Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
LA GIUSTIZIA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Processo sulla Morte.
Processo sul Depistaggio.
Federico Aldrovandi: "Non lo dimenticate".
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Condanne scontate.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Bossetti è innocente?
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una Famiglia Sfortunata.
Solita Amanda.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tso: Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani.
Il punto su Bibbiano.
La Tratta dei Minori.
Tra moglie e marito non mettere…lo Stato.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
Era Abuso…
Non era abuso…
Minorenni scomparso o in fuga.
Ipocrisia e Pedofilia.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Giustizia Giusta.
Comunisti per Costituzione.
Magistratura: Ordine o Potere?
Il Potere degli “Dei”.
“Li Camburristi”. La devono vincere loro: l’accanimento giudiziario.
L’accusa conta più della difesa.
«I magistrati onorari? Dipendenti».
Il Codice Vassalli.
Lo "Stato" della Giustizia.
La "scena del crimine".
Diritto e Giustizia. I tanti gradi di Giudizio e l’Istituto dell’Insabbiamento.
Testimoni pre-istruiti dal pm.
Le Sentenze “Copia e Incolla”.
Il Male minore. Condanna, spesso, senza colpa. Gli effetti del Patteggiamento.
Il lusso di difendersi.
Il Processo telematico.
Giustizia stravagante.
Giustizia lumaca.
Diffamazione: sì o no?
La Vittimologia.
A proposito di Garantismo.
A proposito di Prescrizione.
Prescrizione e toghe inoperose.
Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio.
Salute e carcere.
Le Mie Prigioni.
L’ergastolo ostativo: il carcere per i Vecchi.
La Prigione dei Bambini.
Le Class Action carcerarie.
Gli scrivani del carcere.
A Proposito di Riabilitazione…
Le mie Evasioni.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Oltre ogni ragionevole dubbio.
La Giornata per le vittime di errori giudiziari.
La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo. La Cedu, il carrozzone inutile che costa 71 milioni all'anno.
L’Italia dei Ricorsi alla Corte dei diritti dell’Uomo.
Quelli che...sono Ministro della Giustizia: “Gli innocenti non finiscono in carcere”.
Invece gli innocenti finiscono in carcere. Ma guai a dirlo!
Le Confessioni e le Dichiarazioni estorte.
Storie di Ordinaria Ingiustizia.
Ingiustizia. Il caso dei Marò spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso di Vallanzasca spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso di Mesina spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso di Johnny lo Zingaro spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Manduca spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Luttazzi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gulotta spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ligresti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Carminati spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Tortora spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Rocchelli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Occhionero spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gino Girolimoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Formigoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso De Turco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Cuffaro spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Corona spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Armando Veneto spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso di Vincenzo Stranieri spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso del delitto di Garlasco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Franzoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso del Delitto di Carmela “Melania” Rea spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso del Delitto di Erba spiegato bene.
Nascita di un processo mediatico.
Processo Eni e Consip. Dove osano i manettari.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini.
La spazzacorrotti. Una norma giustizialista che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia.
I Garantisti.
I Giustizialisti.
Gli Odiatori.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Concorso truccato per i magistrati.
Togopoli. La cupola dei Magistrati.
E’ scoppiata Magistratopoli.
Magistrati alla sbarra.
Gli intoccabili toccati.
INDICE QUARTA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caso Mattei.
Attentato alla sinagoga di Roma, una nuova pista trentotto anni dopo.
Il misterioso caso di Davide Cervia.
Il Mistero di Pier Paolo Pasolini.
Il Mistero di Ilaria Alpi.
Il Mistero di Ettore Majorana.
Il Mistero della Circe della Versilia.
Il Mistero di Gigliola Guerinoni: la Mantide di Cairo Montenotte.
Il mistero del delitto della Milano da bere.
L’Omicidio del Circeo.
Il Caso Claps.
Il Caso Vassallo.
Il Caso di Eleonora e Daniele: i fidanzati di Lecce.
Il Mistero di Viviana Parisi.
Il Mistero delle Bestie di Satana.
Il Mistero di Denise Pipitone.
Il Mistero di Roberta Ragusa.
Il Mistero di Simonetta Cesaroni.
Il Mistero della morte di Sissy Trovato Mazza.
Vermicino: la morte di Alfredino Rampi.
Il mistero di Maddie McCann.
Il giallo della morte di Edoardo Miotti.
La morte di Emanuele Scieri.
La morte di Giulio Regeni.
Storia di Antonio Ciacciofera, il Regeni dimenticato tornato morto da Cuba.
I Ciontoli e l’omicidio Vannini.
Il Giallo di Alessio Vinci.
Il Giallo Bergamini.
L’omicidio di Willy Branchi.
L’Omicidio di Serena Mollicone.
Il Mistero di Rino Gaetano.
Il Mistero Pantani.
Il Mistero della morte di Marco Cestaro.
Il mistero della morte in auto di Mario Tchou.
La morte sospetta del giornalista Catalano.
Il caso Wilma Montesi.
Miranda Ferrante, morte e misteri di una ballerina della Dolce vita.
Christa, delitto-scandalo della Dolce vita.
L'assassinio di Khashoggi.
Dal mare tre sub morti e cento chili di hashish.
L’Omicidio di Walter Tobagi.
Il Caso della Uno Bianca.
La Strage palestinese di Fiumicino.
Quante vie partirono da piazza Fontana…
Il Caso Pinelli – Calabresi.
L'omicidio di Mino Pecorelli.
I misteri della Strage di Ustica.
I misteri della Strage di Bologna.
I Misteri della Strage di Piazza della Loggia a Brescia.
Dubbi e bugie sulla morte di Mario Biondo.
Boulder, Colorado: il mistero della baby miss strangolata.
Racale, il mistero di Mauro Romano.
La Morte di Rosanna Sapori.
Il mistero di Fabio e Enzo spariti nel mare.
Il mistero del Mostro di Roma.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Lesotho e l’Affare di Stato. L’Omicidio di Lipolelo.
Marocco e l’Affare di Stato. Lalla Salma.
Ted Kennedy poteva essere assassinato da un piano ordito da un satanista?
La Storia di Robert Durst.
Il giallo della baronessa Rothschild.
Il caso Bebawi: il delitto di Farouk Chourbagi.
Storia del rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi.
L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.
La Morte di Marco Prato.
David Rossi: suicidio o omicidio?
Le Navi dei veleni. Il mistero della morte del capitano De Grazia.
Moby Prince, dopo 30 anni.
Il caso di Emanuela Orlandi.
Renatino De Pedis fu ucciso 30 anni fa.
I Suicidi di Carmagnola. Le tre sorelle Ferrero.
Il mistero dell’Eremita. La tragica fine di Mauro «Lupo grigio».
Massimo Carlotto e il delitto di Margherita.
Antonio De Falchi, morte a San Siro.
Il caso del sequestro Bulgari.
Il mistero irrisolto dell'uomo di Somerton.
Il Mistero del massacro di Columbine.
Il Mistero del jet malese MH370 scomparso.
Il Mistero Viceconte.
Il killer dell’alfabeto.
La banda di mostri, omicidio a Bargagli.
Antonietta Longo, la decapitata del lago.
Il mistero del naufragio del Ferry Estonia.
Il mistero della Norman Atlantic.
James Brown potrebbe non essere morto per infarto.
La saponificatrice di Correggio: una storia tra verità e leggende.
Delitto Casati Stampa, triangolo di sesso e morte.
Luciano Luberti il boia di Albenga.
Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA GIUSTIZIA
TERZA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini.
Il Coronavirus salva il governo, l’emergenza spazza via ogni dissenso. Piero Sansonetti de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Per l’asiatica, nel 1958, morirono circa un milione di persone. Me la ricordo, ero piccolo, andavo a scuola e facevo la terza elementare. Me la beccai anch’io. L’asiatica era una influenza tosta. Ci volle un po’ di tempo per trovare un vaccino. Poi sparì. Non chiusero le scuole e non fu interrotto il campionato di calcio (lo scudetto andò alla Juve, come al solito, e John Charles vinse la classifica dei cannonieri). I treni e gli aerei continuarono a funzionare e nelle vie di Milano – dicono – la vita era intensa, laboriosa e allegra. Il pil volava. Certo che le cose oggi sono molto diverse, c’è una consapevolezza assai maggiore sia per il valore della vita umana sia per la difesa della salute. E dunque è giustissimo che le autorità intervengano per cercare di fermare o comunque di contenere l’epidemia. Quel che non mi convince è la solita logica dell’emergenza. Che da qualche decennio, qui in Italia, è diventata l’unica vera categoria politica. È solo l’emergenza a dettare le scelte del governo e dei partiti, a dominare l’economia, a influenzare le leggi. Mi ricordo l’emergenza lotta armata, l’emergenza mafia, poi la corruzione, gli omicidi stradali, le rapine in casa. Ciascuna di queste emergenze ha prodotto leggi e ha modificato l’andamento della vita civile. E anche dell’economia. L’emergenza Br, e poi l’emergenza mafia, hanno prodotto un pacchetto di leggi repressive e di riduzione dello Stato di diritto, che sono ancora lì. L’emergenza corruzione ha assetato un colpo micidiale alla nostra economia, che non si è mai ripresa, e ha prodotto nuove leggi repressive e illiberali. Adesso siamo all’emergenza virus, che ha bloccato la lotta parlamentare (dando il via libera a misure autoritarie volute dal governo) e che provocherà delle conseguenze gravi sull’economia. Perché succede questo? Davvero siamo dinanzi ad un’emergenza come quella dell’asiatica? Io mi fido poco dei politici e non sempre degli scienziati. Tendo però a fidarmi di alcuni scienziati che hanno sempre dimostrato grande sapienza. Ilaria Capua per esempio – quella che fu annientata da un errore dei Pm e da una vergognosa campagna stampa contro di lei, che ancora aspetta le scuse dei giornalisti – ci ha spiegato che ci troviamo di fronte a una ondata di influenza, appena un po’ più pesante delle normali influenze. Che va affrontata con rigore, saggezza, e senza panico. E allora? Cos’è che ha scatenato questo pandemonio, che probabilmente pagheremo caro? Io ho una idea. Questo pandemonio è una conseguenza inevitabile di una delle cose più preziose che ci siamo conquistati in questi anni: la libertà di stampa. La piena, assoluta, incontrollata libertà di stampa. La quale si esercita nei confini del mercato ed è condizionata dal mercato. Possiamo lamentarci dell’eccesso di libertà di stampa e di mercato? No, anche perché non risulta esistere niente di meglio sul vassoio delle libertà. Ma anche la libertà di stampa ha degli effetti collaterali che possono essere sgradevoli. E tra questi effetti c’è la cattiva informazione. La quale provoca un fenomeno molto conosciuto dai sociologi: l’allontanarsi della percezione di massa dalla realtà. Il divorzio tra percezione e realtà produce il grande allarme. Qui siamo noi. Non è la prima volta. Non sarà l’ultima.
Intercettazioni, sì alla fiducia. L’opposizione: così il Paese ai pm. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Incassata la fiducia, la maggioranza ha deciso di posporre il voto finale per il decreto sulle intercettazioni a domani, anticipando quindi l’esame del decreto sul coronavirus, come chiesto dall’opposizione. Nessun problema per la fiducia, che è passata con 304 sì, 226 no e un astenuto. Il nuovo calendario dei lavori messo a punto dalla conferenza dei capigruppo — per consentire l’approvazione del decreto legge coronavirus nella giornata di oggi — prevede il via libera definitivo al provvedimento, nel testo già votato dal Senato, per domani sera. Rivendicano la «vittoria» sia la Lega sia Forza Italia. Per il capogruppo del Carroccio alla Camera, Riccardo Molinari, «è una vittoria della Lega: una decisione logica e di buon senso che poteva essere assunta prima, invece di perdere tempo prezioso». Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia, scrive su Twitter: «Prima la salute. Finalmente accolta la richiesta che ho avanzato fin da domenica e che è stata condivisa da tutta l’opposizione. Ogni tanto prevale il buon senso». Diversi esponenti della maggioranza avevano sostenuto, fino a ieri, che l’inversione del calendario non era necessaria, visto che il decreto sul coronavirus è già stato emanato ed è operante. E che invece bisognava fare in fretta con la conversione del decreto sulle intercettazione, che scade il 29 febbraio. Ma il nuovo calendario, evidentemente, consente di contemperare le due esigenze. Restano tutte le distanze sul contenuto del decreto, fortemente osteggiato dall’opposizione. Per il deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, intervenuto durante le dichiarazioni di voto, «la gravità della contingenza che sta vivendo il Paese non attenua la portata di un provvedimento barbaro: baloccandosi con le norme costituzionali per puro spirito di sopravvivenza, il governo sta consegnando l’Italia ai pm. Il 1 maggio, giorno in cui entrerà in vigore la riforma, non sarà più solo la festa del lavoro ma anche quella delle Procure: mi aspetto cortei di pm che osannano questo scellerato esecutivo. Finora erano un optional straordinario, ora i processi avranno le intercettazioni di serie». In disaccordo, naturalmente Alessandro Zan, del Pd, che rivendica «una sintesi migliorativa» trovata in questi mesi: «Viene vietata la pubblicazione di quelle intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’oggetto delle indagini». Per raggiungere questo obiettivo, spiega, «abbiamo spostato dalla polizia giudiziaria al pm la rilevanza delle conversazioni intercettate. Consentendo ai difensori di accedervi». Il leghista Flavio Di Muro spiega invece: «Nei 200 emendamenti presentati dalle minoranze, cancellati col colpo di spugna della fiducia, c’erano molte proposte di buonsenso che avrebbero messo a riparo il decreto dai profili di incostituzionalità».
