo telefono col famoso sistema Trojan. Ma è lo scenario della magistratura di potere a essersi rivelato un troiaio, al punto che le inchieste hanno scosso anche il Csm e portato alle dimissioni di diversi consiglieri coinvolti. Poi c'è pure che Palamara è stato indagato perché avrebbe messo a disposizione il suo ruolo in cambio di viaggi e regali, ma tutto sommato è la parte che ci interessa meno. Dall'inchiesta viene fuori di tutto sul cuore della magistratura intesa come terzo potere che mette in ombra gli altri due, di tutto sui giornali trattati come cani da diporto: ed è stata pubblicata solo una parte delle intercettazioni. È tutta la magistratura che sembrava andare sotto processo, e che lo dovrebbe. Tutto un sistema bacato e irriformato. Ma la Sezione disciplinare del Csm, al processo-farsa che attende Palamara, ha ammesso solo 6 testi. Si profila la radiazione dell'ordine giudiziario, poi avanti tutti come prima. Cacciato un Palamara se ne fa un altro.

Processo solo a Palamara o ai traffici sulle nomine? Il Csm rinvia la decisione. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 settembre 2020. Momenti di grande tensione ieri mattina a Palazzo dei Marescialli nel processo disciplinare a carico di Luca Palamara. L’udienza era dedicata all’ammissione delle prove documentali e per testi. Questo procedimento, come noto, si basa quasi esclusivamente sul contenuto delle intercettazioni effettuate con il trojan da parte del Gico nell’ambito dell’indagine della Procura di Perugia per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm. Punto nodale è la conversazione fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm avvenuta la sera del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, e avente a oggetto le nomine di importanti uffici giudiziari. Fra le accuse a Palamara, quella di avere “condizionato” le scelte dell’organo di autogoverno della magistratura. Il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, difensore del pm romano, ha articolato il proprio intervento contestando l’utilizzabilità delle risultanze di tale attività intercettiva. Fra i motivi in punto di diritto, la mancata indicazione del luogo di svolgimento dell’attività criminosa, prevista per i reati contro la Pa, la mancata indicazione, nel decreto autorizzativo del gip di Perugia, della programmazione delle registrazioni da effettuare, l’insussistenza delle ragioni di urgenza e l’utilizzazione di impianti esterni a quelli della Procura. Guizzi ha poi definito illecite le captazioni effettuate quando erano presenti con Palamara dei parlamentari. Non si sarebbe trattato di incontri “occasionali” ma programmati per tempo, e per i quali era necessaria l’autorizzazione del Parlamento. La Procura generale della Cassazione si è opposta. Il collegio, invece, si è riservato di decidere sull’utilizzabilità delle intercettazioni. Nel frattempo è stata disposta la loro trascrizione. Al riguardo, poi, lunedì prossimo il Tribunale di Perugia dovrà pronunciarsi sia in relazione alle modalità di utilizzo del trojan, sia per l’avvenuta intercettazione di parlamentari senza autorizzazione della Camera. Se tali intercettazioni dovessero venire dichiarate inutilizzabili, tale inutilizzabilità, ha spiegato Guizzi, sarebbe "erga omnes", quindi non solo per Ferri e Palamara ma anche per i cinque ex togati del Csm sotto procedimento disciplinare. Sul fronte dei testimoni la difesa di Palamara aveva chiesto che fossero ammessi in 133. Si trattava di politici, alti magistrati, capi di correnti della magistratura. Lo scopo era quello di dimostrare che l’interlocuzione fra politici e magistrati in tema di nomine dei vertici degli uffici è sempre esistita. Le nomine sono atti “politici” ha ricordato Guizzi e dovrebbero essere “sottratte” al giudice amministrativo. Di diverso avviso il collegio ( presieduto dal laico indicato dal M5S Fulvio Gigliotti) secondo il quale le contestazioni riguardano solo cosa accadde durante l’incontro di maggio, col tentativo di Palamara di screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Il collegio ha ammesso solo i finanzieri del Gico che effettuarono gli ascolti, “riservandosi” di valutare l’ammissione di altri testimoni. Un segno, forse, della presenza di vedute non del tutto convergenti all’interno della sezione disciplinare. Dallo scioglimento della riserva discenderà anche il carattere del procedimento disciplinare a Palamara: mero accertamento delle responsabilità legate alla cena dell’hotel Champagne o valutazione commisurata sulle prassi generalmente adottate in quella e in precedenti consiliature del Csm? La sentenza è prevista per il 16 ottobre, ma prima si dovrà capire lungo quale percorso il collegio intenda arrivarci. Sempre la sezione disciplinare ha assolto due giorni fa, per “scarsa rilevanza del fatto”, Doris Lo Moro, magistrata fuori ruolo in servizio presso il ministero della Giustizia ed ex senatrice pd. Lo Moro aveva partecipato “sistematicamente e con continuità” all’attività del partito, “in particolare come componente dell’Assemblea nazionale”.

La difesa: "Intercettazioni inutilizzabili". Processo Palamara, la "tagliola" della sezione disciplinare del Csm: ammessi solo 6 testimoni su 133. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Sono solamente sei i testimoni ammessi per ora dalla Sezione disciplinare del Csm al processo disciplinare nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. I sei testi, che saranno sentiti nella prossima udienza convocata il 23 settembre, sono tutti appartenenti alla polizia giudiziaria. Tra questi c’è il generale della Gdf Gerardo Mastrodomenico, e poi Fabio Del Prete, Fabio Di Bella, Roberto Dacunto, Gianluca Burattini e Duilio Bianchi. La gran parte erano stati chiesti dalla difesa, due dalla procura generale della Cassazione. Come ampiamente previsto, la procura generale della Cassazione aveva chiesto di respingere quasi in blocco i 133 testi che aveva presentato la difesa di Luca Palamara. Secondo la procura generale i 133 testimoni erano ‘’inammissibili’’ perché “non pertinenti né rilevanti” rispetto ai fatti contestati: la difesa di Palamara aveva chiesto di ascoltare politici, ministri, ex vice presidenti del Csm, capi delle correnti della magistratura, procuratori. E poi i consiglieri del Quirinale Stefano Erbani e Francesco Saverio Garofani. Oltre al segretario generale del Csm Paola Pieraccini che Palamara aveva chiamato a rispondere sulle fughe di notizie avvenute lo scorso anno a proposito dell’indagine di Perugia. Nella lista figurava anche Piercamillo Davigo. Nell’udienza tenuta questa mattina la procura generale, rappresentata dal sostituto pg Simone Perrelli e dall’avvocato generale Pietro Gaeta, aveva chiesto di ammettere solo cinque rappresentanti della polizia giudiziaria: il generale del Gico della Guardia di Finanza Gerardo Mastrodomenico, il maresciallo Roberto Dacunto, e altri tre. Sulla "tagliola" dei testimoni il difensore di Palamara, Stefano Guizzi, aveva sottolineato di poter rinunciare solo ai cinque ex consiglieri del Csm e non agli altri perché Palamara rischia la “sanzione massima”. L’avvocato aveva rimarcato in particolare la necessità di ascoltare il vice presidente del Csm Davide Ermini e i consiglieri Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Il legale dell’ex presidente dell’Anm ha precisato di non voler fare del processo la “Norimberga della magistratura, né lanciare nessun j’ accuse, ma capire le dinamiche del Csm. Se si accusa Palamara di trame occulte, bisogna capire se le procedure che portano alla nomina del vice presidente passano attraverso interlocuzioni solo tra consiglieri o anche con i cosiddetti capi correnti”. La difesa dell’ex pm di Roma, sospeso da oltre un anno, ha chiesto quindi l’inutilizzabilità delle intercettazioni contenute tra gli atti dell’inchiesta di Perugia. Il difensore di Palamara, l’avvocato Stefano Guizzi, ha ricordato infatti che lunedì prossimo il tribunale di Perugia dovrà pronunciarsi sulle trascrizioni, sia per le modalità di utilizzo del trojan che per l’intercettazione del deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, senza l’autorizzazione della Camera. Per l’ex pm di Roma si annuncia un processo lampo: la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha anche stravolto il calendario che era stato comunicato a luglio e che prevedeva udienze almeno fino alla fine dell’anno. Il nuovo calendario, comunicato martedì scorso, prevede udienze per le prossime tre settimane e la sentenza il 16 ottobre. Per quanto riguarda l’esito invece, la radiazione dell’ordine giudiziario è ormai quasi certa. La Procura generale è intenzionata a chiedere il massimo della pena.

Caso Palamara, tutte valide le intercettazioni. Via libera dal gip di Perugia. Saranno integralmente trascritte, anche quelle tra l'ex componente del Csm e i parlamentari Lotti e Ferri. Liana Milella il 21 settembre 2020 su La Repubblica. Con una lunghissima ordinanza, il gip di Perugia Lidia Brutti ha ammesso tutte le oltre 200 intercettazioni del caso Palamara e ne ha ordinato l’integrale trascrizione. Una decisione che va certamente incontro alla linea della procura, retta da Raffaele Cantone, che con i sostituti Gemma Milani e Mario Formisano era presente all’udienza stralcio in corso da luglio. Il via libera di fatto conferma la legittimità delle stesse intercettazioni, comprese quelle realizzate a maggio 2019 tramite un Trojan, un virus inoculato direttamente nel cellulare dell’ex pm ed ex componente del Csm Luca Palamara. Che da luglio è ufficialmente imputato di corruzione per una decina di viaggi effettuati in 5 anni per un importo di 6.900 euro riconducibili all’imprenditore Fabrizio Centofanti e per la ristrutturazione di una veranda a casa di una sua amica. È caduta invece l’accusa più grave di corruzione relativa a 40mila euro che l’ex pm avrebbe ricevuto per una nomina. Ma la decisione soddisfa in parte anche lo stesso Palamara che con il suo collegio di difesa aveva chiesto la trascrizione di un centinaio di ascolti ritenendone lacunosa la versione fornita dalla Gdf, mentre la procura ne aveva chiesti altrettanti. Per la nuova trascrizione sono stati nominati dal gip due commissari della polizia scientifica di Roma, per cui  le operazioni si svolgeranno nella Capitale. Benedetto Buratti, il difensore di Palamara, si è riservato di nominare a sua volta un proprio perito di parte. Le operazioni cominceranno il 2 ottobre e gli esperti avranno 90 giorni per completare il loro incarico. Il 25 novembre comincerà l’udienza preliminare. La decisione del gip Brutti però boccia la linea di Palamara della illiceità delle trascrizioni delle intercettazioni con i parlamentari Luca Lotti del Pd e Cosimo Maria Ferri di Italia viva, in quanto, secondo l’ex presidente dell’Anm appena espulso definitivamente dal sindacato dei giudici, il pm di Perugia aveva scritto alla polizia giudiziaria di interrompere le registrazioni qualora fossero presenti dei parlamentari. Ma questo non avvenne l’8 maggio 2019, quando ci fu l’incontro all’hotel Champagne di Roma tra Palamara, Lotti, Ferri e cinque consiglieri del Csm attualmente in carica per pilotare la scelta del nuovo procuratore di Roma. Palamara, proprio per quegli ascolti, è sotto processo disciplinare al Csm, dove ha ugualmente contestato la regolarità e ammissibilità delle intercettazioni. Ma il gip Brutti, a Perugia, ha ritenuto che quell'incontro con la presenza dei parlamentari non fosse prevedibile e di conseguenza il captatore non potesse essere spento. Quindi le intercettazioni rappresentano una prova e possono essere trascritte. In settimana prosegue il processo disciplinare al Csm dove, dei 133 testi richiesti da Palamara, ne sono stati ammessi solo sei, tra cui gli stessi ufficiali della Gdf che hanno lavorato al processo. La tabella di marcia delle udienze è molto accelerata e la decisione potrebbe arrivare prima del 20 ottobre, quando Piercamillo Davigo, uno dei giudici della Disciplinare, compie 70 anni. E quindi come magistrato va in pensione. È aperta la questione della sua possibilità di restare componente togato. La commissione per la verifica dei titoli ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato. Ma, per evitare possibili contestazioni su un’eventuale decisione negativa su Davigo, la sezione disciplinare vuole andare al verdetto prima del suo pensionamento. 

Intercettazioni in pasto ai media. Da Palamara a Suarez: Raffaele Cantone e il protagonismo della Procura di Perugia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Arriva Cantone e la Procura di Perugia diventa caput mundi. Arriva Cantone e d’un colpo si comincia a intercettare tutto e tutti. E a pubblicare. Arriva Cantone e improvvisamente, nel Paese in cui pochi ormai, persino i giornalisti e gli scrittori, conoscono bene la lingua italiana, tutti si fanno maestri e censori perché un ragazzo uruguayano ben pagato per tirare calci al pallone pretende la cittadinanza pur sbagliando i congiuntivi. Arriva Cantone e si sveglia anche la dormiente Federcalcio per non essere da meno. Insomma, Mister Cantone, I suppose. L’uomo che ha sbaragliato (scavalcato, secondo due ricorrenti) pubblici ministeri con molti più anni di carriera nelle funzioni requirenti per conquistare il vertice della procura della repubblica di Perugia, mettendole addosso riflettori degni di illuminare il Palazzo dell’Anticorruzione da lui presieduta fino a poco tempo fa. L’uomo che eredita una banale inchiesta sull’Università per stranieri con beghe tra rettori, tra bilanci passati e presenti, e la trasforma in un evento mediatico di livello planetario. Scandalo! L’attaccante del Barcellona, l’uruguayano Luis Suarez sarebbe stato favorito con una speciale sessione d’esame e risposte a domande preconfezionate per superare l’interrogazione di lingua italiana, necessaria per poter avere la cittadinanza. Siamo alla vigilia di un ingaggio da parte della Juve, la quale ha in seno già due giocatori stranieri e non può averne tre. C’è dunque fretta di questo esame, di questo risultato positivo, di questo timbro per far diventare Suarez cittadino italiano. Si mobilitano in tanti per aiutarlo, ma i tempi sono stretti e la Juve alla fine rinuncia. Ma intanto…Una valanga di intercettazioni si riversa sui giornali, nelle tv e sui social. È questa è la seconda novità, dopo quella di un nuovo vertice di procura già illuminato dalle telecamere prima ancora che abbia preso servizio. La novità è che gli uffici giudiziari di Perugia, già sopraffatti dall’inchiesta penale che vede imputato il magistrato Luca Palamara, si trova all’improvviso a dover godere (o subire) un nuovo protagonismo. Con la guardia di finanza a registrare e la solita manina a diffondere le solite frasi spezzettate e poi abilmente ricucite che gridano a gran voce la colpevolezza di tutti gli indagati all’interno dell’università. Non solo per abuso d’ufficio, ma addirittura per corruzione. E chi sarebbero i corruttori? I dirigenti della Juventus, a occhio. Ma non pare siano indagati. Così come pare non lo sia lo stesso Suarez. Sempre a occhio, questa della corruzione pare poco credibile. Mazzette per fingere che il calciatore coniughi bene i congiuntivi? O le famose “altre utilità”, quelle che vengono contestate ai politici, magari sotto forma di biglietti omaggio in tribuna per qualche partita? Qui si corre il rischio che non ci si trovi davanti a un “esame farsa” come leggiamo da tutte le parti, ma a un’inchiesta-farsa. Non è che per caso lei, dottor Cantone, vede corruzione ovunque? Così come di una grande farsa pare tutta questa leggenda dei cittadini stranieri che devono dimostrare di conoscere bene la nostra lingua. Ora, l’italiano è una lingua meravigliosa, è la quarta tra quelle più studiate nel mondo, ha dato la parola a poeti e scrittori, è nell’olimpo della storia. Ci sono istituti prestigiosi, come l’Accademia della crusca, che hanno il compito di preservarla e valorizzarla. A volte hanno qualche cedimento, come su quel “se stesso” ormai ovunque scritto con l’accento, ma tengono il punto con onore. Il problema è però che ormai tanti nostri giovani non conoscono più la nostra lingua. Qualcuno dice che è colpa degli insegnanti ex sessantottini, altri criminalizzano i genitori che non si occupano dei bambini, non parlano loro e li abbandonano davanti al televisore o all’Ipad. Altri ancora ce l’hanno con il linguaggio da smartphone, con tutti quei K al posto del CH e la X invece del per. Sarà. Resta il fatto che ormai gli unici da cui pretendiamo che conoscano bene la lingua italiana sono i nostri ospiti stranieri. Matteo Salvini, quando era ministro dell’interno, ha inserito in uno dei suoi decreti l’obbligo della conoscenza della lingua italiana per poter ottenere la cittadinanza. Penso che abbia fatto bene. Saper parlare come parlano gli altri nel Paese in cui vai a vivere e saper farti capire, è la prima forma di integrazione. È la comunicazione, la rottura dell’isolamento. Ma non deve diventare un’ossessione. Conosco, anche molto da vicino, persone che sono in Italia da vent’anni, o anche trenta, perfettamente inserite e che mai vorrebbero vivere altrove, ma che per loro fortuna hanno avuto la cittadinanza prima dei decreti Salvini. Non perché non conoscano la lingua italiana o non la sappiano parlare. Ma perché, pur cavandosela benissimo rispetto alle loro esigenze e al tipo di lavoro che svolgono, magari avrebbero qualche difficoltà davanti a una commissione d’esame. Se Luis Suarez è stato agevolato nel sostenere il suo esame, lo vedremo. Da lui tutto sommato ci si sarebbe aspettato, nel caso in cui l’ingaggio con la Juventus fosse andato a buon fine, che tirasse bene in porta, pur non sottovalutando il fatto che anche i calciatori non li vorremmo analfabeti. Ma considerando anche che la richiesta di cittadinanza italiana da parte di qualcuno che può dar lustro al nostro calcio, come anche, e meglio ancora, alla nostra architettura, alla nostra musica, alla nostra arte, per noi dovrebbe essere un onore. E non un gesto da ripagare con le inchieste giudiziarie e la pubblicità negativa. Indaghi pure quindi, in osservanza al principio dell’obbligatorietà, dottor Cantone, sul fatto che qualcuno può aver dato una mano a un grande calciatore facendogli pissi pissi nell’ orecchio per suggerirgli le risposte giuste. Ma si ricordi che non tutto è reato, non tutto è corruzione. E lei, signor Luis Suarez, anche se ormai ha superato l’esame, la studi la lingua italiana. È bellissima.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 26 settembre 2020. L'inchiesta più mediatica del momento, quella sull'esame di lingua italiana del bomber Luis Suarez, suscita qualche perplessità anche in chi juventino non è. Innanzitutto, come capita spesso, gli avvocati difensori hanno letto alcune intercettazioni ancora coperte da segreto sul quotidiano che da mesi fa da ufficio propaganda della Procura di Perugia per il caso Palamara. Anche le firme sono le stesse e questo un po' immalinconisce. Ma la cosa sembra non aver intristito noi soli. Ieri pomeriggio, il neo procuratore Raffaele Cantone, «indignato per quanto successo finora», ha improvvisamente annunciato, via agenzia, di aver deciso di «bloccare da oggi a tempo indeterminato tutte le attività investigative () per le ripetute violazioni del segreto istruttorio», e di voler aprire presto un fascicolo «per accertare eventuali responsabilità». Una cosa mai audita: indagini fermate per l'incapacità di proteggerne la segretezza. Dopo un'ora e mezza è arrivata, però, la seguente precisazione: «Le indagini in corso "saranno tutte riprogrammate in modo da garantire la doverosa riservatezza"». Quindi il procuratore ha fatto sapere che l'inchiesta «riprenderà nei prossimi giorni con tutti gli accertamenti ritenuti necessari dagli inquirenti per chiarire la vicenda». Insomma il «blocco a tempo indeterminato» è durato lo spazio di 45 minuti. Alle 19 e 04 l'ultimo monito attribuito a un Cantone in versione a metà tra Jacques de La Palice e Vujadin Boskov: «Atti devono diventare pubblici solo quando previsto dalla legge». Il procuratore è assurto all'aspirato soglio sull'onda dell'inchiesta Palamara. Dalle intercettazioni infatti emergeva che il pm indagato per corruzione non nutrisse grande simpatia per l'ex presidente (in quota Renzi) dell'Autorità anticorruzione o per lo meno che avesse in mente altri candidati per l'ambita poltrona. Alla fine il posto lo ha ottenuto lui, nonostante non facesse l'inquirente dal 2005 e avesse, a dire dei suoi avversari e dei consiglieri del Csm che non lo hanno votato, meno titoli dei suoi competitori. Che in effetti hanno fatto ricorso al Tar. Uno di questi è il procuratore aggiunto di Salerno Luca Masini (sconfitto lo scorso 17 giugno con un combattuto 12 a 8), il quale contesta ai consiglieri di aver scelto Cantone per il suo ruolo nell'Autorità anticorruzione, nonostante si tratti «di un'attività estranea all'esercizio della giurisdizione» e di non aver tenuto conto della sua esperienza sul campo. Ma ha fatto ricorso anche Gaetano Paci, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, neppure preso in considerazione dalla competente quinta commissione del Csm. Quella di Paci, si legge nel ricorso presentato dal magistrato di origine palermitana, è una esclusione «illogica» e «contraddittoria», in «violazione» della normativa. La stessa commissione, infatti, elogia il profilo professionale di Paci, «prevalente» rispetto a Cantone per esperienze organizzative esercitate in ambito giudiziario. Paci è stato a capo della Dda di Reggio Calabria, mentre Cantone non ha mai esercitato questa funzione nei suoi 15 anni da pm. Dopo è passato al Massimario della Cassazione e all'Anac. «Le ragioni addotte dalla Commissione» per preferire Cantone «si fondano sul servizio prestato dal vincitore quale presidente di un organo di nomina politica, l'Anac» sostengono i difensori di Paci. Cantone è un grandissimo tifoso del Napoli e anche se in passato parlò di «caccia alle streghe alla Juve» e disse che il problema dell'Italia non poteva essere «la curva della Juve», resta indimenticabile una prima pagina del Corriere dello sport con le sue dichiarazioni da ultrà, dopo che al Napoli era stato squalificato per tre giornate il bomber Gonzalo Higuain: «Devono ridarci Higuain» si leggeva in prima pagina tra virgolette. E poi: «Cantone critica il giudice sportivo: "Meritava al massimo due turni. Un altro regalo alla Juve"». Sarà per questo che ieri mattina non tutti si sono stupiti nel vedere gli avvocati della Juventus Luigi Chiappero, uno dei più noti e stimati penalisti italiani, la sua collaboratrice Maria Turco, e l'amministrativista Brunella De Blasio, sfilare tra due ali di giornalisti, prima di entrare in Procura per essere ascoltati come testimoni. Il viso tirato e contrariato di Chiappero era più eloquente di una conferenza stampa. È chiaro che i difensori potessero essere sentiti, non diciamo a Torino o a Roma, ma, per esempio, in una caserma della Guardia di finanza. Un riguardo istituzionale che spesso si riserva ai politici, ma che gli inquirenti, evidentemente, non hanno ritenuto di concedere ai tre legali. Offrendo ai media l'imperdibile foto opportunity di Chiappero davanti alla Procura. Dopo qualche ora, il procuratore Cantone si è però affrettato a stigmatizzare «l'assembramento dei mezzi d'informazione» e ha promesso di fare «in modo che tutto questo non accada più». Resta lo scivolone che potrebbe concedere degli alibi a chi, nel mondo juventino, intravede nuvolette di fumus persecutionis, dopo l'inchiesta sull'infiltrazione della 'ndrangheta dentro alla curva bianconera. Una sindrome da fortino assediato che si aggrava in chi ricorda che il viceprocuratore federale della Federcalcio che potrebbe prendere in mano il fascicolo perugino è quel Marco Di Lello, che da deputato portò in commissione antimafia, dove era segretario, un'intercettazione «fantasma» sulla Juventus, in cui Andrea Agnelli mostrava di essere a conoscenza dei precedenti penali di alcuni tifosi. Ma, come detto, la conversazione segnalata da Di Lello non emerse dagli atti dell'inchiesta. Agnelli fece questo durissimo comunicato: «C'è stata sicuramente qualche irregolarità nella vendita dei biglietti, ma in questi due anni abbiamo assistito a uno spettacolo molto spiacevole, fatto anche da un'indagine della commissione Antimafia nella quale si citano intercettazioni che i fatti hanno dimostrato essere inesistenti. E abbiamo assistito alla scena, ai limiti se non oltre il conflitto di interessi, dei fratelli Di Lello (Massimo e Marco, ndr), entrambi avvocati nello stesso studio legale che porta il loro nome, con uno dei due fratelli che firma la relazione di indagini della procura federale sulla Juventus e l'altro, allora deputato, che fa il relatore del pur meritorio comitato Mafia e sport della commissione Antimafia». Di Lello minacciò querela. C'è infine il caso del pm Paolo Abbritti, titolare del fascicolo insieme con Gianpaolo Mocetti, che ci collega direttamente al caso Palamara. Infatti come abbiamo già scritto sulla Verità, l'ex presidente dell'Anm considerava Abbritti il suo cocco («È un ragazzetto proprio nostro, fidato»). Palamara ha chiesto di poter utilizzare nei procedimenti che pendono sulla sua testa i messaggi scambiati con Abbritti su Telegram, chat criptata.In particolare quelli con cui veniva pressato per allontanare da Perugia il procuratore aggiunto Antonella Duchini, accusata di corruzione. All'epoca Palamara sapeva già di essere sotto indagine in Umbria e si riteneva incompatibile. In un'intercettazione ambientale aveva riferito a un amico che Abbritti, «una volta», avrebbe ammesso: «Sì, è arrivata questa cosa, non so di che si tratta però». Ma c'è una conversazione in cui Palamara fa anche capire di aver avuto informazioni precise sulle contestazioni che lo riguardavano: «E Abritti, permettimi di dirtelo, è un pezzo di merda, (inc. le) che mi ha detto, ah ma tu non mi hai detto che hai fatto il viaggio a Dubai? Ah Paolo ma che cazzo ti devo dire? quello che faccio a te lo devo dire? ma che cazzo vuoi?». Infine Palamara ha citato, pure, un altro colloquio che avrebbe avuto con il pm perugino: «Paolo, guarda che se c'è qualcosa, io non posso fare questo processo alla Duchini». E la risposta sarebbe stata questa: «No, tu fallo tranquillamente, non c'è niente, non c'è niente». Alla fine della conversazione Palamara si era detto pronto a scrivere un memoriale con cui «vanno a fini' tutti in galera», avendo come prova «i messaggi di Paolo qua». Quelli di Telegram, dove Abbritti, all'epoca molto vicino al procuratore Luigi De Ficchy, chiedeva informazioni, anche a nome del capo, sul procedimento contro la collega Duchini. Il 27 luglio 2018 Abbritti scrive su Telegram a Palamara: «Firenze (che indaga sulla Duchini, ndr) ci chiede se entro lunedì verrà sciolta la riserva sul cautelare (da parte del Csm, ndr). Devono decidere se impugnare ordinanza gip». Nel capoluogo toscano il giudice aveva respinto la richiesta di misura cautelare interdittiva nei confronti della Duchini. Palamara risponde: «Relatore deve depositare provvedimento perché lo sta scrivendo appena deposita ti avverto. Un abbraccio». Abbritti: «Grazie mille ti abbraccio forte». Il 3 agosto arrivano le buone notizie. A mezzogiorno Palamara invia questo messaggio: «Aggiorna il tuo capo». Abbritti: «Ha depositato?». Palamara: «Sì». Abbritti: «Trasferimento ad Ancona? Si può avere?». Passano dieci minuti e il sostituto procuratore umbro comunica: «Avvisato il capo. Molto contento. Ti ringrazia. Un abbraccio forte». Dopo alcune nomine e prima che venisse depositata la decisione sulla Duchini, Abbritti aveva scritto a Palamara anche questo sms: «Intanto ti ringrazio per questo. So che avevi tante pressioni». Adesso le pressioni rischia di averle Abbritti: un fascicolo come quello sulla Juve non capita sul tavolo tutti i giorni.

Il Palamaragate e il processo. Il trojan è illegale, ma fa niente: acquisite intercettazioni dell’incontro Palamara-Lotti. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Settembre 2020. Il giorno del Gico al Csm è arrivato. Saranno sentiti oggi pomeriggio a Palazzo dei Marescialli i finanzieri che hanno condotto, su delega della Procura di Perugia, le indagini nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Si tratta degli unici testimoni ammessi dalla Sezione disciplinare che, la scorsa settimana, ha cassato con un tratto di penna gli altri 127 testimoni richiesti dalla difesa di Palamara. Il drappello delle fiamme gialle sarà comandato dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, attuale comandante provinciale di Messina. Mastrodomenico era, fino allo scorso anno, il comandante della seconda sezione del Gico di Roma. Ufficiale da sempre di strettissima fiducia del “Pigna”, alias Giuseppe Pignatone, come disse una volta Palamara a Luca Lotti, fu colui che firmò l’informativa della svolta nell’indagine di Perugia, spostando il tiro sul sistema delle nomine a piazza Indipendenza. In particolare, è stato Mastrodomenico ad evidenziare nell’informativa il ruolo di Palamara come top player nell’attribuzione degli incarichi. Ed è stato sempre lui quello che “attenzionò” i rapporti fra il magistrato romano e il collega Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, ex Pd, e leader storico della corrente di destra, Magistratura indipendente. Nell’informativa indirizzata ai pm umbri Mario Formisano e Gemma Miliani, Mastrodomenico evidenzia che le captazioni effettuate sul telefono di Palamara hanno consentito di rilevare che l’ex presidente dell’Anm fosse «effettivamente in grado di gestire ed orientare i voti espressi dai magistrati appartenenti all’associazione Unicost che di altre associazioni di magistrati». I rapporti fra Palamara e Ferri durante il periodo di “monitoraggio” sarebbero stati caratterizzati da non ben definiti “elementi di opacità”. Nell’ informativa, infatti, non è ben evidenziato in che cosa consista tale “opacità”. A supporto delle sue affermazioni, Mastrodomenico produce il resoconto dettagliato di un servizio di “ocp” (osservazione, controllo e pedinamento) effettuato da una squadra di quattro finanzieri nei confronti dei due magistrati in occasione di una cena, avvenuta il 10 aprile del 2019, al prestigioso ristorante di pesce della Capitale, Il San Lorenzo. L’evento conviviale venne organizzato dal notaio Biagio Ciampini di Teramo. Fra i partecipanti, oltre a Palamara e Ferri, l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini, il magistrato della Corte dei Conti Andrea Baldanza, attuale vice capo di gabinetto del Mef, l’ex consigliera del Csm Paola Balducci. Tutti immortalati nel dossier fotografico prodotto dai finanzieri appostati con i teleobiettivi nella centralissima via dei Chiavari. Ascoltato Mastrodomenico, sarà il turno dei marescialli Roberto Dacunto, Gianluca Burattini e dell’appuntato Fabio Del Prete. Erano loro quelli che accendevano e spegnevano il trojan. La difesa di Palamara, rappresentata dal consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, punterà a dimostrare che gli incontri fra i due magistrati non erano mai casuali ma sempre programmati per tempo. Non essendoci quindi “casualità”, l’intercettazione con il trojan non poteva essere effettuata in ossequio alle prerogative di Ferri in quanto parlamentare. Era stata la stessa pm Gemma Miliani ad ordinare con una nota formale al capo del Gico di spegnere il trojan quando Palamara si fosse trovato con dei parlamentari. Nota che invece venne disattesa. La prevedibile risposta dei finanzieri sarà che questi ascolti venivano effettuati “a posteriori” e non nell’immediatezza dell’ascolto. Quindi, ad esempio, dell’incontro con Palamara, Ferri e Lotti all’hotel Champagne, che poi determinò il terremoto al Csm, i finanzieri si sarebbero accorti solo “a cose fatte”. A smentire tale tesi, i messaggi che Palamara e Ferri si scambiavano per fissare i loro appuntamenti. Le attività di ascolto non vennero effettuate, come prevede la norma, presso la sala ascolto della Procura, ma, dopo aver remotizzato gli apparati, direttamente presso la sede del Gico di Roma in via Talli. Un aspetto evidenziato da Guizzi e sul quale i finanzieri, che chiesero di essere autorizzati dai pm umbri, dovranno fornire spiegazioni.

Palamara, altro giallo: quelle anomalie sul trojan che potrebbero far crollare tutto. Errico Novi su Il Dubbio il 29 settembre 2020. I giudici dovranno decidere se il trojan è stato usato, come si adombra nella relazione, in modo irregolare. Nel caso, franerebbe l’intero castello, di accuse e di punizioni purificatrici. Non ha parlato di tutto. Non delle intercettazioni, almeno nel loro dettaglio, non ha spiegato in tutti i particolari la cena all’hotel Champagne del 9 maggio 2019, il palcoscenico fatale disvelato dal trojan. Ma Luca Palamara neppure si è nascosto, nell’udienza del procedimento disciplinare al Csm dedicata proprio all’esame della sua figura di incolpato. Semplicemente, la difesa dell’ex presidente Anm ritiene improprio offrire al collegio giudicante — presieduto da Fulvio Gigliotti e segnato dalla presenza, tra gli altri giudici, di Piercamillo Davigo — informazioni su un materiale che, in teoria, potrebbe anche rivelarsi non utilizzabile. Sulla “prova regina” sia del processo a Palazzo dei Marescialli sia dell’indagine penale di Perugia, Palamara ha infatti chiesto di valutare la perizia tecnica di un proprio consulente. I giudici disciplinari hanno dato l’ok. E venerdì prossimo dovranno decidere se il trojan è stato usato, come si adombra nella relazione, in modo irregolare. Nel caso, franerebbe l’intero castello, di accuse e di punizioni purificatrici. Palamara ha comunque parlato in generale del suo rapporto con Luca Lotti, del fatto che la presenza del deputato alla cena del 9 maggio non sarebbe stata connessa alle pressioni su Palazzo dei Marescialli affinché nominasse Viola quale successore di Pignatone: «Non ho stipulato alcun accordo con Lotti per indicare a Roma un procuratore che dovesse agevolarlo nelle sue vicende processuali», cioè nel filone Consip che vede coinvolto l’ex sottosegretario. In teoria il destino del giudizio disciplinare sembrerebbe segnato, e ancora più compresso nelle tempistiche: dal 16 ottobre, il giorno della discussione finale e della sentenza è stato ieri ufficialmente anticipato a giovedì 8. Vuol dire che in 10 giorni la magistratura completerà probabilmente l’esecuzione capitale nei confronti del predestinato. Il calendario è ora più puntuale. Eppure si dovrà prima fare i conti con l’iniziativa assunta dal consigliere di Cassazione che assiste l’ex capo dell’Anm, Stefano Giaime Guzzi: ha ottenuto che fosse messa agli atti la perizia di parte. È stata accolta anche una richiesta della Procura generale, rappresentata dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta: prima di valutare le ombre avanzate dalla perizia, dovrà riascoltare il direttore della società, Rcs, che ha materialmente effettuato le captazioni. Secondo Guizzi, le analisi condotte dal perito della difesa fanno emergere incertezze sulla regolarità del procedimento di archiviazione dei colloqui “catturati” dal trojan. Che non sarebbero confluiti direttamente nei server della Procura di Perugia, come impone la legge. Aspetto non irrilevante riguardo la riservatezza della fatale indagine perugina. Quelle captazioni erano sì legittimamente autorizzate dal gip umbro, ma il Tribunale ancora non si è pronunciato, con l’eventuale rinvio a giudizio, sulla consistenza dell’accusa che fa da presupposto a quell’autorizzazione, i reati corruttivi ipotizzati dai pm di Perugia ( che nulla c’entrano con la nomina alla Procura di Roma). Qualora l’ex capo Anm fosse prosciolto dal gup, non decadrebbe, certo, la legittimità delle intercettazioni. Eppure resterebbe più un’ombra relativa al fatto che le sole conseguenze processuali dei colloqui tra Palamara e decine di colleghi finirebbero per consistere nell’incolpazione disciplinare al Csm. È evidente come proprio tale paradosso renda cruciale l’accertamento sulle garanzie di riservatezza assicurate durante l’acquisizione, da parte del Gico, delle conversazioni scoperte col virus spia. Sono aspetti delicatissimi. Sui quali la sezione disciplinare del Csm scioglierà la riserva presto. Sentito mercoledì il dirigente della Rcs, l’ingegnere Duilio Bianchi, deciderà appunto venerdì se le intercettazioni avevano seguito un percorso regolare, cioè sicuro: dal cellulare di Palamara direttamente, come da articolo 268 del codice di rito, al server della Procura. Poi si arriverà a giovedì 8 ottobre, in tempo per pronunciare la sentenza Palamara ben prima che, con il congedo di Davigo, ci debba interrogare sulla legittima presenza nel collegio da parte dell’ex pm di Mani pulite. Anche se quel tarlo sul senso delle intercettazioni minacciato da un non impossibile proscioglimento a Perugia, avrebbe forse dovuto indurre il Csm a sospendere il processo disciplinare fino alla decisione del gup. Chissà che la fretta non si spieghi anche con tale, possibile corto circuito. Al di là di quanto sia fondata la contestazione che potrebbe costare a Palamara l’addio alla toga ( è già sospeso da funzioni e stipendio, da un anno ormai) resta il vero enigma dell’intera vicenda: se l’ex capo Anm non fosse responsabile, penalmente, dei reati di corruzione che erano i soli a poter giustificare l’installazione del trojan sul suo cellulare, è davvero accettabile far pagare solo ( o quasi) a lui gli scambi di favori sulle nomine, le pressioni e le strategie tra Csm e capicorrente, che senza quel trojan, forse “immotivato”, sarebbero rimaste, nella percezione comune, come abitudine diffusa nell’intero ordine giudiziario?

«Le captazioni su Palamara? Finivano ai gestori telefonici e poi in Procura…». Disciplinare al Csm, il fornitore del “trojan” non allontana le ombre Il Dubbio l'1 ottobre 2020. «Nessun espediente per far sparire i fatti: vogliamo solo che siano inseriti in una corretta cornice processuale». È questo il commento a caldo rilasciato ieri dal consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, difensore di Luca Palamara, al termine della seconda testimonianza dell’ingegnere Duilio Bianchi, della società milanese Rcs, che ha fornito alla Procura di Perugia gli apparati e i programmi per svolgere le intercettazioni a carico dell’ex presidente dell’Anm. Ad iniziare dal temibile “trojan horse”, il software che trasforma il cellulare in un microfono. A decidere di risentirlo era stato lunedì scorso il collegio della sezione disciplinare del Csm, presieduto dal laico Fulvio Gigliotti, dopo che la difesa di Palamara aveva presentato una relazione tecnica, affidata a un perito della Procura di Roma, contenente una serie di riscontri che smentivano quanto dichiarato da Bianchi. Punto centrale l’ubicazione del server dove venivano “raccolti” gli ascolti. Le intercettazioni effettuate con il trojan non sarebbero state convogliate sul server della Procura capitolina, dopo che era stata disposta la remotizzazione da parte di Perugia, ma su un altro server. Piazzale Clodio sarebbe stato insomma solo un “client”. Un particolare tecnico che, secondo Guizzi, renderebbe inutilizzabili le intercettazioni su cui si basano gran parte delle contestazioni disciplinari a Palamara. Bianchi ha ricordato che «il software del trojan è stato interamente prodotto dalla società Rcs» e che erano state «garantite inaccessibilità e non modificabilità dei dati». I quali «confluivano direttamente dal captatore al server della Procura di Roma» attraverso «le reti dei gestori», che hanno avuto una funzione di mero transito, ha puntualizzato Bianchi. Il trojan, è stato nuovamente ricordato, veniva acceso «direttamente dalla polizia giudiziaria con una interfaccia su web». Rcs, dunque, non avrebbe svolto alcuna attività. «Abbiamo evidenziato il nostro punto di vista», ha aggiunto Guizzi, sottolineando come a questo punto la sezione disciplinare «abbia tutti gli elementi per effettuare la corretta valutazione». E la decisione, da parte del collegio, sulla utilizzabilità o meno degli ascolti è attesa per domani. La settimana prossima, invece, terminerà il processo: la discussione, secondo la richiesta della Procura generale, si svolgerà in maniera unitaria con l’ascolto della pubblica accusa e della difesa, di seguito, l’ 8 ottobre.

Processo a Palamara troppo veloce: rischio annullamento. Errico Novi su Il Dubbio il 17 Settembre 2020. Il turbocalendario del Csm: sentenza il 16 ottobre. Udienze a raffica e testi esclusi pur di chiudere prima che Davigo (giudice dell’ex leader Anm) lasci la magistratura. Il punto è Davigo. Resta al Csm? Resta consigliere e quindi giudice disciplinare di Palamara anche dopo il 20 ottobre, giorno in cui compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura? L’incognita ha indotto Palazzo dei Marescialli a una forsennata accelerazione sul procedimento a carico dell’ex leader Anm: sentenza il 16 ottobre anziché, com’era stato previsto, a dicembre. Pur di non sciogliere ora il nodo sulla permanenza in Consiglio dell’ex pm del Pool, il collegio disciplinare si espone al rischio di un clamoroso flop. Vale a dire di una corsa così sfrenata da lasciare la sentenza sotto la scure dell’impugnazione e addirittura di un annullamento. Il pg Giovanni Salvi ha prefigurato la sanzione più severa, l’espulsione di Palamara dall’ordine giudiziario. Plausibile o meno che sia l’ipotesi, già il modo in cui si pensa di arrivarvi pare claudicante. Alla difesa di Palamara potrebbe bastare un ricorso alle sezioni unite della Suprema corte. E se pure andasse male, difficilmente la Corte europea dei Diritti umani potrebbe ignorare le doglianze all’incolpato. Il ritmo che martedì sera la sezione disciplinare ha deciso di imprimere al calendario è «sorprendente», per usare un aggettivo di Stefano Giaime Guizzi, il magistrato di Cassazione che difende Palamara nel “processo” al Csm. Con l’ordinanza dell’altro giorno (emessa insieme con quelle di rigetto di varie eccezioni degli incolpati) il collegio ha fissato 11 udienze in 20 giorni lavorativi. Si riprende domani, si va avanti il 23, 28, 29 e 30 settembre, poi tour de force a ottobre fino alla sentenza fissata per il 16. Procedimenti a carico degli altri cinque incolpati (tutti togati che si sono dimessi dall’attuale consiliatura) posticipati a partire dal 23 ottobre. Tutto per lasciare campo libero al solo “disciplinare” di Palamara. Occupata ogni possibile casella del calendario per la quale Guizzi non avesse già preannunciato impedimenti. Gli capitasse da preparare un appunto per il presidente della sua sezione al Palazzaccio (la terza penale), dovrà lavorare di notte. Ma le 11 udienze in 20 giorni potrebbero non bastare: Palamara già a luglio aveva chiesto di sentire 133 testi. «Non vogliamo affatto la Norimberga della magistratura», spiega Guizzi, «c’è bisogno di un approfondimento probatorio intenso perché solo così si può verificare non solo se vi siano state le interferenze addebitate a Palamara, ma anche quale sia stata la loro eventuale gravità». La logica del magistrato che difende il pm romano è semplice: «Come per tutti gli organi costituzionali, anche nel caso del Csm la disciplina sul suo funzionamento è piuttosto rarefatta. Ci si deve basare sulle consuetudini. E solo se si ricostruiscono le prassi, non solo della consiliatura in corso ma anche di alcune delle precedenti, si può stabilire se le condotte del dottor Palamara siano state effettivamente devianti. O se si inseriscano invece nel solco di prassi consolidate». Chiarissimo. Ora, poniamo pure che domani, quando il collegio disciplinare si riunirà di nuovo, la lista testi venga tagliata, Guizzi si chiede «fino a che punto sia legittima una riduzione». Se, pur di arrivare, costi quel che costi, a sentenza il 16 ottobre, si esagera, è evidente che si lascerebbe alla difesa di Palamara un materiale fantastico per una successiva impugnazione della condanna. Ricorso facile facile alle sezioni unite o, in extrema ratio, alla Cedu. E nei gradi di giudizio superiori, la tesi dell’inderogabile necessità, per la difesa, di un approfondimento dibattimentale più ampio troverebbe probabilmente ascolto. Così, pur di evitare che una presenza di Davigo nel collegio disciplinare anche successiva al suo congedo dalla magistratura offra motivo per eccepire la nullità del giudizio, si rischia di veder impugnata la sentenza per la compressione dei diritti di difesa. Un’astensione dell’ex pm del pool avrebbe risolto tutto. Ma non c’è stata, nonostante Palamara la reclamasse. Già se si fosse certi dell’imminente uscita di Davigo dal Csm, la prospettiva sarebbe meno indecifrabile. Ma di certezze in merito non se ne hanno, se non rispetto alla determinazione del consigliere nel reclamare il proprio diritto a restare in carica (come riferito in altro servizio del giornale, ndr). Certo è paradossale che un enigma legato al più intransigente dei magistrati possa pregiudicare il processo nei confronti del collega che, per gli amanti dei capri espiatori, incarna tutte le possibili deviazioni dell’ordine giudiziario.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “la Verità” il 29 settembre 2020. L' esame di Luca Palamara davanti alla sezione disciplinare del Csm è stato un vero corpo a corpo tra il pm sospeso e l' avvocato generale Piero Gaeta. Ieri il sostituto procuratore sotto inchiesta ha voluto togliersi alcuni macigni dalle scarpe, ma non ha inteso rispondere nel merito sulle conversazioni intercettate all' hotel Champagne, dove con cinque consiglieri del Csm e gli onorevoli Luca Lotti e Cosimo Ferri si parlò di nomine e in particolare di quella della procura di Roma. Palamara ha detto che prima di discutere di quelle conversazioni vuole attendere la pronuncia della Camera dei deputati sulla loro utilizzabilità. Su tutto il resto Palamara ha dato battaglia. «Io di passare per un corrotto traffichino davanti a voi non ci sto» ha detto, ricordando come sia caduta «l' accusa più infamante» che gli era stata contestata, cioè quella di aver intascato 40.000 euro per sostenere la nomina a procuratore di Gela di uno dei candidati. Parimenti, a giudizio di Palamara, non è possibile ipotizzare che lui possa aver barattato la propria funzione per accordarsi con Lotti, imputato a Roma, per la nomina del procuratore della Capitale. L' ex consigliere del Csm ha assicurato che non si sarebbe messo mai contro il suo ufficio per «salvare Lotti», tanto meno contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo, a cui è legato da «un rapporto di stima» e per la cui nomina si sarebbe speso. Palamara ha, però, ammesso che nel 2016, quando Lotti è stato iscritto sul registro degli indagati per l' inchiesta Consip, c' è stato un cortocircuito. «Io lo frequentavo da prima. Era notorio che lo facessi, l' ho frequentato a cena con il procuratore Pignatone (Giuseppe, ndr), con personaggi delle istituzioni. Perché era legato, quando era sottosegretario alla presidenza del consiglio, a temi e questioni che attenevano il nostro mondo». Ma nel 2016 è finito sotto inchiesta: «E allora mi sono posto il problema della frequentazione dell' indagato. E me lo sono posto stando lì, dove oggi siete voi (era consigliere del Csm, ndr). Nella mia consiliatura discutemmo di tre casi che riguardavano il tema della frequentazione dell' indagato: il primo riguardava la famosa questione Giancarlo De Cataldo-Salvatore Buzzi». L' incolpato ha citato anche la vicenda dei rapporti dell' imprenditore Antonello Montante (condannato a 14 anni di reclusione) con i magistrati di Caltanissetta e Palermo e il caso dell' ex esponente di Md Paolo Mancuso, azzoppato nella carriera perché pizzicato ad andare a caccia con presunti camorristi (però per lui non vennero ammesse le intercettazioni e venne prosciolto dal Csm). Durante il disciplinare Palamara ha mandato diversi messaggi al vertice del Csm: «Con l' onorevole Lotti c' è stato un rapporto di frequentazione che è continuato ancor di più soprattutto in occasione della nomina dell' attuale vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr)». In vista di quella votazione «sicuramente si sono intensificati i rapporti di conoscenza» e «la frequentazione tra me l' onorevole Lotti e l' onorevole Cosimo Ferri». Insomma se si è creata la «cricca dell' hotel Champagne», l' occasione è stata l' elezione di Ermini, anche se «l' onorevole Lotti non c' entra nulla con presunti accordi sulla nomina del procuratore di Roma». E qui è arrivata un' altra stoccata: «Per quanto riguarda il procuratore di Roma agli atti del fascicolo di Perugia troverete numerosissime intercettazioni nelle quali già da febbraio-marzo 2019 si parla normalmente - come è sempre avvenuto - di ipotetiche, presunte trattative di accordo tra i gruppi associativi. In particolar modo tra quello di Unicost e Magistratura indipendente, ma se dovessi negare che all' interno dell' ufficio di Roma io non affrontassi le medesime questioni con i miei colleghi di Area, direi sicuramente una bugia». Una questione affrontata in un altro passaggio dell' esame: «Poteva capitare di uscire con dei colleghi di Mi una settimana. Nella settimana successiva di organizzare delle uscite con i consiglieri di Area, quando per esempio c' erano delle nomine che interessavano maggiormente a loro. Potrei citare le vicende relative alla procura di Milano, alla Scuola superiore, alla Corte d' appello di Bari». Palamara ha anche ricordato di quando la sua corrente e Area avevano mandato all' opposizione Mi e Ferri. Poi i rapporti con il parlamentare di Italia viva si erano ricomposti («Le amicizie in comuni ci hanno riavvicinato»). In particolare in vista della nomina del vicepresidente del Csm: «Le interlocuzioni iniziarono già nel mese di luglio, quando il Parlamento elesse gli attuali membri laici. C' era già stata discussione all' interno del Partito democratico per la nomina del componente laico [] tra il nome del professor Luciani e il nome dell' onorevole Ermini». Che, grazie alla strana alleanza tra Ferri e Palamara, è diventato vicepresidente. Ma a mandare all' aria il nuovo assetto è stata la candidatura di Marcello Viola a procuratore di Roma. «Era ritenuto uomo di Ferri. Non di Lotti. Di Ferri». Una cosa che alla componente di Area dentro a Palazzo Clodio proprio non andava giù. Anche se per Palamara, l'«imputato» Lotti, dall' arrivo di Viola non avrebbe potuto trarre beneficio: «Cosa può fare un nuovo procuratore, una volta esercitata l' azione penale? Va dal gip e dice "ho sbagliato", cancello la richiesta di rinvio a giudizio?». Il famigerato dopocena dello Champagne «fu una di quelle occasioni nelle quali tra il martedì e il giovedì, eravamo soliti frequentarci con i consiglieri che componevano allora il Csm». Incontri a cui si univa ogni tanto anche Lotti e non solo lui. Il magistrato e l' ex ministro si davano appuntamento via Whatsapp oppure da centralino a centralino. «Questo era il modo di contattarci. Quella sera capitò che c' era un incontro prefissato e io gli dissi: "Se vuoi ci puoi raggiungere"». Il legame con Lotti si era rinforzato quando questi era diventato ministro dello Sport e Palamara era il capitano della rappresentativa di calcio dei magistrati. L' incolpato con i colleghi ha tenuto a sottolineare che, a proposito del «ruolo e dello status» di Lotti, quest' ultimo «si trovava in una situazione simile anche in occasione e della nomina del vicepresidente del Csm» e che dell' ex sottosegretario aveva «parlato ogni giorno con il procuratore Giuseppe Pignatone». Morale: se era infrequentabile per lui, avrebbe dovuto esserlo anche per chi, invece, è andato a presiedere il parlamentino dei giudici grazie al suo sostegno.

La bomba sganciata all'udienza disciplinare. Palamara chiama in causa il Csm: “Chi di voi è la talpa di Repubblica?” Paolo Comi su Il Riformista il 16 Settembre 2020. È caccia alla “talpa” che informò a maggio dello scorso anno i giornali degli incontri di Luca Palamara con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. L’ex presidente dell’Anm ha deciso di passare al contrattacco e ieri, in apertura dell’udienza disciplinare a suo carico, ha depositato una durissima memoria in cui ricostruisce quanto accaduto fino a oggi, ponendo interrogativi al collegio che dovrà decidere del suo futuro professionale. La sua rimozione dall’ordine giudiziario è, infatti, sempre più probabile alla luce delle ultime incolpazioni da parte della Procura generale della Cassazione. Tutto inizia con un articolo a firma di Carlo Bonini apparso sul quotidiano La Repubblica il 29 maggio 2019 ed intitolato “Il mercato delle toghe: un patto per prendere la Procura di Roma”. Nel lungo articolo veniva effettuata una particolareggiata ricostruzione dell’incontro, svoltosi la sera del 9 maggio precedente all’hotel Champagne di Roma, alla presenza di Palamara, Lotti, Ferri e cinque consiglieri del Csm. Fra gli argomenti di discussione, le nomine di alcuni importanti uffici giudiziari, ad iniziare dalla Procura della Capitale post Giuseppe Pignatone. Bonini, in due passaggi, aveva scritto che la conoscenza giornalistica di quei fatti sarebbe derivata da “diverse e qualificate fonti del Csm”. All’epoca le indagini a carico di Palamara erano in pieno svolgimento. Il trojan inoculato nel suo telefono e che registrò l’incontro era stato attivato da qualche settimana. I pm di Perugia, titolari del fascicolo, cercavano risconti alla maxi mazzetta di 40mila euro che sarebbe stata data al magistrato romano per la nomina, poi non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. I riscontri delle “captazioni” erano a conoscenza, nell’ordine, del Gico della Guardia di Finanza che materialmente procedeva agli ascolti, dei pm di Perugia e, appunto, dei vertici del Csm. I magistrati umbri avevano trasmesso a Palazzo dei Marescialli le prime risultanze già agli inizi di maggio del 2019. Chi potrebbe, allora, essere d’aiuto nella caccia alla talpa? La risposta la fornisce lo stesso Palamara: il segretario generale del Csm Paola Pieraccini. «Al fine di accertare la veridicità, o meno, di tale circostanza», la dottoressa Pieraccini, magistrato di Cassazione, dovrà riferire «sulle verifiche eventualmente disposte per riscontrare se vi sia stata, o meno, tale propalazione verso la carta stampata». La condotta del magistrato, prosegue Palamara, sarebbe «suscettibile di integrare, almeno astrattamente, se non il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, quantomeno l’illecito disciplinare consistente nella “violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione” ove fosse stata, in ipotesi, realizzata da appartenenti all’ordine giudiziario».

Magistratopoli, rischio processo farsa per Palamara: verrà radiato rapidamente o verranno ascoltati i 100 testimoni? Palamara era già stato vittima in passato di una fuga di notizia. Era accaduto nel periodo in cui era n. 1 dell’Anm ed il Csm stava valutando la sua posizione disciplinare per fatti relativi alla sua attività di pm a Roma. Che il Csm fosse un “colabrodo” era comuque stato lo stesso procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio ad affermarlo in alcune occasioni. Il segretario generale del Csm è una figura chiave a piazza Indipendenza, interfacciandosi direttamente con il Quirinale. Per settimane Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono atti d’indagini di Perugia. E non risulta che siano state aperte indagini per verificare la fuga di notizie. Palamara è poi tornato sulla mancanza di serenità dell’attuale Csm che deve giudicarlo. Il magistrato ha ricordato il ruolo avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale vice presidente David Ermini (Pd). La nomina venne decisa durante una cena presso l’abitazione dell’avvocato Giuseppe Fanfani (Pd), ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018. Fu Palamara a convincere i togati di Magistratura Indipendente, fino a quel momento orientati a votare il professore milanese Alessio Lanzi (Forza Italia) a convergere sull’ex responsabile giustizia dei dem. La scelta di Ermini causò la rottura dello storico patto di Unicost, la corrente di Palamara, con la sinistra giudiziaria di Area che aveva, con l’avallo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, puntato sul grillino Alberto Maria Benedetti. I componenti del Csm avrebbero poi già espresso “reiterate prese di posizione sull’indagine”. Tutte contro di lui. Un membro del Consiglio avrebbe parlato di “metodo mafioso”. Un altro di nuova P2. Anche Ermini “avrebbe fatto valutazioni che non lasciano dubbi”. Ieri è stato il giorno delle questioni preliminari. Ad assistere Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi. La disciplinare ha respinto. Prossima udienza a fine mese.

Anna Maria Greco per ''il Giornale'' il 16 settembre 2020. Questo Csm non è imparziale, chiedo che a giudicarmi sia quello nuovo. Luca Palamara va a Palazzo de' Marescialli e gioca spericolatamente la sua carta, alla prima udienza di fronte alla sezione disciplinare, ponendo una questione di costituzionalità che dovrebbe essere sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione, dopo una valutazione degli atti. Sarebbero illegittime le norme che, appunto, non gli consentono di sottrarsi al verdetto di un Csm su cui pesa un «legittimo sospetto». L'ex presidente dell'Anm, sotto processo anche a Perugia per corruzione, vorrebbe arrivare fino alla Corte costituzionale e in una memoria accusa di pregiudizio nei suoi confronti troppi consiglieri, suoi ex colleghi in quel Csm dove è deflagrato lo scandalo degli accordi correntizi sulle nomine, rivelato dalle sue chat intercettate. Ma l'avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta giudica subito la richiesta inammissibile, «eccentrica» e «manipolativa», tesa a «differire l'esercizio della giurisdizione a un giudice che non c'è». E, alla fine la sezione disciplinare concorda: «Non ricorrono i presupposti. La questione è non rilevante e manifestamente infondata». Dunque, gli atti non saranno rimessi alla Cassazione e si andrà avanti così, tra mille ombre. Rimangono gli avvertimenti e i messaggi inviati da Palamara nella memoria presentata dal suo avvocato, Stefano Guizzi. L'ex leader di Unicost denuncia «le reiterate prese di posizione di numerosi membri del Csm, taluni persino componenti del collegio chiamato a giudicare della responsabilità disciplinare del sottoscritto, sulle vicende relative all'incontro della notte tra l'8 e il 9 maggio 2019 presso l'Hotel Champagne in Roma». Denuncia che, nel plenum straordinario di giugno, il suo caso fu paragonato allo scandalo della P2 e che una corrente delle toghe lo abbia legato anche alla vicenda delle presunte dichiarazioni a Silvio Berlusconi del defunto Amedeo Franco, membro del collegio che confermò in Cassazione la condanna per frode fiscale dell'ex premier. Denuncia le fughe di notizie, attribuite da Repubblica a «diverse e qualificate» fonti interne a Palazzo de' Marescialli. Sottolinea che nelle accuse contro di lui e 5 consiglieri dimissionari del Csm (Gianluigi Morlini, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli) alcuni dei componenti dell'attuale Csm «vengono individuati come vittime del comportamento gravemente scorretto addebitato agli incolpati». Cita gli atti giudiziari che considerano il suo ruolo determinante per l'elezione del vicepresidente David Ermini, insieme ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, per dimostrare che questo Csm non può avere serenità di giudizio nei suoi confronti. Guizzi sostiene anche che nel processo disciplinare va affrontato il nodo delle intercettazioni, in cui compaiono anche parlamentari. Questione del trojan, già sollevata da Ferri di fronte alla Consulta. Siamo solo all'inizio, ma il processo disciplinare più clamoroso degli ultimi anni si preannuncia ricco di colpi di scena.

Palamara: “Questo Csm non è imparziale, si rinvii” . Ma la sezione disciplinare dice no.

Dall’ex pm accuse pesanti ai componenti di Palazzo dei Marescialli e anche al vice presidente Ermini. “Sia la Consulta a decidere se questo può essere il mio giudice”. Ma dopo un’ora di camera di consiglio la risposta è negativa. Liana Milella il 15 settembre 2020 su La Repubblica. Palamara rifiuta il suo giudice, il Csm. Vuole che tutto torni in Cassazione, alle sezioni unite, e poi da queste alla Consulta, per un rinvio al futuro Csm. Ma la sezione disciplinare respinge la sua istanza dopo un’ora di camera di consiglio. E il suo processo va avanti. Secondo la richiesta dell’ex pm invece “non si può celebrare un procedimento nello stesso luogo dove ci sono vittime e colpevoli”. Per questo chiede di non essere giudicato disciplinarmente dall’attuale Consiglio. In quanto l’atteggiamento di palazzo dei Marescialli, e quindi il futuro giudizio, non potrebbero essere “imparziali” come invece dovrebbero essere. Se la Cassazione avesse accolto la sua istanza, che però il sostituto procuratore generale Pietro Gaeta ha subito definito “inammissibile perché vuole differire l'esercizio della giurisdizione a un giudice che non c'è”, Palamara  s’impegnava sin d’ora a non accettare “l’eventuale decadenza del processo disciplinare” nei prossimi due anni.  L’ex pm di Roma, imputato a Perugia per corruzione, si presenta alle 14 e trenta davanti alla sezione disciplinare del Consiglio e deposita una memoria di 35 pagine con cui chiede che sia lo stesso Csm a rimettere gli atti del processo disciplinare in corso alle sezioni unite della Cassazione perché sollevino una questione di legittimità costituzionale sul fatto che le attuali norme dell'ordinamento non prevedono che possa essere richiesta la "rimessione del giudizio alla sezione disciplinare della consiliatura successiva a quella in atto". Ma la risposta dello stesso Csm è negativa. Bisogna ricordare subito, prima di entrare nel merito delle accuse di imparzialità fatte da Palamara, che già Cosimo Maria Ferri (deputato oggi renziano, prima Pd), sotto inchiesta disciplinare anche lui per l’incontro all’hotel Champagne di Roma con altri consiglieri del Csm, assieme a Palamara e Luca Lotti (deputato Pd) per influire sulla nomina del nuovo procuratore di Roma, ha già chiesto e ottenuto l’8 luglio scorso di andare alle sezioni unite della Cassazione. Ma torniamo alle accuse di Palamara e alle sue ragioni per spostare nel tempo, e di fronte ad altro giudice, il suo processo disciplinare, in cui è difeso dal consigliere della Cassazione Stefano Giaime Guizzi. Palamara sostiene che i componenti dell’attuale Csm avrebbero già espresso “reiterate prese di posizione sull’indagine”. Tutte contro di lui, a suo dire. Un membro del Consiglio avrebbe parlato di “metodo mafioso”. Anche David Ermini, l’attuale vice presidente, “avrebbe fatto valutazioni che non lasciano dubbi”. Sulla sua colpevolezza, s’intende. Anche consiglieri del Csm subentrati ai cinque dimissionari avrebbero pronunciato giudizi sul caso. In plenum, accusa Palamara, “sono stati fatti paragoni con la P2”. E il suo caso, scrive nella memoria, “sarebbe stato accostato a quello del giudice Franco e di Berlusconi”. E si chiede: “Come potrei stare sereno davanti a questo giudice?”. Chiede di ascoltare la segretaria generale del Csm. Da queste considerazioni, secondo Palamara, nasce la constatazione di un Csm già orientato nel giudizio contro di lui. L’ex pm si chiede anche “come mai i media abbiano saputo dell’incontro all’hotel Champagne”. E la sua conclusione è perentoria: via da questo Csm il mio processo. Che, va detto, potrebbe comportare la sua espulsione dalla magistratura, così come a luglio è stato cancellato dall’Anm di cui è stato presidente ai tempi degli scontri con Berlusconi. Peraltro sarà l’assemblea generale degli iscritti, sabato 19 a Roma, a valutare il suo ricorso contro l’espulsione.  

Csm rigetta l’istanza di ricusazione di Palamara. Che avverte: "Dubbi su serenità di Ermini. Eletto grazie a me, Lotti e Ferri". Il Fatto Quotidiano il 15 settembre 2020. Il pm simbolo dell'inchiesta che imbarazzato il mondo della magistratura voleva che il suo giudizio disciplinare sia rimesso alle Sezioni Unite della Cassazione perchè valutasse se sollevare una questione di incostituzionalità alla Consulta. Palazzo dei Marescialli rigetta la richiesta. Nella memoria depositata il pm sotto inchiesta lancia avvertimenti al vicepresidente del Csm. La Sezione disciplinare del Csm ha respinto le nuove istanze di ricusazione dei giudici che si stanno occupando del processo disciplinare a carico di Luca Palamara (sospeso dalle funzioni e dallo stipendio) e di 5 ex consiglieri del Csm, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Luigi Spina, Antonio Lepre e Gianluigi Morlini, tutti accusati di un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei colleghi e di interferenza nell’attività del Csm. Al centro dell’accusa per tutti c’è la famosa riunione all’hotel Champagne del 9 maggio del 2019, intercettata grazie a un trojan nel cellulare di Palamara, imputato a Perugia per corruzione. In quella sede non istituzionale, secondo la contestazione, il gruppo discusse con i politici Cosimo Ferri e Luca Lotti le strategie sulle future nomine ai vertici delle procure, a partire da quella di Roma. Una condotta giudicata particolarmente grave dalla Procura Generale della Cassazione, che rappresenta l’accusa nel processo, anche perché Lotti all’epoca era già imputato nel processo romano Consip. In precedenza Palamara aveva ricusato Davigo, ma l’istanza era stata respinta. Mentre per Ferri -che aveva ricusato i componenti laici Stefano Cavanna (Lega) e Michele Cerabona (Forza Italia) – il processo è stato sospeso, in attesa che si pronuncino le Sezioni Unite della Cassazione. “Non ricorrono i presupposti della disciplina della rimessione” ha stabilito il collegio dei giudici, che oltretutto ritiene la questione di incostituzionalità sollevata “non rilevante e manifestamente infondata“. Secondo Palamara, invece, il processo disciplinare dove essere rimesso alle Sezioni Unite della Cassazione perchè valutassero se sollevare una questione di incostituzionalità alla Consulta. La vera novità della giornata, a Palazzo dei Marescialli, è contenuta nella memoria depositata dall’ex presidente dell’Anm: “Dalla messaggistica estratta dal telefono cellulare dello scrivente, acquisita agli atti dell’inchiesta svolta a carico del sottoscritto dalla Procura di Perugia, è emerso il ruolo che il sottoscritto, e con il medesimo, anche gli onorevoli Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti, ha avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale Vice-Presidente del Csm David Ermini (in particolare, all’esito di una cena presso l’abitazione dell’Avv. Giuseppe Fanfani, ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018, circostanza sulla quale la difesa dello scrivente ha articolato prova per testi, chiedendo l’escussione sia dell’On. Ermini che dell’Avv. Fanfani), se ne trae una ragione di più per dubitare dell’effettiva serenità con cui codesta Ill.ma Sezione Disciplinare potrà assumere le proprie ‘libere determinazionì giudicare i fatti per cui oggi è giudizio”. Insomma, citando gli atti giudiziari in pratica Palamara ammette di essere stato fondamentale per l’elezione di Ermini, ex deputato del Pd, al vertice di Palazzo dei Marescialli. E dunque oggi il Csm guidato da Ermini potrebbe non essere sereno.

La storia di quella cena è stata raccontata dal Fatto Quotidiano: il 19 settembre l’ex membro laico del Csm Fanfani scrive a Palamara: “Confermo martedì ore 21 a casa mia cena riservata. Io te Cosimo e David”. Pochi minuti dopo Palamara gli risponde: “Ok un abbraccio”. Una settimana dopo, il 25 settembre, Fanfani ricorda a Palamara il suo indirizzo romano. Anche Ferri ha confermato di aver partecipato a quella cena ma, a differenza di Ermini, esclude che si sia parlato della nomina del vicepresidente del Csm. Due giorni dopo, Ermini ottiene tra le polemiche i voti per il secondo scranno più alto di Palazzo dei marescialli. Oggi quell’elezione rischia di bloccare il più importante processo disciplinare degli ultimi anni.

Magistratopoli, Palamara al contrattacco: “Questo Csm non è imparziale, processo col prossimo Consiglio”. Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Colpo di scena sulla vicenda giudiziaria che coinvolge l’ex pm di Roma ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara. La sua difesa ha infatti chiesto, con una memoria di 35 pagine depositata nel corso dell’udienza davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la questione di costituzionalità. “Si trasmettano gli atti alle sezioni unite della Corte di Cassazione – sono le parole del difensore Stefano Giaime Guizzi davanti alla sezione disciplinare del Csm presieduta da Fulvio Gigliotti -, affinché sollevino la questione di legittimità costituzionale”. “Su questa vicenda sono stati espressi interventi in ogni sede”, sottolinea ancora Guizzi, secondo il quale il modo in cui l’affaire Palamara è emerso ed è stato reso pubblico, e il modo in cui se ne è parlato in oltre un anno di inchiesta, “ha turbato la libertà di determinazione dell’intero organo“. L’ex pm di Roma imputato a Perugia per corruzione ha chiesto che sia lo stesso Csm a rivolgersi alla Consulta per rinviare il giudizio disciplinare al futuro Consiglio, che sarà eletto nel 2022. Nella sua memoria inoltre Palamara attacca frontalmente il vicepresidente del Csm, l’ex deputato Pd David Ermini: “ Dalla messaggistica estratta dal telefono cellulare dello scrivente, acquisita agli atti dell’inchiesta svolta a carico del sottoscritto dalla Procura di Perugia, è emerso il ruolo che il sottoscritto, e con il medesimo, anche gli onorevoli Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti, ha avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale Vice-Presidente del Csm David Ermini (in particolare, all’esito di una cena presso l’abitazione dell’Avv. Giuseppe Fanfani, ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018, circostanza sulla quale la difesa dello scrivente ha articolato prova per testi, chiedendo l’escussione sia dell’On. Ermini che dell’Avv. Fanfani), se ne trae una ragione di più per dubitare dell’effettiva serenità con cui codesta Ill.ma Sezione Disciplinare potrà assumere le proprie ‘libere determinazioni giudicare i fatti per cui oggi è giudizio”. Netta l’opposizione del pg Pietro Gaeta, secondo il quale si tratta di “un’istanza manifestatamente inammissibile“. La difesa del pm ha chiesto inoltre che il nodo intercettazioni, di cui Guizzi sottolinea l’inutilizzabilità, sia affrontato come questione preliminare.

SABATO ANM DECIDE RICORSO CONTRO ESPULSIONE – Il ricorso di Palamara contro la delibera di espulsione dall’Anm del 20 giugno scorso si terrà invece sabato 19 settembre all’assemblea generale dei soci dell’Associazione nazionale magistrati, presso l’Aula Magna della Pontificia Università San Tommaso D’Aquino Angelicum.

 Da leggo.it il 25 agosto 2020. La procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ex consigliere del Csm Luca Palamara accusato di diversi episodi di corruzione. Stesso provvedimento per l'imprenditore Fabrizio Centofanti, l'amica del magistrato Adele Attisani e Giancarlo Manfredonia, titolare di un'agenzia di viaggi. La richiesta di rinvio a giudizio è stata formalizzata dal procuratore Raffaele Cantone e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano. L'inchiesta è quella che ha scosso il Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri, per le intercettazioni di colloqui in cui con esponenti politici discutevano delle nomine al vertice delle procure, a cominciare da quella di Roma. Intercettazioni telefoniche e telematiche (con il trojan) in merito alle quali il gip di Perugia, in un'apposita udienza, si è riservato di decidere quale far trascrivere. Decisione che sarà comunicata il 21 settembre quando si tornerà in aula per la nomina del perito per le trascrizioni. A Perugia Palamara è finito sotto inchiesta per i suoi rapporti con Centofanti, cui - secondo l'accusa - avrebbe messo a disposizione le sue funzioni di magistrato in cambio di viaggi e regali. L'imprenditore avrebbe anche pagato lavori nell'abitazione di Attisani, che deve rispondere di essere stata istigatrice delle presunte condotte illecite e beneficiaria in parte delle utilità.

La procura di Perugia chiede il processo del magistrato Palamara per corruzione. Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2020. Il processo è stato chiesto anche per il lobbista Centofanti e per la stessa Attisani ( presunto corruttore e istigatrice/beneficiaria della corruzione) oltre che per Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, accusato di favoreggiamento per aver manipolato i documenti di una vacanza incriminata. Con la richiesta di rinvio a giudizio per “corruzione” per l’esercizio della funzione (pena da 3 a 8 anni), la Procura di Perugia ha tracciato una prima linea nello scandalo che un anno fa travolse il Consiglio superiore della magistratura, provocando le dimissioni di sei membri togati su 18. Secondo il nuovo procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, già a capo dell’ ANAC l’ Authority Anticorruzione, il magistrato Luca Palamara, da componente del Csm, era “a disposizione” dell’imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti, in cambio di regali, viaggi, benefit vari e lavori edilizi di cui usufruivano sia l’ex magistrato e la sua famiglia, ma anche l’amica-amante Adele Attisani. La richiesta di rinvio a giudizio ( art. 415 bis) è stato firmato lo scorso 18 agosto dal procuratore Cantone, arrivato a Perugia a fine giugno, e dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani, titolari del fascicolo d’indagine partita nell’autunno 2018 da una segnalazione della Procura di Roma. Le investigazioni hanno fatto cadere l’iniziale e più grave contestazione di corruzione per atti del Csm contrari di doveri d’ufficio (nomine di capi di uffici, procedimenti disciplinari). Una decisione questa che depone sicuramente a favore della difesa di Palamara. Rimane quindi in piede la generica corruzione funzionale, introdotta nel 2012 dalla legge Severino per punire chi fa «mercimonio della funzione» slegata dal compimento di specifici atti ma connessa al ruolo in sé. Fu il lobbista Centofanti tra il 2013 e il 2017 a pagare secondo i pm per Palamara e compagnia, circa 70 mila euro. Sette viaggi (Dubai, Ibiza, Londra, Favignana, San Casciano dei bagni ) che Palamara fece con l’amica Adele Attisani e tre vacanze (Madonna di Campiglio, Sardegna e Madrid, dove la Roma giocava in Champions) con la sua famiglia. Sarebbe stato sempre Centofanti a pagare trattamenti per la Attisani nella beautyfarm del Grand Hotel di via Veneto, spostamenti con autisti personali da e per l’aeroporto di Fiumicino e trasporto di mobili da Roma a Locri, ed a farsi carico di ristrutturazioni (23mila euro) , lavori impermeabilizzazione di terrazze e fioriere , manutenzione dell’impianto elettrico e di videosorveglianza (22mila euro), realizzazione di coprivasi in alluminio e di una tapparella (11mila) nella casa della Attisani. Un cifra incompatibile per i pm con una normale amicizia e sintomatica, come ha argomentato il Gip Lidia Brutti lo scorso marzo motivando il sequestro preventivo, definendolo una relazione «inquinata da interessi non confessabili». Il processo è stato chiesto anche per Centofanti e per la stessa Attisani ( presunto corruttore e istigatrice/beneficiaria della corruzione) oltre che per Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi, accusato di favoreggiamento per aver manipolato i documenti di una vacanza incriminata. Un punto questo a favore dell’accusa. Gli avvocati, Mariano e Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, della difesa di Palamara, respingono le accuse: “Nessun pagamento da Centofanti”. Dovranno però adesso provarlo in giudizio ed annunciano fuochi d’artificio sulle indagini difensive, in l’udienza preliminare per “chiarire anche la questione dei lavori edilizi“. Palamara è sospeso un anno fa dalle funzioni e stipendio, ed è sottoposto anche a processo disciplinare dinanzi al Csm. La grave accusa rivoltagli dalla Procura generale della Cassazione è l’interferenza nell’attività del Csm, per le trame sulle nomine captate dal trojan inoculato nel suo cellulare dalla stessa Procura di Perugia. La difesa di Palamara ha chiesto di convocare 133 testimoni. In attesa del secondo round perugino, le udienze del Csm riprenderanno a settembre. L’inchiesta che ha rivoluzionato gli equilibri correntizi interni del Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri, per le intercettazioni di colloqui in cui con esponenti politici discutevano delle nomine al vertice delle procure, a cominciare da quella di Roma. Intercettazioni telefoniche e telematiche (con il trojan) in merito alle quali il gip di Perugia, in un’apposita udienza, si è riservato di decidere quale far trascrivere. La sua decisione verrà comunicata il prossimo 21 settembre quando si tornerà in aula per la nomina del perito per le trascrizioni. Una scelta a sorpresa invece quella fatta dal magistrato Luigi Spina, ed ex membro del Csm, “sodale” di Palamara, accusato di avergli rivelato notizie riservate sull’indagine perugina. Spina per evitare un imbarazzante processo, ha chiesto la messa alla prova ai servizi sociali, una maniera per espiare le condanne nata per i minori e talvolta usata dai magistrati condannati, come ad esempio l’ex pm Matteo Di Giorgio della Procura di Potenza (9 anni e mezzo di carcere) per espiare la colpa in modo soft lasciando estinguere il reato. Saranno invece le Sezioni Unite della Cassazione a decidere se due giudici disciplinari potranno processare Cosimo Ferri e intanto al Csm il giudizio è sospeso. Il magistrato prestato alla politica e deputato di Italia viva, coinvolto nel caso Palamara, ha ricusato i laici di Palazzo de’ Marescialli Stefano Cavanna (Lega) e Michele Cerabona (Forza Italia) e il tribunale delle toghe ha disposto la trasmissione degli atti alla Suprema corte.

Ferri, in realtà, intendeva ricusare tutti i componenti della sezione disciplinare in carica fino al 9 maggio del 2019 e, in subordine, voleva l’invio degli atti alla Consulta sulla legge sull’ordinamento giudiziario del 2006. La sospensione del giudizio al Csm non riguarda Palamara, finito con altri 5 e ex togati di fronte alla disciplinare e sotto processo per corruzione a Perugia. Anche lui aveva ricusato Piercamillo Davigo, suo giudice al Csm, citandolo come testimone ma senza successo, malgrado dalla corrente di Md un esponente storico come Nello Rossi avesse sostenuto che l’ex pm di Mani pulite non poteva rimanere nel suo ruolo visto che a ottobre va in pensione. “La sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura e a volte ti viene anche da pensare che la stampa non sia libera“, ha detto Palamara alla sua prima uscita in pubblico, in una serata a Sabaudia. L’ex presidente dell’Anm ha aggiunto: “Mi sono pentito, se tornassi indietro non rifarei le stesse cose“.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 26 agosto 2020. Luca Palamara, da componente del Consiglio superiore della magistratura, era «a disposizione» dell'imprenditore e lobbista Fabrizio Centofanti, in cambio di regali, viaggi, benefit vari e lavori edilizi di cui usufruivano sia l'ex magistrato e la sua famiglia, sia l'amica Adele Attisani. Chiedendone il rinvio a giudizio per corruzione per l'esercizio della funzione (pena da 3 a 8 anni), la Procura di Perugia traccia la prima linea nello scandalo che un anno fa travolse il Csm, provocando le dimissioni di sei membri togati su 18. L'atto è stato firmato il 18 agosto dal procuratore Raffaele Cantone, arrivato a Perugia a fine giugno, e dai sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari dell'inchiesta partita nell'autunno 2018 da una segnalazione della Procura di Roma. Le investigazioni hanno fatto cadere l'iniziale e più grave contestazione di corruzione per atti del Csm contrari di doveri d'ufficio (nomine di capi di uffici, procedimenti disciplinari). Un punto per la difesa. Resta la generica corruzione funzionale, slegata dal compimento di specifici atti ma connessa al ruolo in sé, introdotta nel 2012 dalla legge Severino per punire chi fa «mercimonio della funzione». Secondo i pm, tra il 2013 e il 2017 fu il lobbista Centofanti a pagare sette viaggi (Favignana, San Casciano dei bagni, Ibiza, Londra, Dubai) che Palamara fece con l'amica Adele e tre (Madonna di Campiglio, Sardegna e Madrid, dove la Roma giocava in Champions) con la sua famiglia; a pagare per la Attisani trattamenti nel centro estetico del Grand Hotel di via Veneto, spostamenti con autisti personali da e per l'aeroporto di Fiumicino e trasporto di mobili da Roma a Locri; a farsi carico di ristrutturazioni nella casa della Attisani: impermeabilizzazione di terrazze e fioriere (23mila euro), manutenzione dell'impianto elettrico e di videosorveglianza (22mila euro), realizzazione di coprivasi in alluminio e di una tapparella (11mila). In tutto Centofanti avrebbe speso, per Palamara e compagnia, circa 70 mila euro. Per i pm cifra incompatibile con una normale amicizia e sintomatica, ha scritto il gip Lidia Brutti a marzo motivando il sequestro preventivo, di una relazione «inquinata da interessi non confessabili». Il processo è stato chiesto anche per Centofanti e per la stessa Attisani ( presunto corruttore e istigatrice/beneficiaria della corruzione) oltre che per Giancarlo Manfredonia, titolare di un'agenzia di viaggi, accusato di favoreggiamento per aver manipolato i documenti di una vacanza incriminata. Un punto per l'accusa, insieme alla scelta a sorpresa fatta da Luigi Spina, magistrato ed ex membro del Csm, sodale di Palamara accusato di avergli rivelato notizie riservate sull'indagine perugina. Per evitare un imbarazzante processo, Spina ha chiesto la messa alla prova ai servizi sociali. Istituto nato per i minori e raramente usato dagli adulti (tantomeno da magistrati) che fa espiare la colpa in modo soft estinguendo il reato. «Nessun pagamento da Centofanti» è la linea difensiva di Palamara. I cui avvocati, Mariano e Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, annunciano per l'udienza preliminare fuochi d'artificio delle indagini difensive per «chiarire anche la questione dei lavori edilizi». Sospeso un anno fa da funzioni e stipendio, Palamara è sottoposto anche a processo disciplinare dinanzi al Csm. La grave accusa rivoltagli dalla Procura generale della Cassazione è l'interferenza nell'attività del Csm, per le trame sulle nomine captate dal trojan inoculato nel suo cellulare dalla stessa Procura di Perugia. Palamara ha chiesto di convocare 133 testimoni. Le udienze del Csm riprenderanno a settembre, in attesa del secondo round perugino.

Dopo il ciclone Palamara, la messa alla prova piace anche alle toghe. Il caso di Luigi Spina. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 27 agosto 2020. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, indagato dalla Procura di Perugia nell’ambito del caso Palamara, ha chiesto la messa alla prova, un istituto nato nel 2014 a tutela dei minori, utilizzato per non lasciare “macchie” sul casellario. L’ex consigliere del Csm Luigi Spina, attuale procuratore facente funzioni di Castrovillari (Cs) ed indagato dalla Procura di Perugia per rivelazione del segreto nei confronti dell’ex numero uno dell’Anm Luca Palamara, ha chiesto nei giorni scorsi la messa alla prova. I pm umbri titolari dell’indagine Mario Formisano e Gemma Miliani hanno già dato, con il visto del procuratore Raffaele Cantone, parere favorevole. Esce, dunque, di scena il primo degli indagati eccellenti nell’inchiesta che lo scorso anno terremotò l’organo di autogoverno delle toghe, causando le dimissioni di ben cinque consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Spina era accusato di aver informato Palamara che la Procura di Perugia lo aveva iscritto nel registro degli indagati per il reato di corruzione. Il magistrato aveva appreso la notizia in quanto all’epoca era componente della Prima commissione del Csm. L’atto era pervenuto a Palazzo dei Marescialli da Perugia in forma “secretata”. Analoga informazione era stata fornita dal pm di Piazzale Clodio, anch’egli poi indagato per rivelazione del segreto, Stefano Rocco Fava. Spina e Fava avevano comunicato a Palamara anche l’avvenuto deposito di un esposto, redatto dallo stesso Fava, contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e contro il procuratore aggiunto Paolo Ielo relativo a loro incompatibilità e mancate astensioni nella conduzione di alcune indagini. Palamara aveva successivamente ricevuto anche dal procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio l’informazione della sua avvenuta iscrizione a Perugia per il reato di corruzione. La posizione dell’ex pg è stata però al momento stralciata. La notizia dell’indagine di Perugia a carico di Palamara era stata riportata da Fatto Quotidiano a settembre del 2018, pochi giorni prima che terminasse la scorsa consiliatura del Csm. Spina, già gip del Tribunale di Potenza, è stato per lungo un esponente di primo piano di Unicost, la corrente di centro delle toghe. Nel 2018 era stato eletto al Csm con 1770 voti. Esploso lo scandalo a maggio dello scorso anno, fu il primo a dimettersi. I vertici di Unicost, il presidente Mariano Sciacca e il segretario Enrico Infante, successivamente uscito dal gruppo, appresa la notizia dell’indagine, diramarono un duro comunicato. “Sin da oggi ci riserviamo, in caso di successivo processo, la costituzione di parte civile a tutela dell’immagine del gruppo, gravemente lesa. Parimenti chiediamo alle istituzioni di intervenire tempestivamente”, il contenuto della nota. Con la messa alla prova il procedimento sarà dunque sospeso e Spina verrà affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna ( Uepe) per lo svolgimento di un programma di trattamento che preveda delle attività obbligatorie. Ad esempio, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione gratuita in favore della collettività, lo svolgimento di condotte riparative, volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. Il programma può prevedere l’osservanza di una serie di obblighi relativi alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali, oltre a quelli essenziali al reinserimento dell’imputato e relativi ai rapporti con l’ufficio di esecuzione penale esterna. E’ previsto un minimo di ore da effettuare al giorno. Concluso il trattamento, l’Uepe trasmette al giudice le risultanze. Non c’è una affermazione di responsabilità ed il reato viene quindi dichiarato estinto per l’esito positivo della prova. Nato nel 2014, inizialmente previsto per i minori, è utilizzato per non lasciare “macchie” sul casellario. Può essere chiesto una sola volta e per reati che abbiano una pena non superiore ai quattro anni. Le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che il limite sia calcola solo sulle fattispecie base, escluse le aggravanti. Non avere alcuna condanna potrà essere per Spina un fattore positivo in vista del procedimento disciplinare al Csm. Procedimento che, ironia della sorte, era stato iniziato proprio da Riccardo Fuzio. La prima udienza davanti alla sezione disciplinare è fissata per il prossimo 15 settembre. Con Spina ci saranno anche gli altri quattro consiglieri del Csm che si era dimessi lo scorso anno, nessuno di loro è indagato, e Palamara. L’ex presidente dell’Anm ha chiesto l’ammissione di oltre 100 testimoni. Sospeso, infine, il giudizio per Cosimo Ferri.

Palamara va a processo, ma il reato non c’era…Paolo Comi su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Insomma, Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e zar delle nomine al Csm, venne sottoposto ad intercettazione telefonica a mezzo di “captatore informatico” per un reato che non è mai esistito. Nella richiesta di rinvio a giudizio, firmata l’altro giorno dai pm di Perugia Mario Formisano e Gemma Miliani, con il visto del neo procuratore Raffaele Cantone, non c’è alcun riferimento ai 40mila euro che sarebbero stati dati da due professionisti, gli avvocati siciliani Giuseppe Calafiore e Piero Amara, a Palamara quando egli era presidente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli, in cambio della nomina di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Eppure nel decreto firmato dal gip del capoluogo umbro Lidia Brutti, con cui il 22 marzo del 2019 si autorizzava il Gico della guardia di finanza all’utilizzo del trojan, la dazione della super mazzetta a Palamara aveva già trovato “un primo riscontro obiettivo” e per questo motivo era indispensabile procedere con tale mezzo di ricerca della prova. Gli effetti dell’utilizzo del trojan per un reato che non è esistito sono noti. Fra le tante conversazioni registrate, quella avvenuta all’hotel Champagne di Roma nel maggio dello scorso anno con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, la cui pubblicazione comportò le dimissioni dei cinque consiglieri del Csm che avevano preso parte all’incontro. Dimissioni che modificarono poi gli equilibri fra le correnti a piazza Indipendenza. Questo “piccolo” particolare è stato omesso ieri dal Corriere della Sera, da Repubblica e dal Messaggero, i tre quotidiani che all’epoca con grande enfasi diedero la notizia dell’incontro nell’albergo romano. Tornando alla tesi investigativa della Procura di Perugia, a Palamara viene contestato l’articolo 318 codice penale nella formulazione introdotta dalla legge Severino del 2012, “corruzione per esercizio della funzione”. Il reato svincola la punibilità dalla individuazione di uno specifico atto, ricollegandola al generico “mercimonio della funzione”. Palamara quando era al Csm sarebbe stato dunque “stipendiato” da Centofanti in cambio di favori. «Centofanti – avevano scritto i magistrati umbri – da tempo operava come ‘lobbista’, aveva svolto attività di lobbying per conto di importanti gruppi imprenditoriali, nelle sedi politico/istituzionali. In tale ambito operativo aveva mirato ad accrescere la propria capacità di influenza intessendo una rete di relazioni con rappresentanti di varie istituzioni e con soggetti a loro volta portatori di interessi di importanti gruppi di pressione, alcuni dei quali avevano svolto tale ruolo in modo disinvolto e talora illecito». L’attenzione dei pm di Perugia si era incentrata sul loro rapporto, una relazione che sarebbe stata “inquinata da interessi non confessabili”. Quello che è emerso con tutta evidenza, invece, è l’assedio che Palamara subiva quotidianamente da parte dei suoi colleghi che aspiravano a essere nominati procuratori o presidenti di Tribunale. Il Riformista ha raccontato nelle scorse settimane due casi, uno accaduto nel distretto di Messina e uno in quello di Bologna, che illustrano il funzionamento del sistema delle nomine by Palamara. Il modus è identico: i referenti locali di Unicost, la corrente di Palamara, “segnalavano” via chat allo zar degli incarichi i nominativi dei magistrati da promuovere. Le nomine erano indispensabili per rafforzare la corrente sul territorio ed accrescerne il consenso. Giovannella Scaminaci, pm di Messina, scriveva a Palamara: «È ora di tornare alle nomine messinesi, anche perché dovrei organizzare un incontro con i candidati Csm e vorrei farlo subito dopo qualche risultato significativo per il gruppo». E quindi l’elenco: «Presidente sezione lavoro Tribunale Messina (Beatrice Catarsini), presidente Tribunale Patti (Angelo Cavallo), procuratore aggiunto Messina (Vito Di Giorgio)». «A Messina abbiamo bisogno di conforto. In mancanza, riprendere a lavorare per il gruppo sarà praticamente impossibile», la puntualizzazione di Scaminaci. Questa la risposta di Palamara: «Purtroppo in previsione di Patti e Messina ho dovuto cedere sulla Romeo (Laura, concorrente di Catarsini, ndr)», per poi aggiungere: «Ci terrei lo comunicassi tu a chi in questi giorni si è molto lamentato». A Bologna il compito di segnalare era affidato a Roberto Ceroni: «Grandissimo Luca, abbiamo per caso novità sui nostri presidente Piacenza (Brusati), procuratore Parma (Russo) e presidente Sezione Rimini (Corinaldesi)? Il Distretto freme…». E poi: «Sia la Russo che Mescolini (candidato procuratore a Reggio Emilia, ndr) attendono nostre notizie. Ci siamo spesi molto. Mi raccomando». «Si tratta di posti sui quali mi si chiede costantemente aggiornamento e che per noi rivestono importanza assoluta», la postilla di Ceroni. «Carissimo Roberto tutto sotto controllo», «fatte queste però voglio festa per me!!!», la risposta di Palamara una volta ottenuto il risultato. I davighiani di Autonomia&indipendenza hanno chiesto la scorsa settimana che vengano avviate azioni disciplinari a carico dei magistrati che hanno beneficiato del sistema Palamara.

La Caporetto delle toghe ma la politica non sa che fare. Alberto Cisterna su Il Riformista il 18 Luglio 2020. La partita sulla giustizia si sta disputando in un acquitrino mefitico. Non che prima i giocatori brillassero di far play o che il campo fosse immune da buche e trabocchetti. Anzi. Dal caso Tortora in poi – da oltre 30 anni – la disputa sui temi della giurisdizione è stata un susseguirsi di agguati mediatici, di piccoli e grandi scandali, di incarcerazioni e scarcerazioni eccellenti, di assoluzioni e condanne da prima pagina. Sia chiaro: nulla di particolarmente doloroso o di irreparabile. Scaramucce, qualche insulto, qualche bastonata a casaccio, ma convinti i duellanti che niente di irreversibile sarebbe accaduto e che nessuno rischiava di perdere davvero. Anche oggi sarebbe facile dire: “nihil sub sole novum”. Perché questo, in effetti, sembra l’atteggiamento di molti dei protagonisti in questi mesi. In tanti pensano che, a ben guardare, non c’è nulla di (più) grave (del solito), che anche questa buriana passerà e che si tornerà a guerreggiare come prima, acconciando le trincee al meglio, sistemando un cecchino qua e là per sparare a qualche sprovveduto che si avventurasse nella “terra di nessuno” del dialogo, ma sempre guardandosi bene dal dare troppo filo da torcere al nemico. Una classica guerra di posizione che, come tutte le ostilità di lunga durata, consente enormi rendite per entrambi i contendenti. Giustizialisti irriducibili e garantisti à la page avrebbero avuto ben poco di cui campare se, di colpo, lo scontro avesse avuto fine e se le armi fossero state deposte in nome di un’equilibrata riforma della macchina giudiziaria.  Oggi, come altre volte, l’intento è quello di acconciare una soluzione, di trovare un “tavolo di accomodamento” come direbbero in Sicilia. In genere per attenuare le polemiche e per scrollarsi di dosso le troppe critiche non vi era nulla di più utile che una bella sequenza di convegni, congressi, documenti, confronti televisivi, articoli di stampa, esortazioni autorevoli. Insomma tanti auspicano che sia solo l’ennesimo scontro in una guerra a bassa intensità in cui molti hanno troppo da perdere e pochi hanno troppo da guadagnare. Perché, come i fatti dimostrano, nessuno vuole davvero tagliare i ponti, nessuno auspica una netta separazione tra giustizia e politica, nessuno intende veramente ergere muri. I pontieri delle due parti sono all’opera da decenni, sono i mediatori degli incarichi fuori ruolo, delle nomine, delle leggine all’acqua di rosa. Sono quelli su cui converge il sostegno delle toghe e dei loro (sedicenti) avversari. Se non fosse. Se non fosse che tutta questa ammuina si fonda sulla capacità dei contendenti di orientare – a fasi alternate e secondo le necessità – la pubblica opinione sospingendola a destra e manca in un moto pendolare continuo che dura da un paio di decenni. In altre parole, le toghe saranno pure cattive, ma non troppo, ma non tutte. Poi, al prossimo scandalo, alla prossima ingiustizia, alla prossima vittima da risarcire, la scoperta che di quelle toghe non si può fare a meno per ripristinare l’ordine infranto dal reo. E’ così da decenni. Avanzate e arretramenti con le cadenze di un metronomo regolato a convenienza. Finora tutto bene. Qualche riformetta, qualche piccolo aggiustamento, qualche graffio alla carrozzeria lucente della fuoriserie giudiziaria. Ma nulla di decisivo e nulla cui non possa porsi rimedio con un prossimo governo con cui stringere legami e patti. Però ora si insinua pericolosa l’impressione che si sia andati d’improvviso ai tempi supplementari e che la clessidra stia rapidamente dissipando la sabbia a disposizione. Avanza il timore che la lunga guerra di trincea potrebbe esaurirsi in fretta e i contendenti iniziano a dar segni di un’ansia sinora mai veramente messa in mostra. Hanno forte la sensazione gli strateghi dei due campi che, questa volta, potrebbe ingaggiarsi una battaglia decisiva per le sorti del conflitto istituzionale e politico che si consuma sui temi della giustizia penale. Si badi bene: pure Stalingrado o Midway furono battaglie decisive anche se poi sono occorsi anni per giungere alle fine.

Si sta profilando, inaspettato, un lento ma inesorabile mutamento dei rapporti di forza tra magistratura e politica, un capovolgimento tra assedianti e assediati con le toghe chiamate a rendere conto non di questa o quell’ingiustizia o di questo o quel fallimento investigativo, ma di una complessiva gestione della giustizia. Con il paradosso che la Caporetto del fronte togato ha colto del tutto alla sprovvista l’altra parte della barricata incapace di far altro che dolersi e lamentarsi di qualche asserita ingiustizia patita, ma del tutto priva di una visione complessiva della nuova situazione che si sta venendo a consolidare.  Galli della Loggia, a proposito, ha adoperato parole chiare e condivisibili quando ricorda che i magistrati sono investiti da un «giudizio ingiustamente sommario, se si vuole, ma inevitabile dal momento che la gravità dei fatti cancella fatalmente i pur necessari distinguo» (Corriere della sera del 29 giugno). Non si tratta più di separare le toghe perbene da quelle disoneste, né di dolersi dell’incidenza di qualche scandalo su una pubblica opinione, paternalisticamente descritta come «disorientata e sgomenta», quanto di prendere atto che si sta sedimentando e amplificando un sentimento di complessiva messa in stato d’accusa della corporazione che esige – nell’interesse degli stessi giudici – una risposta rapida e risolutiva. L’idea di una restaurazione che porti indietro le lancette dell’orologio a prima dell’affaire Palamara e dei suoi recenti corollari è possibile alla sola condizione che si ceda alla tentazione di una guerriglia strada per strada, ossia di adoperare la massa delle informazioni disponibili per criticare questa o quella nomina, questo o quell’inciucio, questo o quel processo. Chi ha interesse a ciò ha i mezzi a disposizione per far valere le proprie ragioni e molti lo faranno (ben tre ricorsi contro la designazione del procuratore di Roma sono un evento senza precedenti, o quasi, nella storia del Csm). Compito di chi ha a cuore il destino dei cittadini nelle aule di giustizia – la sola cosa che conti, ben prima delle carriere dei giudici e delle parcelle degli avvocati – è quello di denunciare che un intero modello di regolamentazione della giustizia mostra crepe insanabili e che i Costituenti hanno compiuto un’opera, al tempo sublime, ma che tuttavia non ha retto all’urto dell’evoluzione sociale e politica della magistratura in Italia. Senza questa visione le acque, separate dallo scandalo, torneranno a chiudersi sui fondali limacciosi e tutto si placherà, come sempre. Un grande esperto in pensione di analisi strategica alla domanda su cosa ne pensasse delle vicende di queste settimane ha risposto: «il problema non è capire cosa abbia fatto Palamara, ma comprendere chi o cosa ne abbia preso il posto». Troppo pessimista. Troppo umano.

Processo Palamara: no alle ombre, si faccia spazio alla verità. Alberto Cisterna su Il Riformista il 17 Luglio 2020. La scorciatoia è facile e c’è chi, reso scomposto dall’imbarazzo, l’ha già percorsa con qualche interessata sortita giornalistica. Alimentare il timore che la lunga lista di testimoni (133), predisposta dal dottor Palamara in vista del processo disciplinare, sia il prologo di una gigantesca chiamata in correità, è il modo migliore per tentare di affossare del tutto la difesa dell’incolpato e ridurla in cenere in quattro e quattr’otto. Una bella pietra tombale sullo scabroso affaire su cui scolpire un epitaffio adeguato al caso, ad esempio L’uomo che volle farsi re (John Huston, 1975). Quale modo migliore per coalizzare in massa contro l’ex-presidente dell’Anm le principali istituzioni del Paese, i politici più avvezzi alle interlocuzioni con le toghe, i titolari dei più importanti uffici di procura (come si diceva, di giudici se ne vedono pochini in questa sciarada di carriere) che far credere loro di essere chiamati a rispondere di chissà quali malefatte commesse sulle note del reprobo pifferaio magico delle correnti. È certo una possibilità e, per qualcuno dei menzionati nella lista, forse anche un rischio effettivo. Ed è pure la tesi di persone sicuramente perbene ed esenti da qualunque interesse a celare la verità. Peppino Caldarola, già direttore de L’Unità, ha scritto di recente: «La vicenda Palamara è inquietante. L’elenco dei “famosi” che lui chiama in soccorso, o per complicità, sembra descrivere un’associazione che, se fosse stata di destra, avremmo chiamato con l’ennesimo numero accanto alla sigla P2». È un giudizio che non si può condividere sino in fondo, perché tra quei nomi si scorgono quelli anche di vittime eccellenti del sistema spartitorio che hanno pagato la loro estraneità a quella razza padrona con torti e ingiustizie di vario genere. Per tentare una lettura un po’ più elaborata di quella lista occorre partire da una premessa, forse didascalica e noiosa, ma inevitabile: ossia che si tratta di un atto processuale. Nel processo penale, sulle cui movenze è regolato quello disciplinare, la lista dei testimoni a discarico è il principale atto della difesa. È il cuore della strategia difensiva. Il nocciolo duro e lo snodo di ogni possibilità di assoluzione. Su quei, in genere pochi, fogli di carta, spesso, si perde e si vince. Non serve, la lista, a consumare vendette o a mandare segnali, mira piuttosto a vincere seguendo un percorso, impostando la confutazione dell’incolpazione e delle prove portate dell’accusa. Da questo punto di vista la mescolanza di carnefici e vittime del sistema spartitorio che il dottor Palamara vorrebbe squadernare innanzi alla Disciplinare pone una scelta drammatica per chi dovrà decidere: o si chiude la bocca all’incolpato non ascoltando neppure un testimone oppure diviene difficile setacciare tra nome e nome senza dare l’impressione che si voglia mantenere taluno esente da imbarazzi e scaraventare altri sul proscenio di un processo che sarà sotto gli occhi di tutti i media. Una sorta di vittimizzazione secondaria, così la chiamano gli esperti, difficile da digerire. Non solo l’ingiustizia patita, ma anche la probabile gogna della testimonianza pubblica con tutte le sue asperità e i suoi trabocchetti. Un danno d’immagine non trascurabile. Due opzioni di cui la difesa del dottor Palamara avrà ben calcolato gli effetti: nel primo caso sa l’incolpato che sarà difficile pronunciare una sentenza di condanna che sia esente da censure da portare subito dopo innanzi alla Cassazione o alla giustizia europea per la compressione del diritto di difesa; nel secondo caso si sfrutterà il vantaggio di assumere la testimonianza di chi ha subito un torto per evocare la responsabilità dei correi assenti. Un vero e proprio processo contumaciale in danno di persone che, comunque, non avranno potuto esporre il proprio punto di vista o fornire la propria versione dei fatti. Un vero incubo processuale che interpella la moralità e la professionalità dei giudici disciplinari al livello più alto, poiché certamente nessuno vorrà macchiarsi dell’accusa di aver celebrato un processo sommario, ma neanche qualcuno vorrà portare il fardello di una Norimberga delle toghe dai tempi imprevedibili e dagli esiti incalcolabili. L’accelerazione che la vicenda ha subito dopo la seconda – meno selettiva e interessata della prima – pubblicazione di chat lascia presagire un epilogo ravvicinato e rapido della vicenda. Ma nulla è scontato. Al di là dei proclami al rinnovamento morale, alla palingenesi etica, al soprassalto deontologico (roba sostanzialmente inutile in un corpo lacero e infetto che attende cure da cavallo), il processo è la sede insostituibile e irrinunciabile per l’accertamento dei fatti da cui muovere per la conseguente riforma della magistratura italiana. Sarebbe una iattura terribile se proprio le toghe mandassero alla pubblica opinione anche solo un segnale di preoccupazione o, peggio ancora, di paura verso il processo Palamara. Tra i testimoni si scorgono nomi di toghe che attraversano in lungo e in largo la penisola incitando i cittadini alla collaborazione con la giustizia, a testimoniare, a denunciare. Sarebbe curioso che, ora, chiamati al dovere di dire la verità assumessero atteggiamenti scomposti e riottosi, al limite dell’omertà. Già l’Anm – con ragioni formalmente corrette, ma rimaste poco comprensibili ai cittadini – ha negato al proprio ex-presidente di discolparsi prima di essere espulso. Ora il Csm è vocato a una scelta complessa e per giunta nell’esercizio della sua funzione più alta, quella giurisdizionale visto che, si badi bene, le sentenze disciplinari sono pronunciate, tutte, in nome del Popolo italiano. E a quel popolo ogni decisione dovrà apparire, come sempre, legittima, equa, imparziale, priva di condizionamenti, presa nel solo interesse della verità. Si può lasciare l’incolpato a briglie sciolte, dandogli modo di spargere sale sulle ferite vive della corporazione e, così, di attentare alla carriera di teste coronate o alla memoria di ex satrapi. Un rischio effettivamente incombente e non solo ipotetico. Oppure si può arginarne la frenesia locutoria fino ai limiti della paralisi con il rischio di spingerlo al gesto eclatante di rinunciare a ogni testimonianza in nome di una verità che – si direbbe troppo facilmente – si vuole oscurare per tenebrose connivenze. Nella solitudine della decisione ogni organo di giustizia è chiamato a operare scelte che siano rispettose della Costituzione secondo cui «la giustizia è amministrata in nome del popolo» (articolo 101) e di nessun altro interesse o soggetto. Nel farlo si dovrà evitare che vadano alla gogna persone che non possono difendersi o che testimoni siano costretti a deporre contra se (in spregio del divieto di porre domande autoincriminanti, art. 198, comma 2, c.p.p.), ma sarebbe tragico se la verità, ogni verità, bussasse invano al portone di palazzo dei Marescialli.

Csm, da Palamara "strategia di discredito" sui colleghi Creazzo e Pignatone. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da La Repubblica.it. Un comportamento "gravemente scorretto" con "strategia di discredito" su alcuni colleghi: come il procuratore di Firenze, Creazzo, come l'allora vertice di piazzale Clodio, Pignatone, o il suo aggiunto, Paolo Ielo. Così la Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, descrive la condotta di Luca Palamara, il pm (ora sospeso) - ed ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, attualmente indagato a Perugia per corruzione -  nell'atto di incolpazione con cui ha chiesto alla sezione disciplinare del Csm di fissare il processo a carico del magistrato. Palamara dovrà presentarsi davanti al 'tribunale delle toghe' martedì prossimo, 21 luglio, per la prima udienza. E' il processo per il quale Palamara annuncia di volersi difendere punto su punto, presentandosi una lista di ben 133 testi. L'aggressiva strategia, stando agli atti, aveva per bersagli il procuratore della Repubblica di Firenze Giuseppe Creazzo, che aveva presentato domanda per l'incarico di capo della Procura di Roma, e il procuratore aggiunto della capitale, Paolo Ielo e l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Tra i capi di incolpazione stilati dal Pg della Cassazione Salvi, dei quali deve rispondere Luca Palamara  anche quello della "strategia di danneggiamento" verso il procuratore Creazzo "correlata ad esigenze di Luca Lotti", l'ex ministro renziano e attuale parlamentare dem - interlocutore abituale dell'ex presidente dell'Anm - a sua volta sotto inchiesta a Roma per l'inchiesta Consip, le indagini inizialmente radicate a Napoli che avevano scompaginato il giglio magico renziano. Contro Creazzo si volevano "enfatizzare", tramite "dossier" - è lo scenario che descrive l'accusa -  "vicende ipoteticamente ostative" alla nomina di Creazzo a Roma, vicende che potevano essere in grado di spostarlo da Firenze: proprio per favorire, secondo la ricostruzione accusatoria, l'allora indagato Lotti. Ma, sul punto, Palamara si difende obiettando che all'epoca per l'ex ministro Lotti si era già chiusa la fase delle indagini preliminari, e il suo status era mutato da quello di indagato ad imputato. 

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 26 luglio 2020. Corruzione nell' esercizio della funzione, corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto d' ufficio. Con un invito a comparire il 29 luglio davanti ai magistrati della procura di Perugia. Si aggrava la posizione di Luca Palamara che a settembre andrà anche a processo disciplinare davanti al Csm, dove mira a trascinare un centinaio di esponenti della magistratura per dimostrare che «così fan tutti». Ma intanto prosegue l' inchiesta per corruzione dei magistrati umbri ed emergono nuovi elementi nell'accusa all' ex presidente dell' Anm ed ex leader della corrente centrista Unicost. A Palamara viene contestato il segreto di ufficio in cui è coinvolto anche un altro magistrato romano, l' amico Stefano Fava, già indagato a Perugia. I due avrebbero manovrato per screditare la reputazione dell' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Paolo Ielo per gestire la sua successione e nominare chi di loro gradimento. E l'avrebbero fatto, secondo gli inquirenti, utilizzando a questo fine due quotidiani, il Fatto e La verità. Scrivono i magistrati che «i due pm violando i doveri inerenti alla propria funzione rivelavano ai giornalisti notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava che era il titolare del fascicolo su Piero Amara, ex legale esterno dell' Eni, «con l'aiuto e l'istigazione di Palamara» fa sapere ai cronisti dei quotidiani che l' avvocato era indagato per frode fiscale e bancarotta. E racconta anche di aver chiesto per Amara misure cautelari negate invece da Pignatone. Sulle motivazioni del diniego Fava aveva inviato un esposto al Csm. E poi c'è il filone mezzi e «viaggi»: Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 a 2019 due scooter da parte del titolare della Aureli Meccanica Federico Aureli, suo socio nel chiosco comprato in Sardegna attraverso, ipotizzano i pm, un prestanome. E sempre Aureli gli avrebbe anche pagato delle multe prese con quei mezzi. Un modo per sdebitarsi per l' interessamento del magistrato a un processo in cui sarebbero state coinvolte la moglie e la madre al tribunale di Roma. E poi ci sono quattro week end trascorsi dall' ex pm tra 2011 e il 2018 a Capri in un lussuoso hotel, con la moglie, con la famiglia e con una amica. Soggiorni a cinque stelle, fino a duemila euro per pochi giorni, offerti dal titolare della società a cui fa capo l' albergo. I legali di Palamara precisano: «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa! Tuttavia, i fatti sono ampiamente noti a questa difesa e riguardano notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo (nel caso di Capri si tratta addirittura di inviti per un totale di 6 notti nell' arco di dieci anni ed in occasione di ricorrenze). È intenzione di Palamara quella di chiarire tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Il Fatto e La verità relativamente alle vicende dell' esposto di Fava contro Ielo e Pignatone per la mancata astensione nel procedimento penale nei confronti dell' avv.Amara a causa dei rapporti professionali tra quest' ultimo ed il prof. Roberto Pignatone. È ferma intenzione del nostro assistito per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute».

Luca Palamara rivelò segreti al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio: "Campagna calunniosa contro l'avvocato Amara". Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. Altri dettagli che inguaiano Luca Palamara e imbarazzano Marco Travaglio. Già, perché Repubblica dà conto di un retroscena relativo alla campagna condotta contro Giuseppe Pignatone dall'ex membro del Csm dal Fatto Quotidiano e dalla Verità. In questo contesto, sul giornale di Travaglio venga raccontato, scrive Repubblica, "in chiave calunniosa il conflitto nato all'interno di piazzale Clodio sul fascicolo di Piero Amara, avvocato coinvolto in un giro di corruzione in atti giudiziari. Secondo quanto scritto nell'invito a comparire della Procura di Perugia, "i due pm (Palamara e Fava, ndr) violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelavano ai giornalisti dei quotidiani Il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete". La più classica fuga di notizie dalla procura, insomma. E - toh che caso - tra i destinatari c'era proprio Travaglio, direttore del più celebre gazzettino delle procure, alias Il Fatto Quotidiano...

"Il Fatto" faceva da casella postale per le manovre in toga di Palamara & Co. Avviso a comparire per il pm: notizie riservate girate ad hoc al quotidiano. Lodovica Bulian, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. Corruzione nell'esercizio della funzione, corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto d'ufficio. Con un invito a comparire il 29 luglio davanti ai magistrati della procura di Perugia. Si aggrava la posizione di Luca Palamara che a settembre andrà anche a processo disciplinare davanti al Csm, dove mira a trascinare un centinaio di esponenti della magistratura per dimostrare che «così fan tutti». Ma intanto prosegue l'inchiesta per corruzione dei magistrati umbri ed emergono nuovi elementi nell'accusa all'ex presidente dell'Anm ed ex leader della corrente centrista Unicost. A Palamara viene contestato il segreto di ufficio in cui è coinvolto anche un altro magistrato romano, l'amico Stefano Fava, già indagato a Perugia. I due avrebbero manovrato per screditare la reputazione dell'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Paolo Ielo per gestire la sua successione e nominare chi di loro gradimento. E l'avrebbero fatto, secondo gli inquirenti, utilizzando a questo fine due quotidiani, il Fatto e La verità. Scrivono i magistrati che «i due pm violando i doveri inerenti alla propria funzione rivelavano ai giornalisti notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava che era il titolare del fascicolo su Piero Amara, ex legale esterno dell'Eni, «con l'aiuto e l'istitigazione di Palamara» fa sapere ai cronisti dei quotidiani che l'avvocato era indagato per frode fiscale e bancarotta. E racconta anche di aver chiesto per Amara misure cautelari negate invece da Pignatone. Sulle motivazioni del diniego Fava aveva inviato un esposto al Csm. E poi c'è il filone mezzi e «viaggi»: Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 a 2019 due scooter da parte del titolare della Aureli Meccanica Federico Aureli, suo socio nel chiosco comprato in Sardegna attraverso, ipotizzano i pm, un prestanome. E sempre Aureli gli avrebbe anche pagato delle multe prese con quei mezzi. Un modo per sdebitarsi per l'interessamento del magistrato a un processo in cui sarebbero state coinvolte la moglie e la madre al tribunale di Roma. E poi ci sono quattro week end trascorsi dall'ex pm tra 2011 e il 2018 a Capri in un lussuoso hotel, con la moglie, con la famiglia e con una amica. Soggiorni a cinque stelle, fino a duemila euro per pochi giorni, offerti dal titolare della società a cui fa capo l'albergo. I legali di Palamara precisano: «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa! Tuttavia, i fatti sono ampiamente noti a questa difesa e riguardano notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo (nel caso di Capri si tratta addirittura di inviti per un totale di 6 notti nell'arco di dieci anni ed in occasione di ricorrenze). È intenzione di Palamara quella di chiarire tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Il Fatto e La verità relativamente alle vicende dell'esposto di Fava contro Ielo e Pignatone per la mancata astensione nel procedimento penale nei confronti dell'avv.Amara a causa dei rapporti professionali tra quest'ultimo ed il prof. Roberto Pignatone. È ferma intenzione del nostro assistito per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 26 luglio 2020. «Quelle fughe di notizie hanno rovinato l'inchiesta». Il pm di Perugia Mario Formisano il 9 luglio scorso è stato molto onesto con il cronista. Ma il riferimento non era allo scoop della Verità sull'esposto dell'allora pm Stefano Fava contro il suo vecchio capo Giuseppe Pignatone, bensì alle notizie pubblicate dalla Repubblica e dal Corriere della sera sul caso Csm nel maggio-giugno 2019. Ma purtroppo le indagini su quegli scoop procedono a rilento e dopo oltre un anno pare che non sia ancora stata individuata la manina che passò ai quotidiani notizie riservatissime sull'inchiesta, costringendo i pm alla discovery del fascicolo attraverso un decreto di perquisizione. Chi scrive è stato sentito due settimane fa come persona informata dei fatti per l'articolo pubblicato il 29 maggio 2019 sulla vicenda dell'esposto, anche se, all'epoca dei fatti contestati, non conosceva né Fava, né Palamara e ha appreso la notizia della denuncia da fonti diverse dagli indagati. Formisano, tra una domanda e l'altra, ha ammesso, come detto, la gravità delle altre fughe di notizie, ma intanto lui e la collega procedono celermente su quella collegata all'esposto di Fava. L'accusa, come ha anticipato ieri sempre la premiata ditta Repubblica-Corriere della sera, è che l'ex pm romano e Palamara, in concorso tra loro, «rivelavano ai giornalisti dei quotidiani Il Fatto quotidiano e La Verità notizie d'ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Fava le conosceva essendo contenute in un fascicolo di cui era stato titolare e Palamara lo avrebbe istigato a portarle a conoscenza dei due giornali. Ci assale un dubbio: la Procura di Perugia ritiene più urgente scoprire chi abbia spifferato informazioni riservate che riguardavano un procedimento capitolino, piuttosto che individuare chi abbia «rovinato» la propria inchiesta? I segreti che Fava avrebbe rivelato sono questi: l'iscrizione dell'avvocato Piero Amara in un procedimento per frode fiscale e bancarotta; la richiesta da parte dello stesso Fava dell'arresto per Amara, su cui Pignatone non aveva apposto il visto; una seconda richiesta di misura cautelare nei confronti di Amara per autoriciclaggio, che, anche in questo caso, il procuratore non controfirmò; la notizia che durante una perquisizione ai danni di Amara era stata recuperata documentazione che dimostrava come l'Eni, attraverso una società terza, avesse fatto pervenire ad Amara. Riassumiamo: viene accusato di aver favorito Amara attraverso le fughe di notizie chi aveva provato per ben due volte e inutilmente a farlo arrestare e non chi si era rifiutato per due volte di mettergli le manette. Palamara, che verrà ascoltato il prossimo 29 luglio dai pm Gemma Miliani e Formisano, è accusato di corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione in atti giudiziari (anche se non è indicato il magistrato che avrebbe accettato di alterare la decisione) per una storia già raccontata in anteprima dalla Verità il 17 luglio scorso. L'ex presidente dell'Anm si sarebbe interessato a un procedimento che riguardava madre e moglie dell'amico Federico Aureli, da cui «indebitamente riceveva utilità consistite nella disponibilità di almeno due scooter [] e nel pagamento di multe levate mentre egli utilizzava tali motoveicoli». Ma c'è anche una seconda contestazione e riguarda quattro soggiorni a Capri del valore complessivo di 6890 euro effettuati tra il 2011 e il 2018 con la famiglia e con una amica in un lussuoso albergo di proprietà della società Artesole, di cui è titolare l'imprenditore Leonardo Ceglia Manfredi. In più Palamara avrebbe usufruito di due passaggi in auto con chauffeur costati 305 euro. In questo caso Palamara si sarebbe interessato alla causa di separazione del fratello di Ceglia Manfredi, Goffredo. Inoltre a casa di Palamara sono stati trovati dagli investigatori un verbale di verifica fiscale e un altro di ispezione in materia di igiene pubblica nei confronti della Artesole. Le chat tra Leonardo Ceglia Manfredi e Palamara sono molto lunghe e più che di corruzione in atti giudiziari i due discettano, come vitelloni attempati, di cene e week end in località esclusive, ma pure di calcio e donne. Comunicazioni tra bon vivant, ma soprattutto, pare di capire, tra amici. In un messaggio dell'ottobre 2017 i due sembrano fare riferimento a una causa: «Mio fratello mi pressa. Vorrebbe far promuovere un accordo». Il 19 giugno 2018 sempre Leonardo Ceglia Manfredi scrive a Palamara: «Ho sentito anche Vale (marito di un magistrato, ndr) allora vogliamo fare il week end 6-8 (luglio, ndr) a Capri». È uno dei soggiorni sotto inchiesta. I fratelli Ceglia Manfredi, in un procedimento per false comunicazioni sociali (per aver esposto nei bilanci «dati non corrispondenti a quelli reali»), sono stati difesi dagli stessi avvocati di Palamara e nel marzo 2019 il pm Francesco Cascini, fratello di Giuseppe, consigliere del Csm (entrambi sono finiti nella chat di Palamara) ha chiesto l'archiviazione, con il visto del procuratore aggiunto Rodolfo Sabelli. Ieri gli avvocati di Palamara Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti hanno replicato con un duro comunicato sugli articoli di Corriere e Repubblica che hanno dato la notizia e hanno annunciato per l'interrogatorio del 29 un colpo di scena. «Nella giornata di giovedì è stato notificato al nostro assistito avviso a comparire: e oggi è stato pubblicato sugli organi di stampa» hanno puntualizzato, evidenziando il solito filo diretto tra inquirenti e redazioni. Per loro i soggiorni a Capri vanno collegati ai «notori e consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo». Quindi hanno annunciato «l'alba di un nuovo giorno»: «È intenzione del dottor Palamara quella di chiarire il prossimo 29 luglio tutti i fatti oggetto di contestazione compresa la sua totale estraneità alle notizie pubblicate sul Fatto quotidiano e La Verità, relativamente alle vicende dell'esposto di Fava []. È ferma intenzione del nostro assistito, per evitare inutili e pretestuosi stillicidi e per sgombrare il campo da possibili ed ulteriori contestazioni su asserite utilità ricevute, anche quella di chiarire tutte le vicende inerenti richieste di interessamento per le nomine che nel corso degli anni gli sono state avanzate nell'ambito della sua attività consiliare e di esponente della magistratura associata e risultanti dalle chat acquisite al procedimento». Dunque, mentre i pm di Perugia puntano a incastrare Palamara, come un Al Capone qualunque, per l'utilizzo gratuito di due motorini e per quattro soggiorni in hotel (sette notti in totale), molto probabilmente dovranno prendere atto di nuove notizie di reato. Partendo da quelle chat che sono state inviate al Csm, ma su cui la Procura umbra non ci risulta abbia aperto alcun filone d'indagine.

In tanti promossi grazie all'ex leader di Unicost. Magistratopoli, pm servi di Palamara: “Sei il re di Roma”. Paolo Comi  su Il Riformista il 15 Agosto 2020. «Pal sei il re di Roma». Pal non è James Pallotta, fino al mese scorso l’italo-americano presidente della A.S. Roma, ma Luca Palamara, il signore indiscusso delle nomine al Csm. A pronunciare questa frase nell’estate del 2018 è il pm Marco Mescolini, nominato quell’anno, contro ogni previsione della vigilia, procuratore di Reggio Emilia. Mescolini, un giovane magistrato che ha appena raggiunto la quarta valutazione di professionalità e la cui unica esperienza significativa come pm è quella di essere stato sostituto nella città emiliana, ha sbaragliato la concorrenza di colleghi più anziani e blasonati che aspiravano a quell’incarico. Ad iniziare da Alfonso D’Avino, procuratore aggiunto a Napoli, che sarà costretto ad accontentarsi della Procura di Parma, una seconda scelta. L’autore del miracolo è sempre lui, Palamara, un tempo ras di Palazzo dei Marescialli, adesso indagato a Perugia per reati assortiti contro la Pa e scaricato da tutti i colleghi. Nel 2017 la situazione per Unicost, il correntone di centro di cui Palamara è stato il capo supremo, in Emilia è drammatica. Area, il raggruppamento delle toghe di sinistra, sta facendo da tempo man bassa di incarichi. Le toghe di Unicost sono scoraggiate e rischiano di disertare le urne in vista delle elezioni per il rinnovo del Csm. L’alert viene lanciato dal pm di Bologna Roberto Ceroni, uno dei pretoriani di Palamara nella città delle due torri. Palamara, dopo aver ascoltato il grido di dolore del collega, accetta la sfida e decide di scendere in campo come solo lui sa fare. La “lista della spesa” è lunga. Oltre a Mescolini, Ceroni indica un elenco di colleghi di Unicost che devono essere sistemati: Gianluca Chiapponi punta a diventare procuratore a Forlì, Stefano Brusati, presidente del Tribunale di Piacenza, Silvia Corinaldesi (che poi si candiderà al Csm, senza venire eletta, in segno di discontinuità con la gestione Palamara, ndr), presidente di sezione del Tribunale di Rimini, Lucia Russo, procuratore aggiunto a Bologna. «Si tratta di posti sui quali mi si chiede costantemente aggiornamento e che per noi rivestono importanza assoluta», scrive con tono fermo Ceroni. Palamara, da vero top player delle nomine, tranquillizza l’interlocutore, avvertendolo però che la battaglia a piazza Indipendenza sarà lunga e difficile. Non tutti i colleghi segnalati da Ceroni, pare, abbiano un cv all’altezza del ruolo a cui aspirano. «Dobbiamo blindare la motivazione, altrimenti rischia», scrive infatti Palamara a Ceroni riferendosi a Mescolini.  «Orco boia!», gli risponde, da vero emiliano, Ceroni. «Marco (Mescolini) lo sto blindando per Reggio Emilia (…) stesso discorso per la Russo che ha problemi», sottolinea allora Palamara. Come i veri fuoriclasse, Palamara prende i suoi colleghi per mano e li conduce alla vittoria. Cioè alla nomina tanto desiderata: solo Chiapponi alla fine resterà al palo. Mescolini, in tutto ciò, forse non fidandosi di Ceroni, inizia nel frattempo a stalkerare con i messaggi Palamara. L’ansia di non farcela è tremenda. «Quando puoi aggiornami… tanto io sono sempre in udienza con quel deficiente del presidente del tribunale (Cristina Beretti, ndr) che fissa pure il 3 aprile…. comunista….», gli scrive qualche mese prima di essere nominato. Fino al liberatorio: «Pal sei il re di Roma». La pubblicazione delle nuove chat di Palamara sta suscitando in queste ore un terremoto nella placida Reggio Emilia. L’attacco più duro è venuto da Sabrina Pignedoli, europarlamentare reggiana del M5s. «Schifo, ribrezzo e pena, sì forse è la pena che prevale per questi poveri mendicanti di incarichi», scrive Pignedoli in un post su Fb, domandandosi «che fine ha fatto quella frase utopica “la legge è uguale per tutti”?» Marco Eboli, portavoce di Fratelli d’Italia a Reggio Emilia, ha chiesto invece le “dimissioni” per Mescolini. Ma che qualcosa di “anomalo” ci fosse nelle nomine dei magistrati emiliani negli ultimi anni era però già emerso. Giovanni Bernini, ex assessore di Forza Italia al Comune di Parma, prima che venissero pubblicate le chat di Palamara, aveva scritto nel 2018 un libro profetico dal titolo “Storie di ordinaria ingiustizia” in cui raccontava dettagliatamente la lottizzazione degli incarichi in Emilia. Fabrizio Castellini, direttore della Voce di Parma, settimanale che da anni si interessa di queste vicende, interpellato al riguardo ha dichiarato: «Sono decenni che denunciamo inascoltati la spartizione fra le correnti dell’Anm degli incarichi nella nostra regione. Abbiamo anche fatto segnalazioni al Ministero della giustizia e alla Procura generale della Cassazione. Ovviamente è stato solo tempo perso». I nomi fatti da Ceroni, comunque, dovrebbero essere oggetto di valutazione ai fini disciplinari da parte della “task force chat” istituita dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

“Io promosso senza aiuti”, però ringraziò Palamara…Stefano Brusati su Il Riformista il 21 Agosto 2020.

Preg.mo Direttore. Le scrivo in merito all’articolo apparso sul suo giornale nella giornata del 15/8 con il titolo “Emilia: Pm servi di Palamara” in cui compare il mio nome. Lo faccio perché, riservata ogni altra iniziativa, intendo contestare alcune, a mio avviso, gravi affermazioni che compaiono in detto articolo. La mia domanda per l’incarico direttivo di Presidente di Tribunale di Piacenza non ha nulla ma proprio nulla a che vedere con la vicenda del conferimento dell’incarico di Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia e di Procuratore della Repubblica di Parma. E ci tengo massimamente a tale distinzione. Non posso accettare di essere, di fatto, inserito fra i “tanti promossi grazie all’ex leader di Unicost”, per la semplice ragione che sono stato nominato Presidente del Tribunale di Piacenza dal Csm con delibera unanime dopo che, sempre all’unanimità, la competente Commissione mi aveva proposto per detto incarico. Nessun ricorso è mai stato proposto avverso detta delibera. Nell’articolo si parla del dott. Ceroni che – se non ho inteso male- nella sua veste di “uno dei pretoriani di Palamara nella città delle due torri…” avrebbe “indica(to) un elenco di colleghi di Unicost che devono essere sistemati”, e in detto elenco compare anche il mio nome, il tutto dopo la affermazione che “la lista della spesa è lunga”. Contesto anche dette gravi affermazioni in quanto:

- l’unica “lista della spesa” che conosco è quella che uso per fare acquisti in salumeria o dal fruttivendolo. Nulla sapevo delle iniziative del collega Ceroni al quale non ho mai chiesto di raccomandare la mia domanda.

-non avevo alcun bisogno di essere “sistemato” in quanto – al momento della mia domanda- ricoprivo il prestigioso incarico di Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appello di Bologna che – grazie anche ai colleghi componenti della stessa - ho portato (mi permetta l’immodestia) a risultati qualitativi/quantitativi di assoluta eccellenza ed oggetto di unanime apprezzamento. Ed anche per questo ero stato onorato dal Presidente della Corte di Appello con la nomina, altrettanto prestigiosa, di Vicario dello stesso.

Contesto anche la altrettanto grave affermazione secondo la quale “Palamara prende i suoi colleghi per mano e li conduce alla vittoria”. Ovviamente non sono mai stato condotto per mano dal dott. Palamara né mai l’ho chiesto. Nello sterminato elenco delle chat scaricate dal telefono cellulare del dott. Palamara (e diffuse più o meno lecitamente) non ne troverà nessuna da me spedita o ricevuta. E lo stesso dicasi per le telefonate. Men che meno troverà traccia di contatti personali. A sostegno della mia domanda ho confidato esclusivamente sul mio curriculum professionale, sui titoli previsti, sui risultati raggiunti nei vari Uffici Giudiziari in cui ho lavorato. È, se vuole, a Sua completa disposizione. Ho atteso serenamente la decisione del Csm con la altrettanto serena convinzione (chi mi conosce può confermare pienamente) che in caso negativo non l’avrei mai impugnata anche perché i prestigiosi incarichi di Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appello di Bologna e di Vicario del Presidente di detta Corte continuavano a darmi grandi gratificazioni professionali ed umane. Lo stesso comportamento l’ho tenuto anche con riferimento alla concomitante domanda di conferimento dell’incarico di Presidente del Tribunale di Modena, che è stato assegnato – con delibera dello stesso Csm e su proposta della medesima Commissione – ad un degnissimo collega e non ho mai neppure pensato che il suo noto impegno in MD/Area possa avere anche solo parzialmente influito su detta nomina. Chiedo, quindi e cortesemente, la pubblicazione di questa mia lettera per una più completa ricostruzione dei fatti e a tutela della mia reputazione personale e professionale e di trentasei anni di più che specchiata attività come Magistrato.

Risponde Paolo Comi: Prendiamo atto delle sue precisazioni. La invitiamo, comunque, a rivolgersi al dott. Roberto Ceroni e al dott. Gianluigi Morlini, esponenti di primo piano di Unicost, il gruppo al quale lei aderisce, affinché spieghino – pubblicamente – le ragioni del pressante interessamento “motu proprio” a conforto di una domanda che non aveva bisogno di alcuna segnalazione in quanto i titoli allegati, tutti prestigiosi, sarebbero bastati di per sé soli ad ottenere il meritatissimo incarico di presidente del Tribunale di Piacenza. Il dott. Roberto Ceroni, referente di Unicost nel distretto di Bologna, segnalò il suo nome al dott. Luca Palamara, all’epoca presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm e capo delegazione di Unicost a Palazzo dei Marescialli, per ben sei volte in circa due mesi. “Su Brusati non possiamo perdere. Il gruppo ne pagherebbe le conseguenze”, scrisse, alla vigilia del voto del Csm sulla sua domanda, Ceroni a Palamara. Secondo il codice etico dell’Anm, che lei conoscerà molto bene avendo per anni svolto un ruolo di primo piano nell’associazionismo giudiziario, quando il dott. Marcello Matera è stato il segretario generale di Unicost, “Il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad assegnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fine di influire impropriamente sulla relativa decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore”. P.s. Perché subito dopo essere stato nominato presidente del Tribunale di Piacenza ringraziò calorosamente Luca Palamara? Ricorda? Era il 31 marzo.

 “Nomine di Magistratopoli vanno annullate, sono illecite”, l’atto di accusa del giudice Andrea Reale. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Quando lo scorso anno vennero pubblicati per la prima volta sui giornali i colloqui aventi ad oggetto le nomine di importanti Procure fra l’ex pm romano Luca Palamara, alcuni consiglieri del Csm e i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, la reazione fu di generale indignazione. Ben cinque consiglieri del Csm, che avevano preso parte a quegli incontri, furono costretti alle dimissioni. Anche l’allora presidente dell’Anm Pasquale Grasso si dovette dimettere e al Csm si creò una nuova maggioranza. Tutt’altro scenario dopo le ultime pubblicazioni delle chat di Palamara, in cui viene disvelato apertamente il sistema degli accordi fra le correnti per l’assegnazione degli incarichi direttivi. La stampa in Italia è come certa magistratura: non è perfettamente libera. Ci sono dinamiche lampanti che evidenziano un fastidioso “doppiopesismo”.

Andrea Reale, gip al Tribunale di Ragusa, è fra i creatori del blog toghe.blogspot.com, uno spazio virtuale in cui i magistrati “senza casacca” denunciano i mali del correntismo in magistratura.

Giudice Reale, ha notato il silenzio dei “giornaloni” sulle ultime chat di Palamara?

«Si. I quotidiani che lo scorso anno diedero enorme risalto alla notizia di Palamara che brigava per nominare alcuni procuratori, adesso tacciono».

Un silenzio strano?

«Gli stessi quotidiani che hanno crocifisso i consiglieri che hanno partecipato alla riunione presso l’hotel Champagne oggi sono assolutamente in silenzio davanti al disvelamento pubblico del sistema di cui l’hotel Champagne è solo la punta dell’iceberg».

Leggendo la chat di Palamara non vi è dubbio alcuno su come funzionava il sistema….

«A tutte le conversazioni poi sono seguite nomine apicali secondo logiche correntizie».

L’ultima in ordine di tempo è quella di Marco Mescolini, poi nominato procuratore di Reggio Emilia. Il M5s ne chiede le dimissioni, il Pd lo difende.

«È la prova che esistono rapporti “discutibili” fra politica e magistratura. I politici che intervengono a difesa di condotte eticamente riprovevoli di un magistrato esercitano una indebita interferenza e dimostrano una faziosità sospetta, soprattutto perché a difesa di comportamenti indifendibili».