Intercettazioni, la Camera vota la fiducia con 304 sì. Giovedì il via libera finale. Opposizioni sul piede di guerra. L'emergenza coronavirus aveva indotto i forzisti e Fdi ad avere un atteggiamento più collaborativo. Ma adesso la linea è cambiata. E, Lega in testa, non si vuole fare sconti alla maggioranza: si chiede l'uso del trojan anche contro chi detiene materiale pedopornografico. Liana Milella il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. Il governo ha incassato oggi la fiducia della Camera sul dl intercettazioni con 304 sì, 226 no e 1 astenuto. Ma il voto definitivo sulle intercettazioni è stato rinviato a giovedì 27 febbraio. Lasciando spazio domani al decreto coronavirus. È su questo compromesso che, a Montecitorio, la maggioranza evita l'attacco del centrodestra sugli ascolti e la minaccia stessa che il decreto possa non essere convertito in tempo per sabato 29 marzo. È la conferenza dei capigruppo che, prima dell'inizio delle dichiarazioni di voto sulla fiducia, sblocca la situazione. Di fatto fermando la pioggia di odrini del giorno del centrodestra, quasi 260, che rischiavano di costringere il presidente della Camera a passare alla "ghigliottina". Soddisfatta Forza Italia, con la capogruppo Maria Stella Gelmini, che in verità da domenica aveva suggerito una soluzione di questo tipo. Sblocca così una situazione di stallo che rischiava di avere contraccolpi sulle intercettazioni. Perché sembrava proprio che il governo potesse rischiare nella conversione del decreto legge sulle intercettazioni. Sul quale già ieri aveva posto il voto di fiducia. Ma il centrodestra - che ieri invece sembrava intenzionato ad assumere un atteggiamento più responsabile per via del coronavirus - ci aveva ripensato. Moltiplicando gli ordini del giorno che dovevano essere approvati alla fine delle votazioni sulla fiducia, la cui conclusione è prevista per il tardo pomeriggio. Soprattutto la Lega non vuole fare sconti alla maggioranza rispetto a un decreto su cui ha già scatenato la guerra al Senato, tentando di bloccare il voto con l'emendamento su chi detiene materiale pedopornografico e chiedendo per questo l''uso del Trojan. Lunedì pomeriggio, quando la tagliola del presidente della Camera è caduta sugli interventi durante la discussione generale, c'erano già un centinaio di interventi in programma dei leghisti. Che sarebbero potuti tornare di attualità. Sembrava che la strategia aggressiva contro le intercettazioni fosse stata messa da parte, soprattutto dopo il passo indietro di Forza Italia. Il responsabile Giustizia Enrico Costa aveva già lanciato il primo segnale domenica in commissione Giustizia, quando aveva ritirato l'emendamento per rinviare di un anno la prescrizione. Ai collegi aveva detto: "Oggi non me la sento davvero di tenere impegnata la commissione per almeno un paio d'ore sulla prescrizione quando, fuori di qui, tutto il Paese è in allarme per la diffusione del coronavirus. Comunque resta in aula la mia proposta di legge che elimina del tutto la prescrizione e ci sarà tempo, all'inizio di marzo, per discuterne con calma". Infatti, superato il suo emendamento, il testo delle intercettazioni era passato. Allo stesso modo, proprio Forza Italia con la capogruppo Maria Stella Gelmini, aveva dato un altro segnale in aula. Priorità assoluta alla discussione sul coronavirus, lasciando da parte le polemiche su un decreto, quello delle intercettazioni, che pure i forzisti hanno contestato e avversato in tutti i modi. Tant'è che ancora ieri ecco Costa dichiarare in Transatlantico, proprio davanti all'ex Guardasigilli Andrea Orlando, il vero "padre" del decreto intercettazioni, portato da lui nello scorso governo, e poi fermato per ben due volte dal suo successore Alfonso Bonafede. Dice Costa: "La foga della maggioranza nel procedere a tappe forzate sul decreto intercettazioni, ponendolo come priorità assoluta, ha una sola spiegazione. Questo decreto è la merce di scambio che il Pd ha ottenuto di fronte al dietrofront sulla prescrizione. Se salta il decreto salta l'accordo''. Ma ieri sera, subito dopo il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità e appena il governo ha posto la fiducia, hanno cominciato a suonare di nuovo i tamburi di guerra. Perché la Lega, con Salvini in testa (no al decreto, si rinvii tutto), ha dato il là sull'ostruzionismo con gli ordini del giorno, visto che sulla fiducia i voti della maggioranza sono schiaccianti a Montecitorio. In barba al coronavirus, e nonostante proprio una deputata di Fratelli d'Italia ieri si fosse conquistata le foto su tutti i siti per via della mascherina indossata in aula, i deputati di Salvini hanno deciso per la linea dura. A questo punto, inevitabilmente, seguiti anche da Forza Italia e Fdi per non spaccare clamorosamente il centrodestra. Una sfida che avrebbe comportato solo una strada per controbatterla per la maggioranza: mettere la cosiddetta "ghigliottina" sul dibattito e chiudere sulle intercettazioni. In tempo per venerdì visto che il decreto scade sabato. Ma alla fine la soluzione dei capigruppo ha risolto il, problema e chiuso la polemica. Voto sulla fiducia, poi coronavirus, di nuovo intercettazioni giovedì. A patto che il centrodestra non ci ripensi e non torni all'ostruzionismo.
Maurizio Tortorella per “la Verità” il 26 febbraio 2020. Il Senato ha approvato il decreto legge sulle intercettazioni. Il decreto, sul quale il governo aveva posto la fiducia per evitare sorprese, era stato varato a fine dicembre dal ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, e ieri ha incassato 156 sì e 118 no. Hanno votato a favore tutti i partiti di governo: il Movimento 5 stelle, il Partito democratico, Liberi e uguali, e anche la senatrice a vita Liliana Segre. Alla fine ha detto sì anche Italia viva, il partitino di Matteo Renzi, che pure negli ultimi giorni aveva manifestato dissenso. Ad accendere gli animi nella maggioranza, che da mesi si scontra sulla parallela riforma della prescrizione, era stata una proposta d' emendamento presentata in commissione Giustizia dal senatore di Leu, Pietro Grasso, che voleva rendere sempre utilizzabili le intercettazioni che scoprano casualmente un reato diverso da quello sul quale si sta indagando. Va ricordato che il codice vieta che si faccia uso indiscriminato delle intercettazioni al di fuori del procedimento in cui sono state disposte. Ma questa norma non lo ha mai impedito concretamente. Sul tema, lo scorso gennaio, si sono pronunciate le sezioni unite della Cassazione: hanno stabilito che, se un' intercettazione rivela un nuovo reato, non può essere usata per far partire una nuova inchiesta, a meno che il reato scoperto sia così grave da prevedere l' arresto in flagranza. È un limite corretto, che dovrebbe evitare le cosiddette «intercettazioni a strascico», cioè quelle impropriamente usate per colpire un indagato andando alla ricerca di reati dei quali s' ignora l' esistenza. Alla fine, con una norma ambigua e pericolosa, pochi giorni fa la commissione Giustizia ha invece stabilito sia possibile l' utilizzo di un' intercettazione che scopre nuovi reati, a patto che la registrazione sia «indispensabile e rilevante» ai fini giudiziari. Italia viva evidentemente s' è accontentata, e ieri ha votato sì. Ora il decreto Bonafede passa alla Camera: per convertirlo in legge, i deputati hanno tempo fino a sabato 29 febbraio. Forse per non doversi «inchiodare» esteticamente a un voto di fiducia al governo di cui da mesi gioca a fare la spina nel fianco, ieri Renzi non è entrato nell' emiciclo. In base ai tabulati di Palazzo Madama, il senatore di Scandicci risultava ufficialmente «in congedo», anche se qualche ora prima del voto aveva tenuto una conferenza stampa in una sala del Senato. Adesso, mentre il decreto legge sulle intercettazioni sta per essere trasmesso alla Camera, l' opposizione annuncia una battaglia ostruzionistica contro la norma, che modifica la riforma varata nel 2017 dal Guardasigilli dem Andrea Orlando, adeguandola alla logica e al campo d' applicazione della «Spazzacorrotti», la legge che incarna il giustizialismo grillino. Il centrodestra ne critica soprattutto un risvolto: il decreto introduce infatti la possibilità d' impiegare tecnologie particolarmente invasive (i virus informatici «trojan») non soltanto quando s' indaga sui più gravi crimini di mafia e di terrorismo, ma anche nei reati contro la Pubblica amministrazione puniti con pene sopra i cinque anni e commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio. Questo significa che, se il decreto sarà convertito in legge, gli inquirenti potranno utilizzare con maggiore libertà e per un numero molto più ampio di reati una tecnologia particolarmente invasiva, che è in grado di penetrare segretamente in tutti i cellulari, nei computer, nelle email. Diverrà possibile trasformare qualsiasi smartphone in una microspia perennemente accesa, ma si potrà anche utilizzare al rovescio la telecamera di ogni computer, scrutando negli uffici o nelle case. Il decreto Bonafede prevede un' altra novità tecnologica, perché intende cambiare anche le modalità di conservazione delle intercettazioni: l' archivio riservato presso l' ufficio del pubblico ministero viene sostituito da un nuovo archivio digitale, gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del Procuratore della Repubblica. La riforma attribuisce poi al pubblico ministero il compito di selezionare le intercettazioni, decidendo quali siano utili per le indagini e quali debbano essere considerate irrilevanti. Nel testo si stabilisce, in particolare, che «il pubblico ministero dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dai personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini». I difensori dell' indagato hanno diritto a partecipare a questo stralcio, e devono esserne avvisati almeno 24 ore prima. Ai difensori viene data la facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni, ma anche di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche. Potranno quindi estrarre copia di quanto depositato ed eseguire anche una copia integrale delle registrazioni. La riforma Bonafede, infine, libera i giornalisti da ogni rischio (peraltro minimo già oggi): chi pubblica un' intercettazione non potrà essere incriminato per violazione di segreto d' ufficio.
Barbara Acquaviti per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. Il compromesso, alla fine, accontenta tutti: le opposizioni possono vantarsi di aver portato a casa il risultato, la maggioranza non deve rinunciare al suo provvedimento e il Parlamento si sottrae allo spettacolo di mostrarsi occupato in tutt'altro mentre in Italia non si parla che di coronavirus. La maggioranza ieri ha incassato con 304 sì e 226 no - il voto di fiducia della Camera sul decreto intercettazioni, ma per il via libera definitivo bisognerà aspettare giovedì. Perché - per accordo di tutti i gruppi oggi l'aula di Montecitorio sarà impegnata in un esame sprint del provvedimento varato da palazzo Chigi per fronteggiare l'emergenza sanitaria. Una richiesta, questa, fortemente sostenuta dal centrodestra che si preparava a fare ostruzionismo sul provvedimento attraverso la moltiplicazione degli ordini del giorno. Soprattutto la Lega. Il compromesso raggiunto in capigruppo, dunque, consente di evitare la decadenza del decreto, in scadenza il 29 febbraio, senza dover ricorrere a ghigliottine' dei tempi parlamentari. La contrarietà delle opposizioni rispetto ai contenuti, però, resta intatta. Tra le norme più contestate, c'è quella sull'uso dei cosiddetti trojan: i captatori informatici sono equiparati alle intercettazioni ambientali e sarà possibile utilizzarli non solo per i reati contro la pubblica amministrazione commessi dai pubblici ufficiali, ma anche per quelli commessi dagli incaricati di pubblico servizio, purché si tratti di reati punibili con la reclusione oltre i 5 anni. Vengono incrementate le funzioni dei pubblici ministeri: spetterà infatti a loro (poi ai gip), e non più alla polizia giudiziaria, stabilire quali ascolti siano rilevanti per le indagini. Il pm avrà anche un altro compito, ossia verificare che nella trascrizione delle intercettazioni non siano riportate espressioni sensibili'. Una sorta di norma salva privacy. Arriva anche una stretta alla pubblicazione sui giornali delle registrazioni telefoniche: quelle irrilevanti saranno coperte dal segreto istruttorio sempre, mentre quelle giudicate rilevanti potranno essere rese pubbliche ma solo dopo che l'indagato ne sarà venuto sa conoscenza.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione, che è un regalo all' ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan (potevano trovare un nome migliore, per esempio Putan), una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un' arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato, visto che Italia Viva, pur essendosi dichiarata garantista in materia giudiziaria, ha votato a favore del provvedimento liberticida. Complimenti vivissimi. Della vicenda riguardante le intercettazioni si discute da lustri, intanto esse vengono utilizzate praticamente in ogni indagine come se fossero, e non sono, affidabili. La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere. I politici, quasi tutti, sono più portati a consegnare alle toghe strumenti di tortura sempre più raffinati, che non ad aiutare gli italiani a non subire eccessi giustizialisti, dimostrando in modo eclatante di fottersene del bene comune. L' ultima cosa che sta a cuore a deputati e senatori, specialmente della maggioranza, è il nostro benessere. Poi si stupiscono che la gente preferisca andare al mare che a votare. Ma stiano attenti perché la pazienza ha un limite oltre il quale può scoppiare un casino.
C'è il virus, ma i giallorossi litigano su Mafia Capitale. Una deputata grillina cita le intercettazioni di Buzzi: scoppia il caos. 5s costretti a scusarsi. Domenico Di Sanzo, Sabato 29/02/2020 su Il Giornale. Il decreto sulle intercettazioni sembrava ormai una delle poche cose su cui tutti i partiti di maggioranza andassero d'accordo. Ma per colpa dell'intervento nell'Aula della Camera di una deputata grillina, si stava trasformando nell'ennesimo incidente diplomatico tra i gialli del M5s e le varie sfumature del centrosinistra di governo. La parlamentare in procinto di far scoppiare la zuffa verbale sul trojan libero risponde al nome di Elisa Scutellà, calabrese appassionata ai temi della giustizia. Giovedì sera, la solerte portavoce stellata ha preso la parola per annunciare il sì del Movimento alla legge sulle intercettazioni. Nell'arringa, tra le altre cose, ha trovato spazio una citazione, o per meglio dire un affondo, sulle conversazioni di Salvatore Buzzi, captate dagli inquirenti di Mafia Capitale. Apriti cielo. Il Pd e i renziani di Italia Viva, uniti per una volta, l'hanno presa per una provocazione. Il deputato dem Franco Vazio, intercettato dall'AdnKronos, ha sbottato: «Ma come, tra tutte le intercettazioni vai a citare proprio quelle che riguardano una persona identificata dai nostri avversari come uno del Pd? Così non si fa». E l'intervento della Scutellà ha fatto riaffiorare le solite divisioni interne ai Cinque Stelle. E le arcinote polemiche di un nutrito gruppo di parlamentari nei confronti dello Staff Comunicazione. Secondo alcuni deputati, i comunicatori hanno voluto rispolverare un antico cavallo di battaglia in funzione anti-Pd. In uno scenario in cui il piccolo incidente suona come dinamite sotto i ponti costruiti dai grillini «governativi» per favorire alleanze con i dem alle prossime regionali. Addirittura è partita la caccia a chi ha vidimato l'intervento della Scutellà con il passaggio incriminato. Una storia che sarebbe finita soltanto durante la nottata con le scuse dei vertici del M5s nei confronti del Pd per la citazione di Mafia Capitale da parte della malcapitata parlamentare. Molti eletti, soprattutto «fichiani» e filo-Conte potrebbero approfittare del disguido per provare di nuovo a far rotolare qualche testa nel gruppo della Comunicazione. Da mesi nel mirino di deputati e senatori. E lunedì i capigruppo delle Commissioni avranno un incontro con il deputato e facilitatore Emilio Carelli e i responsabili della comunicazione. Intanto i grillini hanno chiesto scusa al Pd per Mafia Capitale, chi l'avrebbe mai detto.
DL intercettazioni, perché il Pd si è piegato. Eriberto Rosso de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. La fiducia posta dal Governo alla Camera dei Deputati non ha consentito lo sviluppo del dibattito parlamentare sulla disciplina delle intercettazioni. Strano destino quello del decreto attuativo di cui nessuno può dire quali siano le vere ragioni di urgenza. Approvata nel 2017 la nuova disciplina, qualcosa entrò immediatamente in vigore senza che, peraltro, nessuno ne sia rimasto sconvolto e consentendo a prassi giudiziarie di sterilizzare immediatamente le poche innovazioni di un qualche significato. Basti pensare che invocando la par condicio – tra i cronisti- sono nati protocolli che da allora consentono l’immediata consegna degli atti del procedimento ai giornalisti. Va ricordato che quella legge nata come costola della riforma del processo penale che porta la firma dell’allora Guardasigilli Orlando, aveva due obiettivi dichiarati: maggiori garanzie per il difensore in modo da impedire la prassi dell’ascolto e della trascrizione delle intercettazioni non casuali che lo riguardano; limiti ragionevoli all’utilizzo del cosiddetto Trojan Horse, che per via giurisprudenziale era divenuto strumento consegnato all’ordinarietà. Il decreto legislativo, esondante rispetto alla delega, aveva previsto l’archivio riservato ove il difensore si sarebbe dovuto recare per l’ascolto delle registrazioni. Niente copie, termine breve: attività impossibili. La ragionata protesta delle Camere Penali e delle Procure aveva determinato il differimento della operatività della normativa al fine di consentire ripensamenti e nuove interlocuzioni con gli operatori. Poi, il rinvio ha assunto un altro sapore. Con la spazzacorrotti, la stessa legge nella quale è stata inserita la riforma della prescrizione, si è esteso l’uso del Trojan ai reati contro la pubblica amministrazione. Oggi punti nevralgici della nuova disciplina sono in buona sostanza la reintroduzione della udienza stralcio al fine dell’attività di trascrizione delle conversazioni, un meno pregnante, in quanto residuale, intervento del Giudice nel momento della indicazione delle conversazioni da utilizzare. Il riferimento per l’acquisizione è al concetto di irrilevanza, così evidentemente privilegiando il diritto alla riservatezza dei soggetti non direttamente coinvolti nel procedimento rispetto al diritto di difesa. Una tutela eccessiva del primo che rischia di minare l’effettività del secondo. La nuova disciplina prevede che competa al Pubblico Ministero la determinazione del tempo nel quale la documentazione riguardante le intercettazioni deve rimanere depositata presso l’archivio “riservato”, la cui costituzione risulta confermata. È li che il difensore dovrà recarsi per l’attività di ascolto. Un’attività impossibile negli stretti limiti temporali che rimangono quelli dell’avviso di cui all’art. 415 bis cpp (venti giorni entro i quali ascoltare tutte le intercettazioni, indicare quelle ritenute rilevanti, chiederne ed ottenerne copia, per poi svolgere e proporre l’attività difensiva sulla quale interloquire con il Pubblico Ministero). Nessun rafforzamento dello statuto del difensore è previsto dalla riforma, le comunicazioni che lo coinvolgono potranno ancora essere ascoltate e virtualmente conosciute dal contradittore processuale, a nulla rilevando, su questo piano, i divieti di trascrizione e utilizzazione. A gennaio sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che hanno disegnato un argine alla “circolazione probatoria” delle intercettazioni al di fuori del procedimento in cui sono state disposte. In buona sostanza, il Giudice di legittimità ha individuato nella connessione ex art. 12 cpp il parametro di riferimento meritevole di valutazione, non ritenendo sufficiente all’estensione della utilizzazione dello strumento di indagine il mero collegamento investigativo. Avrebbe dovuto essere questa per il Legislatore l’occasione per una nuova definizione di una sorta di gerarchia nell’uso degli strumenti captativi stabilendone rigidi parametri autorizzativi. Invece il segno dell’ultima ora è stato un altro: estensione del Trojan Horse anche ai reati propri dell’incaricato di pubblico servizio, nessuna indicazione di regole per l’utilizzabilità in procedimento diverso, anzi, l’ambiguità dell’emendamento con cui si è intervenuti in punto di deroga sull’inutilizzabilità esterna, pare destinata a riaprire scenari regressivi. Insomma, immaginato quale intervento legislativo per rafforzare lo statuto del difensore, tutelare la riservatezza dei soggetti estranei al tema del processo, limitare l’indiscriminato uso del captatore informatico, il nuovo decreto si rivela uno strumento di impronta eminentemente inquisitoria. Stupisce che il Partito Democratico, già protagonista della proposta di riforma in materia di intercettazioni, abbia, unitamente alle altre forze oggi comprimarie nell’azione di governo, accettato un compromesso così al ribasso. La Corte Costituzionale sarà certamente chiamata ad occuparsi di una legge che consente l’abnorme utilizzo di strumenti di captazione nella vita privata delle persone e definisce un cattivo bilanciamento di diritti fondamentali.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 28 febbraio 2020. Toccherà mettere sull'avviso la Treccani: può esistere qualcosa di indispensabile («cosa assolutamente necessaria, di cui non si può fare a meno») e tuttavia di irrilevante. Almeno per il legislatore. Nel decidere come regolare la possibilità di usare i risultati di una intercettazione in procedimenti diversi da quello nel quale era stata autorizzata, la nuova legge - oltre a richiedere che il reato sia tra quelli per cui è già consentito questo mezzo di prova - ora aggiunge la condizione che l'intercettazione debba essere non solo «indispensabile» per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l' arresto in flagranza, ma anche «rilevante». Così come si disquisirà a lungo di cosa questa o quella Procura riterrà «espressioni lesive della reputazione delle persone», per «vigilare» (come pretende la legge) che non vengano trascritte (salvo siano rilevanti per le indagini); e di quanti equivoci e confusioni verranno fugati o causati dall'obbligo per pm e gip di riportare i «brani essenziali» nelle misure cautelari «quando è necessario». L'«archivio digitale», cassaforte di tutte le intercettazioni non rilevanti, perde la qualifica di «riservato», ma nel contempo guadagna il dover essere organizzato dal procuratore «con modalità tali da assicurare la segretezza». E qualche corto circuito si profila anche laddove la legge specifica che non è vietata la pubblicazione dell' ordinanza d' arresto (nella quale magari il gip tra i motivi ha riportato un brano essenziale intercettato), ma è «sempre vietata la pubblicazione anche parziale del contenuto delle intercettazioni non ancora acquisite» dall' apposita successiva procedura di selezione tra le parti (come magari l' intera frase, non riportata nell' ordinanza ma depositata alla difesa insieme a tutti gli atti posti a base dell' arresto, dalla quale il gip aveva estratto quello spezzone di brano riportato nell' ordinanza). Ancora niente a confronto del mal di testa che verrà a magistrati e avvocati nel raccapezzarsi fra tre differenti regimi di utilizzo del «captatore informatico» di comunicazioni (trojan) tra presenti in un domicilio privato: in generale lo si potrà infatti utilizzare solo se vi sarà fondato motivo di ritenere che nel domicilio o luogo di privata dimora si stia svolgendo l'attività criminosa; però si potrà sempre usare se si procederà per mafia, terrorismo e reati distrettuali come contrabbando o prostituzione minorile; e invece occorrerà la «previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l' utilizzo» se si investigherà un delitto di pubblici ufficiali (o da ora pure di incaricati di pubblico servizio) con almeno 5 anni di pena. Del resto sono contorcimenti inevitabili se, a partire dalla delega parlamentare ottenuta dall' allora governo Renzi-Orlando il 23 giugno 2017, a fine anno un decreto legislativo rimandò di 6 mesi al 26 luglio 2018 l' entrata in vigore delle norme, poi prorogata all' 1 aprile 2019 da un decreto legge, poi dilazionata ancora all' 1 agosto 2019 dalla legge di Bilancio (pur mentre da gennaio 2019 la legge «Spazzacorrotti» e da novembre 2019 la sentenza Cavallo delle Sezioni unite di Cassazione stratificavano già il panorama delle captazioni), poi di nuovo spostata all' 1 gennaio 2020 dal decreto sicurezza-bis, e poi ulteriormente prorogata all' 1 marzo 2020 dal decreto legge del 23 dicembre 2019 del governo Conte-Bonafede. Che cambia radicalmente la riforma Orlando, ma che a sua volta ora in sede di conversione viene modificato (con altra proroga all'1 maggio 2020) non da un dibattito in Parlamento, strozzato sia nelle commissioni sia in aula, ma da un maxiemendamento governativo interamente sostitutivo, per giunta fatto approvare con l'imposizione di due voti di fiducia alla Camera e al Senato. E pensare che sin dall' 11 luglio 2018 lo slittamento era stato motivato dal ministro con «ragioni tecniche relative ai tempi necessari per l'esecuzione nelle Procure dei lavori per i supporti logistici e informatici per gli archivi riservati e le sale ascolto per gli avvocati»: ora quanto non è stato fatto in altri due anni dovrebbe essere completato in due mesi (sempre sotto clausola di invarianza finanziaria). Senza peraltro, invece, che si affrontino questioni cruciali: l'esternalizzazione a società private delle intercettazioni, la subalternità sinora dell' amministrazione pubblica alle loro logiche tecniche ed economiche, la delocalizzazione dei loro sistemi «cloud» di archiviazione in Paesi non soggetti a giurisdizione italiana, l'attesa del software ministeriale e del decreto sui requisiti tecnici che dovranno avere i programmi proposti dalle società (vige ancora il decreto di aprile 2018, e due anni sono un' era geologica in questo settore). Fino alla scarsa consapevolezza negli stessi pm - denunciata il 12 febbraio dal procuratore di Napoli Gianni Melillo nella Scuola della Magistratura - della tendenza dei propri ausiliari consulenti tecnici a non cancellare i dati alla fine degli incarichi conferiti loro dalle Procure, e dunque così ad accumulare misconosciuti maxi-archivi "informali" (paralleli a quelli giudiziari "ufficiali" di cui tanto si occupa la legge) passibili di alimentare un mercato clandestino delle comunicazioni. Quello che - mentre le inchieste in media usano poi nel processo solo lo 0,2-0,7% del materiale intercettato, e i giornali pubblicano intercettazioni di estranei alle indagini solo nell' 1,6% degli articoli di cronaca giudiziaria (stima degli avvocati penalisti Ucpi su 7.273 articoli campionati in 6 mesi del 2015) - rumina tutto il resto.
«Non siamo un Paese normale, ecco perché ho detto sì ai trojan». Rocco Vazzana Il Dubbio il 27 febbraio 2020. Intervista a Francesca Businarolo (M5S), presidente della commissione Giustizia alla Camera. Francesca Businarolo, presidente della commissione Giustizia alla Camera, in quota Movimento 5Stelle, difende la riforma delle intercettazioni che oggi dovrebbe essere approvata definitivamente in Parlamento. «Abbiamo inserito l’uso dei Trojan in un sistema di regole, non lo abbiamo mica liberalizzato», spiega con convinzione.
Eppure, in caso di reati contro la pubblica amministrazione, da domani potrà essere spiato non solo il pubblico ufficiale ma anche l’incaricato di pubblico servizio. Bidelli, dipendenti comunali, dipendenti delle Asl, per intenderci: tutti potenziali obiettivi di Trojan. Non si rischia di allargare un po’ troppo la platea e creare una società di controllati?
«Mi rendo conto che l’allargamento della platea è uno di quei provvedimenti che suscitano controversia e forti dubbi i quali, tuttavia, sarebbero fondati in una società diversa dalla nostra, diciamo in una Italia ideale dove la corruzione fosse un accidente. Ma non è così. Il nostro paese è nella morsa della illegalità da troppi anni e, sebbene la prevenzione è sempre la misura “principe”, abbiamo bisogno di una stretta che possa far emergere fenomeni piccoli e grandi di comportamenti illeciti».
Piccoli e grandi tutti nello stesso calderone?
«Le due categorie sono già equiparate dal Codice penale rispetto a tutti i reati contro la pubblica amministrazione. Noi non facciamo altro che adeguarci al Codice, perché mai, dunque, dovremmo rendere possibili le intercettazioni solo per pubblico ufficiale e non per incaricati di pubblico servizio? E, infine, gli stessi dubbi che lei ricorda furono sollevati per la norma sul whistleblowing, per la quale io personalmente mi sono molto battuta: “Volete le spie ovunque? Volete la società degli spiati?” dicevano gli scettici. Oggi quella misura è una avanguardia che si sta facendo strada tra le misure anticorruzione con grande soddisfazione dell’Anac».
Sparisce l’obbligo del pm e del giudice di specificare le modalità d’attivazione del Trojan. Non bisognerà più definire in anticipo, in altre parole, tempi e luoghi per l’attivazione del microfono del cellulare. Qualsiasi momento della nostra vita è potenzialmente spiabile. Ma anche un indagato avrà diritto alla privacy…
«Guardi che noi l’uso del Trojan lo abbiamo inserito dentro un sistema di regole, non lo abbiamo mica liberalizzato! In Parlamento, grazie a noi, è avvenuto esattamente il contrario di ciò che sostiene certa propaganda falsamente garantista. Il Trojan è una modalità di intercettazione ambientale già consentita per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, questa legge la disciplina meglio. Per usare questo metodo di intercettazione bisognerà motivare la sua indispensabilità e se ci sarà un difetto di motivazione si potrà impugnare la questione e poi, a differenza delle normali intercettazioni telefoniche e ambientali, il Trojan potrà essere utilizzato solo per i reati connessi a reati di mafia, terrorismo e contro la PA. Perché volerlo dipingerlo a tutti i costi come l’invasione del Grande fratello nelle nostre vite?»
Le intercettazioni incidentali tra indagato e avvocato saranno possibili anche se non trascrivibili. È sufficiente questa accortezza a tutelare il diritto alla difesa?
«Il diritto alla difesa è sacrosanto ed io su questo giornale ho detto di essere favorevole all’inserimento del ruolo dell’Avvocatura nella Costituzione. Esso, tuttavia, non può prevaricare la sicurezza di tutti: di fronte ad inchieste di corruzione le attività dell’indagato sono centrali per capire la consistenza reale del presunto reato. Per non dire che esistono casi di finti avvocati, o meglio di difensori che in realtà svolgono in concreto altri ruoli organici al disegno criminoso: naturalmente si tratta di rarissimi casi che non ledono affatto un ordine professionale composto da persone dedite alla deontologia e che spesso svolgono il proprio lavoro in circostanze faticose, penso ai giovani avvocati. Eppure quei casi esistono».
Il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, chiede che le intercettazioni incidentali con i legali siano immediatamente interrotte, appena scoperta la natura della telefonata, e distrutte le registrazioni. Perché tenerle in archivio?
«Perché esiste un sistema di garanzia che vale per tutti: le intercettazioni irrilevanti vanno gestite secondo modalità stabilite e poi distrutte al momento opportuno. La regola vale per tutti. E nulla, proprio nulla, finirà nel fascicolo processuale».
Il rischio è che un pm, in modo scorretto, riascolti e utilizzi quelle intercettazioni per studiare la strategia difensiva dell’imputato. O dobbiamo affidarci fideisticamente alla buonafede dei magistrati?
«La strategia difensiva si fa una volta formulata l’accusa e dopo che una serie di passaggi stabiliscono la fondatezza di un procedimento. Non saltiamo le tappe pur di trovare le falle di una legge che è una buona legge, un buon compromesso tra diverse esigenze».
Secondo Forza Italia, il pacchetto intercettazioni fa parte di un accordo politico tra Pd e M5S, un compromesso per far digerire ai dem la riforma della prescrizione.
«A Forza Italia non va proprio giù la norma che interrompe la prescrizione dopo la sentenza di prima grado! E cerca in tutti i modi di screditare chi la ha promossa e chi la sostiene. Io considero un importante passo avanti del Pd quello di non ostacolare la norma Bonafede, il Movimento è stato in grado di far capire le proprie ragioni. Se ne prenda atto».
Paolo Sisto: «Queste intercettazioni sono una barbarie incostituzionale». Giulia Merlo su Il Dubbio il 27 febbraio 2020. Intervista all’avvocato e parlamentare Forza Italia: «Il decreto è una trappola inquisitoria che ci avvicina alla giustizia dei paesi antidemocratici”. «Una trappola inquisitoria, che rende la nostra giustizia sempre più vicina a quella dei paesi antidemocratici», è la drastica definizione del dl Intercettazioni di Francesco Paolo Sisto. Il deputato di Forza Italia, da sempre in prima linea sui temi legati alla giustizia, analizza criticamente i contenuti di un decreto che giudica «eufemisticamente incostituzionale», in particolare nell’allargamento dell’utilizzazione dei Trojan.
Quali profili di incostituzionalità rileva?
«Innanzitutto è violato l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la riservatezza, qui resa un mero fantasma. Per non dire del 24, 27, 111, tutti numeri che scandiscono la tutela della difesa, della presunzione di non colpevolezza, della parità delle parti nel processo. Questo decreto legge senza urgenza introduce norme che rendono l’Italia un paese sempre più a “Costituzione di mera apparenza”: il paradosso è che questo provvedimento che era nato, nella precedente legislatura, per limitare l’ipertrofia delle intercettazioni e renderle uno strumento di indagine non puramente esplorativo».
Invece ora cosa è?
«Questa maggioranza, guidata dal giustizialismo dei 5 Stelle per nulla arginato dalla disinvolta complicità del Pd, ha trasformato il dl Intercettazioni in uno strumento di percussione dei diritti del cittadino».
Con quali effetti negativi?
«Il primo è la consegna de facto del processo ai Pm, che acquistano nuovi poteri, per nulla attutiti da formule vuote e facilmente aggirabili, come il concetto di “rilevante”, legato a matrici prettamente soggettive. Il secondo è il “controllo incontrollabile” da parte di chi intercetta, grazie all’estensione allegra nell’uso dei Trojan horse».
Una estensione illegittima, secondo lei?
«Assurda e inaccettabile sul piano culturale. Trovo inconcepibile che il decreto parifichi i reati dei pubblici ufficiali e, innovativamente, degli incaricati di pubblico servizio a quelli di mafia. I Trojan verranno utilizzati senza regole e senza limiti di luogo, tempo e quantità di dati. Si tratta di un modo di intercettare talmente invasivo da poter tranquillamente essere inserito di diritto nella categoria degli strumenti “a strascico”, più volte bacchettati dai Giudici di Legittimità. Ovvero: la giornata del “trojanizzato” sarà registrata, anche nei dettagli più intimi, senza che la Legge garantisca la reale eccezionalità della deroga».