Palamara, da presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, era subissato di telefonate e messaggi di colleghi che premevano per essere nominato. È normale?

«Il magistrato non lo deve mai fare. È scritto nel codice etico».

È un illecito?

«È un “evidente” illecito deontologico. Non è possibile intercedere o far intercedere alcuno con il consigliere che decide sulle nomine. È una prassi che deve definitivamente cessare».

Chiedere informazioni?

«Aver brigato solo per velocizzare l’iter della pratica rientra nel sistema delle correnti da denunciare ed espellere dal funzionamento del Csm. Lo ha detto anche il presidente della Repubblica».

E dal punto di vista disciplinare?

«Il problema è se la nomina ha causato un danno a coloro che non sono stati nominati. In quel caso credo ci possano essere illeciti disciplinari e anche penali».

Palamara ai suoi interlocutori ripeteva sempre: “Stai tranquillo, ti blindo la motivazione (con cui il magistrato viene nominato al Csm, ndr). Ci spiega cosa significa?

«(Ride) Non ci sono catenacci e porte blindate al Csm. Si parla sempre di discrezionalità in tema di scelte. La nomina blindata è un ossimoro, anzi un abuso. Se esiste discrezionalità si devono valutare tutti i candidati. Se avviene la “blindatura” vuol dire che la nomina è già predestinata e sono stati esclusi tutti gli altri candidati».

Ed è un illecito?

«È contro la legge».

Cosa si deve fare ora? Mi riferisco a quelli che sono stati nominati in questo modo.

«Un annullamento d’ufficio o un qualsiasi altro meccanismo che impedisca di mantenere il posto a chi lo ha ottenuto tramite una condotta illecita, anche se solo sotto il profilo deontologico».

Dopo lo scandalo dello scorso anno, le correnti a Palazzo dei Marescialli sono sempre al loro posto.

«Già, i gruppi al Csm sono tutti lì. Ancora oggi se un magistrato non appartiene ad un gruppo è escluso dalle nomine».

Si sente penalizzato?

«Ovvio. Tutti i magistrati, anche chi non è iscritto a una corrente, ha il diritto di poter partecipare a un concorso per una nomina o un avanzamento. E invece, nulla».

Rammarico?

«Che le istituzioni di garanzia, compreso il capo dello Stato, ancora non abbiano allontanato i gruppi consiliari dall’Organo di autogoverno dei magistrati. A tutela di tanti altri magistrati che non hanno tessere in tasca».

Arriva al Senato il caso del pm di Reggio Emilia che grazia il Pd. Mentre il "soccorso rosso"arriva in aiuto al magistrato Marco Mescolini dopo le polemiche scaturite un seguito alle intercettazioni tra lo stesso e Palamara, alcuni parlamentari di Forza Italia chiedono chiarezza al ministro della Giustizia. Chiara Giannini, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. Mentre il «soccorso rosso», con la Cgil che gli esprime solidarietà, arriva in aiuto al magistrato Marco Mescolini dopo le polemiche scaturite un seguito alle intercettazioni tra lo stesso e Palamara, alcuni parlamentari di Forza Italia chiedono chiarezza al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. I senatori Gasparri, Aimi, Moles, Perosino, Rizzotti, Ferro, De Siano, Paroli, Barboni, Papatheu, Galliani, Floris e Pagano hanno presentato, infatti, un'interrogazione al Guardasigilli affinché spieghi il contenuto di alcune delle intercettazioni. Mescolini aspirava, all'epoca in cui furono fatte le registrazioni, al ruolo di capo della Procura di Reggio Emilia, poi ottenuto. «Reggio Emilia - spiegano i senatori - era l'epicentro degli interessi malavitosi del clan ndranghetista contro il quale proprio il pm Marco Mescolini diresse le indagini i sfociate nel processo Aemilia». E ricordano che «già nel maggio 2019 è stato pubblicato il libro di Giovanni Paolo Bernini in cui l'ex assessore di Parma poi indagato, processato e assolto dalle accuse formulate, con grande risalto mediatico, dal pm Mescolini, denunciava gravissime anomalie nella conduzione delle indagini e poi della pubblica accusa nel maxi processo Aemilia». Nel libro sono state pubblicate molte intercettazioni che coinvolgevano esponenti nazionali e locali del Partito Democratico. I senatori chiedono quindi di sapere «perché, a fronte delle intercettazioni in cui si parla di appalti pubblici, di voti, di richieste di favori, non siano stati emessi avvisi di garanzia o richieste di arresto nei confronti degli esponenti del Pd, ma solo di esponenti del centrodestra. E se alla luce delle intercettazioni con Palamara e dei fatti esposti non si ritenga di avviare una azione disciplinare nei confronti di Mescolini».

Ora i 5Stelle chiedono la testa del pm antimafia Mescolini: «Chiese favori a Palamara». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 agosto 2020. Secondo i grillini deve lasciare l’incarico di procuratore ma il Pd lo difende a partire da Delrio: «Basta gossip su telefonate private usate in modo strumentale». La recente pubblicazione integrale, da parte di alcuni quotidiani fra cui il Resto del Carlino, della chat fra l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ed il pm bolognese Roberto Ceroni ha scatenato l’ennesima polemica sul sistema delle correnti in magistratura e sulla “lottizzazione” degli incarichi delle toghe. A finire nel mirino, questa volta, il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini. Un “insolito” asse fra M5s, Fd’I e Forza Italia è arrivato a chiederne questa settimana le dimissioni. Nella chat, risalente al 2018 e confluita nell’ormai famosissimo fascicolo di Perugia aperto a carico di Palamara per corruzione, Ceroni, esponente di Unicost, segnalava al magistrato romano alcuni nomi di colleghi di corrente, poi tutti nominati dal Csm tranne uno, per degli incarichi direttivi e semi direttivi nel distretto di Bologna.Fra questi nomi c’era quello di Marco Mescolini, sostituto a Reggio Emilia e titolare dell’indagine “Aemilia” sulle infiltrazione della ‘ndrangheta nella città del Tricolore.Mescolini, che agli inizi della carriera era stato anche il consigliere giuridico, durante l’ultimo governo Prodi, del vice ministro dell’Economia Roberto Pinza, aveva fatto domanda nel 2017, insieme ad altri quattordici colleghi, per diventare il procuratore di Reggio Emilia.L’interlocuzione, come rivelato in questi giorni dai media, fra Palamara, storico leader di Unicost e nel 2018 presidente della Commissione per gli incarichi direttivi a Palazzo dei Marescialli, e Ceroni fu molto intensa e durò diversi mesi, terminando con la nomina di Mescolini, avvenuta a luglio di quell’anno, poche settimane prima della scadenza della scorsa consiliatura del Csm.I modi e i tempi di questa interlocuzione, ritenuta irrituale, sono stati duramente stigmatizzati dagli esponenti del M5s di Reggio Emilia. I pentastellati,  fino alla pubblicazione della chat, avevano sempre elogiato l’operato dei pm emiliani e di Marco Mescolini nel contrasto ai fenomeni mafiosi nella loro città.Ben sette fra parlamentari ed europarlamentari del M5S, fra cui la vice presidente della Camera Maria Elena Spadoni e l’ex presidente della Commissione giustizia della Camera Giulia Sarti, hanno chiesto a Mescolini di chiarire i suoi rapporti con Palamara. L’europarlamentare grillina Sabrina Pignedoli, che in passato ha anche scritto dei libri sull’indagine “Aemilia”, ha usato parole forti definendo  “mendicanti di nomine” i magistrati. “Perché fra tutte le Procure d’Italia Mescolini doveva essere nominato a Reggio Emilia?”, si domandano i pentastellati. Da chiarire, poi, una frase, “è importante per tutto”, utilizzata da Mescolini per perorare la sua nomina con Palamara: “Cosa si intende con quel tutto?”. “E’ un decennio che Palamara agisce indisturbato. Nessuno si è accorto di niente? Agiva per conto di qualcuno?”, gli altri interrogativi dei parlamentari Cinquestelle.A difesa di Mescolini, invece, i vertici del Partito democratico di Reggio Emilia.Per difendere Mescolini il Pd ha diramato nella serata di martedì una nota. Fra i firmatari, l’attuale sindaco Luca Vecchi, il suo predecessore Graziano Delrio, ora capogruppo dem alla Camera, i presidenti dell’Assemblea provinciale e della Provincia di Reggio Emilia Gigliola Venturini e Giorgio Zanni,“I democratici italiani e reggiani sono abituati ad avere rispetto del lavoro dei magistrati, che è un lavoro lento e difficoltoso rispetto al quale non è possibile assistere alla stregua di tifosi”, premettono i dem, secondo i quali “è inaccettabile attaccare i magistrati, alimentando una cultura del sospetto strumentale ed orientata a minarne la credibilità, a maggior ragione laddove gli stessi abbiano ricoperto un ruolo di primo piano nella lotta ai mafiosi nella nostra terra”. “Riuscirà per una volta la politica a non commentare inchieste e gossip giudiziari sulla base di conversazioni telefoniche private?”E poi la stoccata al voltafaccia degli esponenti locali del Movimento con cui governano insieme a Roma: “Lascia inoltre basiti chi fino a ieri inneggiava l’operato della Procura di Reggio Emilia, salvo oggi mettere in discussione la caratura etica e morale dei suoi protagonisti”. L’onorevole piacentino Tommaso Foti, vice capo gruppo di Fd’I alla Camera, ha chiesto il trasferimento del procuratore di Reggio Emilia ed una ispezione alla Procura, precisando che Palamara e Mescolini hanno il dovere di spiegare quanto prima le affermazioni “criptiche” utilizzate nella chat. Marco Eboli, portavoce di Fd’I a Reggio Emilia e   Giovanni Bernini, responsabile Enti locali per Forza Italia a Parma,  hanno infine organizzato un evento, che si terrà venerdì prossimo nel centro di Reggio Emilia, dal titolo  “Il caso Mescolini”.“Ho intenzione di chiedere a Raffaele Cantone, il procuratore di Perugia che indaga su Palamara, di essere ascoltato sulle nomine dei magistrati in Emilia Romagna”, ha affermato Bernini. “La chat di Mescolini per spingere la sua nomina è vergognosa”, ha poi aggiunto. E sempre da Forza Italia, con il senatore Maurizio Gasparri, è stata annunciata una interrogazione urgente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla vicenda.

Nicola Gratteri a Pietro Senaldi: "Mi hanno detto che Napolitano non mi ha voluto ministro perché pm troppo caratterizzato". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 29 settembre 2020. C'è un magistrato che è riuscito a diventare famoso pur non cavalcando le correnti, anzi denigrandole pubblicamente. Naturalmente anche lui è un pm, ma atipico; al punto che viene accusato di essere un giustizialista non dai politici ma dai propri colleghi. Nicola Gratteri sta provando a fare con la 'ndrangheta in Calabria quello che Borsellino e Falcone tentarono con la mafia a Palermo. Ha la fortuna, a differenza dei due procuratori siciliani, che il governo e l'opinone pubblica si limitano a ignorarlo, anziché mettergli i bastoni tra le ruote.

Procuratore, in che stato è la giustizia italiana e quali sono i suoi mali?

«Non gode di ottima salute e sta attraversando un momento difficile. Quando si vivono certe situazioni bisogna avere la capacità di individuare rimedi e soluzioni. Sostengo da sempre che si devono realizzare, nel rispetto della Costituzione, le riforme necessarie per rendere sconveniente delinquere. Bisogna andare avanti nella informatizzazione del processo penale, strada intrapresa da tempo, divenuta fondamentale soprattutto ora, in tempi di distanziamento sociale e cautele sanitarie, e modificare una serie di norme che nulla aggiungono e molto tolgono».

Se potesse cambiare o introdurre qualcosa per far girare meglio il sistema, cosa sceglierebbe?

«Bisogna eliminare le formalità che nulla aggiungono in termini di reale difesa all'indagato/imputato. Ad esempio, oggi è possibile per il pm fare richiesta di giudizio immediato cautelare - con eliminazione della fase dell'udienza preliminare - solo nell'ipotesi di misura detentiva (carcere o arresti domiciliari) non anche se un soggetto è sottoposto alla misura dell'obbligo di presentazione alla Procura generale, se anche l'indagato ha già avuto piena cognizione di tutti gli atti in quanto vi è stata comunque una discovery completa. Tale limitazione andrebbe rivista. Questa è una delle tante piccole riforme che potrebbero velocizzare il processo penale».

Il mal funzionamento della giustizia è una delle piaghe dell'Italia, ma i più grandi oppositori di ogni riforma sono i magistrati: perché il malato rifiuta la cura?

«Io non credo che i magistrati come categoria si oppongano alle riforme. Credo solo che, quali operatori del settore, ben sanno quali sono le modifiche necessarie e quali no, e sopratutto quali cambiamenti non migliorano, anzi peggiorano, la situazione. A questa cura verosimilmente ci si oppone».

La riforma spetterebbe ai politici, ma questi sono sotto schiaffo delle inchieste: come può un politico riformare la giustizia, a meno che non sia San Francesco?

«Come si riforma ogni ambito della vita sociale e politica. Bisogna sedersi attorno a un tavolo e discutere le riforme necessarie avendo come unico obiettivo quello di migliorare il sistema giudiziario. E poi smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo: se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi. Il migliore giudice di ciascuno di noi è la sua coscienza».

Si dice che i magistrati, e i procuratori in particolare, siano il potere più forte in Italia attualmente, concorda?

«Non direi. A meno che non si voglia accreditare l'idea che ci siano magistrati capaci di sedersi a tavolino per mettere in piedi inchieste con finalità politiche. Non mi risulta. Non escludo che qualcuno abbia potuto anche farlo. Ma non penso che ci siano magistrati che la mattina si alzino con l'idea di rovesciare un governo o mettere in crisi una coalizione».

I suoi più grandi denigratori sono magistrati: perché molti colleghi la attaccano?

«Questo lo deve chiedere a loro, non a me. Preferisco soffermarmi su quanti, magistrati e non, mi incoraggiano invece ad andare avanti coerentemente per la mia strada».

Cosa risponde a chi la accusa di giustizialismo?

«Rispondo che non è vero; non sono mai stato a favore di una giustizia "rapida e sommaria". Ritengo solo che l'Italia si meriti un sistema giudiziario capace di garantire la certezza della pena. Non possiamo pensare di vivere in un mondo abitato solo da gente buona e onesta. Sarebbe bello. Mi piace però pensare a un mondo in cui non sia conveniente delinquere. Chi commette un reato deve sapere che esiste una pena. E quella pena bisogna espiarla. Credo ovviamente all'idea della riabilitazione, soprattutto di chi si rende responsabile di reati ordinari, un po' meno per i mafiosi. Ma anche i mafiosi hanno la possibilità di redimersi, scegliendo di collaborare con la giustizia».

Buona parte delle persone che ha arrestato nella maxi retata è stata liberata: ha sbagliato qualcosa?

«Vorrei specificare, per chi non conosce il codice, che il pm chiede l'applicazione di misure di custodia cautelare a un giudice terzo, che può accogliere o rigettare la richiesta sulla base di quanto viene posto in valutazione. Il pm chiede, il giudice applica. La scarcerazione poi non significa automaticamente riconoscere l'estraneità dell'indagato rispetto all'ipotesi di reato contestata; in molti casi viene fatta una diversa valutazione in merito alle esigenze cautelari, ma questo è un discorso che non è possibile affrontare in termini astratti».

È vero che il Csm può determinare le carriere di chiunque e gli stessi magistrati sono intimiditi dalla cupola che li governa?

«Non ho mai fatto parte di alcuna corrente e sono estraneo alle logiche di cui parla. Non nascondo però il fatto che ci siano magistrati che sono riusciti a fare carriera grazie alla loro appartenenza al mondo delle correnti che erano nate con tutt' altra finalità. Il correntismo è uno di quei mali che andrebbero estirpati».

Perché non ha mai aderito a nessuna corrente?

«Proprio per la degenerazione che c'è stata delle correnti».

Come ha fatto allora a fare una carriera così brillante?

«Questo è un suo giudizio. Quando ho scelto Catanzaro, non mi pare che ci fosse tanta concorrenza. Oggi Catanzaro è diventata una sede appetibile, ma fino a qualche anno fa, pochi avrebbero fatto domanda per fare qui il magistrato. La mia carriera è fatta di indagini che hanno contributo a combattere un fenomeno insidioso, ricco e potente come la 'ndrangheta».

Cosa pensa dello scandalo Palamara?

«Ho letto molte cose che mi hanno ferito. Compreso commenti sul mio conto che non mi sarei mai aspettato di leggere. Mi auguro che il caso Palamara possa servire a fare luce sul correntismo. Palamara non è stato l'unico magistrato a servirsi delle correnti. Spero che questa vicenda possa fare da monito per evitare che certe cose si ripetano».

A cosa è dovuto il crollo di credibilità e autorevolezza della magistratura?

«Il magistrato dev' essere, sempre e comunque, al di sopra di ogni sospetto. E poi, come si dice: fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Nonostante gli scandali, ci sono tantissimi magistrati che ogni giorno fanno il proprio dovere con abnegazione e professionalità».

La sovraesposizione mediatica aiuta o danneggia l'immagine dei magistrati?

«Dipende. Se si riferisce alla mia, di esposizione mediatica, le posso dire che ritengo utile e necessario fare conoscere il fenomeno della 'ndrangheta. Proprio perché se ne è parlato troppo poco negli anni passati, essa è potuta diventare l'organizzazione criminale più potente e forte al mondo».

Perché le inchieste sui politici, anche di secondo piano, hanno una eco mediatica di molto superiore alle sue sulla 'ndrangheta?

«Non saprei. La lotta alle mafie non è mai stata una priorità politica nel nostro Paese. Forse è il momento che lo diventi, perché con le mafie non è più possibile convivere. Quando si parla di mafie, si deve tenere conto di quella zona grigia che alimenta la forza e il potere delle mafie».

Che differenza c'è tra l'attuale 'ndrangheta e la mafia?

«La 'ndrangheta ha sempre cercato di mantenere un profilo basso. Fino a vent' anni fa, era considerata una mafia stracciona e niente più.»

E rispetto alla camorra raccontata da Gomorra?

«La 'ndrangheta non è mai entrata nell'immaginario collettivo. Non ci sono film o serie televisive che l'abbiano saputa raccontare, descrivere, analizzare».

È un problema più grave il malcostume politico o il dilagare della criminalità organizzata?

«Sono due facce della stessa medaglia. Nella voce sulla criminalità organizzata che io e il professor Nicaso abbiamo scritto per l'enciclopedia Treccani, abbiamo fatto una riflessione che mi aiuta a risponderle: ci può essere corruzione senza mafia, ma non c'è mafia senza corruzione. Per combattere le mafie, bisogna arginare il malcostume politico, la corruzione e i centri di potere in cui gli interessi dei clan e delle caste si intersecano».

Se dovesse fare una radiografia della 'ndrangheta in Italia, cosa direbbe?

«È la mafia più ricca e potente. Ma non è mai stata un agente patogeno che dal Sud ha infestato il Nord. Al Nord ha trovato le stesse condizioni che l'hanno fatto crescere al Sud: imprenditori e politici che l'hanno scambiata per un'agenzia di servizi».

Nel processo accusa e difesa sono realmente sullo stesso piano o, come lamentano gli avvocati, la bilancia pende a favore delle procure?

«Io non credo che il processo sia squilibrato. Ma sul punto sarebbe auspicabile un confronto - sereno e leale - che potrebbe aiutare a risolvere qualunque tipo di problema».

Perché allora è contrario alla separazione delle carriere: quali effetti negativi avrebbe, non aiuterebbe invece a fare chiarezza?

«Perché la separazione delle carriere non comporta alcun vantaggio ma solo svantaggi, e non solo in termini di cultura della giurisdizione, ma anche in termini di arricchimento e di sviluppo professionale. Non si deve sperare che le carriere non vengano separate, si deve anzi sperare il contrario e avere sempre più pm che hanno fatto i giudici e sempre più giudici che hanno fatto il pm. Io rivedrei anche le attuali limitazioni, almeno in parte, perché solo questa versatilità può avvicinare le parti del processo e al contempo assicurare una crescita professionale che, invece, verrebbe irrimediabilmente inibita da una separazione delle carriere».

Perché Napolitano non l'ha voluta al governo e perché invece Renzi la voleva così tanto?

«Bisognerebbe chiederlo a Napolitano. Mi è stato riferito che mi avrebbe definito un magistrato troppo caratterizzato. Non ho mai capito cosa volesse dire».

Che idea si è fatto delle accuse di Di Matteo a Bonafede, arrivate due anni dopo i fatti?

«Non so nulla al riguardo. Di Matteo avrà avuto le sue ragioni. Forse ha scelto il luogo sbagliato. Forse sarebbe opportuno riprendere il dialogo».

Che senso ha un'indagine parlamentare o ministeriale sulle scarcerazioni dei boss: non è questo vero giustizialismo?

«Tutt'altro. Bisogna capire come e perché in un determinato momento si è ritenuto di scarcerare detenuti al 41bis per inviarli in zone del Paese caratterizzate da un altissimo numero di contagi. Qualcosa non ha funzionato».

Che idea ha del processo per sequestro di persona a Salvini e delle intercettazioni dove due procuratori dicevano che non c'è reato ma il leghista va processato perché è un rivale politico?

«Non conosco nel dettaglio questo dialogo a cui fa riferimento. Se il contenuto è esattamente questo dovranno dare spiegazioni su quanto affermato perché si tratta di affermazioni che danneggiano l'intera magistratura».

Quanto è politicizzata la magistratura italiana?

«Come in ogni ambito della vita sociale, anche nella magistratura ci sono mele marce. Ma non credo ci sia una forte politicizazzione della categoria. Il problema è che bastano pochi per rovinare molti».

Si servono più i giudici dei politici o i politici dei giudici?

«Questo lo deve chiedere ai magistrati - se ne conosce - che vanno dai politici per chiedere favori personali».

 “La magistratura non ha mai avuto nessun fine politico!” Parola di Gratteri. Il Dubbio il 28 settembre 2020. Il procuratore di Catanzaro Gratteri dimentica Tangentopoli e Mafia capitale e quel giorno che disse: “Smonteremo la Calabria come un trenino Lego”. La magistratura non ha mai condizionato la politica. Parole e musica del procuratore di Catanzaro Gratteri al quale, probabilmente, devono essere sfuggite giusto un paio di inchieste giudiziarie che negli ultimi 30 anni hanno cambiato il corso della politica italiana. A partire dal ’92, anno d’inizio di Tangentopoli: l’inchiesta che ha messo i ferri ai polsi a un’intera classe dirigente e archiviato la prima Repubblica. Per finire con Mafia Capitale, l’indagine che avrebbe dovuto smascherare il controllo dei clan su Roma e il famigerato terzo livello — quello dello scambio politico-mafioso — salvo poi finire con un nulla di fatto. O quasi. Un nulla di fatto solo giudiziario, però. Perché sul piano politico quell’inchiesta ha determinato la caduta di un sindaco eletto dai romani e la nascita della giunta Raggi. Senza dimenticare la frase rubata all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara: «Dobbiamo attaccare Salvini». Insomma, a Gratteri deve essergli sfuggito qualcosa, comprese le parole che lui stesso pronunciò nel corso di una conferenza stampa tenuta dopo un centinaio di arresti (e sì, l’Italia è quel posto in cui i magistrati indicono conferenze stampa): «Smonteremo la Calabria come un treno dei Lego e la rimonteremo», disse il procuratore di Catanzaro con fare vagamente comiziesco. Ma Gratteri è convinto dell’assoluta “innocenza” delle toghe e insiste: «Non possiamo accreditare l’idea che ci siano magistrati capaci di sedersi a tavolino per mettere in piedi inchieste con finalità politiche. Non mi risulta», ha infatti spiegato a Libero. «Non escludo che qualcuno abbia potuto anche farlo, ma non penso che ci siano magistrati che la mattina si alzino con l’idea di rovesciare un governo o mettere in crisi una coalizione». E poi: «Smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo, se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi». Poi il procuratore di Catanzaro interviene sulla questione della separazione delle carriere. E lì non solo Gratteri è contrario ma auspica sempre più pm che diventino giudici: «La separazione delle carriere non comporta solo svantaggi, e non solo in termini di cultura della giurisdizione, ma anche di arricchimento e sviluppo professionale. Non si deve sperare che le carriere non vengano separate, ma avere sempre più pm che hanno fatto i giudici e sempre più giudici che hanno fatto i pm».

Gratteri influencer e la sua buona fede…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Settembre 2020. C’è da credere che Nicola Gratteri sia perlopiù in buona fede. Il procuratore della Repubblica di Catanzaro è in buona fede quando, rispondendo a una domanda di Lilli Gruber sui toni violenti del dibattito pubblico, risponde che chi fa opinione deve stare attento a come parla perché «ognuno di noi abbiamo un seguito». È in buona fede perché con quel suo italiano un po’ così crede davvero che compito del magistrato sia di «fare opinione», e che per farla sia legittimo lasciarsi andare a requisitorie social contro i giornali che non concedono abbastanza spazio alle sue iniziative e non assumono il verbo opposto secondo cui la politica in Calabria è una montagna di merda, che è quello che a Gratteri invece piace e di cui infatti non si lamenta quando lo ripropone sul suo profilo Twitter. È in buona fede, questo magistrato che in televisione si occupa di fondi europei, di liste elettorali, di droga, di figli che bestemmiano, quando dimostra di credere veramente che sia “fisiologico” dover assistere agli innumeri casi di detenzione ingiusta registrati ogni anno in questo Paese, perché dopotutto si tratta del costo inevitabile della guerra alla corruzione e alle mafie. E non è in mala fede quando, a fronte dei tanti provvedimenti di scarcerazione disposti nei confronti dei troppi coinvolti nell’ultimo rastrellamento giudiziario da lui ordinato, spiega che un conto sono le esigenze cautelari e un altro conto sono le responsabilità: che significa che magari non bisognava arrestarli, ma vedrete che qualche mascalzonata l’han fatta. E pace se, in un sistema civile, non andare in galera senza motivo e prima del processo dovrebbe costituire un diritto forte, non una speranza travolta da una retata della rivoluzione giudiziaria che smonta come un giocattolo un pezzo d’Italia. Diversamente, è più difficile riconoscere a Gratteri anche solo un pizzico di buona fede quando spiega che «bisogna smetterla con questa storia dei politici sotto schiaffo», perché «se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi» (così, ieri, in un’intervista resa al direttore di Libero, Pietro Senaldi). Perché qui occorre intendersi. O questo influencer di Telecinquestelle (aka La7, ma Gratteri è notoriamente guest star un po’ dappertutto) non sa che politici e cittadini comuni sono affidati alle cure di giustizia anche quando non avrebbero proprio nulla da temere, se non appunto la giustizia che li fa a pezzi: e allora dovrebbe dare un’occhiata alle statistiche che raccontano quella vicenda a lui sconosciuta; oppure lo sa, come dovrebbe saperlo chiunque non sia esclusivamente fedele alla teoria ministeriale secondo cui “gli innocenti non finiscono in carcere”: e allora a quella sua dichiarazione non si può attribuire nemmeno il candore un po’ osceno con cui l’innocenza in galera è trattata come l’effetto collaterale di una politica repressiva ben poco intelligente. Nei due casi, ci sarebbe ragione di preoccuparsi altroché.

Palamara ammette: «È vero, la sinistra orienta la magistratura». E aggiunge: «Mi sono pentito». Gianluca Corrente lunedì 3 agosto 2020 su Il Secolo D'Italia. «La magistratura è in evoluzione, bisogna essere realisti. È composta da 9mila persone che nei fatti sono una comunità. Ed è indubbio che la sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura». Ad affermarlo è Luca Palamara, nell’intervista con il direttore del giornale online Giulio Gambino durante la terza serata del TpiFest. «A volte ti viene da pensare che la stampa non sia libera, è importante l’indipendenza della stampa così come quella della magistratura. Ho grande fiducia che la generazione dei giovani possa dare al paese una stampa libera». «Se tornassi indietro non rifarei le stesse cose», aggiunge. «Eviterei questo meccanismo di relazioni. Sarei molto più netto su reiterate e numerose richieste di raccomandazione che hanno caratterizzato la mia persona in quegli anni. Mi sono pentito». Ci tiene però a sottolineare che «ci sono più Palamara per ogni correnti. E sono coloro che negli anni hanno ricevuto incarichi politici associativi». È stato preso «il mio telefono. Se fossero state ascoltate le conversazioni di miei omologhi si potrebbe avere visione più globale di quello che è realmente accaduto. Dovrebbero essere ascoltati per una visione meno parziale, perché esiste un altro pezzo». «Per le chat sul mio telefono, dico che contengono affermazioni improprie. Già più volte da quelle affermazioni io per primo ho preso le distanze. Ma tengo a dire che quando si scrive sulle chat spesso lo si fa in via confidenziale, in forma stringata, in forma sintetica. E soprattutto lo si fa nella convinzione del caposaldo della libertà e segretezza delle nostre comunicazioni», aggiunge Palamara. «Prendo le distanze da quelle che contengono contenuti impropri su svolgimento dell’attività politica. Ho esercitato una carica rappresentativa che come tale mi imponeva di interfacciarmi con il mondo della politica e delle istituzioni. Ho frequentato uomini politici di entrambi gli schieramenti. Determinati giudizi sono frutto di situazioni contingenti che come tali devono essere contestualizzati. Il mio nome, Palamara, può essere fatto solo per definire processo giusto e imparziale».

PALAMARA: “LA SINISTRA ORIENTA LA MAGISTRATURA”. Da tpi.it  il 4 agosto 2020. “La magistratura è in evoluzione, bisogna essere realisti, la magistratura è composta da 9mila persone che nei fatti sono una comunità. È indubbio che la sinistra ha una forte capacità di orientamento della magistratura. A volte ti viene da pensare che la stampa non sia libera, è importante l’indipendenza della stampa così come quella della magistratura. Ho grande fiducia che la generazione dei giovani possa dare al paese una stampa libera”. Lo ha detto il magistrato Luca Palamara nel corso dell’intervista con il direttore di TPI.it Giulio Gambino durante la terza serata del TPIFest!, a Sabaudia. “Se tornassi indietro non rifarei le stesse cose, eviterei questo meccanismo di relazioni e sarei molto più netto su reiterate e numerose richieste di raccomandazione che hanno caratterizzato la mia persona in quegli anni, mi sono pentito”, ha aggiunto Palamara, che è sotto inchiesta a Perugia. “Il mio è un ruolo che rischia di inghiottirti, che ti esaspera e ti fa perdere il contatto con la realtà e rispetto al quale la mia capacità relazionale si favoriva. Stiamo parlando di un meccanismo di individuazione del miglior dirigente sulla base di un accordo. In magistratura così come in politica e nei giornali. In Italia tutte le nomine avvengono su questa base”. Poi Palamara ha spiegato: “Non bastano solo le carte, spesso i curriculum sono sovrapponibili. Bisogna raccogliere maggiori informazioni e raggiungere accordi per favorire la situazione migliore perché se nel sistema delle correnti ogni corrente dice ‘io devo mettere uno qui e io uno lì”.

Filippo Facci per ''Libero Quotidiano''  il 4 agosto 2020. Quando una «notizia» era nota ma fa notizia lo stesso, è segno che fa parte delle grandi ipocrisie nazionali, della verità sottaciute, dei «si sa ma non si dice», spesso la si relega a berlusconata tipo «le toghe rosse» eccetera. Quindi, se un magistrato d'un tratto dice pubblicamente che «la sinistra orienta la magistratura», occorre subito vedere chi è, perché l'ha detto, se è da ritenersi credibile. Nel caso, il magistrato è Luca Palamara (intervistato durante un festival del sito Tpi, a Sabaudia) il quale è un ex componente del consiglio superiore della magistratura (Csm) che è stato il più giovane presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Quindi è credibilissimo: e allora perché ha parlato? Risposta: perché è sputtanato, o come si dice: non ha più niente da perdere. Sappiamo che Luca Palamara l'anno scorso è stato indagato per corruzione, compravendite di sentenze e fuga di informazioni, e che dalle intercettazioni fatte col sistema trojan è venuto fuori un trojaio. Eppure, anche ai più navigati, sentir dire pubblicamente che «la sinistra orienta la magistratura» fa ancora avere un modesto soprassalto, e perché? Forse perché continua a sembrare grave, anomalo, distorcente l'equilibrio che dovrebbe caratterizzare il magistrato ma nondimeno il politico che lo orienta. Oppure, retrospettivamente, perché sappiamo che a una magistratura di sinistra non esiste una corrispondente magistratura di destra, o meglio: ciascuno ha le sue idee, ma chi cerca di trasfonderle nella professione togata è quasi sempre di sinistra. In altre parole, esistono migliaia di magistrati (circa novemila, nel penale) che si fanno gli affari propri e cercano solo di fare il proprio lavoro, ma tra essi c'è una minoranza che si muove in una logica di potere, e queste logiche sono e rimangono di sinistra perché presuppongono un ruolo sociale della magistratura che possa contribuire al cambiamento della società. Il «campionato» del potere si gioca solo a sinistra: è così che magistrati di mentalità anche di destra (pensate a Piercamillo Davigo) li ritroviamo a giocare nella logica delle correnti togate, quelle che si spartiscono posti e potere. Ma non esistono correnti veramente di destra: sono tutte e comunque in un campo di gioco che è dall'altra parte, l'unico disponibile: la differenza è che un tempo era una logica di sinistra incernierata ideologicamente coi partiti, oggi i partiti sono soltanto dei fragili appoggi appigli perché la magistratura militante consolidi un potere che non restituisce, ed è solo suo. La magistratura milita in se stessa, ed è soggetto politico a se stante. Certo, le correnti «Area» e Magistratura democratica» sono considerate più di sinistra, «Unità per la costituzione» più di sinistra-centro, «Magistratura indipendente» più di centro-sinistra: ma ripetiamo, a destra non c'è nulla, solo lavoratori privilegiati (e ben lieti di essere globalmente difesi dal sindacato unico, l'Associazione magistrati) oppure ci sono cani sciolti che però difficilmente finiscono sui giornali per inchieste e arresti clamorosi (di politici, in genere) e difficilmente si spartiranno poltrone e incarichi. E i partiti? Che c'entrano? Ormai niente: i partiti fanno capolino solo nella facoltà di candidare tizio o caio tra i consiglieri laici del Csm o altre cariche elevate. Non ci sono più le toghe rosse: nella notte della giustizia, tutti i gatti sono grigi. Il magistratura fa politica da sola, non essendo peraltro eletta dal popolo.

ARRESTI A DESTRA, CUORE A...Poi vabbeh, ci sono tanti magistrati di sinistra che sono stati eletti a sinistra (in Parlamento o altrove) dopo aver arrestato a destra. Gli esempi sarebbero tanti: pensate solo a Felice Casson, Gerardo D'Ambrosio, Luciano Violante. L'elenco - che comprende anche tanti magistrati minori - lo facciamo un''altra volta. E non c'è solo la sinistra delle poltrone e degli scranni: c'è un passato che reclama. Francesco Greco a 33 anni fu schedato dai servizi segreti perché collaborava alla rivista clandestina Mob, ricolma di esponenti della sinistra eversiva anche collegati con la colonna brigatista Walter Alasia. Un altro magistrato come Antonio Bevere, che in Cassazione fu relatore della sentenza che confermò la teorica galera per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, era stato un «pretore d'assalto» dedito a sanare le ingiustizie di classe. Ci sono attempati e serafici magistrati che inneggiavano alla rivoluzione proletaria e a un uso alternativo del diritto. Non è un segreto. Cecilia Gandus, giudice del primo processo Berlusconi-Mills, da giovane non era certo di destra. E Ilda Boccassini, ancora nel 1987, fu sospesa da «magistrato di turno esterno» perché firmò un appello a favore di Potere Operaio. La corrente di Magistratura democratica lamentava che il Pci non fosse abbastanza di sinistra: ma è preistoria, ne è passato di piombo sotto i ponti. Il campionato però è rimasto a sinistra. In quale partito si candidò il destrorso Antonio Di Pietro, alla fine? E il presidente della Puglia, il piddino Michele Emiliano, che peraltro non si è ancora dimesso da magistrato? Quale partito difese Luigi De Magistris in tutti i suoi pasticci da magistrato? E Alberto Maritati, che fece arrestare il socialista Rino Formica prima di divenire senatore e sottosegretario per i Ds? L'elenco è lungo, la memoria è corta. Ieri il magistrato Palamara ha detto «la sinistra orienta la magistratura», domani - anzi, oggi - è un altro giorno.

Legali di Palamara contro il direttore della Stampa: «Guarda che si traffica pure sulle nomine dei giornalisti». Errico Novi su Il Dubbio il 26 luglio 2020. Dagli avvocati dell’ex leader Anm, replica non proprio esemplare, quanto a eleganza, all’editoriale firmato oggi sul quotidiano torinese da Massimo Giannini: «Omette di considerare che le modalità deprecabili non riguardano solo la magistratura ma anche il resto della Pa e le testate giornalistiche». Be’, la toccano piano. Proprio piano. Da un passaggio, in apparenza minore, della lunga replica diffusa oggi contro il direttore della Stampa, Giannini, gli avvocati di Luca Palamara lasciano intuire che la loro strategia difensiva continuerà ad essere quella del “chi è più pulito c’ha la rogna”. E la faccenda non  riguarda solo le chiamate di correità, più o meno allusive, pronunciate dal loro assistito nella ormai sterminata sequenza di interviste che continua a rilasciare. E allora: il collegio difensivo dell’ex presidente Anm controdeduce punto per punto il cahier de doleances evocato da Massimo Giannini nell’editoriale pubblicato oggi sul quotidiano torinese. Dalla secca smentita sulle «sentenze pilotate in cambio di scooter» alla generale prassi della «spartizione di poltrone» fra magistrati. Fino a una nota frivola, in fondo, di colore più che moralistica, capace però di accendere la scintilla nell’arringa dei legali: il direttore della Stampa parla infatti a un certo punto di «partite in tribuna d’onore». Non l’avesse mai fatto. Perché pare proprio agganciata alla più trascurabile delle “attenzioni” l’impennata degli avvocati di Palamara: «Il direttore de La Stampa, muovendo dalla premessa di dimostrare che il “baco è più incistato di quel che crediamo”, ha omesso però di riportare nell’articolo delle fondamentali informazioni. In particolare», scrivono i difensori,  «con riferimento alla ‘spartizione delle poltrone’ ha indotto il lettore a ritenere che le modalità deprecabili siano solo del mondo della magistratura omettendo ad esempio di considerare le modalità di effettuazione delle nomine negli altri settori della pubblica amministrazione, nelle aziende di Stato e nelle testate giornalistiche».

Ecco qua: Palamara, per interposto collegio difensivo, estende la chiamata di correo pure a noi giornalisti.

«Si può legittimamente criticare il sistema di selezione di cui ha fatto parte il dott. Palamara e asserire che esistono modi migliori e più efficaci per raggiungere l’obiettivo di dare ai vari settori le menti migliori per ruoli apicali, ma è pura demagogia scagliarsi tout court contro il potere e contro una sola persona», proseguono nella loro replica al vetriolo gli avvocati dell’ex leder Anm. Che si soffermano poi su quel particolare chissà perché più stuzzicante di altri, i biglietti in poltronissima: «Con riferimento alle partite in tribuna d’onore ha invece indotto il lettore a ritenere che la presenza di un magistrato ad una partita di calcio sia sinonimo di mediocrità e di baratto omettendo però di indicare tra gli altri anche i nominativi dei giornalisti beneficiari dei biglietti omaggio e presenti nella Tribuna Autorità in occasione delle partite della A.S. Roma».

Eccolo, alla fine, il dispettuccio. Però, una domanda sorge spontanea: siamo proprio sicuri che sparare a raffica per dimostrare che, appunto, non si salva nessuno, sia davvero della migliore strategia difensiva? O non rischia di diventare essa stessa un autogol, come forse sono stati tanti piccoli atti in apparenza solo maldestri attribuiti al pm dalle famigerate intercettazioni?

Hotel di lusso e moto, nuovi guai in vista per Palamara. La procura ha notificato a Palamara due avvisi di garanzia per corruzione in atti giudiziari e violazione di segreto. Alberghi e scooter in cambio di favori. Michele Di Lollo, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Nuovi guai in vista per Luca Palamara. La procura di Perugia gli ha notificato altri due avvisi di garanzia per corruzione in atti giudiziari e violazione di segreto. Al centro, un hotel di lusso e l’uso di due scooter. Per un ammontare di diverse migliaia di euro. I fatti ritenuti illeciti dagli inquirenti riguardano alcuni soggiorni a Capri e l’uso di almeno due moto. Si tratta di due fascicoli per ora separati dall’indagine principale che potrebbero però confluire nello stesso eventuale processo. L’albergo pagato al magistrato dal proprietario della struttura è uno degli hotel più esclusivi dell'isola dei Faraglioni. Qui Palamara è rimasto per diverse giornate. Si tratta di quattro soggiorni: uno con la moglie nel 2011, uno con l’intera famiglia nel 2012 e due con un’amica nel 2017 e 2018. Il valore della presunta corruzione ammonterebbe a poche migliaia di euro. Per l’esattezza a 6.840 euro, ai quali l’accusa somma i 305 spesi per la macchina con autista per lo spostamento dalla stazione di Napoli all’imbarco. Perché questi favori? Secondo gli inquirenti tutto girerebbe intorno all’interessamento del magistrato per vicende legali che riguardavano un fratello del proprietario dell’hotel e la sua società. Stando a quanto racconta il Corriere della Sera, a casa di Palamara, lo scorso anno, gli agenti della guardia di finanza trovarono un verbale di verifica fiscale alla società e uno di ispezione di igiene pubblica. Poi il capitolo moto. Si tratta in questo caso del proprietario di una concessionaria, socio di Palamara nella società Kando Beach che gestisce l’omonimo bar sulla spiaggia sarda di Porto Istana, nella quale un commercialista amico di Palamara compare come "prestanome in via fiduciaria" del magistrato. A quest’ultimo il proprietario della concessionaria avrebbe garantito l’uso di due Yamaha, un X-Max 400 e X-Max 300, tra il 2018 e il 2019, nonché il pagamento delle multe fatte mentre lui utilizzava tali veicoli. Agli investigatori l’imprenditore ha spiegato che è sua abitudine prestare agli amici alcune moto in prova e che i soldi per le contravvenzioni prese da Palamara gli sono stati restituiti dal magistrato. Tuttavia, i pm Gemma Milani e Mario Formisano, insieme al procuratore di Perugia Raffele Cantone, la pensano diversamente. Secondo una loro ricostruzione, in cambio di favori il magistrato si sia interessato al buon esito di un processo che riguardava i parenti del venditore. Tutto viene ricostruito dalle intercettazioni. L’imprenditore aveva affermato: "Ho riferito a Palamara che mia moglie aveva una vicenda giudiziaria, ma mai ho chiesto a Luca di intervenire". Gli inquirenti non sono convinti di questa storia. La corruzione non sarebbe avvenuta per il generico "esercizio della funzione" di consigliere del Csm, bensì per favorire la parte di un processo. Insomma, altri problemi in vista in vista per il magistrato più chiacchierato di Italia. Qualcosa che farà discutere.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2020. Ai viaggi, gli alberghi e i lavori a casa di un'amica si aggiungono un hotel di lusso e l'uso di due scooter di grossa cilindrata. Per Luca Palamara, l'ex componente del Consiglio superiore della magistratura ed ex pubblico ministero a Roma inquisito per corruzione, arrivano nuove accuse. La Procura di Perugia gli ha notificato due avvisi di garanzia (con invito a presentarsi per l'interrogatorio) per corruzione in atti giudiziari e violazione di segreto. Le «utilità» ricevute dal magistrato, ritenute illecite dagli inquirenti, sono alcuni soggiorni a Capri e l'uso di almeno due moto, comprensivo del pagamento delle contravvenzioni. Si tratta di due fascicoli per ora separati dall'indagine principale ormai chiusa, ma che potrebbero confluire nello stesso eventuale processo. In questo caso la corruzione non sarebbe avvenuta per il generico «esercizio della funzione» di consigliere del Csm, bensì per «favorire la parte di un processo»; indirizzare le «controversie legali» che interessavano due imprenditori amici di Palamara. La violazione di segreto, invece, in concorso con l'altro ex pm romano Stefano Fava, riguarda la rivelazione di notizie pubblicate da due quotidiani il 29 maggio 2019 su un esposto presentato dallo stesso Fava al Csm contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Paolo Ielo. Stavolta l'albergo pagato al magistrato dal proprietario della struttura, Leonardo Ceglia Manfredi, è l'hotel Punta Tragara di Capri, uno dei più esclusivi dell'isola, dove Palamara è stato per sette notti, divise in quattro soggiorni: uno con la moglie nel 2011, uno con l'intera famiglia nel 2012 e due con l'amica Adele Attisani (coindagata nel procedimento principale quale «istigatrice e beneficiaria in parte delle utilità») nel 2017 e 2018. Valore complessivo della presunta corruzione: 6.840 euro, ai quali l'accusa somma i 305 spesi per la macchina con autista per lo spostamento dalla stazione di Napoli all'imbarco. La contropartita, secondo gli inquirenti, sarebbe stato l'interessamento del magistrato per vicende legali che interessavano un fratello di Ceglia Manfredi e la sua società; a casa di Palamara, lo scorso anno, gli investigatori della Guardia di finanza trovarono un verbale di verifica fiscale alla società e uno di ispezione di igiene pubblica. L'amico degli scooter, invece, è Federico Aureli, già titolare della concessionaria Aureli Moto, socio di Palamara nella società Kando Beach che gestisce l'omonino bar sulla spiaggia sarda di Porto Istana, nella quale il commercialista Andrea De Giorgio compare come «prestanome in via fiduciaria» del magistrato. Al quale Aureli avrebbe garantito l'uso di due Yamaha, un X-Max 400 e X-Max 300, tra il 2018 e il 2019, nonché «il pagamento delle multe levate mentre egli utilizzava tali motoveicoli». Ai pm l'imprendore ha spiegato che è sua abitudine prestare agli amici alcune moto in prova, e che i soldi per le contravvenzioni prese da Palamara gli sono stati restituiti dal magistrato. Ma i pm Gemma Milani e Mario Formisano, insieme al neoprocuratore Raffele Cantone, la pensano diversamente; ritengono che in cambio di moto e saldo delle multe il magistrato si sia interessato «al buon esito del processo penale nei confronti di Novelli Giovanna e Pellizzoni Patrizia». Sono la madre e la moglie di Aureli, imputate in un procedimento a Roma e assolte in primo grado. «Ho riferito a Palamara che mia moglie aveva una vicenda giudiziaria, ma mai ho chiesto a Luca di intervenire», ha riferito Aureli. Tuttavia messaggi e conversazioni al tempo delle udienze, insieme a testimonianze e atti raccolti nelle perquisizioni eseguite dai finanzieri, hanno convinto i pm del contrario. «Come si chiama moglie Aureli?», chiese Palamara, via whatsapp alle 23,52 del 27 giugno 2018, a De Giorgio che rispose: «Chi cazzo lo ricorda il nome... Sto a letto». Palamara insisteva: «È importante». La risposta arrivò il mattino seguente, e l'ex pm trasmise il nome al collega Paolo Auriemma, estraneo al procedimento contro le due signore. Nei giorni scorsi i pm di Perugia lo hanno interrogato, prima di comunicare le nuove accuse al magistrato inquisito per corruzione.

Estratto dell’articolo di Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 25 luglio 2020. […] Infine, la contestazione di rivelazione del segreto d'ufficio che coinvolge anche un altro ex magistrato romano, Stefano Fava, già indagato e oggi in servizio a Latina. Si tratta della "manovra" che, nella primavera del 2019, i due pubblici ministeri concepiscono per sporcare l'immagine dell'allora Procuratore Pignatone (di cui vogliono condizionare la successione) e del suo aggiunto Paolo Ielo. La manovra prevede che sul "Fatto" e "la Verità", quotidiani che, per ragioni opposte e a loro modo convergenti, stanno facendo (e continueranno a fare) campagna contro Pignatone e l'ipotesi di una continuità nella guida della Procura di Roma, venga rivelato e raccontato in chiave calunniosa il conflitto nato all'interno di piazzale Clodio sul fascicolo di Piero Amara, avvocato coinvolto in un giro di corruzione in atti giudiziari e consulente di Eni. Si legge infatti nell'invito a comparire della Procura di Perugia: «I due pubblici ministeri (Palamara e Fava ndr.) violando i doveri inerenti alla propria funzione, rivelavano a giornalisti dei quotidiani Il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete». Secondo l'accusa, Fava, titolare del fascicolo su Piero Amara, e «con l'aiuto e l'istigazione di Palamara » racconta ai cronisti che l'avvocato era indagato per bancarotta e frode fiscale. Di più: Fava svela ai due giornali che lui aveva chiesto due misure di custodia cautelare per l'avvocato ma che l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone non aveva apposto il visto per ragioni che avrebbero avuto a che fare con un imbarazzo inconfessabile. E che, durante le perquisizioni, era stata recuperata documentazione che dimostrava come la società calabrese Napag era stata utilizzata per riciclare denaro che l'Eni aveva fatto pervenire ad Amara: 25 milioni di euro. Gli articoli furono pubblicati dal Fatto e dalla Verità alla fine di maggio del 2019. E riferivano pedissequamente la versione imbeccata da Palamara e Fava. Delle nuove accuse, ora, Palamara dovrà rispondere davanti ai magistrati: l'interrogatorio è fissato per il 29 luglio. Il giorno dopo si terrà, sempre a Perugia, l'udienza stralcio sull'utilizzo delle intercettazioni captate con il trojan e il gip dovrà decidere quali utilizzare nel processo.

Italo Carmignani e Egle Priolo per “il Messaggero” il 30 luglio 2020. Sotto torchio per oltre otto ore, fino a notte fonda. Per rispondere delle nuove accuse di corruzione e violazione del segreto istruttorio. «Non ha veicolato nessun esposto e per il resto ha chiarito rapporti di amicizia, quasi familiari, con gli imprenditori. Lo scooter? Preso in prestito per un periodo limitato di tempo e le multe pagate direttamente o restituendo i soldi». Così, nel resoconto dei suoi legali, l' ex consigliere del Csm Luca Palamara ha risposto - dalle tre di ieri pomeriggio alle domande del procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone e dei sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano. Arrivato in procura a piedi, accompagnato dai suoi avvocati, indossava giacca e polo blu. Prima di entrare, neanche una parola. Ma che per Palamara non sarebbe stata una passeggiata è stato chiaro dopo le prime quattro ore di interrogatorio: «Ci vorrà ancora tempo», ha detto chiaro e tondo Cantone affacciandosi fuori dagli uffici di via Fiorenzo Di Lorenzo, sede della procura perugina. E il tempo se lo sono preso davvero tutto i magistrati perugini, dopo aver aggiunto tre contestazioni all' iniziale accusa di corruzione per viaggi e ristrutturazioni in cambio di favori per cui oggi l' ex presidente dell' Anm si presenterà in aula per l' udienza stralcio davanti al giudice Lidia Brutti. Il gip deve decidere quali intercettazioni telefoniche trascrivere, compresa quella che riguarda i colloqui di Palamara con Cosimo Ferri e l' ex ministro Luca Lotti. Ma intanto, appunto, la procura ha aperto due nuovi fascicoli a carico di Palamara: la più recente accusa di corruzione è relativa a quattro weekend trascorsi tra il 2011 e il 2018 con la moglie, la sua famiglia e Adele Attisani (già indagata come «istigatrice delle condotte delittuose» nel procedimento principale) in un albergo di lusso a Capri in cambio secondo la procura di favori al fratello dell' imprenditore proprietario dell' hotel. Secondo i magistrati di Perugia, poi, l' ex pm avrebbe ricevuto tra il 2018 e l' aprile 2019 due scooter dal titolare di Aureli Meccanica e pure il pagamento di alcune multe. Anche in questo caso per la procura si tratterebbe di un favore in cambio di un presunto interessamento in un processo che vedrebbe coinvolte madre e moglie del proprietario degli scooter. Tutti particolari che i legali dell' ex pm (ora sospeso e senza stipendio) hanno contestato ben prima dell' interrogatorio di ieri: gli avvocati Mariano e Benedetto Buratti e Roberto Rampioni hanno spiegato come le ultime accuse siano relative a «consolidati rapporti di amicizia risalenti nel tempo». E comunque nelle otto ore e mezza di interrogatorio, Palamara ha chiarito come non ci sia stata «nessuna interferenza: tutte le udienze si sono tenute con regolarità». L'ulteriore fascicolo sull'accusa di violazione di segreto - in concorso con l' altro ex pm romano Stefano Fava riguarda invece la rivelazione di notizie circa un esposto presentato dallo stesso Fava al Csm contro l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Paolo Ielo, nell' ambito della battaglia per la successione alla procura romana, per quel «mercato di toghe» per cui Palamara è sotto procedimento disciplinare. In questo caso, nel mirino c' è la riunione del 9 maggio 2019 all' hotel Champagne per parlare di nomine ai vertici degli uffici giudiziari di Roma ma anche di Perugia, come emerso dalle conversazioni intercettate dal trojan inoculato nel cellulare di Palamara e di cui si parlerà oggi in aula, dopo la memoria presentata dai suoi legali e la risposta veemente della procura. La battaglia è solo iniziata.

Palamara interrogato per otto ore in procura: "Le multe pagate e i weekend a Capri? Frutto di amicizie di vecchia data". Pubblicato mercoledì, 29 luglio 2020 da Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it. L'ex consigliere del Csm accusato di corruzione e rivelazione del segreto d'ufficio respinge le accuse, il suo avvocato: "Abbiamo chiarito tutto, mai interferito con altri processi". Era quasi mezzanotte quando l'ex consigliere del Csm Luca Palamara ha lasciato l'ufficio dei pm che lo accusano di corruzione. Otto ore di interrogatorio per rendere conto di tre nuove contestazioni: la rivelazione del segreto d'ufficio verso due quotidiani, in concorso con il collega Stefano Fava, e alcuni episodi di corruzione. Uno riguarda l'uso di due scooteroni di Federico Aureli, titolare di un concessionario, e il pagamento di numerose multe che l'ex presidente dell'Anm avrebbe preso con quel mezzo. L'altra imputazione ha a che fare con quattro weekend a Capri, tra il 2011 e il 2018, nel lussuosissimo hotel Punta Tragara, omaggio del titolare Leonardo Ceglia Manfredi. Sia le moto sia i soggiorni, secondo l'accusa, sarebbero stati offerti a Palamara in cambio di un suo interessamento a processi che coinvolgevano parenti dei suoi generosi amici. "Abbiamo chiarito tutto - ha detto il legale di Palamara, Benedetto Marzocchi Buratti, lasciando gli uffici giudiziari - precisando che si tratta, per quello che riguarda Ceglia Manfredi e Aureli di amicizie di vecchia data. Addirittura i figli del mio assistito chiamano Aureli "zio". Gli scooter erano in Sardegna a disposizione degli ospiti, li ha usati Palamara come tanti altri. E in nessuno dei due casi il dottor Palamara ha interferito con processi che riguardavano loro parenti, come peraltro precisato dal presidente della Corte d'Appello di Roma Luciano Panzani nella sua relazione". Infine la rivelazione del segreto d'ufficio: i pm Gemma Miliani e Mario Formisano accusano Palamara e Fava di avere veicolato informazioni riservate a "Il Fatto Quotidiano" e "La Verità". La vicenda è quella dell'esposto inviato al Csm da Fava in cui quest'ultimo accusava l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Paolo Ielo di non aver vistato le sue richiesta di custodia cautelare per l'avvocato Piero Amara a causa di interessi personali. "Anche su questo - ha concluso il legale - abbiamo dimostrato come nei giorni della pubblicazione dell'articolo Palamara non abbia avuto alcun contatto coi giornalisti di quelle testate".

Italo Carmignani ed Egle Priolo per ''Il Messaggero'' il 31 luglio 2020. Luca Palamara ha spiegato per otto ore mercoledì, ma non è detto che la procura perugina gli abbia creduto. Anzi. Otto ore fino a notte inoltrata per contestare le nuove accuse che la squadra di Raffaele Cantone muove all' ex pm: la violazione del segreto istruttorio sull' esposto presentato dall' ex pm Stefano Fava al Csm contro l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l' aggiunto Paolo Ielo, più due casi di corruzione per quei quattro weekend trascorsi tra il 2011 e il 2018 in un albergo di lusso a Capri in cambio di favori al fratello dell' imprenditore proprietario dell' hotel e i due scooter che Palamara avrebbe ricevuto tra il 2018 e l' aprile 2019 dal titolare di Aureli Meccanica con tanto di pagamento di alcune multe. Anche in questo caso per la procura si tratterebbe di regalie in cambio del suo interessamento in un processo che vedrebbe coinvolte madre e moglie del proprietario degli scooter. Otto ore di serrata partita a ping pong, tra contestazioni precise, mirate e quelle carte che per i sostituti procuratori Gemma Miliani e Mario Formisano rappresentano prove granitiche. L' ex consigliere del Csm ha risposto punto per punto: i viaggi deluxe a Capri con la famiglia, la moglie e l' amica Adele Attisani? Frutto di «rapporti di amicizia decennale con Leonardo Ceglia Manfredi (titolare della srl proprietaria del Punta Tragara, cinque stelle da 500 euro al giorno, ndr) e nessun interessamento su procedimenti che riguardano lui o i suoi familiari», ribattono i legali. Gli scooter? Solo un mezzo «a disposizione degli amici in Sardegna, preso in prestito per un periodo limitato di tempo e le multe pagate direttamente o restituendo i soldi». La comunicazione del nome della moglie dell' imprenditore al pm romano che seguiva il caso? Nessuna interferenza, ma solo «un interessamento» per conoscere le novità sul procedimento delle parenti di un amico praticamente fraterno. L' accusa sull' esposto invece ha sollevato questioni interne al Csm, dinamiche interne alla procura di Roma, nell' ambito della successione a Pignatone, con quella fuga di notizie contestata dai legali dell' ex presidente dell' Anm perché «le notizie uscite sui giornali erano già note». E non fossero bastate le otto ore di mercoledì («Poi vedremo gli sviluppi», ha vaticinato la difesa), ieri mattina Palamara si è trovato di nuovo davanti ai pm perugini e al gip Lidia Brutti, che deve decidere quali intercettazioni trascrivere nell' ambito del procedimento principale che vede l' ex pm indagato sempre per corruzione per le ristrutturazioni e altri viaggi (da Favignana a Londra fino a Dubai) regalati secondo la procura per favori all' imprenditore Fabrizio Centofanti. Più strateghi che sfibrati, gli avvocati hanno rinunciato a presentare eccezioni davanti al gip all' acquisizione delle intercettazioni, comprese quelle parlamentari che vedono coinvolti anche Cosimo Maria Ferri, deputato di Italia viva e giudice in aspettativa, e l' ex ministro Luca Lotti, entrambi non interessati dal procedimento perugino. «Per quanto riguarda le intercettazioni che coinvolgono i parlamentari riteniamo che sia competente la Camera dei deputati», ha detto però al termine dell' udienza l' avvocato Benedetto Buratti. Tutto rinviato quindi al 21 settembre per la nomina del perito. Data utile per la difesa per studiare tutte le carte, ma anche perché successiva al 15, quando inizia il procedimento disciplinare (con il Csm che ha già detto no alla ricusazione di Piercamillo Davigo) sul cosiddetto mercato delle toghe e il «sistema delle correnti» in magistratura. Per quelle nomine pilotate, è l' accusa, a Roma come a Perugia. Dove, però, dopo il terremoto nel Csm, l' ha spuntata proprio Cantone.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 agosto 2020. «Ormai sono come Severino Citaristi, lo storico tesoriere della Democrazia cristiana». Con i suoi legali l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati Luca Palamara non perde il gusto per la battuta dopo l' arrivo di quattro nuove incolpazioni inviate dalla Procura generale della Cassazione per le celeberrime 49.000 pagine di chat intrattenute con decine di colleghi e non. Citaristi è famoso per l' infinito numero di avvisi di garanzia che gli vennero notificati durante Mani pulite. «Ma a quante incolpazioni arriverò? A cento?» ha provato a sdrammatizzare con i suoi legali. Interpellato dalla Verità l' avvocato Benedetto Buratti ci ha confermato la notifica delle nuove incolpazioni. Accompagnando la notizia con questo commento: «Tuttavia il quadro rischia di rimanere parziale basandosi esclusivamente sulle chat contenute nel telefono del dottor Palamara ed impedendo in questo modo il raffronto con i messaggi contenuti nei telefonini di altri esponenti del Consiglio superiore della magistratura». Purtroppo per Palamara i pm di Perugia hanno sequestrato solo il suo smartphone. Per questo nella rete della Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, sono rimasti invischiati solo i magistrati che hanno intrattenuto comunicazioni ambigue con la toga sotto indagine.

Tra quelli raggiunti dalle nuove notifiche e accusati di gravi scorrettezze c'è Valerio Fracassi, già capogruppo di Area (il cartello delle toghe progressiste) nel Csm nella scorsa consiliatura. Fracassi è finito nei guai per una chat di cui questo giornale ha dato conto sia sull' edizione cartacea che su quella online. Lui e Palamara sono accusati di illecito disciplinare, il primo in qualità di consigliere del Csm, il secondo come presidente della quinta commissione, quella che si occupa dell' assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi. Il messaggio di Fracassi che ha innescato l' incolpazione è datato 12 febbraio 2018: «Ti prego di non pubblicare il posto di pst (presidente di sezione del Tribunale, ndr) Brindisi che è quello in cui tornerò. Il decreto di pensionamento del collega che è andato via non è stato notificato. E comunque è una pubblicazione destinata alla revoca. E non mi sembra uno scandalo mantenere un posto in cui tra qualche mese per legge tornerò anche in soprannumero». Alla richiesta Palamara risponde così: «Ciccio su questo lo sai che hai un fratello». Fracassi: «Mi dicono che nell' elenco predisposto per la pubblicazione c' è pst Brindisi. Per favore parla con Iacovitti e fallo togliere prima che parta l' istruttoria». Palamara: «Provvedo subito». Passa mezz' ora e l' ex presidente dell' Anm informa il collega: «Già servito Ciccio. L' ho fatto togliere». Adesso i due «cicci» sono incolpati. E nell' atto di incolpazione si legge proprio che Fracassi otteneva da Palamara «di espungere dai posti di imminente pubblicazione quello di presidente di sezione del Tribunale di Brindisi () ufficio poi effettivamente ricoperto alla fine del mandato consiliare ()». Fracassi, dopo la pubblicazione dell' articolo della Verità, inviò una mail ai colleghi in cui spiegava la sua versione: «Io "dovevo" tornare lì (posto di provenienza) "anche" in soprannumero (dunque nessuna promozione). Qualunque amministrazione seria non copre il posto, appena liberatosi e a pochi mesi dal mio rientro in ruolo». Per lui indire un bando sarebbe stato uno sbaglio, con conseguente rischio di revoca. «La faccenda era stata già spiegata all' amico Palamara che assicurava di aver compreso. E invece se n' era dimenticato. Nella concitazione del momento è stato usato il messaggio che più poteva recepire l' interlocutore per una questione che non era un "favore", ma evitare un errore». La Procura generale deve averla pensata diversamente.

Un altro magistrato che è rimasto impantanato nelle chat con Palamara, è Stefano Pizza, esponente di Unicost, oggi pubblico ministero a Roma. In questo caso la grave scorrettezza è quella ai danni della collega Arianna Ciavattini, finita nel mirino per aver chiesto l' assoluzione di Elismo Pesucci, ex sindaco di Campagnatico, politico di cui Pizza aveva ottenuto l' arresto preventivo quando lavorava a Grosseto. Il nocciolo della questione viene riportata in numerosi messaggi Whatsapp, intercorsi tra il 27 ottobre 2017 e il 10 giugno 2018: la Ciavattini ha un passato da militante nei giovani di Forza Italia, la madre è stata eletta con il partito di Berlusconi in Provincia e l' imputato è pure lui un forzista. Per la Procura generale Palamara e Pizza «ponevano in essere () reiterati e gravi comportamenti scorretti nei confronti della dottoressa Ciavattini, sostituto presso la Procura di Grosseto, consistiti in un' attività di "intenso dossieraggio", vale a dire di raccolta di informazioni, relazioni di polizia giudiziaria, documenti, articoli di stampa sulla pregressa attività politica svolta dalla predetta in epoca antecedente al suo ingresso nei ruoli della magistratura, nonché di quella svolta dalla madre, Doretta Guidi, ed ancora di raccolta di informazioni sui suoi rapporti con la polizia giudiziaria, con gli avvocati del Foro, sulle conclusioni da lei adottate in vari processi, al fine di screditare la predetta predisponendo una raccolta di tale materiale che veniva posto a disposizione dapprima dal dottor Pizza e poi dal dottor Palamara di alcuni giornalisti non meglio identificati» al fine di «screditare» la Ciavattini. Non riuscendo nell' intento di far pubblicare gli articoli, «detto materiale formava oggetto di un esposto anonimo predisposto e inviato, sulla base dei messaggi scambiati, dal dottor Pizza, previo accordo con il dottor Palamara» alla prima commissione del Csm, alla Procura generale della Cassazione e al consiglio giudiziario della Corte d' Appello di Firenze «al fine di sollecitare questi organi () nei confronti» della Ciavattini.

La Procura generale ha fatto le pulci anche al vecchio capo dell' ufficio, l' ex pg Riccardo Fuzio oggi in pensione, per cui spese parole di elogio anche Sergio Mattarella al momento del congedo. E così Fuzio e Palamara sono stati incolpati per le presunte trame ai danni di Maria Giuseppina Fodaroni, sostituto procuratore generale della Cassazione che all' epoca era stata incaricata del procedimento disciplinare contro Giuseppe Campagna, presidente della sezione civile del Tribunale di Reggio Calabria e compagno di squadra nella rappresentativa magistrati di Palamara. Quest' ultimo il 3 maggio 2018 scrive a Fuzio: «Foderoni (sic, ndr) oggi male». Risposta: «Disciplinare? Chi? Giubilaro?». Palamara: «Campagna. Ci tengo moltissimo. Te lo avevo detto. Pre istruttoria». Fuzio: «Non mi ha riferito». Palamara: «Fatti dire da lei». Fuzio: «Ma come mai fissato così presto?». Palamara: «Non lo so. Lo ha sentito oggi». Il giorno dopo Palamara torna alla carica: «Hai novità? Domenica dobbiamo fare il punto su tutto. Sarà settimana calda». Fuzio: «La Fodaroni è sparita». Palamara: «Appunto. Recuperala». Il 21 maggio il magistrato sotto inchiesta sbotta: «Ma 'sta cazzo di Foderoni dove l' avete trovata?». E Fuzio gli propone una chiacchierata a quattr' occhi davanti a «una pizzetta» del bar Florian. Due mesi dopo Palamara riscrive: «Ti ricordi Foderoni Campagna?». Fuzio: «Risolto. Lo scrivo io. Già parlato anche con Salvato». Palamara: «Bene». C' è, infine, in attesa delle prossime, l' incolpazione per la chat con l' albergatore sardo Edoardo Grillotti assillato da un procedimento civile giunto in Cassazione contro la Regione. Pare di capire che queste prime quattro incolpazioni siano solo l' inizio di una nuova slavina che rischia di minare ulteriormente la credibilità del sistema giudiziario.

Magistratopoli, Palamara "inguaia" Pignatone: gli presentò il lobbista Centofanti. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Luglio 2020. Fu molto probabilmente Luca Palamara a presentare il lobbista Fabrizio Centofanti all’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. La circostanza pare emergere dall’inchiesta di Perugia che vede l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati indagato per corruzione. Una conoscenza, quella di Centofanti, che rischia di mettere in grande imbarazzo Pignatone il quale, dopo essere andato in pensione lo scorso anno per raggiunti limiti di età, è stato nominato da Papa Francesco presidente del Tribunale supremo pontificio. Il fatto che Palamara possa aver presentato Centofanti a Pignatone, il condizionale è d’obbligo, potrebbe dunque essere il motivo che causò la rottura dei rapporti fra i due magistrati. Rapporti che erano sempre stati, come spesso ricordato da Palamara, di strettissima collaborazione e stima reciproca. Secondo i pm umbri Gemma Miliani e Mario Formisano, Palamara sarebbe stato a “libro paga” di Centofanti. Per lui l’accusa è di “corruzione per esercizio della funzione”. Il lobbista, classe 1972, avrebbe pagato per anni viaggi e soggiorni in Italia e all’estero al magistrato romano.Il primo pagamento per questi viaggi risalirebbe, come si legge nel capo d’imputazione della Procura di Perugia, al 2011. Palamara era allora presidente dell’Anm. Tre anni più tardi sarebbe stato eletto, nelle liste della corrente di centro Unicost, al Consiglio superiore della magistratura. Durante tutto il periodo di Palamara al Csm, Centofanti avrebbe continuato a pagargli viaggi e soggiorni. L’ultimo soggiorno pagato, ad Ibiza, risale all’estate del 2017. Palamara ha comunque già detto di poter provare che si trattava di anticipi all’interno di un rapporto amicale risalente nel tempo e che non hanno condizionato la sua attività di consigliere del Csm. Il fatto è stato provato dal gip di Perugia che lo ha escluso: «Il contributo del singolo consigliere non può assumere rilievo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale e non sono stati individuati specifici comportamenti anti/doverosi attribuibili a Palamara». A febbraio del 2018 Centofanti viene arrestato nell’ambito di una indagine condotta dal procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo. Fra le accuse, associazione a delinquere finalizzata alle fatture false per diverse società a lui riferibili. Fra queste, Energie nuove, una società operante nel settore delle energie rinnovabili. Nella galassia societaria di Centofanti c’era anche Cosmec, il Centro organizzativo di seminari, mostre, eventi e comunicazione, che aveva sede a Roma in via Cassiodoro, una società attiva nell’organizzazione di convegni giuridici. Secondo gli investigatori, dietro alla organizzazione e gestione di meeting e convegni a cui partecipavano alti magistrati, c’era l’interesse di Centofanti a sviluppare conoscenze in ambienti istituzionali e politici. Con gli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, Centofanti è poi indagato a Messina in un procedimento per corruzione in atti giudiziari, il cosiddetto “sistema Siracusa”, per pilotare processi davanti ai giudici amministrativi. Fu lo stesso Pignatone, durante una riunione a piazzale Clodio il 16 novembre del 2016, alla presenza di Paolo Ielo e dell’altro aggiunto Giuseppe Cascini che indagava su Centofanti, ad ammettere di conoscerlo. La dichiarazione è stata riportata dal pm Stefano Fava, all’epoca nel dipartimento dei reati contro la Pa diretto da Ielo. In una annotazione successiva, Fava riporterà anche un colloquio avuto il 24 novembre 2016 con il capitano Silvia Di Giamberardino, alla presenza dei marescialli Michele Iammarone e Cristin Amori, all’epoca in servizio presso il Nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza (delegati all’indagine nei confronti di Centofanti, ndr)”. L’ufficiale avrebbe detto a Fava che «i rapporti fra lui (Centofanti) e Pignatone sono “molto stretti”, che sono stati visti molte volte a cena anche alla presenza del generale della guardia di finanza Minervini (Domenico, già comandante interregionale dell’Italia centrale, condannato nel 2017 per corruzione, ndr), che il generale Minervini trascorre tutte le estati un periodo di vacanza presso l’hotel Tramontano in Sorrento di proprietà della famiglia Iaccarino cui appartiene, per linea materna, la moglie di Centofanti Andrea (fratello di Fabrizio), ufficiale della guardia di finanza». Andrea Centofanti sarà poi arrestato a Genova, sede che non era stata di suo gradimento, per concussione in danno di un notaio. Pignatone, a tal proposito, dichiarò che su “pressante richiesta” di Fabrizio Centofanti si era interessato con il comandante generale della finanza Saverio Capolupo “mio buon amico” affinché il fratello potesse, invece, rimanere in servizio in Lombardia. Nel processo in corso a Roma Centofanti è difeso dall’avvocato Franco Coppi.

Quarta Repubblica, Alessandro Sallusti su Luca Palamara: "Un processo alla magistratura, tirerà giù tutti". Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. Come andrà a finire il caso che sta travolgendo la magistratura italiana e che vede Luca Palamara come epicentro? Un'idea, ben precisa, ce l'ha Alessandro Sallusti, il quale la snocciola nel corso di Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4, la puntata è quella di lunedì 13 luglio. Si parla della lunga lista di teste presentata dall'ex membro del Csm e il direttore de Il Giornale va dritto al punto: "Palamara per il suo processo davanti al Csm ha chiamato 104 illustri testimoni - premette -. Sarà un processo alla magistratura italiana perché Palamara non vuole affondare da solo ma tirerà giù tutti", conclude Sallusti profetizzando una sorta di tsunami sull'intera magistratura.

Magistrati alla sbarra. L'ex capo dell'Anm pronto a difendersi nel procedimento al Csm. Il nodo delle promozioni delle toghe coinvolte nei processi all'ex premier. Luca Fazzo, Martedì 14/07/2020 su il Giornale. Centotrentatrè testimoni per un processo alla magistratura, alle sue correnti, alle manovre, alle spartizioni, agli accordi sottobanco che per dieci anni hanno governato la lottizzazione degli uffici giudiziari di tutta Italia. Ieri Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, indagato per corruzione, deposita la lista dei testimoni che chiede alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di interrogare nel procedimento contro di lui. Palamara sa di rischiare la cacciata, sa che la sua toga è appesa un filo. E decide di vendere cara la pelle. La lista che deposita ieri è potenzialmente devastante: per i personaggi chiamati a deporre, e per gli argomenti trattati. Alcuni esplicitamente, alcuni tra le righe, ma altrettanto comprensibili. Compreso il capitolo di prova su cui Palamara chiede che risponda Ernesto Lupo, ex primo presidente della Cassazione, numero 80 della lista: «Sulla autonomia della scelta decisionale della commissione incarichi direttivi e del plenum del Csm», si legge, «ed in particolare su quelle effettuate nella consiliatura 2014-2018». Nel mirino finiscono in questo modo le promozioni ad incarichi superiori di alcuni dei magistrati che in quegli anni avevano contribuito alle sentenze di condanna di Silvio Berlusconi. La riprova di quanto Palamara ha detto a più riprese nei giorni scorsi sulla necessità di capire bene come andarono i processi al Cavaliere. Incredibilmente, a sette giorni dall'udienza contro Palamara non si sa ancora chi comporrà la sezione disciplinare del Csm: come se si faticasse, tra i membri del Consiglio superiore, a trovare qualcuno disposto a affrontare l'esplosivo materiale sottoposto dall'incolpato. A partire dalla prima scelta, la più delicata: quali e quanti testimoni ammettere dei 133 della lista. Ovvero: quanto consentire a Palamara di allargare il campo di battaglia. Nella lista ci sono politici, uomini delle istituzioni, magistrati. Tra questi ultimi, quasi l'intero gruppo dirigente delle correnti che hanno governato il Csm: da Edmondo Bruti Liberati a Claudio Castelli a Piercamillo Davigo a Antonangelo Racanelli, tutti chiamati a raccontare come funzionassero davvero i rapporti con i partiti politici, a partire della nomina del vicepresidente del Csm. Ci sono due ex ministri della Giustizia (Flick, Orlando). E ci sono magistrati famosi o sconosciuti, tutti chiamati a rispondere alla stessa cruciale domanda: «l'esistenza o meno di una prassi costante, da parte dei magistrati aspiranti agli incarichi direttivi, di conferire direttamente o per interposta persona con i componenti in carica del Csm». È la prassi della raccomandazione, delle cordate. E la comparsa di alcuni nomi nella lista fa capire che Palamara è pronto a rinfacciargli di avere bussato a lungo alla sua porta. C'è, altrettanto micidiale, la lista dei testi che secondo Palamara devono spiegare come nasce davvero l'indagine di Perugia nei suoi confronti, a partire dalla battaglia per la guida della Procura di Roma. Ci sono ufficiali e sottufficiali del Gico della Finanza, chiamati a raccontare perchè il trojan venne installato, e perché andava a intermittenza. Ci sono casi in cui funzionava anche a dispetto degli ordini dei pm, come quando registra l'incontro tra Palamara e il deputato Cosimo Ferri, coperto dall'immunità. Altre volte si spegne inspiegabilmente. A partire dalla misteriosa interruzione la sera del 21 maggio 2019, quando il dialogo tra Palamara e l'allora pg della Cassazione Riccardo Fuzio sparisce dai radar alle 21.53: è la chiacchierata in cui, secondo voci che circolano da tempo, viene esplicitamente evocato il ruolo del presidente della Repubblica. Che il Quirinale non possa essere lasciato fuori dalla vicenda, lo dice anche l'inserimento nella lista di Stefano Erbani, consigliere giuridico di Sergio Mattarella, uomo di collegamento tra il Colle e il Csm. Al centro di tutto, il casus belli che segna l'inizio della sua fine, per Palamara resta la partita per la Procura di Roma. E qui tira in ballo tutti, dal vecchio capo Giuseppe Pignatone che avrebbe partecipato anche lui agli incontri con il renziano Luca Lotti, al procuratore aggiunto Paolo Ielo, a casa del quale nel settembre 2014 si sarebbero riuniti oltre a Pignatone e Palamaara, altri tre big dell'Anm «sul tema dell'organizzazione della Procura di Roma, anche con riferimento a future nomine dei procuratori aggiunti». È la cena in cui secondo Palamara dopo l'elezione del nuovo Csm le correnti di centro e di sinistra (Unicost e Area) si spartiscono la Procura capitolina. Eravamo, dice in sostanza Palamara, tutti allo stesso tavolo. E funzionava così, dalla notte dei tempi: chiede che venga interrogato dal Csm persino l'ottuagenario Cesare Mirabelli, che era in Csm tra il 1986 e il 1990, oltre trent'anni fa. I magistrati di tutta Italia lo sapevano e facevano la fila per il nostro aiuto quando aspiravano a una procura, a un tribunale, una corte d'appello. Un mercato a cielo aperto di cui facevano parte, scrive Palamara, «segretari, riferenti locali ed esponenti dei gruppi associativi; componenti togati ed ex togati; componenti laici e i loro diretti referenti nel mondo della politica; aspiranti agli incarichi conferiti dal Csm». Se glielo lasciano fare, sarà un processo divertente.

Da adnkronos.com il 14 luglio 2020. Dall'ex ministro della Giustizia e vicesegretario del Pd Andrea Orlando, al magistrato e scrittore Gianrico Carofiglio, ai presidenti emeriti della Consulta, Cesare Mirabelli e Giovanni Maria Flick. E' lungo l'elenco dei testimoni per i quali la difesa di Luca Palamara, l'avvocato Stefano Giaime Guizzi, ha chiesto alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistraturala la citazione, in vista dell'udienza prevista il prossimo 21 luglio. L'elenco, che conta 133 nomi, comprende tra gli altri l'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti, l'ex senatrice Anna Finocchiaro, l'attuale vicepresidente di Palazzo dei Marescialli David Ermini e gli ex Michele Vietti e Giovanni Legnini, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, i pm romani Domenico Ielo, Sergio Colaiocco Luca Tescaroli, l'ex presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per "la Verità" il 14 luglio 2020. La lista testimoni presentata da Luca Palamara al Csm in vista della prima udienza davanti alla sezione disciplinare, se verrà accolta, potrebbe disvelare urbi et orbi come sia stata gestita in Italia la giustizia dagli anni Ottanta a oggi. Infatti la scelta dei 126 testi indicati dal pm sotto inchiesta per corruzione a Perugia ha l' ambizione di mettere a nudo l' ipocrisia di un sistema che adesso vuole processare uno dei vecchi leader per comportamenti che, è la tesi di Palamara, sono stati prassi per decenni. Insomma il mercato delle toghe non è una sua invenzione, come non lo è l' incestuoso rapporto tra toghe e politica. La prima parte dei testimoni sono collegati alle specifiche accuse, mentre un' altra cinquantina di testi sembrano inseriti per consentire un processo all' intero sistema. Tra gli obiettivi della Palamara' s list ci pare di intravedere in Quirinale. Il consigliere di Sergio Mattarella, Stefano Erbani, sarà chiamato a riferire, tra le varie cose, sulle «tematiche inerenti i rinvii dei procedimenti» disciplinari e in particolare quello relativo a Henry John Woodcock, il pm del caso Consip. Erbani dovrebbe anche parlare del suo interessamento per le audizioni degli candidati all' incarico della Procura di Roma, fortemente volute dal Quirinale, quando ormai i giochi a favore di Marcello Viola sembravano fatti. Palamara tira in ballo pure un altro consigliere di Mattarella, Francesco Saverio Garofani, questa volta per i rapporti e i colloqui intrattenuti con l' onorevole Luca Lotti e in particolare «con riferimento alle vicende relative al Csm». Come dire: se io Palamara sono incolpato perché frequentavo l' indagato Lotti, perché Garofani poteva incontrarlo per trattare le stesse questioni? Palamara vorrebbe sentire anche Ernesto Lupo, già consigliere di un altro presidente, Giorgio Napolitano, ed ex componente di diritto del Csm. Lui, come molti altri testimoni, dovrebbe riferire «sulla prassi costante» delle «interlocuzioni preliminari» degli aspiranti vicepresidenti del Csm con i membri togati del parlamentino e con correnti e Anm e sugli «accordi i più ampi possibili» per «la rapida nomina dei vertici degli uffici giudiziari»; ma anche sulla «prassi costante» da parte dei magistrati aspiranti agli incarichi direttivi o a quelli fuori ruolo «di conferire direttamente, o per interposta persona» con i membri del Csm. Lupo dovrebbe testimoniare anche «sulla natura dei rapporti tra la componente laica del Csm e i partiti politici di riferimento», oltre che «sulle modalità di conferimento degli incarichi di presidente di sezione della Corte di Cassazione». Il riferimento, neppure troppo velato, pare essere alla nomina di Amedeo Franco, il giudice della Cassazione che aveva chiesto l' ausilio di Lupo per la propria promozione e che prima di ottenerla aveva fatto parte del collegio che aveva condannato Silvio Berlusconi, salvo successivamente pentirsene. Palamara ha inserito nella sua lista anche diversi vicepresidenti del Csm: David Ermini, ancora in carica, Giovanni Legnini, Michele Vietti, Nicola Mancino e Cesare Mirabelli. Citati pure due ex candidati a quella poltrona come Massimo Brutti (contro Legnini) e Giovanni Maria Flick (contro Vietti). A tutti, come a Lupo, viene chiesto di esprimersi sui rapporti tra Csm e politica e sulle dinamiche delle nomine. Ermini dovrebbe essere sentito «sulla ragione dei suoi colloqui» con Palamara e del suo rapporto con Lotti, mentre il procuratore della Dna Federico Cafiero De Raho dovrebbe confermare di aver ascoltato Palamara parlare dell'inchiesta di Perugia, quando non era ancora esplosa ufficialmente, proprio in presenza di Ermini. Legnini dovrebbe essere compulsato a proposito di una conversazione avuta con l' ex ministro Paolo Cirino Pomicino e intercettata nell' ambito dell' inchiesta Consip. In essa si parlava di Woodcock «nel periodo di svolgimento del procedimento disciplinare nei confronti dello stesso» e proprio per questo Legnini dovrebbe anche spiegare «le ragioni del rinvio» di quel processo. Ma Legnini è stato convocato anche per parlare dei «rapporti di conoscenza e di frequentazione» tra Palamara e Lotti «nonché della presenza in tali occasioni tra gli altri anche del Procuratore Giuseppe Pignatone». Il riferimento è ad almeno una cena a casa dell'ex consigliera del Csm Paola Balducci, chiamata anch' ella a dire la sua su quell' incontro conviviale. I procuratori aggiunti do Roma Rodolfo Sabelli e Stefano Pesci sono, invece, chiamati a testimoniare «sulle ragioni per cui fu organizzata una cena a casa del dottor Ielo nel settembre del 2014 tra i dottori Palamara, Cascini, Sabelli, Pignatone, Pesci e Ielo». Dovranno anche dire «se nel corso della cena vi fu un confronto di opinioni, tra i presenti, sul tema della organizzazione della Procura di Roma, anche con riferimento a future nomine dei procuratori aggiunti». Pare di capire che in quell' occasione di discusse della formazione della futura squadra di Pignatone in cui entrarono come vice proprio Sabelli, Ielo e Cascini (Pesci solo successivamente). L' ex consigliere del Csm Lucio Aschettino dovrà parlare delle «vicende relative alla nomina dei quattro posti di procuratore aggiunto a Roma tra il febbraio e l' aprile 2016». Di cene insieme e dei buoni rapporti di Palamara con Pignatone, ma anche con Paolo Ielo, dovrebbero riferire anche il giudice romano Paola Roia e l' ex presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri. Palamara ha chiamato a testimoniare anche l' amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e l' ex dirigente del cane a sei zampe Claudio Granata «sulle modalità dell' incarico conferito all' avvocato Domenico Ielo e sull' assenza di qualsiasi richiesta di informazioni, al riguardo, da parte del dottor Palamara». Il riferimento è al presunto dossier che qualcuno avrebbe cercato di confezionare contro Paolo Ielo, il cui fratello Domenico era un consulente della compagnia petrolifera. Il tema del possibile conflitto di interessi di Ielo e del procuratore Pignatone era stato sollevato dal pm Stefano Fava, il quale aveva presentato anche un esposto al Csm. Denuncia a cui Palamara non vuole essere collegato, ma che a suo dire avrebbe creato grande agitazione. Per questo viene citata un' intercettazione del 7 maggio 2019 tra lo stesso Palamara e l' allora componente del comitato di presidenza del parlamentino dei giudici Riccardo Fuzio, il quale riferisce di un rallentamento dell' esposto: «La cosa è un poco strana. C' è qualcuno che dice facciamo fare una relazione al procuratore generale». All' epoca pg della Corte d' appello era Giovanni Salvi, oggi il grande accusatore di Palamara & c. Un altro importante capitolo riguarda i politici. Palamara nella sua lista ha inserito diversi esponenti di spicco del Pd, oltre a Legnini ed Ermini, come l' ex presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti (che avrebbe perorato alcune nomine), l' ex Guardasigilli Andrea Orlando, l' ex ministro della Difesa Roberta Pinotti (che avrebbe partecipato nel dicembre 2014 a casa di del lobbista Fabrizio Centofanti a una cena con Palamara e Pignatone) e gli ex senatori-magistrati Anna Finocchiaro e Gianrico Carofiglio (citato in una chat per una cena), anche loro da sentire sulla questione delle nomine e dei rapporti magistratura-politica. Palamara tira pesantemente in mezzo pure le correnti chiedendo ai loro vertici di rispondere sulle «prassi costanti». Per questo sono stati convocati Antonella Magaraggia dei Verdi e Claudio Castelli di Md, oltre a Eugenio Albamonte e Cristina Ornano, oggi ai vertici di Area. Convocati anche ex consiglieri del Csm di Area come Valerio Fracassi e Piergiorgio Morosini. Ma la compagine di testimoni più nutrita è quella dei vecchi compagni di corrente di Palamara, quella di Unicost, a partire dal presidente e dal segretario Mariano Sciacca e Francesco Cananzi.

Procuratori. C' è poi la lista dei magistrati promossi che dovranno andare a spiegare come sono finiti a ricoprire certe posizioni. Ci sono toghe molto stimate da Legnini come Francesco Testa, Guido Campli e Anna Maria Mantini; i procuratori di Milano Francesco Greco (da sentire sulle «sui rapporti e sulle ragioni della sua interlocuzione» con Palamara) e di Bologna Giuseppe Amato, gli ex procuratori generali di Milano e Napoli Roberto Alfonso e Luigi Riello, nominati nello stesso pacchetto con cui divenne pg anche il pg della Cassazione Salvi. Nel menù pure l' ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Tra i testimoni pure i vecchi sfidanti per la poltrona di procuratore di Palermo Franco Lo Voi e Guido Lo Forte. Invitato pure l' ex aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che con ogni probabilità dovrà ricostruire la vicenda legata allo scontro con il Quirinale per le intercettazioni di Napolitano nell' ambito dell' inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia. Infine un capitolo chiave riguarda magistrati e investigatori collegati all''inchiesta o comunque appartenenti alla Procura di Perugia. Il primo a essere chiamato in aula dovrebbe essere Gerardo Mastrodomenico, ex comandante del Gico di Roma. Lui e altri colleghi e i tecnici addetti alle intercettazioni dovranno spiegare il perché dei buchi nelle registrazioni con il trojan e perché le captazioni non siano state interrotte quando era chiaro che agli incontri avrebbero partecipato dei politici, le cui comunicazioni sono protette dalla Costituzione. Alcuni testimoni serviranno a dimostrare «la notorietà dei rapporti di conoscenza» tra Palamara e l' ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy «nonché la notorietà dell' esistenza di una indagine nei confronti dello stesso dottor Palamara presso la Procura di Perugia». Il pm perugino Paolo Abritti è invece chiamato a spiegare perché comunicasse con Palamara sulla chat protetta Telegram e a descrivere «modalità e ragioni dei contatti, nel mese di luglio 2018» (mentre era in discussione al Csm il trasferimento del procuratore aggiunto di Perugia Antonella Duchini) e su un «colloquio del 24 novembre 2018». In questo caso quella di Palamara sembra una piccola molotov lanciata dentro la Procura che lo sta indagando.

Magistratopoli, Palamara porta alla sbarra 133 testimoni: tutti i nomi. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Luglio 2020. «La storia deve essere riscritta», afferma Luca Palamara appena uno dei suoi legali, l’avvocato romano Benedetto Marzocchi Buratti, è uscito dall’ingresso di via Vittorio Bachelet dopo aver depositato, nell’ultimo giorno utile, la maxi lista testi in vista del disciplinare. Palamara ha lavorato tutto il weekend con il consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, che lo assisterà nel processo disciplinare, alla redazione della lista. La prima udienza è in calendario per il 21 luglio. Il “dream team” di Palamara fa tremare i polsi. Fonti del Csm che in questi anni ne hanno viste di tutti i colori dicono che “ci vuole coraggio” nel presentare una lista del genere. Non manca nessuno. Ci sono innanzitutto i magistrati Paolo Ielo, Francesco Lo Voi, Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita, Gaspare Sturzo, Riccardo Fuzio, Cafiero de Raho, Eugenio Albamonte, Guido Lo Forte. È il segno che Palamara ha indossato l’elmetto e non ha alcuna intenzione di passare alla storia come la mela marcia che paga per tutti. «Il sistema delle correnti non l’ho inventato io», ha ripetuto sempre in questi mesi l’ex presidente dell’Anm al quale il ruolo di capro espiatorio non va proprio giù. Palamara ai naviganti delle Procure ha anche mandato messaggi sul fatto che è disposto a far luce su molte delle pagine torbide della storia giudiziaria italiana, come lo scontro ferocissimo fra la magistratura e Silvio Berlusconi andato in scena a partire dal 1994. Già il 21 si capirà il destino di Palamara. Se la sezione disciplinare vorrà tagliare i testi, il segnale è chiaro: chiudere in fretta la pratica, procedere con l’espulsione immediata del magistrato, e quindi continuare con il sistema delle correnti nella spartizione degli incarichi. Se i testi verranno ammessi, ci sarà invece speranza di procedere con una operazione verità su quanto accaduto negli ultimi decenni. Vediamoli allora i testi divisi per i vari capi d’incolpazione preparati dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Il primo è il colonnello Gerardo Mastrodomenico del Gico, della guardia di finanza. Dovrà riferire sulle modalità di conduzione delle indagini e sulle ragioni del “perché non spense il trojan” nonostante le indicazioni dei pm di Perugia in caso di incontro di Palamara con parlamentari. Con lui ci sono i marescialli Roberto Dacuto e Gianluca Burattini, coloro che materialmente accendevano e spegnevano il trojan inoculato nel telefono di Palamara e che hanno ascoltato i colloqui del magistrato romano con Cosimo Ferri e Luca Lotti, quest’ultimo imputato a Roma nel processo sugli appalti Consip. A proposito delle indagini Consip è citato l’ex vice presidente del Csm, ora commissario per la ricostruzione in Abruzzo, Giovanni Legnini. Egli dovrà riferire su una sua «conversazione intercettata con l’onorevole Paolo Cirino Pomicino sul conto del pm napoletano Henry John Woodcock». La circostanza non era ancora emersa. Come si ricorderà Woodcock era stato inizialmente il titolare del fascicolo Consip. Anche Giovanni Melillo, procuratore di Napoli, è chiamato a riferire su questa conversazione intercettata. Il magistrato Stefano Erbani, consigliere giuridico di Sergio Mattarella, dovrà riferire sulle procedure di nomina del procuratore di Roma nel 2019. Sull’asserito tentativo di Palamara di screditare l’aggiunto della Capitale Paolo Ielo, sono stati chiamati tutti i procuratori aggiunti di Roma. Sui rapporti fra Palamara e Giuseppe Pignatone, i vertici del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti e l’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti. Lucio Aschettino, magistrato di Md e presidente della Commissione per gli incarichi direttivi nella scorsa consiliatura, dovrà riferire su come sono stati nominati i procuratori aggiunti a Roma durante la gestione Pignatone. Sempre sul “dossieraggio” nei confronti di Ielo, il cui fratello Domenico, avvocato, aveva incarichi da parte del colosso energetico, è stato citato l’ad di Eni Claudio De Scalzi. Non può mancare poi l’ex pm romano Stefano Fava, autore materiale dell’esposto a carico di Pignatone e Ielo. È presente poi Giovanni Bianconi, il giornalista del Corriere della Sera che il 7 maggio 2019, intercettato, comunicò a Palamara che «una parte dell’ufficio (la Procura di Roma, ndr) non voleva Marcello Viola (pg di Firenze e aspirante al posto di Pignatone, ndr) il quale non è colluso». I testimoni più importanti, infine, sono relativi al sistema delle nomine. Dovranno riferire sul fatto «che esisteva prassi costante di confronto, interlocuzione fra componenti istituzionali, tra cui segretari, referenti locali ed esponenti dei gruppi associativi, componenti laici del Csm e i loro referenti della politica, per individuare il profilo professionale del candidato da sostenere tra coloro che avevano presentato la domanda per il conferimento per un incarico direttivo e non solo». Ecco quindi gli ultimi vice presidenti del Csm, Nicola Mancino, Michele Vietti, Giovanni Legnini, David Ermini, i giudici costituzionali Cesare Mirabelli, Giovanni Maria Flick, gli ex consiglieri del Csm Edmondo Bruti Liberati e Claudio Castelli, l’ex ministero della Giustizia Andrea Orlando, i responsabili giustizia del Pd Anna Finocchiaro, Donatella Ferranti, Massimo Brutti. E poi vari presidenti delle correnti e componenti della giunta Anm. Dulcis in fundo, Antonio Ingroia e lo scrittore e senatore Gianrico Carofiglio.

133 testimoni illustri per il “processo Palamara” al Csm. Il Corriere del Giorno il 15 Luglio 2020. Il pm romano attraverso il suo legale chiede di convocare non solo chi può conoscere i fatti al centro dell’inchiesta di Perugia ma persino ex ministri della Giustizia, politici, ex consiglieri del Csm. Tutto ciò per dire “Io non ho inventato niente” per dimostrare al Csm che “così fan tutti” e sopratutto che “così hanno sempre fatto” in particolare coloro che ambivano ad un incarico direttivo prendevano qualche contatto con i togati del Csm prima che l’iter di nomina prendesse piede.

L’ex pm della Procura di Roma, ex presidente dell’ ANM vuole avviare un vero e proprio processo al processo a suo carico, ed ora tutta la giustizia italiana rischia di trovarsi , seppure se in maniera indiretta sul banco degli imputati. Un tentativo in vista dell’inizio del giudizio disciplinare del prossimo 21 luglio, in quanto la lista di 133 nomi stilata dalla difesa di Luca Palamara potrebbe essere ridotta dal Consiglio Superiore della Magistratura, possibilità questa che il difensore del pubblico ministero al centro dell’inchiesta della procura di Perugia sulle nomine nelle procure italiane, a partire da quella di Roma, si augura non avvenga. “Mi auguro che il Csm non faccia come l’Anm”, è il commento che l’avvocato Benedetto Marzocchi Buratti con riferimento all’espulsione del magistrato dall’associazione sindacale delle toghe, avvenuta alcune settimane fa, senza che che al diretto interessato venisse data la parola davanti all’organo che stava per cacciarlo, in quanto, sostiene l’Anm, non previsto dallo Statuto. Il Csm è diventanto palcoscenico del “teatrino” balzato agli onori delle cronache come lo scandalo delle nomine della magistratura, che dovrà decidere se e come sanzionare l’operato del suo ex consigliere e pm “congelato” della procura di Roma, Luca Palamara e degli altri 9 magistrati per i quali la Procura generale della Corte di Cassazione ha chiesto il giudizio. Le norme di legge prevedono delle sanzioni vanno dall’ammonimento alla destituzione per i magistrati responsabili di illeciti disciplinari. Gli attori (o marionette) sul palcoscenico processuale che si aprirà il 21 luglio, seppure con ruoli diversi, potrebbero essere veramente numerosi, entrando a far parte in quella che l’avvocato di Palamara ha definito “lista poderosa” contenente un elenco di magistrati che comprende tutti i vertici delle correnti delle toghe a partire da Eugenio Albamonte della sinistra più estremista per finire a Piercamillo Davigo della (finta) destra, numerosi magistrati in servizio, molti dei quali alla procura di Roma, e persino quelli in pensione. Nella lista sono presenti ex Guardasigilli, cioè ministri della Giustizia – come Andrea Orlando e Giovanni Maria Flick. componenti del Csm compreso il vicepresidente attuale, David Ermini, ed il suo predecessore, Giovanni Legnini, (entrambi indicati dal Partito Democratico) ma anche di togati o laici eletti nelle precedenti consiliature. sopratutto quelli “politici” chiamati a testimoniare dall’ex leader della corrente di Unicost. L’elenco dei testimoni può essere diviso in due parti come spiega la difesa di Palamara: da una parte chi potrebbe essere a conoscenza delle evidenze e prove emerse con l’inchiesta della Procura di Perugia, e dall’altra quelli che dovrebbero conoscere molto bene come funzionava il “sistema” delle nomine sino a quando i pm umbri aprissero il fascicolo a carico del magistrato Luca Palamara. Sono tutte persone che hanno rivestito importanti ruoli istituzionali di vertice in passato, ed attualmente totalmente estranee all’inchiesta, come Massimo Brutti, ex senatore nonché togato a Palazzo dei Marescialli dal lontano 1986 al 1990, e come Cesare Mirabelli, consigliere del Csm in quella stessa lontana consigliatura di Palazzo dei Marescialli, che se ammessi come testimoni verranno chiamati a raccontare quel che ricordano della prassi con cui venivano scelti gli incarichi a quei tempi. Il fine della difesa di Luca Palamara è quello di dimostrare di non aver inventato nulla di nuovo, e quindi di essere entrato a far parte, con un ruolo indiscutibilmente di rilievo, in un perverso meccanismo di lottizzazione ed interessi contrapposti già consolidato nel tempo. Una tesi, difensiva, chiaramente osteggiata da coloro i quali rivendicano, con grande difficoltà, che vi è una parte ampia della magistratura estranea ai giochi di potere. “Se mi chiameranno a testimoniare dirò le stesse cose dette un anno fa durante il congresso di Area”, ha detto ad HuffPost l’ex ministro della giustizia Giovanni Maria Flick . Il riferimento è a quando manifestò ai vertici dell’Anm l’intenzione di candidarsi come membro laico del Csm e gli venne risposto che della vicenda si occupavano le correnti della magistratura e i partiti:“Mi ringraziarono, ma credo con una punta di imbarazzo mi spiegarono che l’Anm era comunque estranea alla vicenda, trattata direttamente dai partiti con le correnti e con i togati espressi dalle correnti. E, per quanto ne sapevano, i giochi erano già fatti”, disse Flick nel suo discorso. Scorrendo le 34 pagine della richiesta di ammissione dei testimoni, emerge inconfutabilmente la volontà e strategia difensiva di Palamara di voler dimostrare al Csm che “così fan tutti” e sopratutto che “così hanno sempre fatto” in particolare coloro che ambivano ad un incarico direttivo prendevano qualche contatto con i togati del Csm prima che l’iter di nomina prendesse piede. Un sistema radicato e consolidato e secondo il legale di Palamara neanche troppo illecito, in quanto secondo quanto si evidenzia documentalmente nelle carte, si discuteva, si ragionava sulle nomine da fare, anche se talvolta non correttamente nella sede istituzionale, come accaduto quella famosa notte all’Hotel Champagne di Roma dove alla presenza dei deputati del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (successivamente passato al seguito di Matteo Renzi ad Italia Viva) si parlava e tramava sulla nomina del futuro procuratore di Roma anche se “l’autonomia della scelta finale spettava, ai componenti della quinta commissione e del plenum del Csm”. Se questa linea difensiva si radicasse nel processo disciplinare, il “peso” dalle spalle dell’ex presidente dell’Anm arriverebbe anche su quelle di tutti gli altri, e quindi suddiviso e distribuito tra decine e decine di persone il peso sarebbe molto più leggero ed anche semplice da portare. E’ questo quindi senza alcun’ombra di dubbio l’obiettivo della difesa, e cioè dimostrare che il comportamento di Palamara era solo una parte di una “sistema” generale già ben incardinato ed utilizzato da tutti. Il procedimento disciplinare, come abbiamo detto sta per avere inizio e qualsiasi sarà il suo esito, non basterà a mettere la parola “fine” ad un terremoto che ha travolto la magistratura italiana, con una dirompenza forse mai registrata nella storia delle toghe scoperchiando pratiche, comportamenti e decisioni che poco hanno a che fare con l’amministrazione della giustizia nel nostro paese. E’ arrivato il momento di una seria riforma della giustizia e della magistratura a 360°, ma è anche il momento che l’ Anm, cioè l’ Associazione Nazionale dei Magistrati capisca che le toghe sono chiamati a far rispettare ed applicare le legge, e che gli eletti dal popolo italiano a legiferare sono altri. Ambire a fare politica è giusto e legittimo, ma prima è necessario ed opportuno togliersi la toga ed uscire dalla magistratura, senza usarla a proprio comodo e piacimento come hanno fatto sinora in molti. Troppi, Forse è bene ricordare che qualcuno per questo motivo è anche finito di carcere .

Magistratopoli, Davigo chiamato alla sbarra per i colloqui con Fava. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Fra gli oltre 130 testimoni richiesti da Luca Palamara in vista dell’udienza disciplinare del 21 luglio, spuntano anche i nomi dei togati del Csm Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. I due sono i leader di Autonomia&indipendenza, la corrente delle toghe fondata dall’ex pm di Mani pulite nel 2015 dopo la scissione da Magistratura indipendente. Fra i motivi dello scissione, si ricorderà, l’allora leadership della corrente di destra da parte di Cosimo Ferri. Nelle liste di A&i è stato eletto al Csm anche il pm antimafia Nino Di Matteo. La decisione di citare Davigo e Ardita è strettamente collegata all’esposto presentato dall’allora pm romano Stefano Rocco Fava nei confronti del procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo e del procuratore Giuseppe Pignatone. Fra i motivi, la gestione di alcuni fascicoli in cui compariva il fratello di Ielo. Fava, secondo quanto emerso dalle indagini difensive effettuate dai legali di Palamara, gli avvocati romani Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, aveva avuto stretti rapporti con i due consiglieri. Ardita aveva anche pensato di candidarlo al Comitato direttivo centrale dell’Anm. A&i è una corrente emergente e ancora poco radicata sul territorio. Con Ardita e Davigo Fava parlò, però, anche di questo esposto. E stando alla sua testimonianza, i due avrebbero “giudicato la vicenda di indubbia rilevanza e che meritava approfonditi accertamenti da parte del Csm”. Ardita, in particolare, gli avrebbe anche comunicato che l’esposto era arrivato «alla Prima commissione, di cui Ardita faceva parte e, pertanto riteneva che non fosse più opportuno sentirci o vederci. Mi ha detto, comunque, che se dovevo comunicare a lui qualcosa potevo farlo tramite Amelio (Erminio, pm romano, presenti ad uno di questi incontri, ndr), ma che comunque era il caso di evitare ogni ulteriore contatto». Da qui la richiesta di Palamara affinché Davigo e Ardita riferiscano sul contenuto dei colloqui con Fava e con Erminio Amelio in epoca antecedente e prossima alla presentazione dell’esposto di Fava al Csm (marzo 2019, ndr) sulla conoscenza dell’intenzione di Fava di presentare l’esposto; sulle eventuali risposte allo stesso fornite, anche in relazione alle concrete modalità della sua presentazione; sul contenuto dei colloqui successivi alla presentazione dell’esposto da parte di Fava con Ardita; sulla circostanza che l’esposto presentato nei confronti del dott. Giuseppe Creazzo (procuratore di Firenze, ndr) era di dominio pubblico; sul fatto che le indagini nei confronti di Palamara erano ampiamente note negli ambienti della Procura della Repubblica di Roma oggetto di numerose conversazioni già alla data del 9 aprile 2019. Ma non solo: Davigo dovrà riferire anche sulle modalità degli inviti al convegno del 9 aprile 2019 presso il Circolo delle Vittorie dove partecipò lo stesso Palamara e sui colloqui intercorsi in quella occasione con quest’ultimo. All’epoca il cellulare di Palamara non era ancora stato infettato dal trojan. Davigo, come si ricorderà, è titolare nella sezione disciplinare del Csm.

Il Csm azzoppa Palamara, su 133 testimoni ne concede solo 10. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Come un elefante che a un certo momento decide di entrare nel negozio di cristalli. È questa l’immagine che meglio di qualsiasi altra rappresenta la decisione di Luca Palamara di depositare lunedì scorso, per l’udienza disciplinare a suo carico che si terrà il prossimo 21 luglio al Csm, una lista di 133 testimoni. Nessuno si aspettava un elenco simile, sia per il numero monstre dei testi, sia per il loro “spessore”. Nella lista, infatti, compaiono non soltanto ministri, ex presidenti della Corte costituzionale ed alti magistrati, ma soprattutto i due più stretti collaboratori del capo dello Stato Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Subito si è messa in moto la macchina per cercare di disinnescare la minaccia ed evitare che ci possano essere testimonianze “imbarazzanti”. Se il teorema dell’accusa è che Palamara con le sue condotte ha prodotto discredito nella magistratura mediante un “uso strumentale della propria qualità per condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quale la nomina dei capi degli uffici da parte del Csm”, per la difesa, rappresentata dal consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, il pm romano faceva parte di un sistema ben rodato del quale tutti erano perfettamente a conoscenza. In questo modo si spiega la richiesta di citazione degli ex vice presidenti del Csm degli ultimi vent’anni, dei capi delle correnti e dell’Anm. Il primo compito del collegio disciplinare, che ieri non risultava ancora essere stato composto, sarà allora quello di “tagliare” il più possibile la lista testi dell’ex presidente dell’Anm, lasciandogliene al massimo una decina e solo di personaggi di secondo piano. Fonti del Csm dicono che i giudici disciplinari motiveranno l’opera di potatura con il fatto che la lista è “sovrabbondante” e che la maggior parte di questi testimoni è “irrilevante” per gli episodi oggetto delle contestazioni. La Procura generale della Cassazione cercherà in tutti i modi di limitare il perimetro difensivo di Palamara a quanto accaduto la sera del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, allorquando il magistrato, alla presenza del deputato del Pd Luca Lotti, espresse duri giudizi nei confronti del procuratore aggiunto della Capitale Paolo Ielo e dello stesso procuratore Giuseppe Pignatone. Chi ha avuto modo di parlare con Palamara in queste ore lo ha sentito consapevole di quelle che potranno essere le mosse della Sezione disciplinare. Sezione che Palamara conosce molto bene avendone fatto parte per quattro anni quando era al Csm. L’esito del disciplinare pare essere scontato. Le parole del procuratore generale Giovanni Salvi, “è stato raggiunto un punto di non ritorno, l’impatto sull’opinione pubblica è pessimo”, non lasciano molti dubbi sul destino di Palamara: rimozione dall’ordine giudiziario. L’ex leader di Unicost, però, non intende accettare il ruolo di capro espiatorio. Chi pensava che la toga prendesse spunto dal motto dei carabinieri, “usi obbedir tacendo e tacendo morir” ha fatto male i conti e ha dimostrato di non conoscere fino in fondo l’uomo. La prospettiva di vedersi radiato dalla magistratura e di trovarsi a 50 anni, dopo una carriera sempre ai massimi livelli, a dover chiedere il reddito di cittadinanza, ha dunque spinto Palamara a giocare il tutto per tutto: quando ci si trova a essere un colpevole designato è difficile rinunciare a una difesa a 360 gradi, anche in vista di sicure impugnazioni. Dopo aver tagliato i testi, il passo successivo della disciplinare sarà poi quello di fare in fretta. Prima Palamara viene espulso dalla magistratura e prima il sistema delle correnti che si è immediatamente ricompattato, vedasi lo scontro sulla nomina del procuratore di Perugia, può riprendere forza e vigore. Per i gruppi associativi sarebbe durissima affrontare la campagna elettorale per il rinnovo dell’Anm, prevista per il prossimo autunno, con Palamara ancora sotto processo e con i vertici delle correnti che sfilano a piazza Indipendenza. È un “incubo” che deve essere evitato a ogni costo.

La bomba Palamara è esplosa: via alle trame per bloccare il processo del secolo alla magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Sicuramente c’è un giudice a Berlino, non è detto però ce ne sia uno anche a Roma, e in particolare a Palazzo dei Marescialli. Forse sì, forse no. Se il giudice c’è, allora il procedimento disciplinare contro Luca Palamara che si apre martedì prossimo si trasformerà nel processo del secolo alla magistratura italiana. Sarà un avvenimento clamoroso dal quale difficilmente la Giustizia uscirà con lo stesso volto con il quale è entrata. E forse sarà anche la fine della casta, cioè della casta dei Pm. Il ritorno al diritto. È possibile però anche che avvenga il contrario, e cioè che il giudice non sia un giudice ma solo un sacerdote della casta, e che si rifiuti di agire, e che trasformi il processo in un semplice e veloce rito di scannamento del capro espiatorio, cioè Palamara, senza nessuna pretesa di cercare la verità anzi con il fine dichiarato di seppellirla e salvare la casta e il vecchio satrapesco e ingiusto sistema della giustizia italiana, ormai da molti anni lontano mille miglia dallo Stato di diritto. In questo caso assisteremo al più grande strappo istituzionale della storia della Repubblica. Forse più grave del tentato colpo di Stato del 1964. Perché se il Csm affosserà il processo – cioè si rifiuterà di convocare i testimoni chiamati da Palamara – allora sancirà l’assunzione di un potere incontrollato e prepotente, da parte della magistratura, incompatibile con qualsiasi idea di sistema democratico. Si entrerà nel regime, a pieno titolo, nel regime delle Procure. Speriamo che questo non avvenga, e che prevalga il senso di responsabilità. Ora cerchiamo di essere più precisi e di raccontare la trama di questo romanzo pieno di suspense. Martedì 21 luglio si avvia davanti alla commissione disciplinare del Csm il procedimento contro Palamara. Accusato di avere brigato coi colleghi e coi politici per addomesticare, anzi per decidere, le nomine in alcune Procure. In particolare alla Procura di Roma. Chiunque non sia un soldato di Davigo – o una persona molto molto ignorante – sa che Palamara sicuramente ha brigato, ma sicuramente insieme a lui lo hanno fatto alcune centinaia di magistrati, più precisamente Pm, che lo fanno da molti anni, che trattando tra correnti e capibastone hanno controllato l’intero sistema delle Procure, deciso Procuratori, aggiunti e sostituti. Sa che questo sistema aveva una fortissima influenza anche sulla magistratura giudicante perché le carriere dei giudici dipendevano da questa organizzazione più o meno segreta, sa che il centro di tutta questa organizzazione era l’Anm, che è una associazione di dubbia costituzionalità, sa che attraverso questo sistema e il potere enorme che i Pm (il partito dei Pm) esercitava sui giudici si sono decise molte sentenze, sa che dentro questa storia sta anche la storia dell’inseguimento giudiziario a Silvio Berlusconi conclusosi con la sentenza Esposito, che oggi appare la più discutibile di tutte le sentenze dell’ultimo decennio. Sa, chiunque sa. Ora però esiste la possibilità di andare oltre il sapere generico e di trovare nomi, circostanze, prove, fatti concreti. Perché Luca Palamara, che è stato processato dall’Anm praticamente in contumacia (gli è stato negato il diritto di parlare, cosa che non era mai avvenuta neppure nei processi durante il fascismo e non accadeva neanche nei processi staliniani: si tratta davvero di un fatto senza precedenti, credo, almeno degli ultimi due o tremila anni) ora ha chiesto di convocare al suo processo 133 testimoni. Chi sono questi 133? I nomi eccellenti che hanno guidato la giustizia nell’ultimo quarto di secolo. Alcuni sono chiamati per raccontare le malefatte degli altri, altri – parecchi – sono chiamati come correi. Se i testimoni saranno accettati assisteremo effettivamente al processo del secolo, e la magistratura dimostrerà di avere la capacità dello scatto di reni e dell’autocritica. Sarà però una procedura molto complicata perché molti dei testimoni e dei possibili imputati sono anche in giuria. A partire da Davigo, che dovrebbe presiedere la commissione giudicante. Non è mai successo, credo, se non in qualche pezzo di letteratura, o in qualche film fantasioso, che prima che inizi il processo ci si accorga che una parte maggioritaria della giuria è sospettata degli stessi reati dell’imputato. E non si tratta di sospetti vaghi, si tratta delle intercettazioni (in parte pubbliche, in parte nascoste) del trojan a Palamara. Succede di più: non solo una parte della giuria fa parte del pacchetto dei tramatori, ma nel pacchetto dei tramatori c’è anche una parte, la parte più nobile e famosa, della tribuna stampa. Voi capite che guazzabuglio pazzesco? Naturalmente c’è da chiedersi come si è potuto arrivare a tanto. E bisognerebbe chiedere conto, prima ancora che alla magistratura, alla stampa sottomessa, e al potere politico vile e incapace di svolgere il proprio ruolo. Ma oggi quel che conta non è capire le responsabilità, è accertarsi che il processo si faccia. Se si farà, probabilmente durerà almeno un anno, ma va bene così. Non sarà solo un processo, sarà il luogo costituente della vera riforma della magistratura, che certo non può essere il brodino appassito di Bonafede, ma deve essere una vera e propria rivoluzione, e che probabilmente dovrà essere accompagnata da una larghissima amnistia, perché saranno messe in discussione migliaia e migliaia di sentenze degli ultimi 25 anni. Quante possibilità ci sono che questo processo si faccia? Dipenderà soprattutto dalla stampa. In realtà tutto il potere è lì, come lo è stato 25 anni fa quando, con Mani Pulite, iniziò la degenerazione della magistratura (in realtà era stata già avviata a metà degli anni 70 con la guerra alla lotta armata, ma non aveva raggiunto queste punte). Se nella stampa prevarrà ancora la lobby dei giornalisti giudiziari, niente da fare: ci sarà il golpe e vincerà il regime. Se i direttori riprenderanno il comando, allora le cose cambiano. E allora ne vedremo delle belle. Fontana, Molinari, Giannini e tutti gli altri: hic sunt leones.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2020. Luca Palamara farà un casino infernale nella magistratura. Lo hanno massacrato e lui come minimo si vendicherà raccontando la fava e la rava dei suoi colleghi, non tutti specchiati e limpidi. Ovvio, quando si scoperchia un pentolone pieno di schifezze il cattivo odore si spande dovunque, impossibile fingere di non sentirlo. Non siamo esperti di pandette, ignoriamo i fatti e i misfatti della giustizia se non attraverso certe sentenze che ci hanno impressionato, provocandoci stupore e raccapriccio. Si sa che gli uomini tendono a sbagliare, e i magistrati nell'arte di fallire il bersaglio sono maestri come noi impegnati in mestieri diversi. Presto comincerà il processo al pm sotto tiro e penso che ne vedremo delle belle e specialmente delle brutte. Aspettiamo con ansia di capire se Palamara sarà elevato a capro espiatorio o se l'intero gregge verrà trascinato in giudizio. Speriamo che i giudici abbiano un soprassalto di onestà e ammettano i loro strafalcioni, avendo brigato per fare carriera, occupare posti importanti e naturalmente guadagnare di più. Non saremo noi a stupirci se emergeranno nel corso degli accertamenti situazioni imbarazzanti o addirittura vergognose. Le toghe costituiscono una categoria privilegiata tuttavia ciò non impedisce loro di comportarsi come altre corporazioni di lavoratori: cioè male. Errare humanum est perseverare diabolicum fili mi erra sed culpam tuam semper declara. Cari magistrati, la regola latina vale pure per voi. Se vuoterete il sacco sarete perdonati, altrimenti farete la fine di altri ordini negletti. Personalmente ebbi a seguire il processo Tortora, decenni orsono. Fu una esperienza atroce. Sfogliando gli atti mi resi conto che contenevano innumerevoli vaccate, cioè incongruenze che mettevano in dubbio la serietà dell'impianto accusatorio. Le dichiarazioni dei pentiti non stavano in piedi, i controlli degli investigatori facevano acqua da tutte le parti. Anche uno sprovveduto come me capì di essere di fronte a un pasticcio giudiziario incredibile. Scrissi vari articoli difensivi del presentatore, ma il tribunale in primo grado lo condannò comunque a dieci anni di galera. Una tragedia che uccise Enzo, tanto è vero che dopo l'assoluzione in appello egli morì. Nessuno gli ha chiesto scusa. Casi di tale tipo sono troppo numerosi, cari magistrati. Meno arie, più diligenza. Giudicare gli altri non significa trattarli quale bestiame al macello. Non bisogna dire come fa Piercavillo Davigo, nonostante sia simpatico, che non esistono innocenti ma solo colpevoli che l'hanno fatta franca. Se fosse così vorrebbe dire che l'ha sfangata pure lui. E non credo.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 15 luglio 2020. Quel pazzoide di Luca Palamara - a me risulta sempre più simpatico - ha proposto 133 testimoni a sua difesa davanti al Consiglio superiore della magistratura, incaricato di giudicarlo ed eventualmente sanzionarlo. Sembra un salotto di Sandra Verusio: procuratori come Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco, star come Antonino Ingroia e Piercamillo Davigo, ex ministri come Nicola Mancino, i consiglieri giuridici di Mattarella e Napolitano, parlamentari, vertici della Finanza, scrittori da premio Strega, supermanager dell'Eni. Nelle intenzioni di Palamara, gli illustri convenuti dovranno confermare la natura antica e comune di certe praticacce. L'eterno così fan tutti. Alla fine dell'altro millennio, un processino stralcio di Tangentopoli con imputato Sergio Cusani fu l'occasione per convocare al processo di piazza i leader della Prima repubblica, Craxi e Forlani, La Malfa e Pomicino. Alla sera niente Mike Bongiorno: c'era Un giorno in pretura con gli highlights delle udienze. Lo guardavano sei milioni di telespettatori e il procuratore generale di Milano, Giulio Catelani, ne intuì la sete di onestà del popolo italiano (Di Battista, mettiti in coda). Stavolta purtroppo non sarà lo stesso: niente show di prima serata e tre quarti dei testimoni non verranno accettati. Per fortuna, anzi. Già allora si offrì al suddetto onesto popolo di derubricare i suoi furtarelli a legittima difesa, in confronto alle ruberie della classe politica, il cui sangue avrebbe lavato le colpe di tutti. Ci mancherebbe ora la replica con la magistratura. Ma come calza quel bel proverbio russo: non temere la legge, temi il giudice.

Il gip Mastroeni: “Il risiko delle correnti è come un’associazione a delinquere”. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Agosto 2020. Salvatore Mastroeni è giudice per le indagini preliminari a Messina. Dopo decenni in prima linea nelle Procure di frontiera del Mezzogiorno e – veniamo a sapere – sei mancate promozioni, il giudice decide per una operazione-verità. «Noi magistrati siamo avvolti da troppa faziosità, stiamo perdendo i valori comuni essenziali. E il Risiko delle correnti ci ha trasformato in una associazione a delinquere vera e propria».

Tutta colpa delle correnti?

«All’inizio ero anche io in una corrente, ma tanti anni fa mi sono dimesso e da allora sono rimasto apolide. Lo comunicai alla segreteria dell’Anm. La funzionaria non capiva. Mi chiese: va in pensione? Io risposi: no, mi dimetto dalle correnti».

Non teme ritorsioni a parlare in questi termini?

«Sono già uno dei magistrati che non essendo in correnti, correndo per una posizione direttiva, ha ricevuto pareri inspiegabilmente negativi. Si entra in crisi. Avevo iniziato con la distribuzione casuale degli uditori, oggi Mot, magistrati ordinari in tirocinio. Vengono assegnati sapientemente. Perché quando si entra in magistratura c’è un periodo di tirocinio, si sta dietro ad un magistrato cui si viene assegnati. E c’è l’effetto-pulcino. La prima persona che vedi è la mamma. Ed è così che si entra nelle correnti: si appartiene a una corrente prima ancora di averlo capito».

Palamara dunque in questo ha ragione? Il gioco a incastri esiste da sempre?

«Su questo lo difenderei, certamente. Se risultasse vero che c’era solo un Palamara con un suo potente gruppo di amici, tutti quelli che adesso si stanno stracciando le vesti, e che io chiamo Sepolcri imbiancati, lo avrebbero mangiato vivo. Se tu, Palamara di Unicost, proponi un metodo scorretto di spartizione dei posti, noi di Area, noi di Ai, noi di MI ti divoriamo. Ti mettiamo in minoranza. E invece no, il sistema Palamara è esploso così adesso solo perché il trojan lo avevano messo a lui. Ma tutto il sistema funzionava così, e alle sue cene c’erano tutte le correnti».

Quindi tutte le accuse a Palamara si possono estendere ai predecessori?

«Prenda in esame gli ultimi due Consigli superiori precedenti a Palamara, faccia uno studio fatto bene, vedrà una costante assoluta: ciascun voto è stato assegnato dai consiglieri al candidato della propria corrente. E statisticamente è impossibile che il candidato della mia corrente sia sempre il migliore. Eppure si è votato così. In due consiliature non trova nessuno che non fosse iscritto alle correnti».

E come faccio a fare questa verifica se l’adesione alle correnti non è pubblica?

«Appunto. Avrebbe qualche difficoltà nella ricerca, non esistono elenchi depositati. E però se nei meccanismi che regolano l’elezione dei magistrati ai più alti incarichi c’è, per consolidata prassi, il ricorso sistemico all’equilibrio correntizio, sarebbe giusto che l’appartenenza alle correnti fosse pubblica, dichiarata, scritta. Faccio un esempio: se in una cittadina il sindaco dà un incarico a un imbianchino e poi si scopre che quell’imbianchino è in una associazione letteraria con lui, noi magistrati lo attacchiamo e diciamo che ha privilegiato un interesse privato. I colleghi amici nelle correnti, invece, si possono votare tra loro. Non c’è l’obbligo di astensione. Ora molti dicono che non è dignitoso. Io vado oltre: dico che non può essere legale».

I giudici del Csm operano contro la legge?

«La normativa del Csm prevede, come per i membri del Parlamento, che i consiglieri del Csm non siano punibili per i voti espressi e per le opinioni date in Consiglio. Una garanzia di immunità. E infatti oggi un po’ tutti dicono che quelli che riguardano Palamara e il Csm “sono fatti senza rilevanza penale”. Io una certa esperienza nel penale ce l’ho, e ho delle riserve serie. Perché anche se l’abuso c’è, il reato ci sarebbe, nel tuo caso non è punibile perché sussiste una norma-scudo. È il caso dei magistrati del Csm. Noi magistrati contestiamo, a quattro persone che smontano e vendono marmitte della macchina, il reato di associazione a delinquere. Palamara e tutti quelli che si riunivano, come è stato detto, “in sedi non opportune”, per decidere ad esempio chi promuovere e chi tenere al palo, commettevano un reato in associazione a delinquere. Hanno sovvertito le regole avendo il potere e i mezzi per farlo».

Si pone un problema di credibilità importante.

«Enorme. Il giudice vive di credibilità, senza la quale il peso e il valore delle sue sentenze non esistono più».

Caso Palamara, Sabella: "Io vittima del sistema,o sei con loro o ti devastano". Affari Italiani Mercoledì, 15 luglio 2020. Il giudice del Tribunale di Napoli, è stato indicato nella lista dei 133 teste presentata dall'ex boss di Unicost. Il caso Palamara continua a far rumore. Dopo che l'ex boss di Unicost ha deciso di andare al contrattacco al processo di Perugia che lo vede imputato per corruzione, ecco che a tremare adesso sono in tanti. Tra i 133 super testimoni figura anche Alfonso Sabella, ora giudice al Tribunale di Napoli, ed in un'intervista al Giornale svela il "sistema delle correnti". "Io di questo sistema sono una vittima, da sempre. Perché sono uno dei pochi che si è ribellato. Sono uno di quelli che non hanno mai voluto fare carriera". L’unica spiegazione per cui sono finito anch'io in quella lista - spiega Sabella - è che Luca voglia raccontare anche l’altra faccia della medaglia, dimostrare che i pochissimi magistrati non allineati, non inseriti nel mondo delle correnti non avevano nessuna possibilità di ottenere gli incarichi. Infatti venni bocciato nonostante i miei titoli superiori a tutti". "Bastava vedere - prosegue Sabella - la regolarità da manuale Cencelli con cui venivano distribuite le cariche: 4-2-2-2 fisso quando le correnti erano quattro, poi passato al 4-4-2 quando a sinistra è nato il correntone di Area. E guardi che il grande mercato non riguardava solo i posti direttivi, le cariche in vista, ma anche e soprattutto i semidirettivi, i procuratori aggiunti, i presidenti di sezione. Lì accadeva di tutto. Poche voci di dissenso nel deserto. Molti che oggi fingono di scandalizzarsi erano perfettamente consapevoli che il meccanismo fosse questo. Palamara era uno dei tanti, forse solo più abile e esperto. Chi è fuori dai giochi deve sapere non solo che non verrà mai scelto per un incarico. Deve sapere anche che se qualcuno per motivi ideologici, privati o personali decide di fargli del male, il sistema non lo proteggerà. Se sei uno dei loro ti proteggono, altrimenti vieni devastato".

Giulia Bongiorno a Senaldi: "Dopo Palamara ed Esposito i clienti mi chiedono di che corrente è il giudice". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 14 luglio 2020. «Ormai con i clienti imputati non si parla più dei processi, dei testimoni, delle prove a favore, di come smontare l'incriminazione. Arrivano in studio e la loro principale preoccupazione non è dimostrare l'innocenza ma capire da che parte sta il giudice, chi l'ha messo lì, chi frequenta. Sono terrorizzati che il pubblico ministero possa condizionare il magistrato giudicante. La prima domanda che mi viene fatta è se l'accusatore fa parte di una corrente potente che può in qualche modo incidere sulla carriera della toga che emetterà il verdetto». La senatrice della Lega Giulia Bongiorno è la più nota penalista italiana. Da Giulio Andreotti a Raffaele Sollecito, ha difeso tutti, «ma oggi mi tocca prendere le parti dei giudici e proteggerli dai sospetti degli imputati; passo ore a tentare di persuadere i miei assistiti che la maggior parte dei giudici sono persone perbene e il processo non verrà strumentalizzato politicamente. Anche oggi sono in ritardo all'appuntamento con lei, cosa che non mi succede mai, perché ho avuto questo fuori programma della difesa del magistrato giudicante». Da che è scoppiato lo scandalo delle intercettazioni di Palamara, che ha svelato il segreto di Pulcinella, ovverosia che le nomine dei vertici di tribunali e procure hanno poco a che vedere con il curriculum professionale delle toghe e molto con le loro relazioni politiche e le trame di palazzo, l'avvocato Bongiorno ha scelto la via del silenzio. Non è avvocato che spara sulla croce rossa e neppure che punta il dito accusatore. «Non so se i timori dei miei clienti di andare incontro a un verdetto che risponda a logiche politiche e di carriera piuttosto che a quello che risulta dal dibattimento siano fondati» precisa, «però so che esistono, e già questo lo ritengo gravissimo per la magistratura e la credibilità delle istituzioni. Se poi ci mettiamo anche i magistrati condannati a dieci anni per corruzione, come appena successo in Puglia, cosa deve pensare un cittadino che finisce nelle maglie della giustizia?».

Avvocato, la magistratura è così compromessa?

«I primi a soffrire del degrado della magistratura sono i magistrati. Molti di loro si vergognano della categoria alla quale appartengono. Io nei tribunali vedo che la maggioranza delle toghe, che nessuno intervisterà mai e non finirà nei talkshow televisivi, è preparata, corretta, laboriosa e garantisce un certo equilibrio della giustizia. Ma bastano poche toghe non indipendenti per rendere tutto il sistema poco credibile e creare una situazione di grande tensione e diffidenza, come è quella attuale».Perché i giudici non politicizzati, che sono la maggioranza, non si ribellano al sistema se ne sono le prime vittime?

«Non hanno il potere di farlo; sono impotenti, inermi. Non fanno politica e quindi non occupano posti di rilievo nelle correnti e non approderanno mai al Csm né faranno facilmente carriera».

Rimedi possibili?

«Il momento è delicatissimo. La prima cosa da fare, è la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma nella maggioranza ci sono visioni opposte sulla giustizia. Di certo non la vuole Bonafede, perché richiede troppo coraggio farla».

Ho la sensazione che lei saprebbe come farla.

«Il punto di partenza non è chiedersi come bisogna andare al Csm ma chi vogliamo che ci vada. La mia opinione è che solo a un magistrato davvero indipendente si possa dare il potere di decidere sugli incarichi dei colleghi e solo chi è a fine carriera, e dopo l'esperienza in Consiglio non indosserà mai più la toga, si trova in questa condizione. Finché vai e torni, non potrai mai essere indipendente, perché è umano pensare al proprio futuro».

Perché Bonafede non potrebbe varare una simile riforma?

«Significherebbe sconvolgere il sistema dalle sue fondamenta; invece il Guardasigilli continua ad annunciare una finta riforma, peraltro non ancora depositata, del tutto inutile, perché incide solo sul sistema elettorale ma non risolve il problema essenziale dei requisiti di indipendenza necessari per far parte del Csm».

Che idea si è fatta dello scandalo Palamara?

«Se si continua a parlare solo di Palamara non ci si misura con la gravità del sistema di scambi di favori, che incide sulla indipendenza della magistratura. Non vorrei che si cercasse di far passare il tema come un fatto circoscritto: si sa tutto di lui perché il trojan è stato messo nel suo telefonino; se l'avessero piazzato in quello di altri Mi sembra pacifico che non abbia creato da solo il sistema di potere che è emerso dalle intercettazioni».

Mi sta dicendo che secondo lei c'è dell'altro?

«Non sappiamo se sono venute fuori tutte le intercettazioni. In genere nella prima fase delle indagini viene trascritta solo una parte delle registrazioni, quella favorevole all'accusa».

Palamara è finito nel tritacarne perché ha perso una battaglia di potere?

«Questo non lo so. Per fare il magistrato occorre un'etica che nessuna legge può dare, ma una riforma dovrebbe prevedere un sistema di accesso alla magistratura rigoroso includendo anche i tanto contestati test psico-attitudinali».

Ci sarebbe una sollevazione della categoria.

«Che invece ne guadagnerebbe. Noi avvocati facciamo l'esame dopo un lungo periodo di pratica, sotto il controllo del maestro avvocato. Ho sconsigliato a molti giovani di fare l'esame di avvocato, ad esempio. Serve un sistema simile per la magistratura. Un esperto magistrato che valuti l'attitudine. Invece oggi c'è un concorso su base mnemonica e Bonafede resta immobile».

Comunque queste intercettazioni hanno fornito un assist straordinario a Salvini. 

«Sentire un magistrato - che, con Dio e il sacerdote, è l'unico al mondo che ti possa condannare o assolvere - dire attacchiamo Salvini anche se ha ragione ha lasciato basito e incredulo anche chi detesta il leader della Lega, perché la gente ha realizzato che puoi essere processato a prescindere dai torti e dalle ragioni. Anche molti che mi criticarono quando mi candidai con il Carroccio mi hanno chiamato per manifestarmi la loro preoccupazione».

È stata una svolta epocale?

«Più che una svolta, ha reso chiaro anche ai non addetti ai lavori ciò che nell'ambiente sapevano tutti. Adesso molti pensano che quello che è capitato a Salvini può capitare anche a loro. Si sentono più fragili e la cosa ha un effetto drammatico per la giustizia. È devastante il riferimento ad un fatto oggetto di indagini. Da avvocato, provo rabbia».

Quando è iniziato il deterioramento della magistratura?

«Lo scambio di favori e il mercanteggiamento politico sono pratiche che ci sono sempre state. Diciamo che con il tempo si sono cronicizzate».

E delle novità sulla condanna a Berlusconi, con l'audio di uno dei giudici che condannò il Cavaliere che si scusa con lui e dice di aver dovuto obbedire a input superiori?«Voglio dire soltanto che non si può non andare a fondo sulla vicenda facendo finta che non ci riguardi. Queste cose incidono su tutti i cittadini».

Gli anti-berlusconiani insinuano dubbi sull'audio.

«Ho lavorato per sette anni con l'avvocato Coppi, che non è uno dei difensori storici di Berlusconi e non gli deve nulla. Non solo non si presterebbe a giochi politici, ma quando nei processi oggetto di attenzione pubblica arrivavano testi favorevoli alla difesa, lui li cacciava via se aveva dei dubbi. Se lui produce l'audio del giudice, significa che è certo della bontà della prova. Ma a parte i casi specifici, il punto è che serve avere il coraggio di cambiare, e chiamo in causa Renzi e Italia Viva».

E cosa c'entra l'altro Matteo?

«Quando la Lega governava con il M5S, uno dei punti di maggiore scontro era la riforma del Csm. Ci siamo seduti al tavolo con Bonafede e, quando abbiamo capito che non voleva riformare nulla, ce ne siamo andati e l'esperienza del governo si è chiusa. Salvini ha rotto anche sulla giustizia; Renzi invece continua a pungolare ma poi torna indietro. Così è troppo comodo. Se a uno non stanno bene le cose, deve trovare la forza di ribaltare il tavolo».

Caso Palamara, “intercettazioni illegali” a rischio l’inchiesta. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Le telefonate fra Cosimo Ferri e Luca Palamara devono essere trascritte. Tutte. Inizia questa mattina la sei giorni di fuoco, che si concluderà martedì prossimo davanti alla sezione disciplinare del Csm, per l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. La prima tappa di questo tour de force, che rischia di “riterremotare” a un anno di distanza dai fatti dell’hotel Champagne la magistratura, è al palazzo di giustizia di Perugia. Davanti al gip Lidia Brutti è prevista l’udienza stralcio per la richiesta della trascrizione delle telefonate e dei colloqui intercettati con il trojan nell’ambito dell’indagine per corruzione nei confronti di Palamara. Secondo l’accusa, il magistrato sarebbe stato per anni sul libro paga dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, mettendo a disposizione il suo ruolo di consigliere del Csm. I legali del pm romano, gli avvocati Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti, hanno preparato una nutrita lista di colloqui da trascrivere. In particolare, appunto, quelli fra Palamara e il deputato ex Pd ora Iv Ferri, magistrato in aspettativa e ai tempi leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Il motivo è semplice. La difesa di Palamara punta a dimostrare che gli incontri fra i due, ad iniziare dalle cene, non erano mai casuali ma sempre programmati per tempo. Non essendoci quindi “casualità”, l’intercettazione con il trojan non poteva essere effettuata in ossequio alle prerogative del parlamentare. A dire il vero era stata la stessa pm Gemma Miliani a ordinare con una nota formale al comandante del Gico della guardia di finanza di spegnere il trojan quando Palamara si fosse trovato con dei parlamentari. Nota che invece è stata disattesa. Il perché è il grande punto interrogativo dell’indagine di Perugia. Se i finanzieri avessero eseguito gli ordini del pm, il dopo cena dell’hotel Champagne non sarebbe stato registrato, cinque consiglieri del Csm non si sarebbero dimessi, Marcello Viola sarebbe il nuovo procuratore di Roma e, molto probabilmente, Pietro Curzio non sarebbe diventato ieri il primo presidente della Cassazione. Il responsabile delle operazioni era il colonnello Gerardo Mastrodomenico che, come disse Palamara a Luca Lotti, era uno degli uomini di fiducia del “Pigna” cioè di Giuseppe Pignatone, l’allora procuratore di Roma. Mastrodomenico era il comandante della seconda sezione del Gico. Dopo questa indagine venne promosso comandante provinciale di Messina. Anche il suo capo, Paolo Compagnone, è stato promosso. È uno dei generali più giovani della guardia di finanza e comanda ora il provinciale più importante d’Italia, quello di Roma. Tornando a Mastrodomenico, è lui che ha anche firmato l’informativa del 10 aprile del 2019 destinata ai pm umbri in cui descriveva i rapporti fra Palamara e Ferri contraddistinti da “opacità”, termine che normalmente si usa per gli appartenenti alla criminalità organizzata. Ovviamente Mastrodomenico non ha fatto tutto da solo. Chi aveva materialmente le “cuffie” in testa erano i marescialli Roberto Dacunto e Gianluca Burattini. I due sottufficiali sono stati aiutati dall’appuntato Fabio Del Prete. Le intercettazioni telefoniche infatti possono essere effettuate solo dagli ufficiali di polizia giudiziaria. L’appuntato, invece, ha la qualifica di agente di pg. Complessivamente le registrazioni sono state 180. Le attività di ascolto, particolare importante, non vennero effettuate, come prevede la norma, presso la sala ascolto della Procura, ma, dopo aver remotizzato su disposizione dei magistrati gli apparati, direttamente presso la sede del Gico di Roma in via Talli. All’udienza di questa mattina la Procura sarà rappresentata dai due titolari del fascicolo: i pm Mario Formisano e Gemma Miliani. Daranno il via libera alla richiesta dei legali di Palamara o si opporranno, chiedendo che i nastri vengano distrutti? È la domanda della vigilia. Il rischio della inutilizzabilità di gran parte del materiale raccolto incombe. E, a seguire, può condizionare il procedimento disciplinare a carico di Palamara che si basa proprio su questi colloqui “illegalmente” ascoltati. Per la decisione del giudice Brutti bisognerà attendere qualche giorno.

Caso Palamara, i difensori: «Intercettazioni inutilizzabili». Per l’ex capo dell’Anm accusato di corruzione l’udienza è rinviata al 30 luglio. Simona Musco su Il Dubbio il 17 luglio 2020. «Quelle intercettazioni sono illegittime». A dirlo sono i legali dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara – Roberto Rampioni, Mariano e Benedetto Buratti – al termine dell’udienza di ieri davanti al Gip di Perugia sulla trascrizione delle intercettazioni telefoniche che rappresentano il fulcro dell’inchiesta per corruzione a carico dell’ex magistrato, rinviata al prossimo 30 luglio. Entro quella data, hanno affermato i legali, «valuteremo se fare ulteriori eccezioni rispetto a un tema noto, ovvero che riteniamo del tutto illegittime le intercettazioni parlamentari, e decideremo su altre eccezioni che abbiamo già proposto sia dinanzi al Csm che dinanzi alle Sezioni unite». In particolare, i difensori contestano le intercettazioni registrate tra Palamara e gli onorevoli Cosimo Maria Ferri e Luca Lotti, ex ministro del governo Renzi, nella serata dell’8 maggio all’hotel Champagne, che «non possono essere considerate casuali perché Ferri era da mesi nel perimetro delle indagini che avevano ad oggetto anche gli accordi tra Unicost e Magistratura Indipendente per la nomina del Procuratore di Roma», hanno spiegato i legali. «Questo imponeva di richiedere una preventiva autorizzazione della Camera dei Deputati – hanno evidenziato – unico organo allo stato istituzionalmente preposto a decidere come previsto dall’articolo 68 della Costituzione». Benedetto Buratti ha spiegato ai giornalisti che ieri «non si è entrati nel merito, abbiamo posto sul tavolo una serie di questioni e il giudice ci ha concesso un termine per poter valutare in maniera integrale tutte le questioni da porre in una procedura incidentale, che è dedicata proprio a questo. Dopo questa udienza, superate o meno queste eccezioni, valuteremo quali intercettazioni trascrivere e quali no». Il difensore dell’ex magistrato si è detto «soddisfatto dell’esito dell’udienza. Il giudice ci è sembrato molto accondiscendente -ha aggiunto – rispetto alle nostre richieste difensive». Tra le questioni da affrontare ci sono appunto le intercettazioni dei colloqui di Palamara e Ferri, deputato di Italia Viva, e l’ex ministro Lotti. «Per noi sono inutilizzabili in netta violazione della normativa costituzionale sui parlamentari cui sarà competente a decidere il Parlamento stesso – ha spiegato Buratti – ci riserviamo di farlo anche davanti al giudice di Perugia». L’accusa aveva chiesto la trascrizione di circa un centinaio di conversazioni, alcune delle quali realizzate attraverso il trojan installato sul cellulare dell’ex presidente dell’Anm. Il giudice non ha invece accolto l’istanza della difesa di Palamara – che il 21 luglio si troverà davanti alla Sezione disciplinare del Csm – di rinviare l’intera udienza e non ha rinvenuto mancanze nel materiale audio messo a disposizione dei legali del magistrato (ora sospeso dalle funzioni e dallo stipendio) come questi avevano sostenuto con la stessa istanza. «Riteniamo violata la Costituzione» hanno aggiunto i legali. Sono un centinaio le intercettazioni telefoniche, oltre a quelle realizzate con il trojan, delle quali la procura di Perugia ha chiesto la trascrizione nell’ambito dell’inchiesta. «Riteniamo che non ci sia stato messo a disposizione tutto il materiale intercettato, specie quello con il trojan» aveva inoltre spiegato mercoledì l’avvocato Benedetto Buratti. 

Giovanni Bianconi per corriere.it il 17 luglio 2020. La prima mossa del neo procuratore di Perugia Raffaele Cantone nel «caso Palamara» è contro il rinvio dell’udienza-stralcio per decidere quali intercettazioni utilizzare nel processo e quali no. Il magistrato indagato per corruzione voleva prendere tempo in attesa di ciò che sarà deciso, sullo stesso argomento, nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura, ma Cantone è intervenuto davanti al giudice dell’indagine preliminare per spiegare che l’inchiesta penale non può frenare davanti a quella amministrativa. E il gip gli ha dato ragione: «La richiesta di rinvio non può trovare accoglimento», ha stabilito al termine dell’udienza di ieri; né «si ravvisa la necessità» di concedere altro tempo a Palamara e ai suoi difensori per ascoltare i files delle registrazioni «secondarie» o «non rilevanti», così definiti dalla ditta che ha realizzato le intercettazioni tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex pm romano. «Sembra emergere chiaramente», sostiene il gip dopo aver acquisito le spiegazioni della ditta, che si tratta di files «privi di contenuto o che si identificano in messaggi contenenti informazioni di carattere tecnico (collegamento alla rete, tipologia di rete utilizzata per la connessione, ecc.)» che nulla hanno a che vedere con l’indagine. Nessuna registrazione occultata, quindi. Il procedimento può andare avanti e l’udienza sulle intercettazioni da trascrivere è stata aggiornata al prossimo 30 luglio. In queste due settimane, se lo vorranno, Palamara e i suoi avvocati potranno ascoltare anche i files «privi di contenuto» e fare ulteriori istanze. Si tratta di questioni tecnico-giuridiche apparentemente secondarie che in realtà ne nascondono una molto importante: l’utilizzabilità delle intercettazioni in cui Palamara parla con i deputati Cosimo Ferri (giudice in aspettativa, anche lui sotto procedimento disciplinare) e Luca Lotti, protetti dall’immunità parlamentare: sono intercettazioni «casuali», quindi utilizzabili contro chi non gode di alcuna immunità (Palamara), oppure dal contenuto delle altre telefonate era prevedibile che il magistrato indagato avrebbe incontrato i deputati, e dunque il microfono nascosto nel suo cellulare andava staccato, secondo le disposizioni impartite dai pm di Perugia agli investigatori della Guardia di finanza? In sostanza: quelle intercettazioni furono legittime o «in violazione della Costituzione», come ribadito ieri da uno dei difensori di Palamara, l’avvocato Benedetto Buratti? Anche su questo punto, sottoscrivendo la memoria trasmessa al gip, il neo-procuratore Cantone ha dato la sua risposta schierandosi al fianco e a sostegno del lavoro svolto dai sostituti procuratori Gemma Milano e Mario Formisano, prima del suo arrivo: nessuna violazione delle regole, e tantomeno della Costituzione. Le intercettazioni degli incontri con Ferri e Lotti furono «casuali», non programmate né programmabili secondo il funzionamento del trojan. Ne consegue che quei colloqui registrati — a cominciare dalla famosa riunione notturna dell’hotel Champagne, tra l’8 e il 9 maggio 2019, nella quale si pianificavano le strategie per le nomina del procuratore di Roma e altre questioni — sono pienamente utilizzabili, sebbene non sia lì la prova della corruzione contestata all’ex componente del Csm; quell’incontro è un dettaglio che serve a comprendere come si muoveva Palamara, e ciò su cui poteva incidere: la «messa disposizione della funzione» in favore dell’imprenditore Fabrizio Centofanti è dimostrata — secondo i pm — dai viaggi pagati e altri indizi raccolti. Per Luca Palamara, invece, i viaggi sembrano essere il problema minore; lui, già soddisfatto perché è caduta l’accusa di aver intascato 40.000 euro per pilotare una nomina, è convinto di poter dimostrare di non aver mai fatto nulla che non fosse la «semplice» spartizione di poltrone e promozioni. Ma intanto, in attesa della richiesta di rinvio a giudizio e dell’udienza per decidere l’eventuale processo, la battaglia legale appena cominciata è sulle intercettazioni da utilizzare.

Caso Palamara, i buchi del trojan giustificati dalla procura di Perugia. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Il trojan è un tarocco costoso. Ormai non ci sono più dubbi. Il “rivoluzionario” strumento investigativo tanto apprezzato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio si è rivelato, come si dice a Roma, una sòla. Per smascherare la truffa del “captatore informatico” che trasforma il cellulare in un microfono è stata necessaria l’udienza stralcio, tenutasi ieri mattina davanti al gip di Perugia Lidia Brutti e rinviata per le conclusioni al 30 luglio, per decidere quali conversazioni intercettate nell’indagine a carico di Luca Palamara debbano essere trascritte. La memoria presentata dai pm della Procura del capoluogo umbro dovrebbe essere trasmessa immediatamente al Parlamento affinché, d’urgenza, vieti l’utilizzo del trojan, almeno fino a quando non saranno risolti gli innumerevoli problemi tecnici che affliggono il tremendo captatore. Un po’ come successo con la Tesla, l’auto che si guida da sola e che ogni tanto finisce in qualche burrone perché non ha visto la curva. Vediamo dunque alcuni passaggi della memoria dei pm titolari del fascicolo e vistata dal neo procuratore Raffaele Cantone. «Il captatore viene impostato per registrare per un tempo non eccessivamente lungo (5/8 ore) in quanto diversamente, potrebbe determinare un consumo eccessivo della batteria» causandone “il blocco”, esordiscono Mario Formisano e Gemma Miliani. «La selezione di un intervallo limitato rispetto alle 24 ore – puntualizzano – è imposta dalle ovvie esigenze di cautela volte ad evitare che l’intercettato si renda conto della presenza ‘malevola’ all’interno del proprio dispositivo elettronico». Adesso, però, arriva il bello. «L’avvio della registrazione all’orario programmato per ogni giornata è automatico e prescinde dalla successione dei dialoghi. È di tutta evidenza che il captatore può avviarsi quando un colloquio è già in corso». Ma non solo. «La registrazione avviene solo quando lo schermo del terminale è spento» e «si interrompe quando la schermo è acceso». Dopo che la registrazione è stata interrotta per l’accensione dello schermo, prima che essa riprenda devono trascorrere “alcuni secondi”. La “chicca” riguarda l’ascolto di queste conversazioni che, si è scoperto, non avviene in diretta ma in differita. «La registrazione avviene in parti (chunks) di 5 minuti, salvo che non ci sia stata una interruzione determinata dall’accensione dello schermo». Tali chunk vengono poi «messi in coda per la trasmissione al server della Procura». «Il materiale invio delle varie registrazioni dipende dal numero di chunk messi in coda ed è condizionato dal fatto che il dispositivo monitorato si trovi in un’area con adeguata copertura di rete». Quindi, concludono i pm, «è di tutta evidenza che l’ascolto dei chunk non può avvenire in diretta e il tempo che intercorre per la captazione della fonia e la possibilità di ascolto dipende dalla somma tra il tempo di chiusura di ogni chunk, il tempo di "coda", di trasmissione e infine il tempo di elaborazione sul server». Tutto chiaro? Riassumendo, il maresciallo decide, come con il videoregistratore, quando il trojan si accenderà e si spegnerà. Nel caso della cena di Palamara e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone era spento.Il periodo di ascolto dovrà essere al massimo di 5/8 ore altrimenti il telefono si scarica, va in blocco, e l’intercettato si accorge che c’è qualcosa che non funziona. Il trojan si attiva solamente con lo schermo spento. Appena si tocca lo schermo, per vedere l’ora, leggere una mail, aprire un’app, si blocca. Chi compulsa freneticamente il cellulare rende di fatto inutilizzabile il trojan. La ripartenza non è immediata. La trasmissione delle conversazioni intercettate avviene poi per blocchi di 5 minuti. Se ci si trova senza copertura di rete o con Edge, questi blocchi non riescono a essere inviati al server della Procura e vanno in ‘coda’. Quando torna il segnale allora possono essere spediti. Il server della Procura, infine, ha bisogno di tempo per elaborare i dati trasmessi. Solo a quel punto il maresciallo può procedere all’ascolto. Si tratta dunque di ascolti “postumi”, sottolineano i pm, proprio per “l’impossibilità tecnica” di ascoltare in diretta. Ed è per questo motivo, concludono i pm, che l’incontro fra Palamara, Luca Lotti e Cosimo Ferri all’hotel Champagne è stato registrato.

 La difesa di Palamara: “Chi ha ordinato di intercettare i parlamentari?”. Il Dubbio il 28 luglio 2020. La difesa di Luca Palamara in vista del 30 luglio prossimo quando è in programma l’udienza stralcio a Perugia ha depositato in Procura una richiesta di acquisizione di documentazione in relazione alle intercettazioni, tra chi quelle all’hotel Champagne, nell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. La difesa di Luca Palamara in vista del 30 luglio prossimo quando e’ in programma l’udienza stralcio a Perugia ha depositato in Procura una richiesta di acquisizione di documentazione in relazione alle intercettazioni, tra chi quelle all’hotel Champagne, nell’inchiesta che lo vede indagato per corruzione. ”E’ precipuo interesse di questa difesa – scrivono nella richiesta gli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, difensori dell’ex consigliere del Csm – dimostrare che le conversazioni datate 8 e 9 maggio 2019 aventi ad oggetto la registrazione degli incontri del dott. Palamara presso l’Hotel Champagne con i parlamentari Ferri e Lotti e altri consiglieri del Csm vennero intercettate nonostante la chiara direttiva del 10 maggio 2019 impartita dalla Procura di Perugia alla Polizia Giudiziaria, preposta alle operazioni di ascolto delle intercettazioni telefoniche e con captatore informatico, di spegnere il microfono ogni qualvolta nelle conversazioni del dottor Palamara fosse stato coinvolto un parlamentare”. ”Per queste ragioni anche al fine di poter esplicare compiutamente il diritto di difesa del dott. Palamara in ogni stato e grado di qualsiasi procedimento come riconosciuto dall’art.24 della Costituzione risulta necessario comprendere – sottolineano nella memoria – le ragioni per le quali: il microfono non sia stato spento in occasione degli incontri programmati del 9 maggio 2019 presso l’Hotel Champagne; nella giornata del 9 maggio del 2019 il trojan abbia smesso di funzionare e di registrare le ulteriori conversazioni dalle ore 16.02 come risulta dagli ascolti dei file audio presso il server della Procura di Roma”.

Sempre nella memoria i difensori di Palamara chiedono ”con carattere di urgenza” l’acquisizione della documentazione relativa a ”ordini e memoriali di servizio emessi ”dal Comandante del Nucleo della Gdf Colonnello Paolo Compagnone d’ordine l’ufficiale di P.G. Gerardo Mastrodomenico c/o dal maggiore Fabio Di Bella” relativi alla predisposizione delle attività degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria nell’ambito del procedimento penale 6652/18 Rgn e 321/19 Rgnr pendente presso la Procura di Perugia relativamente all’effettivo orario di lavoro nei mesi di marzo, aprile e maggio 2019”. Si chiede inoltre di acquisire ”eventuali richieste di anticipo di spese per missione fuori sede da parte dei predetti ufficiali e agenti preposti alle indicate operazioni di polizia giudiziaria; attestati di presenza del colonnello Gerardo Mastrodomenico presso la Scuola di perfezionamento per le forze di Polizia dal febbraio 2019 al giugno 2019; acquisizione dei tabulati telefonici in entrata ed in uscita degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria indicati negli ordini di servizio dell’8 e del 9 maggio 2019; acquisizione ed indicazione del nominativo dell’incaricato da parte di Rcs spa nelle giornate dell’8 e del 9 maggio 2019”.

Palamara contro Davigo: "Si astenga dal processo. È teste e giudice". La difesa di Palamara chiede che Davigo non faccia parte del collegio che inizia martedì. Davigo è stato chiamato da Palamara come teste. Giuseppe Aloisi, Venerdì 17/07/2020 su Il Giornale. Il caso Palamara continua a far discutere. Martedì prossimo inizierà il processo disciplinare all'ex membro del Consiglio superiore della magistratura. Tra coloro che dovrebbero fart parte del collegio giudicante c'è il magistrato Piercamillo Davigo. Ma la parte di Palamara, sul fatto che il giudice Piercamillo Davigo eserciti questo ruolo durante il procedimento, sembra avere più di qualche perplessità. Questo, almeno, è quello che si deduce leggendo la memoria presentata da un altro giudice, Stefano Giaime Guizzi, che è il difensore di Luca Palamara. Nella memoria, stando a quanto riportato dall'Adnkronos, si legge infatti quanto segue: "In particolare, il dottor Fava ha riferito che in occasione di un incontro avvenuto a fine febbraio 2019 presso il ristorante “Il Baccanale” oggetto del suo colloquio - colloquio che sarebbe avvenuto proprio tra Fava e Davigo - fu, oltre ad una sua possibile candidatura alle elezioni per il rinnovo degli organismi dell'Associazione nazionale magistrati, l'esistenza di 'divergenze di vedute' all'interno del suo Ufficio di appartenenza (la Procura della Repubblica di Roma, e in particolare di “possibili conflitti di interesse” che egli aveva segnalato "tra il Procuratore ed alcuni indagati". Queste sono le argomentazioni sollevate dal difensore di Luca Palamara. Piercamillo Davigo sarebbe peraltro un "teste a discapito" di Palamara. Un'altra motivazione per cui, stando alla memoria, il magistrato del collegio dovrebbe astenersi. Il legale di Palamara ha dichiarato che, nel caso in cui Davigo non si astenesse, sarebbe allora ricusato. Per il legale di Luca Palamara la posizione in cui si trova Piercamillo Davigo è "sui generis". Il perché è presto detto. Per la difesa di Luca Palamara "si verrebbe a determinare la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi". Davigo, insomma, non dovrebbe far parte del collegio. Questa è la sintesi della richiesta. Palamara, da martedì, dovrà rispondere a questa accusa: "Comportamenti gravemente scorretti". Bisognerà vedere se, dopo la presentazione della memoria, Davigo farà o no parte del collegio. L'altro accusato - come ripercorso dall'Agi - è l'onorevole Cesare Ferri, che ora è parlamentare per Italia Viva di Matteo Renzi ed è dunque in aspettativa. Le accuse sono state mosse anche nei confronti di altri cinque membri del Consiglio superiore della magistratura, ossia Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuol. Nicola Pisani e Antonello Cimadomo, legali di Luigi Spina, uno dei 5 ex togati del Csm dimissionari lo scorso anno per il caso Palamara e per cui è stato chiesto un processo disciplinare, hanno scritto - sempre secondo l'Adnkronos - a Piercamillo Davigo per invitarlo a a presentarsi "per lo svolgimento di indagini difensive ai sensi dell'art. 391 bis del codice di procedura penale". In particolare i legali chiedono al magistrato di "rendere dichiarazioni ai sensi degli articoli 391 bis c.p.p. con riferimento ai fatti contestati al Dott. Spina nell'ambito del procedimento penale 6652/2018 presso la Procura della Repubblica di Perugia in quanto in grado di riferire circostanze utili ai fini dell'attività investigativa".

I fatti. "Comportamenti gravemente scorretti" in violazione dei doveri imposti ai magistrati. Sono le "accuse" che la procura generale della Cassazione, titolare, con il Guardasigilli, dell'azione disciplinare per le toghe, muove al pm di Roma (ora sospeso) Luca Palamara, al magistrato in aspettativa, oggi deputato di Italia Viva, Cosimo Ferri, e ai 5 togati del Csm - Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli - che hanno dovuto lasciare Palazzo dei Marescialli dopo l'emergere dello scandalo dalle intercettazioni dell'inchiesta di Perugia. Il processo davanti alla disciplinare del Csm prenderà il via martedì prossimo, 21 luglio: al centro, in particolare, la riunione notturna del 9 maggio 2019 all'Hotel Champagne per parlare di nomine ai vertici degli uffici giudiziari, e, soprattutto, di quella a capo della procura di Roma, come emerso dalle conversazioni intercettate dal trojan inoculato nel cellulare di Palamara. Tra i presenti, anche il deputato dem Luca Lotti, per il quale i pm della Capitale avevano già chiesto il rinvio a giudizio per la fuga di notizie sul caso Consip.

Il pranzo "confermato" dal pm. Fava e Davigo, dunque, si sarebbero visti a pranzo. Ma chi che avrebbe comunicato l'avvenuto incontro? La memoria sostiene che l'evento - il colloquio tra Davigo e Fava - abbia trovato conferma nel pm Enrico Amelio. I due si sarebbero incontrati all'inizio del 2019. Secondo l'Adnkronos, all'interno della memoria difensiva di Palamara, si legge che Amelio"ha confermato che nel mese di marzo 2019 il dottor Fava, dopo avergli riferito di aver “redatto una richiesta di misura cautelare nei confronti dell'avvocato Amara, che non aveva ottenuto il visto del Procuratore” (ciò che aveva determinato “dei contrasti che avevano condotto alla revoca dell'assegnazione”), apprese, dallo stesso, della sua volontà di 'fare un esposto, in quanto era preoccupato del fatto che la vicenda potesse andare contro di luì, tanto che il medesimo dott. Amelio ebbe 'l'impressione che il suo intentò (ovvero, del dottor Fava) “fosse tutelarsi da una vicenda, in cui si sentiva, suo malgrado, coinvolto”, donde “la necessità di rivolgersi al Csm perché temeva di poter subire un danno da quanto accaduto”.

Palamara ricusa Davigo come suo giudice al Csm. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it. Di fronte alla sezione disciplinare, che si riunirà il 21 luglio, Stefano Guizzi, il magistrato che difende l’ex pm ed ex toga del Csm, ha presentato l’istanza per chiedere a Davigo di farsi da parte. Fuori Davigo dal “mio” giudizio disciplinare. Detto da Luca Palamara contro Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite ora consigliere del Csm, la cui presenza è confermata come componente della sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli che da martedì 21 luglio, alle 14, giudicherà l’ex pm di Roma, ex presidente dell’Anm, ex toga di Unicost, sotto inchiesta a Perugia per corruzione. Accusato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi di aver partecipato alla cena all’hotel Champagne del 9 maggio 2019 per pilotare la scelta del procuratore di Roma e di aver tentato di influire di conseguenza su un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ma Palamara, che ha già presentato una lista di 133 testi, adesso chiede che Davigo si astenga dal giudizio. Nel luglio dell’anno scorso Palamara aveva fatto la stessa richiesta a Sebastiano Ardita, anche lui togato del Csm, che però stavolta non figura nel parterre dei “giudici” del Csm. La richiesta di astensione nasce dal fatto che Davigo, come lo stesso Ardita, è anche uno dei 133 testi citati dallo stesso Palamara. È stato il difensore di Davigo davanti al Csm, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, a presentare oggi la richiesta di astensione, in cui si contesta a Davigo il rischio di ritrovarsi, com’è scritto nella richiesta di “invito all’astensione”, “in una condizione davvero sui generis, la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi”. Ma quali sono i fatti che, secondo la difesa di Palamara, renderebbero Davigo incompatibile con il ruolo di giudice? Nella richiesta Guizzi parla “di un incontro avvenuto a fine febbraio 2019 presso il ristorante Il Baccanale tra lo stesso Davigo, l’ex pm di Roma Stefano Fava, e un altro pm di piazzale Clodio, Erminio Amelio”. Guizzi, nella memoria firmata anche da Palamara, afferma che “oggetto del colloquio con i consiglieri Davigo e Sebastiano Ardita fu, oltre a una sua possibile candidatura alle elezioni per il rinnovo degli organismi dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’esistenza di divergenze di vedute all’interno della Procura di Roma, e in particolare di possibili conflitti di interesse che egli aveva segnalato tra il Procuratore e alcuni indagati”. Fava è tra i testi richiesti da Palamara, così come Amelio. Il quale, secondo la richiesta di astensione, “ha confermato, per avervi egli stesso preso parte, la circostanza del pranzo”. Amelio avrebbe confermato inoltre che “nel mese di marzo 2019, Fava, dopo avergli riferito di aver redatto una richiesta di misura cautelare nei confronti dell’avvocato Pietro Amara, che non aveva ottenuto il visto del Procuratore (ciò che aveva determinato dei contrasti che avevano condotto alla revoca dell’assegnazione), apprese, dallo stesso, della sua volontà di fare un esposto, in quanto era preoccupato del fatto che la vicenda potesse andare contro di lui, tanto che il medesimo Amelio ebbe l’impressione che l’intento di Fava fosse quello di tutelarsi da una vicenda, in cui si sentiva, suo malgrado, coinvolto. Da qui la necessità di rivolgersi al Csm perché temeva di poter subire un danno da quanto era accaduto”. Non una parola di reazione da parte di Davigo, che fa parte stabilmente della sezione disciplinare del Csm.  Sarà la sezione stessa, martedì prossimo, a decidere.

Luca Palamara, ecco perché Piercamillo Davigo non può giudicarlo: altro sfondone in magistratura. Cristiana Lodi su Libero Quotidiano il 21 luglio 2020. Testimone di che? Cosa avrebbe visto o sentito o detto Piercamillo Davigo? Perché egli, togato del Csm, dovrebbe mai rinunciare a "processare" Luca Palamara nel procedimento disciplinare che si apre oggi pomeriggio, alle ore due, a Palazzo dei Marescialli? Pare che il giudice Davigo abbia preso parte (stando alla difesa dell'imputato Palamara) a un pranzo "sinistro" insieme con altri tre magistrati. E che durante il banchetto si sia il giudice espresso in merito all'opportunità di segnalare o meno al Csm una diatriba in corso fra uno dei tre commensali presenti (invitato lì per diventare parte della sua corrente Autonomia e Indipendenza) e il Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone (oggi in pensione) e il suo aggiunto Paolo Ielo. Una diatriba spinosa quanto famigerata quella in atto in quel momento (era la fine di febbraio 2019) fra il capo della poltrona giudiziaria più ambita d'Italia (Giuseppe Pignatone appunto) e il "suo" magistrato presente al pranzo con Piercamillo Davigo (ossia il pm Stefano Fava). Motivo? Il conflitto si trasformerà ben presto in un esposto al Csm. Succede a distanza di un mese dal pranzo. E l'esposto, guarda il caso, adesso è oggetto proprio di una delle incolpazioni (anzi della più importante accusa) da cui dovrà difendersi Luca Palamara nel procedimento odierno. Come non bastasse, l'indagato Luca Palamara, sotto inchiesta per corruzione alla Procura della Repubblica di Perugia (dove ci sono i magistrati competenti a giudicare i magistrati), ha citato proprio Piercamillo Davigo come suo testimone, in virtù di quanto accaduto durante quel pranzo. Insomma è come se ancora prima che cominci il processo, ci si accorga che la giuria chiamata a decidere se assolvere o condannare, sia stata testimone degli stessi reati contestati all'imputato. Una babilonia in piena regola. Per non parlare degli altri 132 nomi eccellenti, fra toghe e politici e giornalisti intercettati dal trojan infilato nel telefono di Luca Palamara, e che adesso lui cita come testimoni. Alzando così il sipario sullo strapotere incontrollato e marcio della casta togata. 

LE DICHIARAZIONI. Ma vediamo nel dettaglio e verbali alla mano, quel che accadde «alla fine di febbraio 2019» intorno a una tavola apparecchiata con le tovaglie di carta, al ristorante Baccanale di Roma, via Della Giuliana 59. Pochi passi dalla Procura di Piazzale Clodio. A raccontarlo è proprio il pm Stefano Fava in un verbale datato 6 novembre 2019 e raccolto alle ore 17 e 30 nello studio dell'Avvocato Benedetto Marzocchi (legale di Luca Palamara) e alla presenza del difensore dello stesso pm. Il verbale è ovviamente oggetto della richiesta di ricusazione che verrà presentata oggi alla prima sezione disciplinare del Csm, che mette alla "sbarra" il magistrato romano (sospeso dalle funzioni e dallo stipendio), leader incontrastato di Unicost e dell'Anm, nonché ex togato del Csm Palamara. Domanda: «Vero, dott. Fava, come emerso dagli atti di indagine e dalle notizie di stampa che coinvolgono il dottor Palamara, che lei ha presentato una segnalazione al Consiglio Superiore della Magistratura in merito alla gestione di alcune inchieste giudiziarie a lei co-assegnate con altri pubblici ministeri di Roma? Se sì, quando ha inoltrato l'esposto al Csm?». Stefano Fava: «Preciso che la mia segnalazione non riguarda inchieste giudiziarie ma una riunione indetta per il 5 marzo 2019 dal dott. Pignatone concernente una sua problematica di natura personale e familiare ovvero se il medesimo dott. Pignatone si dovesse astenere o meno nei procedimenti che coinvolgevano l'avvocato Amara Bigotti e Balistreri avendo costoro conferito incarichi professionali al fratello del dott. Giuseppe Pignatone stesso, che fa l'avvocato e si chiama Roberto Pignatone. La mia segnalazione è stata presentata il 27 marzo 2019». In sostanza, il pm Stefano Fava, nel periodo in cui incontra Davigo per entrare a fare parte della sua corrente "Autonomia e Indipendenza" (è febbraio 2019) è in feroce conflitto «divergenze di vedute all'interno del mio Ufficio di appartenenza ossia la Procura della Repubblica di Roma, (per usare le sue parole)», con il procuratore Giuseppe Pignatone e l'aggiunto Paolo Ielo. Causa: «Possibili conflitti di interesse tra il Procuratore ed alcuni indagati». In pratica il pm Stefano Fava ha presentato una richiesta di misura cautelare nei confronti di tale avvocato Amara, che però non ottiene il visto del Procuratore. I contrasti si inaspriscono al punto di arrivare alla revoca dell'assegnazione del fascicolo per il pm. Il 5 marzo 2019 , dopo una riunione convocata da Pignatone presente Fava, la faccenda tracima. Spingendo così il magistrato inquirente a consegnare, successivamente, l'esposto al Csm contro il Procuratore Giuseppe Pignatone che gli ha tolto l'inchiesta. È il 27 marzo 2019. Gli incontri con Davigo sono antecedenti sia alla riunione del 5 marzo, sia alla data di consegna dell'esposto 22 giorni dopo; ma il conflitto è già in corso e infuocatissimo quando Piercamillo e il pm denunciatario s' incontrano a tavola. Domanda: «Che incontri ha avuto col dottor Piercamillo Davigo?». Stefano Fava: «() vi sono stati più incontri alla presenza del dott. Erminio Amelio, Sebastiano Ardita e del dott. Piercamillo Davigo, che io ricordi a cena al ristorante "Sicilia in Bocca" di Roma Via Flaminia e poi alla fine di febbraio 2019, prima di marzo, a pranzo al ristorante "Il Baccanale 59" in Via della Giuliana 59». Domanda: «In questi incontri avete parlato della segnalazione da lei fatta al CSM?». Stefano Fava: «Negli ultimi due incontri sicuramente, nel primo ritengo di no anche perché risalente con ogni probabilità ai mesi di dicembre 2018 o gennaio 2019. Tengo a precisare che il tema del primo incontro era la richiesta, sia da parte del dott. Ardita che del dott. Davigo, di propormi come candidato per le elezione all'ANM. Ricordo che nel secondo incontro, avvenuto a fine febbraio prima di marzo 2019 presso il ristorante "Il Baccanale 59", abbiamo parlato sia della mia eventuale candidatura e ricordo perfettamente di aver loro rappresentato delle divergenze di vedute all'interno al mio ufficio e, in particolare, dei possibili conflitti di interesse che avevo segnalato tra il procuratore ed alcuni indagati». Domanda: «Che reazione hanno avuto il dott. Ardita ed il dott. Davigo?». Stefano Fava: «Hanno giudicato la vicenda di indubbia rilevanza e che meritava approfonditi accertamenti da parte del CSM». Dunque? Piercamillo Davigo, consigliere togato del Csm chiamato oggi a giudicare Luca Palamara, oltre a essere stato citato come suo testimone, non solo sarebbe stato spettatore delle esternazioni di Stefano Fava riguardo i suoi conflitti col procuratore Giuseppe Pignatone, ma avrebbe addirittura (stando a quanto mette per iscritto Fava stesso) giudicato quei conflitti «di indubbia rilevanza» e «meritevoli di approfondimenti da parte del Csm». Cosa che infatti Stefano Fava farà: consegnando il suo esposto contro il procuratore. E si tratta dello stesso esposto diventato oggetto di incolpazione nei confronti di Palamara intercettato dal trojan nella sua "guerra" contro lo stesso procuratore "rivale" di Fava. Che evidentemente non era il solo a volere combattere. Cosa dice Piercamillo Davigo? L'ho chiamato sul cellulare e interpellato sulla questione, illustrandogli il verbale di Stefano Fava citato anche nella richiesta di ricusazione presentata dalla difesa di Palamara. Davigo si è arrabbiato, ha aggiunto che querelare Libero è per lui un «divertimento». Gli abbiamo ricordato che a leggere quanto accade all'interno della magistratura italiana, troviamo poco da ridere. 

IL PRANZO. Allora il consigliere del Csm che oggi dovrebbe giudicare Luca Palamara, si è calmato e ha precisato che lui a quel pranzo in Via Della Giuliana a Roma, alla fine di febbraio 2019, c'era sì. Ma che a parlare dei conflitti tra il pm Stefano Fava e il Procuratore erano gli altri commensali e lui no. A parlare, sottolinea, erano: «Fava e Ardita». Ma allora, se Davigo c'era e li ha sentiti parlare, significa che è stato davvero testimone del conflitto col procuratore diventato poi anche oggetto di colpa per Luca Palamara. Sotto suo processo adesso. Cosa succederà quindi in aula in questo pomeriggio di luglio inoltrato? Potrebbe esserci subito un rinvio. Di certo la difesa di Luca Palamara presenterà a Piercamillo Davigo il cortese invito ad astenersi. In buon ordine. E se lui non lo farà, scatterà la richiesta di ricusazione firmata dalla difesa, che sarà esaminata da un collegio di sei togati. Con deposito dell'istanza firmata dalla difesa, che sarà esaminata da un collegio di sei togati. Escluso Piercamillo Davigo. E qui ci si domanda: come finirà? Ci sarà un giudice a palazzo dei Marescialli. Oppure la magistratura chiamata a processare se stessa liquiderà sbrigativamente la pratica, facendo la pelle al capro espiatorio Luca Palamara? Sotterrando così la verità insieme col già defunto Stato di diritto? Salvando però la casta.

Luca Palamara giudicato da Piercamillo Davigo? Il cavillo giuridico che rivela l'ultima farsa. Pieremilio Sammarco - (Professore di Diritto Comparato Università di Bergamo), su Libero Quotidiano il 26 luglio 2020. Con l'imminente procedimento disciplinare a carico dell'incolpato Palamara dinanzi al Csm vi è l'occasione per formulare qualche rilievo critico sulle disposizioni normative che ne regolano il suo funzionamento. La Sezione Disciplinare del Csm avvia un procedimento di natura giurisdizionale che dovrebbe avere i crismi di un processo dinanzi ad un giudice ordinario, attribuendo all'incolpato un set di diritti irrinunciabili ed incomprimibili che sono propri del giusto processo. Infatti, al procedimento disciplinare a carico dei magistrati si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale sul dibattimento. Ma, in realtà, questo non avviene e chi si trova nella scomoda posizione di essere giudicato per le sue condotte, patisce una serie di norme regolamentari che sacrificano alcuni dei suoi diritti. Ad esempio, prendiamo l'istituto della ricusazione (attivato da Palamara nei confronti di Davigo): esso è speculare al dovere del giudice di astenersi dal giudicare in determinate circostanze, tra cui: a) se ha un interesse nel procedimento, o se una delle parti è creditore o debitore di lui o del coniuge o dei figli; b) se vi è inimicizia tra lui o un prossimo congiunto ed una delle parti private; c) se il giudice, nell'esercizio delle sue funzioni e prima della sentenza, manifesti indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto d'imputazione; d) se esistono altre gravi ragioni di convenienza. Quando viene presentata una ricusazione di uno o più membri della Sezione Disciplinare giudicante, la legge 195 del 1958 che regola la costituzione ed il funzionamento del Csm, all'art. 6, comma 5°, prevede che «sulla ricusazione di un componente della Sezione Disciplinare, decide la stessa sezione, previa sostituzione del componente ricusato con il supplente corrispondente». In sostanza, la ricusazione, anziché essere decisa da un organo diverso, come accade normalmente in sede giurisdizionale, viene trattata dal medesimo collegio destinatario della ricusazione. Si tratta di una evidente singolarità che non garantisce una piena indipendenza e terzietà da parte della Sezione Giudicante che, in linea teorica, nei casi di coinvolgimento con l'incolpato, potrebbe avere interesse a riversare solo su quest' ultimo gli effetti della condotta da sanzionare, senza che possa essere estesa anche agli altri componenti giudicanti. L'anomalia della Sezione Giudicante è ancor più palese nel caso eclatante in cui un incolpato presenti un'istanza di ricusazione nei confronti di tutti i componenti della Sezione, compreso i suoi membri supplenti: la giurisprudenza dello stesso Csm, in questo caso, ha precisato che «è inammissibile l'istanza di ricusazione di otto componenti della sezione disciplinare del Csm poiché l'istituto della ricusazione non può operare qualora esso conduca alla paralisi della funzione giurisdizionale, che è pur sempre essenziale e prioritaria anche rispetto alle giustificate esigenze di una decisione scevra da sospetti di parzialità o di prevenzione» (Csm, 30 maggio 2001). Di fatto, stando così le cose, l'istituto della ricusazione, tanto importante per eliminare ogni dubbio sulla imparzialità del giudice, nel procedimento disciplinare è svuotato di potenza e cade nel vuoto, proprio perché la legge del 1958 non affida ad un organo estraneo al Csm la valutazione della sua fondatezza. E in questo modo l'esigenza di garantire che questo particolare e delicato procedimento sia improntato a terzietà ed indipendenza va a farsi benedire. 

Luca Palamara, chi è l'uomo di Alfonso Bonafede nel plotone del Csm che giudicherà il pm romano. Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. Più che ad un processo, Luca Palamara sembra andare incontro ad un plotone d’esecuzione. Come se non bastasse Piercamillo Davigo - ricusato dal pm romano per aver già manifestato convinzioni ostili - all’ultimo minuto si è aggiunto un altro membro alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di Filippo Donati, professore di diritto costituzionale a Firenze che è meglio conosciuto come l’uomo di Alfonso Bonafede. Il Giornale ha ricostruito il suo ingresso nel Csm, avvenuto direttamente attraverso la piattaforma Rousseau, che due anni fa lo designò insieme a un altro fiorentino, Alberto Maria Benedetti, legato al professor Guido Alba, socio di studio di Giuseppe Conte. In pratica se Benedetti è considerato la voce del premier, quando parla Donati è come se lo facesse il ministro grillino. Secondo Il Giornale l’aggiunta di Donati è la dimostrazione che l’intervento “netto e profondo” promesso da Bonafede passa dalla cacciata di Palamara dalla magistratura. Al pm romano l’arduo compito di sopravvivere quello che sembra un plotone d’esecuzione: di certo non soccomberà senza combattere. 

Entra l'uomo di Bonafede nel plotone del Csm che giudicherà Palamara. Nella sezione disciplinare oltre a Davigo ci sarà Donati, fedelissimo del Guardasigilli. Luca Fazzo, Sabato 18/07/2020 su Il Giornale. E adesso per Luca Palamara la situazione si fa davvero complessa. Perché nella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che martedì prossimo deciderà la sua sorte entra un altro nome certamente non benevolo nei suoi confronti. A Piercamillo Davigo (che Palamara accusa di avere già manifestato convinzioni ostili: «Manifestò parere su oggetto del procedimento») e agli altri quattro membri della sezione si è aggiunto in dirittura d'arrivo un altro membro laico - cioè di nomina parlamentare - del Csm: ed è, tra tutti i membri dell'organo di autogoverno delle toghe, quello più direttamente collegato al ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede. E che l'intervento «netto e profondo» promesso dal ministro sul Csm passi per la cacciata di Palamara dalla magistratura non c'è dubbio, tanto che anche Bonafede ha promosso l'azione disciplinare a carico dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. L'uomo di Bonafede all'interno del Csm si chiama Filippo Donati, professore di diritto costituzionale a Firenze, entrato in Csm direttamente attraverso la piattaforma Rousseau, che due anni fa lo designò insieme a un altro fiorentino, Alberto Maria Benedetti, legato al professor Guido Alpa, socio di studio del premier Conte. Se in Csm Benedetti è considerato la voce del premier, quando parla Donati è come se parlasse il ministro. Che la composizione della sezione disciplinare sia stata definita solo a ridosso dell'udienza si spiega solo con il nervosismo che agita il consiglio superiore, soprattutto dopo che Palamara è uscito allo scoperto con la torrenziale lista dei centotrentatrè testimoni di cui chiede l'ammissione. Il tentativo del pm romano di trasformare il procedimento a suo carico in un processo a dieci anni di lottizzazione delle cariche giudiziarie rischia di trasformare il «caso Palamara» in una valanga che travolge tutto e tutti. Di certo, la sezione disciplinare non ammetterà tutti e 133 i testimoni chiesti dall'incolpato. Ma se davvero, come ipotizzava l'altro giorno il Riformista, venissero ammessi solo dieci testi, la sezione si tirerebbe addosso l'accusa di preparare un processo farsa dall'esito predeterminato. Il primo scoglio che martedì la sezione dovrà affrontare sarà la ricusazione di Davigo. L'ex pm milanese uscirà dalla stanza, e gli altri decideranno la sua sorte. Sarebbe singolare, visti i buoni rapporti di Davigo col ministro, che da Donati venisse un voto contro alla permanenza del «dottor Sottile» nella sezione. Inizio in salita, dunque, per Palamara. Ma quando si entrerà nel merito delle accuse, l'incolpato è deciso a dare battaglia. L'atto di incolpazione, consegnato ieri alla stampa, si articola sostanzialmente su due temi. Il primo sarebbero le manovre compiute da Palamara contro Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma, tradotte in un comportamento «gravemente scorretto» finalizzato a una «strategia di discredito»: e su questo Palamara intende dimostrare di non avere mai raccolto alcun dossier nè su Ielo nè su suo fratello Domenico, avvocato dell'Eni. Il secondo, cruciale, riguarda l' «uso strumentale della propria qualità e posizione, diretto, per la modalità di realizzazione, a condizionare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quali la proposta e la nomina di uffici direttivi di vari uffici giudiziari da parte del Consiglio superiore della magistratura». Quello, dirà Palamara, che facevano tutti. Dalla notte dei tempi.

E il giglio magico grillino piazza la bandierina al Csm. Eletto per M5s il costituzionalista fiorentino Donati Dopo Conte, un altro giurista legato a Bonafede. Domenico Di Sanzo, Sabato 21/07/2018 su Il Giornale. Da vocalist nelle discoteche di Mazara del Vallo, così raccontano gli amici siciliani, a centro di gravità permanente delle nomine grilline sulla giustizia. Per Alfonso Bonafede il passo è stato breve. Dalla provincia di Trapani a Firenze, dove si è laureato e ha messo in piedi un piccolo «Giglio magico» grillino che ha già espresso un presidente del Consiglio e uno degli otto membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. I fiorentini eletti dal Parlamento giovedì come componenti non togati del Csm sono due: David Ermini e Filippo Donati. Il primo è un deputato del Pd, nato a Figline Valdarno in provincia di Firenze, renziano di stretta osservanza. Il secondo è un professore di Diritto Costituzionale all'ateneo del capoluogo toscano. Le contraddizioni di Donati non sono poche. Conosce personalmente il Guardasigilli Alfonso Bonafede, a sua volta in passato assistente gratuito del premier Conte nella stessa università, ed è stato indicato dal Movimento Cinque Stelle nel ruolo di membro del Csm. Allo stesso tempo, ha sostenuto il Sì al referendum costituzionale di Renzi nel 2016. Donati ha fatto parte di uno dei quattro comitati cittadini per il Sì, e ha collaborato con la scuola di formazione politica Eunomia, fondata dal sindaco renziano di Firenze Dario Nardella. Lo scouting fiorentino di Bonafede sta facendo arrabbiare più di un parlamentare del Movimento Cinque Stelle. Per non parlare della «base» inferocita nella città gigliata. E, cosa che accade raramente tra i grillini, il deputato Andrea Colletti ha espresso pubblicamente il suo dissenso. Lo ha fatto con un post su Facebook: «Noto con (dis)piacere - ha scritto - che almeno due nomi provengono da Firenze, come avveniva nei vecchi metodi della consorteria toscana di Renzi e Company». Continua Colletti, parlamentare entrato nell'orbita della dissidenza M5s «tale nome me lo sarei aspettato da uno dei sodali di Renzi, vorrei proprio sapere chi ha fatto questi nomi e con quali criteri». Non ci vuole molto a capire l'identità dell'autore della cooptazione di Donati. Lo stesso che ha chiamato Giuseppe Conte e ha fatto da sponsor all'avvocato Luca Lanzalone: Alfonso Bonafede. L'avvocato siciliano, a quanto si racconta nel M5s, ha potere assoluto nelle indicazioni per quanto riguarda la Giustizia, con Di Maio che si limita a ratificare. Non è un caso che tra i nomi messi al vaglio di Rousseau per il Csm c'era anche un altro avvocato rigorosamente fiorentino. Si tratta di Edoardo Chiti, piazzatosi ultimo nella votazione interna, ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Tuscia di Viterbo, e titolare di uno studio legale a Firenze. Lo studio Chiti ha anche una sede a Roma, negli uffici di Guido Alpa, luminare del diritto amministrativo e mentore accademico del premier Conte. Tra gli eletti grillini al Csm c'è Alberto Maria Benedetti. Genovese come Grillo e socio esterno dello studio Carbone e D'Angelo: gli avvocati nominati dal Tribunale di Genova per difendere il curatore della vecchia associazione del M5s, quindi in contrapposizione con il comico. Misteri della cooptazione a Cinque Stelle.

Luca Palamara capro espiatorio della magistratura, la conferma (rubata) di Nicola Morra: "Meglio sacrificarlo". Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. “Ci sono troppi media su Luca Palamara. È giusto che paghi, meglio sacrificarne uno per salvarne cento”. Sono queste le parole attribuite a Nicola Morra e udite da più persone in un bar al centro di Roma, dove il presidente della commissione antimafia avrebbe discusso del caso Palamara con una collega non meglio identificata. L’indiscrezione è stata lanciata dalla testata on-line Eco dai Palazzi e per ora non è stata smentita, alimentando i dubbi e i sospetti di diversi parlamentari. A partire da Daniela Santanchè, che invita Morra a smentire: “Se fosse invece confermato che la politica ancora una volta vuole incidere sulla magistratura, significherebbe che siamo di fronte a una grandissima bolla mediatica fatta per rendere Palamara capro espiatorio unico del sistema. Che è malato e va riformato al più presto, per anni è stato fatto uno smodato uso della giustizia manipolando le sorti politiche e sociali di questo paese. Il re è nudo - ha chiosato la parlamentare di Fdi - basta ipocrisie”. 

Magistratopoli, Palamara pronto per il processo: “Mi difendo e non scendo in politica”. Redazione su Il Riformista il 18 Luglio 2020. Le correnti, il carrierismo, il sistema. Luca Palamara a tutto campo in un’intervista a Radio Radicale. L’ex presidente ANM dice di essere pronto a difendersi, “determinato a chiarire tutto”, nel procedimento disciplinare a suo carico sullo scandalo delle Procure e per il quale ha chiamato 133 testimoni. Un procedimento davanti al quale vuole “contestare che le interferenze” a lui attribuite; “non sono tali avendo fatto parte di un sistema, quello delle correnti, che a torto a ragione caratterizza l’organizzazione interna alla magistratura” e che quindi “c’è un sistema di proprietà all’interno della magistratura. Le correnti sono proprietarie della magistratura. È un sistema superato? Penso che bisogna attentamente fare una riflessione”. L’obiettivo prioritario di Palamara è quindi “difendermi nel processo e non lasciare la magistratura“. Ha risposto così alla domanda se fosse pronto a scendere in politica. Anche una buona dose di autocritica nell’intervista radiofonica: “Penso che questo sistema, con le vicende che sono emerse che vedo con dolore legate al mio nome, hanno segnato un punto di non ritorno – ha detto – il carrierismo sfrenato fa perdere la bussola, probabilmente anche a me”. “Che le correnti siano state al centro, il motore, della vita interna della magistratura … nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole. È il momento di guardare a chi è rimasto fuori da questo meccanismo?”, si è chiesto dunque l’intervistato. Che sempre sul sistema ha aggiunto: “Prendere le distanze dalle correnti? Qualcuno potrebbe dire: "Prima hai mangiato in quel piatto e ora, non voglio dire una cosa volgare, fai lo schizzinoso". Chiunque mi ha conosciuto negli anni sa che ho sempre sviluppato uno spirito critico, sono sempre stato fortemente convinto che quel sistema doveva cambiare”. “Non è mio intendimento fare "muoia Sansone con tutti i Filistei" ma piuttosto – ha osservato – un ragionamento serio e approfondito di come il potere delle correnti abbia influenzato non solo la vita interna della magistratura ma la vita politica del Paese“. Una magistratura dalla due anime, per come l’ha dipinta Palamara a parole: “La prima, e maggioritaria, pensa che tutto sia possibile risolvere con l’autoriforma e chi invece ritiene che l’autoriforma non può risolvere tutto e debba entrare la politica. Io penso che il meccanismo dell’autoriforma non sia la strada risolutiva di tutti i problemi” fermo restando che “la riforma debba mettere al centro il grande tema dell’indipendenza della magistratura”. In definitiva, sul procedimento al via la prossima settimana l’ex capo di Anm ha detto di avere “fiducia nel sistema e credo sia interesse di tutti, non solo mio che mi trovo dall’altra parte, che il giudizio si esplichi secondo le regole dello stato di diritto”.

“Palamara lo ammise: i magistrati senza corrente sono penalizzati…” Il Dubbio il 25 agosto 2020. Lo dice in una dichiarazione Valter Giovannini, sostituto procuratore generale di Bologna “censurato” da Luca Palamara. “E’ un momento difficilissimo per tutta la magistratura e doloroso per non pochi colleghi. Il mio pensiero ricorrente va però ad una affermazione di Palamara che tempo fa ammise pubblicamente che i magistrati non iscritti a correnti effettivamente erano stati penalizzati a prescindere dalle loro capacità. A fronte di tale constatazione purtroppo non ho percepito una reazione adeguata”. Lo dice in una dichiarazione Valter Giovannini, sostituto procuratore generale di Bologna. “C’è anche da chiedersi poi – prosegue Giovannini, anche lui non iscritto a correnti – se per penalizzazione si intendesse solo l’emarginazione dalle nomine di vertice, oppure anche altro. Solo il dottor Palamara, se lo riterrà, potrà dissipare il dubbio”. Giovannini, tra l’altro, ha chiesto alla Procura di Perugia di poter visionare eventuali conversazioni che lo riguardano agli atti dell’inchiesta umbra su Palamara, alla luce del fatto che l’ex consigliere Csm scrisse la motivazione della sentenza disciplinare che ha inflitto al magistrato bolognese la sanzione della censura. Giovannini era stato sanzionato con la censura per il caso di Vera Guidetti, farmacista di 62 anni che uccise la madre e poi si suicidò, qualche giorno dopo essere stata ascoltata dal pm, nel marzo 2015, come testimone in un’indagine su un furto di gioielli. La sezione disciplinare del Csm aveva condannato il magistrato per aver “trascurato” le garanzie difensive a tutela della donna e per avere così violato norme processuali. La pronuncia del Csm venne confermata dalla Cassazione, ad aprile 2018.

Palamara: «Nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole». Il Dubbio il 18 luglio 2020. L’ex presidente dell’Anm a Radio Radicale: «È arrivato il momento di pensare a chi con quel sistema non c’entra». «I fatti di cui sono incolpato non si sono verificati». A dirlo è l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, intervenuto questa mattina a Radio Radicale. «I testi che indico sono funzionali alle incolpazioni che mi sono state formulate e ognuno di loro può dimostrare quello che realmente è accaduto». «Non voglio credere alle anticipazioni di giudizio – afferma Palamara -, io sono determinato a chiarire tutti i fatti. Non intendo né sottrarmi né arretrare, è mio dovere difendere la mia dignità e la mia storia professionale. E proprio perché amo la magistratura sento il dovere di chiarire ma anche di fornire il mio contributo per il miglioramento di un sistema che ha dimostrato che oramai è superato e necessita di ulteriori meccanismi, al netto dell’impegno di coloro che ne fanno parte. E penso di essere in grado di fornire notizie, fatti e circostanze importanti nella storia recente della magistratura. Sono determinato a chiarire tutto». «Sono sempre stato convinto che quel sistema dovesse cambiare. Ci sono due anime: una che ritiene che tutto si possa risolvere con un’autoriforma e chi ritiene che non sia sufficiente a risolvere tutti i problemi. Il che significa che è la politica a dover riformare il sistema. Nessuno ha la ricetta migliore, penso sia l’occasione per discutere – continua Palamara -. Il meccanismo dell’autoriforma non è la soluzione a tutti i problemi, ma abbiamo una politica poco incisiva. Al centro va messo sempre il tema dell’indipendenza della magistratura, che mai può essere messa in discussione. Se sono contro questo sistema? Le vicende emerse hanno segnato un punto di non ritorno. Questo sistema è nato a metà anni 60, il mondo è cambiato da allora. E il sistema delle correnti è nato con le migliori intenzioni, ma nel 2007, con la riforma dell’ordinamento giudiziario, è stato segnato un punto di non ritorno, con l’introduzione di un carrierismo sfrenato, che ha fatto perdere la bussola, probabilmente anche a me, su come dovessero orientarsi le correnti». Luca Palamara davanti al procedimento disciplinare vuole «contestare che le interferenze» a lui attribuite «non sono tali avendo parte fatto parte di un sistema, quello delle correnti, che a torto a ragione caratterizza l’organizzazione interna alla magistratura. Non è mio intendimento fare “muoia Sansone con tutti i Filistei” ma piuttosto un ragionamento serio e approfondito di come il potere delle correnti abbia influenzato non solo la vita interna della magistratura ma la vita politica del Paese». «Le correnti sono state il motore della vita interna della magistratura da quando sono nate, ancora di più dal 2007. Nulla si muove all’interno della magistratura se la corrente non lo vuole. Ma è arrivato il momento di guardare chi in questo meccanismo non ci è mai entrato».

Nel corso del programma è intervenuto anche il magistrato Alfonso Sabella, secondo cui è «ipocrita che Palamara debba presentare una lista di testi per dimostrare qualcosa che si sa da decenni». E ha aggiunto: «Abbiamo il dovere di apparire onesti, oltre che di esserlo. Ma le degenerazioni del correntismo non ci consentono di apparire tali. E non è una cosa che risale al 2007: Palamara doveva dirlo 10 anni fa, quando ne faceva parte. E questa è la critica che gli muovo, per il resto sta dicendo cose sacrosante».

Scandalo Csm: rinviata a settembre udienza Palamara, Ferri ed i 5 magistrati dimissionari. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2020. Le accuse mosse dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi, a Palamara, Ferri e agli altri 5 magistrati a processo sono molto gravi e “pesanti”: “comportamenti gravemente scorretti” e inottemperanti ai doveri di riserbo, una “strategia di discredito” messa in atto ai danni dei colleghi, “influenze occulte” ed “interferenze” nell’attività del Csm sulle nomine. Il collegio della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura presieduta dal membro laico della Lega Emanuele Basile, in sostituzione del “laico” Avv. Fulvio Gigliotti (M5S) e formato da Filippo Donati (M5S), Elisabetta Chinaglia (Area), Paola Braggion e Antonio D’Amato (Mi) e Piercamillo Davigo ha rinviato al prossimo 15 settembre l’udienza del procedimento che vede incolpato il magistrato Luca Palamara davanti alla sezione disciplinare del Csm. Per la procura generale della Cassazione erano presenti l’aggiunto Luigi Salvato, il sostituto pg Simone Perrelli e l’avvocato generale Pietro Gaeta. L’udienza si è svolta nella sala conferenze della sede del Csm per il rispetto delle norme di distanziamento. Il rinvio del legittimo impedimento richiesto dal magistrato di Cassazione Stefano Giaime Guizzi difensore di Palamara, è stato deciso in occasione dell’udienza di oggi , in via preliminare per procedere all’esame dell’istanza di ricusazione presentata nei confronti del magistrato Piercamillo Davigo, componente del collegio disciplinare (che compare anche tra i testimoni chiamati da Palamara) il quale con un suo intervento ha rifiutato di astenersi autonomamente. “Non ravviso alcun motivo di astensione”, ha detto nel suo intervento il togato del Csm, Piercamillo Davigo (peraltro prossimo alla pensione) , in apertura dell’udienza disciplinare del processo a Luca Palamara, il cui difensore aveva chiesto di astenersi dal far parte del collegio in quanto il suo nome compare nella lista dei 133 testimoni chiamati ed essere ascoltati, e quindi si troverebbe nella condizione di essere “teste” e “giudice” nello stesso processo, motivo per cui la difesa di Palamara ha presentato una istanza di ricusazione. Palamara aveva sollecitato Davigo ad astenersi, anche a seguito di quanto è emerso, e cioè che il pm Stefano Fava, anche lui finito davanti alla disciplinare, in quanto autore di un esposto al Csm su Paolo Ielo, aveva discusso della questione proprio con Davigo ben prima che esplodesse lo scandalo sul mercato delle toghe. Nelle contestazioni, l’esposto di Fava viene ritenuto un tassello della strategia messa in atto da Palamara ai danni di alcuni colleghi. Davanti al Csm sono comparsi in aula nelle rispettive udienze oltre a Palamara, anche il magistrato Cosimo Ferri, attualmente in aspettativa, quale deputato di Italia Viva, e 5 magistrati ex membri del Csm (tutti dimessisi), Luigi Spina, Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli. partecipi assieme all’ex ministro Luca Lotti (Pd), all’incontro notturno del 9 maggio dello scorso anno, tenutosi in una suite dell’ albergo romano, l’ Hotel Champagne, adiacente a Palazzo dei Marescialli ove ha sede il Csm , riunione registrata dal trojan delle fiamme gialle inoculato nello smartphone di Palamara, per discutere delle nomine ai vertici di alcune importanti procure italiane, innanzitutto quella di Roma. Un incontro “carbonaro” portato alla luce dalle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia, che hanno dato il via al “terremoto” giudiziario che ha letteralmente travolto la magistratura italiana. Anche Ferri ha presentato due istanze di ricusazione. Analogo rinvio al 15 settembre è stato fissato dal collegio nel procedimento nei confronti di Cosimo Ferri, che era presente insieme con il suo difensore, il quale ha presentato un’ istanza di ricusazione per componenti del collegio, che dovrà essere esaminata dal collegio della sezione disciplinare unitamente alla richiesta alla Camera dell’autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni a carico di Ferri. Udienza rinviata anche per i 5 ex togati del Consiglio superiore della magistratura a processo. In aula erano presenti solo Morlini e Lepre ed i rispettivi legali mentre per gli altri c’erano solo i rispettivi difensori. Questo rinvio è stato determinato per legittimo impedimento a causa dell’assenza, per impedimenti personali, del presidente titolare del collegio, il membro laico Gigliotti (M5S). Le accuse mosse dal pg della Cassazione, Giovanni Salvi, a Palamara, Ferri e agli altri 5 magistrati a processo sono molto gravi e “pesanti”: “comportamenti gravemente scorretti” e inottemperanti ai doveri di riserbo, una “strategia di discredito” messa in atto ai danni dei colleghi, “influenze occulte” ed “interferenze” nell’attività del Csm sulle nomine.

Francesco Grignetti per lastampa.it il 22 luglio 2020. Rischia di far morire sul nascere i procedimenti disciplinari a carico di Palamara&Co, la mossa di Cosimo Ferri. Il deputato di Italia Viva, magistrato prestato alla politica, già capo indiscusso della corrente Magistratura Indipendente, ha ricusato l’intero Consiglio superiore della magistratura. Secondo Ferri, nessuno degli eletti (almeno quelli in carica fino al 9 maggio) possono ergersi a suoi giudici perché sarebbero allo stesso tempo le parti lese di questo procedimento, e lui, Ferri, ritiene di avere il pieno diritto di chiamarli tutti a testimoniare. Un gioco di specchi che porta a una sola conclusione: il Consiglio superiore della magistratura, avendo al suo interno i poteri disciplinari, in questo caso è potenzialmente esposto a un conflitto di interessi. E infatti Ferri dice: «Come può il consigliere X o il consigliere Y vestire i panni di un giudice se è anche la vittima di un mio presunto complotto? Il sistema della Disciplinare interna non tiene. Molto meglio una Alta corte, come aveva proposto Andrea Orlando, esterna al Csm, e composta di altissimi magistrati in pensione». Qualcuno ha già ribattezzato il procedimento disciplinare che si è aperto al Csm contro Luca Palamara, Cosimo Ferri e altri cinque ex appartenenti al Consiglio (Antonio Lepre, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Luigi Spina) un «processo alla magistratura». Ma se così fosse, è davvero difficile che la magistratura possa processare sé stessa. Un problema analogo lo ha sollevato Luca Palamara, chiedendo la ricusazione di Pier Camillo Davigo dato che lo aveva contattato, lui e l’altro consigliere Sebastiano Ardita, quando cercava alleanze per il dopo-Pignatone. Davigo ieri ha risposto seccamente che non vede motivi per astenersi. Ma chissà. Un’altra questione aperta. Un altro possibile conflitto di interessi. Secondo Ferri, il pasticcio lo avrebbe fatto la procura generale presso la Cassazione quando l’hanno incolpato di avere adottato «un uso strumentale della propria qualità e posizione, diretto, per le modalità di realizzazione, a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, quali la proposta e la nomina di uffici direttivi di vari uffici giudiziari da parte del Consiglio superiore della magistratura». Replica Ferri: «Se si teorizza che io sono intervenuto sui consiglieri per influenzarli, in modo diretto o indiretto, avrò pure, in nome del principio costituzionale del Giusto processo, il diritto di interrogarli uno per uno, e di chiedergli: scusi, io l’ho mai contattata? l’ho mai fatta avvicinare da qualcuno a nome mio? ci siamo forse sentiti per telefono o scritto una lettera? Già, perché io sono strasicuro della mia correttezza. E vorrei avere il modo di dimostrarlo». Con il che, però, la mossa di Cosimo Ferri è una potente zeppa negli ingranaggi. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, dovrà faticare perfino a identificare i nomi di chi dovrà valutare la richiesta di ricusazione, che certo non possono essere i membri della Disciplinare, né nessuno di quelli tirati in ballo. E per sovrappiù, la difesa di Ferri chiede di interessare la Corte costituzionale per un’ipotesi di illegittimità costituzionale nella legge del 2006 che regola il Csm «nella parte in cui non prevede la sospensione del procedimento disciplinare quando l’intero Collegio della Sezione Disciplinare sia ricusato» nonché «nella parte in cui non prevede la sospensione del procedimento disciplinare nella ipotesi in cui il giudice è anche il soggetto passivo delle condotte contestate». Una serie di contestazioni in punta di diritto che fanno capire quanto sarà accidentato il procedimento. E infatti, tanto per cominciare, si è subito rinviato. Prossima udienza, il 15 settembre. Si entrerebbe nel vivo a novembre e dicembre.

Processo Palamara, l’attacco di Ferri: “Vi ricuso tutti, questo Csm non può giudicarci”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Durerà almeno fino alla fine dell’anno il processo disciplinare a carico dei “congiurati” dell’hotel Champagne, i magistrati (Luca Palamara, Cosimo Ferri, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini) che secondo l’accusa avrebbero gettato con il proprio comportamento discredito sulla magistratura, cercando di condizionare le nomine dei capi di alcune Procure, ad iniziare da quelle di Roma e Perugia. Un bel segnale che dovrebbe così archiviare il rischio di un “turbo processo” bis, dopo quello del mese scorso davanti al Comitato direttivo dell’Anm quando, nello spazio di una mattina, si decise di cacciare Palamara dall’associazione senza neppure ascoltarlo. Al Csm ci sarà, sulla carta, il tempo per ascoltare i testimoni chiamati dalla difesa. Sicuramente, però, non tutti i 133 citati da Palamara. Il calendario delle prossime udienze è stato comunicato ieri da Emanuele Basile, il laico salviniano che sostituiva il collega pentastellato Fulvio Gigliotti, come presidente del collegio. Visto il legittimo impedimento del consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, difensore di Palamara il procedimento è stato aggiornato al 15 settembre. In quella data si discuterà, oltre che dei testi da ammettere, delle istanze di ricusazione. Evitato, infatti, il rischio del processo sommario, sul dibattimento incombe la decisione di Cosimo Ferri di ricusare tutto il Csm e di chiedere la sospensione del processo fino alla scadenza naturale di questo Csm. La situazione che si è creata è, per l’ex numero uno di Magistratura indipendente e ora deputato di Iv, in contrasto con il principio del giusto processo davanti ad un giudice terzo ed imparziale. A Palazzo dei Marescialli è in atto un cortocircuito istituzionale. I consiglieri del Csm, secondo l’accusa della Procura generale della Cassazione, sono individuati come «soggetti attivi/parti offese dalle condotte» tenute dai sette magistrati che parteciparono all’incontro, registrato dal trojan nel telefono di Palamara, la sera del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma. Le “incolpazioni” si basano esclusivamente sulle intercettazioni. Sono queste “le uniche fonti di prova” e, come scrive Ferri, «non sono in alcun modo casuali» e quindi inutilizzabili. Come riportato sul Riformista è emerso che i finanzieri del Gico avevano il modo di sapere che non si trattava di incontri a sorpresa. E il pm Gemma Milani, che indagava su Palamara, aveva dato disposizione di spegnere l’apparecchio, se il magistrato stava per incontrare dei parlamentari. Operazione che, invece, era stata disattesa dai finanzieri. E poi ci sarebbero «indebite anticipazioni del giudizio», insomma la classica condanna annunciata. Ferri cita sul punto le parole pronunciate dal vice presidente del Csm David Ermini all’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario in Cassazione per raccontare l’accaduto. Un «agire prepotente, arrogante ed occulto tendente ad orientare inchiesta, influenzare le decisioni del Csm, e screditare magistrati». Chi poi avrebbe messo il carico da undici, per Ferri, sarebbe stato il togato del gruppo di sinistra Area Giuseppe Cascini. «L’unica vicenda che mi pare assimilabile a quella che stiamo vivendo in questi giorni è quella dello scandalo P2», disse in Plenum. «Il coinvolgimento di molti magistrati nella loggia massonica segreta assestò un durissimo colpo alla credibilità e all’immagine della magistratura», aggiunse l’ex procuratore aggiunto di Roma, sottolineando che all’epoca «i magistrati furono immediatamente destituiti. Oggi si chiede a noi analogo sforzo di orgoglio e coraggio, abbiamo il dovere di reagire con fermezza». Parole che annichilirono il Plenum, ad iniziare dai togati di Magistratura indipendente. «Nessuno prese posizione, nessuna dissociazione dalla gravità della affermazione», riporta Ferri. Tutti i consiglieri vengono allora chiamati come testimoni sulla persona di Ferri. Questa la lista di domande: «A quando risale l’ultimo incontro? Se hanno parlato di nomine? Se erano a conoscenza specifico interessamento del sottoscritto alle nomine?». A Cascini vuole chiedere «se ha avuto (con lui) rapporti “conflittuali” in ambito associativo». «Il giudice che conosce della ricusazione non può mai essere quello che, in caso di accoglimento della istanza, sarebbe chiamato a decidere della causa», evidenzia Ferri, chiedendo allora di sollevare la questione di legittimità costituzionale sulla sospensione del procedimento al Csm, al momento non prevista. Non è escluso un intervento del presidente della Repubblica che del Csm è il capo.

Intervista al professor Di Federico: “Grazie a Palamara hanno fatto carriera anche i giudici che lo giudicheranno”. Angela Stella su Il Riformista il 22 Luglio 2020. «Se fossi in loro io mi sentirei a disagio»: è dunque l’imbarazzo il sentimento che, secondo Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna, dovrebbero provare quei magistrati del Csm chiamati a giudicare Luca Palamara, gli stessi «la cui carriera o elezione in Consiglio si è in vario modo avvantaggiata del correntismo». E dell’affaire Berlusconi ci dice: è stato perseguitato dalla magistratura.

Professore, in settimana si chiuderà la partita sulla riforma del Csm. Sulla base di quanto emerso in questi giorni, come giudica le proposte di riforma?

«Non ho letto nessun testo ufficiale sulle riforme che verranno proposte, per quel che ne ho letto sui giornali non mi sembra che le innovazioni di cui il Ministro Bonafede ha parlato possano migliorare significativamente il funzionamento del Csm e la qualità delle sue prestazioni. Certamente non la riforma del sistema elettorale, né l’aumento da 24 a 30 dei componenti elettivi del Csm, che corrisponde ad una pressante richiesta avanzata proprio dalle correnti (serve tra l’altro a meglio garantire la presenza delle correnti più piccole nelle più importanti commissioni referenti del Consiglio). L’unica proposta su cui concordo è l’abolizione delle delibere “a pacchetto” nelle quali il Csm decide su numerose nomine dopo una trattativa spesso laboriosa e logorante tra le correnti. Mi fermo qui».

Si tratta davvero di una riforma che pone un freno alle degenerazioni correntizie, o è solo una operazione di facciata?

«Per volere del Csm i magistrati fanno di regola la loro carriera sulla base dell’anzianità e non di reali valutazioni del merito professionale. Al momento di scegliere tra vari candidati la documentazione a disposizione dei consiglieri del Csm dice quasi sempre che sono tutti bravissimi e diligentissimi. Come scegliere? Il sistema correntizio ha la funzione di facilitare queste scelte. Ogni corrente garantisce sulla bontà dei propri consociati e poi si vota. Sono scelte che vengono poi frequentemente annullate dal giudice amministrativo perché non adeguatamente motivate. Negli altri Paesi dell’Europa continentale (Germania, Francia, Olanda, ecc.) ove le valutazioni della professionalità dei magistrati sono rigorose questi problemi non esistono e non esiste neppure il potere delle correnti sulle nomine».

Il magistrato Alfonso Sabella sabato scorso a Radio Radicale ha detto che è «ipocrita che Palamara debba presentare una lista di testi per dimostrare qualcosa che si sa da decenni».

«Palamara sta solo esercitando i suoi diritti di difesa. Certo gli addetti ai lavori sapevano del fenomeno e delle disfunzioni del correntismo, compresi quelli che ora accusano e giudicano Palamara in sede disciplinare, magistrati cioè la cui carriera o elezione in Consiglio si è in vario modo avvantaggiata del correntismo. È forse qui che l’ipocrisia va ricercata. Se fossi in loro io mi sentirei a disagio».

I legali di Luca Palamara hanno chiesto di trascrivere diverse telefonate che non sono state valorizzate dagli inquirenti. «È il riflesso della pratica del cherry picking, letteralmente della selezione delle ciliegie, una tecnica studiata da tempo nel diritto anglosassone delle prove», ci ha spiegato il professor Vincenzo Maiello. Che ne pensa?

«Far emergere gli elementi a favore per porre in ombra quelli sfavorevoli è da sempre una tecnica difensiva ovunque e non solo in Inghilterra. Sta poi al giudice non farsi influenzare o fuorviare da queste tecniche difensive».

A suo parere l’Associazione Nazionale Magistrati dovrebbe fare maggiore autocritica e non farsi bastare la semplice espulsione del dottor Palamara?

«Le disfunzioni della giustizia sono tali e tante che la sola idea di risolverle espellendo Palamara appare ridicola. Abbiamo la giustizia più disastrata tra i Paesi a consolidata democrazia. L’importante non è che l’Anm faccia autocritica ma che la politica affronti i problemi della giustizia senza farsi condizionare, come avvenuto sinora, dalle aspettative corporative della magistratura. So di star chiedendo l’impossibile».

Qual è il suo giudizio sulla "confessione" postuma del giudice Franco a Silvio Berlusconi?

«Mi è difficile rispondere a questa domanda per la mancanza di elementi certi. Se in realtà la domanda è se io ritenga che Berlusconi sia stato oggetto di una eccessiva attenzione da parte della magistratura, la mia risposta è sì. Su questa forma di “persecuzione” ho scritto più volte in passato, pur non essendo mai stato un fan di Berlusconi».

È corretto dire che fino ad ora né il Csm né l’Anm hanno preso posizioni chiare sulla caratterizzazione “populista” che le Procure rischiano di avere?

Come ha detto il consigliere di Cassazione Giuseppe Cricenti, «alcuni pm si fanno interpreti delle attese del popolo e in questo modo acquistano un potere che sfugge al controllo della stessa magistratura». Questo discorso sui pericoli del populismo dei Pm è fuorviante. I Pm non solo godono di piena indipendenza esterna ma sono largamente indipendenti ed autonomi anche nell’ambito dei loro uffici. Hanno poteri che nessun altro Pm ha in Europa. Nella fase delle indagini il nostro Pm è di fatto un poliziotto indipendente che a differenza del poliziotto non può essere chiamato a rispondere delle sue iniziative anche quando si dimostrino ingiustificate e gravemente dannose per i cittadini. Certo il consenso popolare può accentuare la pericolosità di questi poteri, tuttavia il populismo non è il vero problema. Il problema vero è quello di adottare forme adeguate di responsabilizzazione dell’attività del nostro Pm così come avviene in altri Paesi democratici».

Csm, rinvio a settembre per Palamara. Ma Davigo non si astiene. Anche il renziano Ferri ricusa due dei suoi giudici. Pubblicato martedì, 21 luglio 2020 da Liana Milella e Maria Elena Vincenzi su La Repubblica.it.  Parte il processo disciplinare per l'ex pm di Roma ma salta subito per il legittimo impedimento del difensore Stefano Guizzi. Si parte, ma subito si rinvia. Per Palamara, per Ferri, per tutti gli incolpati davanti al Csm per l'inchiesta di Perugia. Sorpresa al Csm, dove, tra strette misure anti Covid e giornalisti contingentati, parte il processo disciplinare a Luca Palamara, l'ex presidente dell'Anm e potente toga di Unicost, sotto processo a Perugia per corruzione. Pochi minuti di udienza, presieduta dal laico della Lega Emanuele Basile, e tutto slitta al 15 settembre. Non è presente il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Guizzi, trattenuto alla Suprema corte da un precedente processo civile. L'avvocato di Palamara, Benedetto Marzocchi Buratti, chiede e ottiene il rinvio del processo a settembre. D'accordo anche la procura generale della Cassazione rappresentata dall'avvocato generale Pietro Gaeta. Dopo Palamara anche Cosimo Maria Ferri, toga di Magistratura indipendente ma parlamentare prima del Pd e ora renziano, sotto processo a Perugia e sotto inchiesta al Csm per la cena del 9 maggio 2019 all'Hotel Champagne con Palamara per decidere la nomina del procuratore di Roma, ha ricusato due dei suoi giudici. E anche in questo caso il Csm deciderà il 15 settembre. Ma c'è anche un'altra sorpresa. Non si astiene - e lo dice in un intervento di pochissimi minuti - il togato Piercamillo Davigo, di cui Palamara aveva chiesto l'astensione perché lo ha citato come teste del suo incontro con l'ex pm di Roma (e oggi giudice a Latina) Stefano Fava, autore di un esposto contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e contro l'aggiunto Paolo Ielo, per presunte anomalie che, a suo dire, influivano sul caso Amara, di cui lo stesso Fava era pm. Per Davigo invece quel colloquio non ha alcuna rilevanza in questa contestazione disciplinare poiché nell'incontro in un ristorante, presente anche il pm di Roma Erminio Amelio, si parlò di altre questioni. Resta comunque in piedi la ricusazione di Palamara contro Davigo, sulla quale si deciderà a settembre. Per Palamara le incombenze processuali per questo mese di luglio non sono finite. Perché giovedì 30 continua a Perugia, presente il procuratore Raffaele Cantone, la cosiddetta udienza stralcio iniziata il 16 luglio. Nella quale si dovrà decidere quali intercettazioni potranno entrare nel dibattimento. Toccherà al gip Lidia Brutti valutare le istanze della difesa dell'imputato che, innanzitutto, ha contestato la liceità delle captazioni effettuate con il Trojan in cui erano presenti anche i parlamentari Luca Lotti del Pd e Ferri. Il gip ha già respinto, accettando la linea della procura, la contestazione su altre intercettazioni che sarebbero state omesse dagli atti. Ma in realtà si trattava solo di file secondari senza audio.

Palamaragate, Davigo protagonista: accusatore, giudice e forse testimone. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Gli piacciono tutte le parti in commedia. Tranne una. Piercamillo Davigo non sarà mai un difensore, probabilmente neppure di se stesso. Perché anche di lui, il più puro dei puri, il “dottor Sottile” penserebbe che non è un innocente ma un colpevole non ancora smascherato. Così si prepara per il 15 settembre del Csm di Palamara e gli altri, a travestirsi, con la toga del pubblico implacabile accusatore. Poi forse testimonierà, ma senza il tremore del cittadino chiamato a dire per obbligo la verità (dica “lo giuro”), e infine indosserà l’ermellino per emettere la sentenza. Nel processo più pazzo del mondo, dove tutto è consentito a un solo personaggio. Uno e trino. Ma mai difensore. Gli avvocati gli fanno proprio schifo, e non lo nasconde. Più o meno pensa che siano dei fannulloni furbi, che passano il tempo, tra un’impugnazione e l’altra, a tirare in lungo il processo per arrivare alla prescrizione. Così propone che quando il ricorso venga respinto, l’avvocato debba pagare di tasca sua. Nel caso opposto il magistrato no, non dovrebbe pagare, perché c’è l’obbligatorietà dell’azione penale che gli impone di agire. L’indagato lui lo vorrebbe nudo e crudo, magari con il capo cosparso di cenere, e senza l’impiccio del difensore. Tanto è colpevole, lo si sa. C’è un’altra cosa che non gli va giù, il fatto che in Italia si facciano troppi processi. E ha ragione. Magari proprio perché c’è l’obbligatorietà. A meno che non si voglia mozzare qualche testa (tanto sono tutti colpevoli), così si fa prima. Il che non è sicuramente nei pensieri del dottor Davigo. Magari solo in qualche sogno. Ma lui dovrebbe sapere che non ci sono alternative. Se si vogliono fare meno dibattimenti, si deve adottare il sistema anglosassone. Se no, zac, e via il pensiero, insieme alla testa. Intelligente e preparato, faccino furbo, gran barzellettiere capace di sparare la bufala nel mondo degli incompetenti, bravissimo a rigirare la frittata con un’altra bufala, se viene beccato. Come con la storia che sia più conveniente ammazzare la moglie e prendere quattro anni piuttosto che chiedere il divorzio. Così, quando gli fu chiesto quanti processi avesse visto di quel genere, rispose pronto “uno”, per un caso di infermità mentale. E fece il suo faccino furbo. Non è alto di statura, il dottor Davigo, ma è come se lo fosse, per come si sente. A partire da quando nel 1994, riferendosi a quelle indagini sulla Guardia di Finanza che erano state il primo colpo al cuore per Silvio Berlusconi e da cui anni dopo fu assolto, pontificò: «Ribaltiamo il Paese come un calzino». E ci credeva. E fu forse la prima volta in cui assunse in sé i suoi tre ruoli preferiti, quello di accusatore, di giudice e di creatore e testimone della Repubblica delle virtù, un incrocio tra un Rousseau e un Robespierre che non teme l’arrivo del suo termidoro. Non è alto di statura, il dottor Davigo, ma è come se lo fosse. Dal 1994 al 2019, quando –lo racconta lui stesso nell’unica occasione in cui ha avuto un contraddittorio vero con il presidente delle camere penali Gian Domenico Caiazza, nella trasmissione Piazza Pulita – passa un po’ di tempo con Luca Palamara, la bestia nera che tra poco lui dovrà accusare e poi giudicare dopo aver anche su di lui testimoniato. Si era a Roma, quel 9 aprile 2019 in cui si presentava un sottile libro del dottor Sottile, e tra i relatori c’era anche la bestia nera, con tanto di nome sulla locandina, ma lui non lo sapeva. E questa è una barzelletta o una bufala, ma gliela lasciamo passare. Ma non si può ingoiare quell’altra, quella secondo cui al termine della presentazione Palamara, non più invisibile, dà un passaggio in auto a Davigo (ma allora si conoscevano? E si facevano gentilezze?), e c’è di sicuro il trojan da almeno un paio di settimane a registrare anche i sospiri di chi si intrattenga con il pm romano. Ma quella sera il registratore è spento, tanto che Davigo può dire «non ci sono intercettazioni su di me perché io queste cose non le faccio». Ma che prove abbiamo della sua innocenza, se il trojan era spento? Ed è inutile, dottore, alzare la voce. Come quando ha gridato: «Io non ho fatto niente e non temo niente». Vuole un elenco, da Tortora in avanti, di “Colpevoli non ancora beccati” che ritenevano di non aver niente da temere perché non avevano fatto niente? Chissà se si sentirà obbligato a dire la verità, soltanto la verità, nient’altro che la verità, se dovrà testimoniare al Csm, accantonando per un attimo le sue due toghe da giudice e da accusatore, su un certo pranzetto del febbraio del 2019 in cui si parlò di beghe piuttosto serie tra il sostituto procuratore romano Stefano Fava e il capo del suo ufficio Pignatone. Argomenti caldi per l’incolpazione di Luca Palamara, su cui Davigo potrebbe confermare o meno di aver detto che si trattava di vicende di una certa rilevanza e che potevano essere di qualche interesse per il Csm. L’ex presidente dell’Anm aveva detto che lo avrebbe ricusato come giudice, se lui non si fosse astenuto per conflitto di interessi. Ma lui fa spallucce, «non ravviso alcun motivo di astensione». Non ravvisa neanche di abbandonare il suo ruolo nel Csm, dopo che tra pochi mesi avrà compiuto i fatidici 70 anni e sarà costretto alla pensione. No, lui ha già deciso che resterà lì. Perché non è alto di statura, il dottor Davigo, ma è come se lo fosse. Per come si sente.

Ricusazione respinta: Davigo resta “giudice” di Palamara. Il Dubbio il 31 luglio 2020. Piercamillo Davigo resta nel collegio disciplinare che dovrà giudicare sulle incolpazioni mosse a Luca Palamara nel procedimento sul caso procure. Il Csm, infatti, ha respinto l’istanza di ricusazione presentata dalla difesa del pm di Roma. Piercamillo Davigo resta nel collegio disciplinare che dovrà giudicare sulle incolpazioni mosse a Luca Palamara nel procedimento sul caso procure. Il Csm, infatti, ha respinto l’istanza di ricusazione presentata dalla difesa del pm di Roma (ora sospeso) nei confronti del togato. Con l’ordinanza notificata oggi alla difesa di Palamara, con cui e’ stata rigettata l’istanza di ricusazione nei confronti di Davigo, è stata anche dichiarata “manifestamente infondata” la questione di legittimità che il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, aveva sollevato con riferimento alla mancata previsione che sull’istanza di ricusazione decidano le sezioni unite civili della Suprema Corte. Piercamillo Davigo, togato del Csm che fa parte del collegio della sezione disciplinare che celebrerà il processo a carico di Luca Palamara, è stato citato come testimone dallo stesso Palamara. Per questo, a prescindere dalla decisione della disciplinare sull’accoglimento della richiesta, dovrebbe astenersi o sarà ricusato. Lo annuncia il legale del pm, il magistrato della Cassazione, Stefano Giaime Guizzi, in una memoria inviata alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. La richiesta di «autorizzazione alla citazione» di Davigo «quale teste a discarico dell’incolpato» è una circostanza che «pone il consigliere Davigo», qualunque sarà la determinazione che assumerà la sezione disciplinare in ordine alla richiesta di escussione dello stesso quale teste, «in una condizione davvero “sui generis”, tale da consigliarne l’astensione» oppure «in difetto, da indurre sin d’ora questa difesa a formulare istanza di ricusazione», si legge nella memoria inviata a Palazzo dei Marescialli. Per Davigo infatti, sostiene la difesa di Palamara, »si verrebbe a determinare la singolare situazione di un soggetto che riveste, nello stesso processo, la posizione di teste su (taluni dei) fatti oggetto di incolpazione, nonché di giudice degli stessi».«Davigo e Fava parlarono delle divergenze di vedute in Procura a Roma»Nella memoria presentata alla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli dal difensore di Palamara, viene esposto un incontro di Davigo con Stefano Fava, ex pm romano che presentò un esposto alla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura contro l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo per presunte irregolarità nella gestione delle inchieste sull’avvocato Piero Amara, nel quale i due parlarono di «divergenze di vedute» all’interno della procura di Roma e di quei «possibili conflitti di interesse», oggetto poi dell’esposto richiamato nelle incolpazioni rivolte a Luca Palamara dalla procura generale della Cassazione. È questa per Stefano Giaime Guizzi una delle ragioni per cui Davigo dovrebbe astenersi dal far parte del collegio davanti al quale martedì prossimo inizierà il processo disciplinare a Palamara.

Palamaragate, Davigo protagonista assoluto: sarà testimone, giudice e accusatore…Paolo Comi su Il Riformista il 31 Luglio 2020. La sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli ha respinto ieri l’istanza di ricusazione nei confronti di Piercamillo Davigo presentata da Palamara. Il collegio era presieduto dal laico in quota lega Emanuele Basile. Davigo farà allora parte del collegio che dovrà giudicare l’ex ras delle nomine. L’ex pm di Mani pulite, componente titolare della sezione disciplinare, aveva fatto sapere di non volersi astenere, ritenendo l’istanza infondata. Palamara ad ausilio dell’istanza aveva citato un episodio avvenuto all’inizio dello scorso anno, allorquando Davigo, insieme al collega di corrente e consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, era a pranzo con Stefano Rocco Fava. Durante quest’incontro si discusse di vari argomenti: di una possibile candidatura di Fava alle elezioni per il rinnovo dell’Anm, dell’esistenza di “divergenze di vedute” all’interno della Procura di Roma, di “possibili conflitti di interesse”, evidenziati da Fava, “tra il procuratore (Giuseppe Pignatone, ndr) ed alcuni indagati”.

Fava, successivamente a quell’incontro, presentò poi un esposto che, secondo l’accusa della Procura generale della Cassazione, faceva parte del disegno di Palamara per screditare l’aggiunto della Capitale Paolo Ielo e lo stesso Pignatone. La circostanza avrebbe reso, secondo Palamara, incompatibile la presenza di Davigo nel collegio per il doppio ruolo di giudice e testimone. Per Davigo, citato da Palamara nella maxi lista testi, quel colloquio non ha alcuna rilevanza poiché durante l’incontro, a differenza di Ardita, parlò di altre questioni. E poi quel giorno era “afono”. Ad assistere Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Guizzi. Il provvedimento della sezione disciplinare, va detto, non è impugnabile. Per Palamara resta solo la strada del ricorso davanti alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Insomma un’altra settimana di passione per Luca Palamara, il Severino Citaristi della magistratura italiana. Come l’ex tesoriere della Democrazia cristiana, l’ex presidente dell’Anm sta collezionando avvisi di garanzia e capi d’incolpazione disciplinari. Al momento, però, è ancora lontano il record delle 74 comunicazioni giudiziarie raggiunto da Citaristi durante Tangentopoli. Palamara ha però battuto il record delle sette ore di interrogatorio di Antonio Di Pietro davanti a Fabio Salamone: otto ore è durato il suo davanti a Raffaele Cantone. Dopo le accuse di corruzione, sono arrivate l’altro giorno quelle di corruzione in atti giudiziari e violazione del segreto istruttorio. Secondo i magistrati di Perugia che indagano su di lui dal 2018, l’ex presidente dell’Anm avrebbe ricevuto due maxiscooter dal titolare di una concessionaria di auto e gli contestano anche di essere socio, secondo quanto ricostruito nell’indagine, insieme all’ex pm di un chiosco in Sardegna e il pagamento di alcune multe elevate mentre utilizzava le moto. Utilità che secondo gli inquirenti sarebbero state concesse per il suo interessamento a un procedimento penale nei confronti della moglie e della madre del titolare della concessionaria. Ma non solo: a Palamara viene contestato un altro episodio di corruzione perché avrebbe usufruito di soggiorni in un hotel a Capri per un suo interessamento a controversie legali che riguardavano il fratello del titolare della società a cui fa capo l’albergo. L’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio è invece insieme all’ex pm romano Fava. I due avrebbero violato i doveri inerenti alla propria funzione, rivelando a giornalisti dei quotidiani il Fatto Quotidiano e La Verità notizie di ufficio che sarebbero dovute rimanere segrete.

I Pm di sinistra scaricano Davigo: a ottobre via dal Csm. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Agosto 2020. È arrivato ieri mattina, direttamente dalle colonne di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica, l’avviso di sfratto dal Csm per Piercamillo Davigo. Il termine ultimo è stato fissato per il prossimo 20 ottobre, giorno in cui l’ex pm di Mani pulite compirà 70 anni, l’età massima per il trattenimento in servizio per i magistrati. È stato affidato a Nello Rossi, storico esponente delle toghe di sinistra di Md, ora alleate con quelle davighiane al Csm, il compito di comunicare al Dottor sottile, con un lungo e dettagliato articolo, che dopo l’estate dovrà iniziare a svuotare il suo ufficio a Palazzo dei Marescialli. L’ulteriore permanenza di Davigo a piazza Indipendenza sarebbe, scrive Rossi, «in netto contrasto con la legalità e la funzionalità dell’organo e con le esigenze di rappresentatività e di legittimazione che devono caratterizzare l’attività del Consiglio Superiore». In caso qualcuno volesse a tutti i costi impedire lo sfratto di Davigo, si tratterebbe di una decisione «sbagliata ed incomprensibile». «Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?» è l’incipit del pezzo di Rossi che non lascia spazio ad alcun dubbio su quale debba essere il destino di Davigo. Il diretto interessato la pensa diversamente, avendo fatto intendere in più occasioni di non avere intenzione di mollare lo scranno nella sala “Vittorio Bachelet”. Una di queste circostanze è stata la comunicazione del calendario da parte della Sezione disciplinare, di cui Davigo è componente, relativo al procedimento per Luca Palamara&soci che inizierà il prossimo 15 settembre e si concluderà alla vigilia delle Festività natalizie. «Nessun presidente di tribunale adeguato al suo compito inserirebbe nel collegio che inizia un procedimento calendarizzato per più mesi un magistrato giunto alla soglia della pensione» premette Rossi, sottolineando che «se ciò avviene per la Sezione disciplinare c’è chi ipotizza che Davigo potrà rimanere in carica come consigliere e come giudice disciplinare anche quando sarà divenuto un magistrato in quiescenza». Nello Rossi, già avvocato generale dello Stato e giurista sopraffino, elenca i motivi per i quali Davigo dopo il 20 ottobre debba fare ritorno a Milano. «Chi è eletto al Csm da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio» è la premessa del ragionamento di Rossi che riporta ampi passi della legge del 1958 sulla costituzione ed il funzionamento dell’organo di autogoverno delle toghe. «Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali» ricorda Rossi, evidenziando che «la cessazione dello status di magistrato determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore». Rossi, al riguardo, smentisce la fake news secondo cui esiste il “precedente” di un magistrato pensionato al Csm. «È doveroso chiarire che nel corso della sua permanenza al Consiglio Vittorio Borraccetti (il magistrato citato da chi vuole che Davigo resti al Csm anche in pensione, n.d.r.) ha ininterrottamente conservato lo status di magistrato in servizio: alla scadenza del mandato consiliare venne ricollocato in ruolo nel settembre del 2014 come sostituto procuratore presso il suo ufficio di provenienza, la Procura della Repubblica di Venezia». Un altro aspetto preso in considerazione da Rossi riguarda la fine del giudizio disciplinare per gli ex magistrati. «Il componente del Consiglio superiore “pensionato” si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio sia rispetto alla generalità dei magistrati». E quindi: «A differenza degli uni e degli altri non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare». Il già pensionato ma ancora consigliere superiore sarebbe dunque libero dai fondamentali doveri propri del magistrato ed esente da ogni possibile sanzione disciplinare per la loro violazione. Dunque, sarebbe l’immunità totale per Davigo. Con un paradosso, in quanto «nella veste di giudice disciplinare, sarebbe chiamato a giudicare (non più i suoi pari ma) magistrati in servizio o fuori ruolo e gli stessi componenti togati del Consiglio ancora sottoposti alla giurisdizione disciplinare». «La figura che emerge è quella di un extraneus alla magistratura che “soggettivamente” potrà mantenere condotte ineccepibili e meritevoli del massimo apprezzamento ma i cui comportamenti nella vita dell’istituzione consiliare resteranno comunque insindacabili e non sanzionabili se restano al di sotto della soglia della rilevanza penale», chiarisce Rossi.  Ma perché Davigo, allora, non molla? Perché Davigo, è quello che molti pensano, è un magistrato molto conosciuto e con un grande seguito. Il capo dei “giustizialisti”, usando il titolo di un suo libro. Ecco cosa scrive Rossi al riguardo: «Se a sostegno della perdurante presenza di Davigo in Consiglio si dovesse invocare “esclusivamente” il successo elettorale legittimamente conseguito nelle ultime elezioni, ritenendo che esso risolva in tronco ogni altra questione di diritto e di opportunità, allora dovremmo trarne una inquietante conclusione: che sono penetrati in magistratura la mentalità e lo stile di non pochi uomini politici del nostro Paese per i quali ogni principio e ogni regola di funzionamento delle istituzioni – e financo ogni discussione – possono essere spazzati via dal risultato elettorale». «I principi e le norme sin qui richiamati valgono – scrive ancora Rossi – a risolvere sul nascere “un caso Davigo” fornendo indicazioni nettamente contrarie ad ogni idea di una sua permanenza in carica come consigliere dopo il collocamento a riposo». Se Davigo rifiutasse il 20 ottobre di mollare sarebbe «vicenda che rischierebbe di sottoporre a nuove tensioni e contraddizioni un organo già scosso dai fatti dell’ultimo anno e che deve essere risolta correttamente per consentire al Consiglio di continuare a svolgere positivamente i suoi fondamentali compiti». Ci sarà bisogno dell’intervento di Sergio Mattarella, che del Csm è il capo, per convincere Davigo?

Magistratura democratica contro Davigo: "Da pensionato non può restare al Csm”. Pubblicato venerdì, 31 luglio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it Con un durissimo editoriale di Nello Rossi, direttore della rivista online Questione Giustizia,  la corrente di sinistra dei giudici si schiera contro il leader di Autonomia e indipendenza. Una toga da sempre rossa, che per giunta si chiama Nello Rossi, contro il collega più sarcastico d’Italia, Piercamillo Davigo. Un ex procuratore aggiunto di Roma, già in pensione, contro l’ex pm di Mani pulite. Ma soprattutto una colonna di Magistratura democratica, le toghe rosse appunto, contro il fondatore della corrente Autonomia e indipendenza. Il direttore di Questione giustizia, la rivista online di Md, contro il collega che ha sbancato il botteghino dei voti quando si è candidato prima all’Anm, era marzo 2016 e prese 1.041 voti, e poi al Csm, 2.522 voti a luglio 2018. Ma l’orologio del tempo, secondo Rossi, sarebbe destinato a segnare proprio la sua permanenza a palazzo dei Marescialli. Perché Davigo, a Candia Lomellina, è nato il 20 ottobre 1950. Settant’anni dopo, secondo le sciagurate regole sull’anzianità volute e fate votare dall’ex premier Renzi, il 20 ottobre di quest’anno va in pensione. E secondo Rossi deve anche lasciare il Csm. Lui, Davigo, ha sempre sostenuto il contrario. Ma adesso il lungo editoriale di Rossi aprirà un dibattito all’interno del Csm e una controversia tra le due correnti - Md e A&I - che in questi mesi più volte si sono trovate assieme su nomine e scelte da prendere. Un fatto è certo: un articolo da 20mila battute, che apre la storica rivista di Md, sarà destinato a pesare sull’affaire Davigo. Appena reduce, peraltro, dall’aver vinto la battaglia contro Palamara sulla richiesta di astensione nella sezione disciplinare che giudicherà l’ex pm di Roma sotto accusa a Perugia per corruzione. 

“Sta per nascere un caso Davigo al Csm?” È sotto questo titolo che Rossi apre la querelle su Davigo. Che si apre con due lunghi interrogativi e si conclude con una sentenza. Garbato certo, ma pur sempre un benservito. Ecco le domande: “Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?” E ancora: “L’ibrido di un ‘non più magistrato’ che continua a esercitare le funzioni di componente togato dell’organo di governo autonomo della magistratura non risulterebbe giuridicamente insostenibile e foriero di squilibri e contraddizioni nella vita dell’istituzione consiliare?”. Dopo otto cartelle, affollate di riferimenti giuridici, la risposta è netta: “Si tratta di prendere atto che tra membri togati e membri laici non esiste lo spazio per il tertium genus dell’eletto non più magistrato, metà pensionato e metà consigliere, ormai svincolato dalle regole applicabili ai magistrati in servizio ma investito dei compiti propri del governo autonomo della magistratura”. Con un contentino per l’ex pm di Milano che suona così: “Non sono in discussione né il rispetto per la persona di Davigo, per la sua storia professionale ed umana e per il consenso raccolto tra i magistrati, né il dissenso netto, spesso nettissimo, verso molte delle sue posizioni sui temi della giustizia penale e dell’assetto del giudiziario. Nonostante la ferocia dei tempi ci ostiniamo a credere che rispetto personale e dissenso ideale possano e debbano stare insieme. Ma la loro convivenza non può che essere assicurata dall’osservanza dei principi e delle regole propri dell’amministrazione della giurisdizione”. Perché Davigo dovrebbe lasciare L’assunto di Nello Rossi è netto: “Chi è eletto al Consiglio da tutti  magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio”.  A suo dire ciò deriva dalla legge del 24 marzo 1958 (la 195) che ha istituito il Csm, in cui si legge che “non sono eleggibili i magistrati che al momento della convocazione delle elezioni, non esercitino funzioni giudiziarie”. Legge che fissa la distinzione, per la provenienza delle 16 toghe (diventeranno 20 con la prossima legge sul Csm), tra magistrati “che esercitano le funzioni” di legittimità, di pubblico ministero e di giudice presso gli uffici di merito”. Chiosa Rossi: “Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è dunque un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò  in coerenza con le disposizioni costituzionali che regolano la provvista dei membri togati del Consiglio Superiore”. Rossi prosegue con dubbi che in realtà presenta come certezze: “Ora è possibile, o meglio è concepibile, che il venir meno dello status che (solo) ha consentito l’elezione al Consiglio del componente togato sia considerato irrilevante ai fini della permanenza in carica di chi non è più magistrato? Ed è concepibile che - una volta cessata l’appartenenza all’ordine giudiziario su cui si radica l’elettorato passivo e su cui poggia la rappresentatività stessa del componente togato – chi non appartiene più alla magistratura possa continuare ad esercitare le funzioni di amministrazione della giurisdizione  e quelle di giudice disciplinare?”. È evidente che la risposta è no. Tant’è che la conclusione di Rossi è netta: “La cessazione dello status di magistrato – sia essa l’effetto di una scelta volontaria, come nel caso delle dimissioni dalla magistratura, di una situazione di natura oggettiva come avviene per il collocamento in quiescenza o di una sentenza penale di condanna - determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore”.  

Davigo e il caso Palamara. Ma, secondo Rossi, il pensionamento di Davigo s’intreccerebbe anche con il caso Palamara, sotto giudizio disciplinare al Csm, e con Davigo tra i suoi “giudici” visto che la sezione disciplinare ha rigettato la richiesta di una sua astensione presentata dallo stesso Palamara. Un “non più magistrato ma ancora consigliere togato”, si chiede Rossi, potrebbe giudicarlo ed emettere una sentenza? La risposta del direttore di Questione giustizia è un “no” bello tondo. Perché, scrive Rossi, “un ex magistrato - e tale è, a tutti gli effetti, chi viene collocato in quiescenza - non è più soggetto alla giurisdizione disciplinare. La giustizia disciplinare può essere esercitata esclusivamente nei confronti dei magistrati  in servizio, siano essi esercenti funzioni giudiziarie o collocati temporaneamente fuori ruolo”. E quindi, conclude Rossi, “il componente del Consiglio superiore ‘pensionato’ si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio, sia rispetto alla generalità dei magistrati”. I quali, se fanno parte del Csm, “incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento”. Ma Davigo, ormai in pensione, non sarebbe più “processabile” disciplinarmente. 

Flick: Davigo non può restare al Csm anche dopo il congedo. Errico Novi su Il Dubbio il 26 Settembre 2020. Il caso dell’ex pm che “deve” giudicare Palamara: intervista al presidente emerito della Consulta. «Intanto il Consiglio superiore della magistratura mi pare già sovraccarico di nodi irrisolti, per pensare di complicarne l’esistenza anche con l’equivoco fra durata soggettiva del mandato e durata del mandato collegiale». Giovanni Maria Flick parla del caso del togato Csm prossimo al congedo e aggrotta la fronte. Non è colpito tanto dalle polemiche e dai retroscena, quanto dai controsensi connessi alla permanenza in carica dell’ex pm di Mani pulite. C’è il rischio di «confondere la durata quadriennale prevista dall’articolo 104, evidentemente riferita al suo limite massimo, con il mandato del singolo consigliere», nota il presidente emerito della Consulta, «il che equivarrebbe a sbilanciare la natura del Csm dalla funzione gestionale verso sembianze da organo costituzionale. Come se il Consiglio superiore si trovasse sullo stesso piano della Consulta: ma proprio il raffronto con la Consulta ci dimostra quanto sia improponibile l’ipotesi che un consigliere togato del Csm resti in carica come tale anche dopo che sia andato in quiescenza come magistrato».

Insomma, presidente Flick, lei ritiene che quando, il prossimo 20 ottobre, Davigo compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura per raggiunto limite di età, dovrà concludersi anche il suo mandato a Palazzo dei Marescialli.

«Sì, e mi sorprende che adesso ci si scervelli per asserire il contrario. In ultima analisi, tutto sta nel raffronto con la Corte costituzionale: in tal caso, è esplicitamente previsto all’articolo 135 che il mandato dei giudici è di nove anni “per ciascuno di essi”. Non si parla di durata della Corte, di un suo determinato collegio, ma della permanenza del singolo componente. Se per il Csm i costituenti avessero voluto, nella sostanza, riferire la durata quadriennale della carica non al Consiglio ma al singolo consigliere, indipendentemente dal presupposto della nomina, l’avrebbero scritto a chiare lettere esattamente come hanno fatto per la Corte costituzionale».

Perché finora un’osservazione così semplice non è stata avanzata?

«Con tutto il rispetto per il diverso ragionamento fondato su un profilo solo formale e letterale, penso alla norma costituzionale che regola la rieleggibilità del presidente della Consulta. La carica ha una durata triennale. Poi può essere rinnovata per tre anni ancora. Ma a condizione che quel presidente della Corte si trovi, al momento della rielezione, ancora in carica come giudice costituzionale, ossia a condizione che non siano ancora trascorsi i nove anni di durata del mandato. Ancora: se trascorsi i primi tre anni si è rieletti al vertice della Consulta, si decade da presidente non appena scade il mandato di giudice, anche se il secondo triennio non è stato completato. Cosa vuol dire? Che la carica successiva, l’elezione a presidente, è sempre indissolubilmente subordinata alla condizione che ne è il presupposto: lo status di giudice costituzionale. Allo stesso modo, se il presupposto per essere eletti al Csm, nel caso dei componenti togati, è lo status di magistrato ordinario appartenente alle varie categorie e quindi, evidentemente, in servizio, quando tale specifico status viene meno, si interrompe anche il mandato a Palazzo dei Marescialli».

Di nuovo: perché non lo si è ancora detto?

«Mi limito a osservare che si pretende di conferire stabilità all’organo di autogoverno dei magistrati attraverso la stabilità nella carica di un singolo consigliere. Strano. Ma per tentare di sezionare la stranezza in tutti i suoi aspetti, serve un breve excursus cronologico».

Cosa intende dire?

«Il cosiddetto caso Palamara non è nuovo. Negli ultimi giorni gli osservatori più misurati e acuti hanno notato che non si è fatto praticamente nulla per oltre un anno, dopo aver denunziato a suo tempo con vigore l’urgenza di provvedere subito, e che d’improvviso si accelera. Adesso, anziché concentrarsi sulla riforma del Csm o almeno sulla vicenda oggetto del noto procedimento disciplinare, si è preoccupati della permanenza in carica di uno dei giudici di quel procedimento. Ci si trova dinanzi a un bivio: o quel giudice decade il giorno in cui entra in quiescenza, a processo ancora non concluso, e allora si rischia di dover rinnovare tutto dal principio; oppure si tenta la strada intrapresa, cioè dopo un anno di nulla assoluto si cerca di portare a termine il processo prima che quel giudice entri in quiescenza. Come si fa a non trovarlo strano?»

Senta, presidente Flick: la necessità di arrivare alla sentenza Palamara con Davigo ancora giudice del collegio disciplinare può dipendere, secondo lei, dall’idea di estremo rigore che Davigo personifica e dal timore di rinunciarvi proprio in una vicenda ritenuta squalificante per la magistratura?

«Ah, ma quindi adesso vorrebbe farmi parlare di politica? No, mi spiace. A me del fatto che quel procedimento sia considerato un simbolo, e che quel consigliere Csm sia a propria volta un simbolo di rigore, non può e non deve interessare. I principi di regolazione di un organo come il Csm devono prescindere dalla politica e dal sentimento dell’opinione pubblica. Ribadisco: la permanenza in Consiglio richiede necessariamente il presupposto della qualità di magistrato in servizio. Già ho ricordato come emerga con chiarezza dalla differenza tra la norma costituzionale sulla Consulta e quella sul Csm. Potrei fermarmi qui. Ma giacché ci siamo, consideriamo anche le conseguenze problematiche di una valutazione diversa. Prima di tutto: un magistrato in quiescenza che continuasse a essere consigliere superiore non sarebbe sottoposto alla responsabilità disciplinare, per non dire della responsabilità deontologica, deficitaria anche per le toghe in servizio. Potrebbe, un ex magistrato, essere sottoposto alla responsabilità disciplinare tipica di chi è in servizio solo perché è componente del Csm? No, servirebbe una legge».

Prima contraddizione. Le altre?

«Passiamo a vedere cosa discenderebbe dalla pretesa di equiparare il Csm alla Corte costituzionale, e di intendere dunque la durata quadriennale dell’organo come durata soggettiva del singolo mandato di consigliere Csm in difetto della qualità che ne è il presupposto ineliminabile. Innanzitutto, si creerebbe una sfasatura, nel senso che alcuni componenti togati del Csm resterebbero consiglieri anche dopo che siano stati rinnovati i membri laici, con tutti i relativi problemi di sintonia fra le due componenti. Dovremmo, di fatto, avere elezioni lontane nel tempo, tra laici e togati e anche all’interno della componente magistratuale. Terzo, potremmo trovarci ad attribuire, all’organo, una durata di fatto ultraquadriennale legata alla circostanza soggettiva del mandato di un singolo, entrato in carica dopo gli altri. Mi pare tutto davvero problematico».

Intanto si attendono nuovi pareri dall’Avvocatura di Stato e dall’Ufficio studi del Csm.

«A me sembra che nella vicenda vi sia una sorta di omaggio all’identificazione tra il profilo di un singolo componente e l’intero organo di autogoverno. Sarebbe auspicabile che una simile distorsione venisse abbandonata. E che si provasse a risolvere i problemi, che semplici non sono, della magistratura e del suo ordinamento, e della formazione e del funzionamento del Csm, prima di affrontarne dei nuovi».

La Costituzione "salva" Davigo dal rischio di lasciare la magistratura per raggiunti limiti di età. Pubblicato sabato, 01 agosto 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it. L'articolo 104 della Carta, che parla di “membri in carica per quattro anni”, smonta la tesi di Magistratura democratica e di Nello Rossi. Via chat - che sono tanto di moda tra le toghe - invio un messaggio a Piercamillo Davigo. “Vuole fare un’intervista sul suo futuro al Csm?”. Mi risponde di no, ma l’avevo previsto. Non c’è bisogno di spiegare chi sia Davigo. Ex cattivissimo pm di Mani pulite. Fondatore della corrente di Autonomia e indipendenza dopo una vita passata dentro Magistratura indipendente - la destra delle toghe - ma in polemica al fulmicotone con Cosimo Maria Ferri. Ex presidente dell’Anm nel 2016  super votato dai colleghi (1.041 preferenze personali). Poi ancora en plein di suffragi al Csm due anni fa (2.522). Super toga dalle interviste graffianti in tv. Con pochi sorrisi, anche se chi lo frequenta da amico lo descrive come un gran simpatico. Ebbene, descritto sommariamente l’uomo e il magistrato, adesso Piercamillo Davigo avrebbe un problema per la sua futura permanenza al Csm. Quale? il rischio che il 20 ottobre, allo scadere del suo settantesimo compleanno, debba lasciare dopo due anni palazzo dei Marescialli perché a quell’età le toghe sono costrette dalla legge Renzi ad andare in pensione. Lo sostiene con ampie argomentazioni Nello Rossi, il direttore di Questione giustizia, la rivista online di Magistratura democratica. Sì, proprio l’house organ delle cosiddette “toghe rosse”. La legge sul Csm del 1958 parla di magistrati in servizio da poter eleggere. E solo i giudici in servizio subiscono gli effetti della scure disciplinare se commettono infrazioni più o meno gravi. Davigo non parla. Ma in questi mesi più d’uno gli ha sentito citare un altro puntello, che lui ritiene ben più solido di qualsiasi altra argomentazione. L’articolo 104 della Costituzione sulla magistratura che al quinto comma recita: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Punto. Quindi chi viene eletto resta a palazzo dei Marescialli per quattro anni. Salvo fatti eccezionali come nel caso Palamara che ha poi costretto cinque togati a lasciare il Consiglio. Ma questa è tutta un’altra storia che, direbbe Antonio Di Pietro, “non c’azzecca” con Davigo. Il quale avrebbe anche un altra freccia al suo arco. Il fatto che, al momento della sua candidatura nel 2016, nessuno ha eccepito la sua età, ovviamente ben nota. E i 2.522 colleghi che lo hanno votato, a loro volta, sicuramente erano ben al corrente dell’età di Davigo e del prossimo scadere dei suoi 70 anni. Eppure l’hanno scelto ugualmente, presupponendo quindi che avrebbe continuato a rappresentarli anche dopo il passaggio alla pensione. Peraltro, un recentissimo caso sembra spezzare un’ulteriore lancia a favore di Davigo. Perché il collegio disciplinare che giudicherà Palamara, presieduto dal laico indicato dalla LegaEmanuele Basile, lunedì ha respinto nettamente la richiesta di astensione avanzata dall’ex pm di Roma accusato di corruzione a Perugia, confermando quindi indirettamente l’assenza di dubbi sul futuro di Davigo. Poiché, al Csm, già il 15 settembre, quando il vice presidente David Ermini costituirà le nuove commissioni in carica durante tutto il prossimo anno, dovrà affrontare subito il problema di Davigo e della sua andata in pensione. Il quale, qualora dovesse lasciare la disciplinare a lavori su Palamara già iniziati, potrebbe dar adito a complicazioni in vista di futuri ricorsi. Infine un ultimo dettaglio. Quando, a maggio, spuntò un emendamento di Fratelli d’Italia alla Camera per riportare da 70 a 72 anni l’età pensionabile delle toghe e qualcuno scrisse che si trattava di una norma ad personam per Davigo, lui si arrabbiò moltissimo e minaccio querele. Convinto com’è sempre stato che nessuna norma in vigore può allontanarlo dal Consiglio superiore della magistratura.

Lo "stacanovista" Davigo, giudice disciplinare anche se in pensione. Rinaldo Romanelli, Giorgio Varano su Il Riformista il 6 Agosto 2020. Mancano settantacinque giorni alla cessazione dalle funzioni giudiziarie del Dott. Davigo, e prosegue il silenzio di tutti i consiglieri del Csm su quello che ormai si può definire un vero e proprio caso e che si preannuncia come tormentone estivo, paradigmatico della poca trasparenza di questa consiliatura di Palazzo dei Marescialli sulle proprie dinamiche interne, come se il Csm fosse una associazione privata e non un organo di natura costituzionale che governa di fatto l’amministrazione della giustizia. Ad aprile di quest’anno, in un approfondito contributo sulle pagine della rivista Diritto di Difesa, abbiamo evidenziato come l’esercizio delle funzioni giudiziarie sia da considerarsi requisito necessario per la permanenza nella carica del componente togato del Consiglio superiore della magistratura. Siamo poi ritornati sul tema, in forma più discorsiva, sulle pagine di questo giornale, parlando del caso specifico del Dott. Davigo, il pubblico ministero diventato Presidente di una sezione della Corte di Cassazione. Abbiamo preso atto del silenzio imbarazzato del Csm, della magistratura associata, delle varie “correnti”, e di alcuni pubblici ministeri che si pongono come paladini della legalità nei loro scritti e nelle loro attività sui media e sui social network, sempre più soggetti politici pronti a discettare su tutto, tranne che sulle regole del Csm quando le stesse toccano la propria corrente. La mancata pronuncia di Palazzo dei Marescialli sulla posizione del Dott. Davigo ha iniziato a smuovere alcune coscienze nella magistratura. Qualche giorno fa c’è stato l’intervento del direttore della rivista di Magistratura Democratica, il magistrato Nello Rossi, che ha ripreso tutte le nostre argomentazioni esposte sulla rivista dei penalisti italiani. La conseguenza? È iniziata una campagna di stampa a favore della permanenza in carica ad personam, con alcune fantasiose tesi. Siccome la Costituzione stabilisce che i consiglieri durano in carica 4 anni, gli stessi possono restare in carica anche se cessano dalle funzioni giudiziarie (requisito essenziale per la carica di consigliere togato). Insomma, una incoronazione, non una normale elezione di un magistrato in servizio. Altro argomento: la legittimazione elettorale. È stato votato pur essendo gli elettori a conoscenza della sua prossima cessazione dalle funzioni giudiziarie, quindi può restare in carica. Il voto, dunque, come fonte superiore alla legge. E fa niente se, sempre grazie al voto, come primo dei non eletti subentrerebbe un magistrato di un’altra corrente, mica si può sovvertire la geografia delle correnti in seno al Csm per colpa del voto! Pare che la decisione sia già stata presa se il Dott. Davigo è stato scelto come giudice disciplinare di un procedimento che proseguirà ben oltre la data della sua pensione. In questo caso la decisione sarebbe stata presa in gran silenzio, speriamo non durante una cena o in un hotel, senza un minimo di comunicazione esterna. Eppure il Consiglio di Stato si è già espresso su un caso simile, con parole che non lasciano spazio a interpretazioni, nemmeno per i tifosi: «Se, infatti, per “autogoverno” deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione di una determinata istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base ad un principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima (nella specie, l’ordine giudiziario) costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano. In altri termini, il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall’ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del C.S.M. dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall’essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare. Di conseguenza, del tutto legittima è una lettura dell’art. 39, l. nr. 195/1958 laddove prevede il subentro del primo dei non eletti in caso di cessazione dalla carica “per qualsiasi ragione”, ben potendo ricomprendersi in tale ampia formula anche l’ipotesi suindicata senza alcuna indebita estensione analogica di norme eccezionali e senza alcuna violazione dei principi di rango costituzionale». Cosa accadrà, dunque, se il Dott. Carmelo Celentano (Unicost), che dovrebbe subentrare quale primo dei non eletti, a fine ottobre procederà con un ricorso? Per quali motivi, nel caso, non vi procederà? Provvederà, allora, la Dott.ssa Rita Sanlorenzo (AreaDG), seconda dei non eletti? Cosa accadrà al procedimento disciplinare se il ricorso sarà accolto? Cosa accadrà al procedimento disciplinare se gli incolpati a fine ottobre solleveranno l’eccezione nei confronti del Dott. Davigo? Per quali ragioni il Csm inizia un procedimento disciplinare con la possibilità che lo stesso venga bloccato o annullato per la permanenza nella carica, di consigliere togato e di giudice disciplinare, di un magistrato che cesserà le sue funzioni nel corso del procedimento? Meno settantacinque giorni all’alba di questa lunga notte del Csm e sapremo anche noi comuni mortali.

Il seggio "cadente" al Csm. Tra un mese Davigo va in pensione, ma si incolla alla sua poltrona del Csm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Voi pensate che il Consiglio superiore della magistratura sia impegnato allo spasimo sul caso Palamara? Cioè sullo scandalo delle nomine teleguidate al vertice della magistratura, e pure delle sentenze – probabilmente – teleguidate, visto il potere soverchiante del partito dei Pm che – abbiamo scoperto dalle intercettazioni, ma già lo sapevamo – è in grado di condizionare o addirittura sottomettere un po’ di giudici amici. Oppure magari pensate che ora il Csm sarà impegnato anche per il caso Emilia, e la nomina del procuratore Mescolini, sollevato proprio dal nostro giornale. Macché: il Csm è completamente preso dalla madre di tutte le battaglie condotte dall’incorruttibile Piercamillo Davigo. Il quale tra poche settimane compie 70 anni e deve andarsene in pensione e di conseguenza perde il seggio in Csm. Lui non ne vuole sapere di andarsene. È pronto a incollarsi, inchiodarsi, abbarbicarsi, abbracciarsi (scegliete voi il termine giusto) alla poltrona, tanto per usare una immagine che ai 5 Stelle piace molto e in genere usano in polemica coi parlamentari. Bisogna dire che i parlamentari sono molto più sobri del giudice Davigo. Il caso Davigo sembra ormai diventato il vero pilastro della questione giudiziaria. Prima è successo che due gruppi parlamentari assai distanti (FdI e Pd) hanno presentato emendamenti a un decreto Covid con i quali spostavano, di nascosto, l’età di pensionamento dei parlamentari. Salvando Davigo. Li abbiamo beccati e gli emendamenti son saltati. Ora Davigo stesso sta facendo il diavolo a quattro e ha mobilitato, dicono, pure il Quirinale per ottenere che il Csm si pronunci sulla sua “eternità”. Il Csm resiste, anche perché, oggettivamente, la legge è molto chiara. Lui non demorde. Battaglia. La partita è tutta aperta, avvincente: ve la racconteremo nei prossimi giorni.

Il caso Davigo paralizza il Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 settembre 2020. Piercamillo Davigo non vuole lasciare la carica di consigliere del Csm nonostante abbia raggiunto i limiti di età. Il Csm ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato. Il parere dell’Avvocatura dello Stato sul destino di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura è atteso per la prossima settimana. La Commissione verifica titoli di Palazzo dei Marescialli, presieduta dalla togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, lunedì scorso aveva affidato il compito all’Avvocatura dello Stato di redigere un parere se l’ex pm di Mani pulite possa continuare ad essere consigliere superiore anche dopo il prossimo 20 ottobre, data in cui compirà settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio delle toghe dopo la modifica approvata durante il governo Renzi. Una volta ricevuto il parere, la Commissione farà le proprie valutazioni che saranno quindi sottoposte al Plenum per il voto a scrutinio segreto trattandosi di decadenza di un componente del Consiglio. L’Ufficio studi del Csm aveva in passato redatto un parere sul tema dell’età dei magistrati al Csm, prospettando la sostenibilità giuridica sia a favore della permanenza, trattandosi di una carica elettiva, e sia a favore delle decadenza per mancanza del requisito di essere magistrato in servizio. Davigo era stato eletto con un plebiscito nell’estate del 2018. L’Avvocatura, in caso di contenzioso amministrativo, difende ex lege l’operato del Csm. Non sono da escludersi, infatti, ricorsi presentati da Davigo, in caso dovesse essere dichiarato decaduto, o da parte del primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. Il magistrato di piazza Cavour all’epoca si era candidato nelle liste di Unicost, la corrente di centro delle toghe a cui apparteneva l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. In caso Celentano non accettasse la nomina, potrebbe subentrargli la collega in Cassazione Rita Sanlorenzo del cartello progressista Area. E ieri, presieduta invece da Davigo, la Commissione verifica titoli ha analizzato la pratica di Pasquale Grasso, toga di Magistratura indipendente. Grasso, lo scorso anno per qualche mese presidente dell’Anm, è il primo dei non eletti alle elezioni suppletive per la categoria del merito tenutesi a dicembre del 2019. Il magistrato deve prendere il posto di Marco Mancinetti, giudice di Unicost dimessosi il mese scorso dopo aver saputo di essere sottoposto a procedimento disciplinare dalla Procura generale della Cassazione nell’ambito dell’affaire Palamara. Anche per lui la Commissione ha chiesto un parere: questa volta interno, all’Ufficio studi. La Commissione era composta da tre membri: un magistrato con funzioni di legittimità, Piercamillo Davigo, un magistrato con funzioni di merito, il giudice milanese Paola Maria Braggion, e un componente eletto dal Parlamento, il professore in quota M5S Alberto Maria Benedetti. Si punta, comunque, ad escludere delle nuove elezioni suppletive. Sarebbe la terza volta in meno di un anno. Con l’entrata di Grasso al Csm il gruppo di Mi, la corrente moderata, passa a quattro componenti, “recuperando” l’iniziale compagine di cinque membri, poi falcidiata dalle dimissioni. Il mese prossimo, poi, sono già in programma, dopo essere state rinviate già due volte, le elezioni per il rinnovo dell’Anm. Queste elezioni si svolgeranno con modalità telematica a causa dell’emergenza sanitaria Covid- 19. Circa 5000 le toghe che si sono accreditate. Poche rispetto alle oltre 8000 iscritte all’Anm. E sempre la prossima settimana è prevista la sentenza per Palamara. La sezione disciplinare ha deciso di imprimere un’ulteriore accelerazione. Pressoché scontata la decisione: espulsione dall’ordine giudiziario.

Davigo: “Risarcitemi per la mancata nomina”. Il Dubbio il 7 ottobre 2020. Piercamillo Davigo rischia la poltrona del Csm ma rilancia sui compensi in qualità di Presidente aggiunto della Cassazione. Si avvicina il “verdetto” del Csm sul destino di Piercamillo Davigo. Lunedì 12 la Commissione Verifica Titoli (che ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, subito “secretato”) in prima battuta scioglierà il nodo se dopo il 21 ottobre, data in cui Davigo sarà collocato a riposo dalla magistratura per il compimento dei 70 anni, dovrà lasciare anche Palazzo dei marescialli o potrà restare consigliere, come sostiene lui. Due giorni dopo, il 14, sarà il plenum del Csm a prendere la decisione finale, difficile, anche perchè non ci sono precedenti. Intanto il consigliere, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, presenta il conto a Palazzo dei marescialli per una mancata nomina di due anni fa, anteriore di otto mesi alla sua elezione trionfalistica al Csm con un record di preferenze. Forte di una pronuncia del Consiglio di Stato che gli ha dato ragione, annullando la delibera del Csm che lo ha penalizzato, l’ex dottor Sottile del pool Mani Pulite vuole che adesso gli venga attribuito a posteriori, a pochi giorni dalla pensione (anche se la richiesta porta la data del 17 luglio scorso) l’incarico di Presidente aggiunto della Cassazione che allora gli fu negato . O almeno che gli venga riconosciuto il titolo di presidente aggiunto, con conseguente aumento della retribuzione, e risarcito il danno per “perdita di chance”. Il tutto a partire da quel fatidico 21 febbraio del 2018, quando il plenum del Csm gli preferì a maggioranza schiacciante (18 voti a 1) Domenico Carcano, già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia.

Savonarola pensa anche al bancomat. Il conflitto d’interessi di Davigo: chiede un risarcimento al Csm (di cui è componente…) Piero Sansonetti Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Sono tra quelli – pochissimi – che hanno sempre pensato cose abbastanza brutte dei magistrati (non è vero: non di tutti, lo so benissimo che ci sono in giro fior di magistrati, purtroppo si fanno sentire pochissimo, salvo rare eccezioni…). Però non mi era mai venuto in mente di considerare i magistrati persone venali. Avevo sempre immaginato che tutte le loro brighe e anche – spesso – le loro sopraffazioni, avessero come movente un unico totem: il potere, anzi il potere assoluto. Quel tipo particolarissimo di potere che – dicono – produce una vera e propria ebbrezza, che è il potere di decidere della vita, della sorte, della fortuna, delle libertà di singole persone. Vedere degli individui alla propria mercé, senza che nessuno possa intervenire. Ieri ho saputo che il mito di tutti di noi, Piercamillo Davigo, al quale mancano due settimane alla pensione, ha fatto ricorso contro la nomina, due anni fa, di Domenico Carcano a Presidente aggiunto della Cassazione. Davigo concorse a quel titolo con Carcano e fu sconfitto, nella votazione del Csm, per 18 a 1. Ora, forte di una sentenza del Consiglio di Stato, sostiene che invece quella nomina spettava a lui, perché aveva un titolo in più del suo rivale, e che ora, di conseguenza, deve essergli restituita la Presidenza negata (per due settimane, visto che poi dovrà comunque lasciare la toga) e soprattutto deve essergli riconosciuto l’aumento di stipendio, con tutti gli arretrati, e poi gli scatti nella pensione, e poi anche un risarcimento in moneta per la sofferenza patita per la mancanza del titolo di Presidente aggiunto. A chi Davigo ha chiesto questo ricco rimborso in denaro? Al Csm. Ma Davigo fa parte del Csm. Bisognerebbe chiedere ai grillini, che in queste cose sono esperti, se per caso ci sia un conflitto di interessi, ma probabilmente non c’è. Del resto nei giorni scorsi, durante il processo a Palamara, è stato stabilito che anche se i nomi dei magistrati del Csm che dovranno giudicare Palamara sono gli stessi che si trovano – in situazioni non sempre edificanti – nelle intercettazioni sulle quali si fonda l’accusa a Palamara, questo non è un problema e non c’è incompatibilità. Il che – se capisco bene – vuol dire che comunque, nel caso dei magistrati, il conflitto di interessi non esiste. Figuratevi nel caso di Davigo che è ben più di un magistrato normale…

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” l'8 ottobre 2020. Piercamillo Davigo deve lasciare il Consiglio superiore della magistratura, a metà del mandato, perché un pensionato non può rappresentare gli ex colleghi. Lo sostiene l'Avvocatura dello Stato, in un parere richiesto dal Csm. Davigo andrà in pensione il 20 ottobre, a 70 anni. All'inizio di settembre egli stesso ha posto con una lettera alla commissione titoli del Csm la questione, che non conosce precedenti: la possibilità di rimanere in carica da pensionato, essendo stato eletto nella quota riservata ai magistrati in servizio. Davigo sostiene di averne diritto con due argomentazioni, una giuridica e una politica. La prima: il pensionamento non è espressamente previsto dalla legge tra le cause di decadenza dei membri del Csm, e in materia elettorale vige la tassatività dei requisiti di chi accede alle cariche pubbliche. La seconda: un'estromissione con voto a maggioranza del plenum introdurrebbe un pericoloso precedente, comportando la precarietà (se non la condizionabilità) di una posizione costituzionalmente rilevante. La commissione titoli, che deve istruire la pratica e riferire al plenum per il voto finale, ha preso tempo. Dopo aver scartabellato invano vecchi pareri, ha deciso di rivolgersi all'Avvocatura dello Stato, che assiste e difende le amministrazioni pubbliche (e il Csm, nei ricorsi dei magistrati al Tar contro nomine e trasferimenti). L'iniziativa ha suscitato la prima tensione. A volerla Loredana Micciché e Paola Braggion (entrambe di Magistratura Indipendente, corrente da cui Davigo uscì nel 2015 in polemica con Cosimo Ferri), mentre Alberto Benedetti, membro laico indicato dal M5S, ha votato contro. Schermaglie che preludono a quel che accadrà la prossima settimana, quando i tre componenti della commissione titoli dovranno redigere una relazione (o due, in caso di spaccatura) su cui il plenum si pronuncerà. A quel punto il parere dell'Avvocatura, pur non vincolante, sarà squadernato. Tre pagine per sostenere che l'assenza di una specifica norma per il caso Davigo dipende dal fatto che la sua decadenza è «scontata», sulla scorta di una lettura sistematica del ruolo del Csm nell'assetto costituzionale e della rigida ripartizione dei suoi membri tra togati (in servizio) e laici eletti dal Parlamento, che sarebbe alterata dal «seggio del pensionato». In tal senso valorizza una sentenza del Consiglio di Stato del 2011. Una «lettura formalistica e insufficiente» delle cause di decadenza, rifiutando il principio secondo cui «l'appartenenza all'ordine giudiziario costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile» per la permanenza nel Csm e non solo «per il mero accesso», pervertirebbe il senso «dell'autogoverno». Il plenum se ne occuperà mercoledì. Sarà battaglia. Anche perché nel frattempo Davigo presenta un altro conto al Csm per una mancata nomina in Cassazione nel 2018. Il Consiglio di Stato gli ha dato ragione, chiede un risarcimento sia economico che di carriera.