Insomma, lei dice che i Trojan sono uno strumento per cercare anticipatamente gli indizi?
«Sì, con i Trojan applicati come nel decreto si permette l’autolegittimazione esplorativa delle procure, rendendo strutturale l’incertezza della privacy dei cittadini. Di fatto, non si intercetterà per trovare la prova di un reato già ben individuato, ma si creeranno i presupposti formali per scandagliare le vite e intercettare di tutto e di più. Questa è inquisizione allo stato puro. Se poi si aggiunge tutto questo alle pene accessorie perenni, ai processi eterni, alle spaventose prospettive del diritto penale griffato Bonafede & co., la diagnosi/ prognosi è terrificante. Un paese che si accinge a diventare giuridicamente invivibile».
Esiste un filo conduttore che collega tutte queste misure in materia di giustizia?
«E’ la logica pentastellata e piddina di raggiungere l’efficienza del processo con il sacrifico delle garanzie difensive. Il fine evidente è quello di demolire la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino a sentenza definitiva: l’indagato diventa, anzi “è”, colpevole senza nemmeno bisogno che si eserciti l’azione penale, non serve nemmeno che sia formalmente imputato. Basta una iscrizione, il resto lo decide il processo mediatico; con la conseguenza che si può fare a meno anche del giudice, perchè la condanna pubblica arriva molto prima, con una sentenza terribile perchè non impugnabile. Le liste di proscrizione erano più democratiche».
La maggioranza sostiene che il decreto prevede misure restrittive contro la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti.
«Io sono convinto che il quadrante penale non si nutre di sanzioni. Serve una logica di sistema, di equilibri veri fra le parti processuali, non solo a parole. Gli argini ai poteri delle Procure non appaiono nè chiari, nè solidi. Il testo usa le solite parole standardizzate: “intercettazioni rilevanti”, per esempio, una sorta formula magica ad effetto desolatamente placebo . Quanta discrezionalità, a rischio arbitrio! Stessa musica per la motivazione per disporre intercettazioni nel luoghi di privata dimora: saranno “standard” che in realtà, uguali per tutti, non tuteleranno nessuno».
Quali saranno i prossimi passi del governo in materia di giustizia?
«Non è un mistero che i 5 Stelle, con i loro inseparabili fratelli giustizialisti per interesse del Pd, puntino a minare i gradi di giurisdizione, a colpire il divieto di reformatio in peius, e chissà che altro ancora. Per esorcizzare tutto questo, serve una lotta corale di avvocati, magistrati, giuristi e, soprattutto, la sensibilizzazione dei cittadini tutti: in gioco c’è il cuore della nostra democrazia, perchè la civiltà di un paese, come insegnava Renato Dell’Andro, si misura dalla qualità del processo penale».
Lei dice che è le norme del decreto sono incostituzionali, aspetta un intervento della Consulta?
«Sì, ma la domanda è: quanto tempo ci vorrà? Con l’articolo 4 bis della legge Bonafede ci siamo arrivati rapidamente, con la dichiarazione di incostituzionalità della folle pretesa di “galera retroattiva”. Diciamolo chiaramente: oggi i giudici, proprio per la debolezza imbarazzante del Legislatore, incompetente e ignavo, sono stati costretti a diventare Legislatori essi stessi. Non più supplenti dei vuoti parziali, ma estensori in toto. La sentenza Cappato della Consulta, le decisioni delle Sezioni Unite su rilevanti profili del processo penale e del diritto sostanziale penale ne offrono esempi. Tanto perché in questa legislatura la qualità della produzione delle leggi ha un virus mortale».
E quale sarebbe?
«Iniziative come il dl Intercettazioni hanno come unico obiettivo il risultato politico nell’immediato, a prescindere da competenze e diritti. È la terrificante lezione del diritto penale del consenso, costruito sull’incompetenza strutturale dei 5 Stelle e sulla deliberata correità del Pd. Una stagione inaugurata da Matteo Renzi con la memorabile la genesi dell’omicidio stradale».
I dem hanno maggiori responsabilità?
«Il Pd conosce esattamente i danni che sta arrecando al Paese con questo decreto. Ma stesso discorso vale per Italia Viva, “garantista per caso”, che simula dura lotta sulla prescrizione e poi vota la fiducia al dl Intercettazioni. Questa alternanza scientifica tra giustizialismo e garantismo la dice lunga sulla loro serietà e marca tutta la differenza tra loro e noi di Forza Italia, garantisti per Dna, sempre al fianco di chi, come le Camere penali, ha a cuore la tutela delle radici giuridiche».
Non resta che aspettare la Consulta, dunque?
«Oppure un governo diverso dal Conte 2. Basterebbe una notte per scrivere un decreto legge che cancelli queste ignominie e restituisca all’Italia certezze e al Parlamento dignità».
DL intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Sulle intercettazioni si possono fare complicati discorsi tecnici, e li lasciamo ai tecnici. Si può poi fare una riflessione, diciamo così, storico-statistica. E questa, che è semplice semplice, possiamo farla tutti e si esaurisce in una domanda: in quali ordinamenti lo Stato più fa ricorso a sistemi di controllo della vita dei cittadini, pedinandoli, fotografando i loro movimenti e appunto intercettandone le conversazioni? Nei sistemi autoritari e di polizia. E quali giustificazioni adottano quei sistemi, quando devono rendere conto dei motivi per cui organizzano un simile apparato di controllo pervasivo? Spiegano che si tratta di proteggere la società, il popolo, la rivoluzione. Non sono giustificazioni pressoché identiche, anche se diversamente denominate, rispetto a quelle che qui si adoperano a sostegno delle norme sulle intercettazioni? Sono identiche, e identicamente denunciano l’idea comune che le sorregge: che sia legittimo perseguire l’ordine sociale tenendo esposti i cittadini all’occhio inquirente del potere. Quando si fa osservare che una pratica di intercettazione come la nostra non ha eguali in nessun Paese civile, si risponde che qui da noi esiste una realtà criminale senza eguali. Già. Come dire che siccome in Calabria si delinque molto, allora bisogna smontarla come un Lego e procedere con i rastrellamenti pubblicizzati in mondovisione. Ne arresti trecento e qualcuno che l’ha fatta sporca lo trovi, così come becchi qualcuno che la dice brutta quando ne intercetti centomila. Ma è su quel che si diceva all’inizio che bisognerebbe riflettere: la vita dei cittadini è intercettata nei Paesi arretrati, dove si sta peggio, dove la democrazia non c’è o è soltanto un nome. Nei Paesi in cui il potere è in divisa. E non è meglio se la divisa è una toga.
DL intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà. Giorgio Spangher de Il Riformista il 23 Febbraio 2020. Decreto intercettazioni. Confermati gli ampi poteri al Pm sotto tutti i profili, con sottrazione degli stessi alla polizia giudiziaria, come richiesto dai Procuratori della Repubblica; ampio uso del captatore informatico, anche nei luoghi di privata dimora per i reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio per i reati contro la pubblica amministrazione, parificati in tutto ai reati di criminalità organizzata; diritto di accesso dei difensori delle parti all’ascolto e alle copie delle registrazioni solo nel caso del venir meno del segreto investigativo, che è rimesso alle determinazioni della Procura. La conversione risolve un dubbio interpretativo, confermando – quanto deciso dalla Corte costituzionale – relativamente al diritto della difesa di avere copia delle registrazioni che il Pm ha trasmesso al giudice con la richiesta delle misure cautelari. Si precisano le condizioni per l’accesso all’archivio delle registrazioni. Mentre va valutata positivamente la previsione per la quale l’intercettazione nei luoghi riservati con il trojan per i reati contro la pubblica amministrazione dovrà indicare le ragioni di questa intrusione che aggredisce la tutela costituzionale del domicilio, va valutata negativamente la disciplina dell’utilizzazione dei risultati intercettativi in altri procedimenti, diversi da quelli nei quali l’intercettazione è stata disposta. Si prevede, infatti, che i risultati siano utilizzati come prova – in violazione della regola del divieto – se si tratta dei reati per i quali l’arresto è obbligatorio, nonché per tutti i reati che consentono il ricorso alle intercettazioni, con la specificazione della loro indispensabilità e rilevanza. A parte l’elasticità di questi criteri, si autorizza – in questo modo – la cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati. Il dato trova una ancora più ampia estrinsecazione nel caso dei reati di criminalità organizzata e di criminalità economica: tutto ciò che emergerà dall’uso del trojan sarà utilizzabile come prova o ai sensi di quanto appena delineato, ovvero per quanto attiene ai reati della stessa natura, sempre alla luce del canone della indispensabilità da valutarsi dagli organi investigativi. Peraltro, ciò che non sarà direttamente utilizzabile, potrà costituire notitia criminis, avviando una autonoma attività di intercettazione, che sarà possibile anche nei casi appena indicati avviando una attività di captazione con il virus informatico a catena, cioè, senza fine. Già questo basterebbe per allarmare in ordine alla lesione dei diritti di libertà che in questo modo si pregiudicano e che sono tutelati dalla Costituzione. La materia si presta a qualche considerazione più ampia in considerazione del fatto che su questo tema si erano appena pronunciate le Sezioni unite che, alla luce dei presidi della materia (principio di legalità e tutela giurisdizionale) avevano dato una lettura costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata del tema. Si vuole, cioè, sottolineare come ormai le forze politiche e il Governo, non riescano più a tener conto di quanto la giurisdizione nel suo massimo livello indica. In altri termini, il senso di inquisitorietà ha pervaso a tal punto le forze di governo che ritengono di poter calpestare anche le sentenze della Suprema Corte.
Tutto il potere ai pm. Ecco cosa dice il nuovo testo sulle intercettazioni. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 febbraio 2020. La legge voluta dai 5Stelle approvata anche alla Camera. Maggiori poteri ai pm, forte estensione dell’utilizzo dei “captatori informatici”, sanzioni pressoché simboliche per chi viola il divieto di pubblicazione fuori dai casi consentiti. In estrema sintesi, sono questi i punti centrali della riforma delle intercettazioni telefoniche che troverà applicazione per i procedimenti penali iscritti a partire dal prossimo mese di maggio. Per tutti i procedimenti in corso continuerà ad applicarsi la disciplina attuale. La norma stravolge completamente la disciplina del 2017, voluta dall’allora ministro Andrea Orlando (Pd), e mai entrata in vigore in quanto oggetto di numerose proroghe. La novità più rilevante riguarda, come detto, l’incremento del poteri dei pm. Saranno loro, e non più la polizia giudiziaria come previsto nella riforma Orlando, a determinare e scegliere cosa è rilevante per le indagini e cosa non lo è. Sarà consentita, poi, la possibilità di usare i risultati delle intercettazioni in procedimenti penali diversi rispetto a quello nel quale l’intercettazione è stata autorizzata. Oltre che per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, tale possibilità è prevista anche per l’accertamento dei reati indicati nell’art. 266 del cpp qualora le intercettazioni siano ritenute “indispensabili e rilevanti” per l’accertamento della responsabilità penale. Questo in dettaglio. Per quanto attiene l’esecuzione delle intercettazioni, il testo ripropone sostanzialmente la formulazione antecedente la riforma del 2017 per la trasmissione dei verbali delle intercettazioni, la comunicazione ai difensori (che avranno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni), il procedimento incidentale finalizzato alla cernita ed alla selezione del materiale probatorio nell’ambito di una apposita udienza. Lo stralcio potrà riguardare, oltre alle registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione, anche quelle che riguardano dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Vengono ripristinate le disposizioni relative alla possibilità che alle operazioni di stralcio partecipi il pm ed il difensore; quest’ultimo potrà estrarre copia delle trascrizioni integrali delle registrazioni disposte dal giudice e potrà far eseguire copia. Come in passato, il gip disporrà la trascrizione integrale delle registrazioni, o la stampa delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, da acquisire poi con le forme della perizia tecnica. I verbali e le registrazioni, e ogni altro, saranno conservati integralmente nell’apposito “archivio delle intercettazioni” gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica. Non sarà, comunque, un archivio “riservato”. Le attività di intercettazione ambientale mediante utilizzo dei cd virus Trojan, già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, saranno estese anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio. Sono esclusi i delitti contro la pubblica amministrazione da quelli per i quali sarà necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Viene consentita l’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate per mezzo del captatore anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, a condizione che si tratti di reati contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o di delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale. I risultati delle intercettazioni dovranno essere indispensabili per l’accertamento di tali delitti. Nulla, invece, viene specificato circa le società private che forniranno le dotazione tecnologiche alla Procure. Essendo la riforma a “costo zero”, non è prevista una gara per l’identificazione di un fornitore unico nazionale o la creazione di un albo a cui rivolgersi. Un tema, dunque, molto delicato, quella della tenuta dei dati sensibili appaltati ai privati, su cui non è stata fornita alcune risposta chiara. Anche le conversazioni fra l’avvocato e il suo assistito, pur restando inutilizzabili, potranno continuare ad essere ascoltate dal pm meno “corretti”, svelando di fatto la strategia difensiva. Sparisce definitivamente l’ipotesi di “carcere” per chi viola il divieto di pubblicazione delle intercettazione, rimanendo in vita le sanzioni dell’articolo 114 cpp.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 26 febbraio 2020. Mentre non si esaurisce la polemica sulla abolizione della prescrizione, che è un regalo all' ingiustizia, il Parlamento dà il via libera al cosiddetto Trojan (potevano trovare un nome migliore, per esempio Putan), una diavoleria tecnologica applicando la quale è possibile spiare chiunque sia dotato di un cellulare. Ignoro come esattamente funzioni, ma dicono che nelle mani degli investigatori si trasformi in un' arma letale idonea a ridurre la privacy in una polpetta retorica. Prepariamoci al peggio, che è già cominciato, visto che Italia Viva, pur essendosi dichiarata garantista in materia giudiziaria, ha votato a favore del provvedimento liberticida. Complimenti vivissimi. Della vicenda riguardante le intercettazioni si discute da lustri, intanto esse vengono utilizzate praticamente in ogni indagine come se fossero, e non sono, affidabili. La lotta tra chi le vuole eliminare e chi incrementare vede prevalere immancabilmente la categoria opportunamente definita dei manettari. Di costoro ora assistiamo al trionfo propiziato dagli esultanti figli di Trojan. In sostanza si consegna ai pm un ennesimo mezzo per inchiodare, magari a casaccio, i cittadini. Anziché puntare a ottenere una giustizia più umana e depenalizzare i reati bagattellari, punendoli con un calcio nel sedere e non con una coltellata alla gola, si forniscono ai magistrati altri strumenti per esercitare il loro strapotere. I politici, quasi tutti, sono più portati a consegnare alle toghe strumenti di tortura sempre più raffinati, che non ad aiutare gli italiani a non subire eccessi giustizialisti, dimostrando in modo eclatante di fottersene del bene comune. L' ultima cosa che sta a cuore a deputati e senatori, specialmente della maggioranza, è il nostro benessere. Poi si stupiscono che la gente preferisca andare al mare che a votare. Ma stiano attenti perché la pazienza ha un limite oltre il quale può scoppiare un casino.