I 70 anni di Davigo: il Csm verso la conferma.

Liana Milella su La Repubblica l'8 ottobre 2020. Alta tensione al Consiglio sul prossimo pensionamento dell’ex pm che compirà gli anni il 20 ottobre. Deciderà il plenum mercoledì prossimo: su questa decisione non avrà influenza un parere chiesto all’Avvocatura dello Stato. Come tutto, al Csm, anche il caso Davigo è diventato materia di lotta tra le correnti della magistratura. Soprattutto per due coincidenze. La prima: giusto tra oggi e domani, nella sezione disciplinare, si decide la sorte di Luca Palamara, e tra i giudici c’è anche Piercamillo Davigo. La seconda: tra una settimana, le toghe italiane - ormai quasi 10mila - andranno al voto per eleggere il nuovo assetto sindacale dell’Anm. E la destra di Magistratura indipenden...

Csm verso il sì alla permanenza di Davigo. Errico Novi su Il Dubbio il 13 ottobre 2020. Alla vigilia del voto in plenum sulla permanenza di Davigo la maggioranza dei togati sarebbe favorevole alla permanenza dell’ex pm di Mani pulite. Forse si doveva proprio attendere la sentenza Palamara, perché potesse sbrogliarsi la “matassa politica” all’interno del Csm. Così sembra se si pensa che solo domenica scorsa, dopo la radiazione dell’ex presidente Anm, hanno cominciato a diventare meno indecifrabili le diverse posizioni, a Palazzo dei Marescialli, su due delicatissimi dossier: la permanenza di Piercamillo Davigo nella carica di consigliere dopo che, il 20 ottobre, si sarà congedato dalla magistratura e il subentro di Pasquale Grasso nel “seggio” lasciato libero in plenum da Marco Mancinetti, il togato di Unicost dimessosi il 20 settembre. Due questioni che nelle settimane del turboprocesso Palamara sono rimaste sotto traccia. D’improvviso, rimosso il rischio che si incrociassero con la vicenda disciplinare, sono arrivati domenica scorsa comunicati o interventi da tre gruppi della magistratura associata. Uno della progressista “Area” che chiede, su Davigo e Grasso, «voto palese» e discussioni separate, affinché non siano «influenzate da argomenti di tipo personalistico, da logiche di schieramento o da calcoli strategici». Secondo “Area”, «la decisione dell’un caso» non deve essere «contraltare dell’altro». Nelle stesso ore è apparso sulla rivista Questione giustizia un intervento del presidente di “Magistratura democratica” Riccardo De Vito, il solo ad assumere una posizione esplicita sull’ex pm di Mani pulite. La sua eventuale permanenza a Palazzo dei Marescialli è giudicata, da De Vito, un percolo per la «rappresentatività democratica del Consiglio». Infine un comunicato di “Magistratura indipendente”, la corrente contrapposta ai gruppi progressisti ( sono due, anche se “Md” è in realtà una componente della stessa “Area”, seppur con una propria vivace soggettività): in quest’ultimo documento non c’è un’indicazione rispetto alla scelta che il gruppo moderato compirà su Davigo, in compenso c’è una forte presa di posizione a favore di un avvicendamento tra Mancinetti e Grasso. Tre posizioni molto diverse per impostazione, ma anche dal punto di vista strategico. “Mi” ricorda che «1983 colleghi» si sono espressi a favore di Grasso, arrivato secondo alle «elezioni suppletive dell’ 8 e 9 dicembre 2019 per funzioni giudicanti di merito», vinte da Elisabetta Chinaglia». Quei quasi duemila magistrati «attendono da oltre un mese la convocazione di Pasquale Grasso, avendo democraticamente espresso il proprio voto, e si chiedono per quale ragione il loro voto non sia rispettato». Neppure il gruppo moderato, come “Area”, esprime in modo diretto la propria intenzione sulla permanenza di Davigo. De Vito è appunto l’unico a schierarsi e lo fa con argomentazioni che riprendono l’intervento del direttore di Questione giustizia Nello Rossi pubblicato a fine luglio. In particolare il presidente di “Md” cita la pronuncia del Consiglio di Stato relativa a un caso analogo ma dalla valenza generale, secondo cui «se per "autogoverno" deve intendersi un sistema in virtù del quale la gestione e l’amministrazione dell’istituzione è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base al principio di rappresentatività democratica, ne discende che la qualità di appartenente all’istituzione medesima costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano» . Secondo De Vito, Davigo non può dunque restare a Palazzo dei Marescialli a meno di voler «gettare a mare» quella «rappresentatività». Una simile incrinatura, conclude il presidente di “Md”, rischia di essere un assist alla politica, «impegnata nel tentativo di riforma dell’ordinamento giudiziario: l’auspicio è che» il legislatore «non fiuti» la dissoluzione, insieme col principio di rappresentatività, anche di quello della «autonomia». Si dirà: se un esponente autorevole della “sinistra togata” qual è De Vito si schiera contro la permanenza di Davigo, vorrà dire che alla fine i voti di “Area” andranno in quella direzione. Ma non è detto, intanto perché dei 5 attuali consiglieri del rassemblement progressista – di cui “Md fa pur sempre parte – nessuno è ormai organicamente allineato alle posizioni della storica componente “di sinistra”. A cominciare dal capogruppo Giuseppe Cascini, che di “Magistratura democratica” ha addirittura disdetto la tessera. Non si può dunque escludere che alla richiesta di votare separatamente, da ogni punto di vista, su Davigo e Grasso, si associ una propensione di “Area” alla permanenza di Davigo in plenum. E anzi le indiscrezioni danno tale scelta per maggioritaria tra i togati del Csm: a essere perplessi sarebbero sì alcuni consiglieri di varia provenienza, ma se, come sembra, prevarrà la richiesta per il voto palese, avanzata da “Area”, difficilmente il drappello dei contrari al’ex pm di Mani pulite resterebbe numeroso. Sarebbero per il no una parte dei laici, non tutti: quelli indicati da FI ( Cerabona e Lanzi), dalla Lega ( Basile e Cavanna) e forse uno dei consiglieri proposti dai 5 Stelle, Donati. Benedetti e Gigliotti voterebbero a favore di Davigo. Tra i togati che sono 16, il doppio dei laici neppure l’intera delegazione di “Mi” sarebbe per la decadenza. Sull’ex pm del Pool, insomma, il quadro è delineato: oggi la Commissione verifica titoli deciderà se presentare già doman i al plenum la propria relazione, con il parere dell’Avvocatura dello Stato sfavorevole al consigliere prossimo al congedo. Certo è che l’improvviso surriscaldarsi del clima conferma l’impressione che lo sprint su Palamara sia stato favorito dalla volontà di liquidarlo prima che altri nodi del plenum arrivassero al pettine.

Caso Davigo, il Csm: "Deve andarsene". Si spacca la commissione verifica titoli. Le due consigliere togate di Magistratura indipendente, Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, hanno votato per la sua decadenza dal Consiglio dal momento che il 20 ottobre andrà in pensione. Si è astenuto  invece Alberto Maria Benedetti, consigliere laico del M5s. La decisione finale spetterà al plenum. Liana Milella il 13 ottobre 2020 su La Repubblica. Si spacca - anche se due contro uno - la Commissione per la verifica dei titoli al Csm sul caso Davigo, l'ex pm di Mani pulite che il prossimo 20 ottobre compie 70 anni e quindi va in pensione come magistrato. Le due consigliere togate di Magistratura indipendente, Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, hanno votato per la sua decadenza dal Csm. Si è astenuto invece Alberto Maria Benedetti, consigliere laico indicato da M5s. A decidere la sorte di Davigo sarà, a questo punto, il plenum straordinario del Csm che il Comitato di presidenza - composto dal vice presidente del csm David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale Giovani Salvi - ha fissato per lunedì 19 alle 15, con prosecuzione anche martedì e mercoledì. Ma lunedì sarà la giornata decisiva, cioè prima dello scadere dei 70 anni di Davigo. Il Csm sul caso Davigo è spaccato. Il voto in plenum sarà quasi certamente segreto. L'esito, al momento, sembra favorevole alla sua permanenza in Consiglio. In assenza di una norma esplicita nella legge istitutiva del Csm del 1958 che chiarisca i termini della decadenza in caso di pensionamento, il voto sarà politico. L'esito della votazione di oggi nella Commissione verifica titoli era scontato perché anche sulla decisione di chiedere un parere all'Avvocatura dello Stato si era verificata la stessa contrapposizione. Davigo, in quando leader di Autonomia e indipendenza, che ha spaccato Mi nel 2016 contestando la nomina di Cosimo Maria Ferri a sottosegretario alla Giustizia pur restando il padre-padrone della corrente, non può certo godere di un occhio di riguardo da parte di sue esponenti di Mi.

Avviso di sfratto a Davigo: “Non può restare al Csm”. Il Dubbio il 13 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo non può restare togato al Csm dopo il suo pensionamento da magistrato: è la proposta che la Commissione verifica titoli, questa mattina, a maggioranza, ha deciso di presentare al plenum. Piercamillo Davigo non può restare togato al Csm dopo il suo pensionamento da magistrato: è la proposta che la Commissione verifica titoli, questa mattina, a maggioranza, ha deciso di presentare al plenum. La questione dovrà essere sciolta questa settimana, poiché Davigo compirà 70 anni – età massima per i magistrati per la permanenza in servizio – il 20 ottobre prossimo. A votare a favore di questa proposta, 2 dei 3 membri della Commissione, le togate di Magistratura Indipendente Loredana Micciché e Paola Braggion, mentre si è astenuto il laico M5s Alberto Maria Benedetti. La parola definitiva spetta quindi ora al plenum, che prenderà  la sua decisione nella riunione di domani o, al più tardi, in quella di giovedì.

Il caso Davigo. “Davigo deve andarsene”, la Commissione titoli si spacca e rimanda al plenum del Csm la decisione sulla "cacciata". Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. La sorte di Piercamillo Davigo, ovvero se dovrà lasciare il suo ruolo di consigliere del Csm dopo che sarà andato in pensione dalla magistratura, sarà decisa da un plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura che si terrà il 19 ottobre, alla vigilia del settantesimo compleanno di Davigo, termine massimo per la permanenza in magistratura.

LA COMMISSIONE: “DAVIGO DEVE ANDARE VIA” – La Commissione verifica titoli, questa mattina, a maggioranza aveva votato a favore dell’allontanamento del togato dal Csm per il pensionamento. A votare a favore della proposta sono stati due componenti su te: contrario solamente il laico del M5S Alberto Maria Benedetti, che all’Ansa ha motivato la decisione spiegando che “la questione è complessa e merita di essere approfondita. E la complessità della questione non riguarda soltanto ragioni giuridiche ma anche ragioni diverse sul funzionamento del Csm, la messa in sicurezza dei suoi provvedimenti e della loro validità”. A favore della proposta di "cacciare" Davigo dal Csm sono arrivati i voti della presidente Loredana Miccichè e della consigliera Paola Braggion, entrambe di Magistratura Indipendente, correnti di cui Davigo è stato esponente prima di fondare il suo gruppo, Autonomia e Indipendenza. La decisione finale spetterà ovviamente al plenum di Palazzo dei marescialli, che ha convocato altre due sedute nei giorni successivi: il 20 alle 9,30 con eventuale prosecuzione pomeridiana e il 21 alle 10.

Davigo scaricato dalla commissione del Csm, ultima parola al plenum. Angela Stella su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il consigliere Piercamillo Davigo dovrà lasciare il Csm quando, tra qualche giorno, compirà 70 anni, l’età massima per la permanenza in magistratura: è la conclusione alla quale è giunta ieri la maggioranza (2 componenti su 3) della Commissione Verifica Titoli del Csm. A favore della proposta della maggioranza hanno votato la presidente Loredana Miccichè e la consigliera Paola Braggion, entrambe di Magistratura Indipendente, la corrente di cui è stato un esponente lo stesso Davigo prima di fondare il gruppo di Autonomia e Indipendenza. Non ha espresso un voto contrario ma si è astenuto il consigliere laico del M5S Alberto Maria Benedetti: «Mi sono astenuto soprattutto perché la questione è complessa e merita di essere approfondita – dice interpellato dall’Ansa – e la complessità della questione non riguarda soltanto ragioni giuridiche ma anche ragioni diverse sul funzionamento del Csm, la messa in sicurezza dei suoi provvedimenti e della loro validità. C’è una valutazione complessiva che mi ha indotto in questa fase, quella della Commissione, a tenere un atteggiamento di astensione. Mentre in plenum naturalmente potrei anche decidere di votare in un senso o nell’altro». A propendere per la decadenza di Davigo dal Csm anche il parere reso dall’Avvocatura dello Stato su richiesta della Commissione Verifica Titoli, parere che era stato rimasto stranamente secretato per diversi giorni. È molto probabile che l’orientamento fin qui emerso venga ribaltato dal plenum di Palazzo dei Marescialli, previsto non più per oggi o domani bensì per lunedì 19 ottobre a partire dalle ore 15, proprio alla vigilia del settantesimo compleanno di Davigo. Altre due sedute di plenum sono state convocate nei due giorni successivi: il 20 alle 9,30 con eventuale prosecuzione pomeridiana e il 21 alle 10. Il giorno decisivo resta comunque il 19. La questione da sciogliere non è affatto semplice, anche dal punto di vista giuridico. L’articolo 24 della legge 195 del 1958 istitutiva del Csm stabilisce che per essere eletti consiglieri togati bisogna essere magistrati in servizio, ma il successivo articolo 37 non prevede il collocamento a riposo quale esplicita causa di decadenza di diritto dalla carica. È su questa base che Davigo sostiene di avere il diritto di restare, anche da pensionato, sino alla fine del suo quadriennale mandato. Il Consiglio di Stato tuttavia, in una sentenza del 2011, attenta ai valori e ai principi costituzionali, ha sancito che l’appartenenza alla magistratura è «condizione sempre essenziale e imprescindibile per l’esercizio della funzione di autogoverno» svolta dai consiglieri, non limitabile al solo accesso al Csm. E proprio a quella sentenza si rifà l’Avvocatura dello Stato nel parere che ha costituito la base della pronuncia della Commissione. Se l’elemento certo è dunque, finalmente, la data in cui si deciderà il destino di Davigo, ci si chiede il perché di questo slittamento. Una possibile ragione potrebbe essere che da domenica 18 a martedì 20 ottobre si terrà contemporaneamente la tre giorni per l’elezione del parlamentino dell’Associazione Nazionale Magistrati: sbaglieremmo a pensare che dunque il rinvio potrebbe essere dettato dal timore di qualcuno di perdere consenso elettorale in base alla decisione su Davigo? Non è irragionevole, anzi, ipotizzare che la scelta finale del plenum del Csm potrebbe spostare consenso da una parte o dall’altra all’interno dell’Anm, sempre che l’Anm rimanga integra, considerate le ipotesi di scissione che stanno circolando in questi giorni. Diciamolo chiaramente: c’è poca voglia di esporsi sulla questione Davigo, terreno troppo scivoloso per molti, come lo è stato il caso Palamara, archiviato per il momento alla velocità della luce. I tatticismi hanno prevalso sulla trasparenza, fatta eccezione per Magistratura Democratica che ha preso una posizione esplicita, chiara grazie all’intervento del Presidente Riccardo De Vito sulla rivista Questione Giustizia per cui «occorre essere ben avvertiti, infatti, del gravissimo pericolo che si corre nel gettare a mare la rappresentatività democratica del Consiglio superiore per sostenere la tesi della permanenza in carica di un consigliere non più appartenente all’ordine giudiziario», aggiungendo che «la decisione che il plenum dovrà assumere rappresenta un banco di prova per il governo autonomo». Posizioni pilatesche sono invece giunte da Area Democratica per la Giustizia che auspica «che il plenum del CSM possa adottare la deliberazione finale attraverso un dibattito pubblico e un voto palese affinché le ragioni del voto e delle relative posizioni siano il più possibile intellegibili e trasparenti»; e da Magistratura Indipendente che chiede «scelte tecniche e non politiche».

Il voto decisivo. Csm sputtanato da Magistratopoli, Davigo abusivo non potrà minarne oltre il prestigio compromesso. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. Dopo il processo farsa a Palamara – con condanna preconfezionata e dibattimento azzerato – cosa resta del prestigio del Csm che, tanti tanti anni fa, fu presieduto da un giurista del valore di Vittorio Bachelet, che ha avuto nel tempo grandi personalità tra i suoi componenti, e che ora è solo la terra di pascolo delle correnti, assetate di potere, di spartizioni, di accordicchi? Non resta niente, siamo sinceri. Anche i più incalliti difensori del potere giudiziario e dell’ordine costituito lo sanno benissimo: non resta niente di quel prestigio. Il Csm, che dovrebbe governare la magistratura, controllarla, ed essere garante della sua indipendenza, in realtà è ormai nelle mani del partito dei Pm, è stato privato di ogni potere di controllo e garantisce non l’autonomia ma esattamente il contrario: la non indipendenza dei magistrati. Tutta la retorica sulla necessità di difendere l’indipendenza dei magistrati è stata fatta a brandelli dal Palamara-gate. Si è accertato che esiste un pezzo piuttosto vasto di magistratura – e cioè quello più potente, quello che accede agli incarichi di maggior prestigio e potere – che è alle dipendenze dirette del sistema della correnti e cioè del partito dei Pm. È il partito dei Pm che decide a chi assegnare i vertici delle procure e dei tribunali, che stabilisce le promozioni, le carriere, le prebende. Chiunque sia all’interno di questo sistema deve per “statuto” rinunciare alla propria indipendenza e affidarsi alla “signoria”. Chi raduna e controlla e governa le signorie? L’Anm, cioè una associazione di magistrati non prevista dalla Costituzione, dichiaratamente correntizia e che per la sua stessa struttura impedisce qualsiasi forma di indipendenza del magistrato. Una volta che il magistrato entra in questo meccanismo non è più un professionista autonomo che risponde solo alla legge, è un magistrato di Unicost, o di Magistratura indipendente, o di Area, o è un davighiano, ed è tenuto a rispondere al suo capobastone. Non è elegante scrivere capobastone? Diciamo, più propriamente, al leader della sua corrente. Va bene? Le correnti corrispondono a diverse ideologie, o aree culturali? No, nessuno conosce le differenze “ideologiche”, che trent’anni fa erano piuttosto marcate. Le correnti rispondono solo a se stesse, e – talvolta- ai partiti politici di riferimento in Parlamento. E il Csm cosa ci sta a fare? Sta lì per cementare e per guardare le spalle a questo sistema. E per garantire l’insindacabilità dei magistrati. Il concetto di indipendenza è stato sostituito interamente dal concetto di insindacabilità. Come funziona? Così: il magistrato che aderisce a questo sistema rinuncia alla propria indipendenza e mette a disposizione della corrente anche l’orientamento di alcune sentenze: in cambio ottiene impunità assoluta e una discreta quantità di potere. Tutto questo funziona da molti anni. Con magistratopoli è saltato alla luce dell’evidenza. Magistratopoli è il frutto imprevisto di un errore commesso da alcuni magistrati. Nella lotta per la conquista della Procura di Roma, nella quale erano coinvolti i pezzi più potenti del potere giudiziario, si è proceduto senza esclusione di colpi. Sono entrate in conflitto due potenze, due corazzate, come quella di Palamara e quella di Pignatone, con la corazzata esterna (quella di Travaglio e Davigo) pronta a intervenire nello scontro. La violenza della battaglia ha impedito il solito controllo della situazione. Qualcuno ha giocato troppo spavaldamente e son saltate fuori le intercettazioni che potevano radere al suolo l’intero sistema della giustizia italiana. Questo non è successo per tre ragioni: la stampa si è schierata compatta a difesa dei suoi Pm (tranne noi e un paio di altri giornali). La magistratura si è chiusa a riccio per impedire il tracollo, la politica si è “cacata sotto”. Anche qui forse sto usando una terminologia non elegante. Mi correggo: la politica si è un po’ impaurita. L’intervento a favore dei magistrati sputtanati da parte del Procuratore generale della Cassazione ha chiuso la partita. Ora diciamo la verità: in una situazione come questa conta molto se il Csm decide di violare la legge e confermare il seggio a Davigo anche se lui il 20 ottobre va in pensione e ne perde indiscutibilmente il diritto? Sarà una toga non toga abusiva a minare il prestigio di un organismo ormai del tutto sputtanato? No davvero. Mercoledì il Csm deciderà, con un voto, se salvare Davigo o dannarlo, dichiararlo decaduto e fargli perdere due anni di compensi piuttosto ricchi. Davigo ha spiegato in tutti i modi che lui a quel seggio ci tiene maledettamente. Ma perché adesso bisogna prendersela proprio con questo povero magistrato? Lasciate che mantenga la sua poltroncina e i suoi emolumenti: non farà di sicuro male a nessuno…

Il Palamara-gate e la magistratura. Davigo senza pudore: “Prima era contro le proroghe, ora è incollato alla poltrona”. Parla Antonio Leone. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. «Nell’attuale consiliatura è successo di tutto: sei togati che si sono dimessi, stravolgimento del voto del 2018 con “ribaltone” in favore dei gruppi associativi che avevano perso le elezioni, procedimenti disciplinari a nastro – per cercare di salvare l’immagine, sempre più compromessa, della magistratura – nei confronti di Luca Palamara, ritenuto il solo ed unico responsabile di ogni malefatta». Antonio Leone, ex componente del Csm, commenta con il Riformista quanto sta accadendo a Palazzo dei Marescialli in questi ultimi mesi.

Presidente Leone, Palamara è stato espulso. Lo “scandalo nomine” è risolto?

A me pare che il Csm abbia voluto “normalizzare” quanto prima una situazione che stava creando grande imbarazzo. Ritengo che nessuno possa pensare, senza offendere la propria intelligenza, che un singolo consigliere abbia avuto un ruolo determinante nell’ambito dei processi deliberativi di un organo collegiale. Da tempo qualche magistrato ha assimilato i metodi del Csm a quelli mafiosi. Mi sembra, vista la similitudine, che anche le decisioni delle cosche mafiose vengano prese collegialmente dai capi».

“Normalizzazione” anche all’Anm?

«Certamente. È stata l’Anm a dettare la linea espellendo Palamara. Mi preme sottolineare che a favore dell’espulsione hanno votato 114 magistrati sui circa 9000 aventi diritto. Sarebbe un bell’esercizio individuare l’appartenenza dei singoli votanti alle singole correnti: non ci sarebbe nessuna sorpresa».

Torniamo al Csm. Questa settimana si decide il destino di Davigo.

«Sulla sua permanenza al Csm anche da pensionato si è arrivati a richiedere un parere all’Avvocatura dello Stato, pur essendoci a Palazzo dei Marescialli un Ufficio studi composto da valenti magistrati che ha sempre provveduto a fornire al Consiglio i pareri sulle più disparate questioni. Un parere, quello dell’Avvocatura, secretato in base a una non meglio specificata norma regolamentare e che invece abbiamo letto la scorsa settimana sui giornali. Attraverso questa evidente abdicazione si continua nella delegittimazione di un organo di autogoverno di matrice paracostituzionale. E poi ci si scandalizza se si parla della burocratizzazione del Csm con conseguente trasferimento di funzioni e competenze al Ministero della giustizia. Come lei ben sa, chi chiede i pareri all’Avvocatura sono i Ministeri».

Il dibattito su Davigo va avanti da mesi.

«Davigo si sta attaccando a insostenibili cavilli per non lasciare il Csm. Ricordo che nel 2017, da presidente dell’Anm, attaccò violentemente il governo, disertando l’inaugurazione dell’Anno giudiziario in Cassazione, per la proroga dei vertici di Piazza Cavour. Davigo descrisse tale proroga come una “ferita profonda per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”. E adesso, invece? Quando in Parlamento ultimamente è stata proposta la proroga dell’età pensionabile dei magistrati non ha fiatato. Quando è svanita la proroga è venuto definitivamente allo scoperto. Nessuna ferita profonda? Neppure un’abrasione superficiale?»

Crescendo si cambia idea…

«Davigo pare aver avuto in questi anni una metamorfosi: dopo aver sempre attaccato in maniera cruenta il mondo della politica, adesso è diventato un politico incallito a tutto tondo che si fa forza del personale consenso elettorale per respingere le decisioni non gradite. Supporter, anzi, ispiratore della posizione giustizialista del M5S, sta dimostrando un attaccamento senza pari alla poltrona. E come fanno i politici navigati è riuscito a ribaltare la sonora sconfitta della sua corrente alle elezioni in un successo strepitoso: A&I, beneficiando del primo ribaltone della storia del Csm, è passata da due a cinque consiglieri, considerando l’indipendente Nino Di Matteo. In barba alla volontà degli elettori».

Adesso chiede di essere nominato in Cassazione presidente aggiunto.

«Per non farsi mancare nulla ha chiesto di essere nominato “a posteriori” in un incarico per il quale aveva concorso senza successo due anni fa. E chi dovrebbe nominarlo ora? Il Csm di cui adesso fa parte. Alla faccia dei conflitti d’interesse! Se un politico avesse fatto una cosa simile sarebbe successo il finimondo. E Davigo in qualche talk show ne avrebbe chiesto, oltre le dimissioni, anche la gogna in piazza».

Alcuni giornali ed alcuni commentatori stanno spingendo molto affinché Davigo rimanga.

«In effetti su pochi quotidiani viene supportata la tesi della permanenza di Davigo al Csm. Le sembra, però, normale che qualche giorno addietro uno di questi commentatori favorevole alle aspirazioni davighiane supporti la permanenza di Davigo al Csm, e quindi alla sezione disciplinare, in costanza di una pendenza davanti la sezione disciplinare stessa del di lui figlio condannato in primo, secondo e terzo grado? Dove è finita la tesi davighiana sulla presunta colpevolezza dei politici che se assolti lo sono non perché innocenti ma perché non si è raggiunta la prova? Perché un magistrato condannato penalmente in primo, secondo e terzo grado rimane ancora a fare il magistrato? La credibilità ormai si erode giorno dopo giorno».

Si riferisce ai magistrati con condanne penali?

«Sì. Ci sono magistrati che pur condannati penalmente (non disciplinarmente) hanno continuato e continuano a esercitare le funzioni requirenti o giudicanti. Potrei farne di esempi anche in relazione ai tempi di conclusione dei procedimenti disciplinari sospesi per le pendenze di natura penale».

L’espulsione di Palamara non ha cambiato molto, mi pare di capire.

«No! È cambiato proprio tutto al Csm: tutte le nomine sono state fatte all’unanimità privilegiando il merito e non ci sono più stati ricorsi al giudice amministrativo (sorride)».

«Noi penalisti i primi ad aprire il caso Davigo: ancora si discute?». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 14 Ottobre 2020. Intervista a Giorgio Varano, responsabile Comunicazione dell’Unione Camere penali. «Francesco Cossiga mandò i carabinieri al Csm. Sergio Mattarella chi manderà? Gli ispettori dell’Inps?». L’avvocato Giorgio Varano, responsabile Comunicazione dell’Unione Camere penali, esordisce con una battuta sul “caso Davigo”. L’ex pm di Mani pulite, consigliere del Csm dal settembre 2018 e leader della corrente “Autonomia e indipendenza”, il prossimo 20 ottobre compirà 70 anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati. Dal giorno successivo, per legge, deve essere collocato a riposo. Alcuni commentatori, però, hanno affermato che Davigo possa rimanere al Csm anche da pensionato.

Avvocato Varano, l’Unione Camere penali aveva affrontato il caso mesi fa: eravate stati i primi?

«Sì. Prima che il “caso Davigo” esplodesse sui giornali, lo scorso aprile su “Diritto di difesa”, la rivista delle Camere penali, con il collega Rinaldo Romanelli si è discusso del tema del consigliere togato che andava in pensione durante la consiliatura del Csm».

Con quali conclusioni?

«Molto semplici. L’esercizio delle funzioni giudiziarie è da considerarsi requisito indispensabile per la permanenza nella carica del componente togato del Csm».

I fautori della permanenza di Davigo sostengono, invece, che il mandato di consigliere debba comunque durare quattro anni.

«Ma non significa nulla. Ricordo che esiste una sentenza molta chiara, sul punto, del Consiglio di Stato».

La legge, aggiungono sempre i “pro- permanenza”, non è mai intervenuta a chiarire la questione.

«Le legge non è intervenuta per il semplice fatto che è fin troppo evidente che un magistrato pensionato non possa rimanere al Csm.

E poi c’è la questione del “disciplinare”…

«Il magistrato pensionato sarebbe immune».

Faccio io un esempio: se i cinque consiglieri del Csm, poi dimessisi, che a maggio del 2019 incontrarono Luca Palamara e Cosimo Ferri all’hotel Champagne fossero poco dopo andati in pensione, cosa sarebbe successo?

«Probabilmente nulla».

Perché dimettersi? Per timore di un procedimento disciplinare che non poteva essere aperto?

«Infatti».

Ma perché, allora, tutte queste discussioni?

«Il “caso Davigo” è indicativo della concezione che ha il Csm della propria funzione, ed è estremamente più grave del caso Palamara».

Addirittura?

«È tutto molto chiaro e non bisogna girarci tanto intorno. Il “caso Davigo” nasce perché se va via c’è un cambiamento dei rapporti di forza al Csm. Adesso c’è una maggioranza che si regge sull’alleanza fra la corrente di Davigo e il cartello progressista Area. Se esce Davigo entra Carmelo Celentano, un magistrato di Unicost. E se dovesse entrare anche Pasquale Grasso, toga di Magistratura indipendente, al posto del dimissionario Marco Mancinetti, gli equilibri cambierebbero».

Insomma, quando si parla di magistrati al Csm ci sono sempre di mezzo le correnti.

«Cos’è il Csm? Devono dircelo loro. È un luogo dove le correnti hanno una propria rappresentanza, e che non si può toccare, o è l’organo di governo autonomo della magistratura, le cui decisioni incidono sul funzionamento del sistema giustizia?Ripeto, mi pare incredibile che si perdano giornate intere, la prossima settimana sono in programma tre plenum, per decidere se un magistrato pensionato possa rimanere al Csm. Con tutto quello che sta accadendo in Italia e nella magistratura».

Sulla permanenza di Davigo è stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato.

«Su questa vicenda vorrei fare un riflessione».

Prego.

«Il Csm dicono sia una “casa di vetro”, dove tutto è trasparente. A maggior ragione dopo i fatti dell’hotel Champagne. Qui di trasparente c’è ben poco».

Si riferisce al segreto imposto sul parere?

«Mi scusi, ma il parere dell’Avvocatura è il Segreto di Fatima? Se non è il Segreto di Fatima avrebbe dovuto essere immediatamente pubblicato sul sito del Csm. È un tema d’interesse pubblico, come tutto ciò che incide sull’amministrazione della giustizia».

A proposito di amministrazione della giustizia: sul blocca- prescrizione, governo e Parlamento non sembrano disposti a fare marcia indietro.

«Guardi, su questo argomento penso sia necessario tornare a quando venne approvata la norma sulla prescrizione entrata in vigore a gennaio: si precisò che un’immediatamente successiva Riforma della giustizia avrebbe velocizzato i tempi dei processi. Stiamo aspettando questa Riforma acceleratoria da un anno e mezzo».

Qual è la situazione nei tribunali?

«Il carico dei processi non solo non si è risolto ma è stato enormemente aggravato dal Covid. In questi mesi di lockdown ci sono stati decine di migliaia di processi rinviati. Processi che dovranno essere affrontati e che sono andati ad incidere su ruoli già ingolfati».

E come se ne esce?

«Serve una riflessione organica. Ora tutto è affidato alle singole Procure. Sono i procuratori a decidere quali processi portare avanti e quali no».

Si riferisce ai criteri di “priorità”?

«Esatto: una scelta di necessità, visto il carico, ma anche una scelta politica».

Che dovrebbe fare il governo?

«Deve decidere chi viene eletto, non un pubblico funzionario nominato dal Csm e poi magari, dopo un anno, rimosso dal Tar. Col rischio che chi arriva al suo posto cambi tutto».

Liana Milella per repubblica.it il 15 ottobre 2020. Davigo in bilico al Csm? Da ieri questo file ha assunto consistenza. Dopo giorni in cui il voto a suo favore, e per la sua permanenza in Consiglio nonostante il suo ingresso in pensione dal 20 ottobre, sembrava del tutto maggioritario. Invece ecco materializzarsi, nel giro di 12 ore, insistenti e avverse voci di corridoio: sostengono che contro di Davigo starebbero per schierarsi i vertici della Cassazione, che di diritto fanno parte del Csm. Parliamo del primo presidente Pietro Curzio, fresco di nomina, e del procuratore generale Giovanni Salvi. Per una coincidenza, entrambi con un solido passato dentro Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe. Che sulla sua rivista Questione giustizia ha visto, appena lunedì, una dura presa di posizione contro Davigo del presidente stesso di Md, il giudice di sorveglianza Riccardo De Vito (la toga del caso Zagaria), che  parla della sua permanenza in Consiglio come di “un gravissimo pericolo”. La coincidenza è malandrina: detto fatto diventa sempre più forte il tam tam sul fatto che Curzio e Salvi vedano dei rischi per la vita del Csm qualora Davigo dovesse restare in consiglio. Non solo: trapelano anche con insistenza le voci di un vice presidente del Csm David Ermini, di professione avvocato, in allarme per un Davigo confermato consigliere togato e componente della sezione disciplinare, con il rischio - secondo i giudizi attribuiti ad Ermini - che le decisioni disciplinari possano essere impugnate per il voto di un componente nella veste ormai di ex magistrato. Ma chi descrive questo scenario e i suoi protagonisti sostiene anche che preoccupazioni e titubanze sul caso Davigo espresse dal comitato di presidenza - Ermini, Curzio e Salvi - potrebbero giungere direttamente dal Qurinale, visto che Sergio Mattarella è anche il presidente del Csm. Un’indiscrezione, quest’ultima, che però non trova assolutamente alcuna conferma sul Colle.

Bocciatura anche per il titolo di presidente aggiunto. Ma non basta. Perché Davigo subisce anche un’altra sconfitta. Il plenum - tutti a favore, astenuti Stefano Cavanna (laico indicato dalla Lega), Fulvio Gigliotti (laico M5S), Giuseppe Marra e Ilaria Pepe della stessa corrente dell’ex pm e presidente dell’Anm nel 2016-2017 - boccia la sua richiesta di acquisire il titolo di presidente aggiunto della Cassazione, che gli era stato negato preferendogli Mimmo Carcano, ma che invece il Consiglio di Stato gli ha riconosciuto. Oggi quel posto, sostengono i colleghi, è ormai attribuito a Margherita Cassano. Quindi Davigo non ottiene il risarcimento da perdita di chance, né tantomeno l'attribuzione del titolo ai fini retributivi. Tuttavia lo stesso plenum ha riconosciuto che, in quella competizione, Davigo aveva più titoli del collega Carcano. Ma tant’è, ormai Davigo, per eventuali indennizzi, potrebbe doversi rivolgere al ministero della Giustizia.

Sulla permanenza si voterà il 19 ottobre. È un fatto che, da ieri, il caso Davigo ha cambiato corso. Si complica. Supera la vicenda singola e impatta sull’intera istituzione già fortemente provata dal caso Palamara. Innanzitutto si allungano i tempi. La giornata decisiva con il voto in plenum avrebbe dovuto essere quella di oggi. Invece se ne parlerà addirittura lunedì prossimo, il 19 ottobre, giusto il giorno prima del compleanno di Davigo.

Di più: non solo il consenso di togati e laici - 25 anziché 26 perché c’è un impasse pure sulla sostituzione del dimissionario Marco Mancinetti (Unicost), coinvolto anche lui nella vicenda Palamara - è convocato per le 15 di lunedì, ma è prevista una convocazione anche per martedì. Quindi si prevede una discussione lunga. Che potrebbe anche concludersi con un voto segreto. Che certo non gioverebbe a Davigo, da sempre considerato un “cattivo”, un “giudice populista”, un “grillino”. Di recente il suo asse con la sinistra di Area gli ha visto vincere al Csm molte battaglie, ma le sue numerose performance in tv hanno suscitato scontate gelosie. In una parola, il giudice anti-correnti - famosa la sua battuta “uno a me, uno a te, uno a lui” che ha anticipato il caso Palamara - verrebbe battuto proprio dalle correnti.

I possibili schieramenti. Come stanno messi i voti? Area è con lui, 5 voti perché resti al Csm. Tre dei suoi ovviamente votano per lui, compreso Sebastiano Ardita. Lui, Davigo, non voterà per se stesso. No news su che farà Nino Di Matteo. I soliti maligni dicono che se il voto è palese starà con Davigo, nel segreto dell’urna non si sa. Ma questo che riportano è un brutto pettegolezzo. Ancora per Davigo due dei tre laici indicati da M5S - Fulvio Gigliotti e Alberto Maria Benedetti - mentre Filippo Donati avrebbe delle perplessità. Siamo a dieci voti a favore. Il fronte contrario è composto da Magistratura indipendente con tre voti, da Unicost con due, dai due laici di Forza Italia Cerabona e Lanzi. Non pervenuta la posizione dei due leghisti Basile e Cavanna. Potrebbero astenersi. Però non è detto. Ma a questo punto è evidente che la posizione dei due vertici della Cassazione può fare la differenza. E non è affatto detto che Ermini voti. Il gioco delle astensioni potrebbe giocare a favore di Davigo, ma c’è già chi sostiene che se Curzio e Salvi dovessero parlare contro Davigo questa verrebbe comunque interpretata come un’indiretta presa di posizione del Colle. Una sorta di indicazione di voto cui attenersi. Ma che, al momento, resta solo un’ipotesi. Chiaramente anti Davigo. Per il quale, in verità, la giornata di ieri non è stata affatto favorevole. A partire dal voto nella Commissione per la verifica dei titoli, composta solo da tre componenti, le due consigliere di Magistratura indipendente Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, e il laico Alberto Maria Benedetti. Le prime due hanno votato contro la permanenza di Davigo, Benedetti si è astenuto. Esattamente lo stesso esito del voto quando la Commissione - Miccichè e Braggion contro Benedetti - ha deciso di chiedere un parere all’Avvocatura dello Stato. Che ne ha prodotto uno di tre pagine, controfirmato dall’avvocato generale Gabriella Palmieri Sandulli, cioè dal capo della stessa Avvocatura, che boccia la permanenza di Davigo partendo da una sentenza del Consiglio di Stato del 2011 che, in un passaggio, dà per “scontato” il fatto che un magistrato in pensione non possa restare al Csm.

Lo scontro sulle conseguenza della pensione. In realtà, come dimostra il dibattito in corso da fine luglio, dopo un articolo su Questione Giustizia del suo direttore Nello Rossi che è contro la permanenza di Davigo, la questione non è affatto così scontata. Certo è semmai che, secondo alcune interpretazioni di componenti del Csm, dopo questo parere, l’Avvocatura non potrebbe più difendere il Csm in un’eventuale controversia avendo anticipato il suo giudizio. Ma in realtà, proprio in quanto Avvocato dello Stato, e per la natura del quesito che gli è stato posto - la situazione legislativa sul pensionamento di un componente del Csm - non è affatto detto che la stessa Avvocatura possa scendere di nuovo in campo qualora il perdente - Davigo o chi dovrebbe subentrargli, e cioè Carmelo Celentano di Unicost - dovesse fare ricorso. Sul fronte anti Davigo, dopo Rossi, si sono espressi Giovanni Maria Flick, Armando Spataro, Riccardo De Vito, mentre pro Davigo, con motivazioni del tutto opposte, ecco la costituzionalista Maria Agostina Cabiddu. Repubblica, in più articoli, ha dato minuziosamente conto di una questione sulla quale non esiste un preciso articolo di legge, ma solo, come puntello contro Davigo, un casuale passaggio in una sentenza del Consiglio di Stato. Un fatto è certo, al momento della candidatura di Davigo e della verifica dei suoi titoli nessuno ha eccepito che avrebbe compiuto gli anni e quindi sarebbe entrato in pensione a metà del suo mandato. Per la semplice ragione che questa non è prevista come una causa di decadenza, come un’azione disciplinare o la commissione di un reato.

La coincidenza con le elezioni per l’Anm. Ma non è su questo che si voterà. Sui tecnicismi. Con una Costituzione dov’è scritto che la durata del Csm, e quindi dei suoi consiglieri, è di 4 anni. Per giunta si voterà nel bel mezzo delle votazioni - da domenica 18 a martedì 20 -  per il rinnovo dell’Anm, il sindacato dei giudici. E forse questa coincidenza al Csm avrebbero potuto evitarla. Tant’è che la voce delle correnti sul caso Davigo si fa sempre più forte. Md dichiaratamente contro, con una polemica all’interno di Area, il cartello elettorale che vede assieme Md e il Movimento per la giustizia, il gruppo di Spataro. Mi contro Davigo, visto che proprio lui nel 2016 ha spaccato la corrente in polemica con la leadership di Cosimo Maria Ferri, divenuto sottosegretario alla Giustizia, rimasto potente factotum tant’è che da via Arenula inviava sms con le indicazioni di voto proprio per i togati del Csm. È un fatto che due esponenti di Mi, Micciché e Braggion, abbiano fatto parte della Commissione per la verifica dei titoli. Come è un fatto che al Csm Mi si stia battendo per far entrare Pasquale Grasso, ex presidente dell’Anm che ha dovuto dimettersi per le polemiche sul caso Palamara, primo dei non eletti certo, ma alle suppletive del 2019, e non nelle elezioni principali del 2018. Ugualmente anche Unicost ha un suo interesse contro Davigo: decimata dal caso Palamara (tre consiglieri dimissionari, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Marco Mancinetti), e ridotta da cinque a due consiglieri, vedrebbe entrare al posto di Davigo uno dei suoi, Carmelo Celentano. Che certo presenterebbe un ricorso se Davigo invece ottenesse i voti per restare. Sono i ricorsi che teme Ermini. Ricorsi che vengono paventati anche su qualsiasi atto futuro del Csm, ma che potrebbero essere possibili solo nel caso in cui il voto di Davigo dovesse essere determinante. Quanto alla disciplinare Davigo ha già dato la sua piena disponibilità a lasciarla.

Ricorso di Davigo su presidenza di Cassazione bocciato, il Csm: “Non si può, troppo tardi”. Redazione su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Rimandata a lunedì prossimo la decisione del plenum del Csm sul collocamento a riposo di Piercamillo Davigo. E’ stato rinviato, come già accaduto la settimana scorsa, il voto sulla pratica riguardante il pensionamento del magistrato che il prossimo 20 ottobre compirà 70 anni. Lunedì all’ordine del giorno ci sarà anche la delibera votata a maggioranza dalla Commissione verifica titoli, secondo la quale il togato deve lasciare, in conseguenza del suo pensionamento, anche l’incarico a Palazzo dei Marescialli. Nonostante sembrasse cosa fatta il voto in favore di una sua permanenza in Consiglio a dispetto del fatto che dal 20 ottobre non sarà più un magistrato attivo, insistentemente sta circolando la voce che contro questa inusuale scelta siano pronti ad esprimersi i vertici della Cassazione che del Csm fanno parte. È stato peraltro deciso che Davigo aveva sì un maggior numero di requisiti del suo rivale Domenico Carcano per la nomina a vice presidente aggiunto della Cassazione, ma essendo quel ruolo ormai legittimamente occupato (da luglio) da Margherita Cassano, ed essendo la data del pensionamento di Davigo vicinissima, manca il tempo per realizzare il suo desiderio. L’aspirazione è riconosciuta legittima e fondata, ma null’altro. Premio di consolazione: verrà inserita nel suo dossier la sentenza del Consiglio di Stato che lo ha dichiarato “vincitore del contenzioso per la nomina di presidente aggiunto” della Suprema Corte. La delibera di Palazzo dei Marescialli è stata presa a maggioranza, con quattro astensioni. Si sono astenuti Stefano Cavanna (laico considerato in quota Lega), Fulvio Gigliotti (laico considerato in quota Cinque stelle), Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, magistrati della stessa corrente dell’ex pm milanese. Non gli sarà attribuito il titolo di presidente aggiunto della Cassazione, né gli sono stati riconosciuti al momento incrementi retributivi o emolumenti sotto forma di risarcimento. Nella delibera approvata, il Csm osserva che “la sentenza da eseguire ha annullato la delibera del Csm per l’insufficienza della motivazione delle ragioni della prevalenza del dottor Carcano sul dottor Davigo” e che “alla stregua degli elementi in essa presi in considerazione, non si ravvisano ragionevoli spazi per una nuova valutazione di prevalenza del dottor Carcano, non essendo superabile il rilievo relativo all’assenza nel suo profilo dell’indicatore della partecipazione alle Sezioni Unite, presente invece in quello del dottor Davigo”. L’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, è stato stabilito “non può avere quale oggetto l’attribuzione al dottor Davigo della qualifica e delle funzioni di presidente aggiunto della Corte di Cassazione ora per allora essendo stato il posto coperto all’esito di un legittimo concorso”. Si nota poi che anche il dottor Davigo è ormai prossimo alla pensione, così come lo era il dottor Carcano al momento della pronuncia del Consiglio di Stato. Per queste ragioni, in esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, si legge ancora nella delibera, “deve essere prestata acquiescenza al giudicato amministrativo tout court e deve conseguentemente essere dichiarato il non luogo a provvedere rispetto all’istanza del dottor Davigo di conferimento dell’incarico di presidente aggiunto della Corte di Cassazione con ogni effetto di legge o, in subordine, di riconoscimento del titolo di presidente aggiunto della Corte di Cassazione. Nessuna decisione – conclude il Csm – deve infine essere adottata in relazione all’attribuzione dei relativi incrementi retributivi, nonché degli ulteriori emolumenti accessori, anche sotto forma di risarcimento dei danno per perdita di chance, a far data dal 21/2/18, non essendo oggetto del presente procedimento di esecuzione della sentenza”.

Ora tra Davigo e il Csm è guerra permanente. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 dicembre 2020. L’ex togato non demorde: ricorso al Consiglio di Stato contro la decadenza sancita dal plenum dopo quello dichiarato inammissibile dal Tar del Lazio. Piercamillo Davigo non demorde e reclama il proprio posto al Csm. Dopo che il Tar del Lazio, lo scorso 11 novembre, ha declinato la propria competenza in favore del giudice ordinario, e ha conseguentemente dichiarato inammissibile il suo ricorso, l’ex pm di Mani pulite ha deciso di rivolgersi al Consiglio di Stato. Già oggi dovrebbe rispondergli il plenum del Csm, chiamato a deliberare la costituzione in giudizio contro l’ex consigliere. La storia è nota. Davigo a ottobre aveva compiuto settant’anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati, ed era stato dichiarato decaduto dalla carica di consigliere del Csm. Un provvedimento erroneo per il magistrato fondatore di Autonomia & indipendenza in quanto il mandato di consigliere, avendo durata quadriennale, sarebbe sganciato dall’età anagrafica. L’appello è del 26 novembre. Dal plenum di oggi dovrebbe arrivare il mandato all’Avvocatura dello Stato per resistere contro Davigo. La tesi dell’ex togato punta inizialmente a dimostrare l’erroneità della motivazione con la quale i giudici del Tar hanno declinato la loro giurisdizione. Poi, chiedendo il cautelare, evidenzia «la non risarcibilità, per equivalente, del pregiudizio derivante dall’illegittima cessazione dell’incarico» e la circostanza che è stata convalidata l’elezione del consigliere subentrante Carmelo Celentano. Davigo osserva inoltre che, stante la durata quadriennale dell’incarico, decorrente dal 2018, la decisione sul merito, visti i tempi della giustizia, giungerebbe «verosimilmente in prossimità o addirittura dopo la conclusione della consiliatura, troppo tardi perché egli possa essere reintegrato nelle sue funzioni», con la conseguenza di non poter «mai ottenere il bene della vita illegittimamente sottrattogli con la deliberazione impugnata». Come ribadito dall’Avvocatura dello Stato, l’eventuale presenza nell’organo consiliare di componenti estranei all’ordine giudiziario e non eletti dal Parlamento vulnera l’equilibrio voluto dal Costituente, comportando un’alterazione della proporzione tra componente togata e laica. E tale effetto verrebbe sicuramente a determinarsi qualora fosse consentito al consigliere posto in pensione nel corso della consiliatura ( o dimessosi) di proseguire il mandato. Il pensionamento ( come le dimissioni) determina, secondo la tesi opposta dal Csm a Davigo, la cessazione dall’appartenenza all’ordine giudiziario, con la conseguenza che il consigliere perde la qualità di membro togato e, non potendo essere incluso nella categoria dei componenti laici, in quanto non eletto dal Parlamento, verrebbe a configurare un “tertium genus” non esistente nel sistema e, quindi, inammissibile. Questo aspetto fu oggetto di discussione durante l’Assemblea costituente. L’ipotesi di consentire ai magistrati collocati a riposo una partecipazione all’attività consiliare fu, infatti, espressamente esaminata con varie tesi. Nel dibattito sulla composizione del Csm venne avanzata la proposta di prevedere che il presidente dell’organo fosse coadiuvato da due vicepresidenti, nelle persone del procuratore generale della Cassazione e di un magistrato collocato a riposo col titolo onorifico di primo presidente di Cassazione eletto dai magistrati o di includere i magistrati in pensione tra i componenti laici. Tale proposta fu però abbandonata, e nel prosieguo del dibattito si arrivò all’adozione del testo attuale. Portando alle estreme conseguenze la tesi di Davigo del diritto a conservare la carica dopo la fuoriuscita dall’ordine giudiziario, si dovrebbe ammettere che, qualora dopo le elezioni per il Csm, tutti i togati si dimettessero o fossero collocati a riposo ( si pensi a un’adesione in massa a “quota 100”), il Consiglio possa continuare a svolgere le proprie attività avendo come unici componenti togati il primo presidente e il procuratore generale. Se, invece, il Consiglio di Stato dovesse sposare la tesi di Davigo, la prima conseguenza si avrebbe sulla Sezione disciplinare, invalidando le attività svolte in queste settimane da Celentano che, come detto, ha sostituito il magistrato milanese.

Tenuto fuori dal Csm il giudice che voterebbe contro Davigo. Il Dubbio il 16 ottobre 2020. La conta dei voti per la permanenza di Davigo è sul filo. Determinante sarà l voto dei capi di Corte, il primo presidente Curzio e il pg Salvi. Non è stato sufficiente un mese al Csm per decidere se Pasquale Grasso, giudice del Tribunale di Genova ed ex presidente dell’Anm, debba subentrare o meno al posto del collega romano Marco Mancinetti, dimessosi da Palazzo dei Marescialli all’inizio dello scorso settembre. Mancinetti, esponente di Unicost, la corrente di centro delle toghe, era finito nelle ormai famose chat di Luca Palamara. La lettura di tali messaggi, contenenti pesanti giudizi su alcuni magistrati della Capitale, aveva determinato l’immediata apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti da parte del pg della Cassazione Giovanni Salvi. Grasso era il stato il primo dei non eletti alle elezioni suppletive per la categoria dei giudicanti tenutesi a dicembre del 2019. Ma una interpretazione “bizantina” renderebbe incerta la sua nomina a consigliere superiore. Secondo una lettura formalistica delle norme, Grasso, non avendo partecipato alle iniziali elezioni per il rinnovo del Csm, quelle del 2018, non sarebbe legittimato a subentrare a Mancinetti. Sul punto va, però, ricordato che la legge istitutiva del Csm prevede la sostituzione dei consiglieri dimissionari entro trenta giorni. Termine solo ordinatorio e di incerta interpretazione. Il countdown, in questo caso, quando inizierebbe? Dalle dimissioni di Mancinetti o dal diniego della Commissione verifica titoli, deputata ad accertare il possesso dei requisiti da parte dei futuri componenti del Csm? La “sostituzione” di Mancinetti è un tema sparito dai radar dell’informazione ma di vitale importanza per il funzionamento del Csm. La prossima settimana, infatti, si deve decidere se Piercamillo Davigo, una volta andato in pensione per raggiunti limiti di età ( il 20 ottobre l’ex pm di Mani pulite compirà settant’anni), possa rimanere lo stesso al Csm. Magistratura indipendente, la corrente di Grasso, ha già fatto sapere che Davigo deve andare via. Dello stesso avviso l’Avvocatura dello Stato, con un parere firmato direttamente dall’Avvocato generale Gabriella Palmieri Sandulli e subito secretato dal vicepresidente David Ermini. La conta dei voti per la permanenza di Davigo è sul filo. Determinante sarà, in assenza di Grasso, il voto dei capi di Corte, il primo presidente Curzio e il pg Salvi, e dello stesso Ermini. A favore della permanenza di Davigo è schierato il gruppo di Area. La corrente progressista delle toghe, per evitare “sorprese”, ha chiesto che il voto avvenga in modo palese e non, come previsto per i casi di decadenza, a scrutinio segreto. Non sono infatti da escludere colpi di scena nel segreto dell’urna dell’Aula Bachelet da parte di appartenenti alla corrente di Autonomia e indipendenza, fondata dallo stesso ex pm del Pool ma non più in assoluta sintonia con il leader.

Fa comunque riflettere, come ricordato dall’Unione Camere penali e da molti giuristi, che l’attività del Csm, in un momento estremamente delicato, con la ripresa dei contagi e la necessità di aggiornare le linee guida per garantire lo svolgimento dell’attività giudiziaria nei Tribunali, sia assorbita ormai da giorni nel dilemma relativo alla permanenza in Consiglio di un magistrato in quiescenza.

La discussione sulla permanenza di Davigo era prevista per il plenum dell’altro ieri, poi il rinvio a lunedì prossimo. È stato modificato il calendario dei lavori: a piazza Indipendenza non erano in programma attività la prossima settimana. Il motivo degli “straordinari”? I maligni fanno notare che questo fine settimana sono in calendario le elezioni per il rinnovo dell’Anm, e la corrente di Davigo arriva da una recente tornata elettorale, quella per i Consigli giudiziari, non proprio esaltante. Espulso Palamara, le correnti della magistratura, sembra insomma di capire, hanno ripreso il pieno controllo delle attività consiliari.

Straziante appello dei davighiani: “Toglieteci tutto ma non Piercamillo!” Paolo Comi su Il Riformista il 18 Ottobre 2020. Toglieteci tutto ma non Piercamillo Davigo! Mutuando la celebre pubblicità di una marca di orologi, i davighiani, alla vigilia del voto di lunedì che dovrà decidere sulla permanenza o meno del loro capo al Csm anche da pensionato, hanno lanciato in queste ore l’ultimo appello a tutti i consiglieri di Palazzo dei Marescialli. La presenza di Davigo al Csm è «una fortuna per la magistratura e per la collettività», si legge nel comunicato del coordinamento di Autonomia&indipendenza, la corrente fondata nel 2016 dall’ex pm di Mani pulite. «Il percorso professionale di Davigo è ben noto, e si identifica con comportamenti irreprensibili e con il fermo contrasto ad ogni forma di illegalità e di scostamento dalle regole sia quando ha svolto funzioni giurisdizionali sia nel passato più recente quale componente del Csm», sottolineano i davighiani, terrorizzati di rimanere orfani dalla prossima settimana del loro insostituibile mentore. Martedì prossimo, infatti, Davigo compirà settant’anni e, per la legge, dovrà essere collocato a riposo. I recenti tentativi di allungare di due anni l’età massima per il trattenimento in servizio, svelati dal Riformista, sono tutti miseramente falliti. La prospettiva di Davigo fuori dal Csm pare angosciare terribilmente i davighiani i quali hanno rispolverato ancora una volta il mantra della durata quadriennale del mandato per i componenti del Csm. Un escamotage per giustificare la permanenza, anche da pensionato, di Davigo a piazza Indipendenza. Questa narrazione, come ricordato anche dall’Avvocatura dello Stato, non sta assolutamente in piedi. Via dei Portoghesi, su richiesta della Commissione verifica titoli del Csm, ha inviato nei giorni scorsi un parere a proposito della possibile permanenza di Davigo una volta in pensione. Il parere, firmato direttamente dall’Avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli, aveva stroncato le residue speranze dei davighiani. Il parere «doveva rimanere riservato, come atto interno non ostensibile, e invece il suo contenuto è finito sulla stampa». Un “modo di procedere” di cui A&i ha evidenziato la “singolarità”. Singolare, a detta di tutti, è che un parere pubblico sia stato secretato dal vice presidente del Csm e non reso immediatamente conoscibile. I davighiani, poi, hanno colto l’occasione per ricordare l’ingiustizia patita dal loro capo due anni fa. «Pochi mesi addietro il Consiglio di Stato ha annullato una delibera del Csm che, nel 2018, aveva negato a Davigo la nomina a primo presidente aggiunto della Cassazione. Quella delibera illegittima era stata votata da 18 componenti contro un unico voto a favore di Davigo ed aveva completamente ignorato i suoi maggiori titoli», puntualizzano i davighiani, prima di terminare il loro grido di dolore con l’appello al Csm affinchè consenta ad «un magistrato che ha dato lustro alla giustizia di completare il compito per il quale migliaia di altri magistrati lo hanno eletto, garantendo l’autonomia e indipendenza del potere giudiziario». Giustificazione, quella del consenso popolare, molto berlusconiana. Il Cav degli anni ruggenti del berlusconismo non perdeva occasione per ricordare i milioni di italiani che lo avevano votato, motivo per cui non poteva essere messo in discussione da alcuno. Lunedì pomeriggio, dunque, il voto in Plenum. A favore di Davigo si è già schierato il gruppo di Area, alleato di ferro dei davighiani al Csm. Una inversione ad “U” dal momento che a maggio del 2018 Giuseppe Cascini, capo delegazione delle toghe di sinistra, protestava con Palamara per l’eccessiva presenza in televisione di Davigo. Cascini, per arginare l’assedio mediatico di Davigo aveva anche chiesto all’allora zar delle nomine al Csm di intervenire con “Enrico Mentana”. Area, per evitare colpi di mano, chiederà il voto palese, ribaltando la norma che prevede il voto segreto in caso di decadenza di un componente del Csm. Al voto la compagine togata parteciperà con un componente in meno. Il posto del giudice Marco Mancinetti, dimessosi oltre un mese fa, è ancora vacante. Il Csm sta “frenando” il subentro di Pasquale Grasso, primo dei non eletti ed esponente della destra giudiziaria, contraria alla permanenza di Davigo. Lungo week end elettorale, infine, per le toghe. Da domenica a martedì si voterà per il rinnovo dell’Anm. Sono le prime elezioni dopo il Palamaragate.

Il Csm decide su Davigo, un paradosso giuridico minaccia l’ex pm del Pool. Errico Novi su Il Dubbio il 18 ottobre 2020. Si annuncia drammatica la discussione sulla permanenza del consigliere, che martedì compie 70 anni e si congeda dal servizio in magistratura: nel parere sollecitato da Palazzo dei Marescialli, l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto che la decadenza di Davigo è inevitabile. Ma se il plenum votasse per la permanenza, la stessa Avvocatura sarebbe costretta a contraddirsi per difendere l’organo di autogoverno nell’eventuale ricorso del primo dei non eletti…Il paradosso è ormai noto e complica la partita di Piercamillo Davigo, che chiede al plenum del Csm di lasciarlo in carica: il paradosso è che la stesa Avvocatura dello Stato, autrice di un parere richiesto da Palazzo dei Marescialli e tutto sbilanciato per la decadenza del consigliere, potrebbe trovarsi a dover smentire se stessa in un futuro ricorso al Tar, qualora l’ex pm di Mani pulite restasse in carica. Nell’ipotesi in cui il Csm oggi, o al più tardi martedì, decida per la permanenza di Davigo, l’Avvocatura dello Stato potrebbe poi essere chiamata a difendere il Csm nel ricorso eventualmente proposto da parte del magistrato che altrimenti sarebbe subentrato all’ex pm del Pool, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. In un’eventuale causa dinanzi al Tar del Lazio, cioè, la stessa Avvocatura che, interpellata dalla Commissione verifica titoli del Csm, ha appena sostenuto per iscritto la necessità dell’uscita di Davigo, dovrebbe per forza di cose contraddirsi e difendere in  giudizio il Consiglio superiore contro l’eventuale ricorso di Celentano, fino a sostenere la legittima permanenza in carica del togato. Nonostante il quadro politico per Davigo non fosse, inizialmente, sfavorevole, proprio tale cortocircuito istituzionale ha nelle ultime ore intaccato le chances dell’ex pm di Milano. Si vedrà domani, quando inizierà la discussione e forse si arriverà al voto. Non è escluso che la drammaticità della questione allunghi il dibattito fino al giorno dopo. Il calendario fissato dal vicepresidente del Csm David Ermini prevede infatti il possibile proseguimento del plenum su Davigo fino a martedì. Giorno in cui si chiuderanno oltretutto le urne telematiche dell’Anm, aperte da oggi, e che coinciderà anche col settantesimo compleanno per l’ex inquirente di Mani pulite. Poteva essere un dilemma giuridicamente intrigante ma non tanto decisivo politicamente. Invece la tensione c’è ed è giustificata da almeno due aspetti. Innanzitutto, siamo ancora in pieno “caso Procure”. La vicenda cosiddetta “Palamara” tiene ancora nell’angolo l’intera magistratura, nonostante il tentativo compiuto dallo stesso Csm di liberarsi dell’imbarazzo con la radiazione lampo dello stesso Palamara. Come insistono a ricordare i magistrati di Autonomia e indipendenza, la corrente fondata dallo stesso Davigo, il percorso professionale dell’ex pm di Mani pulite «è ben noto, e si identifica con comportamenti irreprensibili e con il fermo contrasto ad ogni forma di illegalità e di scostamento dalle regole sia quando ha svolto funzioni giurisdizionali sia nel passato più recente quale componente del Csm». Anche se poi la nota diffusa venerdì scorso dal coordinamento di “Aei” sostiene che le motivazioni a sostegno di una permanenza di Davigo a Palazzo dei Marescialli sono «tecnico-giuridiche, e non certo di opportunità men che meno politica». L’altro motivo di tensione è la ricordata coincidenza fra la decisione su Davigo e il voto per l’Anm, in corso da stamattina e programmato fino a martedì. Le correnti favorevoli alla decadenza, come Magistratura indipendente, ricaverebbero un ritorno di immagine, tra i magistrati elettori, in caso di decisione del plenum contrario a Davigo. Discorso simmetrico per chi, come la corrente progressista di “Area”, propende per la permanenza: ricaverebbe qualche vantaggio elettorale da una delibera del Csm favorevole al togato. Immagine della magistratura, immagine delle correnti, prestigio e peso dell’interessato. Aspetti che fanno della decisione in arrivo da Palazzo dei Marescialli uno degli snodi più drammatici nella storia recente della magistratura.

Quella fuga di notizie sul destino di Davigo che preoccupa il Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 10 Ottobre 2020. Il parere segreto dell’Avvocatura dello Stato finisce sui giornali. Il tanto atteso parere dell’Avvocatura dello Stato sulla permanenza di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura anche quando sarà andato in pensione è, dunque, negativo. La notizia, non smentita, è stata data questa settimana dal quotidiano La Stampa. Il parere era arrivato a Palazzo dei Marescialli nella giornata di venerdì scorso ed era stato immediatamente “secretato” dal vice presidente del Csm David Ermini. Il parere, desecreatato, verrà discusso lunedì prossimo dalla Commissione verifica titoli. Successivamente sarà la volta del Plenum. La data è già in calendario: 14 ottobre. E’ l’ultimo Plenum disponibile prima del 20 ottobre, giorno in cui Davigo compirà settanta anni e sarà collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età. Era stata la Commissione verifica titoli, in quell’occasione presieduta dalla togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, a voler interessare della questione l’Avvocatura dello Stato. La decisione era avvenuta a maggioranza in quanto il laico pentastellato Alberto Maria Benedetti aveva deciso di astenersi, non concordando sull’opportunità di chiedere all’esterno un parere che poteva essere fornito dall’Ufficio studi di piazza Indipendenza. La presidente Miccichè a tale osservazione aveva risposto ricordando che in caso di contenzioso amministrativo l’Avvocatura dello Stato difende  “ex lege” l’operato del Csm. Data la delicatezza della questione, il rischio ricorsi è altissimo. Sia da parte di Davigo in caso dovesse essere dichiarato decaduto, o da parte del primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano, all’epoca candidato nelle liste di Unicost. Il voto avverrà a scrutino segreto. Considerati gli equilibri fra le correnti e i consiglieri laici, il destino di Davigo è nelle mani dei vertici della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio ed il procuratore generale Riccardo Fuzio, e del vice presidente del Csm David Ermini. Non essendoci in passato casi analoghi, il voto su Davigo creerà un precedente. In caso dovesse passare la tesi favorevole alla permanenza di Davigo, in futuro il Csm potrebbe essere composto anche da tutti magistrati in pensione. Sarebbe sufficiente essere in servizio fino al momento dell’elezione.

La Stampa.it il 19 ottobre 2020. Piercamillo Davigo non è più un consigliere del Csm. Il plenum di Palazzo dei marescialli ha decretato la sua decadenza. Motivo: domani l'ex dottor Sottile del pool Mani pulite compie 70 anni e va in pensione dalla magistratura. Una condizione incompatibile con la carica di togato del Csm, secondo la maggioranza dei consiglieri. Ma la decisione ha spaccato l'assemblea. Anche il pm antimafia Nino Di Matteo «con sofferenza umana personale» ha votato contro «per non violare principi costituzionali fondamentali».

Davigo in pensione è fuori dal Csm: gli votano contro Ermini e i vertici della Cassazione. Liana Milella su La Repubblica il 19 ottobre 2020. Finisce con 13 voti contro Davigo. Con lui, tre consiglieri di Autonomia e indipendenza. Il pollice verso di Di Matteo. Si divide la sinistra di Area. Magistratura indipendente e Unicost di traverso. Piercamillo Davigo non farà più parte del Csm. Da domani sarà in pensione come magistrato, e i colleghi del Consiglio, dopo una drammatica discussione, hanno deciso che debba lasciare anche il suo ruolo di componente proprio perché non avrà più la toga sulle spalle, quindi non sarà né un consigliere togato, né tantomeno un consigliere laico. Determinante contro di lui la posizione netta e univoca del vice presidente David Ermini, e dei vertici della Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi. Lui, Davigo, non era presente a palazzo dei Marescialli perché proprio oggi era a Perugia, interrogato come teste dal procuratore Raffaele Cantone su richiesta dell'imputato Luca Palamara. Quando apprende la notizia Davigo non fa commenti. Ma la sua voce suona amara. I suoi sono certi che impugnerà la decisione. Certo è che giovedì sera sarà ospite di Corrado Formigli a Piazzapulita. 

La votazione. Finisce con 13 voti contro Davigo, 6 a favore della sua permanenza in consiglio, 5 astensioni. Contro di lui votano Ermini, i due vertici della Cassazione, Nino Di Matteo, i due consiglieri di Unicost Michele Ciambellini e Concetta Grillo, i tre di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Maria Braggion e Antonio D'Amato, i 2 laici di Forza Italia (Michele Cerabona e Alessio Lanzi, il laico della Lega Emanuele Basile, Filippo Donati laico di M5s. Contro tre di Autonomia e indipendenza, la corrente di Davigo (Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe), due di Area (Alessandra Dal Moro e Elisabetta Chinaglia), il laico di M5S Fulvio Gigliotti. Si astengono tre di Area (Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro), il laico della Lega Stefano Cavanna, il laico di M5S Alberto Maria Benedetti.

Ermini e i vertici della Cassazione. Ha detto Ermini: "Questa è una decisione dolorosa, amara, ma inevitabile". Poiché "la Costituzione ci costringe a rinunciare a Davigo". In quanto essa "prevede come requisito soggettivo il possesso dello status di magistrato ordinario, posseduto al momento dell'elezione e mantenuto in seguito per l'equilibrio necessario tra togati e laici. Se i togati perdono questa qualità si altera il rapporto tra togati e laici di due terzi e un terzo, violando l'equilibrio tra i poteri, al punto da ipotizzare un Csm senza magistrati e quindi una magistratura eterogovernata. Gli eletti durano in carica 4 anni anni, ma mantenendo il loro status". Molto duro l'intervento di Curzio: "Il pensionamento fa venir meno lo status di magistrato ordinario e comporta quindi il venir meno delle funzioni giudiziarie e di componente del Csm. La durata di 4 anni riguarda l'organo nel suo complesso, e non i suoi componenti., la cui durata può essere più breve". Curzio condivide la sentenza del Consiglio di Stato, che nel 2011 è andata in questa direzione. Sostiene che a fondamento della sua decisione c'è "una ragione costituzionale, in quanto se per uno dei togati viene meno la condizione di magistrato, viene meno anche  il rapporto tra togati e laici, e si altera l'equilibrio di due terzi e un terzo previsto dalla Costituzione". Conclude Curzio: "Se passa questo principio c'è il rischio che più magistrati prossimi alla pensione restino consiglieri con un'ulteriore alterazione degli equilibri del Consiglio".

La relazione di Micciché. Comincia con la relazione anti Davigo la giornata no del "cattivo" di Mani pulite. Loredana Micciché, consigliera di Cassazione, toga di Magistratura indipendente, la corrente di destra e più conservatrice delle toghe, illustra il parere della Commissione per la verifica dei titoli di Davigo, composta da lei, dalla collega Braggion e da Benedetti. È contro la sua permanenza al Csm sulla base di un parere dell'Avvocatura dello Stato che, a sua volta, fa sua la sentenza del Consiglio di Stato del 2011 in cui è scritto che "è scontato" che chi va in pensione non può più restare al Csm. 

Per Davigo è Gigliotti di M5S. Le si contrappone subito Fulvio Gigliotti, laico indicato da M5S che resta fermo sulla sua posizione fino all'ultimo, anche dopo il niet dei tre vertici. Mentre Donati vota per il no a Davigo e Benedetti si astiene. Gigliotti invece, che è stato nella sezione disciplinare con Davigo nel processo contro Luca Palamara, sposa la tesi opposta. Perché l'articolo 104 della Costituzione non parla di cause di decadenza e tra le cause previste dalla legge del 1958 non c'è il pensionamento. Inoltre la stessa Costituzione dice che i componenti elettivi durante l'esercizio del mandato non possono iscriversi agli albi professionali, quindi fornisce un dettaglio che ritene necessario mentre non parla di altro, in particolare della decadenza.

Il no di Di Matteo. Arriva il netto no di Nino Di Matteo, l'ex pm di Palermo, che da componente della procura nazionale Antimafia si è candidato al Csm, sostenuto da Autonomia e indipendenza di Davigo, ma che si è sempre comportato in maniera indipendente. Secondo Di Matteo "la qualità dell'appartenenza all'ordine giudiziario è una condizione imprescindibile per stare nell'autogoverno che è composto da due terzi di magistrati e un terzo di laici. Un tertium genus non è ammissibile. Sarebbe un atto che viola la ratio e lo spirito delle norme costituzionali". E quindi "in piena coscienza" Di Matteo annuncia che voterà "a favore della decadenza di Davigo".  

Lo difende la sua corrente. I consiglieri eletti con Davigo - Ilaria Pepe, Giuseppe Mara, e poi Sebastiano Ardita per dichiarazione di voto - si oppongono alla tesi della decadenza di Davigo. Con un'argomentazione ricorrente, l'assenza di una clausola esplicita di decadenza.  Che non può essere quindi sostituita da una interpretazione del Csm.  

Il sì di Area per Davigo. La sinistra di Area nel dibattito si schiera per la permanenza di Davigo. Dice Alessandra Dal Moro che "esiste un vuoto normativo, e non si può dedurre una causa di decadenza in via interpretativa, perché quella del legislatore è stata una scelta". Ancora: "Il Csm non può intervenire sulle norme, né può affermare l'esistenza di una causa di decadenza che non esiste, perché questo apre una prassi pericolosa". Conclude sostenendo che "allo stato dell'arte, in base al diritto vigente, non sussistono i presupposti per introdurre la decadenza". Soprattutto perché si creerebbe "una disparità di trattamento tra laici e togati, in quanto i laici restano mentre i togati no". Altrettanto netto Ciccio Zaccaro che dice: "Prima di studiare le norme pensavamo che un magistrato in pensione non potesse far parte del Csm.  Ma abbiamo dovuto prendere atto che nell'ordinamento non esiste una norma che preveda la decadenza del componente eletto come conseguenza della cessata appartenenza all'ordine giudiziario". Giuseppe Cascini è ancora più esplicito: "Non può essere una decisione scontata perché una norma non c'è. Una norma che dica il togato che va in pensione decade. Sarebbe una interpretazione creativa che non è permessa. La causa di decadenza c'era ed è stata tolta nel 1990, quindi non può rivivere attraverso un'interpretazione estensiva". Ma alla fine Area si divide, Dal Moro e Chinaglia votano per Davigo, mentre Cascini, Zaccaro e Suriano si astengono.

E finalmente Davigo se ne va in pensione. Il Csm, vota per la sua decadenza da togato. Il Corriere del Giorno il 20 Ottobre 2020. Da domani in pensione Piercamillo Davigo non farà più parte del Consiglio Superiore della Magistratura come ha deciso il plenum con 13 voti a favore della decadenza, 6 contrari e 5 astensioni molte delle quali in realtà inizialmente erano voti contrari che all’ultimo hanno cambiato il proprio voto “per ragioni istituzionali“. La maggioranza del Csm ha quindi stabilito che la permanenza di un consigliere togato senza più la toga sarebbe un ulteriore vulnus del “parlamento” di autogoverno della magistratura, già profondamente ammaccato dal “caso Palamara” che ha portato alle dimissioni di ben 6 componenti su 16. La decisione adottata dal comitato di presidenza del Csm , di cui fanno parte il vice-presidente David Ermini, dal primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, di prendere posizione nel confronto che ha quasi “spaccato” in due la stessa istituzione della magistratura votando in favore dell’esclusione di Davigo, va ritenuta aderente alla linea dell’orientamento espresso dal Presidente della Repubblica  Sergio Mattarella, che è anche il presidente del Csm che ha valutato che il Consiglio Superiore della Magistratura non potesse rischiare di mettere a rischio la propria stessa funzione nei prossimi due anni a causa della presenza e partecipazione ai lavori ed al voto di un magistrato non più legittimato nell’incarico di membro del Csm, per mancanza del presupposto di appartenenza all’ordine giudiziario. Contro Davigo hanno votato Ermini, i due vertici della Cassazione, Nino Di Matteo, i due consiglieri togati di Unicost Michele Ciambellini e Concetta Grillo, i tre togati di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Maria Braggion ed Antonio D’Amato, i 2 “laici” di Forza Italia Michele Cerabona ed Alessio Lanzi, il “laico” della Lega Emanuele Basile, ed il laico di M5s Filippo Donati. Contro hanno votato i tre della corrente di Davigo, Autonomia e indipendenza, composta da Sebastiano Ardita, Giuseppe Marra ed Ilaria Pepe, i due “togati” di Area Alessandra Dal Moro ed Elisabetta Chinaglia ed il “laico” di M5S Fulvio Gigliotti. Astenuti tre magistrati della corrente di “Area” rappresentata da Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro), il “laico” della Lega Stefano Cavanna ed il laico di M5S Alberto Maria Benedetti. Ermini ha detto: “Questa è una decisione dolorosa, amara, ma inevitabile“. in quanto “la Costituzione ci costringe a rinunciare a Davigo” poichè essa “prevede come requisito soggettivo il possesso dello status di magistrato ordinario, posseduto al momento dell’elezione e mantenuto in seguito per l’equilibrio necessario tra togati e laici. Se i togati perdono questa qualità si altera il rapporto tra togati e laici di due terzi e un terzo, violando l’equilibrio tra i poteri, al punto da ipotizzare un Csm senza magistrati e quindi una magistratura eterogovernata. Gli eletti durano in carica 4 anni anni, ma mantenendo il loro status“. Sulla stessa scia il no “secco” di Nino Di Matteo, l’ex pm di Palermo, che da componente della Procura Nazionale Antimafia si era candidato al Csm, sostenuto da Autonomia e indipendenza di Davigo, ma ciò nonostante si è sempre ritenuto e comportato da indipendente. Secondo Di Matteo “la qualità dell’appartenenza all’ordine giudiziario è una condizione imprescindibile per stare nell’autogoverno che è composto da due terzi di magistrati e un terzo di laici. Un tertium genus non è ammissibile. Sarebbe un atto che viola la ratio e lo spirito delle norme costituzionali” annunciando di votare in piena coscienza a favore della decadenza di Davigo.  Nonostante i riconoscimenti unanimi verso la figura dell’ ormai ex-magistrato, non è prevalsa l’interpretazione letterale caldeggiata dall’interessato di alcune norme, di restare in servizio nell’organismo di autogoverno. L’articolo 104 della Costituzione recita che “i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni” come sostenevano Davigo e i suoi sostenitori, mentre non è espressamente prevista la pensione tra le cause di decadenza dei componenti togati. Sicuramente la decisione di mandare via dal Csm un rappresentante eletto, basandosi su un’interpretazione della norma, quando la norma in realtà non lo prescrive espressamente, costituisce un pericoloso precedente in quanto quella causa di decadenza era prevista prima del 1990 e successivamente venne cancellata.  Davigo non era presente a Palazzo dei Marescialli in quanto proprio oggi si trovata a Perugia, interrogato come “teste” dal procuratore Raffaele Cantone su richiesta dell’imputato Luca Palamara. Appresa la notizia Piercamillo Davigo non ha fatto commenti. Anche si suoi compagni di corrente suoi sono pressochè certi che impugnerà la decisione. Ha prevalso la teoria contraria, e cioè che la Costituzione si basava sulla durata del mandato all’interno della stessa consiliatura, altrimenti i subentrati avrebbero dovuto restare in carica anche nella successiva, circostanza che non è mai avvenuta né tantomeno è mai stato oggetto di discussione. Il motivo per cui la legge non contempla tra i motivi della decadenza anche la pensione è in quanto si tratta di una naturale conseguenza, come chiarì il Consiglio di Stato in una propria decisione del 2011, richiamata da un parere richiesto dallo stesso Csm all’Avvocatura generale dello Stato : “E’ addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all’autogoverno, è ostativa alla prosecuzione dell’esercizio delle relative funzioni in seno all’organo consiliare”. La decisione adottata è stata anche la necessità di salvaguardare l’immagine e il ruolo dell’istituzione, al di là della controversia giuridica, per essere al riparo da ulteriori diatribe e accuse di autoreferenzialità e corporativismo. Queste le ragioni che hanno comportato la presa di posizione del vertice del Csm, che si è rivelata fondamentale e decisiva per l’esito conclusivo della votazione. Una decisione che, almeno per il momento, ha risolto la posizione di Davigo, e con essa i problemi derivanti dalle divisioni tra correnti ed i componenti dello stesso Consiglio. Nel 2018 l’ex pm di Milano fu il primo degli eletti prese 2.522 preferenze, raddoppiando i 1.100 voti presi nel 2016, quando era stato eletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Sarà Carmelo Celentano, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, a prendere il posto lasciato dal consigliere togato del Csm, Piercamillo Davigo. Lo ha deciso il Plenum del Csm che ha approvato una proposta della Commissione verifica titoli. Celentano, primo dei non eletti, subentra quale magistrato che esercita funzioni effettive di legittimità.

Così Ermini e Di Matteo hanno scaricato Davigo. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 ottobre 2020. È finita l’esperienza di Piercamillo Davigo al Csm. Al termine di un dibattito durato diverse ore, ieri pomeriggio il plenum ha votato la decadenza da consigliere superiore dell’ex pm di Mani pulite. È finita l’esperienza di Piercamillo Davigo al Csm. Al termine di un dibattito durato diverse ore, ieri pomeriggio il plenum ha votato la decadenza da consigliere superiore dell’ex pm di Mani pulite. A favore dell’uscita di scena si sono pronunciati i componenti del comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, vale a dire il vicepresidente del Csm David Ermini, il primo presidente e il pg della Cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. No al prosieguo del mandato, con una certa sorpresa, anche da parte dell’“indipendente” ( ma eletto col sostegno del gruppo davighiano) Nino Di Matteo, dai 3 di Magistratura indipendente Loredana Micciché, Paola Braggion e Antonio D’Amato, dai 2 di Unicost Conchita Grillo e Michele Ciambellini, e dai laici Filippo Donati ( indicato dal M5S), Emanuele Basile ( Lega), Alessio Lanzi e Michele Cerabona ( FI). Alla fine si sono schierati, senza successo, per la permanenza di Davigo solo 2 dei 5 consiglieri di Area, Alessandra Dal Moro ed Elisabetta Chinaglia, uniche altre togate oltre ai 3 rappresentanti della davighiana Autonomia e indipendenza, ovvero Sebastiano Ardita, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra. Tra i laici, il solo che abbia votato perché Davigo restasse in plenum è stato Fulvio Gigliotti ( indicato dal M5S). Si sono invece astenuti Stefano Cavanna (Lega) e Alberto Maria Benedetti ( M5S), così come gli altri 3 togati di Area Giuseppe Cascini, Giovanni Zaccaro e Mario Suriano. Un esito che nessuno si aspettava, alla luce della forte campagna d’opinione portata avanti in questi mesi a favore della permanenza di Davigo al Csm anche dopo la sua entrata in quiescenza, formalizzata ieri dalla delibera approvata pochi minuti prima del dibattito sul prosieguo del mandato. Chissà perché fino all’ora fatidica del plenum non era balenata in modo così nitido la volontà di attenersi alla Costituzione. Difficile spiegarlo se non con il peso che hanno avuto, prima e durante la discussione consiliare, i vertici dello stesso organo di autogoverno. Saranno risuonate anche nella testa di possibili “indecisi” parole come quelle del presidente della Suprema corte, Curzio: «Il pensionamento fa venire meno lo status di magistrato, quindi anche le funzioni di componente del Csm. Ne ho parlato anche in comitato di presidenza» , ha spiegato in modo molto trasparente Curzio, «e ho trovato conferma in questa mia conclusione. Ne ho parlato anche con Davigo, per la chiarezza che ha sempre contraddistinto i nostri rapporti. È stato un onore essere suo collega, aver lavorato con lui, ma gli argomenti per la decadenza sono più convincenti». Anche il pg Salvi ha parlato di una «necessità derivante da principi costituzionali: a far parte del Csm non possono che essere magistrati in servizio». Fino all’intervento di Ermini, secondo il quale «la Costituzione ci impone di rinunciare all’apporto che Piercamillo Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare al Consiglio superiore». Va dato atto al vicepresidente del Csm di aver speso parole forti per l’ex pm del Pool, a proposito delle sue «qualità», della «intransigente onestà intellettuale», dell’ «assoluta indipendenza di giudizio» e «inattaccabile libertà morale», che «hanno connotato il percorso di un magistrato eccezionale» e la sua «esemplare carriera». A Davigo, ha aggiunto Ermini, «mi lega ora un’amicizia per me preziosa e irrinunciabile», ma «tuttavia, nella vita, ci sono momenti in cui chi è chiamato a compiti di responsabilità istituzionale deve assumere decisioni dolorose». Del no pronunciato da Di Matteo al prosieguo del mandato, resterà tra l’altro un’osservazione non sentita spesso, nel dibattito degli ultimi giorni: «L’appartenenza all’ordine giudiziario è condizione imprescindibile per l’organo di autogoverno», che è «per due terzi composto da magistrati: il rapporto predeterminato tra laici e togati è una regola sancita dalla Costituzione», ha detto Di Matteo. La permanenza di Davigo al Csm dopo il suo collocamento in pensione violerebbe dunque, ha sostenuto il pm antimafia, «la ratio e lo spirito delle norme costituzionali». Di Matteo ha comunque parlato di una decisione «presa con grande dolore» per la stima nei confronti del collega che «lascerà un segno nella storia recente della magistratura italiana». Con l’uscita di Davigo cambiano i rapporti di forza al Csm, contraddistinti finora da una maggioranza imperniata sull’alleanza fra Area e davighiani. Il posto dell’ex pm di Mani pulite ( che compie oggi 70 anni) sarà preso dal giudice di Cassazione Carmelo Celentano, di Unicost. Difficile dire, almeno per questo, che l’uscita di Davigo dal Csm non produca conseguenze politiche.

Davigo cacciato dal Csm, è stato tradito dai suoi ma non infieriamo…Redazione su Il Riformista il 19 Ottobre 2020. “Hanno cacciato Davigo dal Csm, è una tragedia siamo in lutto“. Esordisce così il direttore del Riformista Piero Sansonetti nel suo video editoriale sulla decadenza dell’ex pm di Mani pulite. “Due partiti, il Pd e Fratelli d’Italia durante il lockdown avevano preparato un emendamento per far andare Davigo in pensione a 72 anni e non a 70 anni. Ma noi ce ne siamo accorti e l’emendamento è saltato“. Sansonetti poi sottolinea che “La cosa più curiosa è che Davigo è stato pugnalato dai suoi. Di Matteo, una creatura di Davigo, gli ha votato contro. Chissà per quale motivo… Oggi non me la sento di infierire con Davigo, non so come faremo ma continueremo a fare polemiche contro Davigo. Anche perché quale è la questione? Che si sputtanava il Csm se restava Davigo? Ormai aveva già fatto il processo farsa a Palamara non c’era più nulla da sputtanare“.

Giuseppe Salvaggiulo per ''la Stampa'' il 20 ottobre 2020. La trama è scespiriana. Mentre testimonia a Perugia, convocato dallo stesso Luca Palamara che ha appena contribuito a espellere dalla magistratura, Piercamillo Davigo va in pensione e viene giubilato dal Consiglio superiore della magistratura dove era entrato due anni fa, plebiscitato dai colleghi per dare l' assalto alle correnti. Chi gli aveva parlato negli ultimi giorni aveva percepito, oltre la proverbiale corazza da ufficiale di cavalleria nella battaglia di Guastalla, la percezione di un esito infausto. La questione della permanenza nel Csm anche da pensionato s' era ingarbugliata. Troppe variabili ostili: un lontano precedente del Consiglio di Stato, il parere dell' Avvocatura dello Stato, la campagna dei penalisti (tre sono nel Csm), lo schieramento dei vertici della Cassazione e del vicepresidente Ermini, i regolamenti di conti nella sinistra giudiziaria. Infine ieri, in apertura del dibattito, la sentenza di Nino Di Matteo, pm antimafia eletto un anno fa con il sostegno della corrente di Davigo (che però aveva sconsigliato la candidatura). «Dobbiamo volare alto - ha detto Di Matteo - la permanenza di Davigo violerebbe lo spirito della Costituzione», compromettendo «autonomia e indipendenza della magistratura» perché il Csm è per magistrati in servizio, non ex. Argomenti analoghi a quelli, attesi, dei vertici della Cassazione (presidente Pietro Curzio e procuratore Giovanni Salvi). E a quelli, meno attesi, del vicepresidente David Ermini, che ha letto l' intervento in coda al dibattito.

Gioco, partita, incontro. Tutto il resto - dal pallottoliere dei voti, alla fine 13 su 24, alle 5 astensioni tattiche, alle punzecchiature personali, ai silenzi imbarazzati - è noia. Era stato lo stesso Davigo a porre la questione a settembre. Sia formalmente con una lettera alla commissione titoli del Csm che ha avviato l' ordalia. Sia informalmente, con una visita riservata al capo dello Stato, presidente di diritto del Csm. Il Quirinale ha avuto un ruolo, perché i vertici del Csm non decidono tirando i dadi. Ma solo nel senso di autorizzare una presa di posizione di Ermini e dei capi della Cassazione, poi orientata verso la soluzione più adeguata a rinsaldare il Csm, anche nel rapporto con le altre istituzioni e in un' ottica di sistema.

Certo non sfuggono le implicazioni della decisione. Simboliche, in primis. Far fuori Davigo è come sostituire Cristiano Ronaldo a partita in corso (ne sa qualcosa Sarri, uno dei migliori amici di Ermini). E infatti sui social esultano i suoi nemici politici, togati e mediatici. Ma, quel che più conta, cambiano gli equilibri nel Csm. L' asse Davigo-Area, un compromesso storico destra-sinistra che ha retto il post Palamara in nome della «questione morale», è piegato. Quanto, si misurerà sulle nomine e sui collegi dei processi disciplinari in calendario (Palamara non si dilettava in solitari all' hotel Champagne). Rialzano la testa, basta leggere i gaudenti comunicati serali, Magistratura Indipendente e Unicost, le correnti di centrodestra che nel 2018 si erano impadronite del Csm grazie al patto Ferri-Palamara. E, complice Lotti, avevano eletto Ermini vicepresidente, contro tutto e tutti (da Forza Italia a Magistratura Democratica). Ermini che, superati i patemi per le chat e le allusioni di Palamara, esce rafforzato in un ruolo non più meramente notarile. Non a caso Ilaria Pepe, consigliera della corrente Autonomia&Indipendenza fondata da Davigo, parla di «gravissima perdita della residua credibilità del Csm». E nelle chat della corrente si grida alla «restaurazione» (ri)mettendo Ermini nel mirino in quanto «amico di Renzi» (non come un tempo, peraltro). Renzi che venerdì si era pronunciato pubblicamente sul caso Davigo, e si può immaginare come. A proposito di chi dice che è stata solo una contesa giuridica. In attesa di giocarsi l' ultima carta al Tar Lazio, Davigo oggi tornerà un ultimo giorno al Csm. Per salutare e fare gli scatoloni. Comunque la si pensi, è stato un consigliere autorevole e ascoltato. Anche da insospettabili colleghi che a orari antelucani (arrivava prima dei custodi) bussavano al suo ufficio. Pure ieri non ha fatto una piega. Al punto da rifiutare il rinvio che Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, gli aveva prospettato per la deposizione a Perugia nell' ambito del caso Palamara. Testimonianza di un' ora chiesta dagli avvocati dell' indagato, sugli incontri tra magistrati nella stagione delle nomine e degli esposti incrociati.

Povero Davigo, pugnalato dagli amici e cacciato dal Csm. Paolo Comi  su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo oggi compie settant’anni e va in pensione. Il Plenum del Csm ha votato ieri, nell’ultimo giorno utile, la sua decadenza da Palazzo dei Marescialli per raggiunti limiti di età. Termina, dunque, un tormentone che si stava trascinando da mesi e che rischiava di creare più di un imbarazzo al Quirinale. È stata respinta la tesi, propagandata con insistenza in queste ultime settimane dal Fatto Quotidiano, che l’anagrafe per i consiglieri togati fosse una variabile indipendente. Anche per loro, ha stabilito il Csm, valgono le regole sullo status giuridico che si applicano a tutti magistrati e che fissano al compimento dei settant’anni l’età massima per il trattenimento in servizio. Non essendo previsto espressamente fra le cause di decadenza il collocamento a riposo, i supporter della permanenza di Davigo al Csm avevano puntato tutto sul termine di durata quadriennale dell’organo di autogoverno delle toghe. Davigo stesso aveva messo in evidenza questo aspetto, ricordando in una memoria che la Costituzione prevede che i componenti del Csm rimangano in carica per quattro anni e che, se si dovesse ritenere che il collocamento in pensione in quei quattro anni determini la cessazione, non dovrebbe essere prevista l’eleggibilità, come accade per le nomine ai vertici degli uffici giudiziari, per cui è stabilito che chi aspira all’incarico debba garantirne la copertura almeno per un quadriennio. Che Davigo compisse settant’anni il 20 ottobre del 2020 era abbondantemente noto quando il magistrato si candidò al Csm due anni fa e venne eletto con un plebiscito. Non essendoci precedenti specifici, però, si sarebbe trattato del primo caso di un magistrato “pensionato” al Csm. Davigo, a tal riguardo, aveva bocciato una sentenza del Consiglio di Stato del 2011, l’unica su questo aspetto, con cui si stabiliva che l’appartenenza all’ordine giudiziario è requisito per il mantenimento della carica in quanto il Csm è organo di autogoverno della magistratura. Una sentenza con “gravi errori in punto di diritto costituzionale”, perché il Csm sarebbe “organo di governo autonomo” e dunque “non organo di rappresentanza ma organo di garanzia”. Tutte argomentazioni che erano state respinte dalla Commissione verifica titoli che, con i voti delle togate di Magistratura indipendente Loredana Miccichè e Paola Maria Braggion e con l’astensione del laico in quota M5s Alberto Maria Bendetti, aveva chiesto il mese scorso un parere all’Avvocatura dello Stato. Parere inizialmente secretato dal vice presidente del Csm David Ermini e che ieri è stato, appunto, discusso. Che la permanenza di Davigo al Csm non fosse scontata si è capito comunque dopo aver sentito l’intervento di Nino Di Matteo. Il pm antimafia, prendendo la parola, aveva annunciato la decisione di votare a favore al decadenza “con grande dolore” per la stima nei confronti di Davigo che “lascerà un segno nella storia recente della magistratura italiana”. E poi, riprendendo quanto già espresso dalla Commissione verifica titoli, aveva sottolineato che l’appartenenza all’ordine giudiziario è condizione imprescindibile per l’organo di autogoverno della magistratura che è per 2/3 composto da magistrati. «Il rapporto predeterminato tra laici e togati è una regola sancita dalla Costituzione» e quindi la permanenza di Davigo al Csm dopo il suo collocamento in pensione «violerebbe la ratio e lo spirito delle norme costituzionali» e «introdurrebbe un tertium genus di consigliere né togato né laico che altererebbe il rapporto tra i componenti». La conclusione, tombale per i destini di Davigo, di Di Matteo che l’anno scorso era stato candidato al Csm proprio nelle liste davighiane. Dopo Di Matteo era stato il turno dei capi di Corte, il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, con due interventi da ko tecnico. Il saluto di David Ermini a Davigo, ringraziando per quanto fatto, era stato quindi l’epilogo finale. Nessuna sorpresa al momento del voto: tredici per la decadenza, sei contrari, cinque gli astenuti. Grande sconfitto, oltre a Marco Travaglio, Giuseppe Cascini. L’ex procuratore aggiunto di Roma e capo delegazione delle toghe progressiste al Csm si è battuto come un leone per cercare di salvare il suo alleato. Da domani il posto di Davigo sarà preso da Carmelo Celentano, giudice di Cassazione nel 2018 si candidò nelle liste di Unicost, il gruppo di centro. Con l’uscita di Davigo cambiano gli equilibri al Csm. Domani, infine, si conosceranno anche gli esiti delle elezioni dell’Anm. Le prime elezioni dopo il Palamaragate. E senza Davigo.

Davigo chiede al Tar del Lazio di sospendere la sua rimozione dal Csm. Liana Milella su La Repubblica il 21 ottobre 2020. Immediata contromossa dell’ex pm di Mani pulite che sarà difeso da Massimo Luciani. Già domani la decisione. Ma nel frattempo il Consiglio ha già votato per sostituire Davigo nella disciplinare con Carmelo Celentano, toga di Unicost, che dovrà giudicare proprio i suoi ex colleghi della corrente centrista per i fatti dell’hotel Champagne. Si apre una guerra legale sul caso Davigo. Da lui una richiesta di sospensiva al Tar del Lazio. Con un difensore di grandissimo prestigio come il costituzionalista Massimo Luciani. Perché l'ex pm di Mani pulite non si ferma. E subito, già ieri, il giorno dopo la sua bocciatura come consigliere del Csm per via del suo ingresso in pensione (ha compiuto 70 anni) eccolo presentare al Tar del Lazio una richiesta per sospendere la decisione assunta dai suoi, ormai ex, 13 colleghi, contro i sei che erano contrari e i 5 che si sono astenuti. Una votazione che ha spaccato e lacerato il Csm. E che adesso finirà sicuramente in una dura controversia davanti alla giustizia amministrativa. Che - com'è prassi - deciderà in tempi brevissimi sulla richiesta di sospensiva di Davigo. Con la conseguenza che si verrà a creare una situazione del tutto paradossale al Csm. Già oggi si terrà la prima udienza camerale davanti alle parti, in questo caso il solo avvocato di Davigo, cioè Luciani. Ci sarà subito un provvedimento urgente. Che se fosse favorevole a Davigo, cioè la sospensiva del voto del Csm, vedrebbe Davigo tornare al suo posto. Entro dieci giorni il Tar andrà a un'udienza camerale in cui sarà presente anche il Csm. Che formalizzerà la successiva decisione. Lo stesso Consiglio quindi sarà costretto a resistere di fronte al Tar. E dovrà ricorrere ai "servigi" dell'Avvocatura dello Stato, il suo avvocato naturale, che però si è già espresso contro Davigo e contro la sua permanenza al Csm per via del compimento dei 70 anni. Con argomentazioni che già nel 2011 il Tar, all'opposto, non aveva ritenuto valide. Sconfitto però in seguito dal Consiglio di Stato. Tecnicamente, l'Avvocatura non avrà problemi a difendere il Csm. Può farlo. Certo è che la querelle, per la sua complessità giuridica - è la prima volta che si pone il caso di un consigliere che deve lasciare il Csm per via della pensione - potrebbe tranquillamente finire davanti alla Corte costituzionale. Un fatto è altrettanto certo: negli stessi ambienti dell'Avvocatura, e tra i giudici amministrativi, si può cogliere l'impressione che tra un ricorso di Davigo per il voto contro di lui e quello del suo successore Celentano, avrebbe più chance di vincere Davigo. Per la semplice ragione che, allo stato degli atti, non esiste un'espressa legge che stabilisce la decadenza di un consigliere togato che arriva all'età pensionabile. E nel frattempo? Tranquillamente il Csm va avanti. Tant'è che oggi ha già votato per inserire nella sezione disciplinare il consigliere che sostituirà Davigo, e cioè Carmelo Celentano, toga di Unicost, che però, con più di una suspense, è stato eletto alla quarta votazione, poiché nelle prime tre non aveva raggiunto il quorum necessario dei 17 voti. La prima era finita con 13 voti per Celentano, 2 per Loredana Micciché, consigliera di Cassazione e toga di Magistratura indipendente, 10 schede bianche. Alla seconda Celentano ha avuto 14 voti, 5 la Micciché, 6 le bianche. Alla terza 15 voti per Celentano, 4 per Micciché, 6 bianche. Nell'ultima votazione, dopo due ore di pausa, Celentano ha ottenuto 20 voti, due alla Micciché e tre bianche. Quindi Celentano - a partire da venerdì 23 - giudicherà i 5 ex consiglieri protagonisti dei fatti dell'hotel Champagne per i quali Luca Palamara è stato rimosso dalla magistratura. Due colleghi di Unicost (Luigi Spina e Gianluigi Morlini), tre di Mi (Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Paolo Criscuoli). Relatrice del caso sarà Paola Maria Braggion di Mi. È in corso la formazione del collegio nel quale, c'è da augurarselo, figurino anche rappresentanti di altre correnti per evitare la sensazione di una giustizia domestica. Peraltro dopo l'anomalia di aver giudicato separatamente Palamara dagli altri consiglieri che pure partecipavano esattamente alla stessa cena. E soprattutto tenendo fuori anche Cosimo Maria Ferri, il leader maximo di Mi, che ha ricusato i suoi giudici e ha chiesto di non autorizzare l'uso delle intercettazioni visto che è un deputato. Il procuratore generale Giovanni Salvi, già a fine luglio, aveva annunciato la decisione di chiedere alla Camera l'autorizzazione all'uso delle conversazioni, ma questa richiesta non è ancora giunta a Montecitorio. Dove, quindi, è ferma anche la richiesta dello stesso Ferri di pronunciarsi sulla possibilità di registrare le telefonate di un parlamentare e poi utilizzarle, nel suo caso, solo per un processo disciplinare perché Ferri non è sotto inchiesta a Perugia. 

Piercamillo Davigo fa ricorso al Tar: "I colleghi mi hanno fatto passare per uno attaccato alla poltrona". Libero Quotidiano il 23 ottobre 2020. "Ho fatto ricorso al Tar perché la questione trascende la mia persona e riguarda la natura del consiglio". Così a Piazzapulita l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, decaduto lunedì scorso dopo il voto del plenum. "Ci sono due modi di intendere - ha aggiunto -, il primo è di intenderlo come organo di rappresentanza, il secondo come organo di garanzia. La corte costituzionale ha detto che è un organo di garanzia. Chi sostiene la tesi della mia decadenza interpreta nel senso della rappresentanza. Ma interpretarlo in questo senso è difficile perché la costituzione dice che i componenti elettivi del consiglio non sono immediatamente rieleggibili. E allora che rappresentanza è se uno non essendo rieleggibile non assume personalmente nessuna responsabilità?". Sulla decadenza di Davigo il  Tar potrebbe decidere anche tra diverse settimane. Non ci sarà infatti un decreto monocratico, che di solito viene emesso in tempi brevi, ma il Tar deciderà in composizione collegiale, con una camera di consiglio, e la decisione dovrebbe arrivare nelle prossime settimane. Davigo potrà rientrare in Consiglio solo se il Csm decidesse di ottemperare al provvedimento provvisorio dei giudici amministrativi. Davigo ha spiegato  che il voto del plenum non era previsto anzi  "era inaspettato che votassero per la decadenza, perché nessuno mi ha mai fatto capire…anzi, se segnali avevo avuto in generale, era che ci fosse una maggioranza perché io rimanessi. Poi negli ultimi tempi è cambiata, ci possono essere mille ragioni. Se mi fosse stato fatto anche solo capire prima che era ritenuta problematica la mia permanenza, mi sarei dimesso io", ha poi chiosato Davigo.  Una decisione che, ha aggiunto, "danneggia la mia immagine, mi fanno sembrare attaccato alle poltrone, se c'è qualcosa a cui non sono attaccato sono le poltrone". Venendo al merito del ricorso,  scrive Il Fatto quotidiano, la legge istitutiva del Csm non prevede fra le cause di decadenza il pensionamento di un magistrato; per giurisprudenza consolidata le cause di ineleggibilità e di decadenza non solo sono tassative, ma non sono neppure "suscettibili di applicazione analogica". Su Luca Palamara spiega: "Ci è stato detto di tutto e di più, anche articoli che non sono pregiudizialmente contrari all'ordine giudiziario sono stati nel senso di dire, beh, certo, è stata strappata l'immagine della magistratura, sembravano diversi adesso sono uguali ai politici. Io qui qualche riserva ce l'ho. I componenti del Csm che erano stati coinvolti in quella vicenda si sono dimessi e come magistrati sono sottoposti a procedimento disciplinare. Però c'erano altri due politici, i loro partiti non hanno detto, beh...i magistrati stanno rispondendo, non mi consta che i partiti abbiano detto alcunché".

Su Davigo il tar non sceglie: sulla decadenza decide il giudice ordinario. Il Dubbio il 13 novembre 2020. Per i giudici amministrativi la delibera del Csm riguarda un «diritto soggettivo» e per tale motivo non avrebbero competenza in materia. È inammissibile il ricorso presentato da Piercamillo Davigo dinanzi al Tar del Lazio contro la sua decadenza da togato del Csm: i giudici amministrativi, che hanno dichiarato il loro «difetto di giurisdizione», indicando dunque la competenza del «giudice ordinario, dinanzi al quale la domanda potrà essere riproposta». Lo si legge nella sentenza breve appena depositata dalla prima sezione del Tar del Lazio. Secondo il collegio, i poteri esercitati dal Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti di Davigo «non possono definirsi di natura autoritativa ma devono ricondursi nell’ambito delle attività di verifica amministrativa della sussistenza dei requisiti necessari per il mantenimento della carica, ivi compresi quei requisiti che costituiscono un prius logico del diritto di elettorato passivo». Il Csm ha affermato che, a seguito del collocamento a riposo, Davigo, in quanto componente togato dell’organo, non sarebbe più possesso di un (pre)requisito necessario per mantenere la carica. L’attività di verifica del Consiglio si è basata su una interpretazione del panorama legislativo e dei principi da esso ricavabili, la cui correttezza è contestata dall’ex pm di Mani Pulite. Secondo i giudici, il caso in questione non riguarda una delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: «la situazione giuridica di cui si chiede la tutela ha la consistenza, nonostante la veste provvedimentale assunta dalla delibera del Csm impugnata, di diritto soggettivo» e per tale motivo la relativa cognizione deve essere riconosciuta al giudice ordinario. Nel suo ricorso, Davigo aveva censurato il provvedimento anche in relazione alla qualificazione del Csm come “organo di autogoverno” anziché di garanzia, nonché il richiamo operato al concetto della “rappresentanza democratica”, deducendo l’assenza di un collegamento necessario tra lo status di magistrato in servizio e il mandato consiliare. L’appartenenza all’ordine giudiziario, secondo Davigo, costituirebbe «la condizione richiesta esclusivamente per la presentazione di una candidatura ma non anche per il mantenimento della carica», sostenendo anche l’irrilevanza del richiamo, pure presente negli atti impugnati, «al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali, dato che ordinariamente tutti i membri elettivi del Csm provenienti dalla magistratura non svolgono nel corso del mandato tali funzioni, per dedicarsi esclusivamente all’incarico presso il Csm». Per l’ex pm, infine, non sarebbe influente «il richiamo alla prassi relativa al funzionamento dei Consigli giudiziari».

Felice Manti per “il Giornale” il 24 ottobre 2020. Povero Piercamillo Davigo. Il Csm l' ha appena mandato ai giardinetti e lui fa ricorso al Tar, come un arci italiano anche un po' sfigato. Fa tenerezza vedere il Torquemada fustigatore degli italici costumi rivolgersi al Tar per provare a ribaltare la decisione del Consiglio superiore della magistratura, unico governo (anzi autogoverno) deputato a decidere vita, carriere e destini di ogni magistrato. Per carità, ben vengano i tribunali regionali, che tante volte hanno corretto qualche stortura giuridica. Ma per il povero Davigo un po' dispiace. Se c' è, anzi c' era, un magistrato in funzione che aveva fatto del giustizialismo più bieco un mantra per provare a nascondere le grandi colpe dei suoi colleghi magistrati nel fallimento della giustizia era lui. Con frasi come «non esistono innocenti, ma solo colpevoli che l' hanno fatta franca», Davigo aveva teorizzato di fatto l' infallibilità della magistratura, anche di fronte a sentenze «sgradite», dando la colpa delle assoluzioni alla prescrizione o alle alchimie dilatorie degli avvocati difensori. E proprio ieri Davigo che fa? Fa vacillare la sua stessa tesi, l' infallibilità della magistratura, portando davanti al Tar del Lazio la delibera con cui il plenum del Csm - presieduto, lo ricordiamo, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella - lo ha dichiarato decaduto dalla carica di togato perché ha 70 anni ed è andato in pensione. Tradito perfino dai suoi, come il suo figlioccio Antonino Di Matteo, icona antimafia in rotta con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per una poltrona al Dap. C' è un precedente che gli dà torto, e se avesse ragione? Per il verdetto ci vorrà un bel po' perché il Tar del Lazio ha annunciato che sulla richiesta di sospensiva della delibera del Csm deciderà in composizione collegiale, non monocratica, adottata a seguito di una camera di consiglio, alla presenza delle parti, nelle prossime settimane. Lui non sarà d' accordo ma il tempo e il contraddittorio tra le parti non sono i nemici della giustizia. I nemici sono altri, e Davigo lo sa benissimo. Negli ultimi 30 anni l' ex magistrato di Mani Pulite ha dettato la linea ai suoi colleghi, si è eretto come baluardo davanti a chi, da Guardasigilli ma anche no, teorizzava la separazione delle carriere, citofonare a Clemente Mastella e Roberto Castelli per crederci. Era un' idea che piaceva a Giovanni Falcone, altra vittima dei giochini del Csm. Che la giustizia fosse politicizzata, che certi processi fossero istruiti solo per danneggiare i nemici politici dei magistrati, ai lettori del Giornale era chiaro da tempo. Lo sa bene anche il numero due di Palazzo de' Marescialli David Ermini, ex renziano in quota Pd come Cosimo Ferri e Luca Lotti, anche loro nei guai per le nomine al Csm. Alle Iene ieri sera imbarazzato ha smangiucchiato qualche risposta davanti alle domande di Antonino Monteleone. Per tutti gli altri c'è voluto il verminaio innescato dall' inchiesta sull' ex leader Anm Luca Palamara: giudici e magistrati si scambiano favori perché dagli uni dipendono le carriere degli altri. Palamara era lì a dirigere il traffico, a spartirsi procure e tribunali seguendo il Cencelli delle toghe. Una a Md, una a Unicost eccetera. E altri prima di lui, impuniti. Quello a Palamara - perfetto capro espiatorio di un sistema che preferisce sacrificarne uno per salvarne cento - è il processo al peccato originale della magistratura al quale Davigo avrebbe tanto voluto partecipare. Maledetta anagrafe contro cui non c' è appello...

La rabbia di Davigo contro il Quirinale: “Perché non mi ha avvisato?” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Ma perché non mi hanno avvertito? Ma perché il Capo dello Stato non mi ha fatto un cenno, almeno uno squillo? Mi sarei dimesso immediatamente, dice colui che ha appena presentato un ricorso al Tar e non pare intenzionato a revocarlo. Ecco Piercamillo Davigo in versione giardinetto. Pensionato dal 20 ottobre e già ospite di Corrado Formigli, della cui trasmissione è commensale abituale, a onor del vero. È il grande sconfitto nel grande circo della politica degli uomini in toga. Cioè di quelli che non sono secondi agli uomini di partito non solo per ideologia e abitudini quotidiane, come ci ha spiegato in lungo e in largo il dottor Luca Palamara, ma anche per capacità di intrighi, accordi e tradimenti. E che lo hanno appena pugnalato senza avvertimento e quindi alle spalle. Ha perfettamente ragione a essere imbufalito, l’ex pm di quella “Mani Pulite” di cui ha esibito la filosofia fino all’ultimo, come il giapponese che ha continuato a combattere nella foresta pur venticinque anni dopo la fine della guerra. Arrabbiato e sconcertato, un colpo così non se lo sarebbe mai aspettato. Non solo aveva i numeri sulla carta per vincere con sicura maggioranza la sua battaglia per restare all’interno del Csm anche senza la toga, da pensionato. Ma aveva ricevuto segnali inequivocabili. Prima di tutto da quel comitato di presidenza che si è poi mosso contro di lui come un carro armato. Il vice di Sergio Mattarella, quel Davide Ermini, esponente del Pd la cui elezione al vertice non era stata estranea al gioco delle correnti in cui, se Palamara era stato maestro, Davigo non era secondo a nessuno. E poi il primo presidente della corte di cassazione Pietro Curzio e il procuratore Giovanni Salvi. Voti inaspettati? Davigo ha un guizzo: “Se segnali avevo avuto…”. Intende dire con molta chiarezza che dall’alto aveva addirittura ricevuto rassicurazioni: quel posto sarebbe rimasto suo. È evidente che i casi sono solo due. O nessuno, compresi i vertici del Csm, immaginava che il Presidente Sergio Mattarella sarebbe intervenuto con tanta decisione con il suo pollice verso. Oppure il povero Davigo è stato proprio preso in giro. Prima lo hanno tranquillizzato, poi gli hanno preparato lo sgambetto proprio all’ultimo momento. Il famoso piattino che si serve freddo. È per questo che lui oggi dice: bastava dirmelo, bastava un cenno del presidente, e mi sarei dimesso. Già, perché lui ha fatto anche la brutta figura (il che fa sospettare una qualche malizia da parte di qualcuno che gli vuole proprio male) di quello attaccato ai soldi e alla poltrona. È sconcertato, si credeva più potente di quello che sia in realtà. E la sua faccia si impietrisce quando Formigli (che se ne accorge e lascia cadere subito l’argomento) lo mette di fronte al tradimento di Nino Di Matteo, il suo pupillo, quello per il quale lui si è speso, portandolo con sé al Csm e procurandogli una barca di voti. Si impietrisce e, senza far nomi, sibila qualcosa che grida vendetta. Tradito? «Debbo credere che tutti abbiano agito con senso delle istituzioni, con scienza e coscienza…». Debbo credere ma non ci credo, brutto traditore, dice il fumetto della sua faccia di pietra. Dei trenta minuti del breve film di Davigo ai giardinetti, la simpatia che suscita in quanto uomo sconfitto non può durare più di tanto. Perché non appena riesce a rilassarsi e a scacciare per qualche minuto la nube nera che lo accompagna come quella dell’impiegato che perseguitava il povero Fantozzi, riecco il liquido verdognolo che esce dall’angolo della bocca. E ritorna quello che ci considera tutti delinquenti, tranne lui. I testi di Palamara? «Non erano conferenti». Proprio come l’altro giorno al supermercato (unica favoletta che racconta, questa volta) quando, avendo detto il fruttivendolo a un acquirente di mettersi la mascherina, non era “conferente” che quello si giustificasse dicendo che un altro toccava la verdura senza guanti. Lei intanto si metta la mascherina, intimò il fruttivendolo-Davigo. E non cerchi di portarmi testimoni “inconferenti”. Inutili? Propensi alla falsità? O solo stonati? Il resto è “davigheide”. Finché IO (maiuscolo) ho montato la guardia, dal guado non è passato nessuno. Non sono gradito a quelli di cui mi sono occupato. Se uno è corrotto, lo è per sempre. Rifarei tutto esattamente nel modo in cui l’ho fatto. Per quarantadue anni. Amen. Arrivederci alla prossima puntata ai giardinetti. Che ci sarà. Con o senza Formigli.

Magistrato gentiluomo? Forse, ma non per questo bravo giudice…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Un bravissimo giudice siciliano una volta mi disse: «Nessun magistrato dovrebbe essere famoso, perché la fama personale del magistrato diffama la giustizia». Era uomo di formazione antica e di grande dottrina, desolato nella constatazione che quella sua idea non solo non era condivisa, ma sapeva di bestemmia. Perché a imperare era, e continua a essere, l’idea esattamente contraria, cioè che la giustizia sia tanto più affidabile ed efficace quanto più diffusamente sia rappresentata dal magistrato eroe, dal magistrato combattente, dal magistrato “simbolo”. Quel piccolo giudice aveva compreso, contro la concezione e direi quasi il sentimento della quasi totalità dei suoi colleghi, che l’affidabilità della giustizia sta semmai nella neutra indistinguibilità di chi la amministra e che l’identità del magistrato deve restare nel nome in calce alla sentenza. Se il magistrato si manifesta in favore di telecamera insulta, deturpandolo, il volto neutro e l’indispensabile anonimia della giustizia. Se coltiva la propria fama attenta alla giustizia, perché i suoi provvedimenti tenderanno a trovare fondamento nella notorietà di chi li ha emessi prima che nel fatto di essere corretti. La fama rischia di coprire e assolvere gli inevitabili errori e i possibili abusi. La celebrazione del magistrato “galantuomo”, che ricorre ogni qual volta si denuncino gli spropositi di questo o quell’esponente della giustizia televisiva, rappresenta il routinario riaffermarsi di quella retorica pericolosissima che, impedendo alla giustizia di essere imparziale, le permette di essere abusiva. La dicitura ha fatto prevedibile capolino in questi giorni, a proposito del dottor Piercamillo Davigo che, in quanto tale (galantuomo), non avrebbe meritato le critiche che alcuni hanno rivolto al suo operato. Noi tuttavia possiamo considerare “galantuomini” magistrati come Davigo se non picchiano la moglie, se pagano i creditori, se non si mettono le dita nel naso in pubblico, tutto quel che si vuole: ma nulla di tutto questo fa di loro dei buoni magistrati. E nulla di tutto questo ci impedisce di pensare e dire che, per quanto galantuomini, loro hanno fatto male alle persone, male alla giustizia, male alla democrazia di questo Paese. E vale la pena di ricordare, in proposito, quel che scriveva Sciascia quando alle sue denunce dei traffici per le nomine nel Csm qualcuno opponeva che si trattava di gentiluomini: «Si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?». Che poi – e non si capisce come la cosa non sconsigli definitivamente l’uso della dicitura – “gentiluomo” è quel che puntualmente rivendica di essere il mafioso quando è acciuffato. Infine, se i magistrati non avessero fama di gentiluomini, e anzi nessuna fama, sarebbe tanto di guadagnato per tutti.

Csm, ribaltone e controribaltone: dopo la cacciata di Davigo cambiano gli equilibri. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Ora che Piercamillo Davigo non è più consigliere del Csm che cosa succederà a Palazzo dei Marescialli? Come cambieranno gli equilibri e i rapporti fra le correnti della magistratura? L’inaspettata – per Marco Travaglio – decadenza dell’ex pm di Mani pulite sta determinando in queste ore un “contro ribaltone” al Csm. Il primo ribaltone, quello originale, si era avuto lo scorso anno con le dimissioni “spintanee” dei cinque consiglieri che avevano partecipato all’incontro notturno dell’hotel Champagne, organizzato dall’ex zar delle nomine Luca Palamara, con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti. La corrente di Davigo, Autonomia&indipendenza, che aveva perso l’anno prima le elezioni, per un meccanismo elettorale incredibile, era diventata la prima forza a piazza Indipendenza. La legge elettorale del Csm prevede, infatti, che subentri al dimissionario il primo dei non eletti in ognuna delle tre categorie: pm, giudici di merito e giudici di legittimità. In questo modo può subentrare, come avvenuto, anche chi non faccia parte del gruppo associativo a cui appartiene il magistrato che ha abbandonato il Csm. I davighiani, grazie a questo sistema che non tiene minimamente conto della volontà degli elettori, avevano quasi triplicato la loro presenza al Csm, passando da due a cinque consiglieri. La presa di distanza di Nino Di Matteo da Davigo, con il voto contrario alla sua permanenza al Csm, e anche la fredda difesa dell’ex pm di Mani pulite da parte dell’altro davighiano, il pm antimafia Sebastiano Ardita, sono segnali che mettono in forse l’attuale alleanza di A&i con la sinistra giudiziaria di Area. L’ex procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area al Csm, proprio per questo motivi si era speso tantissimo per evitare l’uscita di Davigo. Il posto di Davigo verrà preso, già da questa settimana, dal giudice di Cassazione Carmelo Celentano, magistrato di Unicost e un tempo legato a Palamara. I numeri sono sul filo. Soprattutto se dovesse subentrare anche il giudice genovese Pasquale Grasso, esponente di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria. Grasso, si ricorderà, ha il dente avvelenato con le toghe di sinistra. Presidente dell’Anm da pochi mesi, esploso il Palamaragate lo scorso anno, venne sfiduciato in una assemblea infuocata in Cassazione dove mancò poco per l’intervento dei carabinieri. Il Csm lo tiene a bagnomaria da oltre un mese. Sulla carta deve subentrare al giudice di Unicost Marco Mancinetti, dimessosi per essere finito nelle micidiali chat di Palamara. Palazzo dei Marescialli sta studiando cosa fare, non escludendo anche nuove elezioni suppletive, le terze. Un record assoluto. Il Quirinale, già intervenuto nel caso Davigo, potrebbe comunque sbloccare l’impasse con una moral suasion pro Grasso ed evitare una nuova tornata elettorale. Sul fronte Anm, all’inizio della prossima settimana è previsto l’insediamento della nuova giunta. Le correnti stanno affilando i coltelli.

Sandra Amurri contro Gaetano Pedullà, rissa in diretta a Non è l'Arena: "Non si deve permettere. Cosa ride? Ignobile". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2020. Alta tensione a Non è l'Arena, con un duro scontro tra la giornalista Sandra Amurri e Gaetano Pedullà, direttore de La Notizia, il quotidiano più filo-grillino d'Italia. Si parla di giustizia, tra la mancata nomina del pm Nino Di Matteo al Dap, decisa dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede del M5s, e il "no" dello stesso Di Matteo alla nomina di Piercamillo Davigo al Csm. Il confronto travalica a livello personale: "Sappia che non si deve permettere di interrompermi", "E lei per educazione non deve dire fesserie", "Lei deve farmi parlare. Punto. E ora le illustro le nozioni di cui lei manca". Sono 4 minuti di fuoco: "Prima di dire io stavo lì, davanti l'auto fumante di Falcone, abbia la onestà intellettuale... - accusa la Amurri -, è ignobile". 

Massimo Giletti contro Gaetano Pedullà a Non è l'Arena: "A me che aiuto la mafia non lo dice". Testa a testa, dito al petto: gelo in diretta. Libero Quotidiano il 26 ottobre 2020. "Che aiuto le cosche a me non lo dice!". Massimo Giletti brutalizza Gaetano Pedullà a Non è l'Arena. "La decisione di Nino Di Matteo di mandare in pensione Davigo è una cosa su cui dovreste indagare", incalza il direttore de La Notizia, storico difensore del ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede nella querelle sulla mancata nomina di Di Matteo al Dap, un caso scoperchiato proprio da Giletti. "Scusi ma stiamo parlando di mafia o di Davigo?", domanda stupefatto Giletti. "Lei sta facendo un favore alla mafia - accusa Pedullà -. Io ho giurato di essere un giornalista controcorrente davanti alla macchina fumante di Falcone". Giletti, sotto scorta per le minacce ricevute da Cosa Nostra, allarga le braccia: "Ancora una volta tiriamo in ballo Falcone?". "La lotta alla mafia non la si fa come la fa lei, lei aiuta le cosche". Giletti si avvicina, gli punta il dito al petto: "Lei a me che aiuta le cosche non lo dice". Pedullà si alza, la situazione sfugge di mano: "Ma se aveva Buzzi in studio la scorsa settimana". Il padrone di casa è sempre più sconcertato: "Vabbè, si sieda...". E si va avanti, a fatica.

Non è l'arena, sfregio di Giuliano Ferrara a Massimo Giletti sindaco di Roma: "Destino cinico e baro, che razza di persona è". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. Contro Massimo Giletti si scatena Giuliano Ferrara, che su Il Foglio di lunedì 12 ottobre verga un editoriale di fuoco contro il conduttore di Non è l'Arena, su La7. Già, l'Elefantino non lo vuole vedere sindaco della capitale (ipotesi che lo stesso Giletti nel corso della puntata di ieri, domenica 11 ottobre, di Non è l'Arena ha un poco allontanato parlando con l'avvocato di Salvatore Buzzi, troppi gli scandali emersi nel corso di Mafia Capitale). Ma si diceva, Giuliano Ferrara. L'ex direttore de Il Foglio scrive un lungo articolo in cui di fatto, tra molti distinguo, sostiene la candidatura ipotetica del centrosinistra, quella di Carlo Calenda, il leader di Azione a cui Ferrara dà importanti consigli "per evitare il metodo Giletti", come da titolo del suo fondo. E del conduttore de La7, l'Elefantino ne parla soltanto nella chiusa dell'articolo. Rivolgendosi sempre a Calenda, scrive: "È anche il segnale chiaro che non si vuole fare una furbata neoazionista, che non si vuole fare la mosca cocchiera di un clan o di una lobby, si vuole davvero contribuire, cosa che vale più della fondazione di un piccolo partito riformista e liberale, alla grande impresa nazionale e internazionale di rimettere in sesto Roma, di riparare le buche della bambolina eccetera". Ed eccoci all'attaco a Giletti: "Ma forse sbaglio io, e allora ci attende come un destino cinico e baro il sindaco Giletti, un Trump all'amatriciana fuori tempo. Io ho sempre Buzzi dietro cui ripararmi, e voi?", conclude tagliente Giuliano Ferrara.

Non è l’Arena, va in onda la faida tra i manettari: da un lato davighiani dall’altro dimatteisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. Altro che il più puro che ti epura. Qui ormai, nel piccolo regno delle manette, si danno del mafioso l’uno con l’altro. Era inevitabile. Parte lancia in resta il giornalista “antimafia” Gaetano Pedullà che scaglia contro Massimo Giletti l’accusa più infamante: «Amico delle cosche!». Eh sì, perché il conduttore di Non è l’Arena sta dalla parte di Nino Di Matteo, il che agli occhi della corrente davighiana-travagliesca equivale ormai a stare con la mafia. La logica è quella: se non sei con me sei un nemico, e se sei un nemico non puoi essere che un mafioso. E il pubblico ministero della Trattativa è quindi diventato una specie di Totò Riina da quando ha tradito il suo mentore Piercamillo Davigo votando per il suo pensionamento totale, cioè non solo fuoruscita dalla magistratura ma anche dal Csm? Di Matteo è uno con la memoria lunga. Ha aspettato due anni a tirar fuori dalla gola un nocciolino che non andava né su né giù. E ha dichiarato guerra ad Alfonso Bonafede. Perché Luigino Di Maio nel 2018 gli aveva promesso proprio quel ministero di giustizia che poi darà invece al proprio amico siciliano Fefé. Il quale a sua volta, dopo il giuramento da guardasigilli, prenderà in giro il magistrato più scortato d’Italia offrendogli e poi sottraendogli un bocconcino ancor più succulento. Quella presidenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che vuol dire un impero di 191 carceri, con un bilancio di due miliardi e settecento milioni di euro, con 36.000 agenti di polizia penitenziaria da governare, oltre a quel reparto speciale di non ottima reputazione che si chiama Gom e che controlla i detenuti per reati di mafia. E vogliamo buttare quei trecentomila euro di stipendio che non hanno mai fatto arrossire nessun grillino e neanche Bonafede, mentre agitava lo scalpo di qualche vecchietto ex parlamentare con un vitalizio da quarantamila euro? E quella clausola per cui, in caso di interruzione prematura del rapporto, lo stipendio viene garantito fino alla pensione? Naturalmente non era al potere né al denaro che pensava il magistrato più coraggioso d’Italia quando aveva deciso di accettare l’incarico. Lo avrebbe fatto per spirito di servizio. Ma gli fu impedito, perché il ministro gli fece lo sgambetto preferendogli – a lui che aveva creato addirittura il processo Trattativa – l’oscuro Basentini. E proprio nei giorni in cui dalle carceri speciali i mafiosi più mafiosi di tutti bestemmiavano e imprecavano perché si era sparsa la voce, qualche giornale ne aveva parlato, dell’arrivo di Di Matteo al Dap. Ovvio che Bonafede sia finito sul banco degli imputati. E la piccola compagnia di giro di Non è l’Arena – oltre a Massimo Giletti, Luigi De Magistris, la giornalista Sandra Murri, a volte il pm napoletano Catello Maresca – è compatta al suo fianco, puntata dopo puntata. Una vera campagna elettorale al fianco del consigliere del Csm (per merito di Davigo) che l’ha giurata («mi difenderò con il coltello tra i denti») a Bonafede e aspetta vendetta. Gli amici del magistrato più scortato d’Italia puntano abbastanza esplicitamente a far dimettere il ministro di giustizia proprio come il suo protetto Basentini, attaccato sul fronte professionale come su quello personale. In una famosa serata del 4 maggio l’ignaro ministro aveva osato fare una telefonata alla cupa combriccola, aspettandosi quasi dei complimenti perché aveva saputo liberarsi del suo amico capo del Dap dopo tutte le gaffe sulle cosiddette scarcerazioni dei boss. Era invece caduto nella trappola del magistrato più rancoroso d’Italia, il quale gli aveva sputato in faccia il nocciolino custodito in gola per due anni. E intanto le prefiche gli facevano coro. Il povero Bonafede non avrà più pace, da quella sera, strattonato dall’antimafia e dagli agguati dei cronisti di Giletti. Quel che aleggia da sei mesi a questa parte è che il ministro di giustizia abbia subìto una sorta di Trattativa, cedendo alla mafia. L’occhiuto Di Matteo quando sente quella parola sente addosso un prurito formidabile, una sorta di intolleranza alimentare. E, quando il coretto della sua compagnia di giro dice “ci vuole chiarezza”, oppure “il ministro deve rispondere”, e “non doveva permettersi di trattarlo così”, è come se sullo sfondo del palcoscenico brillasse la parola “mafia”. Lo si legge tra le righe ogni giorno sul Fatto quotidiano. Memorabile l’editoriale dell’8 maggio a firma Marco Lillo, in cui pare quasi che i mafiosi che temevano l’arrivo di Di Matteo fossero poi gli stessi che “brindavano” al decreto “Salva Italia” del ministro per far scontare, in mezzo all’emergenza Covid, a casa gli ultimi diciotto mesi di pena. Gli stessi che esultavano per la circolare del Dap che chiedeva fossero segnalati i casi di malati nelle carceri. Aleggia intorno alla persona di Bonafede l’insulto più sanguinoso. Ma nel piccolo circo delle manette ce n’è ormai anche per lo stesso Di Matteo, da quando Marco Travaglio ha definito “sorprendente” il suo voto per la cacciata dal Csm di Piercamillo Davigo. Non pensando mai che il magistrato più coraggioso di nocciolini in gola ne avesse due. Perché l’ex pm di Mani Pulite non si era mai fatto sentire, mentre lui accusava e protestava. Perché mai (figuriamoci, il “dottor Sottile”!) aveva aperto la bocca per sostenere il suo amico. Il quale al Dap forse avrebbe potuto andarci anche nel 2020, una volta estromesso Bansentini. Meglio tardi che mai. Invece no. Ecco perché l’altra sera Gaetano Pedullà ha gridato a Giletti: «Lei sta facendo un favore alla mafia», aggiungendo che Di Matteo, prima di poter essere difeso, prima di poter stare ancora nella famiglia dei più puri, avrebbe dovuto spiegare il suo voto contro Davigo, la sua seconda vendetta. Poi, come se le due cose fossero collegate, aveva concluso dicendo che “Basentini è una persona di elevatissima caratura”. Tiè, caro Di Matteo, quel posto lì proprio non lo meritavi. E forse, nel metterti contro Davigo, hai ceduto anche tu alla Trattativa. Così ormai sono accusati di essere “mafiosi” un po’ tutti, sia quelli che stanno con Di Matteo (il club di Giletti), che quelli che stanno con Bonafede e Davigo, il circolo di Travaglio. Arriveranno altri più puri dei puri e dei più puri?

La minaccia di Travaglio a Di Matteo: “Sei un traditore, te ne pentirai!” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. Vendetta, tremenda vendetta: firmato Nino Di Matteo. Pagherete caro, pagherete tutto: firmato Marco Travaglio. Che bello scompiglio tra le quinte del clamoroso benservito dato dal Csm a Piercamillo Davigo. Non per la silenziosa ma ferma moral suasion del presidente Mattarella sul suo vice David Ermini né per il pollice verso dei due vertici della cassazione, Canzio e Salvi. Ma per il Bruto che aveva banchettato al regno del principe, aveva assaporato uno per uno i voti che Davigo gli aveva procacciato per farlo trionfare in un’elezione suppletiva dello stesso Csm, e ora, dopo aver schiaffeggiato il gallo per farlo cantare, lo aveva pugnalato a morte. Nino Di Matteo, il pupillo giovane (che in realtà ha solo una decina d’anni meno di Davigo), acciuffato per i capelli dal suo mentore dopo una serie di delusioni. Perché non era diventato il ministro dei Cinque stelle e neanche presidente del Dap né capo di una qualche procura antimafia. Era stato poi cacciato dal procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho dal pool sui “mandanti” delle stragi in quanto troppo chiacchierone. Roba da depressione permanente. Ma ecco che Davigo prende il “giovane” Di Matteo per la collottola e gli regala il posticino al Csm. Facendo i conti con il pallottoliere, pur con i vertici schierati contro, Piercamillo Davigo, pur spogliato della toga in occasione del settantesimo compleanno, sarebbe oggi ancora sul suo scranno di consigliere. Se il suo allievo Nino Di Matteo non avesse gridato vendetta, tremenda vendetta e non lo avesse pugnalato. Se ne è accorto subito Marco Travaglio, cui il voto del Csm ha tolto qualche chilo di pelle dal corpo, portandolo quasi alle lacrime. E non limitandosi, questa volta, alla solita tiritera contro “i correntocrati della destra e della sinistra”, e poi tutti noi delinquenti e garantisti “pelosi”. A tal proposito, caro Marcolino, dà pure della “pelosa” a tua zia, ma non ti permettere con me, chiaro? Questa volta il direttore del Fatto colpisce sotto la cintura anche un suo (ex?) amico, e regala solo due aggettivi a Nino Di Matteo, «inspiegabile e sconcertante». Eppure la capacità intuitiva non gli manca. Dov’era Piercamillo Davigo mentre il pm più scortato d’Italia piangeva ogni domenica sera da Massimo Giletti per non essere diventato capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria quando il ministro Bonafede glielo aveva proposto, preferendogli alla fine il dottor Basentini? Mai si era sentita la voce di Davigo unirsi alla protesta, in quei giorni. E quando infine, proprio in seguito a quelle trasmissioni e alla grande canea conseguente a qualche sospensione di pena per detenuti anziani e malati, anche Basentini era stato cacciato e si aprivano le porte per Di Matteo, che cosa ha fatto in suo favore Davigo? Niente, assolutamente niente. Così quel niente è stato ricambiato. Vendetta, tremenda vendetta. Perdo io e perdi tu. Ma può essere che un boomerang aleggi oggi sulla testa di Di Matteo. Lo si intravede nelle parole finali del lugubre canto di Marco Travaglio. Tutti questi traditori, scrive, «un giorno si accorgeranno di non aver colpito Davigo ma l’idea stessa di Magistratura, come non riuscirebbero a fare neppure mille Palamara. E forse un giorno si vergogneranno». La guerra non è finita. Pagherete caro, pagherete tutto, si sarebbe detto una volta. Fossimo in Di Matteo staremmo attenti. Non con la scorta, ma con il curriculum.

Cacciata di Davigo: Di Matteo non è stato un traditore ma l’unico serio. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 25 Ottobre 2020. Ospite di Piazza Pulita su LA 7, l’ormai ex magistrato Piercamillo Davigo ha detto una cosa che non può non colpire: se solo avessi avuto un cenno (dal presidente del Csm Mattarella, si intende) circa l’orientamento del Comitato di Presidenza in senso contrario alla mia permanenza, mi sarei immediatamente dimesso. Dico subito che credo senza riserve a quanto dice il dott. Davigo, del quale avverso con tutte le forze le idee sulla giurisdizione e sul processo penale, ma la cui esemplare integrità morale davvero nessuno può mettere in dubbio. Ed anzi confesso di aver provato empatia verso il servitore dello Stato, di stampo antico, che dice: avrei obbedito, perché non risparmiarmi questa umiliazione? Senonché, sono portato a pensare che nessun cenno gli è stato fatto per la semplice ragione che fino all’ultimo si è cercato di salvare, più che il soldato Davigo, l’assetto politico del Csm che aveva appena giudicato e rimosso dalla magistratura, con molta fretta, il dott. Luca Palamara. Se e fino a qual punto il dott. Davigo avesse fatto affidamento proprio su questa inerzia, lo sa solo lui; ma la partita si è giocata su questo tavolo, non certo su quello della controversia tecnico-giuridica, come si vorrebbe farci credere; e nemmeno sul piano, come dire, personale nei confronti del magistrato simbolo della stagione di Mani Pulite. Ma quando poi, con malcelata amarezza, egli lamenta che quel silenzio ingannevole dei vertici del Csm lo abbia ingenerosamente esposto ad un danno di immagine, come di un magistrato “attaccato alla poltrona”, qui il Nostro scivola nella retorica populistica un po’ troppo facile, ancorché a lui assai congeniale. Qui il dott. Davigo (che peraltro avrebbe avviato, stando a notizie di stampa, altra controversia per veder retroattivamente rivalutata la sua sconfitta nella corsa a Primo Presidente della Corte) deve prendersela solo con sé stesso. Il quadro dei principi era ed è chiarissimo, il Consiglio di Stato si era già pronunciato esattamente in termini quando egli ha deciso di ingaggiare questa battaglia. Ed anzi, egli aveva avuto altre due eccellenti occasioni per buttare dignitosamente la spugna: il giudizio negativo della Commissione che di norma lui stesso presiedeva; ed il parere drasticamente negativo della Avvocatura dello Stato (incredibilmente secretato: il che la dice lunga su quanto il Consiglio o gran parte di esso stesse cercando di sostenerlo). Ha voluto tenere il punto, non ha che da recriminare con sé stesso. Ma una riflessione a parte merita il voto finale espresso dal Csm, che conferma una volta di più la deriva davvero incontrollabile della crisi di autorevolezza e credibilità che attanaglia la magistratura italiana ed il suo vertice istituzionale. Ancora una volta, su una questione del tutto tecnica, si è votato per schieramenti, e per dosimetrie correntizie. Il tema era se il magistrato in pensione potesse rimanere in carica: cosa c’entra qui la corrente di appartenenza? Ogni commento è superfluo. E merita invece plauso il voto libero ed “imprevisto” del dott. Nino di Matteo. Per Travaglio -che incarna l’idea platonica della faziosità più incontinente e spregiudicata- si tratta di un voto “inspiegabile”; per molti, anche all’interno della stessa magistratura, sarebbe stata addirittura una ritorsione contro il silenzio di Davigo sulla nota vicenda della mancata nomina al Dap. Che si debba essere proprio noi avvocati a presumere, almeno presumere, un gesto di onestà intellettuale e di libertà morale da parte di un magistrato pur assai lontano da noi, la dice lunga -per parafrasare Gadda– su quanto sia grave “quel pasticciaccio brutto di piazza Indipendenza”.

La cacciata dal Csm del suo mentore. Dal falso pentito alle pugnalate a Davigo, storia di Nino Di Matteo il Pm più scortato d’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Tradimento. Una nuova freccia è scoccata dall’arco del pubblico ministero più scortato d’Italia, e forse, chissà, questo comporterà un rafforzamento della sua sicurezza. Perché ormai Nino Di Matteo ha litigato con tutti e in poche ore ha sbriciolato le due relazioni principe nella sua vita davanti allo specchio, quella con il suo mentore Piercamillo Davigo, cacciato dal Csm con il suo voto determinante, e l’altra con il suo ragazzo pompon Marcolino Travaglio che, a causa di quel voto, gliel’ha giurata. E a ogni rottura è una tacca sulla sua toga e qualche uomo di scorta in più. Perché tutto intorno a lui è minaccia. Quando perde un processo, quando ha un inciampo di carriera. Quando litiga, quando si arrabbia. Da Scarantino a Davigo, potrebbe essere il titolo di un suo prossimo libro, quello delle sue confessioni. Il tradimento di questi giorni nei confronti del suo mentore, il suo leader politico, quello che lo ha acciuffato per i capelli mentre lui stava annegando nei propri fallimenti. Perché non era riuscito a diventare ministro di giustizia con la benedizione dei grillini e neanche capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Ogni volta surclassato da personaggi modesti, su questo ha qualche ragione. Non si può proprio dire che Bonafede e Basentini siano due allievi di Calamandrei. Ma umiliato anche dal capo dell’antimafia che lo aveva cooptato in un pool sulle stragi e poi licenziato perché chiacchierone con la stampa. Davigo era stato generoso con lui, portandolo con sé al Csm e procurandogli i voti per essere eletto. Ma ignorava che il suo allievo nascondesse il pugnale sotto la toga. E con lui il ragazzo pompon Travaglio che si era spellato le mani in quei festeggiamenti, sprizzando gioia a champagne. Ma Nino Di Matteo deve sempre fare pagare agli altri i propri insuccessi, la propria difficoltà nel salire le scale. È ormai storia. E vendetta. Lo hanno aiutato, ma non abbastanza. La sua carriera di pm “antimafia”, la credulità, la capacità di girare la testa da un’altra parte davanti a un’operazione di pasticceria che ha manipolato un piccolo spacciatore di periferia fino a venderlo sul bancone dell’antimafia come uno degli assassini di Paolo Borsellino. Enzino Scarantino, quello che sapeva tutto perché c’era, perché aveva procurato lui la macchina-bomba della strage. Il grande depistaggio di Stato che avrebbe potuto essere smascherato subito, fin da quando la lettera della moglie del “pentito” e qualche visita parlamentare alle carceri speciali di Pianosa e Asinara denunciarono le torture e il “pentitificio” che in quei luoghi maledetti veniva costruito. Stiamo parlando del 1993. E il processo-farsa organizzato dal depistaggio di Stato costruito su Enzino è andato avanti con la benevola partecipazione di Nino Di Matteo fino al 2017, fino a quando il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza non ha cavato, al pm e ai giudici, le castagne dal fuoco, risolvendo il “giallo” della morte di Borsellino e scrivendo, di fatto, la sentenza. Mandando a casa una ventina di innocenti, qualcuno dei quali torturato a Pianosa o Asinara. Venticinque anni di distrazione e di crescita di scorte perché i boss mafiosi, pur vedendo che lui non ne azzeccava una, continuavano a riempire di minacce il pm Di Matteo. Il quale sosteneva più o meno che era tutta colpa di Berlusconi. E una volta, nel corso di una cerimonia ufficiale di commemorazione proprio della strage di via D’Amelio, non potendo prendersela con se stesso perché ancora non cavava un ragno dal buco, e anzi aveva contribuito a far incriminare degli innocenti, attaccò briga da lontano anche con il presidente Napolitano e con il premier Matteo Renzi. Tutti amici e complici di Berlusconi. Il suo mantra consiste nel suo essere un “isolato” e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa. Come quella che sta impegnando diversi giudici, e siamo già al secondo grado di giudizio, per stabilire se un gruppo di servitori felloni dello Stato e di politici piagnucolosi abbia trattato con la mafia negli anni Novanta per far cessare le stragi. Non lo hanno fatto, in caso contrario il loro comportamento sarebbe stato encomiabile. Come lo sono stati gli atti decisivi di coloro, come il generale Mori, che hanno arrestato i boss latitanti e sconfitto la mafia in Sicilia. Se non c’è trattativa, c’è cedimento. Altra parola scritta con la maiuscola nel vocabolario del pm Di Matteo. La sua espressione preferita è “cedimento dello Stato” nei confronti della mafia. Succede di continuo. È capitato con le famose scarcerazioni (che poi erano solo differimenti della pena) dei boss mafiosi per motivi di salute durante la prima pandemia da covid-19. In quei giorni il pm più scortato d’Italia disse che lo Stato pareva «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». E come ci si sarebbe potuti dimenticare di questo ritornello visto che viene cantato e solfeggiato nelle tante apparizioni televisive del dottor Di Matteo? A questo punto, persa la tribuna del Fatto quotidiano, persa l’amicizia di Davigo (non si illuda, dottor Di Matteo, quello non va a passare gli anni della pensione ai giardinetti, lo rivedremo presto), può sempre contare su qualche domenica sera nello studio di Massimo Giletti. Il quale, forse anche in seguito a qualche puntata in cui insieme protestavano per le scarcerazioni dei boss, è lui pure sotto scorta.

 Davigo esalta la giustizia delle toghe: ritardi e difesa menomata sono primati? Errico Novi su su Il Dubbio il 25 ottobre 2020. L’ex consigliere del Csm difende se stesso e anche la magistratura, la capacità di controllo e sanzione dell’ordine giudiziario. Davigo si difende. E ne ha diritto. Ma nel suo intervento a Piazzapulita di quattro sere fa difende anche la magistratura, la capacità di controllo e sanzione dell’ordine giudiziario. E su questo secondo versante è più esposto a critiche. Dice che sul “caso Procure” i magistrati, a differenza della politica, hanno offerto una risposta esemplare e tempestiva: «I componenti del Csm che erano stati coinvolti in quella vicenda si sono dimessi, e come magistrati sono sottoposti a procedimento disciplinare. C’erano due politici, non mi consta che i loro partiti abbiano detto alcunché». Un momento. A parte il fatto che quanto a tempestività siamo messi così male da vedere ora il processo disciplinare ai 5 ex togati messo a serio rischio annullamento. Dopodiché dovremmo riproporre, come ogni tanto si è costretti a fare, un’intervista che Giovanni Maria Flick ha concesso al nostro giornale. È davvero incredibile, ha detto il presidente emerito della Consulta, la lentezza con cui sia l’Anm sia il Csm si sono ricordate che esistono un accertamento deontologico e uno disciplinare. Davigo fa vanto al Csm della meravigliosa macchina sanzionatoria abbattutasi sul Palamara. Ma certo non ci si può rallegrare del solo vero primato stabilito da quel procedimento: l’incredibile compressione del diritto di difesa.Neppure un teste ammesso su 133 richiesti, tranne i 5 su cui l’accusa era concorde. Motivo: non si è ritenuto opportuno processare l’intero sistema, ci si doveva limitare alla cena con Cosimo Ferri. Sarebbe questa la grande capacità di autocritica della magistratura? Davigo non è componente del Csm, almeno per ora. Con la sua intelligenza può permettersi di essere molto più obiettivo.

Le toghe furiose. Regolamento di conti tra i davighiani, il pupillo Di Matteo sotto accusa e A&I sparisce. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. All’indomani della decadenza di Piercamillo Davigo da consigliere del Csm, è partita fra i davighiani di stretta osservanza la caccia al traditore. Il primo a finire sul banco degli imputati è stato Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato mafia che con il suo voto è stato determinante per spedire a Milano, con biglietto di sola andata, l’ex pm di Mani pulite. Di Matteo era stato candidato al Csm nelle liste davighiane alle elezioni suppletive per la categoria dei pubblici ministeri che si erano tenute esattamente un anno fa. La sua candidatura avvenne a furor di popolo, con una presentazione in grande stile: direttamente dal palco della festa del Fatto Quotidiano alla Versiliana. Il magistrato siciliano, intervistato da un euforico Marco Travaglio, affermò di «non essere iscritto alle correnti e di non essere intenzionato a farlo», e di voler rappresentare una candidatura «autonoma e indipendente» dopo lo scandalo che aveva coinvolto la magistratura con il Palamaragate. Ed “autonomo” ed “indipendente” Di Matteo lo è stato per davvero, votando lunedì scorso «con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza», a favore della decadenza di Davigo dal Csm per sopraggiunti limiti di età. Una presa di distanza forte dagli altri davighiani della prima ora, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Sebastiano Ardita che, invece, si erano battuti con il coltello fra i denti per perorare la causa di Davigo, avventurandosi nell’improbabile tesi che si potesse rimanere al Csm anche da pensionati. Tesi stroncata sia dai vertici della Corte di Cassazione che dal vice presidente David Ermini e, quindi, dal Quirinale. La convivenza fra Di Matteo e Davigo al Csm non era mai stata particolarmente idilliaca. Difficile la coabitazione sotto lo stesso tetto di due magistrati “iper mediatici”. Di Matteo, comunque, aveva anche rotto con la pattuglia dei laici in quota M5s al Csm, Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, quando la scorsa primavera sferrò nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un attacco pancia a terra. Durante la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7, in collegamento telefonico, a proposito delle scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, Di Matteo, senza peli sulla lingua, aveva rinfacciato a Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018. Parole pesantissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigilli grillino, scatenando immediatamente una violenta polemica politica. «I consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio», dissero i laici pentastellati. Adesso, dunque, sulle chat delle toghe di Autonomia&indipendenza, tutti a chiedersi il perché di questa candidatura. All’inizio della carriera Di Matteo aveva strizzato l’occhio ai colleghi di sinistra dei Movimenti per la giustizia, il gruppo di Armando Spataro, ora confluiti insieme a Magistratura democratica nel cartello progressista Area. Crescendo abbracciò i centristi di Unicost, la corrente dell’ex zar delle nomine al Csm Luca Palamara. Nelle liste di Unicost venne eletto alla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo, divenendone il presidente per un intero mandato. Senza Davigo al Csm il gruppo davighiano è destinato a sciogliersi come neve al sole. La parabola di Autonomia e Indipendenza è impietosa: nel 2016 dopo qualche mese dalla costituzione, il botto alle prime elezioni, quelle dell’Anm, con quasi 1300 voti. Poi nel 2018 il plebiscito di Davigo con oltre 2500 voti. Ieri, il tracollo: 750 i voti per il rinnovo del parlamentino togato. Voti che non sarebbero sufficienti per eleggere nemmeno un consigliere al Csm. La compagine attuale a Palazzo dei Marescialli è di quattro, compreso appunto Di Matteo. Le elezioni per l’Anm, ieri lo scrutinio, segnano una buona affermazione per la destra giudiziaria di Magistratura indipendente, dimezzamento dei voti per Unicost post Palamara, stabile il cartello progressista, successo per gli “anticorrente” di Articolo 101.  Si chiude dunque un’epoca per i davighiani. Non è stata premiata, dopo il Palamaragate, l’alleanza innaturale con la sinistra giudiziaria. Il futuro è quanto mai incerto. L’assenza di Davigo già si fa sentire.

DAGONEWS il 21 ottobre 2020. I tumulti nella magistratura continuano, tra colpi di scena e futuri incerti. L'uscita rumorosa di Piercamillo Davigo, pensionato ma che voleva continuare a far parte del Csm per altri due anni, avrà strascichi: l'ex pm presenterà ricorso al Tar e darà battaglia. Anche se nelle urne delle elezioni nell'Anm gli effetti del suo declino si sono già sentiti: il suo movimento ha perso un quarto dei voti rispetto all'ultima tornata. Soprattutto, si è sentito l'''effetto Mattarella''. Il presidente della Repubblica, nonché del Consiglio Superiore della Magistratura, ha votato (per modo di dire) attraverso il suo vice David Ermini. Quando questi si è schierato per il ''no'' a Davigo, lo hanno seguito voti di peso come Curzio e Salvi. Davigo era considerato un rompiscatole (eufemismo) da tutti ma ha anche fatto dei passi falsi. Come ad esempio non schierarsi con il simbolo dell'antimafia Nino Di Matteo nella diatriba con il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede. Quella posizione, in linea con il duplex Travaglio-Conte, gli è costata cara nell'urna: Di Matteo ''con difficoltà umana'' ha votato per la sua estromissione. Eppure Di Matteo era stato eletto un anno fa grazie ai voti della corrente davighiana. Ma troppa acqua è passata sotto i ponti. Il caso Palamara, il caso boss scarcerati… Adesso le parole d'ordine a Palazzo dei Marescialli sono: etica e compattezza. Etica perché la categoria non poteva farsi beccare per l'ennesima volta a tutelare i propri interessi (anzi, quelli di Davigo a non mollare la poltrona) in barba a quello che succede alle persone comuni, che quando vanno in pensione si beccano al massimo un orologio, anzi un i-watch per contarsi i battiti. Con Davigo fuori si spengono anche certe faide interne che avrebbero strappato ancora di più i rapporti già troppo sfilacciati. Compattezza intorno al ''capo'': Mattarella non interviene direttamente nelle faccende delle toghe ma fa in modo felpato che la sua posizione sia chiara a tutti. Là fuori c'è ancora una mina inesplosa che si chiama Luca Palamara, che non si aspettava quell'espulsione nell'ignominia dal Csm ed è sempre più tentato di vuotare il sacco delle intercettazioni, dei ricordi e delle agendine. In questo momento i magistrati appaiono un po' persi, nessuno ha in mano il pallino della strategia, le correnti vanno in ordine sparso e manca quella coesione di una volta. Ti credo, il collante era Palamara. Ma non è solo questo: mancano riferimenti forti nelle procure di Roma e Milano, le più importanti, palesemente indebolite. La prima, dalla sanguinosa lotta per il procuratore capo del dopo Pignatone, che dall'Hotel Champagne ha tirato giù qualche decina di magistrati dall'Olimpo dei puri e scoperchiato il sistema della scelta per correnti e non per titoli (Ermini dixit). E Palamara dall'altare è ruzzolato nella polvere. La seconda ha appena subito una notevole sconfitta giuridico-politico-economica: dopo due richieste di archiviazione a favore di Profumo e Viola, ha visto la condanna pesantissima per i due manager. Sei anni sono tanti se si pensa che per l'omicidio colposo di Viareggio Mauro Moretti ne ha presi 7. Come a dire: la musica è cambiata, qua tocca serrare i ranghi e mostrare che non siamo tutti Palamari dell'inciucio. Bisogna essere fermi nella posizione di estremo carattere etico. Insomma, non ci possiamo più permettere certi processi su scandali (conclamati e verificati) che si risolvono a tarallucci e vino. Questo strappo tra magistratura inquirente e giudicante potrebbe essere il prologo della separazione delle carriere? Non pochi pensano che il momento sia ormai arrivato, da celebrare insieme alla riforma del Csm al fine di depontenziare le correnti. Ovviamente le spinte per la separazione vengono da lontano, sia a livello storico che geografico: gli investitori esteri mettono ogni volta al primo posto l'incancrenito sistema giudiziario tra le ragioni per cui non vogliono venire in Italia. Dieci anni per risolvere un contenzioso civile è il deterrente più grande. E Dio solo sa quanto serve ora l'investimento degli stranieri. Il messaggio è comunque arrivato tra i ranghi: la magistratura non potrà essere più quella dell'era Palamara. E nei prossimi mesi è in arrivo la sentenza sul caso Descalzi-Eni...

Giacomo Amadori per “la Verità” il 21 ottobre 2020. I risultati delle elezioni per il nuovo Consiglio direttivo centrale (Cdc) dell'Associazione nazionale magistrati, il parlamentino del sindacato dei giudici, mandano un bel segnale ai vertici della magistratura italiana. La maggioranza delle toghe non è influenzabile dalle campagne di stampa e non basta controllare i principali quotidiani per capovolgere i rapporti di forza dentro alle correnti. E se Luca Palamara, dopo essere stato radiato dalla magistratura, avrà da qui in poi molto tempo libero, potrebbe proporre qualche pomeriggio ai giardinetti a un altro umarell uscito con le ossa rotte dalle elezioni, quel Piercamillo Davigo prepensionato suo malgrado dal Consiglio superiore della magistratura. Nel 2016 le elezioni del Cdc dell'Anm avevano sancito il trionfo di Palamara, che aveva trascinato la sua corrente, Unicost, a un trionfo elettorale con pochi precedenti: 13 seggi e 2522 voti di lista su 7272 totali. Distaccata di ben 700 voti c'era la lista dei magistrati progressisti di Area, storici alleati della Unicost palamariana. Nel 2016 nella maggioranza che governa l'associazione inizialmente entrano tutte le correnti. Dopo pochi mesi, però, esce dalla giunta Autonomia & indipendenza, il gruppo fondato da Davigo. Infine, quando scoppia il caso Palamara e vengono pubblicate sui quotidiani le conversazioni della riunione dell'hotel Champagne, a cui prende parte anche Cosimo Ferri, parlamentare del Pd e big della corrente conservatrice di Magistratura indipendente, le toghe moderate finiscono all'opposizione. Unicost tenta un'operazione di maquillage proponendosi ai suoi elettori come corrente depalamarizzata. Area cavalca lo scandalo presentandosi come l'unico gruppo in grado di contrapporsi alle logiche spartitorie dei Palamara e dei Ferri. A&i sembra la più attrezzata a manovrare la ghigliottina, anche perché Davigo guida il processo a Palamara e porta fuori dal guado dello scandalo, a colpi di distinguo e cavilli, gli altri consiglieri del Csm finiti nelle chat del magistrato radiato, in primis il vicepresidente David Ermini. Tutto ciò non è, però, bastato a evitargli il pensionamento, deciso lunedì dal parlamentino dei giudici. Le elezioni concluse ieri dimostrano che le strategie da pentapartito di chi aveva banchettato con le spoglie di Palamara non hanno pagato. Area, la nuova Unicost e A&I, ovvero l'insieme delle forze che più hanno sostenuto l'operazione di esclusione dalla stanza dei bottoni delle toghe anche solo sospettate di intelligenza con l'asse Palamara-Ferri, hanno preso una sonora batosta. I loro seggi, sommati, sono scesi da 28 a 22 (per avere la maggioranza in consiglio ne bastano comunque 19) e i voti addirittura da 5629 a 3746 (su 6045). Area ha guadagnato due posti nel Cdc (il più votato è stato il presidente uscente dell'Anm Luca Poniz - 739 preferenze-), ma ha perso una cinquantina di voti rispetto al 2016 e addirittura 486 se confrontati con il 2012. Insomma lo zoccolo duro delle toghe di sinistra piano piano si sta erodendo. Resta loro la speranza di andare a pescare nel bacino di Unicost, che dopo il caso Palamara, è stata la più penalizzata: ha perso oltre il 50 per cento dell'elettorato ed è scesa a 7 seggi (Alessandra Maddalena, con 412 preferenze, la più votata). Vedere il segretario generale Francesco Cananzi, l'uomo che spediva i pizzini con le preferenze per le nomine in Campania, presentarsi come il nuovo che avanza non ha portato risultati. Ma la vera débâcle è stato quella di A&i: le sue preferenze sono passate da 1271 (nel 2016 la lista venne trascinata da Davigo) a 749 (quasi la metà -363 voti- sono stati raccolti dall'ex consigliere del Csm Aldo Morgigni). Pietro Nenni diceva: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura». L'adagio è stato confermato dalle toghe del movimento Articolocentouno, una lista fuori dalle correnti che sostiene il sorteggio dei consiglieri del Csm e la rotazione dei dirigenti di tribunali e procure. Nel 2012 avevano conquistato un seggio, oggi ben 4. Due saranno occupati da Andrea Reale, giudice a Ragusa (296 preferenze) e Giuliano Castiglia (222), gip a Palermo, da un anno i grilli parlanti della magistratura con i loro commenti sulle mailing list e i loro articoli sul blog Uguale per tutti, con cui hanno denunciato l'ipocrisia di tanti colleghi che pensavano che il sacrificio di Palamara fosse sufficiente a voltare pagina. Reale ieri ha commentato: «Si è finalmente sentita la voce degli indipendenti. È un buon risultato, ma c'è ancora tanta strada da fare sul piano culturale e associativo». Altra sorpresa di queste elezioni è l'inaspettato exploit di Magistratura indipendente, che sembrava essere stata rasa al suolo dalle intercettazioni dello Champagne, che portarono alle dimissioni del presidente dell'Anm Pasquale Grasso, del segretario Antonello Racanelli e dei consiglieri del Csm Antonio Lepre e Corrado Cartoni. Mi ha portato i propri seggi da 8 a 10 (il primo della lista è Salvatore Casciaro, con 415 voti), ma al contrario di Area ha visto crescere anche le preferenze. È chiaro che la magistratura sta andando verso un bipolarismo destra-sinistra, eliminando dal campo la vecchia Balena bianca di Unicost. L'elettorato centrista, di fronte alla prospettiva di fare da predellino ad Area, ha preferito cambiare schieramento o non votare. Con questo trend di smottamento a sinistra, alle prossime elezioni del Csm, Unicost rischia di far eleggere a Palazzo dei marescialli solo due giudici di merito e neanche un pubblico ministero. Resta da capire che cosa resterà di A&i. L'impressione di molti e che, con il pensionamento di Davigo, si scioglierà in fretta e che Sebastiano Ardita, ex delfino di Ferri, potrebbe guidare, in questo nuovo scenario bipolare, il ritorno a casa dei fuoriusciti di Mi. Anche perché Ardita, pm catanese, si dice sia stato scaricato da Davigo, nonostante abbia votato contro il suo pensionamento. Davanti agli inquirenti di Perugia l'ex campione di Mani pulite avrebbe dichiarato che i rapporti tra Ardita e l'ex pm Stefano Fava, autore di un esposto contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, lo avevano fatto arrabbiare. Un'ammissione che potrebbe essere sufficiente a segnare una frattura definitiva tra i due.

Ridimensionata la sua corrente. Pm stufi di Davigo: la sua corrente (Autonomia e indipendenza) esce a pezzi dalle elezioni nei Consigli giudiziari. Paolo Comi Il Riformista il 17 Ottobre 2020. Il primo effetto del Palamaragate? La sconfitta dei giustizialisti in toga. Ad iniziare da Piercamillo Davigo. La nemesi si è consumata questo fine settimana con le elezioni per il rinnovo della componente togata all’interno dei Consigli giudiziari, le “propaggini” del Csm nei vari distretti di Corte d’Appello. Elezioni poco pubblicizzate sui media ma importantissime in quanto i Consigli giudiziari si occupano di redigere i pareri per le valutazioni di professionalità, di mettere il visto sulle domande di tramutamento, di valutare i profili disciplinari dei magistrati. Il Csm, ad esempio, quando si tratta di nominare un magistrato per un incarico direttivo, fa molto affidamento su cosa è stato scritto nei suoi confronti dal Consiglio giudiziario di appartenenza. Le elezioni per il rinnovo dei Consigli giudiziari, dopo lo tsunami che aveva travolto la magistratura lo scorso anno, avrebbero dovuto “premiare” le correnti che denunciarono indignate quanto accaduto all’hotel Champagne di Roma. Per descrivere il celebre incontro al quale aveva partecipato l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, cinque consiglieri del Csm e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, venne scomodata addirittura la loggia P2 di Licio Gelli. Il risultato delle elezioni ha, però, deluso le aspettative della vigilia, segno evidente che molti magistrati non si sono fatti condizionare dalla campagna di stampa, con scientifica diffusione di intercettazioni, che cavalcò nel 2019 lo scandalo. Alcune di queste intercettazioni, poi, si rivelarono dei tarocchi, come nel caso della frase di Luca Lotti, “ragazzi si vira su Viola”, a proposito di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze all’epoca candidato per la Procura di Roma, mai pronunciata dal politico toscano. Un “errore” di trascrizione da parte del Gico della guardia di finanza che bruciò la nomina di Viola, spalancando le porte a Michele Prestipino, fedelissimo di Giuseppe Pignatone. La corrente di Davigo, Autonomia e indipendenza, è uscita a pezzi dalla tornata elettorale. Alcuni dati fotografano la disfatta. Nel distretto di Milano, quello che, con l’inchiesta Mani pulite, ha reso celebre Davigo, solo 89 giudici su 624 hanno votato i candidati davighiani. In Corte di Cassazione, l’ultima sede di servizio di Davigo come presidente di sezione, i voti sono stati 32 su 331. Nel distretto di Roma, il più importante e dove si è consumato il Palamaragate, su 716 votanti, le preferenze ai davighiani sono state 37. A Firenze, infine, A&I non è pervenuta: zero i voti. Erano stati 50 alle passate elezioni. Numeri bassissimi se rapportati alle forza che ha adesso la corrente di Davigo all’interno del Csm dopo le dimissioni dei cinque togati dell’hotel Champagne: cinque componenti, considerando anche il pm antimafia Nino Di Matteo eletto come indipendente nelle liste di A&I, su sedici complessivi. L’attuale compagine del Csm, che non riflette la volontà degli elettori, deciderà comunque le nomine nei prossimi due anni. I davighiani arrivavano a queste elezioni con il vento in poppa: furono loro a chiedere, dopo l’esplosione del Palamaragate, la testa del presidente dell’Anm Pasquale Grasso che aveva come unica colpa quella di essere esponente di Magistratura indipendente, la corrente di tre dei cinque togati dello Champagne. Grande nervosismo viene segnalato da parte degli sconfitti. Un deja-vu di quanto accaduto lo scorso quando venne eletto Antonio D’Amato, esponente di Magistratura indipendente, al Csm. «L’esito delle votazioni restituisce un’immagine della magistratura in cui una parte degli elettori continua a non volersi affrancare dalle vecchie logiche clientelari», dissero gli avversari. Davigo, però, può consolarsi con la campagna pancia a terra che sta portando avanti da settimane il Fatto Quotidiano per scongiurare il pericolo che il prossimo 20 ottobre, al compimento dei settant’anni, debba lasciare il Csm. Ieri è stato il turno di Antonio Esposito, presidente del collegio di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi e da tempo editorialista del quotidiano di Marco Travaglio. Il giorno prima analogo compito era toccato al togato Giuseppe Marra, davighiano della prima ora.  «Sono sicuro che ne uscirai presto a testa alta», scrisse Marra a Palamara, il giorno che i giornali diedero la notizia dell’indagine nei suoi confronti. Non è stato, a posteriori, un messaggio di buon auspicio dal momento che domani Palamara sarà espulso dalla magistratura dalla disciplinare del Csm dove siede proprio Davigo.

Davigo non molla la poltrona del Csm e presenta la sua memoria. Il Dubbio il 17 settembre 2020. Il magistrato compirà il prossimo 20 ottobre i settanta anni. Età massima per il trattenimento in servizio delle toghe. A suo giudizio, però, l’incarico di togato al Csm non sarebbe soggetto alla scure dell’anagrafe. La commissione “Verifica titoli” del Consiglio superiore della magistratura ha iniziato ieri lo studio del dossier relativo a Piercamillo Davigo. Il magistrato compirà il prossimo 20 ottobre i settanta anni. Età massima per il trattenimento in servizio delle toghe da quando l’allora premier Matteo Renzi decise di modificare il termine, voluto dal governo Berlusconi, dei settantacinque anni. L’argomento, sulla carta molto tecnico, ha dei risvolti importanti per il funzionamento dell’organo di autogoverno. Davigo, infatti, è componente della commissione per gli Incarichi direttivi e della sezione disciplinare. Ruoli strategici e di assoluta importanza a Palazzo dei Marescialli. L’ex pm di Mani pulite già nelle scorse settimane aveva sollecitato la commissione a una positiva decisione, anche con una memoria in cui richiama le ragioni secondo cui ritiene di poter restare consigliere superiore anche dopo il congedo. A suo giudizio, infatti, l’incarico di togato al Csm non sarebbe soggetto alla scure dell’anagrafe. Giacché, è questa la tesi, i requisiti, fra cui quello dell’età, dovevano essere posseduti all’atto della elezione a piazza Indipendenza: una volta eletto, si sarebbe dovuto tenere conto solo della durata quadriennale dell’incarico. Di diverso avviso, invece, molti giuristi, i quali richiamavano sul punto anche una sentenza del Consiglio di Stato del 2011. Il direttore della rivista di Magistratura democratica Questione giustizia, Nello Rossi, all’inizio dell’estate aveva aperto il dibattito sul tema. La sua tesi è che Davigo debba lasciare. Fra i motivi, l’impossibilità di essere sanzionato qualora avesse commesso un illecito di carattere disciplinare. La discussione, va detto, si era posta già quando Davigo accettò la candidatura, essendo noto che avrebbe compiuto settant’anni a metà mandato. In un’intervista a questo giornale, l’allora leader di Unicost Roberto Carrelli Palombi, presidente del Tribunale di Siena, aveva manifestato perplessità sulla possibilità, pur trattandosi di un incarico elettivo, di derogare alle norme sullo status giuridico dei magistrati. Il plebiscito di Davigo, oltre 2.500 voti, aveva fatto dimenticare la questione che, però, si è riproposta. L’ultima parola spetterà al Plenum. L’Ufficio studi del Csm aveva redatto anni addietro un parere, tornato di attualità, sul tema dell’età pensionabile dei magistrati eletti al Csm, evidenziando i vari scenari. «Non sollecita alcuna scelta al plenum», è stato chiarito. In caso di decadenza di Davigo per mancanza dei requisiti, il suo posto verrebbe preso dal primo dei non eletti alle elezioni del 2018. È il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. All’epoca si era candidato con Unicost. Negli ultimi mesi, dopo lo scoppio dell’affaire Palamara, era però uscito dalla corrente di centro dell’Anm. A proposito dell’Associazione, dopo le polemiche degli ultimi giorni è stato prorogato il termine per la registrazione sulla piattaforma per le elezioni dell’Anm in calendario il 21 e 22 ottobre. Il termine inizialmente previsto per questo fine settimana è stato spostato al primo del mese prossimo.

Magistratura democratica darà battaglia. Davigo, “il Principe abusivo”: non molla la poltrona e spacca il Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Anche il Quirinale irrompe, fornendo un assist provvidenziale sul tormentone dell’anno: il pensionamento di Piercamillo Davigo. Il prossimo 20 ottobre la toga preferita da Marco Travaglio compirà settant’anni e, come tutti i magistrati, dovrebbe andare in pensione. Il condizionale è d’obbligo. Davigo, infatti, non è un magistrato come gli altri ma è un consigliere del Csm. L’elezione a piazza Indipendenza avvenuta nel 2018 con oltre 2500 voti supererebbe, secondo l’ex pm di Mani pulite, l’handicap anagrafico in quanto il mandato nell’Organo di autogoverno delle toghe ha durata quadriennale. Quindi fino al 2022 nessun problema. A supportare la tesi davighiana ci sarebbe adesso Stefano Erbani, storico esponente di Magistratura democratica, e ora potente consigliere giuridico di Sergio Mattarella che del Csm è il capo. Erbani nel 2011 era all’ufficio studi del Csm e avrebbe scritto un parere, rispolverato per l’occasione, su una vicenda abbastanza simile a questa. La notizia è stata riportata ieri dalla Stampa, secondo cui anche Davigo, a sua volta, avrebbe scritto una memoria di suo pugno pro permanenza al Csm. L’assist di Erbani si scontra però con un altro “parere” scritto da un’altra storica toga di Magistratura democratica, Nello Rossi. Rossi, già avvocato generale dello Stato e ora nel direttivo della Scuola superiore della magistratura, è il direttore di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica. In un suo articolo a proposito dell’ulteriore permanenza di Davigo a piazza Indipendenza, Rossi aveva evidenziato come ciò fosse «in netto contrasto con la legalità e la funzionalità dell’organo e con le esigenze di rappresentatività e di legittimazione che devono caratterizzare l’attività del Consiglio Superiore», rappresentando una decisione “sbagliata ed incomprensibile”. «Davvero si pensa che Piercamillo Davigo possa rimanere in carica al Consiglio Superiore anche quando non sarà più magistrato?», si interrogava Rossi. Il ragionamento di Rossi a detta di molti è ineccepibile: «Chi è eletto al Csm da tutti magistrati in servizio deve essere a sua volta un magistrato in servizio». «Il possesso – effettivo ed attuale – dello status di magistrato nell’esercizio delle funzioni è un requisito indispensabile perché sussista la capacità elettorale passiva; e ciò in coerenza con le disposizioni costituzionali», ricordava Rossi, evidenziando che «la cessazione dello status di magistrato determina la perdita del requisito, indispensabile, della capacità elettorale passiva e produce di conseguenza l’automatica decadenza dalla carica di consigliere superiore». Rossi aveva anche smentito la vulgata ricorrente secondo cui sarebbe esistito il “precedente” di un magistrato pensionato al Csm: quello di Davigo sarebbe il primo caso da quando esiste l’Organo di autogoverno delle toghe. «Il componente del Consiglio superiore ‘pensionato’ si troverebbe in una posizione del tutto anomala ed eccentrica sia rispetto ai consiglieri togati del Consiglio sia rispetto alla generalità dei magistrati», puntualizzava Rossi. E quindi: «A differenza degli uni e degli altri non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare». Il “già pensionato ma ancora consigliere superiore” sarebbe libero dai fondamentali doveri propri del magistrato ed esente da ogni possibile sanzione disciplinare per la loro violazione. Il “salvacondotto” avrebbe comunque un paradosso in quanto «nella veste di giudice disciplinare (Davigo) sarebbe chiamato a giudicare (non più i suoi pari ma) magistrati in servizio o fuori ruolo e gli stessi componenti togati del Consiglio ancora sottoposti alla giurisdizione disciplinare». «La figura che emerge è quella di un “extraneus” alla magistratura che “soggettivamente” potrà mantenere condotte ineccepibili e meritevoli del massimo apprezzamento ma i cui comportamenti nella vita dell’istituzione consiliare resteranno comunque insindacabili e non sanzionabili se restano al di sotto della soglia della rilevanza penale», chiariva Rossi. E il plebiscito elettorale? Non conta. «Se a sostegno della perdurante presenza di Davigo in Consiglio si dovesse invocare “esclusivamente” il successo elettorale legittimamente conseguito nelle ultime elezioni, ritenendo che esso risolva in tronco ogni altra questione di diritto e di opportunità, allora dovremmo trarne una inquietante conclusione: che sono penetrati in magistratura la mentalità e lo stile di non pochi uomini politici del nostro Paese per i quali ogni principio e ogni regola di funzionamento delle istituzioni – e financo ogni discussione – possono essere spazzati via dal risultato elettorale». In conclusione, se Davigo proseguisse la permanenza al Csm rischierebbe “di sottoporre a nuove tensioni e contraddizioni un organo già scosso dai fatti dell’ultimo anno e che deve essere risolta correttamente per consentire al Consiglio di continuare a svolgere positivamente i suoi fondamentali compiti». In attesa che i colleghi decidano se ascoltare Erbani o Rossi, l’ultima parola spetta al Plenum, oggi pomeriggio Davigo sarà siederà nel collegio disciplinare che dovrà giudicare Luca Palamara e gli ex consiglieri del Csm che parteciparono al dopo cena di maggio 2019 con Cosimo Ferri e Luca Lotti.

Nasce la lobby pro Davigo: dal Fatto a Repubblica, da FdI al PD tutti uniti per salvare il "dottor Sottile". Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Agosto 2020. A difesa di Piercamillo Davigo è scattata una campagna politica mediatica come raramente se ne sono viste. Ci sono pochissimi precedenti. Giornali e partiti storicamente avversari, e lontanissimi tra loro per orientamenti culturali e politici, si sono uniti per combattere contro la possibilità che ad ottobre Davigo debba lasciare il Csm. È difficile non pensare a una regia unica, e magari si potrebbe avere anche qualche sospetto su dove risieda questa regia. Ieri, in contemporanea, sono intervenuti due giornali che di solito se le danno di santa ragione. Il Fatto e Repubblica. Gli scontri tra loro nascono nella notte dei tempi, da quando Peppe D’Avanzo attaccò Travaglio (il quale mi pare che avesse definito l’on. Schifani un verme e una muffa) invitandolo a un linguaggio più civile e ricordandogli delle vacanze che lo stesso Travaglio, pare, passò insieme a un poliziotto che poi finì sotto processo e fu anche accusato – credo ingiustamente – di concorso esterno in associazione mafiosa. Da allora quante se ne sono dette i due giornali. Ancora recentemente Travaglio ha lanciato decine di dardi avvelenati, in particolare contro il direttore Molinari (che lui chiama “sambuca” per un arguto accostamento al nome di una marca di liquori) e contro Stefano Folli, accusato invece di pettinarsi in modo eccessivamente accurato. Ieri invece due articoli fotocopia, sui due giornali, di due delle firme più prestigiose e specializzate in giornalismo giudiziario e di Procura: Gianni Barbacetto e Liana Milella. Tutti e due spiegano che Davigo ha diritto a restare nel Csm anche dopo aver compiuto 70 anni, a ottobre, e chi si oppone è, più o meno, un fellone. Breve riassunto. Davigo a ottobre compie 70 anni. La legge prevede che quel giorno vada in pensione e non sia più magistrato. Nessun magistrato può restare in carica dopo i 70 anni. Ma se non è più magistrato, può restare a rappresentare i magistrati nel Csm? Il Consiglio di Stato – come spieghiamo nell’articolo qui accanto – ha detto chiaramente di no. E dicono di no gli uffici del Csm. Dice di no anche Magistratura Democratica, che sin qui è stata la corrente più amica di Davigo, ma che ha dovuto cedere di fronte all’evidenza delle regole e a quella vecchia mania di una parte della magistratura di chiederne il rispetto. Lui però – lui Davigo – non ha nessuna intenzione di mollare perché ritiene, probabilmente, che la sua missione sia sacra e che non possa interrompersi. E allora mobilita forze a sua difesa (e se non è lui a mobilitarle è qualche suo amico). Pochi mesi fa alla Camera dei deputati furono presentati più o meno di nascosto degli emendamenti ad alcuni decreti sull’emergenza Covid. In questi emendamenti si prevedeva il rinvio di due anni della pensione dei magistrati. Noi del Riformista denunciammo l’iniziativa, ipotizzando – con estrema malizia – che fossero emendamenti pro-Davigo. Le commissioni parlamentari, comunque, li dichiararono inammissibili, perché valutarono che non fossero molto attinenti le pensioni dei magistrati e la lotta alle malattie. La cosa curiosa è che i firmatari di questi emendamenti furono alcuni parlamentari di Fratelli d’Italia e alcuni parlamentari del Pd. Con due iniziative indipendenti l’una dall’altra. Che gli eredi del Pci e gli eredi del Msi si unissero in una battaglia parlamentare non succedeva dai tempi della lotta ai tagli della scala mobile (1984) o addirittura dai tempi della battaglia contro la legge elettorale di De Gasperi (la cosiddetta legge-truffa) del 1953. Da dove nascono questi nuovi e imprevedibili affratellamenti politico-editoriali? Non si sa bene, però la coincidenza lascia parecchio da riflettere sulla potenza di questo Davigo, che forse è superiore a quello che uno possa immaginare sentendolo parlare…

Maurizio Tortorella per ''La Verità'' il 7 agosto 2020. Il Consiglio di Stato l'ha sentenziato, forte e chiaro: è «un fatto scontato» che un magistrato in pensione non possa né debba far parte del Consiglio superiore della magistratura. La sentenza è di quasi nove anni fa, quindi non riguarda personalmente Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani pulite, oggi presidente della seconda sezione penale della Cassazione nonché fondatore e leader della corrente Autonomia & indipendenza, sulla cui permanenza al Csm si dibatte da mesi. Questo non toglie però che il supremo organo giurisdizionale della giustizia amministrativa abbia stabilito senza tentennamenti che questa è la regola: il magistrato che va in pensione esce dal Csm. «Il fatto che il legislatore non abbia espressamente previsto la cessazione dall'ordine giudiziario per quiescenza fra le cause di cessazione della carica di componente del Csm», così si legge nella sentenza, «dipende non già da una ritenuta irrilevanza del collocamento a riposo, ma dall'essere addirittura scontato che la perdita dello status di magistrato in servizio, comportando il venir meno del presupposto stesso della partecipazione all'autogoverno (della magistratura, ndr), è ostativa alla prosecuzione dell'esercizio delle relative funzioni in seno all'organo consiliare». Nella sentenza (per la cronaca: la numero 3182 del 16 novembre 2011) i supremi giudici amministrativi aggiungevano che se «la gestione e l'amministrazione di una determinata istituzione di autogoverno è affidata ai suoi stessi esponenti, nella specie attraverso un organo costituito in base al principio di rappresentatività democratica (cioè il Csm, ndr), ne discende che la qualità di appartenente all'istituzione medesima costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile per l'esercizio della funzione di autogoverno, e non solo per il mero accesso agli organi che la esercitano». La sentenza, insomma, sembra poter porre fine a mesi di polemiche sulla permanenza di Davigo nel Csm. Eletto nel luglio 2018, due anni dopo Davigo ne è divenuto membro ancor più importante: dall'autunno scorso, grazie al successo di A&i nelle elezioni suppletive causate dalle dimissioni di cinque membri togati, travolti dallo scandalo «Magistratopoli» che nel maggio 2019 aveva aperto uno spiraglio sulle pratiche lottizzatrici praticate dalle correnti della magistratura, l'ex pm di Mani pulite guida un gruppo forte di ben cinque membri togati su 16. Oggi, soprattutto, Davigo fa parte della cruciale sezione disciplinare che dal prossimo 17 settembre dovrà giudicare proprio sullo scandalo delle correnti: un processo interno che vede «incolpati» Luca Palamara, il magistrato romano cui cellulare intercettato ha scoperchiato il mercato di nomine e promozioni decise dal Csm; Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e oggi parlamentare di Italia viva; e i cinque ex membri del Consiglio finiti nella bufera nel 2019. Il problema, però, è che il prossimo 20 ottobre Davigo compirà 70 anni, quindi da quel giorno andrà in pensione. Ma il fondatore di A&i non ha la minima intenzione di lasciare il seggio. A difesa della sua permanenza in carica si sono schierati il Fatto quotidiano e Repubblica. Hanno scritto che Davigo è in una botte di ferro perché l'articolo 104 della Costituzione prevede che «i membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili». Contro la permanenza di Davigo nel Csm, a fine luglio, si è schierata solo Magistratura democratica, la corrente di sinistra. Nello Rossi, già procuratore aggiunto a Roma e direttore di Questione giustizia, la rivista online di Md, obietta che «la norma costituzionale si riferisce alla durata dell'organo» e ricorda che in passato «è già stata respinta la pretesa di componenti del Csm di restare in carica per un intero quadriennio nei casi in cui erano subentrati a metà mandato». Aggiunge Rossi: «Sarebbe plausibile che un magistrato, uscito dall'ordine giudiziario perché raggiunto da una sentenza di condanna o perché dimissionario, pretendesse di continuare a essere componente del Csm?». Davigo, fin qui, fa spallucce. A suo dire, non esistono norme capaci di scalzarlo. Del resto, contro di lui è finito in nulla anche un tentativo di ricusazione: a presentarlo al Csm era stato proprio Palamara, il quale aveva chiamato lo stesso Davigo tra i suoi testimoni. Il 31 luglio la commissione disciplinare, con una decisione controversa, ha respinto anche la ricusazione. Vedremo ora se una sentenza del Consiglio di Stato, sia pure vecchia di nove anni, servirà a modificare qualcosa.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “la Verità” il 22 luglio 2020. A Milano, ai tempi del pool di Mani pulite, era soprannominato «Piercavillo» Davigo per quella capacità di spaccare in quattro il capello da giurista di rango. Ma ieri, forse, ha chiesto troppo anche alla sua testa fina per tentare di uscire dall'angolo in cui lo aveva ficcato Luca Palamara con la sua richiesta di ricusazione. L'ex presidente dell'Anm, oggi indagato a Perugia, ritiene infatti che Piercamillo Davigo non possa essere uno dei componenti della sezione disciplinare del Csm che dovrà giudicarlo visto che è stato inserito nella lista testi della difesa di Palamara. L'avvocato Giaime Guizzi con l'istanza di ricusazione del 17 luglio scorso citava altri due testimoni, i magistrati Stefano Fava ed Erminio Amelio, i quali si incontrarono nel marzo 2019 con Davigo e Sebastiano Ardita, altro consigliere del Csm, per discutere della candidatura di Fava nella corrente di Autonomia&indipendenza, fondata dallo stesso Davigo, ma anche per parlare dell'esposto di Fava contro l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Ma se Davigo e Ardita sapevano già dell'esposto a fine marzo (quando ci fu l'incontro), Palamara non potrebbe essere accusato di aver divulgato la notizia dell'arrivo della denuncia di Fava al Csm. Eppure Davigo ieri ha dichiarato di non ravvisare motivi d'astensione e in un minuto d'intervento è parso chiaro a tutti che Piercavillo ha provato a distinguere la propria posizione da quella di Ardita (che incontrò Fava anche successivamente), scaricando il collega che, tra l'altro, ha fatto parte del collegio che ha deciso la sospensione cautelare di Palamara dalle funzioni e dallo stipendio: «Nella stessa istanza si distingue il colloquio che avrebbe avuto il dottor Fava con me da quello avuto con altro componente del consiglio e a mio parere alla luce dello stesso testo dell'istanza solo il colloquio avuto con l'altro componente del consiglio potrebbe avere rilevanza rispetto ai fatti contestati in questa sede» ha dichiarato Davigo con voce incrinata dall'emozione. E ha aggiunto che, invece, non avrebbero rilevanza «quelli di cui avrei parlato io». Poi ha concluso: «Non ravviso un motivo di astensione». Davigo, che dovrebbe andare in pensione a ottobre, ha dato l'impressione di essere pronto a seguire il procedimento almeno sino a dicembre, mese in cui sono già state calendarizzate delle udienze. Piercavillo ha fatto una sola concessione, bontà sua: «Ovviamente non compete a me in ordine alla ricusazione». Infatti a decidere sarà un nuovo collegio, in cui subentrerà con decreto del vicepresidente David Ermini, a sua volta astenuto, un sostituto pro tempore. Sulla prima udienza del procedimento disciplinare a Luca Palamara, le istanze di ricusazione hanno avuto un notevole peso. Tanto che la prossima udienza per Palamara è stata fissata al 15 settembre (anche per il legittimo impedimento invocato dal suo avvocato Guizzi). Due richieste di ricusazione sono state presentate anche dal deputato di Italia viva Cosimo Ferri e anche per il parlamentare ed ex giudice l'udienza è slittata a metà settembre. La prima istanza di ricusazione coinvolge tutti i membri del Csm in carica fino alla data del 9 maggio 2019. La difesa di Ferri li ha citati tutti come testimoni in relazione al capo 1 di incolpazione che lo riguarda, ossia l'accusa di aver interferito sulle attività della quinta commissione. Gli stessi consiglieri che nella tesi accusatoria vengono individuati come possibili parti lese dovranno dunque essere sentiti nel procedimento per verificare, questa è la tesi di Ferri, se quelle interferenze ci siano state. La seconda istanza di ricusazione riguarda il membro togato di Area Elisabetta Chinaglia, alla quale vengono contestate alcune sue dichiarazioni rilasciate durante un dibattito (trasmesso da Radio Radicale) di presentazione per la sua candidatura alle elezioni suppletive di Palazzo dei Marescialli. Era il 16 novembre 2019 e secondo Ferri «il parere della dottoressa Chinaglia sulle condotte ascritte al sottoscritto è inequivocabile, si risolve in una chiara anticipazione del giudizio e non garantisce comunque in alcun modo l'imparzialità e la terzietà della medesima». Per esempio laddove dice: «Il ruolo politico del Consiglio superiore significa non che i componenti [...] fanno la politica nelle cene o nei bar o in altri luoghi» oppure quando critica il vecchio presidente dell'Anm Pasquale Grasso, di Magistratura indipendente, «il gruppo che non si è distaccato da determinati fatti, non si è distaccato da Cosimo Ferri». Nel corso dell'udienza di ieri la procura generale della Cassazione si è espressa sulle due istanze dichiarandole «manifestamente inammissibili», però, la decisione finale spetta a un nuovo collegio della disciplinare. Capitolo a parte le intercettazioni che riguardano lo stesso Ferri, in quanto parlamentare. Il collegio valuterà la richiesta presentata dalla Procura generale della Cassazione alla Camera per l'utilizzo delle conversazioni captate. Prima di Ferri è toccato comparire di fronte alla sezione disciplinare ai cinque ex consiglieri del Csm. Che parteciparono all'ormai celebre dopocena dell'hotel Champagne del 9 maggio 2019, insieme a Palamara, Ferri e il deputato del Pd Luca Lotti, appuntamento in cui si discusse delle nomine di alcuni dei più importanti uffici giudiziari del Paese, in particolare quello della procura della Repubblica di Roma. Dei cinque incolpati in aula ieri c'erano solo Antonio Lepre e Pierluigi Morlini, assenti, invece, Luigi Spina, Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli (rappresentati dai loro legali). Anche per il fascicolo che riguarda i cinque ex membri togati è stato disposto il rinvio dell'udienza al 15 settembre, anche se per loro è bastata l'assenza, per impedimenti personali del presidente titolare del collegio, il laico del M5s Fulvio Gigliotti. Pure lui, però, potrebbe risultare incompatibile essendo stato citato come teste sia da Palamara che da Spina. Stilato anche il calendario del procedimento: dieci udienze tra settembre e dicembre.

CRI. LO. per “Libero Quotidiano” il 29 luglio 2020. Immaginate Piercamillo Davigo afono? Racconta egli stesso di avere ricevuto il brutto colpo al cavo rino-oro-faringeo, nel bel mezzo di uno o due pranzi fatali. Era a tavola, il magistrato, con il collega Stefano Fava (oggi giudice civile a Latina). In quell' occasione (era fine febbraio, inizio marzo 2019) il dottor Fava raccontò di una sua diatriba col procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. In odore di essere sostituito causa pensione. Dopo quei pranzi non casuali e a cui presero parte anche altri due magistrati, Stefano Fava presentò un esposto al Csm contro il procuratore in oggetto. Motivo: togliersi (a suo dire) la responsabilità rispetto a un presunto conflitto d' interessi fra lo stesso Giuseppe Pignatone e alcuni soggetti che Fava avrebbe voluto arrestare, contrariamente al suo capo che si era astenuto dalla cosa. Si parlò della faccenda durante due pranzi apparecchiati al ristorante Baccanale di Roma, presenti oltre a Davigo e Fava, anche i pm Erminio Amelio e Sebastiano Ardita, che ben conosceva la vicenda Pignatone. Un tema famigerato, perché sembra fare il paio con l' accusa di discredito verso il procuratore Pignatone contestata al pm ora più chiacchierato: Luca Palamara, intercettato dal trojan mentre gestiva le trame per piazzare i colleghi ai vertici degli Uffici giudiziari. E per questo sotto processo a Perugia per corruzione; oltre che davanti al Csm. Proprio a Palazzo dei Marescialli, dov' è in corso il procedimento disciplinare contro Palamara, figura Davigo nella rosa dei consiglieri togati chiamati a giudicarlo. E qui casca l' asino: Palamara, che ha citato Davigo come testimone dell' esposto presentato da Stefano Fava, ha chiesto di ricusare Davigo. Non può egli essere giudice e testimone al tempo stesso. Sembra evidente. Ma al Csm si sta battagliando su questo. Ieri la procura generale della Cassazione ha chiesto alla sezione disciplinare, che si è riservata di decidere, di rigettare la richiesta di ricusazione di Davigo come giudice di Palamara. Lui ha ribadito che non ci sta a fare un passo indietro e si ostina a volere giudicare l' ex presidente dell' Anm. Sono andato ai pranzi, ma ero afono ammette il consigliere Davigo. E a meno che non fosse stato anche sordo, il consigliere togato è stato testimone di quanto raccontato dal giudice Fava. Questi, a scanso di equivoco, ha messo a verbale la circostanza. Sottolineando, testuale, che Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, durante quel pranzo, avevano giudicato la faccenda Pignatone: «di indubbia rilevanza e meritevole di essere segnalata al Csm».  Stefano Fava ha pure rilasciato una lunga intervista a Libero, confermando e articolando la circostanza. Davigo ieri ha chiesto di depositare l' intervista al Csm. La difesa di Palamara ha accolto e commentato: «Piercamillo Davigo deve essere sentito come testimone nel processo disciplinare a carico di Luca Palamara perché insieme al consigliere Sebastiano Ardita è a conoscenza delle vicende dell' esposto del pm romano Stefano Fava nei confronti di Giuseppe Pignatone, relative alla sua mancata astensione su un procedimento penale. Astensione che ha poi determinato la presentazione di un esposto al Csm». Piercamillo c' era a tavola quando se ne è parlato, ma era afono. Dice. Basta per stabilire che non è un testimone?

Davigo: «Rapporti tesi con il potere politico dal ’92». Tangentopoli? Come una guerra. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Le parole del consigliere del csm in un verbale del 2012, quando fu ascoltato per il processo sulla trattativa Stato-Mafia. Tangentopoli come una guerra, in cui si era costretti a lavorare «sotto i bombardamenti», una guerra che  «non consentiva nessun tipo di vita privata». E da quella stagione che seppellì la prima repubblica  «i rapporti con il potere politico sono sempre stati tesi». Sono le parole del consigliere del csm Pier Camillo Davigo in un verbale del 20 settembre 2012  che ora la difesa del generale Mario mori chiede di acquisire per il processo sulla trattativa stato-Mafia. Parlando del forte conflitto con la classe politica dell’epoca Davigo  racconta di uno «scontro pubblico con il «presidente del consiglio» di allora «Giuliano Amato, perché il governo preparò, non ricordo se uno schema di disegno di legge o uno schema di decreto legge  in cui prevedeva la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti politici e disse che era quello che chiedevamo noi». «Allora il Procuratore capo di allora Francesco Saverio Borrelli lesse una dichiarazione alla stampa in cui disse: Noi non c’entriamo niente, ci auguriamo che il governo si assuma le sue responsabilità, facciano quello che credano ma non dicano che glielo abbiamo chiesto noi. Poi visto che ci hanno tirato in ballo se proprio volete la nostra opinione è esattamente il contrario di quello che bisognerebbe fare perché una delle valutazioni se depenalizzare o no è che è l’autorità che deve reprimere questi comportamenti, deve godere di indipendenza dai soggetti da reprimere». E ribadisce i rapporti «tesi con il potere» «già dal 1992».

Da liberoquotidiano.it il 12 febbraio 2020. A DiMartedì su La7 va in onda un siparietto tra Maria Elena Boschi e Piercamillo Davigo. Quest'ultimo sostiene che "il giorno più brutto nella mia vita di cittadino della Repubblica è stato quando Bettino Craxi sul finanziamento illecito disse in Parlamento: Qui lo avete fatto tutti. E nessuno si alzò per digli: Ma come ti permetti, io no". Lo studio di Giovanni Floris applaude, ma Davigo viene spento dalla Boschi, che replica con l'ironia: "Io non c'ero in Parlamento, all'epoca facevo le scuole medie". Come a dire, almeno su questo argomento non prendetevela con me e con Italia Viva.

La favola del puro Davigo e dei magistrati che si considerano migliori dei politici ma non vedono l’ora di emularli. Frank Cimini su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. C’è un manuale Cencelli dei magistrati e dice che Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm per un anno, una sorta di contratto a termine con incarico a rotazione per i leader di altre correnti in modo da non scontentare nessuno e accontentare tutti o quasi tutti. Si considerano i migliori, dicono peste e corna dei politici, ma in realtà non vedono l’ora di emularli. I politici vengono eletti anche se in realtà nominati dai vertici dei partiti, le toghe hanno solo vinto un concorso. È appena finita con il pensionamento la parabola dentro la categoria di Davigo del quale per anni articolesse perentorie e definitive, editoriali, pezzi di tg hanno raccontato di un magistrato inflessibile la solita favola trita e ritrita di quello che non guarda in faccia a nessuno. Eppure al vertice dell’Anm non ce lo aveva messo lo spirito santo, ma nessuno ha ricordato il “dettaglio” neanche nel momento dello scontro interno alla categoria che ha preceduto la decisione sul pensionamento. In realtà il merito cioè la colpa sta tutta in Mani pulite la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dov’è ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool. Davigo fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna. Davigo, tanto per ricordarne una tra tante, davanti al fascicolo sul generale Giampaolo Ganzer indagato per traffico di droga si inventò letteralmente la competenza di Bologna insieme alla collega Ilda Boccassini altra toga la cui fama va oltre tutte le galassie. La Cassazione si mise a ridere e rimandò il fascicolo su Ganzer a Milano. Insomma semplicemente Davigo e Boccassini non se la sentirono di indagare sull’allora potente capo del Ros dei carabinieri. Del resto si sa che in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza. Accadde così con Mani pulite dove ci furono interi tronconi di indagine dimenticati nei cassetti. Lo stesso è avvenuto in anni più recenti per Expo dove la procura di Milano se ne fregò dell’obbligatorietà dell’azione penale per salvare l’evento. Davigo come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no. Se non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca come ama sproloquiare il nostro ci sono indagati dai quali è meglio stare lontani e passare la palla a qualche collega. Ganzer infatti andò a giudizio e fu condannato in base a indagini fatte da altri. E adesso Piercamillo Davigo ci delizierà con i suoi “giardinetti”, ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddotto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena. Ma non sappiamo se sarà tutto proprio come prima, senza l’incarico e senza il potere che ne derivava.

Piercamillo Davigo, Frank Cimini al veleno: "Comparsate televisive e manette quotidiane", ma quale martire. Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm, ma pochi giorni fa il Csm ha votato per il suo pensionamento per limiti d'età nonostante il parere contrario dello stesso Davigo. Questa scelta è dovuta, secondo lo storico cronista giudiziario Frank Cimini, l'uomo che sa tutto sulla Procura milanese avendo seguito in prima linea gli intrighi di Tangentopoli, proprio a Mani pulite, "la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dove ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool", scrive il giornalista sul Riformista. "Davigo - ricorda Cimini - fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza". Davigo "come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no". Ma Cimini, infine conclude, che comunque Davigo nonostante la pensione non sparirà dalla ribalta, grazie anche a "ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddoto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena".

Frank Cimini per ''il Riformista'' il 21 ottobre 2020. C’è un manuale Cencelli dei magistrati e dice che Piercamillo Davigo è stato il numero uno dell’Anm per un anno, una sorta di contratto a termine con incarico a rotazione per i leader di altre correnti in modo da non scontentare nessuno e accontentare tutti o quasi tutti. Si considerano i migliori dicono peste e corna dei politici ma in realtà non vedono l’ora di emularli. I politici vengono eletti anche se in realtà nominati dai vertici dei partiti, le toghe hanno solo vinto un concorso. È appena finita con il pensionamento la parabola dentro la categoria di Davigo del quale per anni articolesse perentorie e definitive, editoriali, pezzi di tg hanno raccontato di un magistrato inflessibile la solita favola trita e ritrita di quello che non guarda in faccia a nessuno. Eppure al vertice dell’Anm non ce lo aveva messo lo spirito santo, ma nessuno ha ricordato il “dettaglio” neanche nel momento dello scontro interno alla categoria che ha preceduto la decisione sul pensionamento. In realtà il merito cioè la colpa sta tutta in Mani pulite la più grande presa per i fondelli della storia giudiziaria dov’è ci furono mille pesi e mille misure ma che godeva di buona stampa (eufemismo) perché gli editori a causa delle loro attività imprenditoriali erano tutti sotto lo schiaffo del mitico pool. Davigo fu protagonista di una stagione in cui lo stato di diritto finì in soffitta dopo essere già stato falcidiato anni prima in virtù della delega che la politica aveva dato ai giudici per risolvere il problema della sovversione interna. Davigo, tanto per ricordarne una tra tante, davanti al fascicolo sul generale Giampaolo Ganzer indagato per traffico di droga si inventò letteralmente la competenza di Bologna insieme alla collega Ilda Boccassini altra toga la cui fama va oltre tutte le galassie. La Cassazione si mise a ridere e rimandò il fascicolo su Ganzer a Milano. Insomma semplicemente Davigo e Boccassini non se la sentirono di indagare sull’allora potente capo del Ros dei carabinieri. Del resto si sa che in magistratura è possibile acquisire maggiore potere sia facendo le inchieste che non facendole a seconda della convenienza. Accadde così con Mani pulite dove ci furono interi tronconi di indagine dimenticati nei cassetti. Lo stesso è avvenuto in anni più recenti per Expo dove la procura di Milano se ne fregò dell’obbligatorietà dell’azione penale per salvare l’evento. Davigo come altri magistrati ha scelto quali inchieste fare e quali no. Se non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca come ama sproloquiare il nostro, ci sono indagati dai quali è meglio stare lontani e passare la palla a qualche collega. Ganzer infatti andò a giudizio e fu condannato in base a indagini fatte da altri. E adesso Piercamillo Davigo ci delizierà con i suoi “giardinetti”, ficcanti editoriali sul Manette Daily e comparsate televisive senza in pratica contraddittorio in cui ripeterà per l’ennesima volta l’aneddoto sul vicino che ti ruba l’argenteria e non devi aspettare la Cassazione per non invitarlo più a cena. Ma non sappiamo se sarà tutto proprio come prima, senza l’incarico e senza il potere che ne derivava.

Con la pensione di Davigo chiusa l’era di Mani Pulite. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Ottobre 2020. Piercamillo Davigo lascia la toga. O la toga lascia lui. Comunque finisca la vicenda della sua uscita dal Csm, il suo ricorso al Tar, il suo probabile ritorno come showman dai vari Formigli, comunque da due giorni Piercamillo Davigo non è più un magistrato. Un’era è finita. Quella di Mani Pulite di cui lui era il vero erede. L’era di quelli dalle manette facili, del “o parli o ti sbatto in galera e butto la chiave” (non l’ha inventato Salvini), e di quando si erano suicidati in 41 e uno di quei pm (non facciamo il nome solo perché non c’è più) disse che per fortuna qualcuno aveva ancora il senso dell’onore. Un gruppo di capitani coraggiosi, ma con i canini affilati. Saverio Borrelli, il capo, non c’è più. E neppure il suo vice, Gerardo D’Ambrosio. Mi è difficile serbarne lo stesso ricordo, anche umano, che avrei avuto di loro se fossero rimasti quelli che avevo conosciuto all’inizio del mio lavoro di cronista al palazzo di giustizia di Milano. Di D’Ambrosio, “zio Gerry”, ero anche stata amica, fino al 1992. Poi ci fu quella sorta di mutazione genetica che li rese famosi ma anche insopportabili. Così è finita che di Borrelli mi ricordo più il giorno in cui diede dell’ubriacone al ministro Biondi che non quello in cui si era avventurato – lui, il procuratore capo di Milano- nello scantinato della redazione del Manifesto dove lavoravo, per portarmi personalmente una sua precisazione su un articolo che avevo scritto. L’avevo descritto come un “uomo in grigio” e si era un po’ risentito. Ma senza prosopopea, quasi con umiltà. I canini li avrebbe tirati fuori molto tempo dopo, soprattutto nei confronti di Silvio Berlusconi, che non ebbe mai invece cattiveria o senso di vendetta contro di lui. Tanto che un giorno, quando gli avevo detto che Borrelli stava male, aveva sussurrato “Mi dispiace”. Forse gli era sfuggito che, molti anni dopo Mani Pulite, l’ex procuratore del “resistere resistere resistere” aveva dichiarato che, se avesse potuto prevedere che dopo lo sfascio della prima repubblica sarebbe arrivato Berlusconi, forse non avrebbe fatto niente. Con ciò confermando il ruolo politico del pool e di tutta quanta l’operazione Tangentopoli. Gerardo D’Ambrosio aveva forse i canini un po’ meno affilati, ma fu quello che svolse il ruolo più politico (forse anche partitico), spingendosi fino a cercare improbabilissime prove a favore dell’imputato Primo Greganti, cui fece fare qualcosa come seicento chilometri, da Roma a Milano, in dieci minuti. Dimostrando così che, benché la legge preveda, anzi lo imponga, che il pubblico ministero cerchi anche le prove a favore dell’imputato, questo accada solo in casi rarissimi e molto molto particolari. Davigo era proprio rimasto l’ultimo portatore di quel particolare modo di amministrare la giustizia che fu Mani Pulite. Nessuno come lui ha saputo sbatterci in faccia il fatto che siamo tutti colpevoli, ma quelli di noi che sono ancora a piede libero sono i furbetti che l’hanno fatta franca. Non pare pensarla più così Antonio Di Pietro, che lasciò la toga sbattendola da qualche parte in modo improvviso e rabbioso mentre era al culmine della sua carriera. Che poi trasformò in carriera politica. E che oggi, forse perché fa l’avvocato e comincia a capire che cosa si prova dall’altra parte, quando va in tv sembra un vecchio zio, un po’ sornione e molto saggio. Gherardo Colombo è quello che mostra la trasformazione più radicale. Anche se, per chi come me lo ha conosciuto piuttosto bene da prima, non è proprio una sorpresa. Prima di tutto perché Colombo è molto cattolico e ha un’inclinazione a far tracimare la sua rigorosa morale in moralismo. E anche perché, prima che si trovasse tra le mani la bomba politica che prenderà il nome di Tangentopoli, faceva parte di quel gruppo di “estremisti” della sinistra di Magistratura Democratica che erano davvero garantisti. Oggi fa l’editore, ma soprattutto si occupa del carcere nel gruppo La Nave di San Vittore sulla tossicodipendenza e collabora con Nessuno tocchi Caino. Si è reso conto anche dell’inutilità stessa del carcere. Non so se abbia anche fatto il passo successivo, perché in galera si finisce in genere dopo un processo più o meno giusto e purtroppo, come è accaduto in modo feroce con Mani Pulite, anche senza processo, in custodia cautelare. Capire che la pena non dove necessariamente coincidere con la privazione della libertà non sempre coincide con la consapevolezza del fatto che lo stesso processo è già in sé una pena. Francesco Greco è rimasto sulla tolda della nave. Ha raggiunto il posto che fu di Borrelli, procuratore capo di Milano. Non si sa se davvero la sua promozione sia entrata nel paniere delle trattative di Luca Palamara, probabilmente sì. È sempre stato un politico, ma anche lui come i suoi ex colleghi ha raggiunto un certo equilibrio. Quando era un semplice sostituto un po’ scanzonato e pigro detestava quelli come Armando Spataro che usavano il “pentitismo” come leva per le indagini e le chiamate in correità di Marco Barbone per fare gli arresti. Poi c’è stata Mani Pulite e anche lui era cambiato. Ma oggi Greco non direbbe mai frasi come quelle che escono in libertà dalla bocca di Davigo sui colpevoli che l’hanno fatta franca. Era Davigo l’ultimo del pool che distrusse la Prima Repubblica. Oggi, mentre lui lascia la toga, o la toga lascia lui, quel capitolo è proprio chiuso. Troppo tardi. Ma chiuso.

DAL 1992 AL 2020: LA STORIA DEL POOL.

17 febbraio 1992 – Il pm Antonio Di Pietro chiede e ottiene un ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, membro di primo piano del Psi

28 aprile 1992 – Francesco Cossiga si dimette da presidente della Repubblica

29 gennaio 1993 – Viene perquisita la segreteria amministrativa nazionale del Psi, in via Tomacelli a Roma

9 febbraio 1993 – Craxi lascia la segreteria del Partito socialista

10 febbraio 1993 – Claudio Martelli riceve l’avviso di garanzia, gli viene comunicato di essere indagato per la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, da cui il suo partito, il Psi, aveva attinto milioni di lire del “conto Protezione” di Licio Gelli, “gran burattinaio” della P2

1 marzo 1993 – Viene arrestato Primo Greganti, noto come il “compagno G”. Non collaborò mai con i giudici negando ogni addebito. L’8 maggio 2014 è stato nuovamente arrestato per tangenti legate all’Expo 2015

4 marzo 1993 – Viene arrestato Enzo Carra, esponente della Dc. Suscitano particolare clamore le foto del suo ingresso in aula con le manette ai polsi

16 marzo 1993 – Luca Leoni Orsenigo, deputato della Lega Nord, sventola nell’aula di Montecitorio un cappio, nell’esplicito riferimento alla necessità di fare pulizia di una classe politica corrotta

30 aprile 1993 – Il segretario del Partito socialista italiano Bettino Craxi, uscendo dall’Hotel Raphael, affronta i contestatori che lanciano una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine

20 luglio 1993 – Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Enel, si uccide soffocandosi con un sacchetto di plastica legato al collo con un laccio da scarpe. La sua morte scatena un acceso dibattito sull’utilizzo dello strumento della custodia cautelare da parte della magistratura

23 luglio 1993 – L’imprenditore Raul Gardini si suicida con un colpo di pistola alla testa

4 agosto 1993 – La Camera autorizza l’indagine su Bettino Craxi

6 dicembre 1994 – Antonio Di Pietro si dimette dalla magistratura. Nel ‘98 fonda Italia dei Valori

17 febbraio 2007 – Esattamente quindici anni dopo l’inizio dell’inchiesta Mani pulite, Gherardo Colombo comunica le sue dimissioni da magistrato

30 marzo 2014 – Muore il magistrato Gerardo D’Ambrosio, altro grande protagonista della stagione di Tangentopoli e membro del pool di Mani Pulite

20 luglio 2019 – Muore un altro protagonista dell’inchiesta Mani Pulite, il magistrato Francesco Saverio Borrelli, anche lui nel pool

19 ottobre 2020 – Piercamillo Davigo, altro membro storico del pool, va in pensione e lascia il suo ruolo da consigliere del Csm. I suoi colleghi si sono espressi con 13 voti contro, 6 a favore della sua permanenza in consiglio, 5 astensioni

Luca Palamara, il giudice Stefano Fava: "Il giorno in cui Davigo mi disse che..." Cristiana Lodi su Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. «Ha presente quattro persone sedute intorno a un tavolo di un metro per uno? Ecco, dieci centimetri a distanziarci l'uno dagli altri. All'epoca, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo 2019, non c'era l'esigenza del distanziamento per via del Covid. Se ha modo di passare in via Della Giuliana numero 59, può entrare in quel ristorante e verificare lei stessa lo spazio disponibile. Baccanale, si chiama. Ci siamo incontrati lì quel giorno».

Dica, dottor Stefano Fava, c'era anche Piercamillo Davigo a quel pranzo?

«Confermo. Fui invitato insieme con il dottor Sebastiano Ardita, che era entrato a fare parte della nuova corrente di Davigo. Entrambi mi avevano proposto di candidarmi per le elezioni dell'Associazione nazionale magistrati. Con noi c'era un quarto collega: il dottor Ermino Amelio. Fu proprio Erminio a presentarmi il dottor Ardita. Siamo andati al Baccanale poiché al solito ristorante, dove in genere andiamo noi magistrati, non c'era posto».

Stefano Fava, ex sostituto procuratore a Roma e oggi giudice civile a Latina, è indagato a Perugia. Rivelazione del segreto d'ufficio e favoreggiamento, le accuse. Al centro c'è sempre l'ex presidente dell'Anm, Luca Palamara. "Ricusatore", davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, del togato Piercamillo Davigo. Questi dovrebbe giudicarlo nel procedimento disciplinare cominciato due giorni fa a Palazzo dei Marescialli e subito rinviato. Palamara ha citato Davigo come testimone perché (a suo dire) sarebbe coinvolto nella stessa vicenda per la quale egli stesso è finito sotto processo al Csm. Ossia avere "screditato" l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

Dottore, è vero che lei, Davigo e gli altri, al ristorante avete discusso dei suoi contrasti con il Procuratore Giuseppe Pignatone, all'epoca a capo del suo Ufficio?

«Vero. Ho parlato ai colleghi delle divergenze di vedute all'interno del mio Ufficio e dei conflitti di interesse (da me segnalati) fra il Procuratore e alcuni indagati nei confronti dei quali pendeva una richiesta di custodia cautelare. Si trattava di una problematica di natura personale e familiare. La questione era se il Procuratore si dovesse astenere (come io ritenevo) nei procedimenti che riguardavano ben tre degli indagati in oggetto, tali Amara, Bigotti e Balistreri. Risultava che questi avessero conferito incarichi professionali al fratello del Procuratore, che fa l'avvocato e si chiama Roberto Pignatone. Insomma, io ritenevo che il capo del mio Ufficio si dovesse astenere. E a quel pranzo parlammo della faccenda e dei miei contrasti con Pignatone proprio per questa ragione. Ma voglio precisare».

Prego.

«Gli argomenti dei quali abbiamo parlato quel giorno al Baccanale erano e sono il risultato di un procedimento giudiziario (il 44630/16), culminato poi con una serie di arresti, che era già stato definito a luglio 2018. Una cosa ormai diventata di dominio pubblico, con la stampa che ne aveva parlato in lungo e in largo. Ripeto: il nostro pranzo risale alla fine di febbraio o forse all'1 o al 2 marzo. Non ricordo con esattezza. È stato Ardita a intavolare il discorso perché conosceva bene quell'inchiesta. E quindi la introdusse. Io, in quanto all'epoca sostituto procuratore a Roma, dissi dei contrasti e delle divergenze di vedute all'interno del mio Ufficio e dei possibili conflitti di interesse che avevo segnalato fra il Procuratore e alcuni indagati. Tutto qui. E ribadisco: parliamo di una faccenda già definita e ormai pubblica».

Quali erano, esattamente, le divergenze e i contrasti all'interno del suo Ufficio?

«Almeno tre di quegli indagati avevano conferito incarichi di lavoro al fratello, avvocato, di Giuseppe Pignatone. Questo, a mio avviso, meritava un'astensione da parte del Procuratore stesso».

E invece?

«Invece dobbiamo fare un passo avanti. Di uno o due giorni successivi al pranzo con Davigo, Ardita e Amelio. È il 5 marzo. Vengo convocato da Pignatone in una riunione insieme con altri colleghi. In quella sede si discute della questione astensione. Ognuno dice quello che deve dire e io sostengo l'opportunità dell'astensione del Procuratore. Quattordici giorni dopo mi arriva una sorpresa».

Quale?

«È il 19 marzo e ricevo una missiva. Nella lettera, di fatto, viene riportata un'altra storia rispetto a quella che io avevo sostenuto nella riunione del 5 marzo. In sostanza la mia volontà era rappresentata in modo contrario rispetto a quanto avevo invece chiaramente espresso».

Cioè la non astensione del Procuratore?

«Suonava così: "Anche tu sei d'accordo e semmai è un tuo problema" . Ma come? Io avevo detto esattamente l'opposto. Ero per l'astensione. Per forza: c'erano dei conflitti d'interesse fra il Procuratore e almeno tre di quegli indagati. Ma l'atteggiamento riservatomi è stato: "Io sono il tuo capo e tu devi essere con me in ogni modo". Insomma, ho avuto l'impressione che dal conformismo che ha sempre caratterizzato la magistratura, si fosse passati a un tentativo di sudditanza. Non era mia intenzione dover abbassare la testa, senza oltretutto avere nemmeno visto tutte le carte. Abbassare la testa così: alla cieca. Allora per tutelarmi, il 27 marzo seguente, ho presentato l'esposto al Csm. Ho dovuto farlo per tutelarmi».

Cos' ha detto Davigo e cos' ha detto Ardita, a quel pranzo, prima della presentazione del suo esposto?

«Ardita conosceva benissimo il tema dei conflitti e ha pure citato un caso analogo, totalmente coincidente con il mio e che ha riguardato il governatore siciliano Totò Cuffaro e ancora Roberto Pignatone, fratello del Procuratore. Il fatto è anche citato nel libro "Intoccabili", di Marco Travaglio e Saverio Lodato. Entrambi, Ardita e Davigo, hanno giudicato la vicenda riguardante me, Pignatone e il mio Ufficio, di indubbia rilevanza e che meritava accertamenti approfonditi da parte del Csm. Cosa che poi, dopo la riunione e la lettera del 19 marzo, io ho fatto. Mi pare che Davigo stesso non abbia negato la circostanza. Tutto questo è depositato; così com' è depositato il verbale in cui io dico la stessa cosa e ora allegato alla richiesta di ricusazione presentata da Luca Palamara al Csm contro Davigo. Ma tengo a precisare: io a Luca Palamara non ho mai chiesto nulla. E non esiste intercettazione che possa dire il contrario».

Palamaragate, fuga di notizie e giudizi anticipati: Csm nei guai. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Si terrà il prossimo 28 luglio a Palazzo dei Marescialli l’udienza per discutere delle istanze di ricusazione presentate questo martedì da Luca Palamara e da Cosimo Ferri. Non si è fatta, dunque, attendere la risposta del vice presidente del Csm David Ermini, in qualità di presidente della sezione disciplinare, alla decisione dell’ex numero uno dell’Anm di ricusare Piercamillo Davigo e a quella dell’ex ras di Magistratura indipendente ed ora deputato di Italia viva di ricusare l’intero Plenum. Quello di Ferri, in particolare, è stato il classico colpo da maestro che in pochi si aspettavano e che ha messo in seria difficoltà la sezione disciplinare. Ferri ha manifestato seri dubbi “sulla terzietà ed imparzialità” non solo dell’attuale collegio disciplinare ma di tutto il Csm in quanto in più occasioni avrebbe manifestato “indebite anticipazioni del giudizio”. Il primo a finire nel mirino di Ferri era stato proprio Ermini che all’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario 2020 in Cassazione per raccontare l’accaduto aveva usato parole durissime. Si era trattato, disse, di un «agire prepotente, arrogante ed occulto tendente ad orientare inchiesta, influenzare le decisioni del Csm, e screditare magistrati». Il rischio per Ermini è ora quello di rimanere con il cerino in mano, dando l’impressione di presiedere un Csm prigioniero di se stesso. La ricusazione di tutti i consiglieri di Palazzo dei Marescialli, laici e togati, da parte di Ferri, rischia di creare un corto circuito istituzionale senza precedenti. Ferri, infatti, con la sua istanza ha messo in luce quello che molti fra gli addetti ai lavori temevano. E cioè, come sarà possibile imbastire un processo dove il giudice fino al giorno prima era il vicino di banco dell’imputato nella sala del Plenum? Può esserci terzietà fra due persone che hanno condiviso, non solo il caffè al bar, ma attività proprie dell’organo di autogoverno della magistratura in tema di nomine ed organizzazione degli uffici? Per capire come sia stato possibile giungere a questa situazione surreale è necessario tornare all’estate del 2019 quando esplose lo “scandalo” Palamara. Con sapienti fughe di notizie alcuni giornali, Repubblica, Corriere e Messaggero, pubblicarono degli stralci delle conversazioni intercettate con il trojan inserito nel telefono dell’ex presidente dell’Anm. Per tali fughe di notizie, all’epoca si è era nel vivo dell’indagine di Perugia a carico di Palamara, non risulta sia mai stato indagato nessuno. La pubblicazione sui tre giornali di questi colloqui comportò una sollevazione nella magistratura. I più attivi furono gli esponenti delle toghe di sinistra che, sonoramente sconfitti alle elezioni del 2018 per il rinnovo della componente togata del Csm, videro l’occasione della rivincita contro la destra giudiziaria rappresentata da Ferri arrivare su un piatto d’argento. Pur non essendo indagati, solo sulla base di quanto riportato dai tre quotidiani citati, la pressione fortissima di settori della magistratura associata spinse i consiglieri coinvolti alle dimissioni. Ad uno di loro, il togato di Magistratura indipendente Paolo Criscuoli, da quanto emerso, pur non avendo aperto bocca durante tale incontro, fu materialmente impedito di partecipare ai lavori del Plenum. Furono mesi micidiali in quanto il numero legale in Plenum era sempre a rischio. Lo scioglimento, dunque, era la soluzione più logica. Anche perché nel mercato delle nomine, come emerso dalle successive chat di Palamara, erano coinvolti tutti i gruppi associativi. Perché allora non si decise di non sciogliere il Csm. Urge riascoltare le parole pronunciate da Sergio Mattarella al Plenum straordinario del 21 giugno del 2019, all’indomani delle dimissioni “spontanee” dei consiglieri coinvolti nell’incontro fatale all’hotel Champagne. «Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione». E poi: «Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile». «Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica», aggiunse il presidente della Repubblica. «Il coacervo di manovre nascoste – continuò – di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura». Il fatto che Mattarella, basandosi su notizie riportate in modo illegale sui giornali, abbia pronunciato tali affermazioni suscita ancora oggi grandi interrogativi.

Luca Palamara, nelle chat anche Enrico Mentana e Formigli: "Ospitano troppe volte Davigo, devi dirglielo". Libero Quotidiano il 23 luglio 2020. Il caso che coinvolge Luca Palamara si arricchisce di altri dettagli. Questa volta le intercettazioni dell'ex membro del Csm, in attesa del processo disciplinare per scandalo-nomine dei vertici delle principali procure italiane, hanno come protagonista Piercamillo Davigo. Siamo a luglio del 2018 - scrive Affaritaliani.it - quando vengono indette le nuove elezioni del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di governo dei magistrati e che ne decide le carriere. Per l'occasione Davigo, assieme ad altri colleghi, ha fatto nascere una nuova corrente e si è candidato al Csm. Un fatto che ha mandato in fibrillazione Palamara e altre toghe, impegnati a controllare i programmi tv in cui compare Davigo. Le intercettazioni proseguono e si arriva al 4 maggio 2018, quando un collega manda un messaggio in chat whatsapp a Palamara: “Tu che hai rapporti con Mentana fagli presente che è una grave scorrettezza fare tutte queste ospitate a Davigo candidato al Csm. In una settimana ha fatto Dimartedi e Piazza pulita”. Il riferimento è al direttore del TgLa7 Enrico Mentana e ai due programmi di approfondimento del canale di Urbano Cairo, condotti da Giovanni Floris e Corrado Formigli. La loro colpa? Ospitare troppo spesso Davigo e lasciarlo parlare senza contraddittorio.  “Già lo avevo fatto è una vergogna quello che fanno con Davigo” ha immediatamente replicato Palamara. A nulla però servono i moniti di Palamara, perché l’11 luglio 2018, l'ex pm di Mani Pulite conquista una parte dei voti di Unicost. "Avevamo fiutato il pericolo di Davigo. Io non accetto che un elettore di Unicost lo abbia votato!!! E non lo accetterò mai. Voglio dirti che ti voglio bene e che ti sono e ti sarò sempre vicino. Solo chi cade può rialzarsi e ancora più forte!!! Un abbraccio” scrive Palamara a un collega. E ancora: “Guarda che la vittoria di Davigo è la mia sconfitta”. Ma le comparse in tv di Davigo proseguono, così come i messaggi di Palamara con Riccardo Fuzio, procuratore generale della Cassazione che, ancora una volta, hanno al centro l'ex pm Mani Pulite e i programmi televisivi.

Palamaragate, il sistema clientelare coincide con la magistratura stessa. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Parte il processo disciplinare a Palamara e subito si ferma. Scopriremo tra un po’ se la sezione disciplinare del Csm si comporterà come dovrebbe, facendo luce sulla vera, grave, violazione deontologica che può essere ascritta a Luca Palamara, cioè quella di essere stato parte integrante di un sistema di potere che ha minato, e mina, l’autonomia e l’indipendenza interna della magistratura. Perché di questo si tratta, ma è forte il sospetto che l’organo disciplinare opererà, principalmente, per mettere Palamara fuori dalla magistratura e, con lui finalmente fuori dai cabasisi, anche la polvere sotto il tappeto. Da diversi decenni la magistratura italiana difende il proprio potere intonando, a volte a ragione, ma assai più spesso in maniera strumentale, il refrain sulla necessità di tutelare la propria indipendenza e autonomia rispetto all’esterno; lo fa di preferenza puntando il dito contro la politica nei – pochi – momenti in cui la stessa politica mette in campo autonome proposte, quasi sempre non gradite, sui temi giudiziari. L’apoteosi di questo atteggiamento fu quando si discusse della riforma dell’ordinamento giudiziario: i magistrati italiani si opposero fieramente sfilando durante le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario con la il testo della Costituzione in mano. Ma doveva essere una edizione abusiva, visto che l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario era imposto dalla settima disposizione transitoria che volutamente l’Anm ignorava. Il problema della indipendenza e autonomia interna, invece, la magistratura italiana lo ignora da decenni, forse perché consapevole di avere la coscienza sporca. Altrimenti non si spiegherebbe la gigantesca amnesia collettiva dell’unica magistratura di un Paese occidentale che vede la sua vita interna regolata da raggruppamenti “esterni”, strutturati come centri di potere, quali sono le correnti. Esterni perché non istituzionali, ma libere associazioni, che stabiliscono, e anche questo è un segreto di Pulcinella, rapporti di carattere schiettamente politico con i propri referenti di partito, fuori e dentro il Csm e le istituzioni. La lista testi che ha depositato Palamara (e che la sezione disciplinare probabilmente falcidierà) si propone di dimostrare la operatività di questo “sistema”, e rappresenta, più che un argomento a difesa una gigantesca ed ingombrante chiamata in correo. Comunque come tale viene avvertita, all’interno ed all’esterno della magistratura. Il che, come si coglie anche da alcune interviste del diretto protagonista, fa pensare che il nostro sia pronto a passare alla politica politicienne, sapendo – poiché conosce i suoi più di chiunque altro – che se la battaglia per la toga è persa il Paese dei pentiti può sempre collocarlo da qualche altra parte, magari in Parlamento.  Il problema vero è che la rappresentazione della vicenda Palamara alla stregua di una saga di pentitismo correntizio – che Palamara condivide con i suoi attuali avversari – è funzionale a lasciare le cose come stanno poiché parte dalla illusione ottica, o se si vuole dal vero e proprio imbroglio logico, secondo il quale il “sistema” – quello descritto dal Palamara “pentito” che coinvolge tutto l’associazionismo in magistratura, oppure quello descritto da una nutrita schiera di sepolcri imbiancati, alcuni dei quali in toga d’ermellino, che puntano il dito solo contro le “mele marce” – prescinde da un dato di realtà inoppugnabile: se esiste un sistema clientelare esso coincide con la magistratura stessa. Tutta la magistratura. Se ci si racconta che l’avanzamento in carriera dei magistrati, tutti i magistrati e per ogni carica, anche la più insignificante, era legato a logiche di spartizione tra le correnti, ciò significa che non solo la stragrande maggioranza dei magistrati italiani lo sapeva, e non lo denunciava, ma che ne prendeva parte attivamente anche solo rivolgendosi alle correnti per avere quello cui pensava di aver diritto. Ovviamente non tutti i magistrati lo facevano o venivano premiati, anzi probabilmente le vittime sono state anche numerose, ma rimane il fatto che i magistrati che lo hanno pubblicamente denunciato, da trenta anni a questa parte, si contano sulle punte delle dita di un mano. Perché va così quando un sistema clientelare funziona: alla sua base sta il consenso. Insomma, se qualcuno pensa che la vicenda Palamara sia l’8 settembre di un sistema malato, pensi a riformare la magistratura dalla base, altrimenti finisce come sempre nel paese degli “antemarcia”, ovvero degli antifascisti post bellici e degli elettori democristiani non dichiarati: il sistema sopravvive ai suoi epigoni così come ai suoi capri espiatori, perché nessuno si preoccupa di cambiarne il tessuto connettivo. Dalla base significa cambiando la composizione del Csm, istituendo un’alta corte di disciplina esterna all’organismo elettivo, innovando i criteri di accesso in magistratura. Quel sistema si fonda, infatti, prima di tutto su di una concezione “proprietaria” della giustizia che è propria della stragrande maggioranza dei magistrati italiani, che non ha nulla a che vedere con la autonomia ed indipendenza ed è il vero problema di struttura: o si cambia quello o tutto rimarrà come prima, anche perché affratella vittime e carnefici. Durante un dibattito radiofonico un magistrato, Alfonso Sabella, che pure raccontava le sue disavventure di magistrato estraneo alle correnti e perciò pregiudicato nella sua carriera, ha dichiarato che, però, nella concezione proprietaria della giustizia da parte della magistratura in realtà non ci vedeva nulla di strano, e che anzi era legittimata proprio dalle garanzie di autonomia ed indipendenza che la Costituzione garantisce. Ecco, finché i magistrati italiani ragioneranno così il sistema rimarrà lo stesso.

·         Gli intoccabili toccati.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 12 novembre 2020. Ormai pensava di avere l'assoluzione in tasca. Che vuoi che sia, per quelle fandonie della Sicilia e-Servizi, lui fondatore di due partiti flop, Rivoluzione civile prima e Azione civile poi. E, invece, è arrivata un'altra mazzata per l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia: con l'accusa di peculato è stato condannato a un anno e dieci mesi di carcere (pena sospesa). L'ex magistrato, oggi avvocato, è stato però assolto da uno dei due capi di imputazione a lui contestati. Il giudice ha, insomma, parzialmente accolto le richieste dei pm che avevano chiesto la condanna a quattro anni. Il processo nasce dopo una segnalazione della Ragioneria generale della Regione siciliana relativa al periodo in cui Ingroia, su indicazione dell'ex governatore Rosario Crocetta, era stato nominato liquidatore della società regionale Sicilia e-Servizi (oggi Sicilia Digitale), società a capitale pubblico che gestisce i servizi informatici della Regione. «Il compenso è superiore ai limiti previsti dalla legge», scrissero i pubblici ministeri. L'accusa è di essersi appropriato di indennità non dovute. Avrebbe ricevuto l'indennità spettante all'amministratore (e non al liquidatore) e per soli tre mesi di attività si sarebbe fatto pagare il compenso spettante per l'intero anno. A questi soldi si aggiungono altri 7.000 euro per rimborsi spese di alberghi di lusso. Dopo avere lasciato la magistratura, Ingroia aveva trasferito la propria residenza a Roma e a Palermo soggiornava in alberghi come Villa Igiea. Secondo la procura l'ex pm palermitano aveva diritto, invece, solo al rimborso delle spese aeree. La condanna è infatti per la parte relativa ai rimborsi delle spese di soggiorno a Palermo: il giudice ha ritenuto infatti che i circa 35mila euro che l'amministratore della società si fece liquidare per stare nel capoluogo siciliano, quando veniva a svolgere le proprie funzioni, non fossero dovuti, perché assorbiti dalla cospicua indennità (50mila euro all'anno) già pagata all'amministratore. La vicenda risale al 2013, quando Ingroia creatore del pool che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia venne scelto da Crocetta come liquidatore di Sicilia e-Servizi, società in house della Regione a capitale interamente pubblico. Per tre mesi ha ricoperto quell'incarico, ma invece di chiudere la società ha ottenuto utili per circa 150mila euro. Secondo i pm, bypassando l'assemblea dei soci l'ex magistrato si è autoliquidato illegittimamente e in conflitto di interessi, un'indennità di risultato di 117mila euro che il tribunale chiede ora venga restituita. «Continua a lasciarmi sbalordito il fatto che a tutti i miei predecessori la procura non ha fatto mai alcuna contestazione, come ad esempio, al mio direttore generale commenta Ingroia - Questa cosa mi dà dei sospetti... Mentre io che ho fatto risparmiare soldi alla Regione sono stato accusato ingiustamente». Sull'assoluzione invece dice: «Finalmente mi è stata riconosciuta l'infondatezza delle accuse che mi sono state contestate e rovesciate addosso per tre anni. È stata fatta giustizia solo a metà. Da un lato rimango soddisfatto per l'assoluzione del reato più grave che mi veniva contestato, cioè di essermi intascato un'indennità non dovuta. Dall'altro rimango stupito per la condanna, ritengo persino ridicola questa contestazione».

Ida Caracciolo, la candidata italiana a giudice della Corte d’Amburgo su diritto del mare è indagata per concorso in associazione a delinquere. Il suo nome figura tra i 71 sotto inchiesta da parte della procura di Firenze sugli "esami facili" alla Link Campus University di Roma che avrebbero favorito gli iscritti all'ateneo tramite il sindacato di Polizia Siulp. A suo carico, anche l'accusa di falso ideologico in atto pubblico in concorso. Gianni Rosini il 18 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Il suo nome figura nella lista dei 71 indagati dalla Procura di Firenze per l’inchiesta sugli “esami facili” alla Link Campus University di Roma con le accuse di concorso in associazione a delinquere e falso ideologico in atto pubblico. Ma allo stesso tempo è ancora valida, come si legge sul sito dell’organismo, la sua candidatura unica, avanzata dall’Italia, per il ruolo di giudice del Tribunale internazionale del diritto del mare di Amburgo, corte indipendente delle Nazioni Unite. Una nomina che garantirebbe a Ida Caracciolo, avvocato e docente, ex giudice ad hoc della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha archiviato il ricorso di Silvio Berlusconi sulla legge Severino, l’immunità prevista per i giudici della Corte di Amburgo.

L’indagine sulla Link Campus. Dall’inchiesta sulla Link Campus, dopo le indagini svolte dal sostituto procuratore, Christine von Borries, del procuratore aggiunto, Luca Turco, e del procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, è emerso che le modalità con cui venivano svolti alcuni degli esami alla Facoltà di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali dell’ateneo privato non erano corrette. Innanzitutto, viene contestata la mancata frequenza alle lezioni e il fatto che la struttura consentiva di sostenere gli esami a Firenze anziché nella sede di Roma della Link Campus, come invece ritenuto d’obbligo. Inoltre, dai fascicoli risulta che i docenti consegnassero, prima delle prove d’esame, le domande o i temi ad alcuni studenti. Secondo l’accusa, gli stessi docenti avrebbero permesso anche di consultare liberamente Internet e, di fatto, copiare le risposte. Un modus operandi, quello descritto dai pm che hanno ristretto il campo agli anni accademici 2016-2017 e 2017-2018, che avrebbe favorito in particolar modo i poliziotti iscritti alla Link Campus tramite il Siulp, il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia. E tra i 71 indagati è spuntato anche il nome di Caracciolo, che nella facoltà tiene il corso di Diritto Internazionale, con l’accusa di concorso in associazione a delinquere e falso ideologico in atto pubblico in concorso.

La candidatura alla Corte di Amburgo e l’ipotesi immunità. Mentre l’inchiesta fiorentina va avanti, Caracciolo risulta ancora tra i candidati, da parte dell’Italia, a sostituire sette giudici in scadenza tra i 21 che compongono il tribunale internazionale. Una sua nomina avverrà solo dopo l’approvazione dei 168 Stati membri che vaglieranno le varie candidature internazionali, tenendo conto anche dell’indubbia integrità morale, caratteristica fondamentale per poter accedere a certi incarichi. Ma se così fosse, il ruolo di giudice della Corte di Amburgo le garantirebbe l’immunità penale per tutta la durata del mandato, che è di 9 anni rinnovabili fino a un massimo di 18. In caso di nomina, infatti, solo in una circostanza il giudice non gode dell’immunità, tenendo conto che, in questo caso, il reato non è stato commesso nell’esercizio delle proprie funzioni: nel caso in cui l’organo decida per la rinuncia all’immunità, al termine di una procedura di valutazione interna, come disciplinato dall’Accordo sui privilegi e le immunità del Tribunale internazionale del diritto mare. Già nel 2019, Caracciolo figurava tra i tre candidati italiani per il posto di giudice della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), incarico poi affidato a Raffaele Sabato, Consigliere della Corte Suprema di Cassazione. Adesso che il suo nome è di nuovo in lizza per un posto tra i giudici di una delle corti internazionali, le indagini a suo carico possono mettere a rischio la candidatura.

Francesco Loscalzo per l'ANSA il 20 maggio 2020. Induzione indebita a promettere o dare utilità: è l'accusa contro il procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, agli arresti domiciliari nell'ambito di un'inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente sui magistrati jonici. Capristo avrebbe cercato, secondo l'accusa, di indurre una giovane pm di Trani (dove era stato Procuratore), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva la "bambina mia" - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito, anche lui magistrato, all'epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo - che respinge ogni accusa - sono finiti ai domiciliari l'ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l'accusa dell'induzione indebita. E' indagato anche l'ex procuratore della Repubblica di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d'ufficio perché con le sue azioni avrebbe provato a "procurare l'impunità" di Capristo. A Trani - sempre secondo l'accusa - Capristo avrebbe creato negli anni un suo "club di fedelissimi": per il gip di Potenza, Antonello Amodeo, tale legame sarebbe anche "di natura affaristica, ossia orientato a privilegiare gli interessi personali dei suoi componenti". Dalle indagini, cominciate circa un anno fa e che fanno riferimento ad episodi accaduti tra l'aprile 2017 e l'aprile 2019, è emerso che i cinque uomini arrestati, "in concorso", avrebbero cercato di convincere la pm Curione a perseguire per usura una persona, così gli imprenditori avrebbero potuto ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge per le persone "usurate". Scivittaro si presentò nell'ufficio della pm Curione "a nome e per conto" di Capristo per chiedere di portare avanti il processo.  La giovane pm però si rifiutò e inviò una relazione di servizio al procuratore Di Maio, che decise allora di trattare direttamente il procedimento contro Capristo, chiedendone l'archiviazione. Ma "in ragione dell'infondatezza della richiesta", la Procura generale di Bari avocò a sé l'inchiesta e la trasmise per competenza alla Procura di Potenza. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono accusati di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico: gli investigatori hanno scoperto che in alcune centinaia di casi l'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore.  Attraverso il suo legale, l'avvocato Angela Pignatari, Capristo ha negato "recisamente ogni addebito" e ha "rivendicato la legalità, la dignità e il rispetto della funzione da sempre esercitati nel suo ruolo professionale e nella sua vita privata". Stamani sono stati perquisiti anche gli uffici della procura di Taranto: "Si tratta di fatti - ha specificato il procuratore aggiunto, Maurizio Carbone - che non riguardano l'attività del nostro ufficio, che continua il suo operato con il massimo impegno e con la serenità di sempre".

Corruzione in atti giudiziari, ai domiciliari  il Procuratore di Taranto Capristo. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Virginia Piccolilo. Il Procuratore della Repubblica di Taranto, Nicola Maria Capristo, è agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Lo stesso provvedimento è stato eseguito a carico di un ispettore della Polizia in servizio nella Procura tarantina e di tre imprenditori della provincia di Bari. L’inchiesta, cominciata un anno fa, è portata avanti dalla Procura della Repubblica di Potenza. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l’ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l’accusa, gli indagati avrebbe compiuto «atti idonei in modo non equivoco» a indurre un giovane sostituto presso la Procura di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito - l’inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono «gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso»: l’ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva «incombenze» per conto del Procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale.

Taranto, arrestato Procuratore capo Capristo: tentò di «aggiustare inchiesta». Indagato anche ex capo pm Trani. Ai domiciliari anche tre imprenditori e un ispettore di Polizia. L'indagine grazie alla denuncia di un giovane pm. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2020. Il procuratore di Taranto, il barese Carlo Maria Capristo è stato arrestato questa mattina nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Potenza, insieme ad altre quattro persone, tutte accusate per induzione indebita (art. 319 quarter) per aver tentato interferire con una inchiesta della Procura di Trani dove Capristo non operava più da qualche anno. Oltre all'alto magistrato sono finiti ai domiciliari un ispettore di Polizia, Michele Scivittaro, e tre imprenditori operanti nella provincia di Bari, i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Indagato a piede libero anche il successore Di Maio, ex Procuratore di Trani, per abuso d’ufficio e favoreggiamento. Secondo l'accusa, gli imprenditori avrebbero approfittato del loro legame con il capo della Procura di Taranto «per indurre un giovane sostituto della Repubblica in servizio nel tribunale di Trani - si legge in un comunicato del Procuratore di Potenza, Francesco Curcio - a perseguire in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto, la persona che loro stessi avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici ed i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati». Un disegno sfumato a seguito dell'opposizione del giovane pm ad «aggiustare» il processo, da qui la denuncia dello stesso sostituto che ha collaborato all'indagine consentendo all'inchiesta di culminare con le misure cautelari di oggi. Capristo e Scivittaro sono stati ritenuti responsabili di truffa aggravata per aver "falsificato" la documentazione attestante la presenza lavorativa dell'ispettore di Polizia presso la Procura di Taranto. Il procuratore, da quanto emerso, controfirmava le presenza del poliziotto e i suoi straordinario "mai prestati": anziché lavorare a Taranto era a casa. Capristo, un anno fa, era stato iscritto nel registro degli indagati della Procura di Messina nell'ambito di una inchiesta legata al (presunto) falso complotto ai danni dell'Eni: una vicenda complessa - per la quale un ex pm dei Siracusa ha patteggiato 5 anni di reclusione - che incrocia anche la Procura di Trani, sempre nel periodo in cui Capristo era capo dell'ufficio inquirente del tribunale del nord barese. Le accuse a carico di Di Maio si riferiscono agli atti da lui eseguiti dopo aver avuto una relazione di servizio dal sostituto Silvia Curione «in ordine alle pressioni ricevute da un ispettore di Polizia (Michele Scivittaro) a nome di Capristo». L’accusa di favoreggiamento - secondo la Procura della Repubblica di Potenza - si sostanziò nelle scelte di Di Maio di "procurare l’impunità di Carlo Maria Capristo», tenendo alcuni "comportamenti omissivi», cioè non verificando se il Procuratore di Taranto fosse coinvolto nella vicenda del processo a carico di una persona estranea all’accusa di usura. Di Maio è stato recentemente trasferito dopo una sentenza del Consiglio di Stato su ricorso dell'attuale procuratore Renato Nitti. «La bambina mia": così il Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo - da stamani agli arresti domiciliari - si riferiva alla pm di Trani, Silvia Curione (ora in servizio a Bari) parlando con gli imprenditori che volevano un processo per usura a carico di una persona. Capristo - secondo l’accusa della Procura della Repubblica di Potenza - utilizzava l’immagine «bambina mia» per dimostrare a Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo «di avere autorità sulla Curione», che, invece, manifestò una «ferma opposizione» al tentativo di «aggiustare» il processo. La stessa Curione inviò una relazione all’allora Procuratore di Trani, Antonino Di Maio, raccontando che l’ispettore di Polizia, Michele Scivittaro, collaboratore di Capristo, era andato da lei per indurla a portare avanti l’accusa. Di Maio - secondo la ricostruzione degli investigatori - agì per «procurare l'impunità» di Capristo. Successivamente però la Procura generale di Bari avocò a sé l’inchiesta e la trasmise per competenza a Capristo alla Procura di Potenza. «Respingo ogni accusa": così, attraverso il suo legale, Angela Pignatari, il Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, ha commentato l'ordinanza agli arresti domiciliari a suo carico. Capristo «nega recisamente - ha aggiunto Pignatari  - ogni addebito e rivendica la legalità, la dignità e il rispetto della funzione da sempre esercitati nel suo ruolo professionale e nella sua vita privata». «Dalla lettura delle imputazioni riportate sul decreto di perquisizione notificato, si evince che trattatasi di contestazioni per fatti che non riguardano l'attività del nostro ufficio, che continua il suo operato con il massimo impegno e con la serenità di sempre». Lo sottolinea in una nota il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone, in merito all’inchiesta della procura di Potenza che ha portato agli arresti domiciliari l’attuale procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, già procuratore a Trani. «Questa mattina - precisa Carbone - ho doverosamente comunicato a tutti i sostituti della Procura che è stata eseguita presso gli uffici del Procuratore Capristo una perquisizione su disposizione della Procura di Potenza che, a quanto appreso da notizie giornalistiche, ha anche dato esecuzione ad una ordinanza di applicazione degli arresti domiciliari nei suoi confronti». Carbone spiega di «aver sentito la necessità» di riferire l'accaduto ai sostituti della procura ionica «nell’attesa di conoscere maggiori notizie sulla vicenda giudiziaria» e «nel doveroso rispetto delle attività di indagine in corso».

Arresto cautelare per il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo. Antonello De Gennaro il 19 Maggio 2020 su Il Corriere del Giorno. L’attuale vicenda “pugliese” scatenata dalla Procura di Potenza, a parer nostro puzza più come un “regolamento di conti” fra le varie correnti della Magistratura, che come un vero scandalo giudiziario. Ed ancora una volta dietro le quinte del Consiglio Superiore della Magistratura vengono fuori lottizzazioni. Dalle 8:30 di questa mattina il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo si trova agli arresti domiciliari, ordinanza emessa dal Gip dr. Antonello Amodeo del Tribunale di Potenza su richiesta della Procura di Potenza che ha avviato un’indagine su Capristo, sulla quale emergono più di qualche dubbio e perplessità. L’inchiesta su Capristo ha origine da un fascicolo di indagine della Procura di Trani, aperto quando il Procuratore si era trasferito a Taranto. Secondo l’accusa Capristo avrebbe cercato di esercitare pressioni su un magistrato di Trani Silvia Curione, per condizionare l’esito di indagini su episodi di sua diretta competenza.  Sempre secondo la Procura di Potenza, che ha iniziato le indagini un anno fa avrebbe fatto pressioni sulla pm Trani, “abusando della qualità di procuratore della Repubblica di Taranto, superiore gerarchico del marito della pm Curione, ossia di Lanfranco Marazia che a Taranto prestava servizio come pm”. La procura lucana sostiene un’ipotesi giudicaria secondo la quale Capristo avrebbe rappresento alla Curione che avrebbe potuto “esercitare a fini ritorsivi le sue prerogative”, persino ostacolando la carriera del marito, “visto che aveva già dimostrato nel 2017 di essere capace di farlo”. Ma incredibilmente nell’ordinanza non emerge alcun riscontro probatorio di tale ipotesi accusatoria. Nel comunicato del Procuratore di Potenza Francesco Curcio si fa riferimento a delle presunte pressioni di Capristo “per indurre un giovane sostituto della Repubblica in servizio nel Tribunale di Trani a perseguire in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto, la persona che loro stessi avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici ed i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati”. Il giovane magistrato, cioè la dr.ssa Silvia Curione secondo la Procura di Potenza, non solo si sarebbe opposto fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia – ha stabilito unilateralmente l’inchiesta della procura lucana – non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Oltre al magistrato Capristo sono finiti agli arresti domiciliari anche l’ ispettore di Polizia di Stato Michele Scivittaro, originario di Bitonto distaccato presso la Questura di Taranto come autista e scorta di Capristo sin dai tempi in cui ricopriva la carica Procuratore capo della repubblica presso il Tribunale a Trani, ed i fratelli Cosimo, Gaetano e Giuseppe Mancazzo, imprenditori della provincia di Bari, imparentati con un alto ufficiale della Guardia di Finanza distaccato al comando generale, il Colonnello Antonio (Antonello) Mancazzo. Secondo la Procura di Potenza, Capristo e Scivittaro sono “gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso” in quanto secondo gli inquirenti l’ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa ed avrebbe svolto «incombenze» per conto del Procuratore. Al magistrato Silvia Curione della Procura di Trani secondo le accuse a carico del procuratore capo di Taranto, sarebbe stato chiesto (ma non da lui direttamente n.d.r.) di indagare una persona per usura, facendole temere ritorsioni sul marito Lanfranco Marazia, anch’egli magistrato in servizio alla Procura di Taranto, dunque alle dipendenze di Capristo. Stamani sono state eseguite perquisizioni anche carico di altre persone e anche l’attuale capo della procura di Trani Antonino Di Maio , che è indagato per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. La procura di Potenza sospetta che Di Maio non verificò il coinvolgimento del procuratore di Taranto dopo aver ricevuto dalla giovane pm una relazione di servizio della giovane pm in ordine alle pressioni ricevute dall’ispettore Scivittaro «per conto di Capristo». Incredibilmente per la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura sulla nomina di Di Maio a Procuratore della Repubblica di Trani, il Consiglio di Stato ha nuovamente sconfessato e ritenuto nulla la deliberazione con la quale, il 13 febbraio 2019, il plenum del Csm aveva ribadito la nomina di Di Maio, originario di Catania, al vertice della Procura tranese, quale successore di Carlo Maria Capristo. Di Maio aveva ottenuto la maggioranza dei voti, prevalendo sul collega concorrente Renato Nitti, pubblico ministero a Bari, che si era già rivolto ai giudici amministrativi del TAR impugnando la prima decisione del Csm risalente all’aprile 2017, che però a gennaio 2018 rigettò il suo ricorso. In secondo grado, il 3 ottobre 2018, il Consiglio di Stato aveva accolto parzialmente il ricorso del pm barese avverso la sentenza del Tar, ritenendo che il provvedimento di nomina da parte del Csm fosse affetto da un vizio di legittimità. In poche parole il giudici di Palazzo Spada avevano ritenuto che Di Maio non avesse titoli sufficienti per diventare procuratore. Ci sono alcuni particolari di questa inchiesta che destano più di qualche perplessità, a partire dalla discutibile competenza della Procura di Potenza sulla vicenda giudiziaria in questione. Infatti secondo delle nostre qualificate fonti già ai vertici della Suprema Corte, gli eventuali fatti imputati a Capristo e Di Maio si sarebbero verificati presso la Procura di Trani (“locus commissi delicti“) sul cui operato è competente la Procura di Lecce e non certo quella di Potenza che sarebbe stata invece competente in caso di eventuali reati d’ufficio accaduti a Taranto, che allo stato dei fatti non risultano. Peraltro l’attuale procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, originario di Polla è di fatto un “facente funzione”, e non ha di fatto realmente tale qualifica, in quanto la sua nomina alla guida della procura lucana, effettuata dal CSM grazie all’ennesima gestione “politicizzata“, che si era manifestata nell’indicazione raggiunta all’ unanimità dalla 5a Commissione del CSM (Incarichi Direttivi) è stata revocata dalla sentenza emessa dal Consiglio di Stato lo scorso gennaio- . Nel marzo 2019 il collegio, presieduto dal giudice Carmine Volpe, accolse il ricorso presentato da Laura Triassi, pubblico ministero di Potenza. Nel suo ricorso, la Triassi si era opposta alle valutazioni compiute tra la fine del 2017 e inizio 2018 dal Consiglio Superiore della Magistratura, che decise di assegnare l’incarico a Curcio. Ma c’è di più. Infatti il Consiglio di Stato oltre a quella di Curcio , ha confermato anche l’annullamento delle nomine di Raffaello Falcone (come Procuratore aggiunto a Napoli) e Annamaria Lucchetta (Procuratore capo di Nola), confermando quindi la sentenza del Tar del Lazio. Tutti e tre magistrati erano stati nominati insieme a Curcio, nella stessa seduta, dal Csm. Il magistrato Francesco Curcio non è nuovo ad indagini dal clamore mediatico, come quelle sulla “P4” a Napoli, che all’esito del giudizio si sono dissolte come neve sotto al sole. Come l’archiviazione per Mauro Moretti, all’epoca dei fatti amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, indagato per favoreggiamento. O come la decisione della II sezione penale della Corte d’Appello di Napoli che ha assolto l’ex parlamentare del Pdl Alfonso Papa dalle accuse contestategli proprio Curcio nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli ‘P4’ sulla presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell’ambito della pubblica amministrazione italiana e della giustizia. Papa, ex magistrato è stato il primo parlamentare per il quale la Camera ha autorizzato la custodia in carcere è stato condannato in primo grado dalla I sezione penale del Tribunale di Napoli a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Con la sentenza Papa venne assolto da tutti i reati contestati (Legge Anselmi, corruzione, concussione, ricettazione, rivelazione di segreto e favoreggiamento). Papa, durante le otto ore di interrogatorio di garanzia per il suo ingiusto arresta difendendosi dall’ accusa di aver rivelato il segreto delle indagini, fece il nome di tre magistrati, fra i quali proprio quello del pm Francesco Curcio, titolare (con il collega Henry John Woodcock) proprio delle indagini sulla “P4”. Papa durante il faccia a faccia con il gip e i pm raccontò che, «in un incontro del dicembre 2010 con Italo Bocchino», il vicepresidente di Fli lo avrebbe invitato a stare in guardia dal momento che era finito sotto inchiesta. Bocchino gli avrebbe inoltre raccomandato di non sottovalutare la vicenda (già nota attraverso i giornali) perché aveva saputo dal pm Francesco Curcio, «che si trattava di una cosa sera». Alla domanda, “come lo sai“, Bocchino avrebbe risposto, aggiunge Papa, «che Curcio era amico suo». Circostanza che il pm Curcio negò, pur non entrando ovviamente nel merito della vicenda processuale, avendo spiegato anche al suo procuratore capo che aveva visto «per la prima volta Bocchino nel febbraio del 2011» quando lo ascoltò come teste. Papa citò l’ episodio di un pranzo in campagna in casa di un giornalista, al quale entrambi erano presenti. L’ ex pm racconta: «Mi avvicinai al procuratore», dicendogli che era a conoscenza dell’ inchiesta che lo riguardava e assicurandogli che si trattava di cose false. Lepore si sarebbe limitato a fare una risata. Lo stesso procuratore dichiarò a Repubblica. «Certo, ci fu quel pranzo. C’ erano anche altri magistrati. Ricordo bene Papa, sapevo che lo avrei trovato lì e mi consultai con i miei pm, decidemmo che era meglio che ci andassi per non insospettirlo. Ed è vero che non dissi una parola». L’attuale vicenda “pugliese” scatenata dalla Procura di Potenza, a parer nostro puzza più come un “regolamento di conti” fra le varie correnti della Magistratura, che come un vero scandalo giudiziario. Ed ancora una volta dietro le quinte del Consiglio Superiore della Magistratura vengono fuori lottizzazioni.

Arrestato il Procuratore di Taranto Capristo: pressioni per indirizzare indagini. Inchiesta partita dalle accusa di una pm di Trani: "Capristo mi chiamava 'bambina mia'''. Arrestati anche 3 imprenditori e un ispettore di polizia: avrebbero indotto la pm e indagare per usura una persona. Indagato anche il procuratore di Trani. Giuliano Foschini il 19 maggio 2020 su La Repubblica. Il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo è agli arresti domiciliari su ordine della procura di Potenza. L’inchiesta nasce da un fascicolo della procura di Trani, aperto quando Capristo già si era trasferito a Taranto. E sulla quale, secondo la ricostruzione, avrebbe comunque provato a fare pressioni per indirizzarne l’esito. Il Procuratore cercò di indurre il pm di Trani, Silvia Curione, a perseguire ingiustamente una persona per usura facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura di Taranto. Curione denunciò: "Capristo mi chiamava 'bambina mia'''. Anche il Procuratore di Trani, Antonino Di Maio, è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l'ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbe compiuto "atti idonei in modo non equivoco" a indurre la pm di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito l'inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono "gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso". L'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale.

Arrestato il Procuratore di Taranto Capristo: pressioni per indirizzare indagini. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 da La Repubblica.it. Il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo è agli arresti domiciliari su ordine della procura di Potenza. L’inchiesta nasce da un fascicolo della procura di Trani, aperto quando Capristo già si era trasferito a Taranto. E sulla quale, secondo la ricostruzione, avrebbe comunque provato a fare pressioni per indirizzarne l’esito. Il Procuratore cercò di indurre il pm di Trani, Silvia Curione, a perseguire ingiustamente una persona per usura facendo temere al magistrato ritorsioni sul marito, il pm Lanfranco Marazia, suo sostituto alla Procura di Taranto. Oltre a Capristo, sono agli arresti domiciliari l'ispettore Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto, e gli imprenditori pugliesi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbe compiuto "atti idonei in modo non equivoco" a indurre la pm di Trani a perseguire penalmente una persona che gli imprenditori, considerati i mandanti, avevano denunciato per usura. Il magistrato, però, non solo si oppose fermamente, ma denunciò tutto. Per la denuncia - ha stabilito l'inchiesta - non vi erano presupposti né di fatto né di diritto. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono "gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso". L'ispettore risultava presente in ufficio e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva "incombenze" per conto del procuratore. Stamani sono state eseguite perquisizioni a carico di altre persone e anche di un altro magistrato, che è indagato per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale.

Carlo Maria Capristo, arrestato il procuratore capo di Taranto. Le accuse: tentata induzione, truffa e falso. ‘Pressioni per indirizzare indagini dei pm di Trani’: altre 4 persone ai domiciliari. Il magistrato si trova ai domiciliari per un'inchiesta della procura di Potenza (competente per i reati compiuti dai pm del capoluogo ionico): secondo l'accusa ha cercato di condizionare l'indagine di un pubblico ministero di Trani, dove guidava la Procura prima del suo trasferimento a Taranto. Stesso provvedimento per altre 4 persone, tra cui un poliziotto. Indagato Antonio Di Maio, il successore di Capristo alla guida della Procura di Trani. di P.G. Cardone e F. Casula il 19 maggio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Cercarono di convincere un giovane magistrato della Procura di Trani a chiudere le indagini per usura e avviare il processo contro un imprenditore, senza che ce ne fossero i presupposti e solo perché gli interessati avevano un obiettivo ben preciso: ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge conseguiti dallo status di vittime di usura. Motivo per cui avevano già provveduto a denunciare il malcapitato imprenditore. Il pm, però, si è ribellato. Ha detto no al ricatto e ha raccontato tutto alla sua procura. Che, però, ha incredibilmente chiesto l’archiviazione. Il fascicolo, avocato dalla Procura generale di Bari, è stato trasmesso per competenza funzionale alla Procura di Potenza, che un anno fa ha avviato le indagini. Oggi la svolta: tutti arrestati con le accuse a vario titolo di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, falso e truffa. Tra i protagonisti di questa vicenda, però, ci sono nomi molto pesanti: c’è il Procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (ex capo della Procura di Trani), l’ispettore di polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto (e parte della scorta di Capristo) e tre imprenditori della provincia di Bari, i fratelli Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Tra gli indagati, inoltre, anche il magistrato Antonino Di Maio: per il successore di Capristo a Trani, le accuse sono di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. Vale la pensa ricordare che quella di Trani è la stessa procura in cui operavano i magistrati Savasta e Nardi, arrestati per corruzione nei mesi scorsi per vicende diverse. I cinque arrestati di oggi sono stati posti ai domiciliari dal nucleo di polizia economica-finanziaria di Potenza, dall’aliquota di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e dalla squadra mobile del capoluogo lucano. Il provvedimento cautelare è stato emesso dal gip del tribunale di Potenza su richiesta della procura guidata da Francesco Curcio. Contestualmente sono state effettuate anche perquisizioni nelle case degli indagati e anche nell’abitazione del procuratore Di Maio a Roma. Il procuratore Carlo Maria Capristo e Scivittaro, inoltre, sono “gravemente indiziati di truffa ai danni dello Stato e falso”: secondo l’accusa, anziché lavorare presso la Procura o per il suo ufficio, era presso il proprio domicilio o si occupava di adempiere a incombenze personali o sbrigava faccende d’interesse di Capristo. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la Procura di Potenza, “con l’avallo del procuratore Capristo che controfirmava le sue presenze in servizio e gli straordinari mai prestati”. Per Capristo è una nuova tegola giudiziaria dopo l’accusa di abuso d’ufficio mossa dai magistrati di Messina nell’inchiesta sul “sistema Siracusa“, una presunta organizzazione che secondo l’accusa era in grado di pilotare le decisioni del Consiglio di Stato, ma anche di aggiustare le richieste provenienti da magistrati e politici. Anche i fatti siciliani che coinvolgono il capo degli inquirenti tarantini, riguardano il periodo in cui Capristo era procuratore di Trani. Si tratta del famoso depistaggio sull’inchiesta Eni: nel capoluogo tranese era infatti giunto uno degli esposti anonimi redatti dall’avvocato siciliano Piero Amara per mettere in piedi una sorta di depistaggio delle indagini sull’Eni per le tangenti versate dal colosso petrolifero in Nigeria. Per i giudici messinesi, Capristo avrebbe inviato l’esposto anonimo non ai colleghi di Milano, competenti su quella vicenda, ma a Siracusa dove l’allora pubblico ministero Giancarlo Longo, che ha patteggiato una condanna per corruzione e associazione a delinquere, su input di Giuseppe Amara, fratello di Piero e legale esterno dell’Eni, aveva messo in piedi un’indagine priva di qualunque fondamento con il solo scopo di intralciare l’inchiesta milanese in cui è coinvolto anche l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. 

Il flop di Capristo sul rogo del Petruzzelli: per il direttore Pinto calvario di 16 anni ma era innocente. Angela Stella su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Carlo Maria Capristo, 67 anni, entra in magistratura dai primi anni ottanta. Prima di arrivare alla Procura di Taranto nel 2016, Capristo è stato prima a Bari, dove ha ricoperto l’incarico di sostituto procuratore occupandosi di inchieste delicate. La più nota è quella sull’incendio doloso del teatro Petruzzelli, distrutto all’alba del 27 ottobre del 1991, e terminata con l’assoluzione dei principali imputati. Dal primo momento gli investigatori imboccarono la pista che portava all’ex gestore, Ferdinando Pinto. Il pm decise di ascoltare l’indagato Pierpaolo Stefanelli, malato terminale di Aids, ricoverato nell’ospedale di Catania, e morto dieci giorni dopo. La testimonianza fu resa in assenza del legale e divenne importante per accusare Pinto; l’uomo fu arrestato con l’accusa di aver commissionato il rogo e di concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso. Tredici anni di carcere fu al processo la richiesta dell’accusa, e, in attesa dell’ espiazione della pena, anche un regime da sorvegliato speciale. Pinto, invece, fu poi rimesso in libertà e infine, nel 2007, del tutto scagionato. Il procuratore della Cassazione disse che il processo non si sarebbe mai dovuto celebrare. Tra il 1995 e il 1996, come riferì Il Giornale, è lo stesso Capristo a finire sotto la lente degli inquirenti, che lo accusavano di aver fornito notizie sulle indagini a Francesco Cavallari, noto alle cronache come il re Mida della sanità privata italiana, uomo chiave di un’inchiesta su un presunto intreccio tra criminalità, affari e politica. Capristo venne assolto. Nel 2008 diviene capo della Procura di Trani. Anche lì la sua carriera è segnata da clamorose inchieste come quella contro le principali agenzie di rating mondiali, Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s, responsabili a suo dire di aver tagliato il rating italiano ingiustificatamente e manipolato il mercato: pure in questo caso arrivarono, tra l’altro, sette assoluzioni. Un altro caso che giunse alla ribalta nazionale fu quello relativo al nesso di causalità tra somministrazione del vaccino contro morbillo e parotite e insorgenza dell’autismo, a partire dalla denuncia di alcuni genitori. Una teoria alquanto stramba, come conclamato dalla comunità scientifica internazionale, il cui esito giudiziario terminò con una archiviazione. Il nome di Capristo finì poi nel 2009 sulle pagine del Fatto Quotidiano che pubblicò l’intercettazione di una telefonata tra lui e il suo legale, in cui Capristo raccontava di aver incontrato ‘Raffaele’, individuato nel ministro Fitto, il quale gli era sembrato intenzionato a “sbarrare la strada” a un magistrato barese proposto quattro mesi prima dal Csm per la procura di Brindisi. Tutto finì in un nonnulla. Non si sa ancora invece come finirà un’altra questione: nel luglio 2019 la Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d’ufficio, proprio Capristo. Le accuse si riferiscono all’epoca in cui il magistrato era a capo sempre della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell’esposto anonimo su un presunto complotto contro l’Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. Secondo gli inquirenti Capristo trasmise gli atti a Siracusa invece che a Milano, naturale sede dell’inchiesta sul falso complotto. In questo momento nella mani di Capristo c’erano le sorti dell’Ilva e di Arcelor Mittal.

Il procuratore di Taranto Capristo finisce in manette: “Voleva incastrare un innocente”. Paolo Comi su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Due pm, moglie e marito, contro i rispettivi capi. È una vicenda dai contorni molto torbidi quella che ha portato ieri mattina all’arresto del procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, del suo autista e di tre imprenditori della provincia di Bari. Per loro l’accusa è quella di induzione indebita. Indagato in stato di libertà per abuso d’ufficio e favoreggiamento Antonino Di Maio, ex procuratore di Trani e ora pm a Roma. Le indagini sono state condotte dalla Procura di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati pugliesi. Questa la storia. I fratelli Cosimo, Gaetano e Giuseppe Mancazzo, imprenditori della provincia di Bari, avevano presentato alla Procura di Trani una denuncia per usura nei confronti di Giuseppe Cuoccio, un altro imprenditore pugliese. La denuncia venne assegnata al pm Silvia Curione la quale decise di effettuare subito alcuni approfondimenti tecnici. La legge, infatti, prevede per le vittime del reato di usura l’accesso ai contributi erogati dallo Stato, la sospensione delle procedure esecutive ed altre agevolazioni. A questo punto entra in scena Capristo che prima di essere nominato nel 2016 procuratore di Taranto aveva prestato servizio, con il medesimo incarico, a Trani, e conosce molto bene i fratelli Mancazzo ai quali è legato da amicizia. Capristo, secondo quanto denunciato dalla Curione, avrebbe allora esercitato “pressione” nei confronti della pm affinché non archiviasse il fascicolo. Come arma di “persuasione” avrebbe minacciato delle ritorsioni nei confronti del marito della dottoressa Curione, Lanfranco Marazia, sostituto a Taranto e suo dipendente. Sulla Curione ci sarebbero state, invece, “pressioni” da parte di Di Maio che aveva un ottimo rapporto con Capristo. Curione e Marazia decisero quindi di denunciare l’accaduto ai pm di Potenza, raccontando anche i vari condizionamenti subiti. Il nome di Capristo era già spuntato nell’indagine di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara. Secondo le dichiarazione di Piero Amara, l’avvocato che per sua stessa ammissione aveva inventato il cosiddetto “Sistema Siracusa“, l’organizzazione che riusciva a “comprare” le sentenze del Consiglio di Stato, ad avvicinare magistrati e politici, pare ci fossero stati interessi affinché Capristo fosse trasferito da Trani a Taranto. In particolare per alcuni procedimenti sull’Ilva. Il 10 dicembre del 2018 la Procura di Perugia chiese al Csm gli atti sulla nomina di Capristo a Taranto che, candidato di Unicost, era stato all’epoca votato con 15 voti in Plenum. Le indagini di Potenza sono state condotte dall’attuale reggente della Procura Francesco Curcio. Già sostituto alla Procura nazionale antimafia, Curcio era stato in passato sostituto alla Procura di Napoli, indagando sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica. Inchieste condivise con il collega Henry John Woodcock. Di orientamento progressista, era stato votato nel 2018 all’unanimità in Plenum. Lo scorso gennaio, però, il Consiglio di Stato ha annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi.

Taranto, «Caso Capristo» il giallo delle date: sono tanti ancora gli omissis. La segnalazione che ha innescato l’inchiesta è del 2019, il fascicolo del 2018. La settimana prossima gli interrogatori. Mimmo Mazza il 22 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Pagine e pagine di omissis. E un mistero sulle date. Le carte dell’inchiesta sul procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, finito l’altra mattina agli arresti domiciliari con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità, truffa e falso, fanno intuire che il fascicolo coordinato dal procuratore capo di Potenza Francesco Curcio ha ancora diversi aspetti da svelare. Capristo - che la settimana prossima potrà fornire la sua versione dei fatti nel corso dell’interrogatorio di garanzia - avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre una giovane pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Non riuscendoci, per l’opposizione del sostituto che denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio a Taranto. Ai domiciliari sono finiti anche l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio alla Procura di Taranto e uomo di fiducia del procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori bitontini Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Indagato a piede libero è l’ex procuratore di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d’ufficio. Le indagini fanno riferimento, stando a quanto emerge dalla lettura dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Antonello Amodeo, ad episodi accaduti tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019, con l’input partito il 25 marzo del 2019 dalla Procura Generale di Bari all’indirizzo della Procura di Potenza, competente per i fatti riguardanti i magistrati in servizio a Taranto. E qui si incardina il primo giallo relativo alle date. Se, come si legge nelle carte, l’inchiesta a Potenza è stata aperta a seguito della segnalazione giunta da Bari nel marzo del 2019, come mai il relativo numero del registro generale delle notizie di reato reca come anno di riferimento il 2018? Era forse stato già acceso un faro? Quanto agli omissis, agli atti dell’indagine ci sono i verbali delle sommarie informazioni testimoniali dei magistrati Silvia Curione e del marito Lanfranco Marazia, entrambi parti offese, e anche il verbale di interrogatorio di indagato in procedimento connesso, dell’avvocato siracusano Giuseppe Calafiore, ascoltato dagli inquirenti lucani nel giugno del 2019 nella sede della Direzione Nazionale Antimafia di Roma. Calafiore era socio dell’avvocato Piero Amara, il consulente legale dell’Eni che affiancò nell’estate del 2016 gli allora commissari dell’Ilva nella trattativa con la Procura di Taranto (Capristo si era insediato in riva allo Jonio il 6 maggio di quell’anno) per il patteggiamento nell’ambito del processo «Ambiente Svenduto», trattativa che si concluse con un accordo che però non resse al successivo vaglio della corte d’assise e generò aspre polemiche degli ambientalisti tarantini nei confronti della Procura. Calafiore rispose alle domande del procuratore Curcio e dei sostituti Gargiulo e Savoia, parlando sia di Capristo che del poliziotto barese Filippo Paradiso, grande amico del procuratore di Taranto, indagato a Roma per traffico di influenze. «Amara - dice Calafiore, in verbali punteggiati da numerosi omissis - mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino o meglio deduco che Paradiso si sia relazionato anche con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Gli inquirenti - che indagavano sul presunto accordo tra Capristo e i fratelli Mancazzo - chiesero a Calafiore di conoscere i nomi di eventuali imprenditori pugliesi legati al magistrato ma l’avvocato negò la circostanza: «Non conosco imprenditori pugliesi legati a Capristo. Quando sentivo il nome Capristo sentivo il nome Paradiso».