Renzi, non eri garantista? Come fai a votare i provvedimenti più forcaioli della storia della Repubblica? Piero Sansonetti de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Il Senato ha dato il via libera all’abolizione di fatto dell’articolo 15 della Costituzione. Quello che garantisce la riservatezza delle comunicazioni. Il decreto sulle intercettazioni, che è stato approvato ieri pomeriggio, rende quell’articolo (che era un pilastro della struttura liberale dello stato) un orpello inutile. L’Italia era già un paese a spionaggio diffuso. Molto più simile ai paesi ad autoritarismo conclamato che a quelli democratici. In nessun Paese a democrazia avanzata esiste niente di simile al sistema di intercettazioni a tappeto che esiste da noi. Quando il decreto diventerà operativo, il sistema delle intercettazioni sarà ancora più vasto, la possibilità di usare i Trojan (microspie che si installano come virus nei cellulari e nei computer) estesissima, e diventeranno pienamente legittime (in contrasto con una sentenza della Cassazione) le intercettazioni a strascico, cioè quel modo di fare le indagini che non parte dal reato ma dal soggetto che si vuole condannare. Per capirci: puoi chiedere di intercettare tizio accusandolo di omicidio, anche se sai che è innocente, poi accertare che l’omicidio non lo ha commesso ma ha preso, per esempio, una tangente, o ha trafficato qualche influenza (chissà poi che vuol dire trafficare un’influenza…) o ha commesso qualche altra malvagità di questo genere. E lo condanni. Saremo più o meno tutti sotto osservazione. Da mattina a notte. Sotto l’occhio dello Stato. Non dello Stato di polizia ma dello Stato dei Pm. Ai Pm sarà dato potere assoluto sull’uso delle intercettazioni. Loro le chiederanno, loro le ascolteranno e decideranno quali parti utilizzare. Loro, se vorranno, le manipoleranno, come hanno fatto con quelle dei ragazzi americani. Loro potranno violare la segretezza dei rapporti con gli avvocati. Loro decideranno cosa far sentire ai difensori e cosa no, e come archiviarle. Loro, se vorranno, le potranno distribuire ai giornalisti amici. Questo governo Conte è uno dei più illiberali della storia della Repubblica. I vecchi ricorderanno il governo Tambroni, spazzato via dalle manifestazioni di piazza, nel 1960. Beh, siamo lì. Ieri la ministra Lamorgese ha chiesto di realizzare le retate dei ragazzi che fumano gli spinelli e di sbatterli in prigione. Neanche Almirante lo pretendeva. Chiediamo a Renzi: e tu? Hai rivendicato tante volte il tuo garantismo. Cosa ci fai a votare insieme allo schieramento più forcaiolo della storia della Repubblica? Renzi risponderà: ma io ieri non ho votato. Già, ma il tuo partito sì. È ragionevole questo? La libertà si sacrifica a una sconclusionata ragion di Stato? Il decreto ora va alla Camera: possiamo sperare che Italia Viva lo faccia saltare? Che difenda il diritto?
Intercettazioni, la libertà di spiare che piace tanto al giornalismo moderno. Angela Azzaro de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Le intercettazioni non colpiscono solo i diritti della persona e per una giustizia giusta. Hanno lasciato per terra un’altra vittima: esangue, umiliata, senza più un filo di voce autorevole. Questa vittima si chiama informazione: di carta, web e televisiva. Decenni di intercettazioni sbattute sulle pagine dei giornali, hanno cambiato anche il modo di fare informazione, hanno modificato il rapporto che i giornalisti hanno con le notizie. Invece di indagare, approfondire, verificare la fonte, tutto è di colpo più facile: basta prendere le intercettazioni fatte delle procure, non preoccuparsi della privacy o della dignità delle persone e pubblicare tutto, sperando di vendere di più. L’apice lo abbiamo raggiunto con Berlusconi: tutto, ma proprio tutto, è stato ripreso da media. Spesso il penale non c’entrava per nulla. E con la scusa della morale, molti giornali hanno proposto pagine e pagine che di morale avevano poco, trasudavano invece moralismo, perbenismo. E ferocia. In nome della libertà di espressione, ormai è passata l’idea che si possa e debba mettere in piazza la vita privata delle persone e se, dicono qualcosa di sbagliato, le si sottopone al pubblico ludibrio. Inutile ricordare come una parola fuori contesto assume un significato diverso da quello originale, ancora più inutile sottolineare come una dichiarazione fatta in privato non ha la stessa valenza di una dichiarazione pubblica. Ciò che conta è spiare, osservare gli altri dal buco della serratura come davanti alla scena primaria, quella che secondo Freud mette tutti davanti alla scoperta della sessualità dei propri genitori. E qui troviamo una seconda vittima di questa messa in scena che sa tanto di gogna, lettori, spettatori e quindi cittadini e cittadine che in questi anni si sono nutriti di questi racconti. Abbiamo letto le vite degli altri, abbiamo sorriso, a volte anche riso, delle altrui debolezze, abbiamo fatto processi sommari sulla base di un dialogo, di una frase, di un altrui risata. Siamo diventati spietati. Le intercettazioni non ci hanno reso più sensibili, più attenti, più solidali. Al contrario hanno spezzato la possibilità di identificarci nell’altro: nei suoi errori, nelle sue debolezze, nelle sue paure. Quando leggiamo questi racconti, trascritti quasi sempre malamente e ora scopriamo anche distorcendo il significato, dimentichiamo d’un colpo millenni di cultura, di storia, di letteratura. Se con Fëdor Dostoevskij abbiamo avuto la possibilità di entrare nella testa e nel cuore di un assassino, di perdonare il suo gesto, leggendo i resoconti dello spionaggio delle procure, siamo diventati solo più cattivi, insensibili, pronti a giudicare e condannare l’altro. Nel romanzo La Panne di Friedrich Dürrenmatt un pm, un giudice, un avvocato e un boia si divertono a rifare i grandi processi del passato oppure si accaniscono su persone prese a caso, convinte, come Davigo “che tutti abbiano una colpa da nascondere”. I quattro un giorno incontrano un commesso viaggiatore, a cui si è rotta la macchina e a cui danno ospitalità, che viene processato e condannato. A morte. Lo scherzo finisce in maniera tragica, perché l’imputato per gioco si toglie la vita per davvero. Il terribile gruppo oggi è composto anche da giornali e tv. E da tutti noi. Finché quelle intercettazioni non sconvolgono anche le nostre vite, la nostra privacy. Ma c’è chi continua a chiamare la loro pubblicazione libertà di espressione. Almeno cambiamogli nome e chiamiamola, più precisamente, libertà di spiare e di linciare, con la benedizione dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa che o non dicono nulla o difendono questa barbarie. Il romanzo di Dürrenmatt, che è anche un film con Alberto Sordi, ha come sottotitolo: una storia ancora possibile…
Caiazza: “La riforma delle intercettazioni è figlia del giacobinismo giudiziario”. Il Dubbio il 28 febbraio 2020.
La denuncia del presidente delle Camere penali: “Hanno anche approvato il trojan, un virus informatico che trasforma il tuo cellulare nel tuo microfono, e che ti segue ovunque tu vada”. “L’allora ministro della Giustizia Orlando aveva inteso mettere mano alle norme sulle intercettazioni telefoniche ed ambientali. L’intenzione era quella di porre un freno alla pubblicazione indiscriminata ed incontrollata divenuta abituale sui media nostrani di uno degli atti più intimi della persona: una conversazione privata. Dei buoni propositi del Ministro Orlando non vi è traccia in questo ennesimo capolavoro di questo governo giacobino”. Parole del presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza. “Un po’ di freno alla Polizia Giudiziaria, ipertrofia dei poteri del pm, nessuna sanzione seria per gli sputtanatori – lamenta Caiazza – Invece, ampliamento della pesca a strascico dei reati, per cui ti autorizzo per il reato A, ma se scopri anche B e C prendi pure, non si butta nulla, anche mediante trojan, un virus informatico che trasforma il tuo cellulare nel tuo microfono, e che ti segue ovunque tu vada, facendosi finta di accendere e spegnere se vai alla toilette o in camera da letto, come se fosse mai davvero possibile”. Per Caiazza, “sono decenni che rigorosi principi vengono erosi da norme e da interpretazione di norme sempre nel segno di ampliarne e garantirne la violazione. I reati per i quali sono consentite intercettazioni sono in numero sempre crescente; le motivazioni autorizzative sempre meno stringenti e sempre più generiche e stereotipe; l’impunità degli sputtanatori conclamata”.
Giovanni Maria Flick: «Intercettazioni, qui si colpisce la base della nostra civiltà». Errico Novi su Il Dubbio il 29 febbraio 2020. Per il presidente emerito della Consulta, l’uso dei trojan a strascico nega l’inviolabilità delle comunicazioni, cioè la base della civiltà. «Sa, in una democrazia è importante stabilire le regole del gioco. Invece a me sembra che da un po’, anche con il decreto intercettazioni, si indulga troppo nel gioco delle regole». Non è un calembour, no, se si pensa che persino il presidente Giovanni Maria Flick, nello sfogliare i prospetti comparativi delle nuove, vecchie e vecchissime norme sulle intercettazioni, è sconcertato dall’ «incredibile, sconcertante intreccio di modifiche, tale da prefigurare un chiarissimo rischio di confilitti interpretativi. E guardi», dice il presidente emerito della Corte costituzionale, fin dal principio di un’ampia e per certi versi appassionata riflessione sul decreto legge e su alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione, «che le difficoltà non saranno solo dei miei bravissimi colleghi ricercatori, destinati a misurarsi con questo groviglio nelle loro attività universitarie, ma innanzitutto dei magistrati e degli avvocati che quel groviglio dovranno applicare». Ma un po’ l’azzardo del legislatore colto da Flick è il riflesso, il correlativo oggettivo, per così dire, della tendenza a scherzare col fuoco dei diritti, «una tendenza giustizialista che è tra le ragioni, se non la ragione ultima del Movimento 5 Stelle, ma temo sia anche radicata, seppur in modo meno profondo, nel Partito democratico, che non è mai riuscito a liberarsi davvero di quella matrice». Non che gli interessi soffermarsi su valutazioni del genere, ma è a una simile rischiosa iperbole giustizialista che il presidente Flick riconduce «il grave tradimento della libertà di comunicazione sancita dalla nostra Carta non solo nella sua declinazione pubblica, e politica, all’articolo 21, ma anche al troppo poco evocato articolo 15, quale libertà del singolo di comunicare con chi vuole nella garanzia della segretezza, che può essere limitata solo in virtù di previsioni di legge. Tassative previsioni. Non approssimative, indefinite e confuse quali sembrano anche le norme contenute nel decreto sulle intercettazioni appena convertito in legge dal Parlamento».
Insomma, quest’ultimo provvedimento è un colpo pesante ai diritti?
«Aspetti un momento. Il colpo davvero decisivo, e pesante, non è tanto nel decreto appena convertito in legge. È nella cosiddetta legge spazza corrotti. È lì che si decide di introdurre un uso delle intercettazioni, in particolare di quelle acquisite con i trojan, anche per i reti di corruzione. Si è trattato dell’intervento normativo che forse più di tutti ha realizzato la pretesa assimilabilità fra mafia e reati contro la pubblica amministrazione. Una correlazione sbagliata, perché la mafia si basa sulla violenza, la corruzione su un accordo illecito. Sbagliata proprio in radice. Se vogliamo, il difetto più grave dell’ultimo provvedimento è nel metodo prima ancora che nel contenuto».
Si riferisce alla sovrapposizione fra le norme appena convertite in legge e il decreto Orlando?
«Mi riferisco al fatto che la riforma Orlando, contenuta, attenzione, in un decreto legislativo e non in un provvedimento d’urgenza, era stata rinviata nella sua entrata in vigore assai numerose volte. Ora, mi saprebbe dire dove sarebbe la “straordinaria urgenza”, dichiarata nel testo dell’ultimo decreto, di intervenire su una materia rimasta congelata per due anni? Me lo dice dov’è l’urgenza?»
E poi c’è la contorsione tecnico normativa, così esiziale da condurre alla nevrosi il malcapitato costretto a leggere il testo.
«E sì, ma come le ho detto tra i malcapitati ci saranno magistrati e avvocati che dovranno applicarlo. Si figuri quanti conflitti d’interpretazione ne potranno nascere».
È di queste ore una polemica sul rapporto della Commissione europea in materia di giustizia, che approva la riforma della prescrizione e ha perciò suscitato l’esultanza dei deputati cinque stelle: perché allora non ci si ricorda pure che in Europa siamo quelli che usano di più le intercettazioni?
«Non lo deve chiedere a me, almeno su questo non credo di poter rispondere. Credo solo di poter ricordare che sul consistente, forse eccessivo ricorso alle intercettazioni sono venuti richiami in numerose inaugurazioni dell’anno giudiziario, così come ne sono venute sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare: le sembra che la cosa abbia avuto conseguenze? Il problema del ricorso eccessivo, a mio giudizio, ha rilievo però soprattutto rispetto al rischio della pesca a strascico».
Che viene innalzato, dall’ultimo decreto?
«Credo si debba rispondere a partire da un percorso giurisprudenziale. Si è discusso per molto tempo, lo si fa da diversi anni, sul legittimo uso di intercettazioni autorizzate per un determinato procedimento anche per l’accertamento di reati diversi. Da molto tempo è stato acquisito in modo pacifico il ricorso per reati diversi che comportino l’arresto in flagranza. In quel caso si tratta di esigenze di politica criminale e non c’è contestazione. Poi però il conflitto ha coinvolto chi ritiene insuperabile il limite della connessione fra i reati e chi invece lo ritiene superabile. Nell’ultimo caso si pone un problema enorme, perché l’uso per reati non collegati lascia sguarnita la necessità di una autorizzazione. Si pretende di far riferimento alla categoria dell’indispensabile. Ma come si fa a valutare se l’acquisizione delle captazioni in un procedimento diverso sia davvero indispensabile per la prosecuzione di quest’ultimo? Salta del tutto il principio per cui il pm domanda al giudice il via libera sulla base di quella irrinunciabilità per l’indagine».
Chiarissimo. Ma allora perché con l’ultimo decreto si è esteso così allegramente l’uso per reati diversi?
«Va segnalato un aspetto forse decisivo, senz’altro illuminante sul modo in cui si ritiene di poter legiferare. Poco prima che l’ex presidente del Senato Pietro Grasso proponesse l’emendamento estensivo sull’uso delle intercettazioni per reati diversi da quelli per i quali sono autorizzate, era stata depositata una sentenza di straordinario rilievo della Cassazione, la sentenza Cavallo, che definiva una volta per tutte quel conflitto giurisprudenziale. La pronuncia ha stabilito che i reati diversi devono essere comunque collegati a quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Vale a dire, ritiene insuperabile il limite che si riferisce all’articolo 12 del codice di procedura penale, dov’è definita la nozione di reato connesso. Deve trattarsi di un illecito compiuto per nascondere il precedente, di un reato attribuito a una persona che ha agito in concorso con l’autore del reato precedente oppure di un reato riconducibile al medesimo disegno criminoso. Da qui non si scappa. Non si dovrebbe, almeno. Perché tale logica regge, seppur forse con uno sforzo di buona volontà, in quanto la prima autorizzazione può essere considerata implicitamente riferibile anche agli altri reati».
Benissimo, chiaro, solare: e allora com’è che il legislatore se n’è infischiato?
«È grave che se ne sia infischiato. La sentenza in questione è stata pronunciata dalla Suprema corte a sezioni unite. E appunto, tali pronunce hanno valore nomofilattico, vale a dire che è opportuno pensarci bene prima di discostarsene. I giudici difficilmente se ne sarebbero discostati».
Il legislatore lo ha fatto.
«E qui rispondo alla sua domanda iniziale: la sola possibile logica di una simile scelta normativa si spiega nella volontà di venire incontro alle spinte dei pm affinché fosse di fatto consentita la pesca a strascico dei reati tramite intercettazioni. Della serie: noi caliamo la rete, poi vediamo cosa ci resta impigliato. Vorrei ricordare che l’estensione all’uso delle captazioni per l’accertamento di reati diversi, e non collegati, riguarda specificamente le intercettazioni ambientali effettuate con i trojan, anche per i reati di corruzione. Oltre a quelle fatte con altri strumenti se relative a reati gravi di cui all’articolo 266 primo comma».
La nuova norma dice che l’uso delle intercettazioni fatte coi trojan è consentito anche per reati diversi, compresi quelli di corruzione, se però si tratta di materiale indispensabile per accertare quegli illeciti.