Carlo Maria Capristo, “sotto la ruota di scorta dell’auto del procuratore di Taranto trovati atti di indagine sull’avvocato Piero Amara”. Secondo La Gazzetta del Mezzogiorno, documenti della procura sull’avvocato siciliano, arrestato nell’inchiesta sui falsi depistaggi Eni, e sul faccendiere Filippo Paradiso erano nascosti nell’auto dell’ex procuratore di Taranto, finito ai domiciliari il 19 maggio scorso dalla procura di Potenza. Gli investigatori: "Movimenti anomali sui conti, 500mila euro prelevati in contanti in dieci anni". Francesco Casula il 9 giugno 2020 su Il Fatto Quotidiano. Gli atti di indagine della procura di Trani sull’avvocato siciliano Piero Amara, arrestato nell’inchiesta sui falsi depistaggi Eni, e sul faccendiere Filippo Paradiso erano nascosti nell’auto dell’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, arrestato il 19 maggio scorso dalla procura di Potenza. È quanto racconta La Gazzetta del Mezzogiorno in un articolo che svela anche dettagli dell’inchiesta che hanno riguardato i conti del magistrato accusato di aver fatto pressioni, per il tramite di suoi fedelissimi, sulla pm Silvia Curione, affinché accelerasse la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di un uomo denunciato per usura dai fratelli imprenditori Cosimo, Giuseppe e Gaetano Mancazzo, ritenuti vicini a Capristo. Secondo quanto racconta il quotidiano pugliese, quei documenti erano nascosti sotto il tappetino della ruota di scorta del veicolo: sono stati i poliziotti della Squadra Mobile e i finanzieri di Potenza a ritrovarli nel corso della perquisizione avvenuta la mattina dell’arresto. Documenti su cui ora la procura potentina ha avviato una serie di verifiche e di accertamenti per approfondire una pista già avviata tempo fa dalla procura di Messina che ha iscritto Capristo nel registro degli indagati con l’accusa di falso. L’indagine siciliana risale al periodo in cui Capristo guidava la procura di Trani ed è legata alla vicenda del falso complotto per depistare le indagini dei pm di Milano sulle presunte tangenti pagate dall’Eni in Nigeria che vede come uomo-chiave proprio Amara. Per provare a a ostacolare le indagini lombarde, infatti, Amara inviò una serie di falsi dossier a diverse procure e tra queste quella di Trani: Capristo inviò quel fascicolo all’allora pm Giancarlo Longo di Siracusa, uomo vicinissimo ad Amara, che dopo le accuse ha patteggiato 5 anni di reclusione e ha lasciato la toga. Per la procura messinese, però, Capristo avrebbe dovuto inviare tutto a Milano ed è per questo che è scattata nei suoi confronti l’accusa di abuso d’ufficio. Ma le “coincidenze” con Piero Amara sarebbero poi proseguiti anche a Taranto: Amara entrò infatti nello staff di legali che prese parte alla “trattativa” del 2017 fra la procura di Taranto, guidata proprio da Capristo e i legali di Ilva in amministrazione straordinaria per costruire una proposta di patteggiamento che avrebbe dovuto consentire a Ilva di uscire dal maxi processo “Ambiente svenduto”. In passato, il predecessore di Capristo a Taranto, Franco Sebastio, con il pool di inquirenti che indagava su Ilva aveva respinto le richieste degli avvocati, ma con l’arrivo di Capristo qualcosa cambiò: la procura diede il suo assenso alla proposta di patteggiamento che fu tuttavia respinta dalla corte d’assise di Taranto. Ma La Gazzetta del Mezzogiorno ha svelato anche nuovi dettagli dell’inchiesta potentina su Capristo. Come i movimenti “anomali” sul conto corrente del magistrato: in dieci anni, infatti, Carlo Maria Capristo avrebbe prelevato dai diversi conti oltre 500mila euro in contanti e “senza alcuna apparente giustificazione”, scrivono i finanzieri che hanno analizzato quei movimenti. Non solo. Tra le carte ci sarebbero anche versamenti di contanti per circa 130mila euro. Per gli investigatori si tratta di questioni particolarmente anomale dato che a famiglia di Capristo “percepisce solo redditi da lavoro dipendente”. I finanzieri hanno inoltre chiarito che “a fronte di una redditualità medio alta, le spese in beni immobili e mobili appaiono irrisorie ma aumentano nell’ultimo periodo (2015-2018), lasso temporale in cui sono state acquistate tre autovetture (somma complessiva di circa 60mila euro) e una villa del valore di 565.300 euro. Tuttavia appare anomala, tenuto conto del reddito della famiglia di che trattasi, la modalità di acquisto dell’immobile, visto che lo stesso è stato oggetto di una compravendita coperta interamente da un mutuo di 620mila euro”. Inoltre “il Capristo Carlo – svela ancora la Gazzetta – utilizza le carte di credito – in uso alla sua famiglia – per pagare qualsiasi tipo di spesa, anche la più irrisoria, si rilevano molteplici prelievi in contanti, effettuati anche nella stessa giornata presso diversi bancomat e sportelli bancari”. Insomma nuovi documenti che si aggiungo a quelli depositati nei giorni scorsi dal procura lucana che ha vinto anche lo scontro al tribunale del Riesame: i giudici hanno infatti confermato i domiciliari e trasformato l’accusa nei confronti di Capristo da tentata induzione a tentata concussione. Ma soprattutto la vicenda sembra ormai destinata ad andare ben oltre i confini locali: il lavoro dei magistrati potentini guidati da Francesco Curcio potrebbe infatti ricostruire passo passo una serie di episodi che tengono insieme diversi territori e diversi interessi. E soprattutto che ruotano intorno a grandi società come Eni e Ilva. E quindi intorno al denaro. Ed è forse per questo che il procuratore Curcio, come riporta il quotidiano barese, ha ipotizzato nei confronti di Capristo anche la corruzione in atti giudiziari: per approfondire “particolari approfondimenti” anche sui rapporti con “facoltosi imprenditori pugliesi” e con “il circuito imprenditoriale/professionale che ruota intorno al noto avvocato Amara e all’appartenente alla Polizia di Stato e faccendiere Paradiso Filippo”.

Taranto, Caso Capristo, i retroscena. E la difesa studia le carte. L’inchiesta di Potenza è nata da una dettagliata segnalazione fatta nel marzo 2019 dalla Procura generale di Bari. Mimmo Mazza il 22 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non è stato ancora fissato l’interrogatorio di garanzia del procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, finito l’altra mattina agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente sui magistrati in servizio a Taranto, con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità. Capristo avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre una giovane pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016), Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva stando a quanto emerso da alcune intercettazioni telefoniche la «bambina mia» - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo - che tramite il suo avvocato Angela Pignataro continua a respingere ogni accusa - sono finiti ai domiciliari l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Indagato a piede libero è l’ex procuratore della Repubblica di Trani, Antonino Di Maio, accusato di favoreggiamento e abuso d’ufficio perché con le sue azioni avrebbe provato a «procurare l’impunità» di Capristo. A Trani - sempre secondo l’accusa - Capristo avrebbe creato negli anni un suo «club di fedelissimi»: per il gip di Potenza, Antonello Amodeo, tale legame sarebbe anche «di natura affaristica, ossia orientato a privilegiare gli interessi personali dei suoi componenti». Dalle indagini, che fanno riferimento ad episodi accaduti tra l’aprile 2017 e l’aprile 2019, è emerso che i cinque uomini arrestati, «in concorso tra di loro», avrebbero cercato di convincere la pm Curione a perseguire per usura una persona, così gli imprenditori avrebbero potuto ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici di legge previsti per le persone «usurate». Scivittaro il 16 aprile del 2018 si presentò nell’ufficio della pm Curione «a nome e per conto» di Capristo per chiedere di portare avanti il processo. La giovane pm però si rifiutò, scrivendo una relazione di servizio al procuratore Di Maio nella quale si legge che il poliziotto «rappresentava la necessità che il fascicolo venisse definito con urgenza. Quella visita mi ha lasciata perplessa». Di Maio, sempre secondo quanto accertato dagli inquirenti, decise allora di trattare direttamente il procedimento, chiedendone l’archiviazione. Ma «in ragione dell’infondatezza della richiesta», la Procura generale di Bari avocò a sé l’inchiesta e la trasmise per competenza alla Procura di Potenza nel marzo del 2019. Capristo e Scivittaro, inoltre, sono accusati di truffa ai danni dello Stato e falso ideologico: gli investigatori hanno scoperto che in alcune centinaia di casi l’ispettore risultava presente in ufficio a Taranto e percepiva gli straordinari, ma in realtà stava a casa e svolgeva «incombenze» per conto del procuratore.

Caso Capristo, la difesa: «Non pressioni sulla pm di Trani, solo richieste d’informazione». Si difende così il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo da martedì scorso agli arresti domiciliari nell’ambito dell'inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza. Mimmo Mazza il 23 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nessuna richiesta di favori, né in prima persona, né tantomeno in conto terzi. Scocca l’ora della difesa nell’inchiesta che martedì scorso ha portato agli arresti domiciliari il procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione coordinata dalla Procura di Potenza, competente su fatti riguardanti i magistrati in servizio nella città dei due mari, con l’accusa di induzione indebita a promettere o dare utilità. In particolare, Capristo avrebbe cercato, secondo l’accusa, di indurre il pubblico ministero di Trani (dove è stato procuratore dal 2008 al 2016) Silvia Curione, ora in servizio a Bari, ad aggiustare un processo. Però il sostituto - che Capristo definiva stando a quanto emerso da alcune intercettazioni telefoniche la «bambina mia» - non solo si oppose, ma denunciò tutto, senza alcun timore delle eventuali ritorsioni nei confronti del marito Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, all’epoca in servizio proprio nella Procura di Taranto. Insieme a Capristo, sono finiti ai domiciliari l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro, in servizio presso la Procura di Taranto e uomo di fiducia del Procuratore fin dai tempi di Trani, e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, mandanti secondo l’accusa dell’induzione indebita. Ieri il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Potenza Antonello Amodei ha tenuto gli interrogatori di garanzia dei fratelli Mancazzo e di Scivittaro. I quattro indagati, tutti bitontini e difesi dagli avvocati Giuseppe Giulitto, Maurizio Altomare e Giovanni Capaldi, hanno risposto alle domande del giudice e, alla presenza del procuratore Francesco Curcio, hanno respinto tutte le ipotesi di accusa. Stando a quanto si è appreso, le circostanze che hanno portato all’apertura dell’inchiesta, prima, e agli arresti, poi, sono state contestate punto per punto sulla dinamica ipotizzata dagli inquirenti. Il teorema accusatorio vuole i fratelli Mancazzo approfittare dell’amicizia con Capristo per fare pressioni sulla pm Curone per indurla a perseguire in sede penale la persona che gli stessi imprenditori avevano infondatamente denunciato per usura in loro danno, in modo da ottenere indebitamente i vantaggi economici e i benefici conseguenti allo status di soggetti usurati. L’ispettore Scivittaro, in particolare, nell’aprile del 2018 si sarebbe recato dalla Curone per sollecitare l’archiviazione. Gli indagati, invece, contestano tale ricostruzione, sostenendo di essersi limitati unicamente a chiedere notizie sullo stato del procedimento, senza formulare pressioni o minacce, tantomeno per conto del procuratore Capristo. Spetterà ora proprio a Capristo, difeso dall’avvocato Angela Pignatari, offrire al gip Amodeo la sua versione dei fatti. L’interrogatorio di garanzia del procuratore in realtà non è stato ancora fissato perché il difensore di Capristo ha chiesto un lieve differimento per ragioni di salute del suo assistito. Considerato che la norma prevede che l’interrogatorio venga svolto entro dieci giorni dall’esecuzione della misura, l’atto sarà comunque compiuto entro la prossima settimana. Dopodichè i difensori valuteranno le successive mosse, a partire dal ricorso al tribunale del riesame.

Caso Capristo. Si sgonfiano le accuse al procuratore capo di Taranto. Il Corriere di Taranto il 23 Maggio 2020. Il poliziotto Michele Scivittaro, autista ed agente di scorta del magistrato Carlo Maria Capristo , posto ai domiciliari con i tre fratelli Mancazzo imprenditori di Bitonto, hanno completamente scagionato il procuratore capo di Taranto. ROMA – Nel corso dell’interrogatorio di garanzia che si è svolto ieri mattina presso il Tribunale di Potenza, alla presenza al Gip Antonello Amodeo che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare e del procuratore Francesco Curcio (facente funzione , essendo stato rimosso dal suo incarico dal Consiglio di Stato) che sostiene l’ impianto accusatorio, il poliziotto Michele Scivittaro, autista ed agente di scorta del magistrato Carlo Maria Capristo , posto ai domiciliari con tre imprenditori di Bitonto, ha scagionato il procuratore capo di Taranto. Assistito dagli avvocati Maurizio Altomare e Giuseppe Giulitto , Scivittaro ha affermato a verbale che non si è non mai recato dal pm Silvia Curione presso la procura di Trani, per indurla e pressarla, come ha sostenuto strumentalmente la giovane magistrata, affinché mandasse a processo la persona denunciata dai fratelli imprenditori Giuseppe, Gaetano e Cosimo Mancazzo, ma bensì di essersi recato a titolo personale , poichè in quella Procura di Trani aveva prestato servizio per numerosi anni. Il poliziotto ha spiegato al Gip Amodeo che si era recato dalla pm Curione a seguito di un colloquio avuto a titolo personale con i tre imprenditori, suoi conoscenti personali (sono tutti di Bitonto) che volevano informazioni sullo stato in cui versava la denuncia che avevano sporto. Secondo Scivittaro, le accuse sono solo interpretazioni sbagliate e suggestive su delle conversazioni telefoniche che commentavano la decisione della pm di Trani di archiviare l’inchiesta. Identico il contenuto dell’interrogatorio dei tre imprenditori, i fratelli Mancazzo, assistiti dagli avvocati Giulitto e Giovanni Capaldi, i quali hanno negato fermamente di conoscere Capristo in alcun modo (ed in effetti agli atti dell’ordinanza con compare alcun tipo di contatto diretto con il magistrato) ed hanno confermato di essersi rivolto, esclusivamente a titolo di amicizia, al poliziotto Scivittaro chiedendogli di informarsi sullo stato della denuncia sporta in procura a Taranti. Quindi noin vi è stata nessuna utilità in cambio, alcun tipo di pressione, ma esclusivamente l’interesse di ricevere delle informazioni. I tre fratelli Mancazzo hanno anche confermato di essere stati vittime di usura anche se incredibilmente la denuncia che avevano sporto era stata archiviata, precisando e ricordando al giudice Amodeo ed al procuratore Curcio di essere stati persino affidati a un’associazione antiusura di Molfetta. Il procuratore capo di Taranto Capristo, che notariamente non è in buone condizioni di salute e stava per essere sottoposto ad un intervento di natura ortopedica, , verrà interrogato la prossima settimana. Tutti e cinque gli indagati per il momento i domiciliari in attesa delle udienza davanti al Tribunale del Riesame che si svolgeranno fra un paio di settimane, ed in quell’occasione i difensori richiederanno la revoca degli arresti domiciliari, che allo stato dei fatti rimangono una pura forzatura per una “spettacolarizzazione” dell’ inchiesta. L’ennesima “boutade” ad uso mediatico a cui il magistrato Curcio è particolarmente affezionato, come è accaduto in precedenza nel caso dell’inchiesta “P4” da lui condotta a Napoli rivelatasi a seguito delle varie sentenze dei Tribunali una vera e propria “bufala” giudiziaria.

Savasta e D’Introno sentiti a Potenza. Bari: «Indagini sui rapporti con Capristo». Dopo l’arresto dell’ex procuratore di Taranto, interrogati l’imprenditore e l’ex pm di Trani. Massimiliano Scagliarini l'11 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. I rapporti di Carlo Capristo con alcuni «facoltosi imprenditori» sono al centro delle nuove indagini della Procura di Potenza, che dopo aver mandato ai domiciliari il capo della Procura di Taranto sta approfondendo i suoi rapporti con la cricca di giudici che truccava i processi di Trani. Per questo il procuratore Francesco Curcio e il sostituto Anna Piccininni nelle ultime quarantott’ore hanno ascoltato come testimoni assistiti due dei protagonisti delle indagini di Lecce sulla giustizia svenduta a Trani, ovvero l’imprenditore Flavio D’Introno e l’ex pm Antonio Savasta, il grande accusatore e l’uomo che ha ammesso di aver preso soldi per addomesticare indagini e ora rischia 10 anni di carcere. Al centro degli interrogatori, appunto, gli (eventuali e finora non provati) rapporti corruttivi di D’Introno e Savasta con Capristo, che ha guidato la Procura di Trani fino al 2015, anno del trasferimento a Taranto . Capristo compare infatti in uno dei primi verbali delle dichiarazioni rese da D’Introno a Lecce (poi trasmesse a Potenza dal procuratore Leonardo Leone de Castris): i buoni rapporti di Nardi con Capristo - questo ha raccontato D’Introno a Lecce - hanno consentito all’ex gip di depositare nelle mani di Savasta (ora anche lui ai domiciliari) una falsa denuncia che avrebbe potuto bloccare le cartelle esattoriali dell’imprenditore. D’Introno, tuttavia, ha sempre detto di aver avuto rapporti diretti con Savasta e Nardi, e mai con Capristo. Sui rapporti tra Capristo e Savasta (e l’altro ex pm Luigi Scimè, anche lui accusato a Lecce di aver preso denaro da D’Introno) aveva già riferito a Potenza un collega dei due, Lucio Vaira. Il procuratore Curcio ne ha chiesto conto direttamente a Savasta, provando a capire se tra l’ex pm e il suo capo ci fossero accordi illeciti di qualche tipo: anche in questo caso, finora, non ci sono mai state né ammissioni né riscontri. Capristo è finito ai domiciliari perché, secondo l’accusa, avrebbe mandato il proprio poliziotto di scorta a fare pressioni sulla pm tranese Silvia Curione, con l’obiettivo di far concludere una indagine per usura che avrebbe favorito tre imprenditori ritenuti amici del procuratore. Il Riesame, confermando i domiciliari, ha trasformato l’accusa da induzione indebita a concussione. Capristo la respinge fermamente, e dopo l’arresto ha presentato domanda per andare in pensione. Tra gli atti trasmessi da Trani a Potenza c’è traccia di un procedimento per falsa testimonianza nei confronti di uno dei tre imprenditori che Capristo avrebbe favorito, Gaetano Mancazzo, che nel 2014 l’allora pm Luigi Scimè avrebbe definito con richiesta di archiviazione. La Procura di Potenza va dunque avanti in una sorta di passaggio del testimone da Lecce. Dagli atti depositati con la chiusura delle indagini - la «Gazzetta» lo ha raccontato nei giorni scorsi - è emerso che l’indagine su Capristo era già stata aperta con la trasmissione da Lecce dei verbali di D’Introno, e aveva portato a passare al setaccio il tenore di vita dell’esperto magistrato. In particolare, adesso, gli accertamenti della Finanza e della Mobile di Potenza si starebbero concentrando - tra l’altro - sull’acquisto della villa in cui Capristo risiede e sui suoi rapporti con il costruttore che gliela ha venduta. «Le pretese “anomalie” nella gestione delle sue risorse economiche sono assolutamente inesistenti», hanno ribadito già ieri gli avvocati di Capristo, Angela Pignatari e Francesco Paolo Sisto: «Le operazioni di finanziamento, attestate da mutui stipulati - e, nel tempo addirittura rinegoziati - per l’acquisto della casa di residenza e di un secondo immobile al mare, sono perfettamente regolari e del tutto tracciate nell’atto notarile afferente il mutuo ipotecario contratto».

Corruzione, «Capristo prelevò in 10 anni mezzo milione in contanti». Ma la difesa dell’ex procuratore di Taranto: «Sono soldi per le normali esigenze di vita». E il Riesame conferma i domiciliari. Massimiliano Scagliarini il 09 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In dieci anni Carlo Maria Capristo ha prelevato dai suoi sei conti correnti, «in contanti e senza alcuna apparente giustificazione», circa 500mila euro, versando nello stesso periodo e sempre in contanti, «circa 130mila euro, divisi in più tranche». L’ormai ex capo della Procura di Taranto era nel mirino dei colleghi di Potenza - ieri il Riesame ha confermato l’arresto ai domiciliari, riqualificando l’accusa a suo carico in tentata concussione - già prima che partisse l’indagine sulle presunte pressioni nei confronti della collega Silvia Curione. Ma sempre per una storia che ha a che fare con la Procura di Trani: le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno, l’uomo che con i suoi racconti ha fatto finire nei guai l’ex gip Michele Nardi e gli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimè. Il 4 febbraio dello scorso anno, infatti, il procuratore di Lecce ha trasmesso a Potenza uno stralcio dei verbali di D’Introno. Il tema sono le cartelle esattoriali da 10 milioni che l’imprenditore coratino (oggi in carcere a Trani) tenta in tutti i modi di bloccare, anche pagando - dice lui - Nardi e Savasta. A fine 2010 viene così architettata una bufala: denunciare che le notifiche delle cartelle esattoriali erano state falsificate, in modo da permettere a Savasta di sequestrarle. «Nardi mi disse comunque che lui aveva rapporti diretti con Capristo», mette a verbale D’Introno davanti alla Procura di Lecce. E racconta delle modalità della denuncia: «Nardi e mio fratello Domenico si recarono presso la Procura di Trani e unitamente al capo della Procura depositarono una integrazione di denuncia direttamente alla segreteria di Savasta. Fu mio fratello che mi disse, e Nardi d’altra parte lo confermò, che Nardi, Capristo e Domenico andarono tutti e tre insieme nella segreteria di Savasta a depositare l’integrazione». Le indagini di Lecce - questo va detto - non hanno finora fatto emergere alcuna responsabilità di Capristo quale capo degli ex pm Savasta e Scimè. Ma il procuratore Curcio, a Potenza, chiede alla Finanza di guardare nei conti del collega. Ed emergono quelle che gli stessi militari, in due informative di marzo e aprile 2019, definiscono «anomalie»: «Premettendo che il Capristo Carlo utilizza le carte di credito - in uso alla sua famiglia - per pagare qualsiasi tipo di spesa, anche la più irrisoria, si rilevano molteplici prelievi in contanti, effettuati anche nella stessa giornata presso diversi bancomat e sportelli bancari». Si tratta, appunto, di circa mezzo milione di euro in dieci anni («Con una media annuale di 50mila euro», secondo la Finanza), da sei conti aperti tra Bnl, Bcc di San Marzano, Mps e Bppb su cui nel tempo vengono versati anche 130mila euro in contanti. La circostanza è anomala - secondo i militari - perché la famiglia di Capristo «percepisce solo redditi da lavoro dipendente». «A fronte di una redditualità medio alta, le spese in beni immobili e mobili appaiono irrisorie ma aumentano nell’ultimo periodo (2015-2018), lasso temporale in cui sono state acquistate tre autovetture (somma complessiva di circa 60mila euro) e una villa del valore di 565.300 euro. Tuttavia appare anomala, tenuto conto del reddito della famiglia di che trattasi, la modalità di acquisto dell’immobile, visto che lo stesso è stato oggetto di una compravendita coperta interamente da un mutuo di 620mila euro». «Si tratta - dice però l’avvocato di Capristo, Angela Pignatari - di normali prelievi fatti nel corso degli anni per la gestione delle esigenze di vita. Non c’è sperequazione tra entrate e uscite, ci sono solo i debiti contratti per l’acquisto di una abitazione». Tuttavia il procuratore Curcio ha ipotizzato nei confronti di Capristo anche la corruzione in atti giudiziari, ritenendo di dover svolgere «particolari approfondimenti» anche sui rapporti con «facoltosi imprenditori pugliesi» e con «il circuito imprenditoriale/professionale che ruota intorno al noto avvocato Amara e all’appartenente alla Polizia di Stato e faccendiere Paradiso Filippo». Gli approfondimenti sono in corso. Il 19 maggio, giorno dell’arresto, svolgendo le perquisizioni ordinate dalla Procura di Potenza (che hanno riguardato anche il carabiniere Martino Marancia e l’ex cancelliere tranese Domenico Cotugno, entrambi non indagati ma ritenuti fedelissimi dell’ex procuratore), i finanzieri e gli agenti della Mobile di Potenza hanno sequestrato a Capristo alcuni atti delle indagini a carico di Amara: erano nascosti in macchina, sotto il tappetino della ruota di scorta.

Chi è Francesco Curcio, il procuratore che ha indagato su Capristo. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2020. Francesco Curcio è reggente della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza. Nel 2018 era stato votato all’unanimità in Plenum, però lo scorso gennaio il Consiglio di Stato ha annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi. Originario di Polla (Salerno), già magistrato della Procura Nazionale Antimafia, è stato in passato sostituto alla procura di Napoli. Ha indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, ed ha condiviso la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. È stato anche titolare di indagini sui vertici dei Casalesi e sui rapporti tra il clan del boss Michele Zagaria e la Banda della Magliana nelle attività di riciclaggio. È stato uno dei pm del processo “Spartacus 3” che nel 2009 si chiuse con 50 condanne, pene per complessivi tre secoli di carcere e la confisca di numerosi beni nei confronti di presunti affiliati al gruppo del clan dei Casalesi.

Il procuratore capo di Taranto Capristo indagato per abuso d'ufficio sul falso complotto Eni. Il magistrato è coinvolto in un'inchiesta della procura di Messina sulla base di un esposto anonimo recapitato quando era in servizio a Trani: trasmise gli atti a Siracusa invece che a Milano. La Repubblica il 02 luglio 2019. La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati, per abuso d'ufficio, il procuratore di Taranto Carlo Capristo. Le accuse si riferiscono all'epoca in cui il magistrato era a capo della Procura di Trani e riguardano la vicenda dell'esposto anonimo su un presunto complotto contro l'Eni e il suo ad Claudio Descalzi recapitato alle procure di Trani e Siracusa. L'esposto, secondo l'accusa, sarebbe stato finalizzato in realtà a depistare un'altra inchiesta, nel frattempo aperta a Milano, su tangenti pagate dall'Eni in Nigeria e Algeria. L'anonimo venne mandato alla procura di Siracusa e a quella di Trani. A Siracusa l'allora pm Giancarlo Longo, che ha poi patteggiato una condanna per corruzione e associazione a delinquere, su input di Giuseppe Amara, legale esterno dell'Eni, avrebbe messo in piedi un'indagine priva di qualunque fondamento, su un falso piano di destabilizzazione della società del cane a sei zampe e del suo amministratore delegato. In realtà, per gli inquirenti che hanno arrestato Amara e un altro avvocato, Giuseppe Calafiore, lo scopo sarebbe stato intralciare l'inchiesta milanese sulle presunte tangenti in cui Descalzi era coinvolto. A Capristo, sentito le scorse settimane dai pm messinesi, che hanno indagato e processato Longo scoprendo il piano, si contesta l'anomala trasmissione dell'esposto al collega Longo anziché alla procura di Milano, naturale sede dell'inchiesta sul falso complotto. L'indagine della Procura di Messina ha scoperchiato un vero e proprio sistema corruttivo con al centro Amara e Calafiore che riuscivano, pagando mazzette e facendo regali, a condizionare indagini sui loro più grossi clienti. "Sono stato già interrogato dai colleghi di Messina alcune settimane fa alla presenza del mio difensore e ho rappresentato loro la correttezza del mio operato", ha dichiarato in proposito. "Nessuno - aggiunge - poteva immaginare all'epoca alcun preordinato depistaggio. Quando giunsero gli anonimi a Trani - spiega Capristo - furono assegnati a due sostituti che si occuparono dei doverosi accertamenti sulla loro fondatezza. Successivamente - prosegue - venne formalizzata una articolata richiesta del fascicolo dal PM di Siracusa. La richiesta fu analizzata dai due sostituti che con apposita relazione mi rappresentarono che gli atti potevano essere trasmessi. Vistai la relazione e disposi la trasmissione del fascicolo al Procuratore di Siracusa. Nessuno poteva immaginare all'epoca alcun preordinato depistaggio".  

Il procuratore Capristo prosciolto dal Tribunale di Messina per le accuse sulla vicenda ENI-De Scalzi.  Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2020. Il Gip del Tribunale di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio. Come da noi previsto è diventato ufficiale il provvedimento di archiviazione del Gip del Tribunale di Messina, dott. Monia De Francesco che ha confermato la richiesta della procura nei confronti dell’ex procuratore di Taranto Capristo , in quanto “rimangono delle irrisolte lacune ricostruttive”, e “non è stato possibile chiarire in modo sufficiente da poter sostenere un’ accusa in un’eventuale dibattimento“. Il Tribunale ha ritenuto quindi non sussistente alcun profilo di rilevanza penale nella condotta posta in essere dall’ex-procuratore capo di Taranto Capristo in merito ai fatti della trattazione degli esposti anonimi inviati a Trani sulla vicenda Eni-Descalzi. Il Gip di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio.

L’indagine di Taranto sui fumi dell’Ilva finisce sotto inchiesta. Commissari e magistrati sono stati sentiti dalla procura di Potenza. Nel mirino anche la consulenza ad Amara. Giuliano Foschini il 18 luglio 2020 su La Repubblica. A Potenza c’è un’inchiesta che potrebbe riscrivere un pezzo della storia recente della più importante industria italiana. Il procuratore Francesco Curcio indaga infatti sulle modalità con cui è stata condotta dalla procura di Taranto, nella sua seconda fase, l’indagine sull’inquinamento causato dall’Ilva di Taranto. E su come un gruppo di imprenditori e politici si preparavano a gestire il più grande appalto italiano: i 3...

Il procuratore Capristo prosciolto dal Tribunale di Messina per le accuse sulla vicenda ENI-De Scalzi.  Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2020. Il Gip del Tribunale di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio. Come da noi previsto è diventato ufficiale il provvedimento di archiviazione del Gip del Tribunale di Messina, dott. Monia De Francesco che ha confermato la richiesta della procura nei confronti dell’ex procuratore di Taranto Capristo , in quanto “rimangono delle irrisolte lacune ricostruttive”, e “non è stato possibile chiarire in modo sufficiente da poter sostenere un’ accusa in un’eventuale dibattimento“. Il Tribunale ha ritenuto quindi non sussistente alcun profilo di rilevanza penale nella condotta posta in essere dall’ex-procuratore capo di Taranto Capristo in merito ai fatti della trattazione degli esposti anonimi inviati a Trani sulla vicenda Eni-Descalzi. Il Gip di Messina ha così accolto la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Messina che avevano contestato al procuratore Capristo l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio.

Potenza, l'indagine su Capristo ora punta sui soldi dell'ex Ilva. «Favorì un imprenditore barese». Gli avvocati hanno presentato una nuova istanza di scarcerazione. Massimiliano Scagliarini il 19 Luglio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Quando venne sentito dalla Procura di Roma, l’avvocato Giuseppe Calafiore riferì le parole del suo collega di studio Piero Amara a proposito di Carlo Capristo: «“Io l’ho convinto a fare la domanda per Taranto, anche perché a me serve a Taranto in quanto io a Taranto ho interessi con l’Ilva”». Proprio dall’ex Ilva è ripartita l’inchiesta di Potenza, quella che il 19 maggio ha fatto finire ai domiciliari l’ex procuratore Capristo insieme al suo poliziotto di scorta e a tre imprenditori: l’ipotesi, stavolta, è che - anche grazie ai buoni uffici di Amara - un altro imprenditore possa aver ottenuto un trattamento privilegiato da parte dell’amministrazione straordinaria del gigante dell’acciaio. Per questo nei giorni scorsi il procuratore di Potenza, Francesco Curcio, ha ascoltato una serie di testimoni dopo aver mandato la Finanza ad acquisire documenti nella sede dell’Ilva in amministrazione straordinaria. Al centro del lavoro investigativo c’è, appunto, un imprenditore del Barese, storico fornitore dell’ex Ilva, che si sarebbe rivolto all’allora procuratore Capristo per chiedere l’apertura di un canale con la società commissariata con l’obiettivo di ottenere la liquidazione dei suoi crediti commerciali. Di questo episodio la Procura di Potenza ha chiesto conto, in qualità di testimone, anche al commissario Enrico Laghi: e non tanto perché le richieste dell’imprenditore potevano non essere legittime, ma per capire se in questa storia possa aver avuto un ruolo l’allora procuratore di Taranto. Capristo guida infatti l’accusa nei confronti dei manager dell’ex Ilva, e la Procura ha un ruolo non secondario nel destino dello stabilimento che è ancora sottoposto ad indagini e sequestri. Ecco, dunque, la delicatezza di questa vicenda. Capristo è stato arrestato con l’accusa di aver tentato - tramite il suo poliziotto di scorta, Michele Scivittaro - di esercitare pressioni su Silvia Curione, sostituto della Procura di Trani (dove Capristo è stato fino al 2016) affinché favorisse i tre amici imprenditori. Accusa che il magistrato barese ha negato seccamente già nell’interrogatorio di garanzia: «Se avessi voluto - è in sostanza la linea di difesa - avrei potuto chiamare direttamente la collega, non avevo bisogno di mandare nessuno». Già nelle scorse settimane l’inchiesta di Potenza si era avvicinata all’ex Ilva, approfondendo l’incarico di difesa affidato all’avvocato molfettese Giacomo Ragno, 72 anni, condannato a Lecce nell’ambito del processo in abbreviato sulla giustizia truccata a Trani e ritenuto dai testimoni un «fedelissimo» di Capristo. Anche in quel caso, il procuratore Curcio aveva ascoltato testimoni per capire come nascesse la scelta di un penalista così geograficamente «lontano»: i responsabili dell’ex Ilva avevano spiegato che, di prassi, nei procedimenti penali ciascuno è libero di nominare il proprio avvocato di fiducia salvo gradimento dell’azienda. Tra i documenti acquisiti dalla Finanza, oltre alle fatture liquidate dall’Ilva ad alcuni avvocati (tra cui lo stesso Amara), ci sono appunto i documenti relativi ai pagamenti e alle forniture effettuate dall’imprenditore barese, la cui posizione è al vaglio. Capristo intanto attende, ai domiciliari, che venga approvata la sua domanda di pensionamento: gli avvocati Francesco Paolo Sisto e Angela Pignatari hanno presentato una nuova istanza per chiedere la revoca della misura cautelare, puntando anche sulle precarie condizioni fisiche del magistrato.

Ilva, l’ex procuratore di Taranto e il legale dei falsi depistaggi Eni. La Procura di Potenza indaga e ha ascoltato i primi testimoni. Il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli: "Era il 3 luglio 2019 e pubblicamente chiedevo al Csm di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in Procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo "Ambiente Svenduto" partecipava anche l’avvocato Piero Amara". Il Fatto Quotidiano il 19 luglio 2020. Come già scritto dal fattoquotidiano.it lo scorso 12 giugno la procura di Potenza è impegnata a capire come l’indagine sull’ex Ilva, ormai sotto sequestro da sei anni e al centro di battaglie legali, sindacali e istituzionali, sia stata condotta con l’arrivo alla guida dell’ufficio inquirente di Carlo Maria Capristo, agli arresti domiciliari per le presunte pressioni su una magistrata. Ma quando Capristo fu arrestato – insieme a un poliziotto suo autista – si comprese che l’inchiesta da quel singolo episodio poteva portare più lontano, in acque ancora più torbide. Il procuratore di Potenza Francesco Curcio vuole capire come l’indagine sul polo siderurgico, in un settore strategico, sia stata condotta dalla procura di Taranto, sull’inquinamento causato dall’Ilva. Il punto è anche dipanare la tela di imprenditori e politici stavano tessendo per entrare e gestire i circa 3 miliardi che i vari governi avevano annunciato sarebbero stati messi a disposizione per l’ambientalizzazione e la bonifica del siderurgico e la riqualificazione della città martoriata, soprattutto per quanto riguarda il quartiere Tamburi dalle polveri. Il primo passo è stato cercare di chiarire i rapporti che Capristo ha intrattenuto con i commissari nominati dal governo prima della cessione del ramo di azienda ad Arcelor Mittal. Ma soprattutto con un consulente scelto dai commissari: non uno qualsiasi ma l’avvocato Pietro Amara, condannato per corruzione in atti giudiziari e coinvolto in diverse indagini. Il rapporto tra il procuratore e l’avvocato dell’Eni, finito nei guai sentenze pilotate, era noto perché emerso nell’ambito dell’indagine dei pm di Messina. Nei giorni scorsi il fascicolo di Potenza ha cominciato a diventare più corposo con i verbali racconti dagli investigatori. Uno di questi è quello dell’ex commissario Enrico Laghi, sentito come testimone, a cui è stato chiesto se la Procura di Taranto avesse sponsorizzato mai alcuni consulenti. E se avesse chiesto di accelerare pagamenti a determinati imprenditori. Ma Laghi – secondo quanto riportano Repubblica e Gazzetta del Mezzogiorno – ha negato. L’altro verbale racconto è quello di una magistrata che si era opposta, per prima, al dissequestro dell’altoforno che poi invece fu disposto. Un faro è puntato anche sul patteggiamento che fu rigettato il 30 giugno 2017 perché le pene ritenute inadeguate rispetto alla gravità dei reati. Proprio Piero Amara – di cui alcuni documenti sono stati trovati sotto l’auto di scorta della macchina di Capristo – era arrivato nel Palazzo di giustizia di Taranto come consulente della struttura legale di Ilva in As per partecipare alla cosiddetta “trattativa” con la procura per raggiungere quel patteggiamento che qualche anno prima, il pool di magistrati guidati allora da Franco Sebastio, aveva respinto. Lo staff legale dell’Ilva alza la posta offrendo il pagamento di una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro, 8 mesi di commissariamento giudiziale e 241 milioni di euro di confisca (invece dei 9 proposti nella prima istanza) come profitto del reato da destinare alla bonifica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Ma i giudici della Corte d’assise ritengono “le pene concordate con i rappresentati della pubblica accusa” sono “sommamente inadeguate e affatto rispondenti a doverosi canoni di proporzionalità rispetto alla estrema gravità dei fatti oggetto di contestazione”. Agli atti ci sono poi le dichiarazioni – rilasciate nelle inchieste di Milano e di Perugia, sul caso Palamara – dall’avvocato Giuseppe Calafiore, socio proprio di Amara. Ci sarebbe stato un forte interessamento di Amara, che però nega, perché Capristo riuscisse ad agguantare la poltrona di capo. A questo si aggiunge che a marzo 2017, due società, la “Dagi” e la “Entropia Energy”, di cui Amara è amministratore di fatto, si erano domiciliate a Martina Franca, in provincia di Taranto: l’ipotesi è che il legale puntasse ai lavori. “Invieremo un esposto al ministro della Giustizia affinché sia fatta luce su tutti gli interrogativi che pesano sulla vita dei cittadini e delle cittadine di Taranto, una città che paga un prezzo drammatico di vite per l’inquinamento – dice il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli – Era il 3 luglio 2019 e pubblicamente chiedevo al Csm di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in Procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo “Ambiente Svenduto” partecipava anche l’avvocato Piero Amara coinvolto nel processo Eni o sistema Siracusa, inchiesta che coinvolse il 2 luglio anche il procuratore Capristo”. “Sia l’avvocato Amara sia il procuratore Capristo – continua l’esponente dei Verdi – furono coinvolti nell’indagine sul depistaggio dell’indagine Eni, mentre il procuratore di Taranto rimase indagato per abuso d’ufficio”. E successivamente archiviato. “Nonostante le vicende giudiziarie di Amara fossero pubbliche, coinvolto nello scandalo delle sentenze pilotate del Consiglio di Stato – continua l’esponente dei Verdi – l’avvocato partecipò a delle riunioni in Procura insieme all’ufficio commissariale per analizzare la vicenda del patteggiamento su Ilva”. “Il Csm non intervenne mai – ricorda Bonelli – e il procuratore Capristo rispose dopo poche ore alla mia richiesta al Csm affermando che l’avvocato Amara non era stato invitato dalla Procura ma dall’ufficio commissariale: perché – chiede Bonelli – una persona indagata per corruzione e poi arrestata poteva partecipare a riunioni negli uffici della Procura che riguardavano l’andamento del processo Ambiente Svenduto? Perché dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia a Capristo, il 2 luglio 2019, per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Eni, la stessa inchiesta dove era coinvolto l’avvocato Palamara, il Csm non adottò nessun provvedimento?”.

Capristo, l’indagine torna sull’llva: 3 dipendente interrogati sugli incarichi all'avvocato Ragno. La fuga di notizie, archiviata: il magistrato era finito sotto accusa di aver anticipato la notizia di un sequestro nell'acciaieria. Massimiliano Scagliarini il 12 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nell’ottobre 2017 la Procura di Potenza aveva indagato su Carlo Capristo per una ipotesi di violazione del segreto di indagine. Una vicenda, nata dalla trasmissione di atti dalla Procura di Lecce, in cui si ipotizzava che il procuratore di Taranto avesse spifferato a un avvocato esterno dell’Ilva di un imminente sequestro all’interno dello stabilimento. L’accusa finirà archiviata su richiesta dell’aggiunto Francesco Basentini, che non riterrà rilevanti nemmeno gli elementi raccontati sul punto dal pm Lanfranco Marazia (allora a Taranto, oggi a Bari). Ma la storia è tornata a galla perché - proseguendo nelle indagini su Capristo (ai domiciliari ormai da due settimane) - i magistrati lucani hanno ascoltato tre dipendenti dell’Ilva: il loro sospetto è che dietro quella vecchia storia possa esserci stato uno scambio di favori. La circostanza al centro degli approfondimenti riguarda infatti un avvocato di Molfetta, Giacomo Ragno, già a processo a Lecce con l’accusa di corruzione nel troncone dell’inchiesta sulla Procura di Trani che dovrebbe chiudersi il 24 con la sentenza in abbreviato: rischia una condanna a 2 anni e 8 mesi per calunnia e corruzione. «Posso dire - aveva raccontato ai magistrati di Potenza il pm tranese Lucio Vaira - che il dottor Capristo intratteneva rapporti cordiali con la generalità della classe forense. Ho notato che aveva una certa consuetudine con l’avvocato Giacomo Ragno, che spesso ho avvistato nell’anticamera del procuratore da ciò deducendone che il procuratore era in servizio». Nel 2017 Ragno venne nominato come legale da due dipendenti dell’Ilva nell’ambito di un fascicolo del pm Marazia sullo smaltimento dei rifiuti dello stabilimento. L’ascolto dei tre testimoni serviva proprio a escludere che dietro la nomina dell’avvocato Ragno ci fosse qualche tipo di pressione, esattamente come - secondo la Procura di Lecce - ritiene che sia avvenuto nel caso di Trani. Qui l’imprenditore Flavio D’Introno (che a Potenza è stato sentito martedì) ha raccontato di essersi rivolto a Ragno, su input dell’ex gip Michele Nardi, affinché l’avvocato individuasse un falso testimone per far dichiarare false le notifiche delle cartelle esattoriali da 10 milioni di euro. Ciò che sarebbe emerso dalle testimonianze dei dipendenti dell’Ilva è che, in sostanza, ciascuno era libero di scegliersi un avvocato di propria fiducia purché fosse gradito alla società. Ma del resto lo stesso avvocato Pietro Amara, quello del «sistema Siracusa» che aveva fatto finire nei guai Capristo con la Procura di Messina (indagine poi archiviata), aveva interessi professionali con l’Ilva. Ne ha riferito alla procura di Roma il collega di studio di Amara, Calafiore: «”Io - qui Calafiore sta riferendo le parole di Amara a proposito di Capristo - l’ho convinto a fare la domanda per Taranto, anche perché a me serve a Taranto in quanto io a Taranto ho interessi con l’Ilva”». Amara è considerato una pedina del sistema Palamara per il tentativo di influire sulla nomina del Procuratore di Gela. E anche se per questa vicenda l’accusa di corruzione è caduta (Palamara non ha mai preso soldi dai due avvocati), la Procura di Perugia ha indagato anche sui rapporti tra Capristo e Palamara che facevano parte della stessa corrente: «Non ho ricordi su attività sollecitatoria di Palamara», mette a verbale l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. Palamara, dice Legnini, mise invece «particolare impegno» per la Procura di Trani: «Sostenne fortemente la nomina del dottor Di Maio», che ora a Potenza deve rispondere di favoreggiamento per aver provato a far archiviare il fascicolo sull’autista del suo predecessore.

Potenza, torna libero ex Procuratore Taranto Capristo. Procura chiede giudizio immediato: Scivittaro patteggia. La  prima  udienza  dibattimentale è stata fissata per il giorno 12 ottobre presso il Tribunale potentino. La Gazzetta del Mezzogiorno. Su istanza della difesa, il Gip del tribunale di Potenza, Antonello Amedeo, ritenendo cessate le esigenze cautelari ha revocato gli arresti domiciliari all'ex Procuratore della  Repubblica di Taranto Carlo Maria Capristo per il quale è stato chiesto il giudizio immedizato. Si svolgerà il prossimo 12 ottobre, davanti al Tribunale di Potenza, la prima udienza del processo contro l’ex Procuratore della Repubblica di Taranto, Carlo Maria Capristo, e degli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, accusati di tentata concussione ai danni di due sostituti procuratori, in un’inchiesta per perseguire penalmente, «senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto», una persona che gli imprenditori avevan o «infondatamente denunciato per usura in loro danno». Capristo, già Procuratore della Repubblica di Trani, i tre imprenditori e l'ispettore della Polizia Michele Scivittaro finirono agli arresti domiciliari, per tale vicenda, nel maggio scorso. In relazione alla posizione di Scivittaro, che ha patteggiato una condanna a un anno e dieci mesi, Capristo è accusato anche di falso in atto pubblico e truffa aggravata continuata. Tali reati - secondo la Procura della Repubblica di Potenza - furono commessi dall’ex Procuratore di Taranto «per consentire a Scivittaro di lucrare illecitamente emolumenti dal Ministero degli Interni». Il procedimento ingiusto fondato sulla denuncia falsa dei tre imprenditori non andò avanti perché per la «ferma opposizione» di un giovane pubblico ministero in servizio a Trani, che denunciò tutto e fece avviare un’inchiesta.

Nel frattempo, comunque, le indagini continuano. 

Capristo ritorna libero (di difendersi). Antonello de Gennaro il 21 Agosto 2020 su Il Corriere del Giorno. I reati di cui è accusato l’alto magistrato secondo la Procura della Repubblica di Potenza furono commessi “per consentire a Scivittaro di lucrare illecitamente emolumenti dal ministero degli Interni”. Secondo l’accusa, l’agente della Polizia di Stato anziché lavorare in Procura o per il suo ufficio, se ne andava in giro – tra Andria, Giovinazzo, Bari – a farsi gli affari suoi o a sbrigare con la presunta complicità di Capristo chiamato a rispondere di aver firmato gli statini di servizio dell’agente. E’tornato in libertà il magistrato Carlo Maria Capristo arrestato lo scorso 19 maggio scorso su richiesta del procuratore di Potenza Francesco Curcio, il quale a sua volta agisce nonostante la sua nomina sia stata revocata sin dal gennaio scorso, a seguito della decisione del Consiglio di Stato di non essere in possesso dei titoli per fare il procuratore capo! Si svolgerà quindi il prossimo 12 ottobre, davanti al Tribunale di Potenza, la prima udienza dibattimentale del processo contro Capristo e gli imprenditori baresi Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, accusati di una presunta tentata concussione ai danni di due sostituti procuratori Lanfranco Marazia e Silvia Curione e (rispettivamente marito e moglie), per un’inchiesta condotta in passato dalla pm Curione metre prestava servizio presso la Procura di Trani per perseguire penalmente, secondo le teorie della procura lucana “senza che ne ricorressero i presupposti di fatto e di diritto”, una persona che gli imprenditori avevano “infondatamente denunciato per usura in loro danno”. Incredibilmente la Procura di Potenza non è competente su quanto accade negli uffici giudiziari di Trani, che in realtà come ben noto è competenza della Procura di Lecce. Secondo la Procura lucana i Mancazzo , avrebbero cercato di convincere la Curione, giovane magistrato della Procura di Trani, a chiudere le indagini per usura e avviare il processo in quanto gli interessati avevano secondo il teorema accusatorio un obiettivo ben preciso: ottenere indebitamente dei vantaggi economici e i benefici di legge conseguiti dallo status di vittime di usura. Ed in tutto ciò è stato coinvolto senza alcuna prova concreta ed inconfutabile il procuratore di Taranto Capristo. I reati di cui è accusato l’alto magistrato secondo la Procura della Repubblica di Potenza furono commessi “per consentire a Scivittaro di lucrare illecitamente emolumenti dal ministero degli Interni”. Secondo l’accusa, l’agente della Polizia di Stato anziché lavorare in Procura o per il suo ufficio, se ne andava in giro – tra Andria, Giovinazzo, Bari – a farsi gli affari suoi o a sbrigare con la presunta complicità di Capristo chiamato a rispondere di aver firmato gli statini di servizio dell’agente. Tutto questo dal gennaio 2018 al momento degli arresti, come si legge nel capo di imputazione, “con l’avallo del procuratore Capristo che controfirmava le sue presenze in servizio e gli straordinari mai prestati”. Una maniera per giustificare il proprio impianto accusatorio in mancanza di alcun coinvolgimento reale di Capristo sulle presunte pressioni del suo autista-poliziotto e dei fratelli Mancazzo, lamentate nei confronti della pm Silvia Curione la quale non ha perso occasione per apparire anche fotografata nel suo ufficio sui giornali. Incredibilmente l’azione penale contro Capristo è stata esercitata da procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, il quale a sua volta era stato nominato illegittimamente alla guida della procura lucana, a seguito di nomina adottata dal Csm (una delle tante nomine “pilotate” dalla “cricca” Palamara & company), nonostante Curcio non avesse superato la settima valutazione di professionalità, a differenza dalla sua collega Laura Triassi che contestò la decisione del Consiglio Superiore della Magistratura, vedendosi riconoscere le proprie ragioni dal TAR Lazio, decisione contro la quale Curcio si era opposto mediante ricorso al Consiglio di Stato, che gli aveva dato torto lo scorso gennaio, confermando la decisione del tribunale amministrativo regionale romano. Il Consiglio di Stato, nella sua pronuncia sulla nomina di Curcio come procuratore di Potenza, evidenziò che il suo sindacato non si spinge a sostenere l’irrilevanza delle funzioni svolte da Curcio «quale sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo». stigmatizzando piuttosto «l’assenza di una comparazione esplicita, ed in quanto tale misurabile secondo gli usuali canoni della ragionevolezza e proporzionalità», tra questa e quella da procuratore facente funzioni della Triassi, che invece risulta del tutto obliterata nelle valutazioni del suo profilo da parte del Csm. Il collegio giudicante del Consiglio di Stato (Giuseppe Severini presidente, Stefano Fantini estensore, e consiglieri Giovanni Grasso, Anna Bottiglieri e Elena Quadri) bocciò anche la difesa del Consiglio superiore della magistratura che si era costituito in udienza per contestare «la necessità di un’analitica valutazione dei profili dei candidati con riferimento alle attitudini ed al merito», a favore di una «tecnica di redazione di maggiore concisione sia nella presentazione (od elencazione) dei candidati, che nel giudizio comparativo, in assenza di una prescrizione normativa specifica che lo precluda». Nel caso di specie, infatti, più che di «concisione» bisognerebbe parlare di omissione di una circostanza rilevante che ne inficia la completezza. Adesso il Csm, colpito da uno scandalo scatenato per la deriva correntizia di alcune nomine, delle correnti conniventi alla sinistra (nelle persone dei parlamentari Cosimo Ferri di Italia Viva e Luca Lotti del Pd) dovrà quindi tornare sul suo operato, «rivalutando – come scriveva il Tar del Lazio – la posizione della ricorrente e poi comparandola» con quella dei tre procuratori in servizio a Potenza (Curcio n.d.a.) , Nola e Napoli, dove anche un altro candidato ha ottenuto l’annullamento della nomina di Falcone per motivi simili. Come ben noto a tutti questo giornale, che ha sempre manifestato il proprio garantismo giudiziario, ha sempre difeso l’operato del procuratore Capristo per una serie di motivi, che andiamo di seguito ad elencare:

PRIMO MOTIVO. Il presunto vantaggio del reato che Capristo avrebbe commesso consisterebbe nel poter condividere con i tre imprenditori denuncianti (cioè i Mancazzo n.d.a) i vantaggi economici derivanti da una legge dello Stato, truffandolo, a favore delle vittime dell’usura. Ma i Mancazzo hanno sempre negato qualsiasi contatto diretto con Capristo. Contatti dei quali peraltro la Procura di Potenza non ha mai portato alcuna prova.

SECONDO MOTIVO. Se Capristo avesse realmente avuto un intenzione delinquenziale e truffaldina di arrivare ad accusare per usura un innocente pur di lucrare dei vantaggi economici, non avrebbe mai potuto revocare la delega alla “pm-protagonista” Silvia Curione per affidarla ad altro collega più accondiscendente o addirittura avocare a sè il fascicolo auto-assegnandosi personalmente le indagini. Capristo da procuratore capo di Taranto non ha mai fatto nulla di tutto questo non avendo egli alcuna competenza e/o potere giudiziario sulle decisioni della Procura di Trani. Quindi come avrebbe mai potuto esercitare delle illegittime pressioni?

TERZO MOTIVO. L’ ipotesi accusatorio formulata dalla Procura di Potenza nei confronti di Capristo appare se non fantasiosa … a dir poco inconsistente e fragilissima per il fatto che non fa altro che trasformare i normali e quotidiani rapporti dialettici fra un procuratore capo ed un suo sostituto (il pm Lanfranco Marazia) , un’ ipotesi di reato nella forma del tentativo nei confronti della moglie (la pm Silvia Curione), è incredibilmente assurda e contestualmente purtroppo “ridicola” e vergognosa per la giustizia italiana.

Chi ha avuto come il sottoscritto una certa frequentazione negli uffici giudiziari delle varie procure italiane, sa bene che le discussioni ed anche gli scontri dialettici e le divergenze giuridiche fra un procuratore Capo ed i suoi sostituti, sono frequenti, ma sa anche molto bene che rientrano nella quotidianità del lavoro di un magistrato. Arrivare al punto trasformarli in tentativi di reato, in indebite “pressioni” a mio parere (ed anche di illustri giuristi e magistrati di Cassazione da me consultati) è a dir poco onestamente folle e del tutto non credibile. Partendo dal punto di vista, dell'”accoppiata” barese Curione-Marazia, tutto può diventare una “pressione”, anche una semplice parola proferita in più, un gesto, una locuzione. E quindi di fatto nulla lo è realmente. Inoltre vi è un particolare non indifferente. Questi eventuali vantaggi economici a favore dei Mancazzo si sarebbero potuti concretizzare esclusivamente in un mutuo a tasso agevolato destinato a mantenere in attività l’impresa danneggiata dall’usura, finanziamento che però sarebbe stato corrisposto soltanto dopo una sentenza definitiva che avesse accertato il reato, quindi tutto ciò dopo anni ed anni di trafila giudiziaria e burocratica,  ed inoltre sarebbe stato da dividere fra quattro persone!

Orbene se usiamo la ragione, con equilibrio, senza credere al sensazionalismo dei titoli “strillati” dei soliti giornalisti manettari e ventriloqui di qualche magistrato a caccia di gloria e ribalta nazionale, bisogna ricordare che lo stipendio mensile netto di un Procuratore Capo, cioè del ruolo che Capristo ricopriva, è intorno agli ottomila euro al mese, motivo per il quale l’ipotesi folle di commettere un reato (o meglio un tentativo) per ottenere un mutuo a tasso agevolato che peraltro è vincolato alla sua destinazione, sul quale poter lucrare al massimo qualche decina di migliaia di euro, in tempi futuri e sopratutto incerti, sempre sulla base del presupposto che il reato di usura venisse accertato in sede giudiziale, dopo le consueti lungaggine burocratiche della giustizia italiana, è una ipotesi del terzo tipo, cioè dell’irrealtà, che in giudizio si potrebbe basare soltanto sull’ipotesi che Capristo sia un folle o uno spregiudicato balordo. E chi conosce Carlo Maria Capristo sa molto bene che non lo è affatto. Concludendo, non posso che manifestare ancora una volta il mio sdegno nel ricordare che all’atto della perquisizione disposta dalla Procura di Potenza nell’ufficio di Capristo presso la Procura di Taranto, l’aggiunto Maurizio Carbone, invece di manifestare una minima forma di solidarietà umana , e di necessario garantismo, nei confronti del suo ex procuratore capo, diramò questo comunicato (riportato sotto integralmente) e peraltro stranamente…mai inviato al nostro giornale! Ci permettiamo di porre pubblicamente una semplice domanda al procuratore aggiunto Maurizio Carbone che fra qualche mese tornerà in “panchina” con l’imminente nomina di un nuovo procuratore capo di Taranto, che non potrà essere lui, non avendone i i titoli necessari qualificanti : ma se le imputazioni “non riguardano l’attività del nostro ufficio” vuole farsi spiegare dal suo “compagnuccio” Francesco Curcio anch’egli esponente della corrente di Area, (il gruppo più a sinistra della magistratura italiana n.d.a. ) una cosa per tutti noi ?

“Ma se le vicende giudiziaria, come scrive Carbone nel suo comunicato, non riguardavano gli uffici giudiziari di Taranto, allora che competenza ha la Procura di Potenza?” Me lo chiedeva un importante magistrato amico del Csm…

Corruzione, 15 arresti: ci sono il pm Longo, l’avvocato di Eni Amara e Bigotti, imprenditore del caso Consip. Una rosa di nomi eccellenti e frequentatori assidui delle cronache giudiziarie, quelli finiti nell'inchiesta delle Procure di Roma e Messina, protagonisti di due associazioni a delinquere. Spicca il suolo dell'ex pubblico ministero di Siracusa, il quale in cambio di soldi e vacanze avrebbe aperto procedimenti giudiziari fittizi per venire a conoscenza del contenuto di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. Il Fatto Quotidiano il 6 febbraio 2020. Quindici arresti. Una rosa di nomi eccellenti e frequentatori assidui delle cronache giudiziarie, quelli finiti nel mirino di un’operazione messa a segno dalla Guardia di Finanza su ordine delle Procure di Roma e Messina, protagonisti di due associazioni a delinquere dedite alla frode fiscale, reati contro la P.A. e corruzione in atti giudiziari. Ci sono Giancarlo Longo, ex pm della Procura di Siracusa, l’avvocato Piero Amara (legale di Eni) e gli imprenditori Fabrizio Centofanti e Enzo Bigotti, e il docente della Sapienza Vincenzo Naso. I nomi di Amara e Bigotti erano emersi negli atti dell’inchiesta sul caso Consip. Quello di Centofanti, invece, era legato all’inchiesta su Maurizio Venafro, l’ex capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti, poi assolto in uno dei vari stralci del processo Mafia Capitale. Nell’inchiesta risulta indagato anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio (oggi in pensione). Nei suoi confronti si contesta il reato di corruzione in atti giudiziari in concorso con l’avvocato Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Nei confronti di Virgilio era stata chiesta una misura “non detentiva” ma è stata respinta dal gip per assenza di ragioni cautelari. “Le indagini hanno preso le mosse da distinti input investigativi, convergendo sull’operatività dei due sodalizi criminali, (individuati dagli inquirenti come “mondo Centofanti” e “mondo Amara“, ndr) consentendo altresì la ricostruzione di ipotesi di bancarotta fraudolenta da parte di soggetti non riconducibili alla struttura delle organizzazioni”, ricostruiscono gli inquirenti. Nelle carte dell’inchiesta i pm tratteggiano il ruolo del giudice Longo, il quale “in qualità di pubblico ufficiale svendeva la propria funzione” e “ha dimostrato di possedere una personalità incline al delitto, perpetrato attraverso la strumentalizzazione non solo della funzione ricoperta, ma anche dei rapporti personali e professionali”. In particolare, nella sua veste di pubblico ministero a Siracusa – prima di essere trasferito su sua richiesta al Tribunale civile di Napoli – Longo avrebbe messo a disposizione la sua funzione giudiziale per aiutare i clienti di Amara e Calafiore, dai quali avrebbe intascato 88mila euro, vacanze offerte con la famiglia a Dubai e un capodanno al Grand Hotel Vanvitelli di Caserta. In cambio dei quali si era messo a loro servizio “a partire dal 2013 e sino ai primi mesi del 2017“. Una “mercificazione della funzione giudiziaria” nell’ambito della quale Longo avrebbe aperto procedimenti giudiziari fittizi allo scopo di venire a conoscenza del contenuto di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. Tra queste l’indagine aperta presso la Procura di Milano in cui figurava tra gli indagati l’ad di Eni Claudio Descalzi, rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. I metodi usati da Longo erano tre: creazione di fascicoli “specchio”, che il magistrato “si auto-assegnava – spiegano i pm che hanno condotto l’inchiesta – al solo scopo di monitorare ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi (e di potenziale interesse per alcuni clienti rilevanti degli avvocati Calafiore e Amara), legittimando così la richiesta di copia di atti altrui, o di riunione di procedimenti; fascicoli “minaccia”, in cui “finivano per essere iscritti – con chiara finalità concussiva – soggetti ‘ostili’ agli interessi di alcuni clienti di Calafiore; e fascicoli “sponda”, che venivano tenuti in vita “al solo scopo di creare una mera legittimazione formale al conferimento di incarichi consulenziali (spesso, radicalmente inconducenti rispetto a quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’indagine), il cui reale scopo era servire gli interessi dei clienti di Calafiore a Amara”. “La gravità delle condotte da lui poste in essere in qualità di pubblico ufficiale che – prosegue l’ordinanza riguardo a Longo – concorreva alla redazione di atti pubblici ideologicamente falsi, si faceva corruttore di altri pubblici ufficiali, con piena accettazione da parte degli stessi, che venivano per giunta da lui remunerati con soldi pubblici, intratteneva una rete di rapporti dall’origine oscura e privi di apparente ragion di essere oltre che, in certi casi, contraria ai più elementari principi di opportunità, depone nel senso della assoluta insufficienza a contenere il pericolo di reiterazioni criminosa attraverso misure diverse e meno afflittive della custodia cautelare in carcere”. L’inchiesta coinvolge anche un noto giornalista siracusano, Giuseppe Guastella, finito ai domiciliari. Secondo l’accusa, in cambio di soldi, ricevuti da Amara, che è anche legale esterno dell’Eni, Guastella avrebbe divulgato sul “Diario” “reiterate affermazioni di natura diffamatoria in danno dei magistrati Marco Bisogni e Tommaso Pagano, incaricati di valutare i fascicoli iscritti nei confronti di clienti degli avvocati Amara e Calafiore”, scrive, nel capo d’imputazione, la Procura di Messina che ha condotto l’indagine. L’inchiesta è nata da una denuncia firmata da otto pubblici ministeri di Siracusa, colleghi di Longo. Un esposto del 24 settembre del 2016 denunciava il sospetto di rapporti illeciti tra l’ex pm, nel frattempo trasferito al tribunale civile di Napoli, e Calafiore e Amara. Rapporti, che, scrivevano i magistrati, sarebbero stati una sorta di “prosecuzione sottotraccia” delle relazioni illegali che un altro pm siracusano aveva con i due difensori. Si tratta di Maurizio Musco, che è stato condannato con sentenza definitiva per abuso d’ufficio insieme all’allora capo della Procura Ugo Rossi. La società di consulenza di Amara e Calafiore, ha rapporti economici, tra l’altro, con gli imprenditori siracusani del “gruppo Frontino”, che sarebbero, secondo l’accusa, tra i soggetti avvantaggiati da Longo.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2020. Il procuratore generale della Cassazione, Mario Fresa, 59 anni, è stato denunciato dalla moglie per violenza domestica, lesioni personali e minacce a seguito di una presunta aggressione in casa. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo sulla vicenda e la Suprema corte ha sospeso il magistrato dall' incarico come da lui stesso chiesto. La donna, 32 anni, sudamericana, ha raccontato alla polizia di essere stata colpita alla tempia con un pugno martedì 10 marzo nel corso di una lite nata per motivi di gelosia ma che secondo la denuncia sarebbe solo l' ultimo episodio di una serie di violenze psicologiche cominciate durante la sua gravidanza. La coppia ha un figlio di poco meno di due anni e la donna ha spiegato agli agenti di essere notevolmente ingrassata in quel periodo in risposta alle difficoltà e preoccupazioni vissute per questioni mediche legate alla gestazione. In questa situazione il procuratore Fresa, suo marito dal settembre 2019 dopo tre anni di convivenza, le avrebbe fatto pesare il mutato aspetto fisico. Poi, la scorsa settimana ci sarebbe stato il pugno sferrato nel bagno di casa che, su consiglio della tata presente all' episodio, ha portato la donna a chiamare i soccorsi nonostante le minacce di lui sulle possibili conseguenze. In ospedale le è stata riscontrata una forte contusione alla tempia fino all' altezza dello zigomo, guaribile in sette giorni. La denuncia alla polizia nel protocollo anti violenza è stata subito trasmessa in Procura ed è ora in mano al pm Maria Monteleone che coordina il pool dedicato al contrasto delle violenze di genere. Le verifiche sono in corso. La 32enne è andata nel frattempo a vivere dalla mamma a Viterbo. La denuncia, resa nota ieri da Repubblica , ha intanto prodotto la conseguenza dei provvedimenti disciplinari a carico del magistrato: «La Procura generale della Cassazione - si legge in una nota - impregiudicata ogni valutazione circa il merito della vicenda, rimessa in primo luogo all' Autorità giudiziaria, ha immediatamente provveduto a sostituire il dottor Fresa, che ha fatto richiesta in tal senso, nella trattazione dei procedimenti, sospendendolo integralmente dalla partecipazione al servizio disciplinare». Fresa, magistrato dal 1987, ha svolto funzioni di pretore e addetto al Massimario della Cassazione come referente informatico. È stato nel comitato direttivo centrale dell' Anm e per tre anni componente della giunta esecutiva. Dal 2006 al 2010 è stato componente del Csm. Dal 2016 è nel consiglio direttivo della Cassazione. Tra gli altri casi, si è occupato del procedimento disciplinare a carico dei pm di Napoli Henry John Woodcock e Celestina Carrano nella vicenda Consip, mentre lo scorso febbraio ha chiesto la restituzione dei 250 mila euro riconosciuti ai tre orfani di Marianna Manduca, la donna catanese uccisa dal marito nel 2017, dopo l' assoluzione dei pm inizialmente ritenuti responsabili di non essere intervenuti sulle 12 denunce presentate dalla vittima.

Roma, accusato di violenze sulla moglie: sospeso il pg della Cassazione Mario Fresa. Dopo la denuncia della donna raccontata da Repubblica. La nota della Procura generale della Cassazione. Federica Angeli il 17 marzo 2020 su La Repubblica. "Impregiudicata ogni valutazione circa il merito della vicenda, rimessa in primo luogo all'Autorità giudiziaria, si è immediatamente provveduto a sostituire il dottore Fresa, che ha fatto richiesta in tal senso, nella trattazione dei procedimenti, sospendendolo integralmente dalla partecipazione al Servizio disciplinare". La procura generale della Cassazione dopo la denuncia raccontata da Repubblica della moglie del pg Mario Fresa ha affidato a una nota diramata nel pomeriggio la notizia della sua sospensione dall'incarico. La denuncia penale sporta dalla donna di 32 anni lo scorso mercoledì è ora in mano ai magistrati del pool di piazzale Clodio, che si occupano dei reati sulla violenza di genere. La donna, finita in ospedale per un pugno alla tempia e dimessa con sette giorni di prognosi dopo una lite per questioni di gelosia col marito, è ora fuori Roma a casa della madre con il figlio di due anni. L'inchiesta si basa sulla denuncia della moglie, una trentaduenne con cui Fresa, 59 anni,  era sposato dal 2019 dopo una convivenza di tre anni, che accusa il magistrato di "averla colpita con un pugno alla tempia in casa al termine di una lite" (sette giorni la prognosi) e minacciata "di portarle via il figlio se avesse sporto denuncia". Il giorno prima, in quella casa nel centro storico, tra i due era nata una discussione per motivi di gelosia che era terminata appunto con un fortissimo pugno alla tempia ricevuto davanti alla tata del figlioletto dei due coniugi. Erano le 15.30 dello scorso martedì. Malgrado le minacce, la vittima ha chiamato il 112. Quando gli agenti hanno visto la donna in quelle condizioni hanno chiesto l'intervento di un'ambulanza.

Toghe, l'ultimo scandalo. "Il sostituto di Cassazione ha pestato la moglie". Fresa denunciato, ora è stato sospeso. Ex Csm, ha respinto il ricorso di vittime di femminicidio. Massimo Malpica, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Toghe senza pace. Finisce sotto indagine, e sospeso, il sostituto procuratore generale della Cassazione Mario Fresa, 59 anni, che è anche addetto al servizio disciplinare. A inguaiarlo, la denuncia per percosse e minacce presentata contro di lui dalla moglie, una donna di origini sudamericane di 32 anni che ha raccontato agli agenti di un commissariato della Capitale di essere stata colpita con un pugno alla tempia dal magistrato al culmine di una lite nata per motivi di gelosia, lo scorso 10 marzo, nella casa del centro di Roma dove la coppia abita. Una lite che si sarebbe svolta nel primissimo pomeriggio, alla presenza della baby sitter che badava a loro figlio, un bambino di quasi due anni. La donna, che sarebbe andata dalla polizia dopo essersi fatta refertare in ospedale per il cazzotto (prognosi di una settimana per una contusione allo zigomo), ha raccontato agli agenti che la lite è l'ultima di una lunga serie. Lei e Fresa si sono sposati lo scorso anno dopo una convivenza di tre anni, durante la quale, nella primavera del 2018, è nato anche il figlio della coppia. Proprio la gravidanza, e la perdita da parte della donna della forma fisica, avrebbe secondo la moglie del magistrato innescato rimostranze, lamentele e litigi da parte del marito, non soddisfatto per le nuove forme della signora, che dopo l'ultima lite degenerata la scorsa settimana è andata a vivere fuori casa. Nel verbale, secondo quanto racconta Repubblica, la donna avrebbe anche raccontato che Fresa l'avrebbe minacciata di toglierle il figlio se lei non avesse desistito dallo sporgere denuncia. Ma la 32enne non ha cambiato idea, a quanto pare convinta anche dalla baby sitter che aveva assistito all'ennesima lite. E ora la procura di Roma ha aperto un fascicolo, assegnato al pool di toghe capitoline che si occupa della violenza di genere, coordinato dall'aggiunto Maria Monteleone. La procura generale della Cassazione, ieri, appreso dell'indagine, ha subito deciso la sospensione di Fresa dalla partecipazione al servizio disciplinare, oltre a sostituirlo, come richiesto dallo stesso magistrato, dalla trattazione dei procedimenti. Fresa, che si occupava di disciplinare dal 2014, era stato per 4 anni anche componente del Csm. Poco più di un mese fa una sua decisione era finita sui giornali, quando aveva chiesto ai giudici della Suprema corte di respingere il ricorso dei figli di Marianna Manduca, vittima di femminicidio nonostante le 12 denunce presentate contro il marito, condannati in appello a restituire il risarcimento che lo Stato aveva loro riconosciuto in primo grado per l'omicidio della madre. Sempre Fresa aveva seguito il procedimento davanti al Csm del magistrato anglopartenopeo Henry John Woodcock, accusato di aver leso il diritto di difesa dell'ex consigliere economico di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, Filippo Vannoni. Fresa chiese per Woodcock una censura, e la sezione disciplinare del Csm confermò la richiesta di censura (poi annullata dalla Cassazione a novembre scorso con rinvio al Csm) solo per le dichiarazioni incaute rilasciate dal pm a una giornalista di Repubblica sull'indagine, mentre assolse Woodcock per la vicenda di Vannoni. Il caso di Fresa è solo l'ultimo di una serie di imbarazzanti inciampi che hanno colpito la magistratura. È di dicembre scorso il caso di Andrea Nocera, capo degli 007 di via Arenula per volontà del Guardasigilli Alfonso Bonafede e costretto a dimettersi in seguito all'iscrizione nel registro degli indagati con l'accusa di corruzione a Napoli. Ma tutta la seconda metà del 2019 è stata segnata dallo scandalo perugino sulle toghe sporche che ha coinvolto Csm e Anm, dopo il coinvolgimento dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, che trattava nomine con gli esponenti Pd Lotti (ora Iv) e Cosimo Ferri. 

Pm picchia la moglie, i colleghi: “Non lo denunciare, nessuno ti crederà”. Giovanni Altoprati de Il Riformista il 18 Marzo 2020. Un nuovo scandalo travolge i vertici della magistratura italiana. Questa volta non si tratta di nomine pilotate ma di una triste storia di violenza fra le mura domestiche. Il protagonista è Mario Fresa, sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Al termine di una lite per motivi di gelosia, l’alto magistrato avrebbe sferrato un violento pugno alla tempia della moglie, causandole lesioni guaribili in sette giorni, per poi minacciarla di portarle via il figlio, di poco più di un anno, se avesse sporto denuncia. L’episodio, avvenuto nella casa dei coniugi Fresa al centro di Roma, risale allo scorso dieci marzo ed è stato riportato ieri dal quotidiano La Repubblica. Il magistrato, in particolare, sarebbe stato sorpreso dalla moglie al telefono con un’altra donna. Da qui la violenta discussione terminata con un fortissimo pugno alla tempia assestato davanti al figlioletto e alla tata. Malgrado le minacce, la vittima aveva chiamato il 112. Quando gli agenti hanno visto la donna in quelle condizioni hanno chiesto l’intervento dell’ambulanza. Fresa è un esponente di spicco del Movimento per la giustizia che, insieme a Magistratura democratica, rappresenta la sinistra giudiziaria all’interno dell’Associazione nazionale magistrati. Già consigliere del Csm dal 2006 al 2010, attualmente rappresenta la pubblica accusa davanti alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. Un incarico particolarmente prestigioso e di grande responsabilità. È lui che ha gestito i procedimenti più scottanti degli ultimi anni. Di recente aveva chiesto e ottenuto la radiazione dalla magistratura di Silvana Saguto, l’ex presidente della Sezione misure di sorveglianza di Palermo, e stava gestendo il processo a carico di Davide Nalin, pm a Rovigo, che con Francesco Bellomo, già consigliere di Stato, imponeva il “dress code” alle aspiranti magistrate. Il procuratore generale Giovanni Salvi, diffusasi la notizia, ha disposto la sospensione di Fresa dall’incarico di accusatore dei colleghi, confinandolo fra le mura della Cassazione. La denuncia della moglie di Fresa sarà trattata dal procuratore aggiunto della Capitale Maria Monteleone, magistrato molto esperto nei reati contro i soggetti deboli, di recente relatrice del convegno organizzato da Magistratura democratica al Senato sulla riforma del diritto di famiglia. Con l’entrata in vigore del “codice rosso” i tempi per questo genere di procedimenti sono estremamente contingentati: la polizia giudiziaria provvede subito a comunicare al magistrato la notizia di reato affinché la vittima sia sentita personalmente dal pm entro tre giorni.  La pena, in caso di condanna, è della reclusione fino a sette anni, aumentata fino alla metà se il fatto avviene, come in questo caso, in presenza di un minore. Fra i punti da chiarire da parte dei pm della Capitale, infine, il comportamento tenuto dai colleghi di Fresa che avrebbero “consigliato” alla moglie di “tornare a casa e mettere tutto a tacere” in quanto non sarebbe stata mai creduta.

Chi è Mario Fresa, Pm di ferro e femminista che picchia la moglie. Giovanni Altoprati de il Riformista il 20 Marzo 2020. Mario Fresa, il magistrato denunciato la scorsa settimana dalla moglie per averla picchiata, ha sempre avuto una particolare attenzione per i colleghi che “sbagliano”. Prima, da componente della Sezione disciplinare del Csm, giudicandoli, poi, da sostituto procuratore generale della Cassazione, accusandoli. Entrato in magistratura nel 1988, fu tra i primi a porre la “questione morale” fra le toghe, disse Mario Almerighi, suo magistrato affidatario. Impegnato nell’associazionismo giudiziario, aderì alla corrente di sinistra Movimento per la Giustizia di cui è stato per anni segretario a Roma. La carriera correntizia di Fresa è quella tipica di tutti i magistrati destinati ad incarichi di vertice: dopo l’attività a livello locale, nel 2003 l’elezione nel direttivo nazionale dell’Anm e, nel 2006, il grande balzo come componente del Csm. Terminato l’incarico a Palazzo dei Marescialli, ecco la prestigiosa Procura generale della Cassazione. Negli anni ruggenti del Berlusconismo e dello scontro fra politica e magistratura, Fresa è in prima linea. Plaudeva alla bocciatura del “lodo Alfano” da parte della Consulta, firmava appelli di sostengo al giudice milanese del processo del caso Mills, Nicoletta Gandus, appoggiava pancia a terra i colleghi che indagavano Marcello Dell’Utri e Ottaviano Del Turco. “Ho contributo alla deliberazione di diverse pratiche a tutela della giurisdizione dai continui attacchi e denigrazioni del Presidente del Consiglio”, rivendicava fiero in una intervista. “I problemi – aggiungeva Fresa – sorgono quando una buona parte della politica – da sempre non incline a subire un efficace controllo di legalità – si rende intollerante verso le decisioni giurisdizionali non gradite e denigra, delegittima dinanzi all’opinione pubblica i magistrati che si sono resi responsabili di decisioni non gradite, o la magistratura nel suo complesso”. E ancora: “Il rapporto tra politica e magistratura è particolarmente inquinato e si caratterizza spesso per la “personalizzazione” delle vicende giudiziarie che porta, a volte, il potere esecutivo ed il potere legislativo ad emettere veri e propri provvedimenti legislativi “ad personam”, onde evitare non solo il ripetersi in futuro di scomode inchieste giudiziarie, ma addirittura la paralisi dei processi in corso. E’ questa una anomalia tutta italiana, che in Europa ed in altre parti del mondo viene biasimata e condannata”. Tornando alle toghe che “sbagliano”, per Fresa il principale problema sono sempre state le garanzie. “L’efficacia della giustizia disciplinare – dichiarava severo – può essere vanificata dal concorrente ed a volte pregiudiziale procedimento penale, che può giungere dopo anni alla definitiva conclusione. In questi casi, o si assiste ad una possibile “fuga” dalla giurisdizione, mediante le dimissioni del magistrato o, in mancanza dei presupposti per l’adozione della misura cautelare della sospensione dalle funzioni, si espone per anni la collettività all’esercizio della giurisdizione da parte di un magistrato-imputato, con perdita della credibilità del magistrato stesso e con grave discredito dell’istituzione giudiziaria”. Nel 2014 si scagliò contro Beppe Grillo, autore di un volgare post su Fb contro la presidente della Camera Laura Boldrini, firmando l’appello di Magistratura democratica, il gruppo che ora con Davigo ha la maggioranza al Csm, in cui si esprimeva “profonda indignazione e grande preoccupazione per le offese volgari e sessiste ricevute nei giorni scorsi da donne che rivestono cariche istituzionali di massima importanza: il sessismo ha radici in odiosi pregiudizi e arcaici stereotipi, si fonda su logiche di controllo e sopraffazione affatto distanti dai fondamenti della nostra democrazia. Chi ignora decenni di elaborazioni e battaglie contro la violenza, le diseguaglianze e le discriminazioni ha scelto comunque da che parte stare. Noi stiamo dalla parte opposta perché ci riconosciamo nell’art. 3 della Costituzione”.

Garantismo a targhe alterne: numero 2 della magistratura accusato di aver percosso la moglie, ma nessuno ne parla. Piero Sansonetti de Il Riformista il 20 Marzo 2020. Immaginate che l’Ansa diffonda la notizia che il vice presidente della Camera, o il vice presidente del Consiglio, o il ministro degli Esteri (o anche il sindaco, poniamo, di Viterbo o di Caserta), è stato denunciato dalla moglie che sostiene di essere stata picchiata da lui davanti al figlio e alla baby sitter. Cosa succederebbe? A quante colonne sarebbe riportata la notizia sulle prime pagine dei giornali? Quanti direttori di quotidiano, o segretari di partito, o esponenti politici, o conduttori di talk show, chiederebbero le dimissioni immediate dall’incarico, e magari anche dal Parlamento, o dal consiglio comunale, o da qualunque altra cosa? Quasi tutti. E sui giornali le colonne in prima sarebbero tantissime. L’altro giorno invece, quando si è saputo che la moglie del numero 2 della Corte di Cassazione ha accusato il suo rispettabilissimo marito di averla percossa, non si è mossa foglia. Repubblica ha fatto lo scoop, ma senza esagerare nei toni. Gli altri giornali – alcuni – hanno ripreso la notizia con pudore. C’è addirittura un giornale – parlo del Fatto Quotidiano, il foglio torchemadista di Travaglio – che si è dimenticato di pubblicarla. Escludo, naturalmente, che sia stata una dimenticanza intenzionale. So bene quanto il Fatto stia attento a denunciare i cattivi comportamenti dei pubblici ufficiali, so come abbia per “bussola” il principio di non guardare mai in faccia a nessuno. Deve essere stata una dimenticanza, un equivoco. Curiosamente – ma certo è solo una coincidenza – ripetuto il giorno dopo. Il dottor Mario Fresa non ha dovuto subire troppi guai dalla denuncia della moglie, che lo ha accusato di un reato così grave. Niente gogna, grazie ai giornali, tutti, giustamente, garantisti, come sempre del resto (basta ricordare con quanta delicatezza affrontarono il caso Lupi, o il caso Guidi, o il caso Penati, sempre fermi come rocce sull’idea della presunzione di innocenza e del rispetto della privacy). Niente provvedimenti amministrativi, tranne la decisione del Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi – di cui Fresa è il vice – di ritirargli l’incarico di rappresentare la Cassazione alla commissione disciplinare del Csm. Tutto qui. Salvi ha pensato che forse non era il caso di mandare uno accusato di aver picchiato la moglie di fronte al figlio e la baby sitter, a guidare l’accusa contro altri magistrati sottoposti a procedimento disciplinare dinanzi al Csm (e destinati, comunque, sia detto per inciso, a essere quasi certamente assolti: così dicono le statistiche). Ha fatto bene Salvi. E poi? Poi basta. Per Fresa al momento non è prevista nessuna procedura disciplinare. Può restare al suo posto di numero 2 della magistratura italiana. Ben diverse, e più severe, furono le decisioni, quando si scoprì che alcuni magistrati avevano partecipato a riunioni parapolitiche (caso-Palamara). Giusto così: andare a una riunione è del tutto chiaramente una cosa molto più grave che gonfiare di botte una donna. Io sono garantista davvero, e penso che non sia affatto dimostrato che Fresa sia colpevole. Figuratevi: non è che solo perché è un magistrato allora deve essere colpevole per forza. Del resto non è rara la vicenda di qualche magistrato caduto nelle trappole, generalmente organizzate da qualche suo collega. E sono ben contento che Fresa non venga linciato. Andrà provato che la denuncia della moglie corrisponde al vero, andrà, se necessario, fatto un processo, e poi un appello e poi si andrà in Cassazione. Certo, è curioso pensare che se tutto andrà così come ho detto, e se nessuno chiederà o imporrà le dimissioni di Fresa, lui, quando il suo caso andrà in Cassazione, sarà probabilmente lì nella doppia qualità di imputato e di massimo dirigente della Cassazione che dovrà giudicarlo. Ma lasciamo stare i paradossi. Vorrei solo avere alcune risposte alle seguenti domande:

1- è vero o no che se un politico viene sospettato di avere commesso un reato, magari una semplice raccomandazione, viene annientato da giornali, magistrati e politici fratelli, e viene costretto a dimettersi e a concludere la sua carriera, e se invece un magistrato viene sospettato di un reato parecchio più grave non succede nulla? Cioè: è vero o no che la legge è uguale per tutti, tranne che per i politici, per i quali è molto più severa, e per i magistrati, per i quali è sommamente indulgente? E dunque è vero che esiste una casta superiore e quasi divina, cioè quella dei magistrati?

2- è vero o no che un reato finanziario è infinitamente più grave, nella gerarchia di valori che ormai l’informazione ha assunto, in gran parte mutuandola dai grillini, di un reato violento? Cioè, è vero che se ti picchio senza lucro economico, in fondo è una marachella?

3 – è vero o no che il Fatto è un giornale interamente subalterno alla magistratura, in particolare a quel pezzo di magistratura di fede davighiana?

Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 aprile 2020. «Mejo di Beautiful» scriverebbe il sito Dagospia. Infatti la storia della lite con strascichi giudiziari tra il sostituto procuratore generale della Cassazione, Mario Fresa, e la moglie brasiliana, Sarah Urbanetz, ha un nuovo capitolo. I due sono tornati a vivere nella stessa casa, dopo che l' 11 marzo la donna ha denunciato il marito per lesioni e aveva lasciato il tetto coniugale per rifugiarsi dalla madre a Viterbo. A testimonianza di questa riappacificazione, pubblichiamo, con l' autorizzazione dei protagonisti, le foto che li ritraggono insieme in occasione dell' ultimo San Valentino, e all' inaugurazione dell' anno giudiziario. La prima immagine è da veri piccioncini, cheek to cheek. In essa Fresa è sorridente e rilassato a fianco della ragazza che nell' immagine mostra persino meno dei suoi 32 anni (lui ne ha 27 di più). Nella seconda invece, ambientata nell' austera biblioteca della Cassazione, la toga indossa l' ermellino delle occasioni ufficiali, mentre la prosperosa compagna lo abbraccia, fasciata in un vestitino nero che, nonostante il paludato evento, lascia nude le ginocchia. Sembra lontana l' estate del 2019, quando la ragazza era stata costretta dal marito a rinchiudersi in un centro Mességué per i troppi chili accumulati in gravidanza («Il mio compagno mi recava continue offese a causa del mio peso che all' epoca risultava essere di circa 103 chilogrammi, tanto che ero costretta mangiare di nascosto» ha dichiarato la giovane ai poliziotti). Qualche mese dopo, nei due scatti che pubblichiamo, la donna sembra tornata in forma e la coppia dà l' impressione di un certo affiatamento. Non lascia certo immaginare (ma a volte l' apparenza inganna) il temporale che sarebbe scoppiato sulle loro teste da lì a poco. Ieri, in un comunicato congiunto, gli avvocati Antonio Villani e Alessandra Savoca, difensori dei due coniugi, hanno annunciato che martedì «la moglie del consigliere Mario Fresa è rientrata volontariamente presso la propria abitazione, unitamente al figlioletto di due anni della coppia. I coniugi hanno avviato un percorso comune a salvaguardia dell' unità ed armonia familiare nell' interesse specifico anche del minore». L' 11 marzo la Urbanetz aveva lasciato il tetto coniugale dopo una lite con il marito. Lo stesso giorno la donna, accompagnata dalla presidente dell' associazione Oltre lo sguardo, Elena Improta, e da una vicina ed compagna di scuola di Fresa, Emanuela M., aveva sporto denuncia contro il marito. Da allora i due hanno mantenuto i contatti e due giorni fa c' è stato il ricongiungimento. Ovviamente il procedimento penale innescato dalla denuncia e affidato al pm Pantaleo Polifemo procederà d' ufficio come prevede il cosiddetto codice rosso, la nuova legislazione approvata nel 2019 a tutela delle vittime di violenza domestica. Infatti l' iter non viene interrotto neanche da un eventuale remissione della querela (che la Urbanetz sembra intenzionata a fare), tenendo in considerazione la condizione di debolezza di alcune donne che spesso sono costrette a ritornare sui propri passi per mancanza di reddito o sudditanza psicologica. La difesa di Fresa esclude con decisione che ci troviamo di fronte a uno di questi casi e respinge anche le accuse formalizzate dalla Urbanetz nella sua denuncia, in particolare quelle relative a una presunta predisposizione dell' uomo a esercitare violenza nei confronti delle donne del suo nucleo famigliare, passato e presente (l' uomo ha un' ex moglie e due figlie). Il magistrato, che in queste righe parla per bocca del suo avvocato (la consorte non ha voluto invece rilasciare dichiarazioni), ridimensiona i fatti per come sono stati raccontati sino a oggi: «Ancora una volta», precisa Villani, «con una prassi ormai costante, il mio assistito ha appreso dalla carta stampata notizie, frammenti pare di atti giudiziari, particolari inverosimili e racconti di terze persone non si sa bene a quale titolo resi e riportati, di quello che doveva rimanere un "incidente domestico", perché tale è stato, con dinamiche ancora tutte da accertare». Per la difesa il colpo al viso («un urto allo zigomo») sarebbe stato fortuito: al momento dell' impatto Fresa stava cercando di togliere dalla mano della compagna il proprio cellulare, dispositivo che la donna stava compulsando in un attacco di gelosia, dopo aver sentito il proprio compagno parlare con un' altra donna al telefono. Va detto che la Urbanetz nella sua ricostruzione ufficiale ha offerto un' altra versione: «Mario mi sferrava un pugno all' altezza della tempia, cagionandomi un vistoso ematoma con rigonfiamento all' altezza dell' arcata sopraccigliare». La brasiliana a riprova di ciò ha anche consegnato alle autorità un autoscatto dove compare con l' occhio sinistro pesto. Nel referto del pronto soccorso, dove Sarah è giunta in codice arancio, l' anamnesi parla di «trauma della regione frontale ed orbitaria destra, trauma regione zigomatica e trauma arto superiore destro e sinistro». Alla fine la giovane ha ricevuto una prognosi di sette giorni non essendo state evidenziate fratture. Nel comunicato dell' avvocato Villani si annuncia anche azioni legali nei confronti di chi ha avrebbe «cavalcato» questa brutta storia: «Nel massimo rispetto del lavoro in atto di verifica da parte della Procura della Repubblica di Roma, unica autorità legittimata, il consigliere Fresa riserva sin da ora e mio tramite ogni azione legale, a tutela della propria immagine e del proprio decoro umano e professionale, contro chiunque abbia utilizzato una vicenda dolorosa di assoluto carattere familiare e, come tale, privata e personale a meri fini di pubblicità o visibilità e/o, cosa ancor più grave, per reconditi scopi tutti da accertare nelle sedi opportune». La Improta, nei giorni scorsi, con La Verità, aveva rivelato che Fresa, davanti a lei, avrebbe giustificato il suo atteggiamento aggressivo nei confronti della compagna con una fragilità psicologica collegata alla propria zoppìa. Una dichiarazione che ha indispettito la difesa: «I riferimenti alla disabilità del dottor Fresa sono intollerabili e le indebite valutazioni in ambito professionale tali da ingenerare nei lettori una perdita di credibilità per chi ha, invece, dedicato anni di profonda passione ed abnegazione alla magistratura, con risultati peraltro sotto gli occhi di tutti». La Improta accoglie così la notizia del ritorno a casa della giovane carioca: «Ognuno è padrone della sua vita, da donna e madre e da cittadina impegnata a favore dei diritti civili ho risposto al "grido di aiuto" della signora. Il mio compito è finito lì, abbiamo più volte chiesto alla signora Sarah se era sicura di quello che stesse facendo è più di una volta lei anche di fronte a lui ha dichiarato che se lui le avesse concesso serenamente la separazione non sarebbero giunti a tutto questo». In attesa del (quasi) lieto fine di martedì Fresa, per venti giorni senza famiglia, ha continuato a svolgere il quotidiano lavoro giurisdizionale dalla sua bella casa del quartiere Trieste, a causa del coronavirus. L'avvocato di Fresa ricorda anche che «per il profondo rispetto della toga che indossa, si è autosospeso immediatamente dalla sola funzione requirente disciplinare svolta presso la Procura generale della Corte di Cassazione e si è dimesso dal Consiglio direttivo della stessa Corte di Cassazione». Uno stop alla carriera che la moglie, che su Youtube è protagonista di un canale di ricette brasiliane, potrà provare a fare dimenticare con qualcuna delle sue specialità. A partire dalla caipirinha che insegna a preparare in un lungo e colorato video.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 3 aprile 2020. «Il triangolo no, non l' avevo considerato. D' accordo ci proverò, la geometria non è un reato. Garantisci per lui, per questo amore un po' articolato, mentre io rischierei, ma il triangolo io lo rifarei...». Non avevamo previsto in tanti anni di carriera che per descrivere le disavventure di un giudice avremmo preso a prestito le strofe di Renato Zero, anziché quelle di Fabrizio De André. La storia del magistrato Mario Fresa e della moglie Sarah Urbanetz sta diventando un fogliettone più degno dei rotocalchi rosa che delle cronache giudiziarie, anche se la loro vicenda era divenuta di pubblico dominio collegata a una querela della donna. Sarah, con un occhio pesto, si era rivolta al pronto soccorso e poi al commissariato per accusare il marito di lesioni. Martedì, però, la trentaduenne brasiliana, dopo aver abbandonato per venti giorni il tetto coniugale, vi ha fatto ritorno e la storia, da caso di nera, rischia di essere velocemente derubricata a zuffa casalinga, giudici permettendo, visto che in Procura resta aperto un fascicolo per lesioni. Comunque, passata la fase acuta della crisi e il momento della separazione, ci si può soffermare sulle vere cause della lite, descritte con dovizia di particolari nella denuncia della Urbanetz. Dalle due paginette emerge il Fresa che non ti aspetti, un tombeur de femmes in toga che il suo aspetto timido e un po' gracile non lasciavano immaginare. Infatti a scatenare la gelosia della consorte e il successivo litigio sarebbero state le scappatelle del cinquantottenne magistrato. Evidentemente dotato di un fascino impensato. L' ultima conquista sarebbe tal Marcela Magalhaes, una splendida trentaseienne carioca che lavora all' ambasciata brasiliana di Roma. La donna su Facebook sfoggia un book fotografico degno di una modella, ma unisce alla bellezza l' intelligenza, come rivela il lungo cursus studiorum, dalla laurea in scienze sociali al dottorato di ricerca. La signora è anche impegnata nell' associazionismo e come giornalista «a favore della democrazia e dell' antifascismo» (il suo ultimo articolo sul sito Blackpost si intitolava «Il sottile razzismo delle adozioni internazionali»), con tanto di premio alla redazione di cui fa parte promosso dall' Anpi. Il suo cuore batte a sinistra come quello di Fresa, si definisce «compagna» ed evidentemente non crede alla proprietà privata neanche in amore. È la stessa Sarah a raccontare ai poliziotti che dopo il matrimonio religioso con il magistrato, avvenuto il 9 settembre scorso, la Magalhaes, «una sua collega» (le due hanno lavorato insieme presso l' ambasciata brasiliana) le avrebbe inviato, via messaggio, foto e chat della stessa Marcela e di Mario «dalle quali si evinceva chiaramente il rapporto esistente tra loro». Nonostante questo ménage à trois Sarah avrebbe proseguito la sua relazione e a novembre avrebbe accompagnato a Firenze il marito, in Toscana per motivi di lavoro. Sempre nella denuncia la brasiliana racconta che una sera, in un hotel fiorentino, aveva voluto «sorprendere» il marito «con i progressi fatti grazie alla dieta» e per questo aveva indossato «un completino intimo per l' occasione». Ma di fronte a quell' iniziativa piccantina, il pm si sarebbe irrigidito: «Che sei una mignotta? Che ti metti in competizione con Marcela?». La reazione sarebbe andata oltre le parole, già sgradevoli: «Mi stringeva il braccio sinistro finendo per procurarmi un vistoso ematoma e mi buttava sul letto continuando a gridare: "Che vuoi metterti in competizione con Marcela?" e io gli urlavo di smetterla gridando "Aiuto! Aiuto!". A quel punto si allontanava e usciva dalla camera d' albergo». Anche il 10 marzo la coppia avrebbe litigato per colpa di Marcela. Ecco che cosa ha fatto mettere a verbale Sarah: «Durante la lite, Mario mi ha sferrato un pugno all' altezza della tempia destra cagionandomi un vistoso ematoma con rigonfiamento all' altezza dell' arcata sopraccigliare». Sentendo le urla di dolore sarebbe accorsa la tata che avrebbe detto alla Urbanetz: «Così finisce che ti ammazza». All' apice della tensione, Fresa avrebbe ritirato fuori dal cilindro l' amante: «Adesso vado da Marcela, la donna che amo veramente». La Magalhaes, contattata dalla Verità, dopo aver letto su Whatsapp il tema della nostra telefonata (le accuse dell' ex collega), non ha ci ha risposto, né richiamato. Pure l' avvocato di Fresa, Antonio Villani, ha preferito non commentare, sebbene i guai del suo assistito nascano proprio da questa supposta liaison. Che il sostituto procuratore generale sia un po' birichino si evince anche da un altro passaggio della denuncia: «All' inizio del luglio scorso per il problema del peso, sempre spinta da mio marito, andai in cura per due settimane in una clinica a San Marino chiamata Mességué e venivo a conoscenza che durante questo periodo lui aveva diversi incontri con altre donne». Presunti tradimenti che avrebbero causato diverse liti famigliari. Il giudice, però, dopo le discussioni, avrebbe un modo tutto suo di rappacificarsi con la moglie. Rose? Gioielli? No, l' indagato userebbe un' altra tecnica, come svela la compagna: «Dopo aver litigato Mario mi chiede di far pace facendo l' amore. Nei casi in cui mi rifiuto lui è solito masturbarsi davanti a me». Non sta a noi giudicare questi comportamenti, ma bisogna riconoscere che con il suo racconto la Urbanetz offre l' immagine di un uomo, che in un mondo sessualmente fluido, tiene alta la bandiera della italica mascolinità. Alla fine da questa vicenda affiora un ritratto inatteso di questo giudice dei giudici, noto per la sua intransigenza in sede disciplinare, ma che, a quanto sembra, sotto la toga dell' implacabile inquisitore celerebbe uno slancio sensuale degno dei personaggi di Vitaliano Brancati o, se preferite, del Lando Buzzanca del Merlo maschio. Un magistrato capace di tenere insieme la passione per i codici con quella per le belle donne o, come canta Renato Zero, per la geometria.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'8 aprile 2020. Non finiscono i colpi di scena nella storia di amore e botte che coinvolge il sostituto procuratore aggiunto della Cassazione Mario Fresa e sua moglie, la trentaduenne brasiliana Sarah Urbanetz. La donna l' 11 marzo ha denunciato il marito per lesioni e tre settimane dopo è tornata a vivere con lui per il bene del figlio. Adesso, nella vicenda irrompe la bella Marcela De Paula, amica di entrambi, brasiliana anch' ella e presunta causa della lite tra i coniugi Fresa. La signora, che lavora presso il dipartimento di promozione della lingua e cultura del ministero degli Affari esteri del suo paese, dopo aver letto il nostro articolo su un presunto ménage à trois, ci ha scritto per raccontarci la sua verità. Che ha suffragato con numerosi allegati. Inizialmente ci ha solo raccomandato di non pubblicare le prove a supporto del suo resoconto e di non citare il nome del suo fidanzato (un diplomatico italiano). Dopo tre giorni, però, ci ha ripensato: «Per adesso, non posso autorizzarla a pubblicare niente a nome mio. A meno che lei non citi "una fonte anonima"». Il motivo? «Hanno minacciato di farmi causa se dovessi parlare con lei o con qualsiasi altra persona prima di andare in commissariato [] dobbiamo essere prudenti e aspettare fin quando mi chiamerà il pm. Non sappiamo cosa ci sia sotto tutto ciò». Marcela non ci ha voluto svelare chi l' avrebbe consigliata di tacere. Anche per questo riteniamo che sia importante riportare la sua prima «rettifica». Che consideriamo rilevante per i fatti denunciati e per i personaggi coinvolti. Nella prima mail la De Paula puntualizza il tipo di rapporto che la lega al magistrato. «Non ho una relazione col pg Mario Fresa. Veramente conosco il pg Mario Fresa da un bel po' di anni e tuttora siamo grandi amici, soprattutto perché sempre abbiamo condiviso le stesse idee politiche [] Le ricordo che ho una vita: un lavoro pubblico e rispettato, una figlia, un compagno che amo follemente e che uso il mio tempo libero per aiutare il prossimo». In un altro passaggio ha aggiunto: con Fresa «abbiamo condiviso una storia di amicizia stretta in passato, ma mai qualcosa che io veramente potessi considerare un rapporto amoroso». Ma il giudice avrebbe provato sentimenti diversi: «Mario effettivamente, dopo tanti anni di amicizia, diceva che si era innamorato di me e che non voleva sposarla, ma io e le persone intorno a noi lo abbiamo convinto (sbagliando) a sposarla. Nutrivo una sorta di pena verso quella donna che mi è sempre sembrata bisognosa di aiuto: non era istruita, non aveva lavoro». Per la nostra interlocutrice, purtroppo, «la signora Urbanetz ha letto i messaggi in cui io dicevo a Fresa che non doveva lasciare una donna nella settimana delle nozze perché per lei sarebbe stato troppo umiliante». Non è finita. «La signora Urbanetz si era arrabbiata perché Fresa le aveva detto di aver assunto un detective per pedinarmi e sapere di più di me e del mio compagno, se io mi fossi veramente fidanzata ecc. Se è vero o no, io sinceramente non lo so dire». Marcela ci confida che sulla ricostruzione della lite ha molti dubbi e che a suo giudizio andrebbe chiarita: «Come può sferrare un pugno a una donna tre volte più grossa di lui un uomo che è disabile e non riesce a stare in piedi senza stampelle o senza appoggiarsi al braccio di qualcuno?». E le violenze psicologiche? Le diete a cui Sarah sarebbe stata costretta a sottoporsi? «Ho letto che la signora Urbanetz diceva che Mario la incitava a dimagrire per diventare come me. È una follia! Lei è sempre stata in sovrappeso e questo non è mai stato un problema per Mario». La trentaseienne carioca ci offre altri retroscena della lite: «Fresa, nei due giorni precedenti la supposta aggressione, avrebbe inviato un messaggio al vecchio avvocato chiedendo informazioni per annullare il matrimonio con la Urbanetz. Il giorno prima, durante una lite, sembra che lui si sia fatto male al piede e sia stato visitato dal fisioterapista. Non voleva andare dal medico per paura del coronavirus». In ogni caso le lesioni del 10 marzo sarebbero l' epilogo di una relazione complicata, in cui non ci sarebbero un solo carnefice e una sola vittima: «La signora Urbanetz è una donna un po' problematica che ha paura di perdere il figlio. [] Ha conosciuto Fresa in un momento in cui lui era molto depresso. La mia amicizia con Mario è iniziata quando lui mi ha chiesto aiuto. Mi riferiva continuamente che la ragazza lo aggrediva (anche fisicamente) e che era ossessivamente gelosa. Gli toglieva le stampelle (lui è disabile da quando è bambino), lo chiudeva in casa (cosa di cui Fresa si lamenta in una delle chat, ndr), entrava nelle sue mail e nel suo telefono e chiamava sempre tutte le sue ex ragazze». Insomma una vita d' inferno. Complicata dal vissuto del giudice, il quale, oltre ad avere problemi di deambulazione, sarebbe stato coinvolto in un grave incidente in cui «hanno perso la vita la madre e l' unica sorella». Alcune persone vicine a Fresa ci avevano anticipato l' esistenza di informazioni «sensibili» sulla moglie del pm e che erano pronte a divulgarle se la donna avesse continuato a recitare la parte della vittima. Forse si tratta degli stessi «scheletri nell' armadio» che la De Paula tira fuori con noi, quando ci fa sapere che la Urbanetz «sembra non aver un passato pulito»: «Fresa mi ha raccontato che la signora Sarah avrebbe omesso, per entrare a lavorare in ambasciata (ha fatto per qualche mese la sostituta in portineria), dove richiedono la fedina pulita, che era stata espulsa dall' Italia, in seguito al coinvolgimento in una rissa» quando «era "clandestina"». I fatti risalirebbero a una decina di anni fa. La donna ci invia alcune foto scaricate da Facebook che immortalano Sarah con un' amica di Viterbo, Deuriana, la quale era con lei «quando c' è stata la rissa» e che «magari saprà qualcosa del primo matrimonio di lei». Infatti le peripezie della Urbanetz non sarebbero finite. «In seguito lei viene espulsa ufficialmente dell' Italia [], ma riesce a rientrare, sembra, dopo un matrimonio "combinato" per ottenere i documenti "puliti", sempre secondo Fresa». Pare che questo marito italo brasiliano, di nome Marcelo, fosse coinvolto in qualche brutto giro e adesso si troverebbe fuori da territorio italiano, forse a Londra. «Fresa mi ha detto solo che vivevano a Viterbo e che lei si sarebbe nascosta (non lo so bene se a causa della rissa o della clandestinità) a Caprarola. E che prima la Urbanetz abitava a Civitavecchia». A questo punto, però, la scrivente ci mette in guardia: queste sono tutte cose raccontate dal sostituto procuratore generale e potrebbero essere bugie. «Ieri ho scritto un messaggio su Fb, dicendo alla Urbanetz che se è una vittima, io sarò senza dubbio della sua parte. Se lui l' ha picchiata è una cosa veramente molto triste, anche se Fresa diceva che lei aspettava questo per diventare ricca e ricattarlo». I ricordi continuano: la toga avrebbe «portato il fratello di Sarah in Italia (lui lavorava come Uber in Brasile) ed è riuscito ad avere il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Secondo la Urbanetz, il fratello rischiava la vita in Brasile, a causa del lavoro che svolgeva». Marcela non ci sta: «Io aiuto anche i rifugiati e non ho mai visto nessuno riuscire a ottenere questo tipo di permesso perché era un autista di Uber, in Brasile! Uber è legale in Brasile. Non mi quadra». Ma c' è un ultimo intreccio degno di una soap opera sudamericana che la De Paula mette per iscritto: «Prima che la Urbanetz si trasferisse a casa di Fresa, lui conviveva con la zia di lei (ovviamente non si parlano più)», una certa Marcia. «Ci sono anche dettagli in questa storia che, per paura, adesso non posso raccontare. Per mandare via questa donna, in Brasile, hanno fatto delle cose molto brutte. Ho paura, signor Amadori. Anche la mia famiglia ne ha». La tranquillizziamo e le assicuriamo che magistrati e giornalisti vorranno lumeggiare tutta questa storia.

Strage Thyssenkrupp di Torino: i due manager vanno in carcere in Germania. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Lorenzetti, Valeria Catalano e Alessandro Chetta. Il Tribunale regionale superiore di Hamm, in Germania, ha respinto il ricorso dei due manager di Thyssenkrupp, già condannati in Italia per la morte di sette operai al lavoro lungo la linea 5 dello stabilimento di corso Regina Margherita: ora dovranno scontare 5 anni di carcere in Germania. Lo rende noto il Tribunale del Nord Reno Westfalia. In precedenza il Tribunale di Essen aveva dichiarato esecutive le pene italiane ma le aveva adeguate al diritto tedesco, che in questi casi prevede una detenzione massima di 5 anni. I manager, accusati di omicidio colposo e incendio doloso per negligenza, avevano fatto ricorso, ma l’istanza oggi, 4 febbraio, è stata respinta. La pronuncia del Tribunale di Hamm arriva a 12 anni dall’incendio a Torino, dove persero la vita 7 persone nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007. La Cassazione, in Italia, li aveva condannati a 6 anni e 10 mesi (Gerald Priegnitz) e a 9 anni e 8 mesi (Harald Espenhahn).

 (ANSA il 5 febbraio 2020) - Si aprono le porte del carcere per gli ultimi due condannati nel processo Thyssenkrupp. Un tribunale tedesco ha respinto il ricorso di Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, i manager della multinazionale dell'acciaio riconosciuti responsabili in via definitiva per il rogo che nel 2007, a Torino, uccise sette operai. Agli imputati, dopo l'ultima sentenza della Cassazione, furono inflitti rispettivamente 9 anni e 8 mesi e 6 anni e 10 mesi. In Germania ne sconteranno cinque, il massimo della pena prevista dall'ordinamento locale per reati di questo genere. "Il mio primo pensiero va ai familiari delle vittime che rivendicavano una risposta di giustizia. A loro va il mio più forte abbraccio", il messaggio del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. "Torino aspettava da tempo questa notizia", è invece il commento della sindaca Chiara Appendino, che si dice "vicina alle famiglie delle vittime". Era il 6 dicembre del 2007 quando una nube di fuoco, divampata all'improvviso, avvolse sette lavoratori che, fedeli alle consegne, stavano cercando di smorzare con gli estintori quello che sembrava essere un normale principio di incendio sulla 'linea 5' dell'acciaieria. L'inchiesta puntò il dito sulle gravi lacune in materia di sicurezza presenti in uno stabilimento ormai in via di dismissione (gli impianti stavano per essere trasferiti a Terni). I processi, in seguito, accertarono responsabilità sia a Torino che a livello centrale. "Il punto - dice Raffaele Guariniello, il magistrato oggi in pensione che coordinò il pool dei pubblici ministeri - è che i quattro condannati italiani avevano già cominciato a scontare la pena. A me non è mai piaciuto sapere di qualcuno in carcere. Ho sempre perseguito i reati, mai le persone. Ma era una questione di equità. Una ferita da rimarginare". Graziella Rodinò, mamma di Rosario, una delle sette vittime, non sorride: "Le notizie dalla Germania alimentano le nostre speranze di giustizia, ma troppe volte questa gente trovato il modo di evitare la prigione. Ci crederemo quando saranno dietro le sbarre". A respingere il ricorso di Espenhahn e Priegnitz è stato, in seconda istanza, il tribunale regionale superiore di Hamm, dopo una prima pronuncia dei giudici di Essen. "E' la conferma - commenta Guariniello - che il nostro è stato un processo giusto, dove tutte le parti coinvolte hanno potuto far valere le proprie ragioni". "La prescrizione - osserva ancora il magistrato - è stata evitata anche grazie al fatto che chiudemmo le indagini in soli due mesi e mezzo. Che la pena venga eseguita è importante in un'ottica di prevenzione degli incidenti sul lavoro: dimostra che chi sbaglia rischia davvero di andare in carcere".

Rogo Thyssen a Torino, l'epilogo: i due manager condannati sconteranno 5 anni in Germania. Gerard Priegnitz e Harald Espenhahn. Respinti gli appelli: per i maggiori responsabili della morte di 7 operai si aprono le porte del carcere. L'ex pm Guariniello: "Rimarginata una ferita". La madre di una vittima: "Avremo davvero giustizia quando saranno dietro le sbarre". La Repubblica il 04 febbraio 2020. Dovranno scontare cinque anni di reclusione in Germania i due ex manager della Thyssenkrupp condannati in via definitiva il 13 maggio 2016 da un tribunale italiano a 9 e 6 anni rispettivamente per il rogo nella notte del 6 dicembre 2007, a Torino, in cui persero la vita sette operai: i loro ricorsi in appello sono stati respinti da una corte distrettuale di Essen che ha dichiarato attuabili le condanne pronunciate in Italia, adeguando la pena detentiva a quelle previste dalla legge tedesca. Dopo la sentenza di oggi, i due ex manager verranno incarcerati in Germania non appena sarà eseguita la sentenza. Gli avvocati annunciano già che ricorreranno ancora al terzo grado di giudizio, come la Cassazione per l'Italia, ma non dovrebbe esserci modo a questo punto di fermare l'esecuzione nel frattempo. Dopo oltre dodici anni anni dalla tragedia è arrivato dunque il momento, per l’ex amministratore Harald Espenhahn e per il dirigente Gerard Priegnitz, di scontare la loro condanna, dopo che un anno fa erano stati raggiunti da un ordine d'arresto in Germania in esecuzione alle condanne definitive a nove anni e sei anni e dieci mesi di reclusione. A pronunciarsi, ora, è stata la seconda sezione penale del tribunale regionale superiore di Hamm che ha respinto in quanto infondati  i ricorsi dei due imputati contro le decisioni del tribunale regionale di Essen del 17 gennaio 2019 e del 4 febbraio 2019, che avevano dichiarato ricevibile l'esecuzione di una sentenza italiana nei loro confronti adeguando la pena alle leggi tedesche. "Era una ferita da rimarginare". E' il commento di Raffaele Guariniello, pubblico ministero del caso Thyssenkrupp e ora in pensione, che aggiunge, riferendosi al fatto che i condannati italiani avevano già cominciato a scontare la pena: "Non era giusto. Ma un'altra cosa importante da sottolineare - dice Guariniello - è che la pronuncia dei magistrati di Hamm conferma che il processo Thyssenkrupp fu un processo giusto". "Per noi da quella tremenda notte del 6 dicembre 2007 non c'è stato più nulla da festeggiare - dice Graziella Rodinò, mamma di Rosario, uno dei sette operai morti nel rogo - apprendiamo la notizia della sentenza, è un passo avanti ma la vera notizia per noi familiari sarà quando ci diranno che quei due saranno entrati in carcere. Troppe volte sono riusciti a trovare il modo di non scontare la pena. Giustizia sarà fatta quando saranno realmente in galera". Timori confermati anche da Antonio Boccuzzi, ex parlamentare, unico operaio del gruppo scampato al rogo: "La sentenza - dice - è un ulteriore passo in avanti anche frutto del nostro intervento sulla Corte europea. L'unica preoccupazione, più che legittima dopo quasi quattro anni dalla sentenza definitiva, è che possano esistere altre istanze che i due condannati tedeschi possano far valere. L'auspicio è che finalmente il percorso chiuso in Italia nel maggio del 2016 si traduca con l'unico epilogo possibile, che le porte del carcere si aprano per i due manager tedeschi". La sentenza della Cassazione italiana era stata pronunciata nel 2016, che aveva confermato le condanne inflitte nel secondo processo d’appello di Torino nei confronti dei sei imputati. Un’esplosione di olio incandescente aveva travolto come una nuvola di fuoco i sette operai, uccisi, alcuni, dopo giorni di agonia. Mentre i quattro dirigenti avevano iniziato a scontare le loro condanne lo stesso giorno del verdetto della Cassazione, Espenhahn e Priegnitz erano rientrati in Germania dove, secondo le regole della giustizia tedesca, era necessario verificare che i procedimenti giudiziari italiani si fossero svolti correttamente. Per le loro regole normative, tuttavia, potrebbero dover scontare solo 5 anni, il massimo consentito per l’accusa di omicidio colposo. Una lunga vicenda giudiziaria, tra atti tradotti e trasmessi più volte, durata quasi tre anni, che più volte aveva portato le autorità italiane a sollecitare quelle tedesche mentre i familiari delle vittime invocavano giustizia.

Strage Thyessen Torino, 5 anni ai manager ma non è una gioia. Astolfo Di Amato de Il Riformista il 5 Febbraio 2020. I manager tedeschi, condannati in Italia per il rogo Thyssenkrupp, andranno in carcere. Il tribunale regionale superiore di Hamm, in Germania, ha respinto il ricorso presentato da Gerald Priegnitz e da Harald Espenhahn, che avevano tentato di opporsi all’esecuzione della condanna ricevuta in Italia. Vi è solo stato un adeguamento della pena al diritto tedesco con conseguente limitazione della condanna a cinque anni, che è la pena massima prevista in quel Paese per omicidio colposo. La lettura della notizia non può che riportare immediatamente alla mente i tragici fatti di quella notte tra il 5 e 6 dicembre 2007, in cui sette operai trovarono una orribile morte, divorati dalle fiamme, lungo la linea cinque dello stabilimento di Corso Regina Margherita a Torino. Le sentenze hanno stabilito che di quelle morti furono, tra l’altro, responsabili i due manager tedeschi e le stesse sentenze hanno affermato che grave fu la loro colpa. La circostanza che oggi vadano in carcere costituisce, perciò, l’attuazione di quelli che sono i fondamentali principi di uno stato di diritto. L’esecuzione della condanna, inoltre, non può non costituire anche una risposta all’ansia di giustizia dei familiari delle vittime. Ed è, perciò, comprensibile che possano sentirsi, almeno in parte, appagati. Alcune reazioni degli organi di informazione, tuttavia, sembrano essere addirittura di festa: il carcere come motivo di gioia. Corrisponde una reazione del genere al rispetto dei principi di solidarietà, di rispetto della persona umana che sono, o dovrebbero essere, alla base di uno stato civile e democratico? La risposta è, fermamente, no. La gioia per il carcere altrui ha qualcosa di tribale: è un po’ la danza della tribù che ostenta lo scalpo degli avversari uccisi. La Giustizia non ha niente a che fare con la vendetta e la condanna di una persona, se da un lato è rispettosa del principio di legalità, dall’altra segna un fallimento, non solo individuale ma anche collettivo, come sottintende il principio costituzionale, per il quale le pene devono tendere alla rieducazione del reo. La condanna è di per sé un accadimento triste. Bene lo sanno i Giudici, degni di questo nome, i quali di fronte alla pronuncia di una condanna non sentono soddisfazione, ma anzi avvertono ancora più opprimente il peso della loro responsabilità.

Chiesto il processo per dieci agenti: «Picchiarono un detenuto a Viterbo». Damiano Aliprandi il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La procura di Viterbo ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti penitenziari che avrebbero massacrato di botte il trentenne Giuseppe De Felice, all’epoca dei fatti recluso al Mammagialla. Richiesta di rinvio a giudizio per pestaggio e falsa testimonianza. Come già anticipato in esclusiva da Il Dubbio nella versione on line, la Procura di Viterbo, dopo aver effettuato attente indagini tramite la visione dei filmati registrati dalle telecamere, le intercettazioni telefoniche e le dichiarazioni delle persone informate sui fatti, ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti penitenziari che avrebbero massacrato di botte il trentenne Giuseppe De Felice, all’epoca dei fatti recluso al Mammagialla di Viterbo. L’accusa a loro carico è di avere, «in concorso tra loro e con premeditazione, abusando della qualità di ciascuno rivestita di agente del corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Viterbo, approfittando di circostanze tali da ostacolare la privata difesa ( quali lo stato di detenzione delle vittime e l’assenza di videocamere nei luoghi in cui si sono svolti i fatti), percosso De Felice, cagionando allo stesso lesioni personali e segnatamente, tra l’altro, “edema condotto uditivo dx e trauma costale, contusione toracica destra”». Ma non solo. Tre di loro devono rispondere anche di calunnia e falso per le loro relazioni di servizio, in cui cercano di far ricadere ogni colpa su De Felice, descritto in pratica come ingestibile. «Onde evitare che la situazione degenerasse – aveva testimoniato uno degli agenti – ordinavo al personale di polizia penitenziaria che aveva preso parte alla perquisizione ordinaria, di non allontanarsi dal posto e di prelevare il detenuto De Felice dalla propria stanza di pernottamento per allontanarlo dalla sezione IV B, mantenendo così l’ordine e la sicurezza all’interno della stessa. De Felice, con fare spavaldo e arrogante usciva dalla propria stanza incurante del nutrito numero di agenti di polizia penitenziaria presenti sul posto e subito allungava il passo per recarsi sulla rotonda della sezione». Per il pubblico ministero Stefano D’Arma la testimonianza è falsa. «L’ho visto con il volto tumefatto, pieno di lividi con il sangue all’occhio sinistro e ha detto che è stato pestato da una decina di agenti penitenziari», denunciò al Dubbio Teresa, la moglie del detenuto Giuseppe De Felice, 31enne, ristretto all’epoca nel carcere di Viterbo. A dicembre del 2018 era andata a visitarlo ed è rimasta scioccata nel vederlo pieno di lividi. «Ho cominciato ad urlare – racconta la moglie -, ma mio marito mi ha detto di smettere, perché ha paura di subire altre ritorsioni». De Felice era ristretto nel carcere di Viterbo da circa un mese – prima era a Rebibbia -, quando si trovava nel quarto piano D1 e venne picchiato selvaggiamente dagli agenti. «Gli hanno perquisito la cella, messo a soqquadro tutto e hanno calpestato la foto che ritraeva noi due – raccontò Teresa -, mio marito ha reagito urlandogli contro, prendendoli a parolacce». A quel punto, secondo la versione di Giuseppe De Felice, un agente penitenziario lo avrebbe chiamato in disparte, portato sulla rampa delle scale e una decina di agenti penitenziari, senza farsi vedere in volto, lo avrebbero massacrato di botte. Il marito le ha raccontato che gli agenti avrebbero indossato dei guanti neri e una mazza bianca per picchiarlo. «Lo hanno portato in infermeria – prosegue Teresa –, ma senza visitarlo, dopodiché lo hanno messo in isolamento per un’ora». Preoccupata, Teresa non sapeva chi contattare, fino a quando ha visto su internet un video di Pietro Ioia, ex detenuto che vent’anni fa ha deciso di cambiare vita e si è esposto pubblicamente denunciando anche la famigerata “cella zero” del carcere di Poggioreale. Lo ha chiamato e subito si è attivato, consigliandole di contattare Rita Bernardini del Partito Radicale. L’esponente radicale ha immediatamente inviato la segnalazione urgente agli organismi preposti, dal garante nazionale Mauro Palma a quello regionale Stefano Anastasìa. Ma, soprattutto al Dap e al direttore del carcere di Viterbo, pregandolo di verificare quanto denunciato dalla signora e di «far visitare urgentemente il detenuto in modo da mettere agli atti della sua cartella clinica il relativo referto». In seguito alle percosse, Giuseppe aveva perso anche l’udito all’orecchio destro. Il caso arrivò in parlamento tramite l’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi di + Europa e il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi del m5s rispose che il Dap si attivò e che comunque la magistratura di Viterbo aveva aperto delle indagini. Ora è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per gli agenti penitenziari che avrebbero commesso quelle violenze.

Da ansa.it il 27 gennaio 2020. Cinque carabinieri arrestati, altri tre sospesi dalle funzioni di pubblici ufficiali. È questo il principale esito di una indagine coordinata dalla Procura distrettuale antimafia (Dda) di Napoli e condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Castello di Cisterna che ha scoperto un presunto sistema di connivenze con la criminalità organizzata che negli anni scorsi avrebbe visto coinvolti alcuni militari in servizio alla stazione di Sant’Antimo, un grosso centro della provincia di Napoli. L’inchiesta è partita dalle dichiarazioni di due pentiti.

Le informazioni. Secondo quanto emerso dalle indagini, avviate sulla base delle rivelazioni di un collaboratore di giustizia, i carabinieri avrebbero fornito a esponenti del clan capeggiato dal boss Pasquale Puca importanti informazioni relativamente a indagini e operazioni di controllo sul territorio. Il lavoro investigativo ha fatto emergere anche un tentativo di screditare e poi addirittura di intimidire un maresciallo della stazione di Sant’Antimo che si sarebbe impegnato particolarmente nell’ostacolare le attività della cosca.

Il maresciallo eroe. Il maresciallo fu pedinato e fotografato nel tentativo di raccogliere informazioni da usare poi per ricattarlo, e successivamente fu fatta esplodere una bomba carta sotto la sua auto. In seguito a quest’episodio il Comando generale ne dispose il trasferimento per motivo di sicurezza. I carabinieri arrestati sono accusati di corruzione. La Procura aveva chiesto che l’ordinanza venisse emessa anche per concorso esterno in associazione mafiosa, ma il gip non ha ritenuto di accogliere la richiesta. Per questo reato, tuttavia, i carabinieri restano indagati. Ai domiciliari anche un politico locale, Francesco Di Lorenzo, in passato presidente del consiglio comunale di Sant’Antimo.

Le reazioni. Il procuratore Giovanni Melillo ha voluto sottolineare l’impegno dell’Arma nell’indagare su suoi esponenti infedeli sottolineando che «non c’è alcun bisogno che io ribadisca la fiducia che abbiamo nei carabinieri, visto che le indagini abbiamo voluto affidarle a loro». Il comandante provinciale Giuseppe Canio La Gala ha assicurato che la presunta attività illecita «non ha assolutamente inficiato l’intensa attività di contrasto alla criminalità organizzata svolta negli anni dall’Arma e non può offuscare l’impegno profuso tutti i giorni da tantissimi carabinieri che si sacrificano con abnegazione». Il generale ha inoltre sottolineato che solo nel territorio di Sant’Antimo negli ultimi cinque anni i carabinieri hanno eseguito 420 arresti.

Il precedente. Nel giugno 2018, sempre nel Napoletano, vennero arrestati tre carabinieri in servizio alla Compagnia di Giuliano. Le accuse, in quel caso, furono di falso ideologico, calunnia, detenzione e porto illegale di armi clandestine: secondo la Finanza, che condusse le indagini, i tre avrebbero raccolto false prove contro un extracomunitario per ricattarlo e arrestarlo.

Da adnkronos.com il 16 novembre 2020. L'ex giudice del consiglio di Stato Francesco Bellomo è stato assolto, in tribunale a Piacenza, nel processo in cui era imputato per stalking e lesioni ai danni di una borsista che partecipò alla scuola di formazione Diritto e Scienza. La sentenza è stata emessa nel tardo pomeriggio, con il rito abbreviato, dal Gup di Piacenza. Per Bellomo la Procura aveva chiesto una pena di 3 anni e 4 mesi. Assolto anche il coimputato, Davide Nalin, ex pm di Rovigo. Per lui, il pm Emilio Pisante e il procuratore Grazia Pradella avevano chiesto un anno e quattro mesi.

Assolto a Piacenza Francesco Bellomo, il consigliere di Stato del dress code. Liana Milella su La Repubblica il 16 novembre 2020. L’accusa di stalking è caduta perché la ragazza coinvolta ha ritirato la querela. Cancellate anche le lesioni. Nessun reato pure per l’ex pm di Rovigo Nalin che collaborava con lui. Le giovani che lo avevano denunciato: "E' come se avessimo subito violenza di nuovo". Assolto per le lesioni, per insufficienza di prove. Nel nulla l’accusa di stalking perché la sua presunta vittima ha ritirato la querela e non si è neppure costituita in giudizio. Finisce in un flop, a Piacenza, il primo processo contro Francesco Bellomo, che fino all’ultimo si è proclamato “innocente” davanti al giudice. Con lui assolto anche Davide Nalin, l’ex pm di Rovigo che lavorava con lui. Ricordate Bellomo? È l’ex consigliere di Stato - destituito il 10 gennaio 2018 a larghissima maggioranza - che, secondo le testimonianze di decine di ragazze e le indagini dei pm di Piacenza e di Bari, obbligava le studentesse che frequentavano la sua scuola “Diritto e scienza”, per prepararsi ai concorsi per magistrato, a obbedire ai suoi comandi, finché il padre di una di loro, ridotta a pesare 42 chili e per alcuni mesi sua fidanzata, non lo ha denunciato, salvo poi ritirare la querela facendo così cadere il processo stesso. Ma chi ha avuto modo di parlare con lei - che nel frattempo ha superato il concorso in magistratura - racconta che aveva un unico desiderio, chiudere per sempre, e definitivamente, la pagina Bellomo. Il decalogo dell’ex consigliere di Stato per le sue allieve, che nonostante le accuse hanno continuato a frequentare la scuola anche se lui era agli arresti domiciliari, era diventato famoso: minigonne, tacchi a spillo, fidanzato di alto livello, nessun matrimonio, ma soprattutto obbedienza cieca a lui, il direttore della scuola, che tra una lezione e l’altra, passava il tempo a fidanzarsi con le “sue” ragazze, obbligandole a obbedirgli perfino sul fatto di tenere sempre il telefono pronto e disponibile per le sue chiamate. Se sgarravano c’era un terribile punizione in vista, resoconto sul rivista della scuola, a volte perfino con il nome. Agli ordini di Bellomo c’era Nalin, che secondo l’accusa portava le sue ambasciate alle studentesse forzandole ad obbedire, e che il Csm ha già sospeso per due anni. Ma a Piacenza anche lui è stato assolto dal giudice che ha gestito il processo con il rito abbreviato. La sentenza disconosce del tutto le richieste dei pm. La procuratrice Grazia Pradella e il sostituto Emilio Pisante avevano chiesto 3 anni e 4 mesi di carcere per Bellomo e 1 anno e 4 mesi per Nalin. A questo punto però i processi per Bellomo non sono finiti. Dopo l’archiviazione, l’anno scorso, dell’inchiesta di Milano per le testimonianze di quattro ragazze,  dal 3 dicembre a Bari, dove ha sede la scuola con diramazioni a Milano e Roma, e dove l’ex consigliere ha continuato a fare lezione, Bellomo dovrà affrontare un’altra accusa. Quella per stalking frutto delle indagini del procuratore aggiunto Roberto Rossi. Il gup Annachiara Mastrorilli ha rinviato Bellomo a giudizio il 17 settembre sempre assieme a Nalin. È finita in prescrizione invece l’accusa di violenza privata originariamente contestata dalla procura come estorsione, ma poi derubricata. La notizia dell’assoluzione di Bellomo e Nalin, salutata come un esempio di giustizia giusta dai due avvocati -  due big del foro come l’ex presidente delle Camere penali Beniamino Migliucci per Bellomo e Vittorio Manes, docente di diritto penale a Bologna, per Nalin - ha lasciato profondamente sconcertate le tante allieve di Diritto e scienza che dal 2017, da un tribunale all’altro (Piacenza, Milano, Bari), hanno raccontato le loro vicissitudini. Sono tutte giuriste, chi già magistrato, chi avvocato, chi professoressa. Tra tutte amarezza, delusione, soprattutto sorpresa. Nessuna vuole credere che a Piacenza, nonostante i fatti raccontati dalla vittima, nonostante la perizia favorevole sui danni alla sua salute, comunque ci sia stata un’assoluzione. “Abbiamo subito, non abbiamo chinato la testa, ma ora è come se stessimo subendo di nuovo” è la loro amara constatazione. Una sentenza che viene vissuta, da chi ha avuto il coraggio di uscire dall’anonimato e testimoniare, come una sorta di rinnovata violenza.  

Assolto l’ex consigliere di Stato Bellomo: «Il fatto non sussiste». Scagionato anche il collega Nalin. I due dovranno affrontare un altro processo per maltrattamenti a Bari. Il Dubbio il 16 novembre 2020. Francesco Bellomo e Davide Nalin sono stati assolti dal tribunale di Piacenza. L’ex consigliere di Stato destituito, famoso per aver imposto un “dress code” alle sue borsiste, e l’ex pm di Rovigo, sospeso, erano accusati di lesioni volontarie e stalking ai danni di una giovane donna, partecipante alla scuola di formazione “Diritto e Scienza” di Bellomo. Secondo l’accusa la borsista sarebbe stata insultata, minacciata e sottoposta a interrogatori, anche incrociati, sulla vita sessuale. Il gup ha però assolto i due imputati dal reato di lesioni perché il fatto non sussiste ed è caduta, in quanto improcedibile, anche l’accusa di stalking, per ritiro della querela nel settembre 2018, dopo una conciliazione tra le parti. Le motivazioni verranno depositate entro novanta giorni. Il procuratore Grazia Pradella e il pm Emilio Pisante avevano chiesto tre anni e quattro mesi per Bellomo, un anno e quattro mesi per Nalin. Si tratta della seconda vittoria di Bellomo in sede penale, dopo l’archiviazione incassata a Milano per le accuse di atti persecutori e violenza privata nei confronti di quattro studentesse della scuola. Quella emiliana è la prima sentenza, arrivata dopo oltre due anni di udienze e rinvii, e dopo una perizia tecnica disposta dal giudice sulla giovane che presentò la denuncia. Bellomo e Nalin sono stati rinviati a giudizio anche a Bari, dove dovranno rispondere di maltrattamenti ai danni di ragazze. Il processo inizierà il 3 dicembre davanti al giudice monocratico. Stando alle carte del filone di Bari, l’ex consigliere di Stato, sospeso dal ruolo nel 2017, quando scoppiò lo scandalo del contratto imposto alle sue allieve, avrebbe avuto relazioni intime con tutte e quattro le sue presunte vittime. Relazioni basate sulla «manipolazione psicologica», attraverso lo «svilimento della personalità della partner» per ottenere il loro «asservimento», limitando la «libertà» e «l’autodeterminazione» delle donne che avevano a che fare con lui, ridotte «in uno stato di prostrazione e soggezione psicologica». Condizione che accettavano per «il concreto timore delle conseguenze sul piano personale e professionale», subendo così «atti lesivi dell’integrità fisica e psichica, della libertà morale e del decoro e ad una condotta di sistematica sopraffazione tale da rendere particolarmente doloroso il rapporto personale e professionale». «Si chiude una vicenda molto dolorosa, che ha avuto un impatto mediatico molto forte. Come spesso accade, quando nel processo si ricostruisce la verità, i fatti risultano nella prospettiva propria del processo penale diversi da quelli rappresentati nei media. È infatti il processo la sede dove si deve fare una distinzione tra comportamenti eventualmente non condivisibili, magari inopportuni dal punto di vista deontologico e quelli penalmente rilevanti. Questa distinzione è fondamentale nel diritto penale laico e liberale», è il commento dei difensori di Bellomo e Nalin, l’avvocato Beniamino Migliucci e il professor Vittorio Manes.

Bellomo rinviato a giudizio: «Sono vittima di una persecuzione amorosa». Il Dubbio il 17 settembre 2020. L’ex Consigliere di Stato, tornato oggi il libertà, dovrà affrontare il processo per atti persecutori e violenza privata nei confronti delle sue ex borsiste. «Ci sono centinaia di dichiarazioni delle presunte perseguitate che dovrebbero finire su un romanzo della collana Harmony, non in un’aula di giustizia. È l’opposto del quadro empirico degli atti persecutori, casomai la “persecuzione amorosa” l’ho subita io». Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito, parla per la prima volta da uomo libero dopo l’arresto per gli atti persecutori e le presunte violenze private nei confronti delle sue ex borsiste.  Arrestato la prima volta nel 2019, oggi è stato rinviato a giudizio dal Gup di Bari, Annachiara Mastrorilli, che ha riqualificato l’iniziale reato di maltrattamento contestato dalla Procura. Nel processo, al via il 3 dicembre, l’ex giudice dovrà rispondere  di due presunti episodi di atti persecutori e altrettanti di violenza privata nei confronti di ex allieve della scuola per aspiranti magistrati “Diritto e scienza”. Nei confronti delle quattro parti offese, con le quali Bellomo ha avuto relazioni e cui avrebbe imposto rigidi dresscode, la giudice Annachiara Mastrorilli ha disposto il divieto di avvicinamento, nella stessa ordinanza con cui ha revocato gli arresti domiciliari. «Qualsiasi contatto con le persone offese potrebbe rievocare una situazione di ansia e sofferenze psicologiche», è scritto nell’ordinanza, in cui viene sottolineata «l’apprezzabile condotta processuale ed extraprocessuale» dell’imputato. In realtà, il procedimento originario – scaturito dall’inchiesta del procuratore aggiunto di Bari, Roberto Rossi, e della pm Daniela Chimienti – si è diviso in più parti: l’accusa di maltrattamenti si è trasformata in atti persecutori e violenza privata, delle quali Bellomo risponderà assieme all’ex pm di Rovigo Davide Nalin, anch’egli rinviato a giudizio. L’accusa di estorsione è stata riqualificata in violenza privata ed è stata dichiarata prescritta. Per le ipotesi di calunnia e minacce nei confronti del presidente del Consiglio Giuseppe Conte (già vicepresidente del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, che si occupò della questione disciplinare a carico di Bellomo) e della collega Concetta Plantamura, la giudice ha decretato l’incompetenza territoriale della Procura di Bari e trasmessogli atti a quella di Roma. Nell’udienza preliminare è stata anche valutata la posizione dell’avvocato barese Andrea Irno Consalvo (accusato di false informazioni al pm, per aver taciuto quanto a sua conoscenza sui rapporti tra Bellomo e le corsiste), che è stata stralciata inattesa della definizione del filone principale del processo. «Sarebbe stato sufficiente leggere una mia memoria per capire come sono i fatti, che sono molto diversi – si difende Bellomo – e non sto parlando di qualificazioni giuridiche, ma dei fatti storici, perché sui giornali e in televisione nove cose su dieci dette sono false o distorte. Mi si potrebbe dire che dovrei smentirle, ma non funziona così, devo farlo nei processi». In attesa di comparire in tribunale, l’ex consigliere di Stato, annuncia la prossima pubblicazione di un romanzo in cui metterebbe nero su bianco la  «vera storia» del suo passato.

Massimo Giletti, Francesco Bellomo: "Quando deciderò di parlare, lui sarà il primo". Francesco Bellomo su Libero Quotidiano il14 ottobre 2020. Conoscete Lupo? Immagino di no, e di certo non l'avrei conosciuto neanch'io, se non fosse che da quasi tre anni me lo ritrovo in hotel, per strada e sotto casa. Il più delle volte è sufficientemente educato, ma comunque molesto e pronto a tutto pur di ottenere il risultato, ossia una mia intervista. La tecnica è quella di un certo giornalismo, che viene definito d'inchiesta, ancorché con la verità - che dell'inchiesta dovrebbe essere lo scopo - abbia poco a che fare. Più noto dell'esecutore è il mandante: Massimo Giletti. Il brillante conduttore ha deciso che periodicamente deve parlare - male - di me, forse perché altrettanto periodicamente rifiuto di andare alla sua trasmissione (come, invero, alle altre), e di farlo con le solite due ospiti, che recitano un copione già scritto, variandone ogni tanto i particolari. Le due hanno in comune tre cose: frequentavano le mie lezioni, volevano diventare borsiste, non ci sono riuscite. Una delle due è passata dallo scattarmi (di nascosto) foto con i cuoricini a mandarmi frecciatine in televisione; l'altra finge di aspirare alla magistratura e di scandalizzarsi se io preparo gli studenti a vincere il relativo concorso. Alla decima puntata in argomento mi sono rotto le scatole e le ho sbugiardate pubblicamente. Pensavo che Giletti avrebbe chiuso lì. Mi sbagliavo. Avuta notizia della ripresa dei corsi, ha sguinzagliato il cane segugio (Lupo, appunto), per l'ennesima incursione ad una mia lezione. Il fedele scudiero, però, non ha considerato che c'è un'epidemia in giro e non è saggio parlare a decine di persone riunite in una saletta. Sicché non ha trovato nessuno e - per non tornare a mani vuote - ha ripiegato su una citofonata a casa di mia madre, nella quale sostanzialmente le ha detto che io non avrei dovuto più insegnare. La vicenda suggerisce tre riflessioni. La prima viene dalla voce che vuole Giletti prossimo candidato a sindaco di Roma per la destra. Poiché l'interessato non l'ha smentita, faccio come fa lui: la prendo per vera. E mi domando non cosa c'entri Giletti con la destra, ma cosa c'entri la destra con lui, al di là della moda delle citofonate alle private abitazioni. Una forza politica dovrebbe contraddistinguersi tanto per le idee, quanto per gli uomini che la rappresentano, e pretendere coerenza tra le prime e i secondi. Se la destra fa del garantismo la sua bandiera, le trasmissioni di Giletti sono l'esatto contrario, financo nel nome: «(non) è l'Arena». La seconda si collega a un recente episodio che ha visto protagonista una giornalista di Libero, querelata da un sottosegretario all'interno per un articolo in cui ne tratteggiava la figura politica. Giustamente il direttore Feltri ha osservato come il fenomeno delle querele da parte dei politici ai giornalisti - anche quando non c'è materia - dissimula un attacco alla libertà di stampa, costituendo un "avviso" per casi futuri: non criticare, altrimenti ti porto in tribunale. Allo stesso modo, però, il fenomeno dei servizi giornalistici d'aggressione realizza un attacco a libertà non meno importanti, costituendo un analogo "avviso": non insegnare, altrimenti ti sputtano in televisione. La terza è la più seria e riguarda il corto circuito mediatico-giudiziario, che puntualmente si verifica non appena si profilano casi che destano l'attenzione collettiva, non sempre per nobili finalità. Il diritto non è meno complesso della matematica (con la quale, anzi, presenta diverse affinità), quindi non può essere affrontato come se si parlasse di gossip. Servono intelligenza e conoscenza dei fatti. Poiché, per definizione, i fatti li conosce solo chi al processo partecipa, è molto probabile che, quando all'esterno ci si occupa di casi giudiziari, gli errori abbondino, quasi sempre nella stessa direzione: contro l'accusato. Il quale, però, ciò che non può fare è proprio difendersi fuori dalle aule di giustizia. Così nasce e si cristallizza una verità parallela, che anticipa e sostituisce nelle menti del popolo quella processuale, con un duplice effetto negativo. In primo luogo il discredito sociale, che compromette l'esistenza della persona interessata per tutta la durata del processo (cioè anni); in secondo luogo il condizionamento delle decisioni giudiziarie. Così descrive il fenomeno uno dei più grandi giuristi italiani viventi: «Viceversa il giudice "missionario" e quindi infedele alla legge, scrive prima il dispositivo in base alle proprie opinioni pre o extragiuridiche e poi va alla ricerca di una motivazione come che sia onde la pretesa soluzione "giusta" o "equa" altro non è se non l'espressione del puro e personale arbitrio». Universalmente noto come "pregiudizio", questo modo di procedere costituisce un vizio cognitivo, che produce nel ragionamento giudiziario una fallacia "a posteriori": la conclusione precede l'argomentazione. La decisione è d'istinto, la motivazione è razionale. Ma non si può giustificare con la ragione ciò che l'animo comanda. Pochi giorni fa, a proposito di un noto processo, su queste colonne scrivevo: «tra tutti i corpi dello Stato, la magistratura è quello mediamente più preparato, aduso sin dai primi studi a sviluppare le doti della conoscenza e della tecnica, ma la neutralità, l'immunità da preconcetti morali, la capacità di orientarsi in base alla logica e non ai sentimenti, sono uno stato dell'intelletto difficile da raggiungere». Il giudizio normativo è inevitabilmente esposto al rischio di subire i condizionamenti tipici di ogni umano pensiero: passioni, emozioni, ideologie, interessi. La pressione mediatica accresce questo rischio. Se poi di mezzo ci sono le donne, la tentazione di ergersi a missionario può apparire irresistibile. Una cosa è certa: quando deciderò di raccontare i fatti, la prima persona da cui non andrò sarà Massimo Giletti.

Vittorio Feltri e i messaggi a Bellomo delle allieve "perseguitate": e Massimo Giletti che dice? Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 ottobre 2020. Avrei voluto anche io ricevere i messaggi appassionati che ricevette l'ex consigliere di Stato Francesco Bellomo da parte delle brillantissime allieve che furono le sue fidanzate. Ne cito qualcuno, non svelando nulla di nuovo, dato che si tratta di materiale messo agli atti e che pubblicammo già su questo quotidiano qualche mese addietro. «Il pensiero di te mi assale qualsiasi cosa faccia. Questo desiderio mi sta consumando». «Tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più». «È stato splendido fare l'amore con te in questi giorni. Buonanotte, mio superuomo». «Mi lasci un vuoto». «Metto te sopra ogni cosa, sei la prima persona che sento al mattino e l'ultima prima di andare a dormire. Non c'è una cosa che non farei per te, ad ogni discussione scapperei lì da te ad abbracciarti, perché quando si ama una persona ogni litigio è solo uno spreco di tempo e di energie». E ancora: «Genio, conoscenza, sensibilità, giustizia. Tu la bellezza della perfezione». «Sai perché mi sono legata a te? Sei fuor di dubbio una persona eccezionale. Ma ciò che più mi ha colpita è qualcosa che va oltre le apparenze. Tu hai una purezza d'animo assoluta e una visione del sentimento altissima. Sei una persona estremamente sensibile». Vorremmo anche noi concordare con Massimo Giletti e le sue ospiti di domenica sera andate all'attacco della nostra giornalista Azzurra Barbuto, accusata di sessismo per avere messo in luce nient' altro che dati di fatto che non dovrebbero essere divisivi: nelle aule di tribunale si processano imputati per presunti reati e non per vizi e peccati e dovrebbe valere sempre, sia per gli uomini che per le donne, il principio della presunzione di innocenza, per cui un individuo è ritenuto presunto innocente fino al terzo grado di giudizio e sentenza definitiva. Ecco, vorremmo dare ragione a Giletti e alle sue illustri ospiti e affermare che le studentesse di Bellomo, sue ex fidanzate, oggi ritenute parti offese nei procedimenti, siano esseri deboli, influenzabili, corruttibili, indifesi, sprovveduti, inermi, fragili come canne al vento. Soltanto che poi ci ricordiamo che queste preparatissime signore sono magistrati, che ci giudicano all'interno dei nostri tribunali. Se sostenessimo la loro suggestionabilità la quale le avrebbe rese facili prede del docente definito «porco» a priori, dovremmo pure rimuoverle dal loro ruolo, poiché non è propriamente equo farsi giudicare da chi non dimostra proprietà di giudizio e discernimento. Preferisco quindi ipotizzare, alla luce di questi messaggi, che le dottoresse, all'epoca dei fatti donne già laureate, avvocatesse, di ottima famiglia, fossero perfettamente in grado di intendere e di volere, proprio come oggi e che fossero sincere allorché dichiaravano amore folle al loro professore, lodandone le virtù di lealtà e sensibilità. Qualità che di solito non si riconoscono a un molestatore o a uno stalker. 

Anticipazione da “Oggi” il 28 ottobre 2020. Massimo Giletti scrive tramite OGGI, in edicola da domani, una lettera aperta a Vittorio Feltri, che dopo la trasmissione «Non è l’Arena», aveva criticato il conduttore e difeso l’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, accusato di comportamenti illeciti nei confronti di alcune allieve che frequentavano corsi post-universitari. Scrive Giletti: «Tu fai un elenco di Sms, di messaggi d’amore che alcune allieve si scambiavano con il giudice e te ne stupisci... Il problema sorge dopo, quando la relazione si rompe o entra in crisi. In quel momento Bellomo diventa, non solo per me, ma anche per le procure di Bari e di Piacenza l’uomo dei maltrattamenti. Per questo gli Sms scambiati durante il periodo di ipotetico idillio sono irrilevanti, non contano nulla. Sono gli Sms che tu non riporti che vanno contestati, gli Sms che appartengono al periodo del conflitto. Te ne leggo qualcuno: «Metti la faccia nel cesso». «Puttana». «Fai schifo». «Sei un mostro». «Sei scientificamente una prostituta». «Al concorso del Tar non accederai neppure». «Ringrazia se non ti buttano fuori dalla magistratura ordinaria». «Ti sei rovinata vita e carriera. Esegui ciò che ho detto e trovati un buon avvocato per il procedimento disciplinare»…Perché non li hai citati? Forse perché rappresentano l’esatta fotografia di un rapporto malato che diventa ossessivo, tipico del maschio che perde il possesso della donna, vista come proprietà privata, come oggetto di cui disporre in qualsiasi momento?».

Bellomo: «Rinuncio alle teorie di cui ero convinto. Gli amici? Dileguati». Virginia Picolillo il 19/9/2020 su Il Corriere della Sera.

Francesco bellomo, da 24 ore non è più agli arresti domiciliari per l'inchiesta sulle aspiranti giudici costrette a minigonne, tacchi ed obbedienza all'agente superiore, cioè lei. Contento?

«Sono libero ma scontento».

Di che?

«Di tutto. Di come è andata».

Si riferisce alle vessazioni subite dalle allieve dei suoi corsi?

«Non ci sono state vessazioni. Mi riservo di raccontare i fatti quando tutto sarà finito».

Alle borsiste prometteva la formula per superare il concorso. Erano tracce dei temi?

«Ma no. Men che meno le raccomandazioni. Era il mio metodo di studio di successo: guardi le graduatorie».

Dopo tre anni non vede tutto con occhi diversi?

«Neanche la vita del Papa può essere immune da critiche».

Al suo posto le chiedeva il pm Nalin. E le ragazze lamentano ricatti sessuali.

«I ricatti non esistono. Semplicemente perché non potevo volere qualcosa che non avessi già».

Rancori?

«Delusione. Normale quando qualcuno su cui fai affidamento ti tradisce».

Parla delle ragazze? O dei colleghi?

«Qualche studentessa mi ha espresso solidarietà. Ma per loro adesso è rischioso. Colleghi e amici si sono dileguati. Tipico. Chi viene esaltato per lungo tempo nel momento della caduta vede gli altri prendere le distanze».

Si è detto vittima di persecuzione amorosa. Di chi?

«Mai detto. Semmai alcune relazioni amorose mostravano particolare intensità».

A Roma dovrà rispondere di minacce nei confronti del suo collega Giuseppe Conte.

«Nessuna minaccia».

Ha detto che scriverà un libro. C’e’ chi deve temere?

«Ne sto concludendo tre giuridici e così credo di aver concluso ciò che c’era da dire sul diritto».

E il romanzo?

«Mi piace Carofiglio, che è stato mio maestro e amico, ma ora anche lui ha preso le distanze. Comunque la mia ambizione non è fare rivelazioni. Chi è deluso non si vendica, se la tiene e riflette sulle cose umane».

Riflettendo non trova qualcosa da non rifare più?

«Ho convinzioni solide, ma solo uno stupido non prende atto degli eventi. E quindi ho rinunciato all’apparato teorico di cui ero convinto».

Rinuncia a ritenersi l’Agente Superiore che aveva potere persino sul fidanzato da scegliere?

«Elimino quei comportamenti che hanno generato questa azione giudiziaria. Ma sia chiaro, non è un’abiura».

Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 4 settembre 2020. «Se non confessi, tutta la nostra ricostruzione verrà messa in rivista, e domani tutta Italia saprà che sei una troia», «Se ci fosse un ristorante di sperma, tu andresti là per degustare». Messaggi che rischiano di costare oltre tre anni di carcere al giudice Francesco Bellomo, il magistrato del Consiglio di Stato travolto dalle indagini sui suoi corsi di formazione per aspiranti toghe. Ieri la Procura di Piacenza, la prima a indagare su Bellomo, ha chiesto la sua condanna per stalking aggravato ai danni di F.P., la giovane laureata in giurisprudenza che nel novembre 2016 ha sollevato ufficialmente il velo su una storia che conoscevano in tanti: i metodi di circonvenzione e di plagio con cui Bellomo governava il «cerchio magico» delle sue allieve, imponendo loro scelte di vita, abbigliamento, comportamenti sessuali. Bellomo ha chiesto di essere giudicato con rito abbreviato, così i cinque anni di carcere che la Procura riteneva giusti si riducono a una richiesta tre anni e quattro mesi. Richiesta più lieve, un anno e quattro mesi, per Davide Nalin, il sostituto procuratore di Rovigo accusato di avergli fatto da «spalla» nello stalking ai danni della corsista. Arriva così, a tre anni dall'esplodere dello scandalo, il primo punto fermo nelle indagini a carico di Bellomo: che hanno portato alla luce un personaggio indubbiamente complesso, tecnicamente molto preparato, in grado di offrire una formazione di alto livello, e altrettanto dotato di carisma. Ma anche spietato nella selezione delle aspiranti, e quasi maniacale nella sua ansia di controllo. In una serie di casi, dicono le indagini, Bellomo si è spinto totalmente al di fuori della legge: quella legge che dimostrava di conoscere perfettamente. A raccogliere le dichiarazioni della sua prima accusatrice, F.P, furono a Piacenza i pm Roberto Fontana e Emilio Pisante. Ed è Pisante ieri a pronunciare la pesante richiesta di condanna. Tutto ruota intorno ai corsi tenuti da Diritto e Scienza, la società di Bellomo, presso un albergo milanese tra il 2014 e il 2016, cui la ragazza si era iscritta insieme a decine di altri neolaureati e dove Bellomo l'aveva inserita tra le sue vestali, le titolari di borsa di studio cui veniva fatto firmare il contratto in cui si impegnavano tra l'altro a «non avviare relazioni intime con soggetti che non raggiungano il punteggio di 80/100 o di 75/100», il «divieto di contrarre matrimonio», l'«obbligo di fedeltà nei confronti della società e del suo direttore». Il trattamento diventò ancora più severo quando F.P. allacciò una relazione sentimentale con Bellomo: che insieme a Nalin la sottoponeva a interrogatori incrociati in cui «venivano richiesti dettagli sulla propria vita sessuale e addirittura le veniva chiesto di predisporre una tabella con indicazioni dei luoghi, frequenza e modalità della precedente attività sessuale». Il trattamento ridusse la ragazza in condizioni mentali pietose, fino al ricovero allo psichiatrico di Parma. Per questo Bellomo è stato accusato anche di lesioni personali gravi.

Da corriere.it Virginia Piccolillo il 10 luglio 2020. Le testimonianze: «Rivivo quell’ansia». Il «contratto di schiavitù sessuale» imposto dall’ex magistrato alle allieve dei corsi. Umiliazioni e controllo personale: ecco cosa svelano le carte. Torna agli arresti domiciliari Francesco Bellomo, l’ex giudice barese del Consiglio di Stato che alle borsiste dei suoi corsi per aspiranti magistrato imponeva un dress code tutto tacchi e minigonne e un comportamento omertoso e di assoluta sottomissione nei suoi confronti. Per lui era un modello di formazione che aiutava a superare il concorso per magistrati. Per il pm Roberto Rossi e la procura di Bari era tentata violenza privata e minacce nei confronti delle borsiste. Per questo era già stato arrestato nel luglio 2019 per maltrattamenti ed estorsione. Ma i domiciliari erano poi stati revocati dal Tribunale del Riesame che aveva riqualificato i reati. La procura di Bari aveva fatto ricorso. La Corte di Cassazione aveva imposto al Tribunale del Riesame di rivalutare la misura cautelare e venerdì mattina i giudici hanno dato di nuovo ragione alla procura: Bellomo deve stare ai domiciliari. Nell’ordinanza di custodia cautelare che ha riportato Bellomo ai domiciliari sono molte le forme di vessazioni descritte alle aspiranti magistrato. «Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici ‘ti chiedo perdono, non lo farò mai più’. Non ha il significato della sottomissione, ma della solennità. Con le forme rituali». Nelle carte vengono citati gli sms e le mail che testimoniano il suo modo di agire «manipolativo» condotto - con la complicità del l’allora pm Davide Nalin - sulle borsiste del suo corso per future toghe. Una, confidandosi con la sorella, riferisce di aver firmato «un contratto di schiavitù sessuale» e di essere stata punita per aver violato una delle clausole. In questi casi si finiva in una rubrica sulla rivista della scuola dove si «pubblicavano dettagli intimi sulla vita privata». La stessa ragazza, a un certo punto, dimostra di «avere paura» dell’ex giudice e professore Bellomo al punto di «rinunciare alla borsa di studi. Sono terrorizzata dalla reazione... mi stanno facendo paura... non vogliono lasciarmi andare».

Le vittime di Bellomo:  «Ci diceva: entro, ti inginocchi  e mi chiedi di perdonarti». Da corriere.it Virginia Piccolillo l'11 luglio 2020. Le testimonianze: «Rivivo quell’ansia». Il «contratto di schiavitù sessuale» imposto dall’ex magistrato alle allieve dei corsi. Umiliazioni e controllo personale: ecco cosa svelano le carte. «Una sberla». Così una delle presunte vittime dei «maltrattamenti» di Francesco Bellomo, ha accolto la notizia del nuovo arresto. «Mi ha riportato indietro di tre anni. Non è facile», ha confidato a un’amica, spiegando come «ogni volta che c’è una notizia sull’inchiesta mi ritrovo a combattere con la mia parte razionale e quella emotiva. Quella razionale è contenta. L’altra invece mi fa ripiombare in uno stato di ansia». Non è l’unica ad aver denunciato danni che terapie non riescono ancora a far superare. Anche per questo alcune delle ex borsiste citate nell’ordinanza di custodia cautelare, Alessia Jacopini, Corinne Panariello, Emanuela Carrabotta e Daniela Zappella, non si sono costituite parte civile. Due sono già magistrate. Le altre hanno preferito cambiare vita. Leggendo le carte si capisce perché.

La richiesta di rinvio a giudizio. Molte le vessazioni descritte dalle ragazze, che secondo il procuratore aggiunto di Bari, Roberto Rossi — che assieme al sostituto Chimienti ha chiesto il rinvio a giudizio di Bellomo e dell’ex pm Davide Nalin — configurano il reato di «maltrattamenti» (per il Riesame è stalking) e, per una di loro, estorsione (per il Riesame minaccia aggravata). Un metodo confermato da decine di ex corsiste ascoltate nelle tre inchieste aperte su Bellomo (Milano ha archiviato, a Piacenza si attende la sentenza: l’ex borsista ha ritirato le accuse a Bellomo, ma una perizia le confermerebbe).

«Controllo, imposizione, denigrazione, offesa alla dignità». Per molte andò così. Bellomo passava dalla didattica a una relazione «sentimentale». Poi scattava il «controllo, l’imposizione, la denigrazione, l’offesa del decoro e della dignità», la pretesa di «comportamenti di assoluta di dedizione» il controllo dei social nel timore di relazioni con altri. Persino una ceretta alle 18:45 insospettiva Bellomo: «Si fa quando si mostrano le gambe, cosa che sarebbe accaduta tra 9 giorni», contesta a una ragazza. Nel rapporto didattico-amoroso c’era spazio per ricatti morali: «Non è normale che rientri a mezzanotte il giorno prima della tua prima udienza. Non autorizzerò più uscite serali. Mentre attendevo che ti facessi viva mi sono fatto una lesione al pettorale. Questo significa avere a fianco un animale. Tu lo sei. È la riprova del tuo Dna malato».

Gi avvertimenti e le umiliazioni. Per gli avvertimenti a chi voleva mollarlo: «Gli aiuti sono terminati ora la tua carriera la fai da sola e dubito che riesca. Prendi tutti i vestiti, cappotti compresi, e spediscili. Non mi faccio restituire i soldi perché sei una pezzente. Al concorso Tar non accederai neppure». E per le umiliazioni: «Non voglio rovinare anni di lavoro senza darti una chance. Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici “ti chiedo perdono, non lo farò mai più». A Roberta Rei delle Iene, Daniela Zappella dichiarò: «Non mi sentivo così attratta da lui, ma non riuscivo a dire di no».

Il contratto di schiavitù sessuale. Uscire indenni era impossibile. Una ragazza confida a un’amica di aver firmato «un contratto di schiavitù sessuale» e di essere stata punita per aver violato una delle clausole. La punizione era finire sulla rivista «scientifica» della Scuola dove si «pubblicavano dettagli intimi sulla vita privata». E la borsista dice: «Sono terrorizzata dalla reazione... mi stanno facendo paura... non vogliono lasciarmi andare». Poi c’era la richiesta di foto. Una borsista riferisce a un’amica: «Mi vergognavo di quelle foto che sono stata costretta a mettere su Facebook mi facevo schifo da sola mi sentivo messa in vendita».

Il ruolo di Nalin. Se le foto non arrivavano, riferiscono le ragazze, era il pm del «pool reati sessuali» di Rovigo Nalin a sollecitarle. Lo stesso delegato a svolgere indagini sulla sanzione da comminare quando Bellomo si «faceva raccontare dettagli della vita intima definendoli disgustosi e contrari ai principi che avrebbe dovuto rispettare». Bastava un like su Facebook per essere spiata da Nalin e definita «scientificamente una prostituta» da Bellomo. Se tentavano di cancellare il profilo Nalin glielo faceva ripristinare. E quando una borsista se ne andò, «Bellomo tramite Nalin ingaggiò una corsista come intermediaria facendole credere che l’amica subisse minacce». Lei non riuscì e venne cacciata dal corso. Per essere riammessa, scrivono sempre i pm, dovette «svolgere il ruolo di infiltrata inviando ai due gli screenshot dei profili» della ragazza in fuga. Saranno il Tar e il Csm a decidere se i due, dopo ciò, potranno rivestire la toga.

Caso Bellomo, la Cassazione su dress code imposto a studentesse: "Lesivo della dignità umana". Le motivazioni della decisione con cui è stata bocciata l'ordinanza del Riesame di Bari che aveva sostituito i domiciliari con il divieto di svolgere attività imprenditoriali e di insegnamento per l'ex giudice. E' indagato per violenza privata nei confronti di alcune studentesse dei suoi corsi di preparazione all'ingresso in magistratura. la Repubblica il 12 marzo 2020. "Dress code" con tacchi a spillo e minigonne e regole sui fidanzati, modelli di comportamento imposti alle sue studentesse: per la Cassazione, la condotta dell'ex consigliere di Stato Francesco Bellomo – indagato per violenza privata nei confronti di alcune allieve dei suoi corsi di preparazione all'ingresso in magistratura – è da giudicarsi “lesiva della dignità umana”. Inoltre, la "risoluta convinzione" di Bellomo "della liceità delle condotte e della loro giustificazione scientifica", assieme alla "prevedibile prosecuzione delle attività di insegnamento, oltre che con ulteriori frequentazioni necessariamente collegate all'ambito didattico", rendono "concreto e attuale il pericolo di reiterazione". Lo scrive la seconda sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con cui, lo scorso gennaio, ha annullato con rinvio l'ordinanza del Riesame di Bari che aveva sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari per Bellomo con il divieto, per un anno, di esercitare "attività imprenditoriali e professionali di direzione scientifica e docenza". Bellomo, dopo lo scandalo, è stato destituito da Palazzo Spada. Ed ora il tribunale del Riesame dovrà rivalutare "la scelta adeguata della misura da applicare". "La prestazione promessa – si legge nelle motivazioni - era condizionata all'assunzione di obblighi incidenti sulla sfera delle relazioni personali, dettando modelli di azione e limiti alle frequentazioni sociali, imponendo codici comportamentali, oltre che divieti in grado di limitare la libertà di autodeterminazione, sino a compromettere potenzialmente la dignità umana". Non solo. La Cassazione parla di un "quadro indiziario dotato di sicura gravità": dagli atti di indagine, "emerge con evidenza" il "condizionamento di quei rapporti per effetto dell'ascendente che esercitava Bellomo sulle giovani frequentanti la scuola". Secondo la Cassazione, è emerso dalle indagini - come rilevato dal pm di Bari - che i corsi di Bellomo "avevano dato l'avvio a relazioni personali, in realtà sganciate dal contesto accademico". In proposito, i supremi giudici osservano che "già per una delle ragazze era avvenuto che l'inizio della collaborazione scientifica e subito dopo della relazione affettiva con l'indagato, erano sorti dopo aver superato le prove scritte del concorso in magistratura, e per le altre ragazze parte lesa  i comportamenti contestati a Bonomo" avevano travalicato e trasceso la sede 'naturale' dei corsi di insegnamento per riverberarsi e proseguire al di fuori e al di là di quel contesto". In sostanza, "l'impostazione dei rapporti personali e affettivi che il Bellomo sollecitava e imponeva sono proseguiti in talune vicende anche aldilà dei corsi". Nella sentenza si sottolinea poi che "non può essere deliberatamente trascurato l'ambito in cui sono sorti quei rapporti, caratterizzato da una condizione psicologica di subalternità derivante dalla prospettiva della partecipazione ad un concorso pubblico di notorio impegno intellettuale e psicologico, oltre che di particolare difficoltà, le cui sorti potevano essere sensibilmente influenzate dalla proficua partecipazione ai corsi diretti dall'indagato e dalle indicazioni che venivano fornite dallo stesso Bellomo". Infine, ugualmente "significativa" nella ricostruzione delle vicenda, è, secondo i giudici del 'Palazzaccio', la "progressiva alterazione della gestione del rapporto personale, sbilanciato dall'imposizione ingiustificata e pretestuosa di abitudini, atteggiamenti e condotte incidenti sulla libertà di autodeterminazione delle vittime".

Caso Bellomo, la Cassazione: «condotte lesive della dignità umana». Il Dubbio il 12 marzo 2020. Ecco perché il Palazzaccio ha bocciato la decisione del Riesame di Bari di mitigare le misure cautelari all’ex consigliere di Stato. Una condotta «lesiva della dignità umana». È con queste parole che la Cassazione ha bollato i comportamenti d Francesco Bellomo, ex consigliere di Stato indagato per violenza privata nei confronti di alcune allieve della sua scuola di formazione giuridica, “Diritto e coscienza”. Parole contenute nelle motivazioni della sentenza con cui a gennaio ha annullato con rinvio la decisione del Riesame, che aveva sostituito i domiciliari con il divieto di esercitare attività di docenza e direzione scientifica per un anno. L’indagine aveva delineato una vera e propria «spirale di violenza», fatta di manipolazioni, minacce e umiliazioni. E perfino un contratto di schiavitù sessuale, oltre all’ormai famosa imposizione di un “dress code” con tacchi a spillo e minigonne e divieto assoluto di frequentare uomini che non raggiungessero determinati standard. Per i giudici del Palazzaccio sarebbe concreto il pericolo di reiterazione del reato, data la «risoluta convinzione» di Bellomo «della liceità delle condotte e della loro giustificazione scientifica». Ora il Tribunale della Libertà dovrà rivalutare le esigenze cautelari. L’ex consigliere di Stato, sospeso dal ruolo nel 2017, quando scoppiò lo scandalo del contratto imposto alle sue allieve, avrebbe avuto relazioni intime con tutte e quattro le sue vittime. Relazioni basate sulla «manipolazione psicologica», attraverso lo «svilimento della personalità della partner» per ottenere il loro «asservimento», limitando la «libertà» e «l’autodeterminazione» delle donne che avevano a che fare con lui, ridotte «in uno stato di prostrazione e soggezione psicologica». Condizione che accettavano per «il concreto timore delle conseguenze sul piano personale e professionale», subendo così «atti lesivi dell’integrità fisica e psichica, della libertà morale e del decoro e ad una condotta di sistematica sopraffazione tale da rendere particolarmente doloroso il rapporto personale e professionale», scriveva a luglio scorso il gip di Bari Antonella Cafaglia. E secondo la Cassazione, il quadro indiziario sarebbe dotato «di sicura gravità», emergendo «con evidenza», dagli atti di indagine, il «condizionamento di quei rapporti per effetto dell’ascendente che esercitava Bellomo sulle giovani frequentanti la scuola». Le relazioni interpersonali nate all’interno del contesto accademico erano, dunque, sganciate dallo stesso, tanto che per i giudici i comportamenti contestati a Bonomo «avevano travalicato e trasceso la sede “naturale” dei corsi di insegnamento per riverberarsi e proseguire al di fuori e al di là di quel contesto». Ma non solo: quei rapporti erano caratterizzati da «una condizione psicologica di subalternità derivante dalla prospettiva della partecipazione ad un concorso pubblico di notorio impegno intellettuale e psicologico, oltre che di particolare difficoltà, le cui sorti potevano essere sensibilmente influenzate dalla proficua partecipazione ai corsi diretti dall’indagato e dalle indicazioni che venivano fornite dallo stesso Bellomo». Rapporti sbilanciati «dall’imposizione ingiustificata e pretestuosa di abitudini, atteggiamenti e condotte incidenti sulla libertà di autodeterminazione delle vittime». Quello di Bellomo, secondo il gip che aveva disposto i domiciliari, era un vero e proprio «sistema», che sfruttava le borse di studio istituite presso la propria scuola per un «adescamento delle ragazze da rendere vittime del proprio peculiare sistema di sopraffazione, fondato sulla concezione dell’agente superiore e sui corollari di fedeltà, priorità e gerarchia». Le vittime venivano «isolate» e allontanate dalle amicizie», per poi essere manipolate (il giudice parla addirittura di «indottrinamento»), con successivo «controllo mentale, mediante l’espediente di bollare come sbagliate le opinioni espresse o le scelte compiute dalla vittima, in modo da innescare un meccanismo di dipendenza da sé». L’ex giudice controllava i loro social network delle corsiste, «imponendo la cancellazione di amicizie, di fotografie pubblicate, qualora non corrispondessero, a suo insindacabile giudizio, ai canoni di comportamento da lui imposti». E in caso di “errori” venivano «umiliate, offese e denigrate». Le ragazze dovevano sottostare al «divieto di avviare o mantenere relazioni intime con soggetti che non raggiungessero un determinato punteggio» attribuito da Bellomo e «il divieto di contrarre matrimonio a pena di decadenza automatica dalla borsa». Ma soprattutto erano obbligate a seguire le sue indicazioni in fatto di abbigliamento, firmando un contratto che rappresentava la condizione per accedere ai benefici della borsa. Il codice prevedeva uno stile “classico” per gli «eventi burocratici», uno stile “intermedio” per «corsi e convegni» ed “estremo” per «eventi mondani», ovvero «gonna molto corta» oppure un «vestito di analoga lunghezza», tacco 8-12 centimetro a seconda dell’altezza e «trucco calcato o intermedio, preferibilmente un rossetto acceso e valorizzazione di zigomi e sopracciglia; smalto sulle mani». Ma dovevano curare anche «gesti, conversazione, movimenti», per pubblicizzare l’immagine della scuola e della società.

Il “sistema Bellomo”: la testimonianza di una borsista della scuola. Le Iene News il 21 febbraio 2020. Una delle ragazze che hanno accusato l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo per i suoi presunti atteggiamenti nei confronti delle borsiste della sua scuola ha parlato con Roberta Rei: “Quando ha provato a baciarmi la seconda volta non l’ho respinto. Non mi sentivo così attratta, ma non riuscivo a dire di no”. “A parte la fascinazione che può avere per un bravo maestro, non mi sentivo così attratta, però non riuscivo a dire di no”. Le cose a cui questa donna non sarebbe riuscita a dire di no sarebbero le avances sessuali del consigliere di Stato Francesco Bellomo, e questa vicenda potrebbe rappresentare il primo caso di MeToo all’interno della magistratura italiana. Lo scandalo che ruoterebbe intorno a Francesco Bellomo sarebbero i contratti per delle borse di studio alla sua scuola di formazione, che prevedevano dei dress code su come dovessero vestirsi le studentesse. Non è però solo questo ad aver fatto scandalo in questa vicenda: il consigliere sarebbe finito a letto con più di una studentessa. Tra queste persone ci sarebbe anche lei, la principale accusatrice di Francesco Bellomo che per la prima volta dopo averlo denunciato ne ha parlato con la nostra Roberta Rei. “Avevo il sogno di fare il magistrato. Mi sono resa conto che per fare il concorso la scuola di specializzazione non basta. Andai da un mio professore e consigliò a me e a un’altra ragazza il corso ‘Bellomo’”. Un corso che sarebbe costato 3 o 4 mila euro all’anno. “Salvo qualche temerario, nessuno si avvicinava a lui”, ci racconta questa ragazza. “Lo vedevi sempre circondato dai suoi borsisti o dai suoi collaboratori”. A quanto pare, Bellomo avrebbe tenuto lontano tutti tranne i suoi più stretti collaboratori, come i borsisti. Non tutti potevano però ambire ad arrivare fin lì: “Questo era l’unico corso che ti dava la possibilità, se tu avevi certi requisiti, di prendere la borsa di studio. I requisiti erano: essersi laureato entro i 24 anni o aver avuto un punteggio altissimo alla laurea”. La donna che sta parlando con noi dice di non averci provato poiché lontana da quei requisiti, ma sarebbe stata avvicinata dal braccio destro di Bellomo: “Mi disse che voleva organizzare un colloquio con il consigliere per avere una borsa di studio”. La ragazza ci dice di essere stata inizialmente contenta, ma di aver poi iniziato a preoccuparsi dopo l’orario di chiamata: “Mi convocarono tipo alle 23”. Qui inizierebbero le cose strane: “Mi ero messa un vestito che reputavo appropriato e loro mi hanno fatto cambiare, volevano che invece mi vestissi come ero andato a lezione: era un abito rosa, corto, come quelli che porto io”. Il consigliere Bellomo e il suo braccio destro, se questo racconto fosse vero, si sarebbero quindi ricordati come era vestita e le avrebbero chiesto di indossare lo stesso abito. “Mi ha detto proprio Bellomo che quel vestito era meglio e io allora… siccome tanto mi ero già vestita così e poi ormai ero lì ed era una situazione assurda, ho detto va bene”. Le stranezze però non finirebbero qui: “Ero agitatissima perché pensavo chissà quali domande giuridiche potessero farmi e invece quando mi hanno fatto il test capii che Bellomo tramite il suo braccio destro aveva guardato tutto il mio profilo Facebook. Vedendo una foto del mio allora compagno mi hanno fatto un test per stabilire se il mio fidanzato fosse sfigato. Il risultato per me era che non era sfigato, loro l’hanno rivisto dicendo che era sfigato e che io non ero razionale, quindi mi chiedevano insomma se io volevo ritrattare. Ho detto di no e mi hanno mandata via”. Queste valutazioni sarebbero avvenute anche con altre studentesse, come confermerebbero le testimonianze che potete ascoltare nel servizio qui sopra. Le ragazze sarebbero state spinte a lasciare i partner, come sembra anche esser confermato sulla rivista della scuola. “Ero confusa e non volevo credere che fosse così l’ambiente e ho pianto tutta la notte”, ci racconta la testimone. “Da qui in poi diventa tutto più confuso. Hanno continuato a chiamarmi, mi mandavano dei messaggi: il consigliere ti aspetta nella hall”. Dopo un po’ di tempo, i due avrebbero deciso di darle la borsa di studio. A questo punto, può iniziare l’addestramento: “In cosa consistesse non era dato saperlo, perché se tu lo chiedevi dicevano che non avevi fiducia”. A questo punto lei avrebbe capito cosa potesse intendere Bellomo: “Mi ha portato in un locale per cena, all’inizio parlava di niente ma pensavo lo facesse perché vedeva che ero tesa. Finché non ha provato a baciarmi e io lo respinsi. Lui mi disse: O così o te ne vai”. Se questo fosse vero, sarebbe molto grave. “Andarsene da lì non era solo andarsene da lui, era andarsene da tutta una cosa che era diventata il mio mondo e quindi quando ha riprovato a baciarmi non l’ho respinto. Non mi sentivo così attratta, ma non riuscivo a dire di no”. Dopo essere tornati in hotel, Bellomo si sarebbe presentato nella stanza della ragazza. “Io ho aperto ed è iniziata questa ‘relazione’, chiamiamola”. La borsista così, stando al suo racconto, finì a letto con il professore. “Mi sentivo gerarchicamente subordinata in quel rapporto”. Da quel momento per la ragazza sarebbe iniziato un vero incubo: “Ha iniziato a telefonarmi tantissimo per controllarmi, cosa stavo facendo, dove stavo andando, con chi ero. Una volta ho spento il telefono, lui mi ha detto che negli obblighi c’era scritto che io dovevo essere reperibile”. Queste restrizioni sembra fossero pubblicate anche sulla rivista della scuola. “Mi ha detto che io ero scientificamente una prostituta perché avevo messo mi piace a un amico”, continua la ragazza. “Poi ricordo che mi disse ‘metti la faccia nel cesso”. “Poi ci fu un periodo in cui ogni giorno succedeva qualcosa. Per esempio mi chiedeva di mandargli foto, io gli mandai una foto e vide che ero vestita come al corso e lui sostenne che io non potevo vestirmi fuori come andavo vestita al corso”. Queste cose hanno portato il procuratore generale Mario Fresa, davanti al Csm, a pronunciare queste parole nel confronto del presunto “sistema Bellomo”: “Questa situazione è paragonabile davvero a una situazione tipo la setta di Scientology, un contesto caratterizzato da un inquietante clima di soggezione psicologica. Se non facevano quello che veniva loro chiesto, non avrebbero mai superato il concorso in magistratura”. E poi ancora. “Quel che in generale traspare è una concezione di spiccato maschilismo che ben si coniuga con il mito del superagente e con il contraltare del fidanzato sfigato”. Sulla rivista scientifica della scuola, rincara la dose: “Questi scritti lasciano trasparire una ideologica nazifascista”. Bellomo, infine, avrebbe pure insultato la nostra testimone in una telefonata con un’altra borsista, che si sarebbe rifiutata di controllare la collega dopo che quest’ultima s’era allontanata da lui.

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2020. Una tempestava la fotografia del docente di cuoricini inviandola alle colleghe, l'altra sospirava a lezione che lo avrebbe seguito per sempre poiché lui era l' uomo per lei, e poi email su email, tutte messe agli atti. Eppure Carla Pernice e Rosa Calvi, aspiranti borsiste deluse, da anni saltano da un programma televisivo all' altro dipingendo quel professore, l' ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, come un vero e proprio mostro, un despota insopportabile, che le avrebbe violentate psicologicamente. Ma egli dichiara: «Sono io il molestato. Ho respinto le pressanti avance. E ho compreso per l' invadenza di essere davanti a soggetti pericolosi». In seguito a quanto avvenuto domenica sera a "Non è l' Arena" su La7, dove il pubblico ha assistito all' ennesimo processo mediatico senza contraddittorio (quattro donne contro un imputato assente) che tanto male fa alla Giustizia, Bellomo ci ha inoltrato un video. «Da tempo non poche trasmissioni televisive organizzano sul mio conto vere e proprie esecuzioni di piazza, all' insegna del disinteresse per la verità, con la complicità di narratrici di comodo, e improvvisati opinionisti, nei cui discorsi si fa fatica ad intravedere un barlume di pensiero logico. Io sono certo di non avere fatto alcunché di sbagliato e vorrei dimostrarlo laddove vi sono persone e regole a ciò competenti, conscio che, se la giustizia dei tribunali è imperfetta, non ne esiste una migliore. Dopo due anni di silenzio, e di sofferenza della mia famiglia, mi sono risolto a replicare con lo stesso mezzo, ma diverso metodo», spiega l' ex consigliere nella lettera che correda il filmato. «Dal dicembre del 2017 Carla Pernice e Rosa Calvi si presentano come Cappuccetto Rosso che rifiuta le offerte del lupo cattivo», esordisce Bellomo, il quale precisa ciò che le due signore omettono di riferire ogni volta che come Madonne pellegrine transumano da un format all' altro, presentandosi quali fanciulle virtuose, che avrebbero avuto il coraggio di denunciare molestie ed umiliazioni. «Dirò la verità: non ci sono state offerte di borse di studio ma solo richieste da parte loro, non c' è il lupo cattivo e soprattutto non c' è Cappuccetto Rosso», continua l' ex consigliere. Ma cos'è che Pernice e Calvi non ci raccontano, di sicuro per sbadataggine? L'aspirante borsista della scuola "Diritto e Scienza", Carla Pernice, ad esempio, trascura di narrare di avere presentato la domanda per la borsa di studio per il corso di Milano il 31 agosto 2011, di avere partecipato alla selezione e di essere stata scartata. «Da quel momento per circa un biennio ha reiterato insistentemente la sua candidatura sia con me sia rivolgendosi a persone con cui avevo stretti rapporti affinché la raccomandassero. Pernice in realtà era più che un' aspirante borsista, questo dichiara una sua amica il 15 marzo del 2019, sentita come testimone dinanzi al Csm», dice Bellomo. La teste, interrogata circa eventuali confidenze di Carla sul consigliere di Stato, riferì: «Carla era molto molto molto entusiasta ed io ricordo che una delle prime lezioni mi inviò una foto di Bellomo con dei cuoricini». «Non ho mai preso in considerazione le avance della Pernice, respingendola in modo elegante» sottolinea Bellomo, «eppure ella non si è data per vinta», chiedendo dopo anni l' indirizzo mail personale del consigliere e spedendogli una lettera. «Da quel momento capii di avere a che fare con una persona pericolosa e non la volli più al corso». E poi c' è Rosa Calvi, la quale si iscrisse al corso di magistratura 2016-2017 e partecipò alla selezione per l' assegnazione delle borse di studio nel novembre del 2016, a Roma, insieme ad altre sei persone. In questa circostanza Rosa Calvi, la quale fu scelta, di fronte a tutti manifestò entusiasmo per il contratto di borsa di studio che prevedeva un dress code sia per i maschi che per le femmine. Al colloquio successivo, in cui erano presenti non meno di venti persone, «il clima era disteso e la ragazza estremamente colloquiale e aperta. Non mi fu difficile smascherarla, capii che durante la selezione aveva mentito al solo scopo di ottenere il contratto. Strappai davanti ai suoi occhi la borsa che lei aveva firmato, dopo andò via. Dunque non è vero che non aveva accettato il contratto, lo aveva accettato e firmato. Sono stato io a cancellare l' accordo». Ma la Calvi non si dà per vinta, insiste. «Vuole a tutti i costi quel ruolo». Il 18 novembre scrive a Bellomo: «Secondo me, il punto è che lei non si è mai aperto con nessuno e tutti si sono approcciati a lei con una specie di timore reverenziale, io invece con questo modo di fare così coinvolgente ed estroverso l' ho trattata senza pensare di essere al cospetto del genio Bellomo, ma di una persona con la quale parlavo di tutto e scherzavo». «Vi sembra una persona che si senta sottopressione o a disagio?», chiede l' ex consigliere, e prosegue. «Il 23 novembre mi scrive che per riuscire ha bisogno di me». I messaggi continuano. «Nell' ultimo show televisivo Calvi ha insinuato che le avrei promesso di farle vincere il concorso. In televisione non c' è l' obbligo di dire la verità e capita, quando conviene, fare il contrario, ma quando l' obbligo c' è, ecco che la versione viene modificata: questo dichiara Calvi davanti all' autorità giudiziaria: "Non mi fu detto e non mi è mai stato detto dal consigliere: io ho il potere di farti vincere il concorso in magistratura per vie traverse". Se ne può concludere che la Calvi è bugiarda», afferma il docente. Stupisce che nessuno osi dubitare riguardo il sacro verbo di Pernice e Calvi, mettendo in luce le contraddizioni insite nelle loro stesse ricostruzioni. Del resto, chi lo fa viene subito zittito, stigmatizzato, messo al rogo. Poiché - vedete, signori - si è affermato per consuetudine un principio nuovo del diritto, ingiusto e pericoloso, in base al quale allorché una donna punta il dito contro un uomo, ella è automaticamente una martire, egli invece un farabutto ben oltre ogni ragionevole dubbio. Se la Giustizia, la quale non dovrebbe discriminare in base al genere, è lenta nelle aule di tribunale, galoppa nel piccolo schermo ed arriva a verdetti lampo che sono sentenze di condanna passate in giudicato. Inappellabili. Oltre che scontate. Ad emetterle sono "opinionisti" senza infamia e senza lode, che sarebbero più credibili a "Ballando con le stelle" piuttosto che allorché recitano la parte di esperti giuristi, a certificarle presentatori che calpestano sistematicamente il principio della presunzione di innocenza. In fondo, prendere uno stimato professore e trasformarlo in un sadico molestatore stuzzica di più la curiosità morbosa del telespettatore. E se questo nuoce alla Giustizia ed un innocente viene sputtanato, devastato, distrutto, in fondo, chi se ne frega?!

Testo di FRANCESCO BELLOMO per Libero Quotidiano il 24 febbraio 2020. Caro direttore, una donna fidanzata vede un altro uomo, si invaghisce di lui, per conquistarlo si mette a dieta, va in palestra, sostituisce gli occhiali con lenti a contatto, cambia abbigliamento. (Quando pensa di essere pronta, chiede all' amico di quell'uomo (ancora ignaro di tutto) di promuovere un incontro. L'incontro avviene, alla presenza dell' amico: lei dice di convivere da cinque anni con il fidanzato, lo definisce l' uomo della sua vita e però lo valuta negativamente. Di fronte a questa contraddizione l' uomo (l' altro) tace, si alza e se ne va. Allora la donna piange, si dispera, chiede all' amico di intercedere, e il mese dopo quell' uomo e quella donna escono insieme, in un locale alla moda di Milano. Si baciano, poi lei lo invita a salire nella propria stanza di albergo. Nel cuore della notte, mentre stanno insieme, il telefonino della donna suona incessantemente, ma lei neppure lo sente, perché intenta a fare altro. Quando ha terminato, controlla il telefono e, vedendo che era il suo fidanzato, commenta "nulla di importante, era lui". Poche settimane dopo lascia il suo fidanzato per quell' uomo, e inizia un tenace corteggiamento, per far si che i pochi incontri d' amore si trasformino in un fidanzamento. Fino a quando non scopre che quell'uomo ha delle relazioni parallele e capisce che quel sogno non si avvererà mai. Cose simili accadono ogni giorno da sempre. Ma è solo da qualche tempo, da quando cioè a una donna è consentito di dire qualunque cosa contro un uomo (meglio se famoso), certa che sarà creduta fino a prova contraria (e a volte anche oltre), che può accadere che costei, sei anni dopo quella notte, vada in televisione - giovedì sera alle Iene - a volto coperto, a raccontare una storia diversa. La storia di chi è stata persuasa e soggiogata dall' uomo e non ha saputo dire di no. Per due anni ho sopportato. Adesso basta. Ho dato mandato ai miei legali di querelare la Pinocchia di turno.

Francesco Bellomo per “Libero quotidiano” il 18 febbraio 2020. Alcuni giorni fa mi contatta l' inviata di una nota trasmissione tv, per "avvertirmi" che stanno preparando un servizio su di me e offrirmi diritto di replica. Domando a cosa dovrei replicare e mi viene riferito di quattro "testimoni" anonime che narrano dei miei rapporti intimi con le studentesse, disegnando scenari surreali. Non mi viene specificato se le testimoni siano le dirette interessate o persone che parlano per sentito dire. Faccio presente che ai fantasmi non replico e invio loro un video in cui sbugiardo - con prove materiali - l' unica di cui mi dicono il nome. Mi rispondono, però, che non gli interessa. Il giorno dopo vanno a citofonare ripetutamente a casa della mia famiglia e mi chiamano su un telefono riservato, il cui numero era nella disponibilità di pochissime persone. A questo punto decido che è troppo. Non ho rubato, non ho rapinato, non ho spacciato, non ho violentato, non ho venduto sentenze. Sono stato per 25 anni in magistratura, con un rendimento ai massimi livelli e una condotta irreprensibile; ho scritto diecimila pagine di libri, che precorrono di generazioni la scienza giuridica; ho diretto decine di convegni con alti esponenti dell'ordine giudiziario e dell' accademia; i miei allievi hanno avuto una media di successo pari a quattro volte quella nazionale. Unica colpa: aver elaborato, dopo ampia dialettica, come direttore scientifico di una scuola privata, un contratto, firmato da dodici studentesse, molte delle quali oggi sono magistrati, come altri borsisti, maschi e femmine, che quel contratto non hanno firmato. Il contratto, nato nel corso di Milano e attuato principalmente in quella sede, aveva due obiettivi: fissare principi di metodo per la formazione del giurista; assicurarsi gli studenti più idonei a svolgere attività promozionale. Nessuno può dimostrare il contrario e nessuno lo ha dimostrato. Io non so chi siano le quattro persone reclutate per il teatrino televisivo, ma so chi sono le otto studentesse con cui ho avuto rapporti privati negli ultimi anni. Posso provare - in ogni singolo caso - che si è trattato di ordinarie relazioni sentimentali, in cui né il contratto, né il mio ruolo hanno avuto alcun peso. E lo faccio tramite le loro parole, documentate, mantenendone riservata l' identità, proprio perché non so chi di loro abbia partecipato alla messa in scena.

TIZIA

- Tu hai una purezza d' animo assoluta e una visione del sentimento altissima, che non tollera deroghe o compromessi. Se dovessi mai dire "per sempre", per te sarà davvero così.

- Tu sconvolgi la mia vita. Mi accorgo di quanto il nostro rapporto sia intenso e passionale e non è una cosa comune.

- Molteplici volte ti ho supplicato di non lasciarmi, perché sapevo che poteva valerne la pena e comunque era un peccato non provare - Quando dico che ci sarò sempre è vero: quando tu avrai bisogno di me o ti sentirai anche solo un po' triste, mi troverai sempre, come è sempre stato. E nonostante tutto, anche se non il primo, per me sarai sempre l'UNICO.

CAIA

- Il pensiero di te mi assale qualsiasi cosa faccia. Questo desiderio mi sta consumando.

- Tu non hai una donna. Tu ne hai centinaia, io sono stata una di quelle. E ancora continua l'umiliazione di essere pescata dal folto gruppo.

- È stato splendido fare l'amore questi giorni. Buonanotte mio superuomo e grazie per il prezioso regalo.

- Tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più. Francesco mio.

SEMPRONIA

- Ti prego, posso chiamarti? Solo un secondo e poi se non vorrai più sentirmi, accetterò la tua decisione. Non ti ho mentito lasciami almeno spiegare quello che è un malinteso; - Non è mai stata mia intenzione toccarti sfruttando l'inganno. E non lo avrei mai fatto: cercare di ingannarti pur di stare sessualmente con te, che interesse avrei avuto ad approfondire un legame per soffrire mille volte di più?

- Non puoi chiedermi di intrattenere un flirt con te. Non dopo quello che c'è stato. Dopo essermi sentita dire che ero "la tua fidanzata" o aver stupidamente pensato di esserlo, dopo aver fatto l' amore con te, dopo aver creduto ancor più stupidamente, meglio, dopo essermi illusa, non senza incoraggiamento da parte tua, che forse tra noi poteva davvero funzionare... non sarei in grado di sostenere un qualunque rapporto con te sapendo che tu stai con altre, esci con altre, pensi ad altre.

- Fra ma io lo faccio, poi ogni tanto tu dici che non lo faccio, ma io ogni volta che faccio qualcosa penso a te.

- Io ho detto che mi sembrava che i miei sentimenti nei tuoi confronti fossero molto più forti rispetto a quelli che avevo provato in passato e ho cioè provato a fargli degli esempi, sul fatto che per dire quando tu stai male io mi sento malissimo e questo condiziona tutta la mia giornata e non è mai stato così.

MEVIA

 - Sono arrivata a casa. Anche se hai deciso di allontanarmi, io sarò dove mi hai lasciata: nell' affetto, nei sorrisi, nei baci, nelle mani, nel corpo. Lì mi ritroverai ed io ci sarò se lo vorrai. Ti bacio.

- Genio, conoscenza, sensibilità, giustizia: Tu la bellezza della perfezione. Buon compleanno.

- E un pensiero costante che a modo mio, più con la mia presenza fisica che con la scrittura, cerco di dimostrarti. È il pensiero di gratitudine nei tuoi confronti. Ho ritenuto doveroso però anche scriverlo: grazie per darmi l' opportunità di studiare, di non trascurarmi, di correggermi quando sbaglio, di dedicarmi il tuo prezioso tempo. Grazie per la tua bellezza. Ti porto dentro.

FILANA

- Ogni tanto pensa al modo in cui ti guardo, a come sono quando stiamo insieme. Pensa a come bacio la tua bocca, a come carezzo le tue mani bianche, in quei momenti non riesci a sentire quanto ti amo? Sogni d' oro amore mio.

- Fatto tutto, sono a casa.. tesoro mio, ti amo da morire e non vedo l' ora di poter stare un po' abbracciata a te.

- Amore mio, ho tanto sonno, sono già nel letto. Volevo dirti che sono felice di essere venuta con te oggi.. qualsiasi cosa è stupenda se ci sei tu. Oggi solo guardarti mi riempiva il cuore. Ti amo tanto - Buongiorno tesoro mio, come ti senti stamattina. Stavo pensando che ieri, seduto al tavolo, eri davvero meraviglioso.. non riuscivo a guardare altri che te, mi sentivo proprio fortunata.. ti amo tanto.

PEUCEZIA

- Non ho mai pregato o rincorso nessuno in vita mia. Nemmeno ho mai pensato di farlo. Questa volta ne valeva la pena.

- Se la rubrica non è vincolante, lo ripeto anche qui. Ti amo.

- È che ho capito che dovremmo stare insieme, oggettivamente. I sentimenti possono mutare, può subentrare anche il risentimento, ma la realtà non cambia.

- Non farò gesti eclatanti perché non servono: la realtà è questa, che siamo fatti l' uno per l' altra.

ROMOLA E ROMOLETTA

Dichiara Romola all' AG: «Francesco Bellomo ebbe un grande ascendente su di me, credo soprattutto per il suo spessore intellettuale e culturale ma anche per le sue forme di attenzione umana e premura».

Dichiara Romoletta all' AG: «Andammo in un locale a Corso Como e da lì iniziò una relazione tra noi. Io credetti inizialmente che potesse essere una vera relazione. Successivamente ho scoperto che Bellomo parallelamente aveva una relazione con Peucezia e Romola».

Così una studentessa milanese, avvocato, testimonia il 15 marzo 2019 dinanzi al CSM:.

D. «Visto che lei mi dice che c' era qualcuno infatuato di Bellomo, chi era?».

R. «Molte ragazze».

Questo una studentessa milanese, magistrato, dichiara il 3 dicembre 2018.

D: «Più in generale, può riferire su qual era l'approccio delle studentesse nei confronti del Cons. Bellomo?».

R: «Notavo da parte di molte studentesse, ma tale circostanza mi veniva anche riferita da altri corsisti e corsiste, un atteggiamento di interesse e di infatuazione nei confronti del Dottor Bellomo».

E-mail 22 dicembre 2017 di una studentessa milanese: Quello che so è che ho seguito un corso molto valido.

Che Lei spiegava, genialmente, 8 ore di fila.

Che in nessuna altra occasione, né in nessun altro ambiente (e non mi sono seduta lì a 25 anni, ma venivo da pregressa esperienza legata al titolo da avvocato e da dottore di ricerca) ho incontrato un essere umano geniale quanto Lei.

So anche che 3-4 anni fa Lei era circondato da bellissime ragazze. Era gentile con loro, sembrava esserci complicità. So che non esisteva a lezione alcun clima di terrore. Ho vissuto tranquilla e beata per tutto il tempo. Surreale mi sembra associare la sua persona a molestie, vessazioni, minacce. Inaccettabile assistere alla distruzione di un uomo, ad oggi fondata sul niente.

Bari, chiesto processo per ex giudice Bellomo: accusato anche di calunnia a Conte. Oltre ai maltrattamenti sulle sue ex borsiste risponde anche di calunnia e minaccia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Gennaio 2020. La Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, accusato di maltrattamenti ed estorsione su 4 borsiste della sua scuola di preparazione al concorso in magistratura. Bellomo è accusato anche di calunnia e minaccia nei confronti del premier Giuseppe Conte, all’epoca vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. Bellomo è accusato di calunnia e minaccia sia ai danni di Conte sia di Concetta Plantamura, rispettivamente ex presidente ed ex componente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo nel 2017. Dalle indagini emerge che Bellomo è accusato di maltrattamenti su tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura, ed estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una tv locale. Bellomo risponde dei maltrattamenti in concorso con l’ex pm di Rovigo Davide Nalin. Rischia il processo anche l’avvocato barese Andrea Irno Consalvo, all’epoca dei fatti organizzatore dei corsi all’interno della Scuola, accusato di false informazioni al pm. Stando alle indagini della Procura di Bari, coordinate procuratore aggiunto Roberto Rossi e la pm Iolanda Daniela Chimienti, tra il 2011 e il 2018, Bellomo avrebbe adescato corsiste proponendo loro borse di studio a patto della sottoscrizione di un contratto che disciplinava «doveri» e "dress code» imponendo, tra le altre cose, minigonna e tacco 12, obbligo di rispondere al telefono entro il terzo squillo e punizioni in caso di violazione del codice di comportamento. Per queste vicende l’indagato è stato interdetto dall’attività di insegnamento dopo aver trascorso, dal 9 al 29 luglio, 20 giorni agli arresti domiciliari.

Bari, Cassazione annulla revoca domiciliari all'ex giudice Bellomo. Si pronuncerà nuovamente il Tribunale del riesame che decise l'interdizione per 12 mesi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Gennaio 2020. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio il provvedimento con il quale, il 29 luglio scorso, il Tribunale del Riesame di Bari aveva revocato gli arresti domiciliari per l’ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, disponendo la misura alternativa della interdizione per 12 mesi. Sarà un nuovo esame dinanzi al Riesame di Bari a stabilire se Bellomo dovrà tornare agli arresti domiciliari. La vicenda è quella relativa ai presunti casi di maltrattamento su quattro donne, tre ex borsiste e una ricercatrice della sua Scuola di Formazione per la preparazione al concorso in magistratura «Diritto e Scienza», e ad una estorsione ad un’altra ex corsista per averla costretta a lasciare il lavoro in una emittente locale. Bellomo fu arrestato il 20 luglio su disposizione della magistratura a barese e, fino alla decisione del Riesame, ha trascorso 20 giorni agli arresti domiciliari. Con la revoca della misura cautelare, i giudici del Tribunale della Libertà avevano anche riqualificato i reati contestati da maltrattamenti in tentata violenza privata aggravata e stalking e da estorsione in violenza privata. Il ricorso sul punto fatto dalla Procura è stato dichiarato inammissibile. I giudici della Suprema Corte hanno, inoltre, rigettato il ricorso della difesa contro l'interdizione e contro il sequestro di alcuni documenti. Intanto Bellomo, in attesa della nuova decisione del Riesame sulla misura cautelare personale, rischia per queste vicende il processo perché la Procura di Bari ha chiesto il suo rinvio a giudizio per i reati originariamente contestati di maltrattamenti ed estorsione e anche per calunnia e minaccia nei confronti dell’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte, all’epoca vicepresidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, e di Concetta Plantamura, rispettivamente ex presidente ed ex componente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi su Bellomo quando nel 2017 fu sottoposto a procedimento disciplinare, poi destituito. 

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano”l'11 febbraio 2020. Una tempestava la fotografia del docente di cuoricini inviandola alle colleghe, l'altra sospirava a lezione che lo avrebbe seguito per sempre poiché lui era l' uomo per lei, e poi email su email, tutte messe agli atti. Eppure Carla Pernice e Rosa Calvi, aspiranti borsiste deluse, da anni saltano da un programma televisivo all' altro dipingendo quel professore, l' ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, come un vero e proprio mostro, un despota insopportabile, che le avrebbe violentate psicologicamente. Ma egli dichiara: «Sono io il molestato. Ho respinto le pressanti avance. E ho compreso per l' invadenza di essere davanti a soggetti pericolosi». In seguito a quanto avvenuto domenica sera a "Non è l' Arena" su La7, dove il pubblico ha assistito all' ennesimo processo mediatico senza contraddittorio (quattro donne contro un imputato assente) che tanto male fa alla Giustizia, Bellomo ci ha inoltrato un video. «Da tempo non poche trasmissioni televisive organizzano sul mio conto vere e proprie esecuzioni di piazza, all' insegna del disinteresse per la verità, con la complicità di narratrici di comodo, e improvvisati opinionisti, nei cui discorsi si fa fatica ad intravedere un barlume di pensiero logico. Io sono certo di non avere fatto alcunché di sbagliato e vorrei dimostrarlo laddove vi sono persone e regole a ciò competenti, conscio che, se la giustizia dei tribunali è imperfetta, non ne esiste una migliore. Dopo due anni di silenzio, e di sofferenza della mia famiglia, mi sono risolto a replicare con lo stesso mezzo, ma diverso metodo», spiega l' ex consigliere nella lettera che correda il filmato. «Dal dicembre del 2017 Carla Pernice e Rosa Calvi si presentano come Cappuccetto Rosso che rifiuta le offerte del lupo cattivo», esordisce Bellomo, il quale precisa ciò che le due signore omettono di riferire ogni volta che come Madonne pellegrine transumano da un format all' altro, presentandosi quali fanciulle virtuose, che avrebbero avuto il coraggio di denunciare molestie ed umiliazioni. «Dirò la verità: non ci sono state offerte di borse di studio ma solo richieste da parte loro, non c' è il lupo cattivo e soprattutto non c' è Cappuccetto Rosso», continua l' ex consigliere. Ma cos'è che Pernice e Calvi non ci raccontano, di sicuro per sbadataggine? L'aspirante borsista della scuola "Diritto e Scienza", Carla Pernice, ad esempio, trascura di narrare di avere presentato la domanda per la borsa di studio per il corso di Milano il 31 agosto 2011, di avere partecipato alla selezione e di essere stata scartata. «Da quel momento per circa un biennio ha reiterato insistentemente la sua candidatura sia con me sia rivolgendosi a persone con cui avevo stretti rapporti affinché la raccomandassero. Pernice in realtà era più che un' aspirante borsista, questo dichiara una sua amica il 15 marzo del 2019, sentita come testimone dinanzi al Csm», dice Bellomo. La teste, interrogata circa eventuali confidenze di Carla sul consigliere di Stato, riferì: «Carla era molto molto molto entusiasta ed io ricordo che una delle prime lezioni mi inviò una foto di Bellomo con dei cuoricini». «Non ho mai preso in considerazione le avance della Pernice, respingendola in modo elegante» sottolinea Bellomo, «eppure ella non si è data per vinta», chiedendo dopo anni l' indirizzo mail personale del consigliere e spedendogli una lettera. «Da quel momento capii di avere a che fare con una persona pericolosa e non la volli più al corso». E poi c' è Rosa Calvi, la quale si iscrisse al corso di magistratura 2016-2017 e partecipò alla selezione per l' assegnazione delle borse di studio nel novembre del 2016, a Roma, insieme ad altre sei persone. In questa circostanza Rosa Calvi, la quale fu scelta, di fronte a tutti manifestò entusiasmo per il contratto di borsa di studio che prevedeva un dress code sia per i maschi che per le femmine. Al colloquio successivo, in cui erano presenti non meno di venti persone, «il clima era disteso e la ragazza estremamente colloquiale e aperta. Non mi fu difficile smascherarla, capii che durante la selezione aveva mentito al solo scopo di ottenere il contratto. Strappai davanti ai suoi occhi la borsa che lei aveva firmato, dopo andò via. Dunque non è vero che non aveva accettato il contratto, lo aveva accettato e firmato. Sono stato io a cancellare l' accordo». Ma la Calvi non si dà per vinta, insiste. «Vuole a tutti i costi quel ruolo». Il 18 novembre scrive a Bellomo: «Secondo me, il punto è che lei non si è mai aperto con nessuno e tutti si sono approcciati a lei con una specie di timore reverenziale, io invece con questo modo di fare così coinvolgente ed estroverso l' ho trattata senza pensare di essere al cospetto del genio Bellomo, ma di una persona con la quale parlavo di tutto e scherzavo». «Vi sembra una persona che si senta sottopressione o a disagio?», chiede l' ex consigliere, e prosegue. «Il 23 novembre mi scrive che per riuscire ha bisogno di me». I messaggi continuano. «Nell' ultimo show televisivo Calvi ha insinuato che le avrei promesso di farle vincere il concorso. In televisione non c' è l' obbligo di dire la verità e capita, quando conviene, fare il contrario, ma quando l' obbligo c' è, ecco che la versione viene modificata: questo dichiara Calvi davanti all' autorità giudiziaria: "Non mi fu detto e non mi è mai stato detto dal consigliere: io ho il potere di farti vincere il concorso in magistratura per vie traverse". Se ne può concludere che la Calvi è bugiarda», afferma il docente. Stupisce che nessuno osi dubitare riguardo il sacro verbo di Pernice e Calvi, mettendo in luce le contraddizioni insite nelle loro stesse ricostruzioni. Del resto, chi lo fa viene subito zittito, stigmatizzato, messo al rogo. Poiché - vedete, signori - si è affermato per consuetudine un principio nuovo del diritto, ingiusto e pericoloso, in base al quale allorché una donna punta il dito contro un uomo, ella è automaticamente una martire, egli invece un farabutto ben oltre ogni ragionevole dubbio. Se la Giustizia, la quale non dovrebbe discriminare in base al genere, è lenta nelle aule di tribunale, galoppa nel piccolo schermo ed arriva a verdetti lampo che sono sentenze di condanna passate in giudicato. Inappellabili. Oltre che scontate. Ad emetterle sono "opinionisti" senza infamia e senza lode, che sarebbero più credibili a "Ballando con le stelle" piuttosto che allorché recitano la parte di esperti giuristi, a certificarle presentatori che calpestano sistematicamente il principio della presunzione di innocenza. In fondo, prendere uno stimato professore e trasformarlo in un sadico molestatore stuzzica di più la curiosità morbosa del telespettatore. E se questo nuoce alla Giustizia ed un innocente viene sputtanato, devastato, distrutto, in fondo, chi se ne frega?!

Il magistrato Luberto indagato per corruzione, trasferito a Potenza dal Csm. Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2020. Il magistrato calabrese, attualmente indagato dalla Procura di Salerno per corruzione in atti giudiziari e rifiuto d’atti d’ufficio con l’aggravante del favoreggiamento alla ‘ndrangheta, adesso farà il giudice civile. Vincenzo Luberto attualmente  indagato per corruzione in atti giudiziari dalla Procura di Salerno, guidata da Luca Masini, non è più procuratore aggiunto antimafia alla DDA di Catanzaro. La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ne ha disposto il trasferimento, come giudice civile, al Tribunale di Potenza. La pratica per il trasferimento è stata avviata a seguito dell’ iscrizione del magistrato sul registro degli indagati  con l’accusa di corruzione in atti giudiziari nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Procura di Salerno. Al magistrato vengono contestati i rapporti avuti con Ferdinando Aiello ex parlamentare calabrese del Partito Democratico. Secondo l’impianto accusatorio sarebbe stato Aiello , a pagare con la sua American Express i viaggi di Luberto il quale in cambio non aveva mai iscritto l’ex deputato nel registro degli indagati nonostante il nome dell’ex deputato del PD fosse comparso nelle intercettazioni effettuate dai Carabinieri di Cosenza.  Gravi accuse che gli sono state ritualmente contestate dai magistrati campani con un avviso di garanzia notificatogli nelle scorse settimane. Nelle settimane scorse il magistrato Luberto aveva subito una perquisizione su richiesta dei pm campani che stanno indagando su di lui . Motivando il decreto di perquisizione, i pm campani avevano sottolineato la “chiara e inequivoca gravità indiziaria” a carico di Luberto  Nell’ambito di un’inchiesta antimafia,   erano emerse “corpose ipotesi di scambio elettorale-politico-affaristico e corruzione, il tutto in un contesto di ‘ndrangheta”. sull’ex- deputato Dem. Viaggi pagati ed accertamenti patrimoniali sui beni di Luberto sono confluiti nell’inchiesta dei pm salernitani che hanno ricevuto gli atti proprio dalla Procura di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri., da cui ha preso il via il procedimento disciplinare che è culminato con il trasferimento al Tribunale di Potenza. A Potenza nei mesi scorsi è già stato trasferito  anche l’ex procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, coinvolto anch’egli in un’altra inchiesta dei pm salernitani. Il magistrato aveva svolto le funzioni di pm a Cosenza ottenendo successivamente la nomina a procuratore aggiunto a Catanzaro. Nel capoluogo di regione si è occupato della criminalità organizzata dell’area ionica cosentina e crotonese e delle cosche dell’area tirrenica cosentina.

Facciolla su Gratteri, Palamara e giudici pedinati: «Il mio è un omicidio professionale». Marco Cribari il 30 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ha parlato per quasi quattro ore, in equilibrio sul filo della commozione e della rabbia, proclamandosi vittima «di un omicidio professionale». Parole durissime quelle di Eugenio Facciolla, riecheggiate ieri nel tribunale di Salerno durante l’anticamera del processo che lo vede sotto accusa per falso e corruzione. L’ex procuratore di Castrovillari, già pm antimafia a Catanzaro, ha voluto rilasciare dichiarazioni spontanee, contestando punto per punto tutte le accuse mosse nei suoi riguardi prima che il giudice dell’udienza preliminare decida in merito al suo eventuale rinvio a giudizio e a quello degli altri imputati. Facciolla, infatti, rischia l’incriminazione a causa di affidamenti per oltre 700mila euro disposti dal suo ex ufficio nella città del Pollino in favore della “Stm srl” – azienda specializzata nel noleggio di attrezzature per attività intercettive – che in cambio gli avrebbe messo a disposizione un telefonino e installato un sistema di videosorveglianza sotto la sua abitazione cosentina. Al riguardo, il diretto interessato si è difeso con i denti: «Non ho mai esercitato l’attività di magistrato per denaro» ha affermato, adducendo a riprova il fatto che negli ultimi anni la Guardia di finanza abbia passato al setaccio tutti i suoi conti correnti senza rilevare anomalie. Ha evidenziato, inoltre, che gli accertamenti eseguiti sul suo conto hanno riguardato persino l’acquisto di un’automobile nel 1990, epoca in cui indossava ancora la toga da avvocato. Con lui sono alla sbarra anche il maresciallo dei carabinieri forestali, Carmine Greco e i titolari della stessa Stm, Marisa Aquino e suo marito Vito Tignanelli – agente di polizia stradale legato a Facciolla da rapporti ventennali – entrambi già noti per il loro coinvolgimento nell’affaire Exodus, il sofware spia che per via di un difetto di fabbrica potrebbe aver messo a rischio i segreti delle Procure di mezz’Italia. L’inchiesta ha origine un anno e mezzo fa, mentre la Procura antimafia di Catanzaro indaga sui rapporti pericolosi tra la ‘ndrangheta e Greco, un tempo stretto collaboratore di Facciolla, ma ora sotto processo anche a Crotone per concorso esterno in associazione mafiosa. Gli accertamenti disposti all’epoca sul conto del sottufficiale fanno emergere dubbi di irregolarità a carico del procuratore di Castrovillari, tra cui gli incarichi alla Stm e una serie di presunte falsificazioni di atti d’indagini che, in seguito, indurranno l’ufficio di Nicola Gratteri a inviare la documentazione del caso a Salerno, competente per indagini a carico di magistrati del distretto di Catanzaro. Al riguardo Facciolla non ha mai pronunciato il nome di Gratteri, ma «al procuratore di Catanzaro» ha contestato di non essere stato così tempestivo nella trasmissione degli atti ad altra Procura e di aver continuato a indagare, dunque, fuori dal recinto stabilito dal codice. E per rafforzare il concetto, con un colpo a effetto ha fatto accenno anche a presunti pedinamenti eseguiti a carico di un pubblico ministero in servizio nella Procura di Cosenza. Dichiarazioni scottanti che hanno fatto il paio anche con quelle che, a suo avviso, sarebbero le ragioni dei dissapori con il suo collega del capoluogo: la volontà, da parte di quest’ultimo, di istituire un server presso la Procura catanzarese in cui far confluire le intercettazioni di tutte le Procure del Sud Italia. In passato, il tema sarebbe stato oggetto di un confronto tra procuratori durante il quale diversi presenti – tra cui lo stesso Facciolla – avrebbero evidenziato i rischi di quest’operazione, compresa la dichiarazione di nullità delle stesse intercettazioni, facendo così arrabbiare il proponente. Un accenno lo ha riservato anche alla vicenda Palamara, tra rivendicazioni e ammiccamenti, perché in quelle chat – ha spiegato – il suo nome «non compare mai», a differenza invece di «quello di altre persone». Dichiarazioni torrenziali e in stile libero, insomma, anche se lo stesso si è detto disponibile a rispondere a eventuali domande da parte del giudice. Qualora il gup non lo ritenga opportuno, alla ripresa dei lavori, il 13 luglio, si procederà direttamente con la requisitoria d’accusa. Prima della fine, è arrivato quel riferimento drammatico alla propria condizione umana e lavorativa: l’indagine salernitana, poi il provvedimento del Csm che per motivi disciplinari lo ha declassato a giudice civile. È tutta lì, a suo avviso, la dinamica del «suo omicidio professionale», qualcosa di cui – ha ammonito – «prima o poi qualcuno dovrà rendere conto».

Da “Libero quotidiano” il 19 novembre 2020. I giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce hanno condannato alla pena di 16 anni e nove mesi di reclusione l'ex gip di Trani Michele Nardi. L' accusa è di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso. Nardi in questo momento è ai domiciliari e fu arrestato nel gennaio del 2019 insieme al Pm tranese Antonio Savasta che a sua volta è stato condannato a 10 anni di reclusione. Ad entrambi è contestata l' accusa di aver garantito esiti processuali favorevoli in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli, diamanti e varie utilità.

«Giustizia svenduta»: ex gip Nardi condannato a 16 anni di carcere e radiato dalla magistratura. L'ispettore Di Chiaro a 9 anni, l'avvocatessa Cuomo a 6 anni, Zagaria a 4 anni, Patruno a 5 anni. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Novembre 2020. L'ex gip Michele Nardi condannato a 16 anni e 9 mesi di carcere, l'ispettore di Polizia, Vincenzo Di Chiaro a 9 anni e 7 mesi,  l’avvocatessa barese Simona Cuomo a 6 anni e 4 mesi, Savino Zagaria a 4 anni e 3 mesi e Gianluigi Patruno a 5 anni e 6 mesi. Queste le condanne comminate dopo la camera di Consiglio dai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce chiamati ad esprimersi sull'ex gip di Trani Michele Nardi e su altri quattro imputati nel troncone del processo sulla Giustizia svenduta al Tribunale di Trani che si è celebrato con rito ordinario. Nardi, che è ai domiciliari, fu arrestato nel gennaio 2019 assieme all’allora pm tranese Antonio Savasta (condannato a 10 anni di reclusione con rito abbreviato) con l’accusa, contestata  ad entrambi, di aver garantito esiti processuali favorevoli in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli, diamanti e varie utilità. I fatti contestati risalgono al periodo compreso tra il 2014 e il 2018.  Per tutti interdizione perpetua dai pubblici uffici e dalla professione. Nardi è stato radiato dalla magistratura.

Il giorno della sentenza: «A Trani c'era un sistema criminale». I giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce hanno condannato alla pena di 16 anni e nove mesi di reclusione l’ex gip di Trani Michele Nardi, accusato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso. I pm avevano chiesto la condanna a 19 anni e 10 mesi. Nardi, che è ai domiciliari, fu arrestato nel gennaio 2019 assieme all’allora pm tranese Antonio Savasta (condannato a 10 anni di reclusione con rito abbreviato) con l’accusa, contestata ad entrambi, di aver garantito esiti processuali favorevoli in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli, diamanti e varie utilità. I fatti contestati risalgono al periodo compreso tra il 2014 e il 2018. Il Tribunale ha condannato a 9 anni e 7 mesi di reclusione l'ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell’ex pm Savasta; 6 anni e 4 mesi sono stati inflitti all’avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato dell’ex magistrato Savasta. I giudici hanno disposto la confisca dei beni per ciascun imputato per 2,2 milioni di euro ed hanno disposto l'interdizione perpetua dai pubblici uffici per tutti gli imputati fatta eccezione per Zagaria per il quale l’interdizione avrà durata pari alla pena inflitta. L’avvocatessa Cuomo è stata interdetta dalla professione per tutta la durata della pena. Nei confronti di Nardi e Di Chiaro è stato dichiarato estinto il rapporto di pubblico impiego. Nardi non era presente al momento della lettura del dispositivo, ma ha atteso i suoi legali fuori dall’aula.

Lecce, pm arrestati, la difesa dell'ex gip: «Nardi vittima di un coacervo di calunnie». L’ex magistrato ha preso la parola nell’aula bunker. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2020. Si riuniranno in camera di Consiglio il prossimo 18 novembre i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce chiamati ad emettere la sentenza sull'ex gip di Trani Michele Nardi e su altri quattro imputati nel troncone del processo sulla Giustizia svenduta al Tribunale di Trani che si celebra con rito ordinario. Oggi al termine di un’arringa fiume , il legale difensore di Nardi, avvocato Domenico Mariani, ha chiesto l’assoluzione per il proprio assistito , definito " vittima di un coacervo di calunnie». L’ex magistrato ha preso la parola nell’aula bunker. " Sono innocente. che Dio vi assista nella vostra decisione se condannarmi a morte o meno «, ha detto rivolgendosi alla corte , "perché una richiesta di condanna a 20 anni , significa questo per un uomo della mia età, non in salute» ha detto evocando in aula il caso giudiziario di Enzo Tortora. «Tra la fede e la santità c'è di mezzo la debolezza dell’essere umano», ha detto inoltre Nardi citando Sant'Agostino per rispondere al pm Roberta Licci che nel corso delle sua requisitoria aveva parlato di una serie di foto hard rinvenute nel pc sequestro all’ex magistrato e scattate dallo stesso Nardi. «Non ho mai detto di essere un santo - ha detto in aula rivolgendosi alla pm accusandola di "essere un censore di costumi piuttosto che giudicare i fatti». 

Giustizia svenduta, Nardi contro ex pm Savasta: lui ha fatto porcherie. E’ durato circa sette ore l’esame dell'ex magistrato davanti ai giudici della seconda sezione del Tribunale di Lecce. La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Novembre 2020. E’ durato circa sette ore l’esame di Michele Nardi davanti ai giudici della seconda sezione del Tribunale di Lecce nell’ambito del processo nel quale l’ex gip di Trani è imputato per associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. Nardi ha ripercorso tutte le circostanze che lo vedono coinvolto nell’inchiesta, asserendo che «le porcherie» le hanno combinate il suo accusatore, Flavio D’introno, e l’allora pm di Trani Antonio Savasta. Riguardo a uno dei passaggi chiave dell’inchiesta, relativo ai 14 viaggi a Roma che avrebbe fatto l'imprenditore D’Introno per consegnargli, secondo quanto sostenuto dalla Procura di Lecce, i soldi delle mazzette, l’ex gip ha esibito per ogni data una serie di documenti che comproverebbero l’insussistenza delle accuse mossegli dai magistrati salentini rei a suo dire «di aver vomitato una marea di carte prima di verificare dichiarazioni che sono calunnie». Il magistrato, che è a giudizio con rito ordinario, fu arrestato il 14 gennaio 2019 assieme all’allora pm tranese Antonio Savasta (condannato a 10 anni di reclusione con rito abbreviato) con l’accusa, contestata ad entrambi, di aver garantito esiti processuali favorevoli in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore degli imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli, diamanti e varie utilità. Assieme ai due magistrati fu arrestato l’ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro: questi è a giudizio dinanzi al Tribunale assieme a Nardi, all’avvocatessa Simona Cuomo, a Gianluigi Patruno e Savino Zagaria. Le accuse risalgono al periodo compreso tra il 2014 e il 2018.

Processo ai magistrati Trani: Cassazione annulla sequestro beni a ex gip Nardi. La difesa: «decisione forte». La decisione della VI sezione della Suprema Corte riguarda due immobili a Trani e uno a Roma, oltre a somme in banca per 70mila euro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Ottobre 2020. La VI sezione della Cassazione ha annullato il sequestro disposto dalla Procura di Lecce sui beni immobili e conti correnti riconducibili all’ex gip di Trani Michele Nardi e ai suoi familiari. Nardi venne arrestato il 14 gennaio 2019 insieme al collega ed ex pm Antonio Savasta, entrambi con l’accusa di associazione per delinquere , corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. Insieme a loro venne arrestato anche l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro. Il sequestro ora annullato, che era stato disposto nell’ambito dell’inchiesta sul sistema di mazzette e favori al Tribunale di Trani tra il 2014 e il 2018, riguarda due immobili a Trani e uno a Roma, oltre a somme in banca per 70mila euro. La decisione con la quale la Cassazione ha annullato senza rinvio il sequestro dei beni immobili e conti correnti riconducibili all’ex gip di Trani Michele Nardi e ai suoi familiari «è un provvedimento forte perché impone la restituzione immediata di quanto è stato sequestrato, senza possibilità di ricorso. Il dispositivo è immediatamente esecutivo». Lo afferma il legale di Nardi, Domenico Mariani. Il sequestro era stato disposto dalla magistratura salentina nell’ambito dell’inchiesta sul sistema di mazzette e favori al Tribunale di Trani tra il 2014 e il 2018. «Il provvedimento - prosegue Mariani - di fatto esclude che Nardi abbia intestato fittiziamente i beni ai suoi familiari per evitarne il sequestro, accertando inoltre che il passaggio dei soldi (i 70 mila euro sequestrati) era legittimo sia sulla provenienza, (si trattava di arretrati di stipendio provenienti dal Ministero della Giustizia) sia sulla destinazione».

Giustizia svenduta, avvocato offende Pm in aula a Lecce: acquisito audio. Alcune parole offensive sarebbero state rivolte al sostituto procuratore Roberta Licci dall'avv. Domenico Mariani, difensore dell’ex gip di Trani, Nardi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Ottobre 2020. I giudici della Seconda sezione penale del Tribunale di Lecce hanno disposto l’acquisizione degli atti relativi all’audio di alcune parole offensive nei confronti della pm Roberta Licci, che l’avvocato Domenico Mariani, difensore dell’ex gip di Trani Michele Nardi, avrebbe pronunciato in una recente udienza del processo all’ex magistrato accusato di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. Con l’acquisizione dell’audio, per «oltraggio a magistrato in udienza», è stata disposta anche la trasmissione degli atti al procuratore capo Leonardo Leone de Castris. In quell'udienza Mariani si sarebbe rivolto alla pm salentina dandole della «cafona», ma dall’audio della registrazione di Radio Radicale sarebbe emerso anche un altro termine, volgare, pronunciato sottovoce dall’avvocato ma intercettato dal microfono lasciato acceso, che la pubblica accusa ritiene fosse rivolto verso la titolare dell’inchiesta. L’audio incriminato non è chiaro: la parola si sente parzialmente, sebbene intuibile nel suo significato, ma non appare evidente a chi sia rivolta. 

La Cassazione conferma: il magistrato Nardi diffamò l’ avv. Michele Laforgia. Il Corriere del Giorno il 9 Giugno 2020. Diventa definitiva la sentenza di condanna di Michele Nardi alla pena di un anno e mesi sei di reclusione. Una squallida storia di magistrati ex-amanti finita nelle aule di giustizia. La decisione della 6a Sezione Penale della Corte di Cassazione ha origine da un ricorso presentato dal magistrato Michele Nardi, contro la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro del 18 febbraio 2019 , in esito al procedimento svoltosi con rito abbreviato, confermando la sentenza di condanna di Michele Nardi alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e mesi sei di reclusione, per i reati, unificati in continuazione, di calunnia , commessi il 12 maggio 2012. Sono state, altresì confermate le statuizioni civili, con condanna generica al risarcimento dei danni da liquidarsi in sede civile, in favore delle parti civili. Sul ricorso di Nardi si era espresso negativamente chiedendo il rigetto per inammissibilità, anche il Sostituto Procuratore dr. Ciro Angelillis. I fatti hanno avuto inizio nel 2012 quando  Michele Nardi, all’epoca magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Roma, ascoltato dal Pubblico Ministero del Tribunale di Trani in qualità di persona informata sui fatti nel procedimento penale n. 3767/2012 mod. 44, aperto a seguito della sua denuncia in merito al rinvenimento di alcuni proiettili rinvenuti in una lettera anonima, incolpava, sapendoli innocenti, le colleghe Maria Grazia Caserta, Margherita Grippo e l’avvocato Michele Laforgia dei reati di abuso di ufficio e corruzione in atti giudiziari. Michele Nardi, nel corso dell’anno 2009 aveva avuto una relazione sentimentale con la collega Maria Grazia Caserta, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trani, finita in malo modo e con epiloghi sia a carico della Caserta in sede disciplinare, a seguito di sua denuncia del 4 agosto 2011, che, per entrambi, in sede giudiziaria con denunce reciproche per i reati di stalking  ed altro commessi l’uno in danno dell’altro, nel corso delle dichiarazioni incolpava falsamente la giudice Caserta del reato di abuso di ufficio, commettendo così il reato di calunnia , nonché la predetta magistrata, la collega Grippo e l’avvocato Laforgia del reato di corruzione in atti giudiziari. Nardi, con riferimento alla dr.ssa Caserta, riferiva che la predetta avrebbe emesso una sentenza di improcedibilità per intervenuta prescrizione nei confronti dell’avvocato Giacomo Ragno, nonostante fosse convinta della sua innocenza, ed al solo fine di fare un dispetto al Nardi al quale l’avvocato Ragno era legato da risalente amicizia, asservendo così la funzione giudiziaria a scopi personali e non facendosi scrupolo delle conseguenze che il pronunciamento avrebbe avuto per l’interessato. Sempre nel medesimo contesto Nardi sosteneva che la Caserta, insieme alla collega Grippo e l’avvocato Laforgia, difensore di fiducia della Caserta in sede penale, avevano ordito un piano affinché, astenutasi la Grippo dalla trattazione del processo “Truck Center”  che vedeva imputati vertici dell’ENI, difesi dal medesimo avvocato Laforgia, tramite interposta persona, il processo venisse assegnato alla Caserta, ciò sia allo scopo di ritardare l’esecuzione del decreto di trasferimento di ufficio disposto dal Consiglio Superiore della Magistratura della predetta Caserta, che avrebbe dovuto disporre una perizia collegiale, e sia di favorire l’avvocato Laforgia, che avrebbe beneficiato di un pronunciamento pilotato dalla Caserta verso l’esito assolutorio. Secondo la Suprema Corte, “i giudici di appello si sono fatti carico di procedere ad una completa ricostruzione in fatto e, soprattutto, ponendosi in ragionato confronto critico con il nucleo essenziale delle allegazioni difensive – per vero diffuse ed articolate -, hanno analizzato la componente psicologica dei reati ascritti all’imputato sulla scorta di un’analitica disamina delle risultanze processuali” e pertanto “Le conclusioni della Corte di appello, risultano, in particolare, in linea con gli approdi ermeneutici di questa Corte sia sul tema della inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal Nardi nel corso delle dichiarazioni al Pubblico Ministero del Tribunale di Trani sia sugli elementi, materiale e psicologico, del reato di calunnia“. Nardi, che aveva chiaramente riferito al pubblico Ministero di essere sottoposto ad indagini dinanzi al Pubblico Ministero del Tribunale di Lecce per i reati di stalking ed altro, attribuitigli dalla Caserta, in danno reciproco, pendenza avvalorata dagli atti acquisiti e prodotti in sede di memoria e culminata nell’archiviazione della posizione processuale dello stesso Nardi, da qui anche il vizio di travisamento della prova, non può che comportare la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, non avendo il ricorrente ricevuto gli avvisi di cui all’art. 64 cod. proc. pen... Il Nardi, rispondendo a specifiche domande dell’inquirente – aspetto questo approfondito anche nella memoria difensiva, ove si ribadisce come le dichiarazioni erano state sollecitate dall’inquirente che aveva fatto espresso riferimento al rapporto conflittuale con la Caserta – aveva fatto riferimento ai due episodi, poi ascrittigli come condotta di calunnia, poiché, secondo la sua personale interpretazione, le vicende esposte non erano altro che la concreta attuazione dell’intento della Caserta di fargli terra bruciata intorno, per costringerlo ad allontanarsi da Trani, connessione logica che non abbisogna di altra dimostrazione, tanto è evidente in ragione dell’indirizzo recato sulla anonima busta che recava la scritta “via da Trani” risultata inattendibile ed incongruente ove si rifletta che il magistrato Nardi in realtà prestava già servizio a Roma. Inoltre gli episodi riferiti avevano un preciso impatto sulla linea difensiva del Nardi, quale indagato a Lecce su denuncia della Caserta per il reato di stalking ed altro, reati abituali e commessi sempre in territorio di Trani, e dei quali egli aveva puntualmente riferito all’inquirente, essendo volti ad accreditare i comportamenti intimidatori della Caserta: le dichiarazioni, pertanto, si iscrivono in un chiaro contesto difensionale.  Altro aspetto dei motivi di ricorso del Nardi era connesso invero all’esercizio dello ius defendendi  da parte sua, cioè le false accuse a carico della Caserta, erano giustificate, secondo la prospettiva del magistrato ricorrente, dalla necessità di difendersi da quelle di stalking  che la Caserta gli muoveva nel procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria di Lecce, reato dal quale l’imputato è stato assolto. Il collegio giudicante della Suprema Corte ha ritenuto che nel caso in esame non sussiste alcuna essenzialità nella prospettazione delle accuse che Nardi ebbe a muovere alla giudice Margherita Grippo e dell’avvocato Michele Laforgia, coinvolti nell’accusa di corruzione in atti giudiziari e neppure nei confronti della Caserta, poiché le accuse messe in campo, ed involgenti comportamenti processuali sia della collega Caserta che della Grippo e dell’avvocato Michele Laforgia, andavano ben oltre le dinamiche, certo contrastanti, dei rapporti personali che avevano coinvolto l’imputato Nardi e la collega Caserta, attingendone la correttezza del comportamento processuale, tenuto in occasione dei procedimenti sia a carico dell’avvocato Giacomo Ragno che nel procedimento “Truck Center“,  frutto, questo, secondo la infondata prospettazione del Nardi, di un vero e proprio complotto ordito non solo per ritardare il trasferimento della dottoressa Caserta, ma per agevolare l’avvocato Michele Laforgia, indicato come patrono di autorevoli indagati, o, comunque regista delle strategie difensive nel processo. L’ avvocato Michele Laforgia, come si evince dagli atti processuali peraltro non ha mai difeso gli imputati dell’ ENI, e non ha mai ordito alcun complotto non avendo peraltro alcun potere per poterlo eventualmente fare, per far astenere la dr.ssa Grippo e far assegnare il fascicolo alla dr.ssa Caserta.  La Cassazione ha quindi condannato Nardi a rifondere alla parte civile Margherita Grippo le spese di rappresentanza e difesa nel presente grado, e dichiarato compensate le spese del presente grado tra il ricorrente Nardi e la parte civile Caserta Maria Grazia, rigetta la richiesta di oscuramento formulata dalla parte civile Caserta. Una sentenza questa della Suprema Corte che accende ancora una volta i riflettori sulle squallide vicende che hanno coinvolto magistrati del foro di Trani, come Michele Nardi, che soltanto un CSM “deviato” e per niente illuminato… poteva trasferire alla Procura di Roma! Lasciatecelo dire, questa è la giustizia “monnezza” al cui confronto la spazzatura è cosa nobile !

«Trani, i giudici puntavano al profitto». La requisitoria contro Savasta: aver estorto soldi a un cittadino è più grave della corruzione. Massimiliano Scagliarini il 27 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’accusa più grave che la Procura di Lecce muove all’ex pm Antonio Savasta non è la corruzione in atti giudiziari per aver truccato i fascicoli di indagine con l’obiettivo di favorire l’imprenditore Flavio D’Introno. Il reato che il pm Roberta Licci ritiene più pesante, nell’ambito della richiesta di condanna a dieci anni e 8 mesi avanzata in abbreviato nei confronti dell’ex collega, è la concussione: la «stangata» nei confronti dell’imprenditore Paolo Tarantini, cui la cricca della giustizia truccata ha estorto 400mila euro a fronte di un falso fascicolo per reati fiscali. «Una totale assenza di coscienza civica prima ancora che professionale», secondo la Licci che ha parlato di «una situazione kafkiana» anche «a discapito di comuni cittadini assolutamente innocenti che si trovano coinvolti in un ingranaggio», in un «sistema», quello dei giudici di Trani, «che è orientato su una logica di profitto». Tarantini, ricco imprenditore di Corato, viene presentato alla cricca da D’Introno e - dice l’indagine - ne finisce schiacciato. Il falso avviso di garanzia che gli viene notificato, in cui «rediti» è scritto (per due volte) con una sola «d», sarebbe una roba da ridere se non fosse amaramente vero. E per questa vicenda Savasta risponde anche di truffa: «Si presenta a Tarantini - ha ricostruito la Licci nella requisitoria del 31 gennaio - chiedendo i 60mila euro con il pretesto di dover operare il figlio in America per un problema di un tumore». Non era vero, ma - dice il pm - «una cosa che fa senso solo a pensarci che sia stato utilizzato questo pretesto per ottenere 60mila euro ancora dal povero Tarantini». «Il povero signor Tarantini - ha proseguito la pm - a fronte di questa rappresentazione dice “io ci ho creduto perché per me alla fine”, e questa è una cosa che continuo a ricordare perché è rimasta molto impressa, “alla fine era un magistrato, un uomo dello Stato”». La difesa di Savasta (l’avvocato Massimo Manfreda di Brindisi) replicherà nell’udienza del 6 marzo. Il gip Cinzia Vergine emetterà la sentenza il 30 marzo. L’accusa non crede alla genuinità della confessione dell’ex pm, ritenendo che abbia confermato solo ciò che non poteva negare: per questo gli è stata negata l’attenuante della collaborazione. La Procura, se è per quello, non crede nemmeno al pentimento di D’Introno (oggi in carcere a Trani per scontare la condanna per usura che ha in tutti i modi provato a evitare): «Non si dica che D’Introno per noi è una vittima. Non è una vittima, è un attore, è uno degli attori principali ma che si inserisce sicuramente in un contesto rodato». La sua collaborazione è dovuta - secondo l’accusa - solo «al concatenarsi degli eventi»: nella perquisizione a Savasta (nel frattempo si era trasferito a Roma) gli vengono trovati in casa fascicoli di Trani che riguardano D’Introno, a quel punto il magistrato avverte l’imprenditore «che la situazione sta precipitando. Quindi si innesta la collaborazione di D’Introno». Ma l’accusa e definisce «cedevole» pure la difesa dell’altro ex pm Luigi Scimè, per il quale sono stati chiesti 4 anni e 4 mesi per corruzione e che smentisce tutto: «Ne parlano come uno di loro. E sono loro stessi, i sodali», ha detto a proposito di Scimè il pm Alessandro Prontera rilevando che tra gli ex magistrati di Trani (nel contesto è compreso anche l’ex gip Michele Nardi, tuttora in carcere, a giudizio nel processo ordinario) esisteva un «mutuo soccorso tra sodali». La Procura ritiene provata la «capacità di Nardi di incidere su Scimè», e l’intervento dell’ex pm per favorire D’Introno nella requisitoria del procedimento di primo grado per usura e nella vicenda dei sequestri, in cambio di soldi. Soldi di cui non c’è traccia, ma di cui parlano sia Savasta che D’Introno.

Magistrati arrestati a Trani, chiesti 10 anni per ex pm Savasta. Per lui chiesta anche la confisca di beni per 2,4 milioni di euro. la Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Gennaio 2020. La Procura di Lecce ha chiesto la condanna a 10 anni e otto mesi di reclusione per l’ex pm tranese Antonio Savasta nel corso del processo con rito abbreviato in corso dinanzi al gup del Tribunale salentino. Savasta fu arrestato nel gennaio 2019 assieme al collega Michele Nardi con le accuse di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. La pubblica accusa ha chiesto anche la condanna dell’altro ex pm tranese Luigi Scimé (4 anni e 4 mesi), dell’imprenditore Luigi D’Agostino (4 anni), 4 anni e mesi 4 per l’avvocato Ruggiero Sfrecola e 2 anni e 8 mesi per l’avvocato Giacomo Ragno. I due magistrati (Nardi è a giudizio con rito ordinario) sono accusati di aver garantito esiti processuali favorevoli in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore degli imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di ingenti somme di danaro e, in alcuni casi, di gioielli e diamanti. Assieme a loro fu arrestato l’ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro, a giudizio dinanzi al Tribunale assieme a Nardi. Le accuse risalgono al periodo compreso tra il 2014 e il 2018. Al momento dell’arresto Savasta e Nardi erano in servizio al Tribunale di Roma. Successivamente Savasta si è dimesso dalla magistratura. La Procura di Lecce, al termine della requisitoria nel processo a carico dei due ex pm di Trani Antonio Savasta e Luigi Scimè, per i quali è stata invocata la condanna, ha chiesto la confisca del presunto vantaggio patrimoniale conseguito dagli imputati. Per Savasta è stata chiesta la confisca di beni per 2,4 milioni di euro; per Scimè di 75mila euro. Chiesta anche la confisca dei beni per gli altri imputati: per l’avvocato Ruggiero Sfrecola e l’imprenditore Luigi D’Agostino di 53mila euro ciascuno, per l’avvocato Giacomo Ragno di 224mila euro.

Trani. "Magistratura Corrotta". La Procura: "Imprenditore D'Introno è attendibile". Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2020. La requisitoria dei pm Licci e Prontera si è svolta nell’intera giornata dedicata principalmente ad illustrare al Gup Cinzia Vergine i riscontri delle dichiarazioni fornite nel corso dell’inchiesta da D’Introno. Le richieste di condanna invece verranno formulate nell’udienza fissata per il prossimo 31 gennaio. Le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno, ritenuto il grande corruttore nell’inchiesta sulla magistratura corrotta nel Palazzo di Giustizia di Trani tra il 2014 e il 2018, secondo la Procura di Lecce sono attendibili. Lo hanno affermato con convinzione  i pm Roberta Licci e Alessandro Prontera nella loro ampia requisitoria del processo con rito abbreviato. I magistrati della Procura leccese  hanno ritenuto invece le dichiarazioni fornite dall’ex pm Antonio Savasta “utilitaristiche” motivo per cui  non è meritevole dell’attenuante per la collaborazione fornita agli inquirenti con le sue confessioni ed ammissioni.  Savasta venne arrestato insieme all’ex magistrato tranese Michele Nardi (sino all’arresto distaccato come pm presso la Procura di Roma) , con le accuse di “associazione per delinquere”, “corruzione in atti giudiziari”, “falso ideologico e materiale”. I due ex magistrati rispondono delle accuse di aver venduto degli esiti processuali favorevoli in favore degli imprenditori coinvolti in occasione di svariati procedimenti giudiziari e tributari . In cambio, avrebbero ottenuto soldi, gioielli e diamanti. La requisitoria dei pm Licci e Prontera si è svolta nell’intera giornata dedicata principalmente ad illustrare al Gup Cinzia Vergine i riscontri delle dichiarazioni fornite nel corso dell’inchiesta da D’Introno. Le richieste di condanna invece verranno formulate nell’udienza fissata per il prossimo 31 gennaio. Hanno optato per il rito abbreviato l’ex pm Antonio Savasta, attualmente ristretto ai domiciliari; il giudice Luigi Scimè, l’immobiliarista Luigi D’Agostino, ed i legali Giacomo Ragno e Ruggero Sfrecola. Hanno preferito invece scegliere al rito ordinario davanti al Tribunale in composizione collegiale,  l’ex gip Michele Nardi (tuttora detenuto in carcere), l’avvocatessa barese Simona Cuomo; il titolare di una palestra Gianluigi Patruno; l’ex cognato di Savasta Savino Zagaria  e l’ispettore della Polizia di Stato Vincenzo Di Chiaro, anch’egli attualmente detenuto in carcere. Sono 137 i testimoni citati a deporre dalle parti al processo all’ex pm di Roma, Michele Nardi, arrestato nel gennaio scorso assieme al collega Antonio Savasta – ex giudice presso il Tribunale di Roma (il suo ultimo incarico n.d.r.) . Al momento dell’arresto, sia Savasta – che successivamente si è dimesso dalla magistratura – che Nardi erano in servizio negli uffici giudiziari della Capitale. Tra i testimoni che deporranno dinanzi al Tribunale di Lecce però non ci saranno il premier Giuseppe Conte, il pm Luca Palamara – indagato per corruzione -, ed i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, ce erano stati citati a testimoniare dalla difesa di Nardi. L’ex- magistrato tranese avrebbe voluto che Conte smentisse in aula i rapporti che, secondo Savasta, avrebbe avuto con servizi di intelligence al fine di intimorirlo. Vi saranno, invece, l’ex procuratore di Trani Carlo Capristo, l’ex procuratore aggiunto Francesco Giannella e l’attuale procuratore Antonino Di Maio, ed esponenti della massoneria italiana. La decisione è stata adottata dai giudici delle seconda sezione penale del Tribunale di Lecce, presieduta dal giudice Pietro Baffa, che hanno anche autorizzato l’acquisizione dei tabulati telefonici del cellulare in uso all’ex pm Savasta e il tracciato Gps, che serviranno alla difesa di Nardi per riscontrare i presunti incontri e telefonate intercorsi tra i due tra il 15 novembre e il 30 dicembre 2018, periodo in cui Savasta sostiene di aver visto e sentito Nardi. Lo scorso 6 dicembre 2019 la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza di custodia cautelare a carico dell’ex gip di Trani, Michele Nardi. Il ricorso era stato inoltrato dalla difesa di Nardi, sostenuta dall’avvocato Domenico Mariani, dopo che il gip di Lecce e poi il Tribunale del riesame avevano rigettato l’istanza di scarcerazione, discussa dopo la notifica della chiusura delle indagini. Il Tribunale del riesame di Lecce, alla luce dell’annullamento disposto, dovrà adesso riesaminare la posizione cautelare di Nardi. Per il Tribunale del riesame, infatti, sussistevano le esigenze cautelari per il rischio di inquinamento delle prove e per il pericolo di fuga. Elementi questi che secondo la difesa di Nardi non sussistono, poichè l’ex Gip è stato sospeso dal suo incarico.

Magistrati arrestati a Trani, i giudici: «A Savasta niente attenuanti, non ha detto tutto». Rischia 10 anni. udienza fiume di oltre 10 ore per discutere la posizione dell'altro ex pm, Scimé. Massimiliano Scagliarini il 21 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Savasta non potrà contare sull’attenuante prevista per chi collabora con la giustizia. La Procura di Lecce annuncia la linea dura nei confronti dei magistrati accusati di aver truccato indagini e sentenze. E ieri, nella prima udienza-fiume dedicata alle conclusioni dell’accusa nell’ambito del giudizio abbreviato, ha confermato che non ci saranno sconti per l’ex pm di Trani, che ha ammesso di essersi venduto in cambio dei soldi dell’imprenditore Flavio D’Introno e ha presentato le dimissioni dall’ordine giudiziario. L’udienza davanti al gup Cinzia Vergine riguarda anche l’altro ex pm, Luigi Scimè, che si proclama innocente, oltre che due avvocati del foro di Trani e l’imprenditore barlettano Luigi D’Agostino. I pm Roberta Licci e Giovanni Gallone (c’era pure il procuratore Leonardo Leone de Castris) hanno parlato solo dei due magistrati, entrambi presenti in aula, rinviando al 31 il termine della requisitoria. Poi toccherà alle difese, che avranno a disposizione quattro udienze: la sentenza è prevista il 9 marzo. Scontate - visto il tono delle accuse di ieri - le richieste di condanna almeno nei confronti dei due magistrati. Savasta - secondo la Procura - pur avendo confermato le tangenti e i favori di D’Introno, avrebbe ammesso il minimo indispensabile cercando di circoscrivere le proprie responsabilità a pochi episodi e di salvare i propri familiari tirati in ballo da altri testimoni. Il processo si basa sulle dichiarazioni di D’Introno, che ha raccontato di aver speso circa due milioni di euro (tra denaro, regali e viaggi) per evitare la condanna nel processo di Trani per usura, poi invece diventata definitiva (l’imprenditore di Corato è attualmente in carcere). D’Introno ha fornito alla Procura le registrazioni dei suoi incontri con Savasta, chiamando in causa numerosi altri magistrati a partire dall’ex gip Michele Nardi (in carcere a Trani). Ma mentre Nardi ha scelto la strada del silenzio, Savasta ha sostanzialmente ammesso ciò che gli viene contestato. E ora, considerando anche lo sconto di pena previsto per il rito, potrebbe rischiare anche 10-12 anni di carcere. Savasta (avvocato Massimo Manfreda) risponde di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari insieme a Nardi, a un ex poliziotto e ad una avvocata. Scimè (attualmente consigliere della Corte d’appello di Salerno) è accusato della sola corruzione e nei suoi confronti pende la richiesta di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio avanzata in sede disciplinare dal Ministero della giustizia e dalla Procura generale della Cassazione: il suo avvocato, Mario Malcangi, ha chiesto e ottenuto dal Csm di rinviare la decisione all’esito del giudizio davanti al gup di Lecce. L’udienza disciplinare davanti al Csm si è giocata proprio sulla credibilità dei testimoni di accusa. Secondo la Procura generale della Cassazione, rappresentata dal sostituto pg Mario Fresa, le frasi di D’Introno «non paiono attendibili» e sarebbero «in parte generiche, in parte contraddittorie, sia con riferimento alle date di consegna del denaro, sia con riferimento ai soggetti ai quali il denaro sarebbe stato consegnato, sia infine con riferimento ai processi per i quali vi sarebbero stati gli esborsi di denaro». Discorso diverso per Savasta che, invece, viene ritenuto pienamente credibile «indipendentemente dal riscontro con le dichiarazioni rese dall’altro coimputato». Per radiare un magistrato non serve che prenda una tangente: basta che accetti soldi, a qualunque titolo, da una persona sottoposta a indagini.

Giustizia truccata, l'amica di D'Introno: «Il Rolex era per me, non per Nardi». Nel processo ai giudici di Trani: una testimone smentisce il grande accusatore dei pm. Massimiliano Scagliarini il 16 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un Rolex Daytona in oro rosa da 27mila euro potrebbe distruggere la credibilità di Flavio D’Introno, il grande accusatore dei giudici di Trani. Perché un orologio simile a quello che D’Introno aveva raccontato di aver dovuto regalare all’ex gip Michele Nardi in occasione del suo cinquantesimo compleanno, è spuntato in aula ieri durante l’udienza del processo di Lecce. A portarlo è stata Rosa Grande, la donna che aveva accompagnato D’Introno in una gioielleria di Bari per far stringere il cinturino e che aveva confermato ai carabinieri la storia del regalo a Nardi. Ieri ha cambiato versione, facendo vacillare l’impianto dell’accusa: un colpo di scena. «Ci sono due orologi - ha detto la Grande -. Quello misurato in gioielleria è mio, D’Introno mi aveva detto di dire che era per Nardi, l’ho fatto perché lui mantiene me e mia figlia». Il 7 giugno 2019 la donna disse ai Carabinieri che «nel 2016, subito dopo il mio compleanno che ho trascorso con Flavio nel principato di Monaco, Flavio mi chiese di accompagnarlo a Bari per far stringere il braccialetto ad un orologio Rolex che aveva in precedenza acquistato presso la concessionaria Rocca di via Sparano. So per certo che quel Rolex Flavio l’ha regalato a Michele Nardi in occasione del suo 50simo compleanno che avrebbe festeggiato di lì a poco». Il 18 dicembre al processo è stato ascoltato il direttore della gioielleria, che ha depositato la copia della garanzia dell’orologio di cui si parla: bisognerà stabilire se è lo stesso orologio che la Grande ha mostrato ieri in aula, spiegando di avere a casa altri tre Rolex («Uno è di mio padre, gli altri sono regali di D’Introno»). L’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari mossa ai giudici di Trani si basa in gran parte sulle dichiarazioni di D’Introno. Anche se l’istruttoria ha fin qui confermato che fu D’Introno a pagare i lavori nella villa e in una abitazione romana di Nardi, l’ex gip ha sempre negato di aver avuto soldi o regali. La Grande ha confermato che D’Introno le aveva detto che pagava i giudici, ma ieri ha fatto sempre riferimento all’ex pm Antonio Savasta (che ha scelto l’abbreviato e che rischia 10 anni). Effettivamente nelle perquisizioni a casa di Nardi, i carabinieri hanno sequestrato due Rolex, un Daytona di oro rosa (che risulta venduto da un concessionario di Livorno) e un Submariner. Il Daytona sequestrato da Nardi però ha una referenza (116515) diversa da quello della Grande (116505): sono entrambi rosa, ma il secondo ha in oro anche il cinturino. Ed è su questo che, ora, bisognerà fare accertamenti. Nel frattempo i difensori di Nardi (che è in carcere da gennaio 2019) hanno chiesto al Tribunale la concessione dei domiciliari. La Grande rischia una accusa di falsa testimonianza. Il processo riprenderà il 17.

Giustizia svenduta a Trani, parla il carabiniere da cui partirono le indagini. Ascoltato il luogotenente Satoniccolo: i sospetti, le intercettazioni, ecco come arrivarono a Nardi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Luglio 2020. E’ iniziato questa mattina in Tribunale a Lecce l’ascolto del luogotenente Saverio Santoniccolo , il comandante dei carabinieri di Barletta, uno dei principali protagonisti dell’inchiesta giudiziaria sfociata nel gennaio 2019 negli arresti di Michele Nardi, Antonio Savasta e dell’ispettore di polizia di Corato Vincenzo Di Chiaro, accusati di avere pilotato indagini e processi in cambio di ingenti somme di denaro. In aula, ascoltato come teste della Procura, Santoniccolo ha illustrato l’origine dell’inchiesta ricostruendo tutta l’attività investigativa svolta, partita dalla presunta estorsione a carico dell’imprenditore Flavio D’Introno. Dalle prime captazioni ambientali e telefoniche gli investigatori lo sentirono parlare con i suoi familiari e con una donna in particolare, a cui riferiva di «quanti soldi aveva dato ad un magistrato, alto e brizzolato» che Santoniccolo intuisce poter essere Nardi. Sospetto avvalorato in seguito da altre intercettazioni, come riferito in aula da Santoniccolo. Ascoltato anche il perito della Procura, Leo, che ha esaminato le intercettazioni telefoniche, i video e le registrazioni degli incontri tra gli indagati. In aula erano presenti per la prima volta dopo la scarcerazione l’ex gip di Trani Michele Nardi e l'ispettore di polizia del commissariato di Corato, Vincenzo Di Chiaro, ora sospeso dal servizio. Entrambi sono agli arresti domiciliari con l’uso del braccialetto. Hanno avuto l'autorizzazione dal collegio giudicante a recarsi in Tribunale con mezzi propri. L’esame di Santoniccolo proseguirà il 15 luglio.

Giustizia svenduta: processo ai magistrati, Nardi ai domiciliari a casa della madre. Con il braccialetto elettronico. Ecco come nacque l'inchiesta. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Luglio 2020. L’ex gip Michele Nardi e l’ex ispettore Vincenzo Di Chiaro hanno lasciato il carcere di Melfi e sono tornati a casa, ai domiciliari, con il braccialetto elettronico. Oggi dunque potrebbero entrambi essere presenti nell’aula della Seconda sezione penale del Tribunale di Lecce dove riprende il processo ai giudici di Trani per concludere l’esame dei testimoni dell’accusa. Tocca dunque al principale protagonista dell’indagine, il maresciallo dei carabinieri Saverio Santoniccolo e il perito della Procura, Leo, che ha esaminato le intercettazioni telefoniche, i video e le registrazioni degli incontri tra gli indagati. Santoniccolo si è occupato della gran parte degli episodi su cui si fondano le accuse agli ex giudici di Trani, quelle basate sui racconti dell’imprenditore Flavio D’Introno che avrebbe pagato per evitare la condanna per usura che sta scontando in carcere. Già nella scorsa udienza è stato ascoltato il luogotenente dei carabinieri Giovanni Brascia, un altro investigatore che ha lavorato sulla genesi dell’indagine a carico di Nardi: cioè quando nel 2016 la compagna di un pregiudicato del Nord Barese, Marianna Capogna, raccontò dei rapporti corruttivi del pregiudicato, Tommaso Nuzzi con «alcuni esponenti delle forze dell’ordine», e della rapina al cugino di Flavio D’Introno che - sempre secondo la Capogna - sarebbe stato il basista della rapina. Nuzzi, sempre secondo il racconto, avrebbe comprato una Opel Zafira per l’ispettore Di Chiaro. La Procura di Trani attivò quindi le intercettazioni telefoniche. «In molte occasioni Di Chiaro e D’Introno si incontravano in un bar o nella villa di D’Introno», ha raccontato Brascia confermando che il poliziotto «aiutava» l’imprenditore (sul punto Di Chiaro aveva detto che D’Introno era un suo confidente). Dalle indagini è emerso tra l’altro che il poliziotto si sarebbe prestato a notificare un atto predisposto dall’ex pm Antonio Savasta su richiesta di D’Introno, che doveva servire a costringere il commercialista della ditta di famiglia a convocare l’assemblea straordinaria nel tentativo di sottrarne il controllo al padre e alla sorella dell’imprenditore. Nardi e Di Chiaro rispondono di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato Simona Cuomo e allo stesso D’Introno. L’ex gip e l’ex ispettore erano in carcere da gennaio 2019 ed hanno ottenuto i domiciliari: Nardi è tornato a casa dell’anziana madre.

(ANSA il 10 luglio 2020) - Era stato ribattezzato il “sistema Trani”. Quello dei favori e delle inchieste insabbiate, dei diamanti e dei viaggi regalati ai magistrati perche' garantissero esiti processuali favorevoli nelle vicende giudiziarie e tributarie che coinvolgevano imprenditori compiacenti, disposti a pagare per non avere guai. E oggi il gup di Lecce, Cinzia Vergine, accogliendo l'impianto accusatoria della Procura, ha condannato con rito abbreviato a 10 anni, con tanto di confisca dei beni per un valore di circa 2,4 milioni di euro, l'ex pm Antonio Savasta. Nel gennaio 2019 Savasta era stato arrestato insieme al collega Michele Nardi e all'ispettore di Polizia Vincenzo Di Chiaro con l'accusa di corruzione in atti giudiziari e concussione per aver pilotato, tra il 2014 e il 2018, sentenze e vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini, in cambio di denaro, gioielli e in alcuni casi anche diamanti e ristrutturazioni di appartamenti. Nell'ambito del processo che ha coinvolto Antonio Savasta, il gup di Lecce Cinzia Vergine ha condannato a quattro anni di reclusione Luigi Scimè, un altro ex pm di Trani. E' stato condannato a quattro anni di reclusione anche l'imprenditore Luigi D'Agostino, mentre gli avvocati Giacomo Ragno e Ruggero Sfrecola sono stati condannati a due anni anni e otto mesi il primo e a quattro anni e quattro mesi il secondo. A Savasta inoltre è stata disposta la confisca di beni per un valore di due milioni e 390 mila euro, a Scimè per 75 mila euro. E' stato quindi accolto in pieno l'impianto accusatorio. Il processo per gli altri cinque indagati nella vicenda, tra cui l'ex gip Michele Nardi e l'ex ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, è in corso con rito ordinario davanti ai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce. Ma il difensore di Antonio Savasta annuncia il ricorso in appello appena saranno depositate le motivazioni. "Nel dispositivo del gup si riconosce espressamente l'attenuante speciale, quella della collaborazione prevista dall'art. 323 bis del codice penale, sebbene questa alla fine non sia stata congruamente riconosciuta", commenta l'avvocato Massimo Manfreda. "Evidentemente - aggiunge - si è partiti da pene più alte rispetto ai 10 anni e 8 mesi invocati dai pm senza il riconoscimento della collaborazione".  "Chi ha sbagliato è giusto che paghi, qualunque sia il ruolo che occupi nella società", è invece la considerazione del presidente dell'Ordine degli avvocato di Trani, Tullio Bertolino. "Il quadro che viene fuori dalla sentenza di primo grado - aggiunge Bertolino - stabilisce che non si trattava certo di un 'sistema' diffuso nel Tribunale di Trani, ma era solo il comportamento illecito di ben individuati magistrati e altrettanti avvocati". "Non per questo - prosegue - si deve generalizzare e scagliare fango su chi quotidianamente è impegnato a garantire il rispetto della legge ed i diritti dei cittadini".

Corruzione magistrati. 10 anni di carcere per l’ex pm di Trani Antonio Savasta. Il Corriere del Giorno il 9 Luglio 2020. La sentenza emessa dal giudice Cinzia Vergine ha accolto integralmente l’impianto accusatorio. Oltre all’ex magistrato, condannati con rito abbreviato anche l’altro pm Luigi Scimè, il re degli outlet Luigi D’agostino (ex socio di Tiziano Renzi), gli avvocati Sfrecola e Ragno. Nell’inchiesta è coinvolto anche l’ex gip di Trani Michele Nardi che optato per il rito ordinario, unitamente all’avvocato Simona Cuomo, Gianluigi Patruno, e Savino Zagaria, ex cognato di Antonio Savasta. Dieci anni di carcere, oltre alla confisca di beni per 2,4 milioni di euro per l’ex pm Antonio Savasta uno dei principali imputati nel processo al “Sistema Trani” Savasta è stato riconosciuto colpevole di tutte le accuse (associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, concussione e vari episodi di falso), nonostante non risulta provata la ricezione di denaro per due degli episodi raccontati dal grande accusatore (ma anche corruttore), Flavio D’Introno. Nell’indicazione e calcolo della pena di condanna, la pubblica accusa ha escluso l’attenuante della collaborazione offerta dal magistrato, che gli ha consentito di lasciare il carcere nel marzo 2019 dopo due mesi di detenzione e di essere trasferito agli arresti domiciliari, dove si trova ancora oggi. Il Gup di Lecce, Cinzia Vergine, ha accolto in pieno l’impianto accusatorio della Procura salentina nei confronti di Savasta, condannato con rito abbreviato per aver pilotato sentenze e vicende giudiziarie e tributarie, tra il 2014 e il 2018, in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini, in cambio di mazzette in denaro, gioielli e in alcuni casi diamanti, ma anche regali costosi e ristrutturazioni di appartamenti. Savasta era stato arrestato insieme al collega Michele Nardi e all’ispettore della Polizia di Stato  Vincenzo Di Chiaro nel gennaio 2019 con l’accusa di corruzione in atti giudiziari e concussione. Al momento dell’arresto Nardi e Savasta erano in servizio al Tribunale di Roma. Successivamente Savasta si è dimesso dalla magistratura. Condannato anche l’altro ex pm tranese Luigi Scimé (4 anni) che è attualmente in servizio a Salerno riconoscendogli le attenuanti generiche disponendo contestualmente la confisca di 2.390.000 euro, l’«estinzione del rapporto di lavoro» e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici. Condannati anche l’avvocato Ruggiero Sfrecola (4 anni e 4 mesi) e l’avvocato Giacomo Ragno (2 anni e 8 mesi), venendo però assolto «per non aver commesso il fatto» dal concorso in calunnia e falsa testimonianza. Disposta nei suoi confronti la confisca di 224mila euro. Gli avvocati condannati sono entrambi del foro legale di Trani. Il processo per gli altri cinque indagati nell’inchiesta su quello che è stato definito il “sistema Trani”, tra i quali l’ex gip Michele Nardi  (successivamente “trasferito” dal Csm alla Procura di Roma, come pubblico ministero) e l’ex ispettore di polizia Di Chiaro, è invece in corso con rito ordinario davanti ai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce: nei giorni scorsi è stato emesso il rinvio a giudizio per Nardi, per l’avvocato Simona Cuomo del Foro di Bari, per Gianluigi Patruno (titolare di una palestra)e Savino Zagaria, l’ex cognato di Antonio Savasta. La prima udienza del processo è fissata il 4 novembre 2020. Savasta rispondeva delle accuse con il suo collega Nardi, di aver garantito esiti processuali favorevoli in diverse vicende giudiziarie e tributarie in favore degli imprenditori coinvolti nelle indagini in cambio di somme di denaro e, in alcuni casi, di gioielli e diamanti. Le indagini che hanno svelato l’esistenza del “sistema Trani” sono state avviate e condotte dai Carabinieri di Barletta sotto sotto la guida del procuratore Leonardo Leone de Castris, coordinati dalla pm salentina Roberta Licci alla quale nel corso del procedimento, è stato affiancato il collega Giovanni Gallone. I pm Roberta Licci e Giovanni Gallone nel provvedimento di notifica di avvenuta chiusura indagini hanno descritto il “sistema Trani“, con a capo secondo i sostituti procuratori l’ex gip di Trani Nardi ( “promotore e organizzatore dell’associazione” ) e l’ex pm Savasta i quali, come si legge nel provvedimento, “si associavano tra di loro al fine di compiere plurimi delitti contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica e contro l’autorità giudiziaria, avvalendosi di volta in volta della collaborazione di soggetti non facenti parte dell’associazione”. Il magnate degli outlet Luigi Dagostino è stato condannato a 4 anni di carcere. Ex socio di Tiziano Renzi, il padre di Matteo Renzi leader di Italia Viva, il barlettano D’Agostino è stato coinvolto nell’inchiesta perché, secondo l’ ipotesi accusatoria dei magistrati salentini , accolto e confermato dal Gup Cinzia Vergine , è stato favorito dal Savasta mentre stava indagando su di lui evitando di fare “i dovuti approfondimenti sul suo conto” a Trani in cambio di denaro. Il Gup non ha ritenuto provate le dazioni di denaro, ma nonostante ciò lo ha condannato comportando anche la sua interdizione per 5 anni dai pubblici uffici.

Magistrati arrestati, sequestrate bombe e armi a poliziotto a Corato. Trovati in seminterrato del commissariato di Corato durante un controllo. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Luglio 2020. Decine di pen-drive, telefoni cellulari, centinaia di munizioni, pistole e bombe a mano: è quanto è stato trovato in nove scatoloni contenenti anche gli effetti personali riconducili all’ispettore di Polizia di Corato Vincenzo Di Chiaro nei depositi dei seminterrati del commissariato di Corato. La circostanza si è appresa oggi nel corso del processo con rito ordinario sulla giustizia svenduta al Tribunale di Trani. Nel processo sono imputati l’ispettore Di Chiaro e il giudice tranese Michele Nardi, insieme ad altre tre persone. Alla scoperta degli scatoloni, che risale al 9 luglio scorso e sul cui contenuto sono stati disposti accertamenti dal pm Roberta Licci, si è giunti in seguito alla richiesta di restituzione dei beni personali posti sotto sequestro a Di Chiaro, su istanza avanzata dalla difesa e autorizzata dal collegio giudicante della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce. La scoperta è ritenuta rilevante perché si tratta di materiale non trovato durante la perquisizione compiuta nella stanza di Di Chiaro il 14 gennaio 2019, in occasione del suo arresto e di quello, per corruzione e associazione per delinquere, dei magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta. Gli scatoloni, infatti, riportano la data di composizione del 24 e 25 gennaio, quando Di Chiaro era già detenuto. Negli scatoloni sono stati trovati anche numerosi atti processuali svolti da Di Chiaro su incarico dell’ex pm di Trani, Antonio Savasta, quest’ultimo condannato nei giorni scorsi a 10 anni di reclusione al termine del processo con rito abbreviato. Di Chiaro ha negato di avere mai avuto a che fare con tutto il materiale ritrovato. Il processo è stato aggiornato al prossimo 9 settembre. 

Giustizia truccata, condannato a 10 anni ex pm Savasta, 4 a Scimè (via la toga). «Collaborazione poco riconosciuta». Condannato a 2 anni e 8 mesi anche per l'avvocato Giacomo Ragno. Massimiliano Scagliarini il 09 Luglio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Dieci anni di carcere per l'ex pm Antonio Savasta, quattro per l'ex collega Luigi Scimè che decade dall'ordine giudiziario. Nel Tribunale di Trani c'era un gruppo di persone che truccava i processi in cambio di soldi: lo ha stabilito ieri il gup di Lecce, Cinzia Vergine, condannando tutti gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato.

Savasta è stato riconosciuto colpevole di tutte le accuse (associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, concussione e vari episodi di falso), anche se non risulta provata la ricezione di denaro per due degli episodi raccontati dal grande accusatore, Flavio D'Introno: nonostante la collaborazione, per l'ex pm arrestato a gennaio 2019 (ora ai domiciliari) erano stati chiesti 10 anni e 8 mesi. Il gup ha riconosciuto le attenuanti generiche, ma ha anche disposto la confisca di 2.390.000 euro, l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento del danno alle parti civili.

Corruzione è anche l'accusa che ha portato alla condanna dell'ex pm Luigi Scimè a 4 anni, con la confisca dei 75mila euro di mazzette che avrebbe preso da D'Introno, l'«estinzione del rapporto di lavoro» e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici.

Quattro anni è la condanna per l'imprenditore Gigi D'Agostino, che tramite l'avvocato Ruggiero Sfrecola (4 anni e 4 mesi) avrebbe corrotto Savasta per non essere implicato in una indagine per reati fiscali. Il gup non ha ritenuto provate le dazioni di denaro, ma ha comunque optato la condanna che comporta anche l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici.

Condannato a 2 anni e 8 mesi per corruzione anche l'avvocato Giacomo Ragno (assolto «per non aver commesso il fatto» dal concorso in calunnia e falsa testimonianza): per lui è stata disposta la confisca di 224mila euro.

LEGALE SAVASTA: COLLABORAZIONE POCO RICONOSCIUTA - «Nel dispositivo del gup si riconosce espressamente l’attenuante speciale, quella della collaborazione prevista dall’art. 323 bis del codice penale, sebbene questa alla fine non sia stata congruamente riconosciuta». E’ l’amaro commento del legale di Antonio Savasta, avvocato Massimo Manfreda, dopo i 10 anni inflitti al proprio assistito. «Evidentemente - aggiunge - si è partiti da pene più alte rispetto ai 10 anni e 8 mesi invocati dai pm senza il riconoscimento della collaborazione». Manfreda annuncia il ricorso in appello appena saranno depositate le motivazioni.