«Ecco, e allora noi veniamo al nodo chiave. La categoria dell’indispensabile rischia di non soddisfare l’esigenza di tassatività della previsione di legge, che invece è richiesta dall’articolo 15 della Costituzione, quando consente solo nelle forme garantite dalla legge di violare la libertà di comunicazione privata. Vede, qui parliamo di un bene primario parallelo alla libertà di manifestazione del pensiero sancita all’articolo 21, dov’è la base della democrazia. All’articolo 15 è consacrato il diritto alla diversità e all’identità della persona, che deve poter comunicare privatamente con chi vuole, in condizioni di segretezza. Adesso le dirò una cosa che potrà sembrare sconvolgente».
Cosa?
«Ha presente la sentenza Cavallo che ho citato prima, che definisce il limite dei reati connessi? In quella sentenza le sezioni unite fanno ampio riferimento all’articolo 15. A un principio a cui si può, sì, contrapporre un altro interesse, quello della collettività all’accertamento delle condotte illecite, ma solo in modo proporzionato. Vuol dire che a un giudice deve essere assicurato lo strumento di legge in grado di verificare che, nel singolo caso, davvero ci sia un interesse superiore a quello dell’inviolabilità delle comunicazioni private, e cioè alla identità e diversità della singola persona. E come fa un giudice a bilanciare quegli interessi se non può autorizzare l’uso di un’intercettazione per reati diversi da quelli per i quali l’aveva inizialmente autorizzata?»
Il presidente del Cnf Mascherin ha denunciato il rischio che la tecnologia dei trojan sfugga di mano.
«E non dovremmo lasciarcela sfuggire. La tecnologia è madre, perché spalanca nuovi diritti, ma può essere anche matrigna, perché ne può soffocare altri ancora. Vede, è sorprendente davvero che si parli tanto della reputazione, delle intercettazioni diffamanti da non sbattere in prima pagina, del dovere di informazione a tutti i costi da parte dei media, del diritto di conoscere i dettagli privati della vita della persona pubblica, e così poco della libertà di comunicare il proprio pensiero nella segretezza di una relazione privata. È strano perché, se è vero che tale diritto attiene al libero manifestarsi di una identità e di una diversità della persona, ci si dovrebbe forse ricordare che proprio di fronte a una tecnologia così pervasiva, proprio in una società in cui la comunicazione e l’informazione sono tutto, dovremmo essere ancora più preoccupati dal rischio che una conoscibilità così assoluta comprometta l’identità della persona, la travolga. Ecco, in questo senso davvero l’uso di uno strumento come i trojan, se consentito in modo indiscriminato come avviene con l’ultimo decreto, può sfuggire di mano».
Ma in ogni caso, lei dice, l’argine è saltato con la “spazza corrotti”, non con questo decreto.
«Sì, la deriva è in quell’estensione dei trojan, anche nel luogo del domicilio privato, ai reati di corruzione. Va detto che nel decreto intercettazioni appena convertito in legge si colgono anche aspetti condivisibili. Innanzitutto il ripristino del controllo del pm sulla selezione delle intercettazioni rilevanti, che invece il decreto Orlando aveva affidato in maniera quasi esclusiva alla polizia giudiziaria. Viene restituito al difensore il diritto ad estrarre copia del materiale intercettato, viene restituita la necessaria centralità all’udienza stralcio. Però vede, credo sia legittimo porsi comunque degli interrogativi sul metodo, a prescindere dai contenuti più o meno condivisibili».
La scelta del decreto legge dopo anni di rinvio?
«Pensi a come può reagire il privato cittadino di fronte al fatto che, in piena emergenza coronavirus, si ritenga “straordinariamente urgente” intervenire su una riforma vecchia di due anni in materia di intercettazioni. Oppure si provi a immaginare cosa pensa un cittadino dell’affannarsi sulla prescrizione, con quello che gli capita intorno. Diciamo che se per caso potesse dire quello che pensa a un parlamentare incontrato per strada, il rischio che lo mandi a quel paese è elevato. Poi sa, certe tempistiche sono sempre un po’ sospette».
Cioè, ha fatto comodo nascondersi all’ombra dell’emergenza?
«Ricorda un certo decreto in materia di custodia cautelare emanato nel 1994 in coincidenza con un’attesa gara dei Mondiali di calcio? Devo proprio tornare a quanto le ho detto all’inizio. Si dovrebbe avere non una simile disinvoltura, ma un’idea sacra delle regole del gioco. E invece ci si diletta nel gioco delle regole, ed è una cosa pericolosa quanto le intercettazioni a strascico».
Umberto Rapetto per infosec.news l'1 marzo 2020. La contaminazione più pericolosa di questi giorni è in realtà quella informatica su cui poggia il funzionamento dei Cavalli di Troia utilizzati legalmente dalla magistratura, e illegalmente da chissà chi, per entrare nelle vite degli altri. Parliamo (o meglio non parliamo, o lo si fa troppo poco oppure senza conoscere la questione) di un’infezione per la quale non esistono mascherine protettive e nemmeno gel disinfettanti, una pandemia il cui propagarsi è incentivato dal fatto che quel genere di bacillo serve per il nobile scopo di assicurare alla giustizia malfattori e furfanti. Il non mai abbastanza vituperato “trojan” è un sistema che si basa sul contagio informatico di un dispositivo (personal computer, tablet o smartphone) per acquisirne il controllo da remoto. In elementari termini pratici, l’apparato infettato finisce con l’essere dominato da un soggetto esterno che – approfittando di tutt’altro che immaginari “super poteri” – è in grado di carpire qualunque contenuto sia stato memorizzato e di spiare qualsivoglia comportamento. Se questo “trailer” sembra già poco rassicurante, è bene mettere in guardia chi recita la giaculatoria “male non fare, paura non avere” nell’erronea convinzione di andare esente da brutte sorprese. Il trojan è una grana che fa precipitare il quisque de populo in condizioni lacoontiche, stritolato dalle spire di un mostro digitale la cui efferatezza va ben oltre mitologiche metafore. Non è semplicemente uno strumento di ausilio alle indagini, come è stato dipinto da certe distratte pennellate, ma un potentissimo grimaldello la cui produzione e commercializzazione dovrebbe essere oggetto di rigoroso controllo da parte dello Stato e dei governi degli altri Paesi. E’ un tema che non si liquida in poche righe e così ritengo un dovere civico affrontarlo a margine delle improduttive lagnanze che si sono susseguite dai banchi dell’opposizione, nelle discussioni parlamentari sul tema nel doloroso tentativo di fermare l’approvazione delle relative norme. L’incompetenza tecnica (non me ne vogliano gli interessati) non ha consentito a deputati e senatori di assumere il ruolo del cosiddetto “Wángwéi lín”, ovvero “l’uomo del carrarmato”, diventato l’icona della rivolta di Tien-an-men e della capacità di fermare i cingoli della prepotente tirannia. Il braccio di ferro tra volenti e nolenti è stato appannaggio di quelli cui è bastato sapere che potevano coadiuvare le investigazioni. Ma se onorevoli e senatori – si fosse mai trattato della somministrazione di un farmaco – avessero avuto tra le loro mani il “bugiardino” del medicinale da prescrivere al Paese, è facile immaginare che la lettura delle possibili (e tutt’altro che improbabili) controindicazioni avrebbe indotto a riflettere sull’opportunità di rivedere la terapia del contrasto a certi crimini. Anche la dissertazione sull’argomento rischia una frastornante overdose e quindi ritengo necessario osservare una posologia misurata, che permetta anche a tutti (nessuno escluso) di acquisire gradualmente la capacità di comprendere le troppe sfaccettature del problema. Se queste righe sono una sorta di “prova allergica” (indispensabile per accertare il non verificarsi di reazioni del tipo “Ma che stai a ‘ddì?” di romanesca espressione), la prima pillola da ingurgitare si limita a spiegare cosa altro può fare il “trojan” rispetto quel che è stato annunciato. La possibilità di controllare a distanza uno smartphone non esclude (se non a chiacchiere) che chi ha progettato il sistema abbia inserito funzionalità debordanti il semplice “ascoltare e copiare”. Il trojan può teoricamente consentire di eseguire mille altre operazioni, come dar luogo a spericolate navigazioni online (magari a caccia di materiale pedopornografico) e al caricamento e memorizzazione di file (documenti, immagini, video, contatti, agende…) mai posseduti dal legittimo utente del dispositivo. E’, se vogliamo, la versione odierna del poter mettere un pacchetto di sostanze stupefacenti o una pistola con la matricola abrasa sotto al sedile dell’auto del tizio da incastrare. Non andiamo oltre, ma limitiamoci a far capire a chi ha minor confidenza con questo genere di cose che non parliamo di novità tecnologiche dell’ultim’ora. Mi permetto di segnalare un mio articolo uscito quattordici anni fa, il 21 marzo 2006 su Italia Oggi, intitolato “Il virus che pedina le mosse del mouse”. Probabilmente ho scritto di queste cose anche prima di allora, ma complice il weekend tocca accontentarsi e prendere atto di questa piccola testimonianza. In questi giorni si avrà modo di vedere da vicino una serie di prospettive della “questione trojan” che magari sono sfuggite ai più distratti. L’argomento merita di essere degustato. Come diceva la réclame di un noto liquore beneventano, “il primo sorso affascina, il secondo strega”. Tornate a leggere. Vi aspetto.
Umberto Rapetto per infosec.news il 4 marzo 2020. “Porca Trojan!” si lascerà scappare qualcuno al pensiero che si torni sull’argomento. Siccome “melius est abundare quam deficere”, riprendiamo il discorso. E’ opportuno, forse indispensabile, saperne di più. E non è semplice questione di curiosità, ma necessità di generare anticorpi culturali che sono fondamentali in un’epoca in cui sembra non bastare l’invisibile dittatura di Amazon, Google, Facebook & C. Tutti si trincerano dietro all’emergenza virale. L’informazione è monopolizzata dalla cronaca di contagi, decessi e (fortunatamente) guarigioni, da commenti di improbabili opinionisti, da consigli pratici preventivi affidati a virologi del calibro di Barbara D’Urso che – meno male! – ha spiegato agli italiani come ci si lava le mani, da previsioni catastrofiche che nemmeno “l’ottimismo è il profumo della vita” dell’indimenticabile Tonino Guerra riuscirebbe a capovolgere. In un clima di ipnosi crescente, credo sia necessario pensare anche alla salute dei diritti civili e della democrazia. Anche la libertà è problema di sanità pubblica, perché – se mai le si potesse fare il tampone o misurare la temperatura – le sue condizioni cliniche imporrebbero senza dubbio iniziative non procrastinabili. La legittimazione di determinate metodologie investigative ha innescato una evidente “domanda” sul mercato, solleticando gli appetiti degli imprenditori del settore dell’innovazione ma anche quelli del crimine organizzato sempre pronto ad afferrare al volo avvincenti occasioni di profitto. Un manager (dimentichiamoci lo stereotipo del boss con la coppola) delle più industrializzate associazioni a delinquere sa di poter contare sulla committenza delle Procure della Repubblica all’affannata caccia di soluzioni tecnologiche idonee ad accelerare il perseguimento degli obiettivi di Giustizia. La creazione di una software house mirata e competitiva non richiede grossi sacrifici alla mafia o alla ‘ndrangheta. Il momento, poi, è particolarmente favorevole per l’abbondanza di imprese decotte pronte ad abbassare la saracinesca e di straordinari professionisti lasciati a casa dalla “riorganizzazione aziendale” che in un periodo di crisi permette impietose epurazioni. Il prodotto, confezionato per essere ragionevolmente “adottabile” dall’Autorità Giudiziaria sul territorio, potrà non corrispondere a quel che si profila all’acquirente o a chi opta per il noleggio di certi sistemi. Il “trojan” potrebbe risultare inaffidabile (e “risultare” è improprio, visto che probabilmente mai nessuno si accorgerà di nulla) e tenere comportamenti difformi rispetto le aspettative di chi lo ha comprato e le caratteristiche tecniche dichiarate su depliant, brochure e slide da videoproiettore. Il trojan – sappiamo o lo stiamo imparando – prende il controllo dello smartphone o del computer della persona sottoposta ad indagine, consentendo tra l’altro (e non è dato conoscere la vastità del cosiddetto “altro”) di copiare quanto memorizzato e di acquisire conversazioni in voce e corrispondenza via mail e in chat. Il “malloppo” viene spedito ad un archivio elettronico che affianca i faldoni delle investigazioni “tradizionali”. Il trasferimento si concretizza nel passaggio telematico di file dal dispositivo “target” (cioè preso di mira) ed un server sicuro a disposizione della Procura operante. Il software in questione, però, potrebbe anche mandare (complice una specie di carta carbone virtuale) le medesime informazioni anche ad un altro sistema informatico governato dall’azienda produttrice per un reimpiego diretto o su commissione. Qualcuno è pronto ad alzare un dito e a dire che un simile traffico anomalo di dati non passerebbe inosservato, ma dimentica che l’unico punto in cui è possibile rilevare un incremento dei flussi di trasferimento delle informazioni non è nelle mani del magistrato ma in quelle dell’ignaro (si spera) bersaglio della “captazione informatica”. Il tizio non si accorgerà di nulla e il trojan (nel rispetto della mitologia dei film di spie) distruggerà ogni traccia…E’ fin troppo ovvio che il fornitore non consegnerà mai i “codici sorgente” del proprio software, giustificato dal timore che prima o poi qualcuno ne riesca a carpire le istruzioni fuoriuscite dal ben protetto perimetro del contesto in cui sono state sviluppate. Al pari di uno chef – geloso delle prelibate ricette e dei relativi ingredienti e dosaggi – nessuno metterebbe in gioco il frutto dei sacrifici dell’attività di ricerca per la realizzazione di un siffatto programma. In ogni caso, poi, il committente non sarebbe in grado di eviscerare il software per individuare e rimuovere eventuali bocconi avvelenati. La stessa fase di “inoculazione” è affidata ai tecnici del produttore del trojan, che hanno quindi visibilità sull’identificazione anagrafica dei destinatari dello “scherzetto”…Chi lavora per l’azienda di software in questione è affidabile? Oppure è un vecchio lupo di mare, avvezzo alle burrasche della vita, magari con le cicatrici di un licenziamento ingiusto o di un mancato pagamento degli emolumenti spettanti? Non è da escludere che chi ha messo il proprio ingegno nello sviluppo del trojan abbia interesse a cautelarsi, magari piazzando qui e là una “backdoor”. Backdoor? Sì, parliamo della possibilità di predisporre invisibili “ingressi sul retro” con cui accedere non solo per più agevoli operazioni di manutenzione e miglioramento del software. In parole povere, non è da escludere che l’indagato più sfigato debba fare i conti con la Procura, con la software house e con il dipendente animato da spirito di revenche. Interrompiamo la chiacchierata per non fare indigestione di timori e di assilli. Abbiamo perso (o comunque stiamo perdendo) l’abitudine a pensare, quasi le risposte fossero davvero già pronte e basti un motore di ricerca online per trovare sempre quelle giuste. Torniamo presto sull’argomento. Giusto il tempo per digerire il mattone di oggi.
· La spazzacorrotti. Una norma giustizialista che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia.
La spazzacorrotti è uno schifo, una sfida a Falcone e a chi combatte la mafia. Piero Sansonetti de Il Riformista il 12 Febbraio 2020. La spazzacorrotti, come l’hanno chiamata con un linguaggio da trivio, è una delle leggi peggiori e più reazionarie mai approvate dal Parlamento della Repubblica. In due parole spieghiamo cos’è. Una norma che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia. Dal punto di vista di principio, questa legge ha stabilito che Roberto Formigoni – per esempio – deve essere trattato non come tutti gli altri condannati per reati vari (rapina, stupro, omicidio o cose così) ma come un mafioso: come Riina, o Provenzano, o Bagarella. Non solo in linea di principio, ma anche in linea pratica. Formigoni non può godere dei benefici penitenziari riservati a un assassino qualunque, perché lui – anche se non ci sono le prove – ha commesso un reato molto, molto più grave di quello commesso da chi – in un momento di confusione – ha – mettiamo – massacrato la moglie o sgozzato una figliola: Formigoni si è fatto ospitare in barca da un amico col quale – forse – aveva avuto rapporti politico-professionali nel suo ruolo di amministratore. Abuso: al rogo. Perché la spazzacorrotti è una pessima legge? Per tre ragioni.