ORDINE TRANI: CHI SBAGLIA, PAGHI! - Chi ha sbagliato è giusto che paghi, qualunque sia il ruolo che occupi nella società». È il commento del presidente dell’Ordine degli avvocato di Trani, Tullio Bertolino, alla sentenza dei giudici di Lecce nei confronti di magistrati e avvocati nel processo, con rito abbreviato, dell’inchiesta che ha fatto emergere un cosiddetto «sistema Trani» per aggiustare sentenze. «Il quadro che viene fuori dalla sentenza di primo grado - aggiunge Bertolino - stabilisce che non si trattava certo di un "sistema" diffuso nel Tribunale di Trani, ma era solo il comportamento illecito di ben individuati magistrati e altrettanti avvocati». «Non per questo - prosegue - si deve generalizzare e scagliare fango su chi quotidianamente è impegnato a garantire il rispetto della legge ed i diritti dei cittadini». L'aspetto per noi più rilevante - prosegue Bertolino - è che i giudici salentini abbiano riconosciuto i danni subiti dall’Ordine degli Avvocati di Trani a nome di tutta la categoria, condannando gli imputati al risarcimento economico in favore dell’Ordine che sin da subito aveva avuto il coraggio di costituirsi parte civile in questo procedimento». «Naturalmente, seguiremo questa vicenda fino in fondo, negli ulteriori gradi di giudizio - conclude Bertolino - e prenderemo gli opportuni provvedimenti nei confronti di chi sarà accertato in modo definitivo aver violato norme deontologiche e leggi dello stato gettando ombre su tutta la categoria».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 luglio 2020. Il Tribunale di Lecce ha condannato a 10 anni l'ex pm di Trani, Antonio Savasta, e a quattro anni l'imprenditore Luigi Dagostino per corruzione in atti giudiziari. Il magistrato, che era stato graziato dalla sezione disciplinare del Csm, è stato punito per diversi episodi, compreso l'incontro con il sottosegretario della presidenza del Consiglio Luca Lotti a Palazzo Chigi, dove si recò in compagnia di Dagostino e dell'avvocato Ruggiero Sfrecola. Era il 17 giugno 2015 e secondo i giudici quella visita richiesta da Savasta, che in quel momento aveva in mano un'inchiesta che coinvolgeva l'imprenditore, era un'utilità non economica. Che venne procurata attraverso Dagostino e Tiziano Renzi, il babbo dell'ex premier. I quali proprio per quell'incontro sono sotto indagine per traffico di influenze illecite a Firenze. Il fascicolo, di cui diede notizia in esclusiva Panorama, è ancora aperto e la sentenza di Lecce, potente conferma all'ipotesi investigativa, potrebbe dargli nuova linfa. Renzi senior ha già subito in primo grado una condanna a un anno e nove mesi per emissione di fatture false ed è in attesa di sapere se verrà rinviato a giudizio anche per la bancarotta di tre cooperative. L'udienza è fissata per il 4 novembre. Inoltre a Roma sono in corso ulteriori indagini per un altro presunto traffico di influenze contestato a Tiziano, questa volta nell'ambito della cosiddetta inchiesta Consip. Torniamo alla condanna di Lecce. Ieri il gup Cinzia Vergine, in rito abbreviato (che prevede lo sconto di un terzo della pena), su richiesta della pm Roberta Licci, ha condannato Savasta a una pena pesantissima per aver fatto parte, insieme con il collega Michele Nardi, di un'associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Oltre a Savasta, sono stati condannati a quattro anni il sostituto procuratore Luigi Scimè (oggi in servizio a Salerno) e, rispettivamente a quattro anni e quattro mesi e due anni e otto mesi, gli avvocati Sfrecola e Giacomo Ragno. Per Dagostino si tratta dell'ennesima brutta notizia. Il 7 ottobre scorso è stato condannato insieme con Renzi senior e con la moglie di quest' ultimo, Laura Bovoli, a due anni di reclusione per false fatture e truffa; a gennaio ha subito un'altra sentenza sfavorevole a un anno, undici mesi e dieci giorni sempre per reati fiscali. Tutte condanne di primo grado. Adesso è arrivato il colpo più duro. Il giudice lo ha interdetto dall'attività imprenditoriale per cinque anni e lo ha dichiarato «incapace di contrattare con la pubblica amministrazione». Inoltre lo ha condannato al risarcimento dei danni in favore della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero della Giustizia.  Dagostino è stato condannato per corruzione non per le somme di danaro (53.000 euro) consegnate all'avvocato Sfrecola, come aveva chiesto la pm Licci, bensì solo per la visita a Palazzo Chigi procurata a Savasta, il quale, in quel momento, stava indagando per riciclaggio e false fatture su tre imprenditori pugliesi che secondo la Guardia di finanza con le loro ditte fungevano da cartiere per le aziende di Dagostino. Tra il processo di Lecce e quello in cui sono stati condannati Dagostino e i Renzi a Firenze c'è un incrocio: due fatture pagate da Dagostino e dalla società Tramor a babbo e mamma per un «progettino» mai realizzato. Tra giugno e luglio 2015 i due genitori incassarono 195.200 euro mentre accompagnavano Dagostino in giro per l'Italia a incontrare politici e toghe. Il 17 giugno, il giorno della visita a Palazzo Chigi, Dagostino, attraverso la Tramor di cui era amministratore, inviò un primo bonifico da 24.400 euro in direzione Rignano sull'Arno dopo aver incontrato Tiziano nel suo ufficio. Nei mesi scorsi l'imprenditore aveva ammesso con La Verità che Tiziano faceva per lui il lobbista. E almeno un incontro importante glielo avrebbe combinato. Come ha ammesso lo stesso imprenditore con i magistrati: «Al bar Igloo (di Barletta, ndr) incontrai per caso il pm Savasta che mi disse che era interessato a presentare un disegno di legge in materia di rifiuti a Roma. Io ci pensai e, siccome tramite Tiziano Renzi l'unico politico che avevo visto 3-4 volte era Luca Lotti, () decisi che lo potevo portare da lui. Effettivamente fissai con Lotti tramite Tiziano Renzi dicendogli che volevo portare un magistrato che aveva interesse a mostrare una proposta di legge. Prima avevo chiesto a Tiziano Renzi di chiedere a Lotti se era lui la persona adatta per quell'appuntamento, o se mi indicava qualcun altro, e Lotti fissò lui l'appuntamento () io entrai nell'ufficio con Savasta, li presentai e me ne andai e non assistetti al colloquio che durò circa 30/40 minuti». Davanti alla pm Von Borries, il 16 aprile 2018, Lotti ha offerto una versione non molto dissimile: «Io ho conosciuto Dagostino tramite Andrea Bacci di cui ero amico e inoltre è noto che ero in buoni rapporti con Tiziano Renzi con il quale passeggiavo ogni lunedì da via Mazzini alla stazione quindi è probabile che tale appuntamento (con Savasta, ndr) lo abbia chiesto o Bacci o Tiziano Renzi». L'ex ministro ha anche detto di aver incontrato Dagostino due o tre volte tra il 2014 e il 2015, e che una o due volte lo stesso era andato a trovarlo a Palazzo Chigi. Ma di Savasta inizialmente non ha saputo dire nulla: «Ho una conoscenza superficiale e sicuramente me lo hanno presentato, ma non ricordo chi, né in quale occasione, e forse l'ho anche visto allo stadio di Roma». Un mese dopo, riascoltato dai pm, grazie alla propria agenda, riuscì a focalizzare meglio la questione: «Fu Dagostino a presentarmi Savasta. Effettivamente entrarono nella mia stanza e c'era Dagostino e un magistrato di nome Savasta. Non mi ricordo se Savasta mi chiese qualcosa per sé perché non mi ricordo bene come si svolse l'incontro»». Che cosa abbia domandato lo ha raccontato l'ex magistrato alla Verità due anni fa: in quel momento per lui complicato, a causa delle plurime vicende penali e disciplinari che lo vedevano coinvolto, aveva interesse a procurarsi un incarico fuori ruolo, possibilmente in una commissione ministeriale come esperto in materia ambientale o di appalti. Tali dichiarazioni sono state definite nell'ordinanza di custodia cautelare contro Savasta del gennaio 2019 «una formidabile conferma all'ipotesi accusatoria». Per il gip, infatti, «Savasta nell'intervista cristallizza esattamente quel concetto di utilità non economica (...), contropartita alla gestione dei procedimenti a lui in carico e tutta diretta a favorire la posizione dell'imprenditore».

Lecce, lo show in aula dell'ex gip Nardi nel processo ai magistrati: «atti falsi». È l’imputato principale del processo davanti alla Seconda sezione del Tribunale di Lecce. Massimiliano Scagliarini il 10 Settembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un altro durissimo attacco. Stavolta rivolto, oltre che alla polizia giudiziaria, ai suoi ex colleghi magistrati. Michele Nardi ha accusato tutto e tutti di aver falsificato alcuni degli atti alla base dell’inchiesta di Lecce sugli ex giudici di Trani: «Mi avete rovinato la vita e la famiglia». L’ex gip, che ora è uscito dal carcere e affronta il processo dagli arresti domiciliari, anche ieri ha reso una lunghissima dichiarazione spontanea di 45 minuti davanti alla Seconda sezione del Tribunale di Lecce. Nel mirino di Nardi, che risponde di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, è finito in particolare l’allora procuratore aggiunto tranese Francesco Giannella (ora a Bari): secondo Nardi sarebbe Giannella, e non lui stesso, il «magistrato brizzolato» cui si fa riferimento in una intercettazione centrale per la ricostruzione della vicenda corruttiva (nei confronti di Giannella, va detto, l’indagine non muove nessuna accusa e non ha sollevato neppure un minimo sospetto). Allo stesso modo, sempre secondo Nardi, Giannella e il pm Marcello Catalano, insieme alla collega Roberta Licci che ha condotto le indagini a Lecce, avrebbero commesso un falso con la nota di trasmissione da Trani degli atti relativi al caso di un’altra ex collega, la gip Maria Grazia Caserta (che ieri ha depositato una memoria). Accuse analoghe («Sciatteria nelle indagini») sono state mosse da Nardi nei confronti del luogotenente Saverio Santoniccolo, il carabiniere di Barletta che ha condotto le indagini sui processi truccati a Trani anche nei confronti dell’ex gip, finito in carcere a gennaio 2019 e uscito soltanto all’inizio dell’estate. L’udienza di ieri era dedicata a terminare l’esame di Santoniccolo, che ha passato in rassegna le migliaia di pagine di atti in cui è ricostruita la storia dell’indagine: tra queste le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno che ha confessato di aver pagato i giudici per tentare di risolvere i suoi problemi giudiziari e che, sempre secondo Nardi, non sarebbe credibile in gran parte delle sue ricostruzioni ad esempio in occasione di una presunta tangente presa a Roma (nel giorno in cui D’Introno sarebbe stato a Nizza e Nardi a Pulsano). Nella prossima udienza dovrebbe terminare la deposizione del carabiniere comincerà il controesame da parte delle difese, ma l’avvocato di Nardi ha annunciato un impedimento per il giorno 16 e ha chiesto di rinviare tutto al 22. 

«Giustizia svenduta», sospeso dal Csm ex pm Trani Scimè: «Ha preso una mazzetta».  Massimiliano Scagliarini il 7 Settembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Dopo Nardi e Savasta, il sostituto procuratore 54enne era stato trasferito al Tribunale civile di Salerno. A luglio è arrivata la condanna in abbreviato a quattro anni. La condanna a quattro anni per corruzione costa l’incarico a Luigi Scimé. Il Csm ha sospeso dalle funzioni l’ex pm di Trani, nel frattempo trasferito al Tribunale civile di Salerno. È l’effetto della sentenza pronunciata il 9 luglio dal gup di Lecce, Cinzia Vergine, che ha ritenuto il magistrato nato a Venosa, 56 anni, colpevole al pari dell’ex collega Antonio Savasta. In base all’accusa Scimè sarebbe intervenuto sui fascicoli dell’imprenditore coratino Flavio D’Introno in cambio di 75mila euro in contanti. Tuttavia l’ex pm è rimasto in servizio per l’intero processo perché, a differenza dei suoi ex colleghi, non era stato sottoposto a misure cautelari: il Csm aveva accolto la richiesta della difesa (avvocato Mario Malcangi) di attendere l’esito del giudizio abbreviato prima di disporre la sospensione che - in caso di reati gravi svolti nell’esercizio delle funzioni - è automatica. Scimé presenterà appello contro la sentenza di condanna (le motivazioni dovrebbero arrivare a ottobre), che prevede anche la confisca dei 75mila euro, l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e (così come per Savasta, che però si è dimesso) la destituzione dalla magistratura. Il processo ai giudici per il «sistema Trani» riprenderà mercoledì davanti alla seconda sezione del Tribunale di Lecce da dove è stato sospeso il 15 luglio. Ovvero dall’audizione del luogotenente dei carabinieri di Barletta, Saverio Santoniccolo, che ha condotto le indagini nate dalle denunce di D’Introno. Rispondendo alle domande della Procura (con i pm Roberta Licci e Alessandro Prontera), Santoniccolo aveva già cominciato a raccontare la genesi dell’inchiesta e i primi accertamenti svolti tra Trani e Corato, a partire dai primi contatti telefonici registrati tra D’Introno e l’ex pm Michele Nardi, accusato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari: contatti che - ha detto il militare - risalivano fino al 2015, e che nel corso del tempo hanno riguardato anche ipotesi di investimenti immobiliari proposti dal magistrato all’imprenditore. Le indagini sui giudici di Trani sono partite da due fascicoli parallele, uno su questioni di criminalità organizzata nato dalla denuncia dell’ex compagna di un pregiudicato (in cui si parlava di un magistrato che prendeva mazzette), l’altro acceso su una delle società del padre di Flavio D’Introno che era al centro di una guerra in famiglia. Santoniccolo ha anche ricordato le dichiarazioni rese nel 2016 da un’altra giudice, la dottoressa Maria Grazia Caserta, a proposito dei rapporti tra D’Introno e Nardi: anche la gip è stata ascoltata come testimone nel processo confermando tutto. A replicarle è stato (attraverso dichiarazioni spontanee) lo stesso Nardi che ha in sostanza accusato la ex collega di averlo attaccato per motivi personali. Le indagini dei carabinieri di Barletta, comunque, non sono terminate. 

 Trani, archiviata con tanti dubbi indagine di Savasta sui rifiuti. Oggi l’ex pm Scimè sospeso dal Csm: con l’ex collega rischia la pensione. Massimiliano Scagliarini il 23 Luglio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Uno degli ultimi atti di Antonio Savasta da pm di Trani, il 7 ottobre 2016, è stato un avviso di conclusione indagini per 15 persone, accusate a vario titolo di reati ambientali e di truffa in quello che appare uno stralcio della maxi-indagine sul presunto (e finora indimostrato) disastro ambientale della cementeria Buzzi di Barletta: l’impianto di compostaggio di Molfetta avrebbe illecitamente trattato alcune tipologie di rifiuti, consentendo a due imprese private di arricchirsi a danno delle casse pubbliche. A oltre otto anni dai fatti contestati l’indagine, condotta dalla Finanza di Barletta, è finita nel nulla. Il gip di Trani, Lucia Anna Altamura, ha infatti disposto l’archiviazione chiesta dal pm che ha ereditato il fascicolo, Silvia Curione, nel frattempo trasferita a Bari: un po’ perché il meccanismo della contestata truffa non era stato sufficientemente approfondito, e un po’ perché i reati ambientali sono ormai prescritti. Ma pur riconoscendo che «la vicenda meriterebbe in astratto un approfondimento dibattimentale, quanto meno poiché le tematiche altamente specialistiche e tecniche sottese ai fatti in contestazione sono state affrontate dai consulenti con un approccio metodologico differente e sono state risolte in modo diverso», la Procura solleva molti dubbi su come si sono svolte le indagini nel troncone principale, quello sulla cementeria. «Desta inoltre perplessità - scrive infatti il pm Curione - la circostanza che nella consulenza a firma di Fracassi e Laricchiuta si affermi che non sarebbe possibile formulare alcun giudizio sulle emissioni della cementeria di Barletta in quanto “è stato verificato che non ci sono dati relativi a prelievi e analisi eseguiti da Arpa Puglia riguardanti le emissioni della Cementeria di Barletta». Insomma, dice la Procura, quell’indagine di quasi 10 anni fa che riguardava l’inquinamento ambientale sarebbe stata portata avanti (sempre da Savasta) senza basi tecniche. «La perplessità - scrive la Procura - è legata da un lato al fatto che - se così fosse - significherebbe che Arpa non ha effettuato alcun tipo di verifica sul punto (cioè sulle emissioni della cementeria, ndr), il che, evidentemente, avrebbe dovuto essere oggetto di apposito accertamento (ed eventualmente censura in sede penale), e dall’altro al fatto che i consulenti del Pm non abbiano ritenuto di procedere autonomamente all’effettuazione di detti accertamenti». L’inciso non riguarda il merito dell’indagine ormai archiviata, che riguardava invece i meccanismi di smaltimento dei rifiuti trattati nell’impianto di compostaggio di Molfetta, che anziché essere conferiti al Corepla (gratis o alle tariffe previste) venivano mandati in discariche private o ad altri impianti di trattamento, e le autorizzazioni rilasciate dalle allora Province di Bari Bat e dalla Regione alle ditte interessate. L’archiviazione ha infatti riguardato cinque imprenditori, gli allora vertici del Corepla, due dirigenti regionali, un dirigente della Bat e cinque della Città metropolitana (questi ultimi difesi dall’avvocato Antonio Maria La Scala). I fatti sono ormai risalenti nel tempo e anche eventuali irregolarità nelle indagini sarebbero prescritte. Savasta, come noto, è stato condannato a 10 anni di carcere con il rito abbreviato per le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, falso e abuso d’ufficio, oltre che alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’estinzione del rapporto di lavoro. Quattro anni è stata invece la pena per l’altro ex pm di Trani, Luigi Scimè, anche lui condannato alla rimozione dall’ordine giudiziario: oggi Scimè comparirà davanti alla Quinta commissione del Csm per il procedimento disciplinare, sospeso fino alla sentenza del processo di Lecce. Dopo la condanna per corruzione è inevitabile la sospensione dall’ordine giudiziario. La radiazione diventerà effettiva dopo che la sentenza sarà passata in giudicato, e vale pure per Savasta che dalla magistratura si è dimesso. Se le statuizioni accessorie verranno confermate, entrambi perderanno anche il diritto alla pensione.

La Cassazione conferma la sospensione: «Palamara ha violato i suoi doveri di pm». Il Dubbio il 17 gennaio 2020. Caos procure. Nella motivazione si legge che sussistono «gravi elementi di fondatezza» dell’azione disciplinare, che rendono legittima la misura cautelare adottata dal Csm. Le sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno confermato la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del pm di Roma Luca Palamara. Nella sentenza depositata due giorni fa, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del magistrato contro la misura cautelare disciplinare che era stata disposta nei suoi confronti dal Csm lo scorso luglio, in seguito allo scandalo che terremotò lo stesso Csm emerso in seguito all’indagine a carico di Palamara per corruzione. Palamara, inoltre, chiedeva alla Cassazione di annullare anche i provvedimenti con cui Palazzo dei Marescialli aveva respinto le sue istanze di ricusazione presentate nei confronti dei togati di A& I Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, membri della disciplinare. Nella motivazione si legge che sussistono «gravi elementi di fondatezza» dell’azione disciplinare che rendono legittima la misura cautelare disciplinare adottata dal Csm, perchè la commissione disciplinare «non ha arrestato il suo giudizio al clamore mediatico dei fatti oggetto dell’incolpazione», ma ha aggiunto che «i fatti contestati sono di “consistenza, pervasività, reiterazione, sistematicità, da configurare una vera e propria frustrazione dell’immagine dell’integrità, indipendenza e imparzialità che ciascun magistrato deve possedere”, con conseguente compromissione, allo stato della credibilità dell’incolpato, anche sotto il profilo dell’imparzialità e dell’equilibrio». Secondo la Cassazione, quindi, «la valutazione relativa al profilo di proporzionalità della misura irrogata supera lo scrutinio di legittimità quanto ai profili di adeguatezza delle motivazioni che la sorreggono e di conformità al principio normativo di gradualità nell’applicazione delle misure cautelari». Quanto all’uso delle intercettazioni nel procedimento disciplinare, esse «possono essere utilizzate nel presente procedimento, in applicazione della consolidata giurisprudenza secondo cui le intercettazioni effettuate in un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purchè, come nella specie, siano state legittimamente disposte ed acquisite».

Incarichi affidati alla compagna, giudice agli arresti domiciliari. Lunedì 1 Aprile 2019 di Marilù Musto su ilmattino.it. La sesta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha deciso: per il giudice Enrico Caria scatteranno gli arresti domiciliari. Niente da fare, dunque, la misura cautelare sarà applicata sulla base della sentenza letta a mezzanotte di venerdì scorso dai consiglieri di piazza Cavour, che hanno deciso di accogliere solo in parte le doglianze degli avvocati difensori del magistrato della sezione fallimentare. E così, negli anni in cui Enrico Caria ha rivestito il ruolo di giudice della sezione fallimentare del tribunale di Napoli Nord e poi di quello di Santa Maria Capua Vetere, avrebbe veicolato nomine di consulenze in cambio di favori. Una sorta di «caso Saguto» in salsa napoletana. Almeno in apparenza. In sintesi, i giudici hanno respinto il ricorso della Procura di Roma per quattro capi di imputazione, tra i quali anche la storia della compravendita della casa in via Tasso, accogliendo il ricorso della difesa di Caria, rappresentato dagli avvocati Francesco Barra Caraccio e Vincenzo Maiello; ma hanno ritenuto sussistenti i gravi indizi per due capi di imputazione: si tratta dei due incarichi di lavoro assegnati alla compagna del giudice da una società privata e dal professionista napoletano Alfredo Mazzei. In sostanza, il giudice Caria avrebbe violato «i doveri di lealtà e imparzialità nell'esercizio delle funzioni di giudice delegato, tanto da consentire la conclusione che l'incarico presso la sezione fallimentare era per lui anche un canale di entrate integrative per mantenere un tenore di vita probabilmente superiore a quello che il magistrato avrebbe potuto permettersi facendo unicamente affidamento sulle sole fonti lecite di guadagno», almeno secondo quanto avevano scritto i giudici del Riesame di Roma. Entro oggi, al massimo domani, saranno disposti per Caria gli arresti domiciliari in relazione ad alcuni episodi di corruzione. La procura di Roma, in verità, aveva anche chiesto l'applicazione di quattro misure interdittive per la durata di un anno nei confronti della sua compagna, l'avvocato Daniela D'Orsi, dell'architetto Giancarlo Piro Calise, del consulente Alessandro Colaci e del commissario giudiziale Alfredo Mazzei. Ma torniamo al caso principale. Concorde con il Riesame, la Cassazione rigetta il ricorso di Caria. Perché? La risposta la fornisce la motivazione del Riesame del gennaio scorso. «È emersa una spiccata tendenza di Caria - si legge nel provvedimento dei magistrati romani - a chiedere e ad accettare favori e regalie dai professionisti con cui veniva in contatto, a dimostrazione del fatto che quella di ricevere utilità era per lui una vera e propria prassi, una consolidata modalità di esercizio del potere giurisdizionale». Evidenzia ancora il Riesame: «Più in generale si è riscontrata la tendenza dell'indagato (che doveva provvedere sia al mantenimento della ex moglie e dei due figli avuti con lei, sia del figlio avuto dalla nuova compagna e di quest'ultima, che negli ultimi anni non aveva dichiarato redditi molto consistenti) a intessere e mantenere una fitta rete di relazioni personali nell'ambito della quale, a prescindere dalla rilevanza penale delle condotte, si assiste ad una pericolosa confusione tra interessi personali e impiego di prerogative riconosciute in virtù del ruolo pubblico ricoperto».

Crac e mazzette, chiesta archiviazione per il commercialista Gelormini. Ilmattino.it Lunedì 13 Gennaio 2020. La Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l'archiviazione per 12 delle 27 persone finite nell'inchiesta che ha coinvolto il giudice fallimentare del Tribunale di Napoli Nord e di Santa Maria Capua Vetere Enrico Caria, accusato dagli inquirenti di corruzione. L'archiviazione è stata chiesta dal pm Claudia Terracina per Francesco Corbello e Maurizio Maiello, per il noto commercialista Alessandro Gelormini e per Nicola D'Abundo, Antonio Savino, Francesco Matacena (difeso dall'avvocato Raffaele Costanzo), Massimo Matera, Francesco Palmieri, Luca Perrella, Francesco Tagliatela, Giuliana Acampa, Patrizia Fisichella. Per gli investigatori il giudice, rinviato a giudizio insieme con altre 14 persone (l'udienza preliminare è stata fissata per il prossimo 5 febbraio davanti al gup di Roma Taviano), in cambio di denaro avrebbe conferito incarichi a professionisti, tra i quali figura anche la moglie, nominati nell'ambito di procedure fallimentari. Tra gli avvocati che hanno ottenuto l'archiviazione per i rispettivi clienti figurano anche Italo Benigni, Giuseppe Saccone, Luigi De Vita, Andrea Abbagnano Trione, Giampiero Pirolo, Vincenzo Comi e Alfonso Laudonia.

Decine di incarichi alla compagna del giudice indagato, ma al telefono la definiscono "una capra". Il retroscena spunta nelle carte del tribunale del Riesame che ha accolto la richiesta della Procura di arrestare Enrico Caria. Giuseppe Perrotta il 13 gennaio 2019 su  casertanews.it. Perché uno studio professionale di rilevanza internazionale con centinaia di legali operanti su tutto il territorio dovrebbe affidare pratiche ad una “quasi anonima” legale della provincia di Avellino? E soprattutto perché le potrebbe permettere di quintuplicare il proprio fatturato annuale pur ritenendola, testualmente, “una capra”? Sono le domande che si sono posti i giudici del tribunale del Riesame di Roma nell’affrontare la delicata indagine sul giudice Enrico Caria, ex presidente della sezione Fallimentare del tribunale di Napoli Nord con sede ad Aversa (che ha lavorato anche a Santa Maria Capua Vetere e Napoli), e dei plurimi incarichi legali che sono stati affidati, negli ultimi anni, alla compagna Daniela D’Orso. Il dato che emerge dalle ‘riflessioni’ del tribunale del Riesame che ha accolto il ricorso del pubblico ministero della Procura di Roma sulla richiesta degli arresti domiciliari per il giudice napoletano (congelata in attesa del ricorso in Cassazione) è lampante: secondo i giudici non ci sarebbero motivi se non quelli di “compiacere” un giudice che potrebbe tornare utile per loro. E così si spiega, dunque, anche l’aumento dei compensi di Daniela D’Orso, che passa dai 16mila euro dichiarati nel 2012 ai 75mila del 2016. Con tanti incarichi legali ricevuti da uno studio professionali di Milano, dove, in realtà, non è che le sue “qualità professionali” abbiano fatto breccia. In una telefonata del luglio 2017 intercettata dagli inquirenti, Fischetti e Colaci, entrambi dipendenti dello studio professionale, parlano della richiesta della D’Orso di vedersi aumentare il compenso per una pratica seguita, passando da 5mila a 10mila euro. Fischetti commenta così la richiesta del collega: “E’ stata un mese in vacanza e in più abbiamo… ci sono mail di solleciti che lei era sparita, ha letto 4 verbali e li ha commentati in più con grande disappunto da parte di Capitini perché lei non aveva capito una sega. Vabbè, comunque non ti entro nel merito della cosa perché comunque lei è veramente una capra. Però tra me e te diamole 10mila euro e…”. Ed è proprio su questo punto che riflettono i giudici romani: perché raddoppiare il compenso per un avvocato ritenuto una capra? E la risposta, per il Riesame, non può essere diversa da quella di voler soddisfare l’avvocato che è la compagna del giudice Enrico Caria. Al punto che Colaci sarebbe addirittura disposto a versare la differenza di propria tasca: “Dimmi quello che gli vuoi dare, poi eventualmente se no te lo integro io…”. Una “volontà” che starebbe a manifestare la voglia di compiacere la compagna del giudice che dovrò aiutare i protagonisti in altre faccende. E che per questo, adesso, rischia l’arresto.

Toghe nella bufera, indagato un altro giudice. La procura di Firenze contesta l’abuso d’ufficio a Salcerini. Le “pressioni“ del collega Sdogati per nominare l’avvocato Bertoldi. Erika Pontini su  La Nazione il 12 gennaio 2020.  Anche il giudice Simone Salcerini, Delegato alla Fallimentare del tribunale di Spoleto – originario di Città di Castello e un passato tra Torino e Arezzo – è finito nella bufera scatenata dall’indagine per corruzione sul collega Tommaso Sdogati e sugli avvocati Nicoletta Pompei e Mauro Bertoldi (entrambi agli arresti domiciliari per corruzione e traffico di influenze). Il pm Luca Tescaroli, Aggiunto di Firenze, gli ha notificato un invito a comparire per la prossima settimana con l’ipotesi di abuso d’ufficio, in relazione alla nomina di Bertoldi, quale delegato alle vendite, dopo le pressioni del collega. La decisione degli inquirenti su Salcerini arriva dopo l’interrogatorio di Sdogati davanti al gip che l’ha sospeso dalle funzioni per due mesi ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per la corruzione in atti giudiziari e il pericolo di reiterazione del reato: se al lavoro potrebbe avvantaggiare nuovamente la compagna avvocato e il suo socio di studio. Il giovane magistrato, al suo primo incarico dopo l’uditorato svolto a Perugia, ha ammesso di aver chiesto al collega Salcerini di nominare Bertoldi. Nei giorni scorsi la procura di Firenze ha acquisito anche l’elenco dei delegati alle vendite del tribunale in cui, in una riga, compare sbarrato il nominativo di un professionista sostituito con quello di Bertoldi. C’è inoltre il sospetto che poco prima delle ordinanze di custodia cautelare del dicembre scorso all’avvocato sia stato affidato un altro incarico, oltre a quello del 9 ottobre scorso. Tutte questioni che potrebbero essere chieste allo stesso Salcerini. Al gip Sdogati "ha dichiarato di aver parlato due sole volte con il giudice Salcerini segnalandogli l’iscrizione di Bertoldi nelle liste dei delegati ma ha negato d aver effettuato qualsivoglia pressione sul medesimo". «Gli ho detto “Simò senti l’hai fatta quella – io non mi ricordo se ho detto cosa o cosina – cosa?“, perché lui mi aveva detto che c’avrebbe avuto da dare delle deleghe". L’interessamento di Sdogati su Salcerini è del 9 settembre scorso, esattamente un mese dopo a Bertoldi arriva via pec la nomina per la vendita di un immobile a Todi. Sdogati sapeva, secondo l’accusa, che i proventi degli incarichi sarebbero stati divisi a metà tra la Pompei e Bertoldi. " ... fino alla morte, per dirti che anche se non vieni più in ufficio ... quando me pagano è a metà", diceva, intercettato, Bertoldi alla Pompei. Una circostanza che Sdogati dice di non sapersi spiegare. "Le anticipo la domanda che avrei fatto all’avvocato Pompei, dice “perché dividono a metà... perché questa metà doveva durare tutta la vita?", chiede Pezzuto. Sdogati: "Ah, questo no, la lettura di questa cosa tra de loro non gliela so dà...". Sdogati non ha saputo nemmeno spiegare perché, durante le intercettazioni la Pompei gli dice “ ma lo sai che serve anche per noi, no!... cioè sempre una cosa in più ". "La spiegazione di tale espressione fornita da Sdogati – dice Pezzuto – non è assolutamente convincente. L’indagato sostiene infatti che “ serve anche per noi “ intende per lei e per il collega di studio. Intanto il tribunale del Riesame di Firenze ha fissato al 15 gennaio l’udienza per discutere la revoca dei domiciliari sollecitata dagli avvocati Guido Rondoni e Roberto Erasti per la Pompei mentre gli stessi legali sono al lavoro per presentare appello contro il provvedimento di interdizione nei confronti di Sdogati. Quest’ultimo potrebbe chiedere autonomamente il trasferimento in un’altra sede. Dopo la procura infatti è atteso l’avvio dell’azione disciplinare da parte del Csm. Nei prossimi giorni si muoverà anche la Sezione disciplinare dell’Ordine degli avvocati di Perugia. Erika Pontini

Da leggo.it il 5 febbraio 2020. Nicola Gratteri poteva diventare ministro della Giustizia. O meglio, lo è stato, ma per una sola notte, quella che ha preceduto l'incontro di Matteo Renzi, che stava per diventare premier, con Giorgio Napolitano al Quirinale. Lo ha raccontato lo stesso Gratteri durante la puntata di ieri sera di Dimartedì, su La7, con Giovanni Floris. «Ho incontrato per la prima volta Renzi la sera prima che incontrasse Napolitano - ha detto il magistrato - me lo presentò Delrio, che conoscevo da quando era sindaco di Reggio Emilia. Abbiamo parlato per due ore e mezza di giustizia, mi ha chiesto tante cose, poi mi ha lanciato la proposta: "Lei deve fare il ministro della Giustizia". Io ho detto che no, non ho il carattere per farlo: sono un decisionista, sono abituato a sedermi e non alzarmi finché non si prende una decisione. Lui però ha insistito: "Le do carta bianca, mi siedo a fianco a lei in Parlamento e tutto ciò che lei propone, deve passare"». «Io avevo in testa la rivoluzione dei codici - aggiunge Gratteri - Gli ho detto di sì. Vado a dormire, la mattina dopo torno in Calabria a lavorare: mi chiama Delrio e mi dice "lei è nell'elenco dei 16 ministri, non è che si tira indietro?". Rispondo che io sono un uomo di parola». Nel pomeriggio poi, arriva l'incontro Renzi-Napolitano e la lista definitiva dei ministri: ma nasce qualche problema. «Vi ricordate che la porta non si apriva? Quando ho visto quella scena ho pensato che stessero litigando per me, e infatti era così. Poco dopo mi chiama Delrio, tutto  dispiaciuto e mortificato, io invece ho fatto un sospiro di sollievo - conclude il suo racconto - Chi mi vuole bene mi dice che devo accendere due candele a Napolitano ogni mattina».

Gratteri: Berlusconi ha ragione, ai Pm va fatto il test. Redazione De Il Riformista 28 Novembre 2019. «Berlusconi una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati». A dirlo non è un pasdaran del Cav, né di un detrattore delle toghe. Tutt’altro. A parlare è proprio un pm, e non uno qualunque ma nientepopodimeno che il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, tra i più noti all’opinione pubblica e ministro della Giustizia mancato (la sua nomina nel governo Renzi sarebbe sfumata per volontà dell’allora presidente della Repubblica Napolitano, ha rivelato lo stesso pm).  Intervistato ieri da Massimo Giannini su Radio Capital, non è voluto entrare nel merito dell’inchiesta sulla fondazione Open («c’è un’indagine in corso, non conosco le carte e se non si conoscono si fanno discorsi da bar»), ma sul rapporto tra magistratura e politica ecco il Gratteri che non t’aspetti: «Ci possono essere dei magistrati che fanno militanza attiva», «che ne fanno un modo di ragionare e può accadere che uno perda di lucidità». E quindi: «Non condivido la maggior parte delle cose dette da Berlusconi, ma una volta ha detto una cosa giusta: bisognerebbe fare i test psico-attitudinali ai magistrati. È un lavoro molto logorante quindi una volta ogni 5 anni in forma anonima dovrebbero sottoporci a test». Ma Gratteri ne ha anche per la politica: «Chi è al potere non vuole essere controllato. Il potere non vuole un sistema giudiziario efficiente, che controlli anche il manovratore. In Parlamento ci sono tante persone perbene, sono la stragrande maggioranza, ma ci sono anche molti incompetenti e alcuni faccendieri, alcuni borderline». A proposito di efficienza della giustizia, il procuratore di Catanzaro a Radio Capital ha parlato anche della riforma voluta dal ministro Bonafede che blocca i termini della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, riforma che è diventata il nuovo terreno di scontro nella maggioranza di governo. «Per come ragiono io, termini come prescrizione, amnistia, indulto, dovrebbero sparire dal vocabolario della lingua italiana», ha affermato. Per Gratteri la nuova norma «non è inutile, va fatta, ma non è la soluzione del problema. La prescrizione è una ghigliottina, non possiamo ragionare in questo modo, non esiste una sola ricetta per un problema». «Ogni volta che il legislatore interviene solo per un problema non fa un ragionamento serio. Un ragionamento serio – ha spiegato il procuratore – vuol dire avere il coraggio, la volontà e la libertà di cambiare tutto il sistema, 3-400 norme, con piccole e medie modifiche, per far sì che funzioni. Altrimenti si va sempre a rattoppare». «Se non si decide di investire in giustizia, di applicare la tecnologia che abbiamo a disposizione nel 2019, non si va da nessuna parte», ha continuato Gratteri. «In questo momento ci sono fuori ruolo 250 magistrati, io penso che ne basterebbero 30-40», e poi «bisogna rivedere tutta la geografia giudiziaria, ancora ci sono sedi inutili che andrebbero chiuse o accorpate», ma «con la benda davanti, senza andare a guardare lì chi c’è e se lo disturbiamo se gli chiudiamo l’ufficio».

Gratteri: “Io, troppo indipendente per fare il ministro”. Il Dubbio il 10 febbraio 2020. La ricostruzione della mancata nomina a via Arenula ai tempi del governo Renzi. Altro giro altra corsa. Il procuratore Nicola Gratteri ospite di Lucia Annunziata – che con Piercamillo Davigo condivide lo scettro del magistrato più presenzialista della tv italiana – si è lasciato andare a nuove, importanti rivelazioni sulla sua mancata nomina a ministro della giustizia ai tempi del governo Renzi.

La prima: sembra che il no dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano fosse dovuto – dice lui – alla sua marcata “caratterizzazione”. “Non so cosa volesse dire ha poi confessato Gratteri – ancora è vivo, chi è in confidenza può chiederglielo, ma è vero che sono molto indipendente.

La seconda: Gratteri non si definisce nè giustizialista nè garantista – e questo si era capito – ma solo “uno che cerca di applicare il codice nel modo più corretto possibile. Esiste la legge e la sua applicazione».

La terza: ci sono corrotti anche tra i magistrati, ma sono pochi. “Il problema della corruzione c’è, ma possiamo parlare del 6-7%, non di più”, ha infatti spiegato Gratteri. Che poi ha aggiustato il tiro: “posso dire che sostanzialmente la struttura della magistratura è sana, però è ovvio che un magistrato corrotto fa un botto, fa rumore, è molto grave, la gente si allontana e perdiamo credibilità”. Il che, detto ai tempi dello scandalo nomine, è un’affermazione piuttosto “coraggiosa”.

Nicola Gratteri a Mezz'ora in più: "In magistratura un 6-7 per cento di corrotti". Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. Tempo di rivelazioni a Mezz'ora in più su Rai 3, dove l'ospite era Nicola Gratteri, che sei anni fa fu ministro della Giustizia soltanto per poche ore nel nascente governo di Matteo Renzi. In studio si fa il punto sulla riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede, ma poi si torna ai tempi della nomina sfumata: "Ho conosciuto Renzi nel 2014, il giorno prima che andasse dal presidente Giorgio Napolitano - premette -. Non è che mi fidassi di Renzi, gli dissi quello che bisognava fare e lui era d’accordo su tutto, parlammo di cose strutturali che riguardavano il sistema giudiziario". Così il capo della procura di Catanzaro rispondendo a una domanda di Lucia Annunziata. Perché il veto di Napolitano? "Chiedete a lui - riprende Grattieri -. Pare che avesse detto che sono un pm troppo caratterizzato. Non so cosa volesse dire - ha aggiunto -. È vero che sono molto indipendente e non faccio parte di nessuna corrente, ho un carattere duro, non conosco mediazioni al ribasso. In ogni caso, una volta finito l’incarico di ministro, avrei guidato un’azienda agricola, sono un bravo agricoltore, di certo non avrei fatto più il magistrato per una questione di serietà e credibilità", ha concluso. Poi, parole pesantissime sulla piaga della corruzione tra le toghe. Tema che esiste, eccome, anche secondo Gratteri: "Il problema corruzione nella magistratura c’è, possiamo parlare del 6-7 per cento - stima -. È grave, inimmaginabile, terribile. Noi guadagniamo bene. Io prendo 7.200 euro e si vive bene e non c’è lo stato di necessità. Io penso che sia un fatto di ingordigia. Il potere è avere incarichi o chiedere incarichi per amici degli amici", ha concluso.

Gratteri: guadagno 7200 euro. I super stipendi delle toghe. Il pm antimafia Gratteri in televisione rivela la busta paga dei magistrati: 137mila euro all'anno e 45 giorni di ferie. Felice Manti, Lunedì 10/02/2020 su Il Giornale. Il pm antimafia Nicola Gratteri ha un merito: parla chiaro. E dice una verità che molte toghe fingono di non vedere: «Il problema della corruzione in magistratura c'è, e riguarda il 6-7%, non di più». E non è un problema legato ai soldi. D'altronde si sa, gli stipendi delle toghe sono tra i più alti d'Italia. Guardando alla media delle retribuzioni lorde annue del pubblico impiego la magistratura si colloca al top con 137.294 euro (e 45 giorni di ferie), seguita a distanza da carriera prefettizia (94.293), autorità indipendenti (91.259) e persino carriera diplomatica (87.121): «Guadagniamo bene - conferma il procuratore capo di Catanzaro, ospite di Lucia Annunziata a In mezz'ora - io prendo 7.200 euro al mese, quindi non c'è giustificazione, non è uno stato di necessità, non è il tizio che va a rubare al supermercato per fame». La corruzione in magistratura «ha a che fare con l'ingordigia». È strano sentire un magistrato ammettere che anche i giudici «sono il prodotto di questa società» e che «l'abbassamento della morale e dell'etica», fa rumore quando riguarda un magistrato corrotto, perché così «la gente si allontana e perdiamo credibilità». Gratteri non fa nomi ma il pensiero corre al magistrato Luca Palamara, ex membro del Csm ed ex presidente dell'Anm (il sindacato dei magistrati), che secondo la Procura di Perugia avrebbe favorito o tentato di favorire alcune nomine in cambio di viaggi, soldi e regali in combutta con alcuni politici Pd. L'indagine ha già portato ad alcune dimissioni eccellenti dentro lo stesso Csm come il Procuratore generale Riccardo Fuzio. Anche Catanzaro è squassata da una sequela di magistrati finiti nel mirino della Procura della Repubblica di Salerno per favoreggiamento mafioso, corruzione e corruzione in atti giudiziari. Un magistrato della Corte d'appello è stato arrestato perché avrebbe venduto sentenze in cambio di sesso e mazzette. E guarda caso, la stessa Corte d'appello (il cui procuratore capo Otello Lupacchini è stato da poco cacciato per uno scazzo con Gratteri) si conferma sul podio - per il sesto anno consecutivo - per ingiusta detenzione (158 persone nel 2017) e 8,9 milioni di euro pagati alle vittime innocenti. A stipendi alti non corrispondono neanche processi veloci. Anzi. Per colpa della lentezza della giustizia ogni anno ci sono circa 17mila richieste di indennizzo per «irragionevole durata dei processi» secondo i parametri fissati dalla legge Pinto (tre anni per una sentenza di primo grado, due anni per l'appello e un anno per la Cassazione). Quanto alla produttività dei magistrati è difficile trovare un parametro univoco. Pier Camillo Davigo dice che i giudici italiani sono i più produttivi d'Europa ma non c'è un dato della Commissione europea per l'efficienza della giustizia che ne dia conferma. E si torna al problema prescrizione, alibi piuttosto che soluzione. E lo conferma Gratteri quando dice «il legislatore serio si preoccupi del perché il fascicolo rimane cinque anni nel mio armadio», non sulla sua scrivania. Ecco perché il pm parla di «mediazione al ribasso» sulla prescrizione perché c'è «una disparità di trattamento» tra chi è assolto e chi è condannato in primo grado, mentre «chi finisce in carcere, che è diventato un contenitore, non sa quando ne uscirà. E non si fa né rieducazione né trattamento». Ancora una volta «il legislatore non fa le modifiche giuste», quelle «per velocizzare il processo senza diminuire i diritti. Perché questa è la madre di tutte le riforme». E come si velocizzano? «Anziché perdere mesi ad appigliarsi sulla prescrizione per velocizzare i processi basta applicare la tecnologia disponibile e rileggere il codice di procedura penale». Anche perché, tra i magistrati è un segreto di Pulcinella, lo stop alla prescrizione ingolferà ancor di più il sistema. Nel 2018, secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, i procedimenti penali prescritti in Corte d'appello e Cassazione sono stati 29.862. Dal 2020 questi 30mila processi in più graveranno ogni anno sugli uffici giudiziari. Allungando ancora di più i processi.

Toghe sporche, le rivelazioni bomba di Petrini. Parla di Sculco, di giudici corrotti e poi ritratta. I verbali degli interrogatori resi davanti ai pm di Salerno. L’ex presidente di sezione della Corte d’Appello di Catanzaro racconta dei rapporti con l’ex consigliere regionale di Crotone. Inoltre, prima formula precise accuse nei confronti dei colleghi magistrati Cosentino, Commodaro e Saraco, poi ci ripensa. Ma ora gli inquirenti non gli credono. Alessia Candito il 4 giugno 2020 su lacnews24.it. Prima tira in ballo colleghi magistrati, poi ritratta. Racconta in dettaglio di sentenze aggiustate, killer lasciati a piede libero, colleghi scomodi allontanati avallando interessate istanze di ricusazione, poi si pente. Ha mille facce, mille volti, mille verità, l’ex presidente di sezione della Corte d’Appello di Catanzaro, Marco Petrini. Per il procuratore vicario Luca Masini e il pm Vincenzo Senatore non è un cliente per nulla facile da gestire, ma adesso delle sue bugie hanno le prove. E sono finite agli atti di due distinti procedimenti. Il primo è l’inchiesta Genesi, che lo ha fatto finire in manette, il secondo ha un diverso e più recente numero di registro e sembra avere molto a che fare con le dichiarazioni del giudice.

Le bugie di Petrini ai pm di Salerno. Ufficialmente magistrato irreprensibile, in realtà per sua stessa ammissione padrone di un suq in cui ogni sentenza era in vendita. Forse anche fratello di una loggia segreta, che tra guanti e grembiuli annovera anche più di una toga, oltre all'avvocato ed ex senatore Giancarlo Pittelli,e magari ancora fedele a quel sistema, in grado di comandarlo a bacchetta. Di fronte ai pm di Salerno che su di lui indagano, Marco Petrini ha mentito. Ha mischiato verità con menzogne e verosimiglianze, ma è stato stanato. E a causa dei suoi giochini è tornato in carcere per oltre un mese prima di essere riammesso ai domiciliari.

I mille volti del giudice. Per i magistrati, istigato dalla moglie, Maria Stefania Gambardella, per questo indagata, ha iniziato a sciorinare una serie di «ricostruzioni illogiche», miste a piccole verità e svogliate ammissioni, più «dichiarazioni mendaci» - si legge nelle carte – messe in fila negli interrogatori del 25 e 29 marzo e del 17 aprile. E adesso quegli interrogatori sono agli atti. In più, c'è uno stralcio di quello del 5 febbraio. Il Petrini numero 1, almeno all’apparenza. Quello che ancora non sembrava aver prestato ascolto alle sirene del suo vecchio mondo e alle «espressioni minatorie» della moglie. E che di fronte ai pm che gli mostrano due biglietti per le partite del Crotone, ammette di essersi fatto corrompere da Enzo Sculco.

Quella condanna ingombrante che Sculco aveva fretta di far estinguere. L’offerta – racconta Petrini – gli era stata fatta dal difensore del politico, l’avvocato Mario Nigro. Il plenipotenziario della politica crotonese aveva un problema non da poco. Far dichiarare estinta una condanna in precedenza riportata e soprattutto le pene accessorie collegate. «In particolare – afferma Petrini - la sanzione d'interesse era quella della interdizione perpetua dai pubblici uffici ed anche quella dì contrattare con P.A. per anni tre. Tra i reati per i quali Sculco era stato condannato vi era una corruzione».

Il prezzo della corruzione: due biglietti per la partita del Crotone. A Petrini si chiedeva «un interessamento». In cambio, tanto nel 2017 come nel 2018, «dall’avvocato Nigro» ha ricevuto – ammette - «due biglietti omaggio per assistere alla partita di calcio in entrambi i casi le partite Crotone-Milan. In entrambi i casi si trattava di due biglietti uno per me ed uno per il figlio di mia moglie Stefania Gambrdella, che si chiama Gian Giuseppe Buscemi». Ovviamente, «intestati ad Enzo Sculco corredati della dichiarazione dello stesso di cessione dei titoli».

Le ammissioni di Petrini. Tutte carte che gli investigatori hanno trovato nel corso della perquisizione a casa del giudice. E che – confessa lui – hanno portato agli effetti desiderati. «In cambio dei suddetti biglietti ho trattato il procedimento con esito favorevole al condannato Enzo Sculco. Mi viene ricordato che l'udienza di trattazione del procedimento fu quella del 30 giugno 2017 e che il deposito la decisione di sostanziale accoglimento dell'istanza dell'avv. Nigro. Gli altri due componenti del collegio nulla sapevano», specifica. «Nel contesto delle attività investigative - si legge però nell'ordinanza di custodia cautelare che ha riportato il giudice in carcere - tale dichiarazione del Petrini si rivelava mendace, in quanto smentita dal provvedimento adottato dalla Corte d'Appello di Catanzaro il 28.06.2017 nei confronti di Enzo Sculco. Invero, dalla lettura del provvedimento si evicenva che il Petrini non aveva composto il Collegio, e che il provvedimento adottato dalla Corte d'Appello non era stato di accogliemento bensì di non luogo a provvedere sulla istanza difensiva (sul presupposto che l'estinzione della pena accessoria fosse già intervenuta per effetto di una precedente pronunzia del giudice dell'esecuzione. Dunque era riscontrata la cessione dei biglietti da parte dello Sculco (per il tramite dell'avvocato) al Petrini ma era al contempo non veritiera l'affermazione del Petrini (autoaccusatoria e accusatoria nei confronti del Nigro e dello Sculco), secondo cui egli avrebbe adottato un'ordinanza accogliemento (senza coinvolgere nel patto corruttivo i componenti del Collegio)».

Ritrattazioni spia? Il resto è tutto coperto da un lungo omissis, salvo quella che sembra l’ultima frase di quell’interrogatorio. E recita testualmente «erano false in quanto detto denaro proveniva da attività corruttiva che ho confessato». Di cosa si tratti non è dato sapere. Di certo, è facile ipotizzare che ogni singola affermazione di Petrini, soprattutto se utile a correggere quanto affermato in precedenza, venga passata ai raggi X. Soprattutto alla luce di quanto accaduto negli interrogatori successivi del 25 e 29 febbraio e 17 aprile.

Quelle telefonate con la moglie e il nuovo Petrini. Poco prima di quei colloqui con i giudici, ci sono un paio di telefonate della moglie, Stefania Gambardella. Che – magari non immaginando di essere intercettata – gli intima «Allora tu mi devi ascoltare però, sennò non vengo più Marco, se non fai le cose che ti dico io, non vengo più ... non fare più le cose di testa tua perché sono tutte sbagliate, tutte deviate». E Marco – affermano i pm nell’avviso di garanzia con contestuale decreto di perquisizione spedito alla Gambardella – a quanto pare esegue.

In passo indietro del giudice. Da quanto sopravvissuto agli omissis, pare che «riguardo al processo Vrenna» Petrini si preoccupi di «precisare e rettificare che in realtà, a parte la visita iniziale ricevuta dall'ex Procuratore dottor Tricoli, poi di tale vicenda non mi sono mai interessato, essendo il collegio composto da altri colleghi con i quali non ho avuto alcuna interlocuzione sul punto. Dunque nessuna somma di denaro ho mai ricevuto in relazione a tale vicenda». Ergo in precedenza aveva detto l’esatto opposto.

L'assoluzione (a pagamento) di Patitucci. La seconda vicenda riguarda invece altri due procedimenti, uno dei quali per omicidio, e l’incontro – gli ricorda il pm - «che lei ha presso il suo Ufficio della Corte di Appello di Catanzaro con l'avvocato Manna Marcello (attuale sindaco di Rende ndr), lei ne ha parlato di questo incontro, ne ha parlato nel corso di entrambi gli interrogatori». Petrini è visibilmente in difficoltà. Balbetta, risponde evasivamente, poi alla fine racconta che anche il suo collega, il giudice Cosentino avrebbe accettato denaro per addomesticare la sentenza in favore del killer Patitucci, poi assolto da quelle contestazioni. Gran parte di quel verbale, soprattutto –sembra di capire – per quel che riguarda i contenuti di un primo incontro con Manna è coperto da un omissis lungo più di 100 pagine. Ma qualcosa alla scure dei pm sfugge.

Tutto si può con un fratello di loggia. Lungo, delicato il processo contro Patitucci è durato mesi. «Era in questione la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale» – ammette Petrini, inchiodato da precedenti interrogatori- ed anche Cosentino era coinvolto in quella decisione. Allora è stato lui a farsi da tramite della “disponibilità” manifestata dall’avvocato Gullo, insieme a Manna difensore del killer. «Lui mi disse, sapendo lui che il relatore era Cosentino, dice: "Se è necessario un contributo ci può essere anche per Cosentino». E sarebbe stato proprio Petrini a informare Cosentino, anche se ci tiene a specificare di «non avere cognizione dell’effettiva dazione». E qui il procuratore Masini si impunta, magari capisce che sta succedendo qualcosa di strano ed insiste. Vuole sapere perché Petrini si sia sentito libero di andare da un collega per convincerlo a vendere una sentenza. E solo dopo molte insistenze riesce a farsi dire che «anche il collega Cosentino era iscritto alla stessa ... alla stessa loggia». Coperta evidentemente.

La “conversione” di Petrini. Problema, il 17 aprile Petrini smentisce categoricamente tutto. E per giustificare il rapido e radicale cambio di rotta usa parole quasi da pentito di mafia, di quelli che – improvvisamente – decidono di ribaltare quanto in precedenza raccontato. «Nel corso dei due ultimi interrogatori ero particolarmente provato dal punto di vista psicologico e morale» spiega e solo «in questo momento – aggiunge - credo di aver recuperato la serenità sufficiente ad affrontare questo atto istruttorio ed ho pertanto intenzione di rispondere positivamente al suo invito». Parole dette di fronte ad uno schermo. Per la prima volta Petrini non è di fronte ai pm. Le restrizioni da Covid sono ancora dure e l’interrogatorio si svolge in videoconferenza. Fra lui e i magistrati c’è distanza. E magari anche per questo può ritornare indietro non solo su quanto affermato il 25 e il 29 febbraio, ma anche su quanto in precedenza accennato – come si evince dalle domande dei magistrati – quindi sfumato e il 17 aprile radicalmente negato.

Indietro tutta. Interrogato dal pm Senatore, quel giorno l’ex giudice giura e spergiura che il collega Cosentino nulla sapeva, né di Patitucci, né di un «delicato» procedimento di misure di prevenzione, «Ioele+ terzi interessati». Al centro, c’era «un soggetto già condannato per bancarotta, nei confronti del quale era stata avanzata una proposta di misura di prevenzione patrimoniale che si era conclusa con la confisca di alcun beni in primo grado». In appello, aggiustata a favore dell’imputato per 2500 euro cortesemente versati – dice Petrini, specificando quanto emerso nei precedenti interrogatori dall’avvocato Marcello Manna.

«Con Manna ci provai». I pm hanno anche una data dell’incontro fra i due, il 30 maggio. E Petrini non smentisce che l’attuale sindaco di Rende lo abbia agganciato durante quel procedimento di misure di prevenzione «rappresentandomi che la questione era molto delicata». Tanto meno che «sarei stato disponibile ad accogliere l'appello dietro versamento di una somma di denaro» o che l’avvocato «si dichiarò disposto ad accontentarmi». Certo, nonostante l’insistenza dei pm non spiega come mai si sia sentito libero di proporre una cosa del genere ad un legale che, afferma Petrini citando la logica domanda dei magistrati, poteva benissimo «andare alla più vicina Stazione dei Carabinieri per denunziarmi». Si limita a dire «semplicemente "ci provai", sperando che le cose andassero bene». Ciò che Petrini sembra a tutti i costi voler smentire è che gli altri componenti del collegio, i giudici Cosentino e Commodaro, fossero al corrente di questo giochino.

Il "martire" Petrini. Immolato per la causa di chi? «Il collegio giudicante era composto, nella circostanza, dai colleghi Cosentino e Commodaro. Ero io il relatore della procedura. Non rappresentai ai componenti del collegio la proposta corruttiva che mi era stata fatta» ci tiene a precisare. E aggiunge «escludo che il dott. Cosentino fosse parte dell'accordo corruttivo. Prendo atto di aver reso dichiarazioni contrarie il 25 febbraio 2020. Mi sento di escludere tale circostanza e comunque, ribadisco che egli nulla seppe della proposta che mi era stata rivolta dall'avvocato Manna e che non fu invitato in alcun modo a partecipare alla spartizione della somma che avevo ricevuto. Anche per il dottor Commodaro vale lo stesso discorso». Stessa storia per il processo d’appello a Patitucci, in cui «la decisione – sostiene - trovava il suo fondamento nello svolgimento dell'istruttoria dibattimentale». Eppure qualche mese prima – emerge tra le pieghe dell’interrogatorio - aveva riferito tutt’altra cosa e in modo dettagliato. Salvo poi iniziare a zoppicare nel confermarlo già dal 25 febbraio.

Ricusazione a pagamento. Un quadro torbido che si ripete, uguale a se stesso in relazione ad un altro episodio che riguarda il giudice Cosentino. Stando ai primi verbali, su gentile offerta (economica) dell’avvocato Staiano diretta a lui e al collega Saraco, Cosentino avrebbe accolto un’istanza di ricusazione quanto meno fantasiosa, salvo poi preoccuparsi quando quella pronuncia è diventata un caso tanto sui media, come negli uffici della Corte d’appello. Con tanto di ricorso – durissimo – del sostituto Di Maio, accolto in toto, in fretta e senza rinvio dalla Cassazione, nonché una convocazione formale di fronte al presidente Introcaso. Cosentino non si aspettava tanto clamore, eppure la decisione di accogliere l’istanza di ricusazione di un presidente di collegio «sulla base della pregressa conoscenza delle fonti collaborative» era così clamorosa che – racconta Petrini il 25 febbraio – lui stesso si era detto contrario «perché non stava in piedi sotto il profilo giuridico». Ma Cosentino, aveva ammesso in quell’occasione, aveva ricevuto un’offerta di danaro per una sentenza comoda da Staiano e con lui si era confidato perché consapevole «che ho avuto soldi in passato dall'avvocato».

Inversione a U. Passa qualche mese e il 17 aprile nell’ennesima versione di Petrini tutto cambia. «Escludo – afferma - che risponda a verità quanto da me dichiarato il 25 febbraio 2020, a proposito della partecipazione del dott. Cosentino all'accordo corruttivo riguardante il processo Patitucci ed a proposito della partecipazione dello stesso dott. Consentino e del dott. Saraco all'accordo corruttivo sotteso all'accoglimento dell'istanza di ricusazione del dott. Battaglia o del dott. Bravin». Insomma, una marcia indietro totale e convinta. Al pari delle accuse, a quanto filtra, in precedenza formulate. E adesso toccherà ai pm di Salerno capire dove fra le mille versioni di Petrini sta la verità. E sbrogliare la matassa. 

Sequestro della Guardia di Finanza per corruzione in atti giudiziari ad un giudice e la sua “cricca” in Calabria. Il Corriere del Giorno il 7 Maggio 2020. Il Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Crotone e lo S.C.I.C.O di Roma hanno dato esecuzione al decreto di sequestro preventivo per equivalente, finalizzato alla confisca, disposto dalla dr.ssa Giovanna Pacifico , Gip del Tribunale di Salerno su richiesta del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Salerno Luca Masini del medesimo capoluogo ( che recentemente è stato sostituito dal dr. Borrelli), nei confronti del Giudice Marco Petrini, Emilio (detto Mario) Santoro massone e medico in pensione di Cariati e già dirigente dell’Asp di Cosenza, dell’ex consigliere regionale Giuseppe (detto Pino) Tursi Prato , dell’ avvocato del Foro di Catanzaro Francesco Saraco e dell’imprenditore di Cariati  Vincenzo Arcuri. Nel corso dell’indagine, nota come Operazione GENESI, diretta dall’ex Procuratore capo di Salerno Luca Masini e dal pm Vincenzo Senatore e condotte dalla Guardia di Finanza di Crotone unitamente allo S.C.I.C.O. di Roma , vennero individuati svariati episodi corrutivi in atti giudiziari commessi da professionisti, imprenditori ed avvocati. Gli indagati sono in tutto 18; si procede separatamente, dunque, per altri 12. In relazione a tali episodi è stato chiesto dal Pubblico Ministero, ed emesso dal GIP, il decreto che dispone il giudizio immediato per l’udienza del 9 giugno prosimo nei confronti dei suddetti imputati dinanzi al Tribunale Collegiale di Salerno. Il 15 gennaio scorso veniva quindi data esecuzione alle ordinanze di custodia cautelare nei confronti del Giudice Marco Petrini, Presidente di una Sezione della Corte di Appello di Catanzaro (e Presidente della Commissione Provinciale Tributaria di Catanzaro) e di altre persone fra cui avvocati e liberi professionisti. Il giudice di Catanzaro Marco Petrini, avrebbe fatto parte di una loggia massonica “segreta” e deviata. La loggia “coperta” composta ovviamente da più persone impegnate in ruoli professionali diversi avrebbe operato lungo l’asse Catanzaro, Cosenza e Castrovillari tutelando, evidentemente, precisi interessi e condizionando anche gli esiti di procedimenti giudiziari. Una struttura massonica “deviata” estranea alle maggiori Obbedienze italiane che per legge, dopo lo scandalo della P2, non possono annoverare al loro interno iscritti “riservati”. Il provvedimento di sequestro che i finanzieri di Crotone hanno eseguito è frutto delle ulteriori indagini svolte per quantificare le somme di denaro corrisposte a titolo di corruzione al Giudice Petrini. In particolare sono stati posti in sequestro € 10.988,37 a Marco Petrini, € 39.011,63 a Emilio Santoro, € 10.000 a Francesco Saraco ed € 1.500,00 a Vincenzo Arcuri , per un totale di 61.500 Euro.

L’ INCHIESTA DELLE FIAMME GIALLE. L’indagine Genesi era scattata alle prime luci della mattina del 15 gennaio scorso, quando la Guardia di Finanza ha stretto le manette ai polsi a 7 persone, mentre un’altra è andata agli arresti domiciliari, a seguito delle indagini della Procura di Salerno (competente quando ci sono magistrati catanzaresi).   Dopo la collaborazione che sta facendo luce su moltissimi episodi di presunta corruzione, il giudice Petrini (che nel frattempo è stato sospeso dal Csm) è stato scarcerato e il Gip aveva disposto gli arresti domiciliari l’obbligo di dimora fuori dalla Calabria. Il 29 aprile scorso a seguito dell’aggravamento delle misure cautelari è ritornato in carcere a Salerno. Il ventaglio dei regali per aggiustare le sentenze e i processi era più che vasto:  dagli orologi alle vacanze, dai soldi alle macchine per finire alla carne d’agnello. Tutte offerte che sarebbero andate a finire nelle casse o nella disponibilità del giudice della Corte d’Appello di Catanzaro e presidente della Commissione Tributaria Marco Petrini. Dalle indagini della Guardia di Finanza è emerso anche il ruolo dell’ ing. Arcuri , il quale per le festività pasquali del 2019 si sarebbe adoperato per far recapitare carne d’agnello al magistrato nato a Foligno.  D’intesa con Emilio Santoro, medico e accusato di essere un collaboratore nel sistema corruttivo di Petrini, il geometra avrebbe portato il cibo direttamente al giudice. Santoro oltre a “retribuire” mensilmente il magistrato Petrini per garantirsi l’asservimento perpetuo delle funzioni dello stesso, si prodigava altresì per procacciare nuove occasioni di corruzione, proponendo a imputati o a parenti di imputati condannati in primo grado, nonché a privati soccombenti in cause civili, decisioni favorevoli in cambio del versamento di denaro, di beni o di altre utilità. Le azioni corruttive, documentate anche con attività di intercettazione audio e video, servivano persino a far riottenere il vitalizio all’ ex politico calabrese Giuseppe Tursi Prato (in quota al PSDI negli anno 90) che, nel corso della V Legislatura regionale, ricopriva la carica di Consigliere della Regione Calabria, precedentemente arrestato alla fine degli anni ’80 per concussione e successivamente finito in una brutta inchiesta per mafia del 2004 per la quale era stato condannato a 6 anni. Tursi Prato proprio le sua condanna nel 2004 alla pena detentiva di anni sei di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, per tale motivo, era decaduto dal suo assegno vitalizio per la carica precedentemente rivestita; ad agevolare, per alcuni candidati, il superamento del concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato. Da quanto emerso dai file estrapolati dal pc del magistrato Petrini, sarebbero stati trovati documenti  con i quali attestano il pagamento  della Corte d’Appello di Catanzaro di alcune somme di denaro al professionista per alcune consulenze d’ufficio.  In sostanza, un altro episodio che, se confermato dalle sentenze (dove si accerta la responsabilità di ogni indagato) traccia un quadro del sistema giustizia piuttosto complesso. E’ stata altresì accertata, nel corso delle indagini, la grave situazione di sofferenza finanziaria in cui versava il magistrato Petrini, ricostruita sulla base degli accertamenti bancari svolti dalle Fiamme Gialle e sulla base delle conversazioni intercettate. Si trattava di una condizione cronicizzata ed assolutamente non risolvibile nel breve periodo che poneva il magistrato nella necessità di procurarsi continuamente , oltre allo stipendio di magistrato ed ai compensi quale Giudice Tributario, la disponibilità di somme di denaro in contanti, anche per mantenere l’elevato tenore di vita. Durante la perquisizione nell’abitazione del magistrato è stata rinvenuta e sequestrata la somma contante di 7.000,00 euro custodita all’interno di una busta. Oltre all’esecuzione delle misure cautelati, sono state disposte ed effettuate numerose perquisizioni nei confronti di altri coindagati, terzi e società. Tutte le indagini sono state svolte dalla Guardia di Finanza sopra indicati, con grande capacità investigativa e sopratutto con la massima riservatezza prevista. Il “pentimento” del giudice Marco Petrini ha avuto inizio lo scorso il 31 gennaio scorso davanti ai magistrati della Procura di Salerno con un verbale pieno di “omissis” che stanno facendo tremare molta gente in Calabria, come è emerso che a quanto pare il magistrato raccontasse “balle” anche a una delle sue amanti circa le somme incassate e non restituite con cui faceva vacanze all’estero. Il giudice della Corte d’Appello di Catanzaro ha rinunciato a proporre ricorso al Tribunale del riesame avverso il suo arresto per corruzione nell’ambito dell’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza di Crotone,, ammettendo di aver accettato somme di denaro da parte di Emilio Santoro, il faccendiere e dirigente dell’Asp di Cosenza il quale starebbe collaborando e “cantando” anche lui con gli inquirenti. Coinvolti nell’inchiesta ed indagati anche il presidente del CdA della Banca di Credito cooperativo del Crotonese Ottavio Rizzuto  già dirigente, dal 2007 al 2015, dell’Area tecnica del Comune di Cutro, indagato senza alcuna misura cautelare come Virginia Carusi, Lorenzo Catizone, Antonio Saraco , Antonio Claudio Schiavone, Palma Spina. Agli arresti domiciliari venne posta anche l’ avvocato Maria (detta Marzia ) Tassone del Foro di Locri, la quale per sua stessa ammissione ai magistrati inquirenti era diventata l’amante del giudice Petrini nonostante cosui fosse regolarme nte sposato. Il Tribunale del Riesame di Salerno, presidente Elisabetta Boccassini, a latere Dolores Zarone ed Enrichetta Cioffi, lo scorso 10 marzo ha motivato in 24 pagine la decisione di annullare l’ordinanza di misura cautelare degli arresti domiciliari per la Tassone, accogliendo le argomentazioni difensive dei suoi difensori, avvocati Valerio Murgano e Antonio Curatola. Per il Tribunale del Riesame salernitano mancano i gravi indizi di colpevolezza dal momento che “risulta difficile qualificare l’attività svolta in termini di corruzione, laddove non si ha contezza della richiesta eventualmente fatta, ma soprattutto della commessa utilità promessa, circostanza quest’ultima contraddetta dagli esiti investigativi, atteso che i rapporti intercorsi tra i due indagati sembrano prescindere da accordi corruttivi”.

Catanzaro, torna in carcere il giudice Petrini: aveva trasformato il tribunale in un "suq di sentenze". Era ai domiciliari per un'iniziale disponibilità a collaborare ha poi ritrattato più volte le sue deposizioni. È accusato di aver inquinato le prove con la moglie, che gli aveva suggerito la marcia indietro. Alessia Candito il 29 aprile 2020 su La Repubblica. Torna in carcere il giudice Marco Petrini, arrestato nel gennaio scorso per aver trasformato la Corte d’appello di Catanzaro in un suq in cui ogni sentenza era acquistabile. Ai domiciliari grazie ad un’iniziale disponibilità a collaborare, si è poi pentito di essersi pentito, per poi pentirsi ancora di quella ritrattazione, suggerita – ipotizzano gli inquirenti – da mandanti esterni. Per questo i magistrati di Salerno -  il pm Vincenzo Senatore e l’aggiunto Luca Masini, coordinati dal neoprocuratore capo Giuseppe Borrelli -  hanno chiesto e ottenuto un nuovo arresto per il giudice, accusato di aver tentato di inquinare le prove insieme alla moglie, la funzionaria del tribunale di Catanzaro, Patrizia Gambardella, destinataria di un avviso di garanzia. È stata lei, hanno scoperto gli investigatori ascoltando i colloqui in carcere di Petrini, a ordinargli di ritrattare tutto quanto in precedenza dichiarato. "Tu d'ora in poi devi solo ascoltare me. Le cose che hai fatto da solo sono tutte sbagliate” la sentono dire gli investigatori. Ma non si tratta di una reprimenda per l’infinita serie di episodi di corruzione che l’indagine ha portato alla luce. Al contrario. La donna pretende che Petrini cambi al più presto versione e glielo dice in modo chiaro “Allora tu mi devi ascoltare però, sennò non vengo più Marco, se non fai le cose che ti dico io, non vengo più ... non fare più le cose di testa tua perché sono tutte sbagliate, tutte deviate". Per i magistrati “espressioni minatorie”, che arrivano dopo che i verbali degli interrogatori di Petrini finiscono agli atti e iniziano a circolare, mentre le sue dichiarazioni sono all’origine di una raffica di avvisi di garanzia che raggiungono avvocati, professionisti, politici e parenti di politici di mezza Calabria. E non riguardano semplicemente un sistema di corruzione. Di fronte ai magistrati di Salerno, Petrini non solo ha ammesso di aver “addomesticato” una serie di sentenze dietro più o meno lauto compenso, ma ha anche iniziato a parlare della rete massonica che lo aveva alimentato e reso possibile. Una pista che si intreccia con quella al centro della maxi-inchiesta Rinascita-Scott che ha travolto l’ex parlamentare di Forza Italia, poi passato a Fdi, Giancarlo Pittelli, arrestato nel dicembre scorso su richiesta della procura antimafia guidata da Nicola Gratteri e tuttora in carcere. Forse anche per questo, sospettano gli inquirenti, Gambardella intercettata dice al marito “Qua a Lamezia non ci puoi venire sicuro perché, veramente ti vengono e ti sparano a qualche parte a te. E ti vogliono ammazzare tutti, non hai capito tu cosa hai combinato pure, tu non hai capito niente Marco". E lui capitola. “Cambierò indirizzo, ho capito Stefà” le dice. Ed esegue. Il colloquio viene registrato il 22 febbraio. Tre giorni dopo, Petrini viene interrogato. E il 29 febbraio torna davanti ai magistrati. E in entrambe le occasioni riversa una valanga di accuse “su tre magistrati del distretto di Catanzaro, stravolgendo al contempo – si legge nelle carte – la ricostruzione della vicenda corruttiva emersa nel corso delle indagini rispetto alla quale aveva reso una circostanziata rappresentazione dei fatti”. Traduzione, si rimangia tutto o quasi. Ma gli inquirenti non ci cascano. A tutte le sue nuove dichiarazioni sono stati cercati riscontri che non sono saltati fuori. Al contrario, le indagini non hanno fatto che smentirlo. E forse non a caso in un successivo interrogatorio, il 17 aprile, Petrini sembra cambiare nuovamente versione. Racconta di “uno stato di profonda prostrazione”, sconfessa le dichiarazioni del 25 e 29 febbraio e racconta di un “percorso spirituale e di purificazione interiore” che “solo dal 2 marzo in poi” gli avrebbe permesso di “riflettere” e decidere di “attendere un successivo interrogatorio per correggere talune delle mie dichiarazioni precedenti”. Ai magistrati che lo interrogano, probabilmente con le prove delle sue bugie in mano, assicura “attendevo tale occasione per spiegare alcune circostanze su cui in precedenza avevo reso dichiarazioni”. È la versione numero tre di Petrini e basta ai magistrati di Salerno per decidere di adottare provvedimenti drastici a tutela dell’inchiesta. Gli elementi sono sufficienti per chiedere e ottenere un nuovo arresto per lui. Nel frattempo, alla moglie viene recapitato un avviso di garanzia, insieme ad un decreto di perquisizione e sequestro che ha permesso ai finanzieri di Crotone di passare al setaccio casa, ufficio e veicoli della donna e portare via smartphone, computer, supporti informatici, documenti e file. Agli inquirenti però non basta trovare elementi a sostegno di quel tentativo di far ritrattare Petrini che hanno ascoltato, ma vogliono anche “l'identificazione dei complici e dei mandanti delle suddette condotte”. Quel sistema di cui Petrini faceva parte, è il sospetto degli inquirenti, probabilmente è ancora in piedi e in grado di intervenire. Per questo le indagini non si fermano e toccherà – indica il gip – ai futuri approfondimenti chiarire se l’intento di Petrini sia stato “non rivelare il suo ruolo effettivo” o “preservare da responsabilità i componenti del Collegio giudicante o taluno di essi”. Di certo, afferma il giudice, Petrini non può più stare ai domiciliari. Sono venuti meno i presupposti che avevano permesso di concederglieli e le prove che abbia inquinato ci sono e sono cristalline. Da questa mattina, il giudice è tornato in cella.

Gratteri via dalla foto del magistrato arrestato.  Franco Bechis il 16 gennaio 2020 su Il Tempo. Tutti i quotidiani hanno tagliato l'immagine di Nicola Gratteri dalla unica foto che avevano del giudice arrestato a Catanzaro, Mario Petrini, presidente di sezione di corte di appello e anche presidente della commissione tributaria provinciale. La notizia dell'arresto di Petrini è stata data con grande evidenza, ed è naturale quando a finire nei guai è un magistrato accusato di avere svenduto la sua funzione in cambio di soldi e favori. Poi siccome l'indagine ha scoperto che fra i pagamenti ricevuti in cambio di sentenze favorevoli c'erano non solo soldi, regali e viaggi, ma anche prestazioni sessuali da parte di giovani avvocatesse filmate addirittura in 18 amplessi nell'ufficio del magistrato, la stampa ha puntato sull'aspetto più pruriginoso. Tutti i media però hanno avuto un problema: dove trovare la foto di Petrini, magistrato che è stato per lo più nell'ombra? C'era una sola soluzione: fare un fermo immagine di un video di un paio di anni fa dal sito del Lametino.

Arrestato magistrato: soldi per «aggiustare» le sentenze, sesso per diventare avvocate. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. Marco Petrini era presidente di sezione della Corte d’Appello e presidente della commissione provinciale tributaria. In manette anche due avvocati, un medico e altre 4 persone. Prestazioni sessuali, soldi, vacanze. Tutto questo in cambio di sentenze favorevoli. Il magistrato Marco Petrini, presidente della II sezione della Corte d’appello di Catanzaro, nonché presidente della commissione provinciale tributaria è stato arrestato con l’accusa di corruzione in atti giudiziari su ordine della procura di Salerno. Con lui sono finiti in manette altre sette persone, due dei quali avvocati, uno di Catanzaro e uno di Locri (quest’ultimo, finito ai domiciliari) e un medico ex dirigente dell’Asp di Cosenza. Nel corso della perquisizione in casa del magistrato i finanzieri hanno rinvenuto in una busta 7 mila euro in contanti. L’inchiesta avviata nel 2018 dalla Procura di Catanzaro è poi passata, per competenza, alla procura di Salerno, proprio perché tra le persone indagate figurava il magistrato della Corte d’appello. Personaggio chiave dell’inchiesta era il medico che avrebbe avuto a libro paga il magistrato, a cui si rivolgeva per cambiare l’esito di sentenze che in primo grado si erano concluse con la condanna dell’imputato. Inoltre, Marco Petrini avrebbe fatto ottenere il vitalizio a un ex politico calabrese che nella quinta legislatura ricopriva la carica di consigliere regionale. Lo stesso esponente politico nel 2004 era stato condannato a sei anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e per questo motivo non aveva diritto all’assegno vitalizio. Il magistrato della Corte d’appello, ancora, si sarebbe prodigato per far passare al concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato alcuni candidati donne. Che ripagavano la raccomandazione con prestazioni sessuali. Nel ruolo di presidente della commissione provinciale tributaria, il magistrato Petrini avrebbe favorito, in cambio di danaro, molti contribuenti che si rivolgevano a lui per ribaltare l’esito della sentenza di primo grado. Tutta l’attività corruttiva del magistrato è stata documentata dalla Guardia di finanza con accertamenti bancari e riprese video.

Da lastampa.it 16 gennaio 2020. Prestazioni sessuali, soldi in contanti, preziosi, promessi e consegnati a più riprese dagli indagati accusati di corruzione a un magistrato in servizio presso la Corte di Appello di Catanzaro. E' quanto emerso dalle indagini avviate nel 2018, condotte dalla Guardia di Finanza di Crotone e dirette dalla Dda in esecuzione di una ordinanza cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Salerno nei confronti di otto indagati, sette in carcere uno ai domiciliari. Tutti i destinatari delle misure cautelari sono gravemente indiziati, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari, in alcuni casi, aggravata dall'articolo 416 bis. Tra i destinatari della misura cautelare in carcere Marco Petrini, magistrato in servizio alla Corte di Appello di Catanzaro, e un avvocato del foro di Catanzaro, mentre a un collega del foro di Locri è stata applicata la misura degli arresti domiciliari. Quanto emerso da un'attività investigativa supportata anche dagli uomini del Servizio Centrale Operativo Criminalità Organizzata di Roma, è una sistematica attività corruttiva nei confronti di un presidente di sezione della Corte di Appello di Catanzaro nonché presidente della Commissione Provinciale Tributaria del capoluogo di regione calabrese. Gli indagati sono accusati di aver promesso e consegnato al magistrato beni e utilità, prestazioni sessuali comprese, in cambio del suo intervento per ottenere in processi penali, civili o in cause tributarie, sentenze o comunque provvedimenti favorevoli a loro o ad altre persone. In alcuni casi i provvedimenti favorevoli richiesti al magistrato e da questo promessi erano diretti a vanificare, con assoluzioni o consistenti riduzioni di pena, sentenze di condanna pronunciate in primo grado dai Tribunali del Distretto di Catanzaro, provvedimenti di misure di prevenzione, già definite in primo grado, o sequestri patrimoniali in applicazione della normativa antimafia, nonché sentenze in cause civili e accertamenti tributari. Oltre al magistrato, una figura centrale del sistema corruttivo sarebbe stata un insospettabile medico in pensione ed ex dirigente dell'Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. Oltre a "stipendiare" mensilmente il magistrato per garantirsi le sue funzioni, si sarebbe dato da fare per procacciare nuove occasioni di corruzione, proponendo a imputati o a parenti di imputati condannati in primo grado, nonché a privati implicati in cause civili, decisioni favorevoli in cambio di denaro, di beni o di altre utilità. Nello specifico, le azioni corruttive documentate anche attraverso intercettazioni audio e video, sarebbero servite a far riottenere il vitalizio a un ex politico calabrese che, nel corso della V Legislatura regionale, ricopriva la carica di consigliere della Regione Calabria già condannato nel 2014 a sei anni di reclusione e quindi non più beneficiario dell'assegno vitalizio per la carica rivestita. Beni e utilità venivano anche offerti per agevolare, per alcuni candidati, il superamento del concorso per l'abilitazione alla professione di avvocato. Le indagini hanno permesso di accertare la pesante sofferenza finanziaria in cui versava Petrini, il giudice arrestato: una condizione "cronicizzata", scrive il procuratore salernitano Luca Masini, e assolutamente non risolvibile nel breve periodo. Da qui la necessità del magistrato di procurarsi la disponibilità, oltre al suo stipendio e ai compensi come Giudice Tributario, di somme di denaro in contanti anche per mantenere l'elevato tenore di vita. Nella sua abitazione i finanzieri hanno trovato e sequestrato 7mila euro in una busta.

Catanzaro, magistrato arrestato: prestazioni sessuali, soldi e vacanze in resort in cambio di favori. L'accusa è corruzione. Otto provvedimenti dei magistrati salernitani, coinvolti anche due avvocati. Alessia Candito e Dario Del Porto il 15 gennaio 2020 su La Repubblica. Un magistrato in servizio alla Corte d'Appello di Catanzaro, Marco Petrini, e due avvocati, uno del foro di Catanzaro e l'altro di Locri sono stati arrestati dalla Guardia di Finanza su disposizione della Dda di Salerno per corruzione in atti giudiziari. L'accusa parla di "azioni corruttive per far riottenere il vitalizio a un ex politico calabrese"  e per "agevolare futuri avvocati per il superamento del concorso". Nell'inchiesta si legge di "gamberi, vacanze in resort e champagne" e di "prestazioni sessuali" in cambio di provvedimenti giudiziari. Sempre secondo le ipotesi degli inquirenti: "Un medico in pensione stipendiava il giudice per garantirsi le sue funzioni". I destinatari dei provvedimenti sono otto, sette dei quali con custodia cautelare in carcere e uno ai domiciliari. Le indagini, avviate nel 2018 e coordinate dalla Dda di Salerno, hanno permesso di ricostruire "una sistematica attività corruttiva" nei confronti del magistrato. Nell'abitazione del giudice sono stati trovati seimila euro in una busta. Denaro contante, oggetti preziosi, altri beni e utilità tra le quali anche prestazioni sessuali. Era quanto gli indagati nell'inchiesta della Dda di Salerno promettevano e consegnavano al magistrato, presidente di sezione della Corte d'Appello di Catanzaro nonché presidente della Commissione provinciale tributaria del capoluogo calabrese, in cambio del suo intervento "per ottenere, in processi penali, civili e in cause tributarie - è detto in un comunicato - sentenze o comunque provvedimenti favorevoli a terze persone  concorrenti nel reato corruttivo. In taluni casi i provvedimenti favorevoli richiesti al magistrato e da quest'ultimo promessi e/o assicurati erano diretti a vanificare, mediante assoluzioni o consistenti riduzioni di pena, sentenze di condanna pronunciate in primo grado dai tribunali del distretto, provvedimenti di misure di prevenzione, già definite in primo grado o sequestri patrimoniali in applicazione della normativa antimafia, nonché sentenze in cause civili e accertamenti tributari". Marco Petrini è magistrato  della Corte d'Appello di Catanzaro, nonché presidente della Commissione provinciale tributaria. I magistrati documentano "una situazione di 'sofferenza bancaria' dovuta al mancato pagamento di alcuni finanziamenti, ed una quasi costante scopertura di conto corrente". Gli investigatori, "tenuto conto delle ripetute consegne di somme di denaro in contanti al Petrini, documentate nel corso delle indagini, hanno proceduto ad approfonditi accertamenti bancari e patrimoniali, finalizzati a ricostruire le disponibilità economiche in capo allo stesso Petrini". Dalle verifiche eseguite sui conti correnti bancari riconducibili a Petrini "emergeva -scrivono i giudici- una situazione di 'sofferenza bancaria' dovuta al mancato pagamento di alcuni finanziamenti, ed una quasi costante scopertura di conto corrente, coperta con versamenti di somme in contante che, nell'anno 2018, ammontavano ad euro 20.400,00; dato quest'ultimo che, da subito appariva anomalo, visto che il Petrini, pubblico dipendente, riceve i propri emolumenti unicamente attraverso bonifici". Insieme a Petrini sono stati  arrestati: Vincenzo Arcuri, Giuseppe Caligiuri, Luigi Falzetta, Emilio Santoro, Francesco Saraco e Giuseppe Tursi Prato) . L'avvocato Marzia Tassone è ai domiciliari e ci sono  altri 16 indagati. Tutti potranno replicare alle accuse nei successivi passaggi del procedimento. La difesa potra chiedere al Tribunale del Riesame l'annullamento dell'ordinanza cautelare. L'accusa per tutte le persone coinvolte nell'inchiesta é corruzione in atti giudiziari. Le indagini sono coordinate dal pm Vincenzo Senatore, dal procuratore aggiunto Luigi Alberto Cannavale e dal procuratore reggente Luca Masini. Sono in corso perquisizioni a Catanzaro e acquisizione di atti presso la Corte d'Appello della città calabrese.

Catanzaro, soldi e sesso in cambio di favori. Arrestato un magistrato. Il Corriere del Giorno il 15 Gennaio 2020. Marco Petrini è presidente della II sezione della Corte d’Assise d’appello di Catanzaro. Tra gli arrestati anche due avvocati: uno del foro di Catanzaro e un avvocato di Locri. “Perno” centrale dell’indagine, secondo gli inquirenti, un insospettabile medico in pensione “che stipendiava mensilmente” la toga. Mazzette da 500 euro e regali come cassette di pesce e champagne. Arrestato questa mattina dalla Guardia di Finanza di Crotone,  il magistrato della Corte di Appello di Catanzaro Marco Petrini ,  a seguito di ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Salerno. Le indagini sono coordinate dal pm Vincenzo Senatore, dal procuratore aggiunto Luigi Alberto Cannavale e dal procuratore reggente Luca Masini. Sono in corso perquisizioni a Catanzaro e acquisizione di atti presso la Corte d’Appello della città calabrese. Insieme a Petrini sono stati  arrestati: Vincenzo Arcuri, Giuseppe Caligiuri, Luigi Falzetta, Emilio Santoro, Francesco Saraco e Giuseppe Tursi Prato). L’avvocato Marzia Tassone è stato posto agli arresti domiciliari. Ci sono  altri 16 indagati. L’accusa per tutte le persone coinvolte nell’inchiesta é corruzione in atti giudiziari. Denaro, gioielli e sesso in cambio di favori nei processi, sono queste le accuse mosse nei confronti del magistrato. Otto gli indagati, sette tradotti in carcere ed uno posto ai domiciliari. Agli arresti è finito anche Marzia Tassoneun piacente avvocato del foro di Catanzaro, ,  mentre un altro avvocato Francesco Saraco del foro di Locri , è ai domiciliari. Coinvolti anche l’ex consigliere regionale Giuseppe Tursi Prato ed alcuni professionisti calabresi che vengono definiti “insospettabili” dagli inquirenti.  L’accusa principale è di corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante delle finalità mafiose solo in alcuni casi . Nell’ordinanza si legge anche di “gamberi, vacanze in resort e champagne” e di “16 prestazioni sessuali in cambio di sentenze“. L’indagine è partita nel 2018 e  sulla base della ricostruzione  degli inquirenti, si trattava di un vero e proprio sistema di corruzione che vedeva al centro il magistrato Petrini, destinatario di denaro, gioielli ma anche di prestazioni sessuali in cambio di favori processuali, per esempio le assoluzioni o le riduzioni di pena promesse o assicurate dallo stesso per vanificare gli effetti di una sentenza di condanna in primo grado. L’inchiesta riguarda anche i sequestri preventivi previsti dalla normativa antimafia, i processi tributari e quelli in sede civile. A muovere la sua azione, spiega il Gip nella sua ordinanza, la situazione di grave sofferenza economica del Petrini, il quale aveva sempre bisogno di continue nuove entrate per potere sostenere il proprio tenore di vita ritenuto spropositato.  Nell’abitazione del giudice durante il corso della perquisizione domiciliare sono stati trovati in una busta contanti per seimila euro. I magistrati documentano “una situazione di ‘sofferenza bancaria’ dovuta al mancato pagamento di alcuni finanziamenti, ed una quasi costante scopertura di conto corrente“. Gli investigatori, “tenuto conto delle ripetute consegne di somme di denaro in contanti al Petrini, documentate nel corso delle indagini, hanno proceduto ad approfonditi accertamenti bancari e patrimoniali, finalizzati a ricostruire le disponibilità economiche in capo allo stesso Petrini“. Dalle verifiche eseguite sui conti correnti bancari riconducibili a Petrini “emergeva – secondo quanto scrivono i giudici – una situazione di ‘sofferenza bancaria’ dovuta al mancato pagamento di alcuni finanziamenti, ed una quasi costante scopertura di conto corrente, coperta con versamenti di somme in contante che, nell’anno 2018, ammontavano ad euro 20.400,00; dato quest’ultimo che, da subito appariva anomalo, visto che il Petrini, pubblico dipendente, riceve i propri emolumenti unicamente attraverso bonifici“. Partecipe e presunto complice di questo “sistema” era un medico in pensione ed ex dirigente dell’Asl di Cosenza il quale secondo quanto emerso stipendiava il magistrato Petrini, che è anche presidente della Commissione provinciale tributaria, per godere dei favori processuali e trovava altre persone – imputati o parenti di imputati – disposti a corrompere il giudice. Il consigliere regionale Tursi Prato, invece, grazie ai “servigi” di Marco Pretini, avrebbe percepito il vitalizio che non gli spettava più in quanto era stato condannato nel 2004 a sei anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici, condanna questa che aveva comportato la decadenza del diritto all’assegno. Gli indagati nell’inchiesta della Dda di Salerno promettevano e consegnavano al magistrato, presidente di sezione della Corte d’Appello di Catanzaro nonché presidente della Commissione Provinciale Tributaria del capoluogo calabrese, in cambio del suo intervento “per ottenere, in processi penali, civili e in cause tributarie – riporta un comunicato – sentenze o comunque provvedimenti favorevoli a terze persone  concorrenti nel reato corruttivo. In taluni casi i provvedimenti favorevoli richiesti al magistrato e da quest’ultimo promessi e/o assicurati erano diretti a vanificare, mediante assoluzioni o consistenti riduzioni di pena, sentenze di condanna pronunciate in primo grado dai tribunali del distretto, provvedimenti di misure di prevenzione, già definite in primo grado o sequestri patrimoniali in applicazione della normativa antimafia, nonché sentenze in cause civili e accertamenti tributari”.

Sentenze e ricorsi pilotati, nuovo materiale per i magistrati che hanno ordinato l'arresto di Petrini. Lametino.it Giovedì, 16 Gennaio 2020.  Il lavoro degli inquirenti che ha portato ieri all'arresto del magistrato Marco Petrini e di altre sei persone - prosegue e nuovo materiale è a disposizione della procura di Salerno che sta conducendo l'inchiesta per presunti casi di corruzione in atti giudiziari. In concomitanza dell'esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare, infatti, sono eseguite una serie di perquisizione e di acquisizione di documenti negli uffici di Petrini, presidente di una sezione di Corte d'Appello a Catanzaro e alla guida della commissione tributaria provinciale. Questo materiale ora è nelle mani dei magistrati campani, che hanno il compito di verificare se e quali reati sono stati realizzati alla luce del quadro già fissato in questa prima tranche di inchiesta. Dall'ordinanza firmata dal gip di Salerno, infatti, emerge un preciso quadro accusatorio verso Petrini, sposato padre di due figli e residente a Lamezia, il quale - secondo i pm salernitani - avrebbe interferito in più procedimenti giudiziari in cambio di denaro, doni di svariata natura e anche prestazioni sessuali. Alcuni episodi chiave sono stati già individuati. Vi è il caso dell'ex consigliere regionale della Calabria, Giuseppe Tursi Prati, che avrebbe riottenuto il vitalizio nonostante una condanna definitiva nel 2004 a sei anni di reclusione con interdittiva perpetua dai pubblici uffici. Ma sotto la lente compaiono anche procedimenti per mafia come  il processo contro il clan Soriano di Filandari, nel Vibonese, finito fra le contestazioni mosse al magistrato della Corte d'Appello di Catanzaro ed all'avvocato Marzia Tassone di Davoli (Catanzaro) del foro di Catanzaro, alla quale sono stati applicati domiciliari. Secondo l'accusa della Dda di Salerno, giudice ed avvocato si sarebbero resi protagonisti di un episodio di concorso in corruzione in atti giudiziari in quanto il giudice Marco Petrini - presidente della Corte d'Appello nel processo "Ragno" contro il clan Soriano - non si sarebbe astenuto nel decidere sulla richiesta della Procura generale di Catanzaro di acquisire nel processo le dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso (rampollo dell'omonimo clan di Limbadi) contro il clan Soriano, pur essendo l'avvocato Marzia Tassone (legale di alcuni imputati) la sua "amante stabile". Nell'udienza del processo d'appello del 14 gennaio dello scorso anno, il giudice non ha ammesso il verbale del pentito ed in alcune occasioni avrebbe avuto rapporti sessuali - secondo la Guardia di finanza e la Dda di Salerno - con l'avvocato Tassone. Da qui l'accusa per entrambi di concorso in corruzione in atti giudiziari. Ed ancora, nella carte dell'ordinanza si parla dell’aiuto promesso dal giudice all’avvocato nel processo a carico di un imputato per duplice omicidio («Vabbè, ti aiuto»); si tratta del delitto avvenuto a Davoli superiore il 23 dicembre 2018 di Francesca Petrolini e del compagno Rocco Bava. L'avvocatessa difendeva l'imputato dell'omicidio e il magistrato è prodigo di consigli per l'udienza al Riesame. Vi è un altro caso segnalato dalla procura di Salerno e che vede protagonista Francesco Saraco, anche lui destinatario di un'ordinanza di custodia cautelare, il quale si attiva per il padre Antonio, coinvolto in un'operazione antimafia e già condannato in primo grado perché giudicato organico alle cosce del Basso Jonio. A Petrini sarebbe stato chiesto un aggiustamento della sentenza di Appello ma il tentativo non va in porto. Le "interferenze" del magistrato sarebbero spaziate dal penale al civile al tributario, fino a sponsorizzazioni per il superamento dell'esame di avvocato. Una tela molto ampia su cui ora dovranno indagare i magistrati salernitani per verificare eventuali e ulteriori filoni d'inchiesta.

Vi ricordate di Paola Galeone? Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo non è il solo mezzo di ritorsione. Da 20 anni impediscono al sottoscritto di abilitarsi all’avvocatura, in quanto i suoi elaborati al concorso forense non sono letti, e il Tar di Lecce proibisce la presentazione del ricorso contro i falsi giudizi. Per tutti questi fatti è stata coinvolta la Corte Europea dei Diritti Umani. Avvocati e magistrati del distretto della Corte d’Appello di Lecce (Taranto, Lecce e Brindisi) si sono coalizzati contro di me, avendo, unicamente io, in modo isolato, da presidente provinciale di una associazione di praticanti ed avvocati denunciato gli abusi e l’evasione fiscale e contributiva a danno dei praticanti e avendo mosso critiche mediatiche al sistema concorsuale di abilitazione forense, che tutti sanno essere truccato e che ha permesso ai commissari d’esame di diventare avvocati. La contestazione si è concretizzata in denunce penali contro i commissari d’esame, tra i quali tutti i magistrati e gli avvocati più noti del distretto. Un dato di fatto è che l’avv. Antonio De Giorgi, già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce e presidente di Commissione d’esame di Lecce, da me denunciato, è diventato ispettore ministeriale e Presidente della Commissione centrale ministeriale del concorso forense, pur essendoci eccezioni d’incompatibilità ai sensi della riforma, che inibisce la presenza in commissione d’esame dei consiglieri dell’Ordine. I magistrati di Taranto, inoltre per inibire ogni reazione a chi non è conforme al sistema giudiziario, mi hanno denunciato per diffamazione a mezzo stampa presso la procura di Potenza perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore di Taranto, Alessio Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione di una mia denuncia. Richiesta poi accolta e denuncia archiviata. Le motivazioni rilevavano che per il PM era normale che l’ufficio protocollo del comune di Manduria non rilasciasse ricevuta, come era normale che a vincere il concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria, fosse un avvocato di Manduria che, con nomina dei politici locali di turno, aveva indetto e regolato la procedura concorsuale come responsabile pro tempore dell’ufficio del personale. Da tener conto che in graduatoria il vincitore precedeva il sottoscritto. Ciò è dovuto anche al fatto che il sottoscritto ha presentato denunce, rimaste lettera morta, contro quella parte politica quando era al potere, sia ad Avetrana con sindaco Luigi Conte, sia a Manduria con sindaco Gregorio Pecoraro, e contro gli avvocati che beneficiavano degli incarichi e contro le forze dell’ordine e i magistrati che ne hanno coperto gli abusi. Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di Brindisi. Successivamente all’incarico di comandante dei vigili urbani l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi.

Cosenza, l’imprenditrice  che ha denunciato la prefetta: «Sto con lo Stato». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it. «Non avrei potuto fare diversamente. Da tempo sono impegnata nel sociale e spesso mi è capitato di pronunciare frasi del tipo: “In questa terra dobbiamo scegliere da che parte stare subito!”. Ecco, questa volta, ho capito che toccava a me». È quanto afferma in un’intervista alla Gazzetta del Sud Cinzia Falcone, 46 anni, l’imprenditrice dalla cui denuncia è scaturito l’arresto del prefetto di Cosenza Paola Galeone posta ai domiciliari per il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità. «Passare dalle parole ai fatti — aggiunge Falcone — non è semplice soprattutto quando ci si trova davanti ad un prefetto della Repubblica. Il giorno prima, però, avevo ascoltato l’intervista al procuratore Gratteri in cui invitava i calabresi a ribellarsi e questo ha determinato in me ulteriormente la volontà di dissentire e dire no a una ingiusta richiesta». L’imprenditrice parla dei rapporti con il prefetto e dell’imbarazzo provato davanti alla proposta: «Ho poi pensato che si trattava solo di una persona non dello Stato». «Ho conosciuto il prefetto Galeone — prosegue l’imprenditrice cosentina — quando si è insediata. Poi, in occasione della “Giornata internazionale sulla violenza contro le donne” mi è stato proposto, visto l’impegno nel settore con la mia associazione Animed, di collaborare alla realizzazione di un evento occupandomi di contattare le scuole e di moderare la manifestazione. Cosa che ho fatto senza compenso alcuno. Ero fiera che la Prefettura, dunque lo Stato, ci avesse coinvolti in questo incontro». «Non ho realizzato subito — aggiunge ancora Cinzia Falcone nell’intervista — che mi si stava facendo una proposta illegale. Eravamo nel Palazzo di Governo, ho impiegato qualche ora per realizzare che non era un’errata deduzione. Fino a quel momento avevo sempre ammirato e nutrito stima per la dottoressa Galeone. Ma il confronto con la mia famiglia mi ha aiutato, invece, a capire la gravità di quanto mi era stato proposto. E non ho esitato a denunciare. Sono consapevole che esistono poteri forti ma sono consapevole anche che esiste uno Stato forte. Io ho scelto di stare dalla parte dello Stato».

Paola Galeone, il prefetto di Cosenza, indagata per corruzione. Pubblicato martedì, 31 dicembre 2019 su Corriere.it da Carlo Macrì. Denunciata da un’imprenditrice. La trappola della polizia. La consegna della busta con i soldi avvenuta in un bar. Settecento euro. È la mazzetta intascata dal prefetto di Cosenza Paola Galeone, 58 anni, indagata per corruzione dalla procura di Cosenza. La rappresentante del Governo è stata denunciata da una imprenditrice del luogo alla quale la Galeone aveva chiesto di emettere una fattura di 1220 euro per intascare parte del fondo di rappresentanza nella disponibilità dei prefetti. Settecento sarebbero andati al prefetto, 500 all’imprenditrice. La quale basita dalla richiesta, durante un incontro in Prefettura, ha deciso di sporgere denuncia alla polizia di Stato. La questura di Cosenza ha chiesto all’imprenditrice di assecondare la richiesta della Galeone che aveva anche indicato il bar dopo sarebbe dovuto avvenire lo scambio. Soldi, in cambio della fattura fittizia. La polizia ha studiato nei dettagli come incastrare il prefetto, fornendo all’imprenditrice l’attrezzatura ad alta tecnologia necessaria per registrare e filmare il colloquio e l’avvenuto scambio del denaro. In più, le banconote sono state fotocopiate. A scambio avvenuto mentre il prefetto di Cosenza, stava per lasciare il bar, è stata bloccata dalla polizia che le ha perquisito la borsa trovando le banconote fotocopiate, appena intascate. La notizia pubblicata da Gazzetta del Sud ha avuto l’effetto di un terremoto. Bocche cucite in procura. L’indagine potrebbe portare a nuovi sviluppi. Il fatto risalirebbe a prima di Natale e da quel giorno, la macchina investigativa si è messa in moto e l’indagine potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. Non solo per la figura del prefetto il cui studio è stato perquisito dagli uomini della squadra mobile di Cosenza. Paola Galeone è entrata nell’Amministrazione civile nel dicembre del 1987 ed assegnata come primo incarico alla prefettura di Taranto. È stata anche prefetto di Benevento e, ancor prima, vice commissario del Governo nel Friuli Venezia Giulia. La polizia ha informato della vicenda il capo della Polizia Franco Gabrielli e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Il caso di corruzione del prefetto di Cosenza non è altro che l’ultimo episodio che vede protagonisti in Calabria le istituzioni. Nei giorni scorsi all’interno della magistratura calabrese si è acuito lo scontro tra il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Lupacchini ha accusato Gratteri di non essere stato informato dell’inchiesta «Rinascita-Scott» che ha portato in carcere più di 300 persone e, non gli sono piaciute le esternazioni del capo della procura che aveva detto: «Rivolterò la Calabria come un lego». Inoltre, Lupacchini, aveva criticato l’operato di Gratteri, delegittimandolo con l’allusivo riferimento: «... a ciò che generalmente accade e cioè l’evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della procura distrettuale di Catanzaro».

Cosenza, prefetto Paola Galeone indagata per corruzione. Avrebbe incassato 700 euro da un'imprenditrice che ha denunciato il fatto alla polizia. La Repubblica il 31 dicembre 2019. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, é indagata per corruzione. Nel dare la notizia la Gazzetta del Sud precisa che avrebbe intascato una mazzetta da 700 euro da un'imprenditrice che l'ha denunciata alla polizia. Secondo la ricostruzione del quotidiano, Galeone avrebbe proposto all'imprenditrice di emettere una fattura fittizia per 1.220 euro con l'obiettivo di intascare la parte del fondo di rappresentanza accordato ai singoli prefetti che era rimasta disponibile alla fine dell'anno. Settecento euro sarebbero andati al prefetto e 500 all'imprenditrice come regalo per la disponibilità mostrata. Le fasi della consegna del denaro, avvenuta in un bar di Cosenza, sarebbero state documentate dalla squadra mobile a cui l'imprenditrice si era rivolta e che ha registrato la conversazione. Galeone è prefetto della città calabrese dal 23 luglio 2018. In precedenza aveva svolto la stesa funzione a Benevento. Assunta nell'amministrazione civile del ministero dell'Interno nel dicembre del 1987, era stata assegnata come prima sede alla prefettura di Taranto, dove aveva ricoperto vari ruoli.

Mazzetta di 700 euro, indagato il prefetto di Cosenza. Paola Galeone è accusata di corruzione. Avrebbe chiesto una fattura falsa a  un'imprenditrice per ottenere il fondo di rappresentanza. Pietro Bellantoni, Martedì 31/12/2019, su Il Giornale. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, finisce sul registro degli indagati per corruzione. Secondo quanto riporta oggi la Gazzetta del Sud, la delegata del governo avrebbe intascato una mazzetta di 700 euro da una imprenditrice. La denuncia sarebbe partita proprio dalla vittima. Galeone avrebbe infatti proposto alla titolare di un bar di emettere una fattura fittizia di 1.220 euro per ottenere una parte del fondo di rappresentanza, rimasto disponibile a fine anno, riconosciuto ai prefetti. Di quella fattura, 700 euro sarebbero rimasti al prefetto di Cosenza, mentre gli altri 500 restituiti all'imprenditrice come una sorta di ricompensa per la disponibilità dimostrata. Galeone, come spiega la Gazzetta del Sud, avrebbe proposto l'accordo corruttivo all'interno delle Prefettura. Una proposta di fronte alla quale l'imprenditrice sarebbe rimasta “basita”, anche perché il piano prevedeva che la consegna dei soldi avvenisse in un luogo pubblico. La donna avrebbe allora deciso di confidare tutto ai suoi familiari e poi alla polizia di Cosenza. Una volta fissato l'incontro nel bar scelto dal prefetto, l'imprenditrice si è quindi presentata con dei soldi falsi inseriti in una busta e ha poi videoregistrato tutta la conversazione. Galeone è alla guida dell'Utg di Cosenza dal luglio del 2018. Aveva ricoperto lo stesso incarico anche a Benevento (2014-2018). È stata inoltre vice commissario del governo in Friuli Venezia Giulia e vicario del prefetto sia a Cosenza che a Campobasso.

Corruzione, indagata la prefetto Paola Galeone. Il fatto risalirebbe a prima di Natale e da quel giorno, la macchina investigativa si è messa in moto e l’indagine potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. La Voce di Manduria martedì 31 dicembre 2019. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone (più volte commissario prefettizio del comune di Manduria), è indagata con l’accusa di aver intascato 700 euro che aveva richiesto ad una imprenditrice. Lo riporta il quotidiano La Gazzetta del Sud che racconta i particolari dell’inchiesta nata da una denuncia presentata in polizia da una imprenditrice del posto. La donna sarebbe stata invitata dalla prefetto ad emettere una fattura fittizia per 1220 euro con l'obiettivo di intascare la parte del fondo di rappresentanza accordato ai singoli prefetti rimasta ancora disponibile alla fine dell'anno. Settecento euro sarebbero andati alla Galeone e 500 all'imprenditrice – questo il piano – come regalo per la disponibilità mostrata. Di fronte alla singolare proposta ricevuta peraltro nell'ufficio del Palazzo di Governo, l'imprenditrice ha deciso di raccontare tutto alle forze dell’ordine che hanno organizzato la trappola. Gli investigatori hanno fornito l’attrezzatura necessaria all’imprenditrice che ha filmato lo scambio del denaro avvenuto in un bar di Cosenza. La prefetto Galeone stava per lasciare il locale quando è stata bloccata dalla polizia che le ha perquisito la borsa trovando le banconote fotocopiate appena intascate. Il fatto risalirebbe a prima di Natale e da quel giorno, la macchina investigativa si è messa in moto e l’indagine potrebbe portare a nuovi e clamorosi sviluppi. Non solo per la figura del prefetto il cui studio è stato perquisito dagli uomini della squadra mobile di Cosenza. Paola Galeone è entrata nell’Amministrazione civile nel dicembre del 1987 ed assegnata come primo incarico alla prefettura di Taranto. È stata anche prefetto di Benevento e, ancor prima, vice commissario del Governo nel Friuli Venezia Giulia. Più volte ha amministrato il comun di Manduria in occasione delle frequenti dimissioni anticipati del sindaco per la perdita della maggioranza. La polizia ha informato della vicenda il capo della Polizia Franco Gabrielli e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese.

Cosenza, ai domiciliari il prefetto Paola Galeone: mazzetta da 700 euro. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 su Corriere.it da Carlo Macrì. L’alta dirigente arrestata dopo la denuncia di un’imprenditrice . Incastrata da banconote marchiate. Il prefetto di Cosenza Paola Galeone, che era stata indagata nei giorni scorsi, è stata arrestata e posta ai domiciliari, nella sua casa di Taranto. L’accusa formulata dalla procura di Cosenza è di «induzione indebita a dare o promettere utilità». A mettere nei guai il prefetto è stata la denuncia di una imprenditrice, Cinzia Falcone. La donna ha raccontato che l’alto dirigente dello Stato le aveva proposto di fornirle una fattura falsa da 1220, in modo poi da spartirsela: 700 al prefetto stesso e 500 all’imprenditrice. Dei 700, il prefetto se ne è infilati 600 in borsa; mentre alti 100 glieli ha lasciati all’imprenditrice, dicendole: «Con questi comprati i biscotti». La Falcone, però, era stata «istruita» dai poliziotti: e i soldi consegnati al prefetto erano fotocopiati e marchiati. Inoltre all’incontro, avvenuto in un bar di fronte alla Prefettura, si è presentata munita di microfono e mini telecamera. Le fasi della consegna del danaro sono state registrate e così, all’uscita del bar il prefetto è stato accompagnato in questura. La Polizia nella borsa le ha trovato la cifra appena riscossa dall’imprenditrice. Nei giorni scorsi è stato perquisito anche lo studio del prefetto, e sequestrato anche il suo cellulare. Gli inquirenti hanno potuto così verificare i passaggi precedenti la proposta corruttiva avanzata dal prefetto all’imprenditrice. Le due donne si erano incontrare il 23 dicembre scorso in Prefettura a Cosenza. Paola Galeone, quel giorno, aveva consegnato all’imprenditrice un attestato di benemerenza per l’intensa attività svolta in difesa delle donne. Dopo aver ricevuto l’attestato Cinzia Falcone stava per andare via, ma è stata trattenuta dal prefetto. Quando le due donne si sono trovare a tu per tu — ha raccontato la Falcone — il prefetto le ha fatto la proposta corruttiva. Cinzia Falcone sorpresa per quella richiesta, dopo aver lasciato la prefettura si è recata in Questura e ha denunciato il prefetto. I poliziotti hanno quindi messo a punto la strategia per incastrarla. Cinzia Falcone il 26 dicembre scrive un messaggio al prefetto: «Buongiorno, quando vuoi per quel caffè». La risposta di Paola Galeone è immediata. «Ok, hai tutta la mia stima. Vedrai insieme faremo grandi cose».

Induzione alla corruzione, arrestato il prefetto di Cosenza. Paola Galeone finisce ai domiciliari con l'accusa di aver intascato una mazzetta di 700 euro. La denuncia è partita da una imprenditrice. La Lega: "Sconcertante il silenzio del Viminale". Pietro Bellantoni, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. Il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, è stata arrestata questa mattina dalla squadra mobile, su richiesta della Procura diretta da Mario Spagnuolo. La rappresentante del governo è agli arresti domiciliari a Taranto, la città dove risiede. È accusata del reato di induzione indebita a dare o promettere utilità. Galeone è finita nel registro degli indagati per aver intascato una mazzetta di 700 euro. A denunciarla è stata l'imprenditrice Cinzia Falcone, a cui il prefetto avrebbe chiesto una fattura fittizia di 1.220 euro, che sarebbe servita a ottenere una parte del fondo di rappresentanza riconosciuto ai prefetti e rimasto ancora disponibile a fine 2019. Di quella fattura, 700 euro sarebbero rimasti a Galeone, gli altri all'imprenditrice come 'ricompensa' per il servigio offerto. Il prefetto, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbe proposto l'accordo illecito proprio all'interno del palazzo del governo. L'imprenditrice, però, ha poi confidato tutto ai suoi familiari e alla polizia. Una volta fissato l'incontro nel bar scelto dal prefetto, Falcone si è presentata con soldi falsi inseriti in una busta e ha videoregistrato tutta la conversazione. Lo scambio – secondo quanto riportato dalla Gazzetta del Sud – sarebbe stato programmato attraverso diversi messaggi whatsapp. Dopo aver ricevuto la comunicazione dell'avvenuta emissione della fattura falsa, Galeone avrebbe risposto così: "Hai tutta la mia stima. Vedrai insieme faremo grandi cose". Il giorno prima, invece, il prefetto avrebbe spiegato all'imprenditrice che era meglio che la fattura fosse di 1.220 euro, in modo che non apparisse uguale alla somma residua rimasta nel fondo. L'inchiesta non sarebbe ancora chiusa. Gli agenti della Mobile di Cosenza stanno infatti esaminando diversi altri atti relativi ai rimborsi spese nei quali compare il nome di Galeone. Al vaglio altri documenti contabili ritenuti degni di approfondimento investigativo. Galeone, il giorno prima che la notizia dell'inchiesta divenisse pubblica, si era messa in aspettativa e aveva lasciato la sede di Cosenza. Ora sarà il Consiglio dei ministri a revocarle l'incarico in modo definitivo e a nominare un nuovo prefetto. L'imprenditrice che ha inguaiato Galeone, tra l'altro, è presidente di Animed, un'associazione attraverso la quale è da anni impegnata in eventi di solidarietà a favore delle donne. Proprio in questa veste, lo scorso 30 novembre, la donna era salita sul palco del teatro Rendano di Cosenza accanto al prefetto, nell'ambito di una iniziativa organizzata dall'Ufficio del governo. Nessuna reazione da parte della politica, eccezion fatta per la Lega che, per mezzo del commissario del Carroccio in Calabria, Cristian Invernizzi, chiama in causa il Viminale: "Sconcerta il silenzio del ministero dell'Interno: i cittadini di Cosenza e della Calabria meritano trasparenza ed efficienza". 

Il prefetto di Cosenza Paola Galeone agli arresti domiciliari per una mazzetta da 700 euro. Il ministro Lamorgese la sospende. Il gip ha accolto la richiesta della procura. Il tentativo di concussione è stato denunciato da un'imprenditrice a cui aveva chiesto una fattura falsa. Alessia Candito il 2 gennaio 2020 su La Repubblica. Inizia male l’anno per il prefetto di Cosenza, Paola Galeone, agli arresti domiciliari nella sua casa di Taranto dopo essere stata scoperta mentre intascava una mazzetta da 700 euro. Così ha deciso il gip di Cosenza, accogliendo la richiesta avanzata dalla procura diretta da Mario Spagnuolo che al prefetto ha contestato il reato di “induzione indebita a dare o promettere utilità”. Il provvedimento è arrivato al termine di un’indagine rapidissima della Squadra Mobile di Cosenza, diretta da Fabio Catalano, partita dalla denuncia dell’imprenditrice che Galeone ha tentato di rendere complice. E nel pomeriggio è arrivata la sospensione dal servzio decisa dalla ministra dell'Interno Lamorgese. Obiettivo, fare la cresta sulle spese di rappresentanza che il Viminale autorizza ai suoi rappresentanti territoriali con uno specifico fondo. A Cosenza erano rimasti circa un migliaio di euro, che la prefettura avrebbe dovuto restituire al ministero dell’Interno e Galeone ha deciso di incassare personalmente. Per questo ha proposto all’imprenditrice Cinzia Falcone, titolare di una scuola di inglese, referente di un centro di accoglienza per migranti e presidente dell'associazione Animed, di emettere una fattura falsa per spese inesistenti. Galeone ha indicato anche la cifra, 1.220 euro, poco di più di quanto rimasto nel fondo a disposizione della prefettura, “per non destare sospetti”. Ma Falcone ha solo finto di accettare la sua proposta e il 23 dicembre si è presentata in Questura per denunciare tutto. Subito sono partite le indagini. Le utenze del prefetto sono finite sotto controllo, mentre gli investigatori della Mobile organizzavano insieme all’imprenditrice lo scambio in modo da poter documentare tutto. Con un messaggio concordato con gli agenti, Falcone ha fatto sapere al prefetto di aver predisposto la fattura, ottenendo quella che per inquirenti e investigatori è non solo una prova schiacciante, ma anche un allarmante spunto d’indagine “Hai tutta la mia stima – le ha risposto il prefetto – Vedrai, insieme faremo grandi cose”. Per la consegna del denaro, l’appuntamento è stato fissato in un bar del centro città. Ma nella busta destinata a Galeone sono finite solo fotocopie di banconote e l’imprenditrice si è presentata all’appuntamento concordato con un microfono addosso. L’intera conversazione è stata registrata, mentre le telecamere piazzate dalla Mobile registravano ogni momento dello scambio. Il tutto è durato non più di qualche minuto, poi Galeone è uscita dal bar. Ma a sbarrarle il passo ha trovato gli investigatori, che nella borsa della donna hanno trovato la busta con le finte banconote. L’ultimo tassello che serviva alla procura per procedere con la richiesta di arresti domiciliari, eseguita questa mattina. Nel frattempo però le indagini continuano. Il sospetto è che non si sia trattato di un singolo episodio e che anche altri imprenditori abbiano nel tempo ricevuto (e accettato) la medesima richiesta. Per questo motivo, adesso si stanno passando al setaccio tutte le spese vincolate al fondo di rappresentanza o personalmente autorizzate dal prefetto Galeone. In aspettativa dal giorno del blitz, in tempi strettissimi dovrebbe essere ufficialmente rimossa dall’incarico e sostituita già in occasione del primo Consiglio dei ministri.

L. Musolino e G. Trinchella  per ilfattoquotidiano.it il 2 gennaio 2020. “Cinzia, tu hai sostenuto dei costi… Io ho un fondo di rappresentanza in cui residuano 1200 euro… Ho pensato che se tu mi fai una fattura da 1200 euro, 500 te li tieni tu e la differenza la giri a me…”. È il 23 dicembre quando Cinzia Falcone, presidente della associazione dell’Associazione nazionale interculturale mediterranea (Animed), viene avvicinata dalla prefetta di Cosenza Paola Galeone che ha appena allontanato tre funzionari di polizia. La Falcone riceve la stranissima proposta che oggi ha portato agli arresti domiciliari la funzionaria che era stata iscritta nel registro degli indagati per induzione a dare utilità. Siamo nella sede della prefettura e la Galeone istruisce la donna su come compilare la fattura e di prepararla per il giorno dopo, in modo da essere evasa tra il 28 e il 29 dicembre. Prima dei saluti la prefetta però dice alla presidente che esistono problemi nei documenti ha presentato per partecipare a una gara per l’affidamento dei servizi di gestione dei centri collettivi di accoglienza “alludendo alla inutilità di ricorsi amministrativi e lungaggini” possibili. La contropartita appare all’improvviso. La mazzetta, è l’ipotesi della procura, deve avere quindi la “forma” di una fattura da 1220 euro. La giustificazione è presto fatta: ovvero le presunte spese di organizzazione di un convegno sulla violenza di genere co-organizzato da Falcone e dalla prefettura di Cosenza che si è tenuto il 29 novembre 2019 al teatro Rendano. Questo perché, a dire della Galeone, l’operazione è possibile perché erano avanzati soldi in bilancio sul fondo di rappresentanza che è inutile restituire al ministero dell’Interno “non avendo – si legge nell’ordinanza firmata dal giudice per le indagini preliminari Letizia Benigno – lo Stato rimborsato a lei dei soldi per una parabola satellitare comprata personalmente dal suo fidanzato”. La Falcone però esce dalla prefettura e va diretta in Questura a denunciare tutto. Ed è così che che è scattata la “trappola”: la consegna di denaro è stata registrata dagli investigatori. La presidente Animed racconta agli investigatori di avere crediti per 300mila euro per fatture emesse per il Centro di accoglienza straordinario di Camigliatello e teme che la prefetta possa in qualche modo ostacolare il rimborso. Quindi d’accordo con gli inquirenti Falcone invia la fattura e il messaggio con la parola “ok” come concordato alla Galeone. Il messaggio di risposta è: “Io ti stimo tanto e faremo tanta strada insieme”. Quindi l’incontro in un bar vicino alla prefettura e la consegna del denaro in banconote da 50 euro, in una busta rosa, fotocopiate dalla polizia giudiziaria. La prefetta, ricevuta la busta, insiste per dare alla donna 100 euro, dicendole “comprati i biscotti… stai calma, respira”. All’uscita dal bar ci sono i poliziotti. Le indagini hanno poi permesso di verificare che l’associazione sarebbe stata esclusa dalla gara per mancanza di requisiti e che la prefetta ne era perfettamente a conoscenza. Per il giudice “si coglie tra le righe della condotta una tendenza alla commistione tra il denaro proprio e il denaro di pertinenza della prefettura e più in generale della pubblica amministrazione, una versatilità nella gestione e precostituzione di titoli di spesa una inopportuna tendenza alla diretta ingerenza“. Ma non solo: “L’aver suggerito alla Falcone l’escamotage per utilizzare i fondi residui di bilancio, l’aver palesato la sconvenienza di un ri-trasferimento allo Stato… l’aver ipotizzato come alternativa di spesa l’utilizzo di fatture di un qualche ristorante, l’aver cercato di vincere le resistenze e gli imbarazzi della Falcone… sono comportamenti che palesano una dimistichezza di condotta gestoria che si traduce, a sua volta, in capacità di reiterazione di analoghi reati“. Per il giudice, anche se l’indagata ha chiesto di essere interrogata, questo non esclude il rischio di inquinamento probatorio.

Arrestata per corruzione la tarantina Paola Galeone, prefetto di Cosenza. Il Corriere del Giorno il 2 Gennaio 2020. Un fine anno drammatico per la reputazione delle istituzioni. La Galeone ha preso una aspettativa e non è già più in sede a Cosenza; secondo quanto si apprende da fonti del Viminale nel prossimo Consiglio dei ministri verrà nominato il nuovo prefetto. È stata arrestata, tre giorni dopo essere stata indagata, Paola Galeone, 58 anni, prefetto di Cosenza, accusata del reato di cui all’art. 319 quater del Codice penale “Induzione indebita a dare o promettere utilita’“. Oggi l’arresto ai domiciliari, a Taranto, dove la Galeone risiede, a seguito dell’ordinanza emessa dal Gip Letizia Benigno di Cosenza su richiesta del pm Giuseppe Visconti della Procura della Repubblica guidata da Mario Spagnuolo. Nei giorni della più complessa iniziativa giudiziaria proprio in Calabria contro la criminalità organizzata il cui merito va al procuratore Gratteri,  nel quadro di una discussione in cui accanto alla tradizionale valutazione sulla società malata si comincia  ad affiancare la valutazione sulle istituzioni parimenti malate e complici nella trasformazione della ‘ndrangheta, ebbene un rappresentante dello Stato nel cuore di quella regione avrebbe architettato una “truffa” per 700 euro! In una la corrispondenza di Carlo Macrì dalla Calabria pubblicato in rete alle 14.42 dal Corriere della Sera si è appreso che la Polizia di Cosenza , che dipende dal Questore il quale a sua volta dipende gerarchicamente dal prefetto,  ha tratto in stato di fermo niente meno che il Prefetto di Cosenza, Paola Galeone. fermata nel pieno centro della città calabrese. Il Prefetto di Cosenza, Paola Galeone, tarantina, 58 anni, é stata assunta nel dicembre del 1987  nell’amministrazione civile del Ministero dell’ Interno ed assegnata, come prima sede, alla Prefettura di Taranto, dove ha svolto vari ruoli. Dal 23 luglio del 2018 è prefetto di Cosenza. Due lauree, percorso di carriera non fantasmagorico ma più che dignitoso , salvo una funzione di Vice Commissario alla Regione Friuli, tutta in sedi meridionali, Taranto, Cosenza, Campobasso, Benevento, ancora Cosenza, devota a Padre Pio e cattolica insignita della onorificenza di Dama dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme ed anche anche di quella di Commendatore della Repubblica, ha letteralmente distrutto questo rispettabile percorso istituzionale al servizio dello Stato, attuato nell’impegno delle donne di riuscire in carriere difficili , un percorso in virtù del quale l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese , donna, viene dalla carriera prefettizia, per intascare illecitamente appena 700 euro. Non si tratta di una svista amministrativo o di una nota spesa fuori misura. La Galeone dopo per essersi accorta verso fine anno che i 1220 euro assegnati al suo ruolo di Prefetto come “spese di rappresentanza“, erano rimasti inutilizzati, avrebbero potuto essere intascati almeno in parte ove un imprenditore (nel caso in questione un’imprenditrice) avesse presentato una fattura fittizia da lei stessa legittimata. La scelta è caduta sull’imprenditrice Cinzia Falcone presidente di un’associazione per i diritti delle donne, Animed, e referente di un centro di accoglienza per migranti a Camigliatello Silano che, rimasta incredula per la proposta di dividere quella somma (700 al prefetto, 500 all’imprenditrice), ha deciso di sporgere denuncia alla Polizia di Stato. La polizia ha così deciso di agire. Così scrive  la corrispondenza del Corriere della Sera :  “La Polizia ha chiesto all’imprenditrice di assecondare la richiesta della Galeone che aveva anche indicato il bar dopo sarebbe dovuto avvenire lo scambio. Soldi, in cambio della fattura fittizia. La Polizia ha studiato nei dettagli come incastrare il Prefetto, fornendo all’imprenditrice l’attrezzatura ad alta tecnologia necessaria per registrare e filmare il colloquio e l’avvenuto scambio del denaro. In più, le banconote sono state fotocopiate. A scambio avvenuto mentre il Prefetto di Cosenza, stava per lasciare il bar, è stata bloccata dalla Polizia che le ha perquisito la borsa trovando le banconote fotocopiate, appena intascate”. L’incontro corruttivo è avvenuto nel giorno di Santo Stefano. Il Prefetto ha intascato la busta prendendo cento euro dal proprio portafoglio per darli alla Falcone che si oppone, ma quell’altra ha deciso di fare metà e metà e non arretra: glieli ficca con la forza nello zainetto, la saluta e va via. “Eccellenza, il procuratore vorrebbe parlare con lei”. Con queste parole e modi eleganti gli agenti della Squadra Mobile della Questura di Cosenza l’hanno fermano all’uscita da un bar cittadino, comportandosi con tatto e discrezione. “Ma può venire lui nel mio ufficio” ha risposto la Galeone ignara che qualche attimo prima, quegli stessi agenti hanno documentato un presunto episodio di corruzione  con lei, il prefetto di Cosenza, “protagonista” in negativo. Le indagini sono state condotte dalla Mobile di Cosenza, diretta da Fabio Catalano investigatore recentemente promosso per meriti speciali, dopo aver lavorato negli anni scorsi  in Calabria e Sicilia. A coordinare tutto il questore Giovanna Petrocca, la “superpoliziotta” che ha condotto le indagini a Roma sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, che è anche la prima donna a ricoprire l’incarico di Questore a Cosenza. Indagata anche l’imprenditrice Cinzia Falcone che nelle scorse ore per quanto accaduto è stata interrogata dal pm Domenico Frascino in presenza dell’avvocato Aldo Cribari suo difensore di fiducia. L’interrogatorio si è trattato di un atto dovuto, una pura  formalità in quanto grazie al suo ruolo decisivo in questa vicenda, la sua posizione, una volta ottenute le conferme del caso, è destinata ad essere stralciato... Una vicenda scandalosa e dolorosa quella del prefetto Paola Galeone, indagata per corruzione, che riporta in priorità di agenda il tema della riforma più incompiuta della storia repubblicana, quella dello Stato e della Pubblica Amministrazione.  La Galeone ha preso una aspettativa e non è già più in sede a Cosenza; secondo quanto si apprende da fonti del Ministero dell’ Interno,  nel prossimo Consiglio dei ministri verrà nominato il nuovo prefetto.

Chi è Paola Galeone, il prefetto di Cosenza è stata arrestata per una fattura fittizia. Agi-Metro news il 02/01/2020. È stata arrestata questa mattina Paola Galeone, 58 anni, prefetto di Cosenza, accusata del reato di cui all'art. 319 quater del Codice penale "Induzione indebita a dare o promettere utilità". La Galeone è stata denunciata, nei giorni scorsi, da un'imprenditrice di Cosenza, Cinzia Falcone, che era stata contattata perché emettesse una fattura fittizia di 1.220 euro. La fattura sarebbe servita a giustificare l'utilizzo di alcuni fondi che erano rimasti a disposizione del Prefetto e che poi sarebbero stati spartiti tra il Prefetto stesso e l'imprenditrice. Ma questa si è rivolta alla polizia e l'incontro è stato filmato. Paola Galeone è stata poi fermata, all'uscita del bar dove si è svolto l'incontro, e portata in Procura per chiarimenti. Il prefetto è stato subito posto in aspettativa. Oggi l'arresto ai domiciliari, a Taranto, dove Galeone risiede.  Laureata in Giurisprudenza ed in Scienze politiche all'Università degli Studi di Bari, è entrata nell'amministrazione civile dell'Interno nel dicembre 1987 ed è stata assegnata alla Prefettura di Taranto, dove ha ricoperto diversi incarichi, tra cui, per undici anni, quello di Capo di Gabinetto, Responsabile Ufficio Stampa e Ufficio Pubbliche Relazioni, Funzionario alla Sicurezza, Coordinatore dell'Ufficio Affari Sociali nonché Dirigente dell'Ufficio N.O.T. Trasferita il 31 marzo 2008 a Cosenza con l'incarico di Vicario del Prefetto, dal 31 marzo 2008 al 26 luglio 2009 ha ricoperto l'incarico di Dirigente reggente dell'Area ordine e sicurezza pubblica e dal 29 luglio 2010 quello di reggente del raccordo con gli Enti locali e consultazioni elettorali. Assegnata dal 6 settembre 2010 alla Prefettura di Campobasso, ha disimpegnato le funzioni di Viceprefetto Vicario fino al 29 dicembre 2013, ricoprendo anche l'incarico di Dirigente reggente dell'area diritti civili, immigrazione e diritto d'asilo e dell'amministrazione,  e attività contrattuali. Il 17 dicembre 2013 il Consiglio dei Ministri l'ha nominata Prefetto con incarico di Vice Commissario del Governo nella Regione Friuli Venezia Giulia. È stata prefetto di Benevento dall'8 maggio 2014 al 22 luglio 2018 e dal 23 luglio 2018 era stata assegnata alla Prefettura  di Cosenza. È stata commissario straordinario nei Comuni di Crispiano, Statte, Fragagnano, Manduria, Castellaneta, Corigliano Calabro e Cerzeto e per la gestione provvisoria dei Comuni di Platì e di San Ferdinando , in provincia di Reggio Calabria, di Casapesenna, in provincia di Caserta, sciolti per ingerenze della criminalità organizzata . Nel suo curriculum compaiono l'abilitazione all'esercizio della professione forense e all'insegnamento, l'iscrizione all'albo dei giornalisti della regione Puglia e diversi diplomi, master e cosi anche a Bruxelles e Budapest e due onorificenze: Commendatore dell'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana" e di Dama dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme .  

Cosenza e i suoi (ultimi) prefetti: uno peggio dell’altro. Chi è Paola Galeone. Da Iacchite il 31 Dicembre 2019. Dopo cinque anni, Gianfranco Tomao, prefetto noto per il suo pacchiano parrucchino, tutt’altro che irreprensibile e costantemente nel codazzo degli amici di Occhiuto, in perfetta continuità con il suo predecessore Raffaele Cannizzaro (quello dell’interdittiva antimafia alle cooperative che non facevano parte del clan di Occhiuto...), aveva lasciato la città dei Bruzi. Al suo posto, nell’estate del 2018, era arrivata Paola Galeone, che aveva già lavorato a Cosenza come viceprefetto dal 2008 al 2010 ed era stata anche commissario prefettizio a Corigliano e Cerzeto. Vicario del prefetto anche a Campobasso fino al 2013, quando era arrivata la nomina a prefetto e l’incarico di vice commissario di governo nella Regione Friuli Venezia Giulia. Infine, nel maggio del 2014, l’arrivo nel capoluogo sannita e quattro anni dopo la nuova nomina a Cosenza. Alla luce dei fatti e dell’incredibile storia della “mazzetta” presa da una imprenditrice – che giustamente l’ha sputtanata e denunciata – possiamo tranquillamente affermare che Paola Galeone è stata l’ideale continuazione del malaffare dei suoi predecessori, che almeno non erano così “sfacciati”… 

IL CURRICULUM DI PAOLA GALEONE. “Paola Galeone 58 anni, di Taranto, laureata in giurisprudenza e scienze politiche, tra i vari titoli ha l’abilitazione all’esercizio della professione forense e l’iscrizione all’albo dei giornalisti della Puglia. È entrata nella carriera prefettizia nel dicembre del 1987, ed assegnata alla Prefettura di Taranto dove ha ricoperto vari incarichi tra cui quello di capogabinetto. Nel marzo del 2008 è stata trasferita a Cosenza come viceprefetto, dove oltre a ricoprire l’incarico di dirigente dell’area ordine e sicurezza pubblica è stata più volte designata come commissario straordinario in diversi comuni. Poi dopo una permanenza come vicario nella prefettura di Campobasso, a dicembre 2013 è stata nominata prefetto e inviata come vice commissario del Governo per il Friuli Venezia Giulia con sede a Trieste. Un incarico che non gli ha impedito un altro impegno in Campania. Paola Galeone, infatti, presiede la Commissione straordinaria nominata, con Decreto del presidente della Repubblica nel 2012, per il Comune di Casapesenna, nel casertano. Un organismo che ha gestito l’ente locale del centro dell’agro aversano per diciotto mesi dopo lo scioglimento del consiglio comunale e quindi il commissariamento del Comune per infiltrazioni della criminalità. Infine ricordiamo la permanenza coriglianese della Galeone dal 1° luglio 2008 e fino al mese di giugno del 2009, allorquando a seguito delle elezioni comunali si insediò l’allora sindaco Pasqualina Straface”. (Giacinto De Pasquale, coriglianocalabro.it). Tra gli incarichi svolti nel corso della carriera si ricordano le gestioni in qualità di Commissario straordinario dei Comuni di Crispiano, Statte, Fragagnano, Manduria, Castellaneta (TA), Corigliano Calabro e Cerzeto (CS); di sub-commissario dei Comuni di Palagiano, Martina Franca e Taranto; di Presidente della Commissione straordinaria del Comune di Platì (RC), del Comune di San Ferdinando (RC) e del Comune di Casapesenna (CE).