La prima è abbastanza evidente. Equiparare un reato, anche piccolo, di corruzione, a un reato di mafia, è un atto evidente di insolenza e di sfida a tanta gente che ha dedicato la vita a capire e a combattere la mafia. Penso sempre a Falcone e a tanti che lavorarono con lui, e impiegarono anni, e tanta della loro credibilità, per spiegarci cosa fosse la mafia, come funzionasse, quanto e perché fosse pericolosa. Poi sono arrivati questi ragazzi a 5 Stelle e hanno deciso che mafia o traffico di influenze sono la stessa cosa.
Seconda ragione. Proclamare una nuova gerarchia di reati nella quale abuso d’ufficio è molto più grave di stupro è qualcosa di orribile, di atroce, che può provocare – anzi, che provoca – una ferita difficile da rimarginare nel senso comune.
Terza ragione, ma questa è più complessa e non riguarda i 5 Stelle ma chi ha governato prima di loro e ha aperto loro la strada: la giustizia, in un vero Stato di diritto, è uguale per tutti. Ci sono i reati più gravi e quelli meno gravi, ma ci dovrebbe essere un solo binario della giustizia. Il doppio binario è uno sgarro anche alla ragionevolezza. Sia il doppio binario nelle procedure e nei metodi di indagine, sia il doppio binario nelle punizioni. Riusciremo mai ad abolire questa anomalia? Intanto noi proviamo a chiederlo. E facciamo scandalo.
Severino e Spazzacorrotti hanno fallito, processi ai singoli non come deterrente. Alberto Cisterna de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Un’indagine di corruzione, come altre, come tante. Un’indagine all’apparenza anche ben condotta e capace di incidere in un ganglio di malaffare di un certo livello. Sin qui nulla da dire, anzi non si può che essere soddisfatti. Poi, come un’ombra che rannuvola, le parole del pubblico ministero. Si duole la toga della circostanza che «i numerosi provvedimenti restrittivi emessi» in altri procedimenti «non abbiano esercitato alcun effetto deterrente rispetto alle analoghe condotte contestate agli odierni indagati nella presente vicenda». Parole che schiudono, con una certa schiettezza e sincerità, uno scenario non certo imprevisto o eccentrico, ma tenuto sempre in disparte e in ombra dai tempi di Tangentopoli in poi. Ossia che le manette dovessero avere anche un «effetto deterrente» per i consociati. Si badi bene non per gli stessi indagati – magari arrestati in altre indagini e incalliti recidivi – ma per tutti coloro i quali operano come loro in quel mondo, si muovono in quell’amministrazione consumando altre corruzioni e altro malaffare. E qui si impone una riflessione. Non sta scritto in nessuna norma del codice che si possa rimproverare a un indagato di non aver subìto l’effetto deterrente di altre misure emesse in altri processi. Non sta scritto perché ogni misura restrittiva costituisce o dovrebbe costituire l’esito di una rigorosa valutazione “personalizzata” dei fatti in cui a rilevare dovrebbero essere solo le condotte dell’arrestato, non la sua insensibilità al monito pubblico che deriva dall’enfatizzazione mediatica di precedenti catture. Appare chiaro, non nelle parole ora ricordate, in sé marginali, ma nell’ideologia dell’uso della custodia cautelare che esse evocano che il ricorso alle manette risente (ancora e in modo prepotente) della volontà dell’inquirente di imprimere un monito, una deterrenza nella comunità in modo da frenare ogni malintenzionato dall’idea di commettere lo stesso reato. Non è una volontà obliqua o illecita quella dell’inquirente, si badi bene, ma piuttosto appare direttamente coerente a una radicata visione della giurisdizione investigativa intesa come strumento per realizzare e affermare il controllo di legalità. Se il fine dell’attività inquirente è quello di vigilare sulla legalità/moralità (si vedano le insuperabili parole di Filippo Sgubbi in «Diritto penale totale») dei consociati e dei pubblici amministratori in particolare, allora è necessario, anzi indispensabile che ogni tintinnar di manette susciti una deterrenza ovvero la paura di subire la stessa sorte se si commetteranno gli stessi reati. E questo a prescindere da ogni “personalizzazione” e da ogni adeguamento della misura al singolo fatto in modo da affermare un’uguaglianza cieca che equipara tra loro i sudditi, senza considerarli cittadini. Alla pena esemplare si sostituisce, anticipandola, la misura esemplare quale conseguenza diretta proporzionale e proporzionata alla callidità del reo non per ciò che ha commesso, ma per il fatto che subdolamente ha anche ignorato l’ammonimento impartito agli altri e non si è preoccupato di modificare repentinamente le proprie condotte per non incorrere nello stesso rigore. Certo traspare in questa posizione un senso di impotenza e di sconsolato pessimismo sulla condizione della società, ma questo non può giustificare un fallo da frustrazione sul reprobo di turno. Se non si vince la partita non si può certo azzoppare il lesto attaccante avversario che continua a fare goal, pensando così di intimidire tutta la squadra avversaria e tutte le altre formazioni delle dispute a venire. Il processo ha delle regole, efficaci o inefficaci non tocca ai magistrati stabilirlo, che devono essere osservate sempre e comunque quanti reti segni l’avversario e quanto pesante possa sembrare la posizione di classifica. Semplicemente perché non esiste un campionato e non sono previsti bilanci consuntivi per l’inquirente, ma ogni processo è una partita singola, irripetibile e unica da giocare sempre con lealtà e senza rancori o accanimenti di sorta. Non si mandano segnali agli avversari, né li si intimidisce con messaggi trasversali, avvantaggiandosi degli immancabili coreuti del manettarismo (ulteriore degenerazione del giustizialismo). Infine, trattandosi di corruzione e di appalti, proprio le considerazioni da cui ha preso avvio questa breve riflessione inducono a un ulteriore punto di analisi circa l’efficacia che la legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno avuto sul versante della prevenzione del malaffare. Innanzitutto pare evidente il sostanziale fallimento in Italia dei sistemi di prevenzione della corruzione nel settore sia pubblico che privato. Le inchieste svelano mercimoni non occasionali o episodici, ma sistemici e profondamente radicati nel business che coinvolge la pubblica amministrazione. Se ne desume che i modelli di prevenzione sono praticamente carta straccia e che nessuno in verità riesce a vigilare efficacemente su quanto accade negli uffici di spesa del Moloch amministrativo del Paese. Secondariamente par chiaro che se l’intento del legislatore era quello di coltivare l’inasprimento delle pene per esercitare un «effetto deterrente» sui rei, la strada scelta sta consegnando risultati scarsi e di gran lunga distanti dall’obiettivo prefisso. Restano, invece, in ombra strumenti importanti come l’agente sotto copertura e il whistleblowing (ossia la segnalazione anonima delle condotte illecite) e si continua ancora a puntare tutto sulle intercettazioni con un’auspicata, ulteriore agevolazione nell’uso dei trojan informatici nella conversione in legge del decreto intercettazioni. Una strada palesemente inefficace e, ormai, di corto respiro che consente di incastrare i soliti voraci “pesci piccoli” e che non riesce a colpire i protagonisti delle reti complesse della corruzione sistemica. Gli uni e gli altri, però, sembrano così somiglianti a quell’indimenticabile scena di “Guardie e ladri” in cui un ansimante Aldo Fabrizi, in divisa da poliziotto, vuole costringere a un pari esausto e riluttante Totò de Curtis, ladro incallito, a farsi ammanettare; con il secondo che, alla minaccia del primo di sparare in aria un colpo di pistola a scopo intimidatorio, gli risponde “fai pure tanto io non mi intimido”.
Legge spazzacorrotti: è incostituzionale la sua applicazione sui vecchi reati. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. La Corte Costituzionale ha stabilito che l’applicazione retroattiva della Legge «Spazzacorrotti» è incostituzionale. La decisione è giunta dopo che ieri, martedì, con una iniziativa di cui non si ricordano precedenti, era stata la stessa Avvocatura dello Stato a «bocciare» la legge — fiore all’occhiello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dei Cinque stelle — proprio nella parte in cui vieta retroattivamente ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere. La riforma era stata varata un anno fa dal governo Cinque stelle-Lega, e aveva introdotto l’equiparazione della corruzione e altri reati simili a quelli cosiddetti «ostativi» (come mafia, terrorismo e traffico di droga), per i quali sono precluse le misure alternative alla detenzione normalmente applicate ai condannati a pene inferiori ai quattro anni di carcere. La norma è entrata in vigore il 31 gennaio 2019: ma non essendo previsti regimi transitori è stata applicata anche a tutti coloro che, prima di quella data, erano state condannate a pene per le quali avrebbero potuto beneficiare dell’affidamento ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, senza dover entrare in prigione. A partire dal primo febbraio 2019 quei condannati sono stati invece portati in cella. Tra i casi più noti di applicazione c’è quello relativo all’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Contro l’applicazione retroattiva della legge erano giunti alla Corte costituzionale ben 17 ricorsi di tribunali e corti che – sollecitati dai difensori dei condannati – ne ipotizzavano l’incostituzionalità, perché in contrasto con l’articolo 25 della Carta secondo il quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Martedì, l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi aveva spiegato che «questa norma non può essere retroattiva».
Stop alla Spazzacorrotti: l’imputato che ha evitato il carcere in extremis. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 da Corriere.it. «Per un mese sono rimasto in casa aspettando l’arrivo dei carabinieri. Ogni volta che sentivo un’auto avvicinarsi alla mia abitazione mi affacciavo alla finestra pensando “sono venuti a prendermi”. Non è successo. E adesso so anche che non accadrà, che non finirò in carcere. È una vittoria di Pirro per chi come me ha sempre sostenuto la propria innocenza, ma è comunque un risultato importante». Carlo Alberto Masia, l’ex dirigente dell’Ufficio tecnico delle Molinette condannato a 2 anni e un mese di reclusione per corruzione, ha da poco saputo che la Consulta ha dichiarato incostituzionale la retroattività della cosiddetta Spazzacorrotti, la legge targata Cinque Stelle con la quale si impediva agli amministratori colpevoli di reati contro la pubblica amministrazione di accedere a misure alternative alla detenzione. Masia, 58 anni, avrebbe dovuto finire in carcere lo scorso 9 gennaio, ma la sua esecuzione è rimasta «in attesa». Complice anche un’istanza presentata dal suo avvocato, Caterina Biafora, con la quale si avanzava la questione di legittimità costituzionale. Ma prima ancora che il suo caso venisse istruito, è arrivata la sentenza della Consulta. «Ho tirato un sospiro di sollievo. Non voglio sottrarmi ai verdetti dei Tribunali, ma una persona deve essere giudicata secondo regole certe», sottolinea Masia. La storia giudiziaria dell’ex dipendente delle Molinette inizia il 15 marzo del 2010, quando la Guardia di Finanza si presenta a casa sua con una misura cautelare. Quel giorno Masia finisce ai domiciliari, mentre Francesco Chiaro, il capo dell’Ufficio tecnico, viene portato in carcere. L’accusa è di corruzione e falso ideologico per aver intascato una tangente da 52 mila euro da una ditta titolare di un appalto per la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’ospedale. Masia e Chiaro (assistito dall’avvocato Ferdinando Ferrero) vengono condannati in primo grado, nel 2013, rispettivamente a 2 anni e 10 mesi e a 6 anni e 6 mesi. Il verdetto è riformato dalla Corte d’Appello nel 2018: 2 anni e un mese per Masia e 3 anni e 8 per Chiaro. Manca ancora lo scoglio della Cassazione e nel frattempo, nel gennaio del 2019, entra in vigore la Spazzacorrotti. Trascorrono i mesi e si arriva al 9 gennaio di quest’anno, quando la Corte Suprema conferma la sentenza di secondo grado. «Quella sera mi ha chiamato il mio legale dicendomi di fare la valigia. Mia figlia più piccola ha cercato su internet cosa potessi portarmi in carcere e ho preparato la borsa — spiega Masia —. La mattina dopo mi sono presentato dai carabinieri di Giaveno, ma mi hanno rispedito a casa. Mi hanno spiegato che serviva un ordine di esecuzione. È cominciata così una lunga ed estenuante attesa. Con la valigia sempre pronta in un angolo». A quel punto, l’avvocato Biafora presenta preventivamente un’istanza. «Ci siamo mossi d’anticipo — sottolinea il legale —. Ma era chiaro che avrebbero potuto arrestarlo in qualsiasi momento». Il 29 gennaio finisce in carcere Chiaro. «A quel punto pensavo che sarebbe toccato anche a me — racconta Masia —. Ho smesso di uscire di casa per paura che mi dichiarassero latitante. Ma ho sempre sostenuto la mia innocenza e spero che un giorno la verità emerga. Rispetto le istituzioni e sono pronto scontare la mia pena. Chiederemo una misura alternativa al carcere e farò quanto mi verrà detto di fare. Non finire in cella è una vittoria di Pirro. La vera sconfitta sono stati i dieci anni di processo. Troppi, in un paese civile. Troppi, che tu sia colpevole o innocente. È un calvario che non auguro al mio peggior nemico». E oggi potrebbe tornare in libertà anche Chiaro. «Presenteremo un’istanza — spiega l’avvocato Ferrero —, contiamo che venga accolta. Il mio cliente non deve stare in cella un giorno di più».
Spazzacorrotti, Formigoni: bene così ma ho trascorso mesi di carcere ingiusto. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. La dichiarazione è formale: «Apprendo oggi con soddisfazione che la Corte ha ritenuto incostituzionale la retroattività della Spazzacorrotti in forza della quale, purtroppo, ho subito alcuni mesi di ingiustificata detenzione». Roberto Formigoni non esulta più di tanto, sa che, se non ci fosse stata la legge voluta dal M5S, sarebbe uscito dal carcere «solo» qualche mese prima. Molte altre persone non ci sarebbero mai neanche dovute entrare. Condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione nel caso Maugeri, l’ex presidente della Regione Lombardia varcò la soglia di Bollate il 22 febbraio dell’anno scorso, meno di un mese dopo l’entrata in vigore la Spazzacorrotti che avrà un’influenza relativa sulla sua posizione. Come tutti coloro che hanno più di 70 anni, entrato in carcere avrebbe potuto chiedere immediatamente la detenzione domiciliare. Incensurato, senza legami con criminali, l’avrebbe ottenuta in qualche settimana se non ci fosse stata la Spazzacorrotti che nega questo e altri benefici ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione. I suoi legali, gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni,puntarono subito al superamento di questo divieto sostenendo (era già accaduto in un caso a Venezia) il principio di non retroattività della norma penale, e cioè che la nuova legge non potesse essere applicata ai reati commessi prima della sua entrata in vigore. Sostennero anche la «collaborazione impossibile», quella che permette di concedere i benefici penitenziari anche ai condannati che non ne avrebbero diritto, se i giudici accertano che non sono in grado di dare nuovi elementi che facciano luce sulle vicende che li riguardano. Il Tribunale di Sorveglianza concesse la detenzione domiciliare e Formigoni uscì cinque mesi dopo. «C’è da augurarsi che il pronunciamento della Consulta freni una linea di politica penale giustizialista presente nei governi di questa legislatura», aggiunge l’ex presidente le cui prospettive prossime sono un’eventuale richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e l’affidamento in prova ai servizi sociali, che potrà chiedere all’incirca tra un anno quando la pena residua scenderà sotto i quattro anni. Cosa che avrebbero voluto fare coloro che, condannati a meno di 4 anni, senza la Spazzacorrotti non sarebbero finiti dentro perché l’ordine di carcerazione sarebbe stato sospeso in attesa della decisione dei giudici sull’affidamento. Sono in cella ingiustamente, vista la decisione della Corte costituzionale. Potrebbero essere qualche decina di detenuti in tutta Italia (un solo caso sarebbe comunque troppo) che già da oggi avrebbero diritto alla libertà.
· I Garantisti.
Il garantismo cura la persona, non il sistema. Alberto Abruzzese su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Penso e dico l’impossibile? Parlo anche a Piero Sansonetti che ha compiuto la scelta di fare un quotidiano di battaglia garantista su due piani difficilmente accostabili e conciliabili: garantire una onesta applicazione delle leggi esistenti e garantire la qualità della vita dei carcerati, la loro salute, gli affetti della loro carne qui e ora. Il carcerato in quanto concreto referente di ogni altra concreta forma di reclusione della persona. Del suo corpo. Scelta per me assai ardita in quanto questi due campi di intervento mi sembrano essere in contraddizione o meglio in urto tra loro. E avere in sé, ciascuno per il proprio verso, qualcosa di distopico. C’è o no un circolo vizioso o addirittura un vuoto incolmabile nella convinzione e speranza che l’orizzonte di valori in cui, da esseri umani, continuiamo ad abitare possa davvero garantire i risultati che si pretendono dal garantismo? Oppure, nella sua sostanza, lo stesso garantismo ha al suo fondo proprio la uguale barbarie delle guerre e dei delitti compiuti per buona o cattiva causa o inevitabile necessità di sopravvivenza? In tanto affascinante straparlare del progressivo esodo d’ogni cosa vivente dalle strette vie della scrittura, si dimentica o rimuove troppo spesso il fatto che leggi e carceri dipendono da protocolli alfabetici stampati sulla carta come un tempo lo furono sulla pietra. Lo stesso perverso intreccio tra protezione e insieme negazione della vita che il Covid 19 rivela essere ora in azione. Sempre ancora di nuovo dentro i pretesi regimi di felicità delle società civili. In questa ottica coscienziale è in discussione l’efficienza di giusti principi, giuste investigazioni e giusti processi nel campo della “sorveglianza”, ma – come negarlo? – lo sono parimenti le giuste “punizioni”: basta una sfumatura per entrare nella letteratura anti-concentrazionaria da Foucault ad Agamben (ma anche in quella sorta di bizzarro “uomo qualunque” che oggi sbraita contro l’impostura che sarebbe dietro ai provvedimenti emanati dalle autorità in nome di una emergenza di fatto inesistente). Dunque come si può riuscire a combinare equamente il rapporto tra delitti e pene appena ci si lasci sfiorare dall’idea che la civiltà dei regimi di penitenza usa la medesima violenza dei suoi trasgressori? Vecchia storia mi direte. Irrisolvibile (tantomeno quando a proporla è uno come me: digiuno o quasi delle complesse letture che di tale dilemma costituiscono una lunga e solida tradizione). Eppure…Sono un convinto garantista, lo ho detto, ma sono altrettanto certo che dare alla persona la piena garanzia di non subire violenza potrebbe accadere solo per mezzo di una permutazione radicale dei valori che la governano – ovvero la assoggettano ad altro da sé – all’interno e dall’interno della propria stessa coscienza o forse sarebbe meglio dire della propria sensibilità.. Se è così, allora è la persona a dovere trascinarsi altrove dalla condizione di subalternità e dunque sofferenza in cui è costretta e si costringe per educazione ricevuta, per necessità e per sua stessa natura, istinto. Operazione che essa può realizzare soltanto facendo esperienza della propria doppia identità di persona in sé, organismo vivente, e di persona assoggettata, cioè soggetto sociale (non ditemi che vi è sconosciuta questa schizofrenica esperienza quotidiana!). L’unico campo possibile per tale sostanziale trapasso da soggetto a persona può quindi essere la formazione. Per quanto le sue istituzioni, i suoi apparati, le sue discipline siano in tutt’altra direzione orientate, essa è tuttavia il luogo e il tempo in cui una cultura potrebbe forse modificarsi ed essere modificata. Ecco perché ritengo che il nodo culturale e sociale della scuola, e più vastamente della formazione ad ogni grado e livello, debba essere affrontato non lateralmente ma dritto al centro della battaglia garantista che costituisce il merito e la fatica di Il Riformista. Voglio dire che, a dover trovare il fulcro politico, la giusta causa, di tale battaglia, non basterà mai – come infatti non è mai bastato – l’umanesimo di nessuna ideologia, religione e partito. Nessuna democrazia o nessun liberalismo. Nonché tecnologia. Per sperare in qualche effettivo risultato, ci vuole un salto netto da praticare ben oltre la siepe della civilizzazione antica e moderna. Ci vuole un contenuto che, paradossalmente, è stato sempre vivo e sensibile nella nostra carne di esseri umani (la verità del dolore che percepisco nel ferire me stesso o altri). Un contenuto, quindi, presente alla nostra naturale condizione di sofferenza psicofisica in quanto singole persone. Ma che ci è sottratto – abbiamo lasciato ci fosse carpito di pari passo con la civilizzazione – ad opera delle stesse forme culturali e politiche di socializzazione di per sé comunque necessarie alla sopravvivenza umana nel mondo. Per opera loro il contenuto reale della persona (carne viva sotto la nostra pelle) è schermato – forse sempre più ma certamente come prima – dai linguaggi identitari impartiti e appresi nelle istruzioni imposte e subite in ogni agenzia di socializzazione (dalla famiglia alla scuola), prima ancora di entrare, una volta istruiti, nella dimensione del lavoro e dunque dei modi di produzione e riproduzione della società, delle sue necessità. Così da diventare il contenuto maggiormente rimosso nelle nostre stesse capacità di pensiero, di conoscenza e persino desiderio. Ecco perché penso che, contrariamente ai modi in cui la si travisa, strumentalizza e umilia, la questione della educazione e istruzione dei giovani non venga dopo ma prima di effettivi “buon governi” – amministrazione di giuste leggi rese efficaci da giusti professionisti – in quanto tale domanda e la capacità di darle una risposta costituiscono la sola possibilità di operare alla mutazione di ogni valore culturale, istituzionale e politico della nostra civiltà e della sua storia. In nuce le strategie e tattiche del garantismo già hanno – ma assai più radicalmente dovrebbero avere – la pura e semplice cura della singola persona al di là di ogni altro valore. Dovrebbero considerare la sua sofferenza un tabù senza alcun alibi possibile. O quanto meno dovrebbero avere tragica consapevolezza di ciò che divide l’eccezione dalla regola.
Sorprese in magistratura. Il Fatto stupisce: Woodcock contesta pentitismo e 41 bis, Travaglio apre un dibattito…Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Novembre 2020. Henry John Woodcock, Pubblico Ministero presso la Procura di Napoli, protagonista di inchieste quasi sempre – mi limito a dire – almeno controverse, ci sorprende per i contenuti del suo articolo sul regime penitenziario del 41 bis, appena pubblicato su Il Fatto Quotidiano. L’articolo ha una tale sua singolare forza che il direttore Travaglio ha sentito l’esigenza di integrarlo con una postilla, nella quale, quasi a spegnere possibili incendi, si dice certo che le considerazioni del Pm napoletano «susciteranno un dibattito…. che Il Fatto ospiterà volentieri». Per parte mia, non so se stupirmi più delle cose che scrive il dott. Woodcock, o di questa iniziativa del quotidiano. Non so neppure se e quanto pesi, in tutto ciò, la arcinota vicenda Bonafede–Di Maio–Giletti, che ci ha noiosamente tormentato negli ultimi mesi dagli schermi di LA7, ma non mi sembra nemmeno giusto chiederselo. Prendiamo atto con piacere che si sia voluto rilanciare questa importante riflessione, a maggior ragione se questo avviene dalle colonne del Fatto Quotidiano e per mano di un Pm non certo indulgente verso i temi delle garanzie di indagati ed imputati. In realtà, il dott. Woodcock pone con molto garbo ma con chiarezza le riflessioni critiche sull’istituto del 41 bis che da sempre sono proprie dell’avvocatura italiana, ed in genere dei liberali e dei garantisti di questo Paese, perciò additati come fiancheggiatori, nemmeno inconsapevoli, delle cosche mafiose che avvelenano la vita sociale ed economica del Paese. In sintesi: non pertinenza delle molte e durissime regole del 41 bis rispetto alle finalità di sicurezza di quel regime detentivo speciale; trasfigurazione in ordinarietà di un regime penitenziario dichiaratamente di natura eccezionale; indiscriminata sua applicazione ad un numero esagerato di destinatari. Nessuno ha mai dubitato che legittimamente lo Stato possa graduare il rigore del regime penitenziario in misura proporzionale alla pericolosità sociale del detenuto, tanto più se quella pericolosità fa sì che la detenzione in carcere non riesca ad interrompere la catena di comando della organizzazione criminale, ed anzi non di rado addirittura ne rafforzi l’efficacia. Il punto è sempre stato la proporzione e la congruità delle misure adottate a quel fine, da subito orientate verso una finalità diversa, cioè quella di organizzare un regime detentivo terrorizzante, per sfuggire al quale viene esplicitamente indicata la sola strada della collaborazione con l’autorità giudiziaria. Il dott. Woodcock si chiede giustamente cosa abbia a che fare con le esigenze di sicurezza che il detenuto al 41 bis non possa scegliere liberamente quali abiti indossare. Giusto. Tanto meno, aggiungo io, che non possa scegliere i libri o i giornali da leggere; o che gli sia preclusa la possibilità di cucinare in cella, e potremmo proseguire all’infinito nel catalogo di queste assurde e torturanti insensatezze. Altro è un regime detentivo di sicurezza – per di più irrogato allo stesso modo al condannato come all’indagato di mafia – altro è l’annientamento della dignità stessa della persona, il cui rispetto è odiosamente condizionato alla collaborazione. E bene fa il PM partenopeo a snocciolare tutti i ben noti deragliamenti e le anomalie della “professione” del pentitismo nel nostro Paese. Certo, viene da chiedersi come mai se queste cose le diciamo noi avvocati, nella migliore delle ipotesi si viene ignorati, ma più spesso – ed uso ancora le parole di Woodcock– “si rischia di essere additati come fiancheggiatori delle mafie”; se le scrive un Pubblico Ministero, si apre il dibattito, perfino su Il Fatto Quotidiano. E tuttavia, come suona il detto popolare? Meglio così che un calcio nei denti. E allora: dibattito!
Dualismi equivoci: giustizialismo e garantismo. Dario Fumagalli, Legale specializzato in data protection e privacy, su Il Riformista il 9 Luglio 2020. I dualismi, si sa, entusiasmano. Quando è possibile ridurre la complessità del reale in una partita a dama tra il bianco e il nero, il nostro inconscio gode profondamente. Dalla religione alle partite di calcio, il richiamo del “noi” contro “loro” è irresistibile. Del resto, il noi contro loro è scritto nel nostro DNA culturale fin dall’alba dei tempi. Pare, come ricorda spesso il bravissimo storico-divulgatore Alessandro Barbero, che quasi tutte le popolazioni primitive definivano loro stesse “gli uomini”. Gli altri, manco a dirlo, erano “loro”, i non uomini. Il mondo era ordinato, semplice, diviso tra bene e male. Di dualismi è infarcita la storia politica del mondo. Greci e Barbari, Guelfi e Ghibellini, Cattolici e Protestanti, fino ai due blocchi ideologici novecenteschi. Per meglio dire, di questi dualismi sono infarcite le narrazioni – politicamente ispirate – della storia. Semplificazioni efficaci, utili a orientare la volontà collettiva a seconda degli interessi contingenti. Il tutto mentre, sulla scacchiera reale, la trama storica si nutre di alleanze e inimicizie stabili quanto la vita di una farfalla, guidate solo dall’interesse. Se questa è la realtà da secoli, può forse fare eccezione la politica contemporanea? Può la politica del consenso, tipica degli ordinamenti democratici di massa, lasciarsi sfuggire l’occasione di capitalizzare un espediente narrativo così ghiotto? Nemmeno per sogno. Così, da trent’anni, media e partiti ci tengono al palo, facendoci fare come i mosconi coi vetri, con la storia del “giustizialismo” contrapposto al “garantismo”. Lungi da me ironizzare sulle diverse sensibilità personali in campo, a volte ideologiche, a volte condizionate da esperienze drammatiche personali. La diversità è ricchezza e contribuisce a caratterizzare l’offerta politica, quindi ben venga. Quando emergono spunti articolati, utili a vagliare criticamente tutti i profili controversi del sistema, la collettività ha solo da guadagnare. Inutile negare, infatti, che di ombre sulle quali far chiarezza ce ne siano a volontà. Ciò, in primo luogo, poiché ogni articolazione del potere pubblico è composta da esseri umani ed eredita, perciò, i loro vizi. In secondo luogo, per quanto ci si sforzi di negarlo, la politica è, essenzialmente, conflitto aperto tra interessi contrapposti. A volte questi interessi sono vitali per qualcuno, alle volte incarnano valori ai quali è attribuito valore assoluto. Il risultato è che per gli attori in campo, spesso, la vittoria ha un valore tale da oscurare ogni questione di metodo. La posta in palio, purtroppo, è spesso tale da minimizzare ogni afflato di cavalleria, tanto più in una civiltà come la nostra, che definirei spiritualmente nuda. Così, da un lato, è evidente che la lotta politica non rinunci affatto alla carta del “colpo di toga”, laddove possa avvalersene proficuamente. Dall’altro, è auto-evidente il carattere grottesco della narrazione opposta. Che la classe politica sia – al netto di mele marce – scevra da malizie, vittima sacrificale delle ambizioni eversive dei togati, è ridicolo. I tentativi di forzatura del meccanismo democratico, infatti, sono tutto fuorché unilaterali: piovono a fiotti da ogni direzione. Chiunque accumuli un minimo di potere, checché se ne dica, sviluppa all’istante allergie ai paletti tipici dello stato di diritto. Qualcuno tenta di sottrarsi alle regole del gioco con la forza, qualcuno usa i soldi, qualcuno l’abuso di potere mediatico, altri creano sodalizi occulti. Ognuno a modo suo, i bari si annidano ovunque. Non esistono dualismi se non quello che vede contrapposto chi cerca di giocare secondo le regole e chi di forzarle. Ma, infondo, anche questo è fisiologico. Le regole del gioco non sono, infatti, scolpite nella fisica dell’Universo. Quando gli equilibri politici lo consentono, gli uomini si danno regole per limitare il caos naturale, che però non scompare. I tentativi di fondare i rapporti sociali su principi diversi dalla legge del più forte sono frutto della volontà umana, non di una qualche volontà trascendente. Ed eccoci dunque a giustizialismo e garantismo. Cosa significa essere garantisti? Il termine è mutuato dal mondo forense. In ambito giudiziario, particolarmente in quello penale, il garantismo (la presunzione d’innocenza) è una fondamentale misura di sicurezza ed equità. In un processo, infatti, esiste una parte debole (l’imputato) e una forte (lo stato). Lo stato può usare legittimamente la forza, l’imputato no. Per questo è essenziale prevedere degli strumenti che bilancino l’asimmetria, perseguendo quella che chiamiamo giustizia. La Costituzione prevede numerosi contrappesi: si pensi ad esempio ai limiti posti all’utilizzabilità delle prove. Tra questi vi è anche la presunzione d’innocenza. Fermiamoci un attimo sui limiti probatori. Capire che esistono prove che – onde evitare drammatici abusi (si pensi alla tortura) – non possono essere utilizzate, è molto importante. Infatti, da questo come da altri fattori, deriva che la verità processuale non coincide sempre con quella fattuale. Qui si separano, razionalmente e incontestabilmente i due mondi: quello giudiziale e quello politico. Qui si separano, dunque, anche i due giudizi. Da una condanna penale derivano effetti dirompenti per la vita dell’imputato. Le sue libertà fondamentali, i suoi diritti umani, vengono sospesi con la forza. Per questo, è essenziale che, per arrivare ad una condanna, sia necessaria una certezza particolarmente solida. Meglio liberare un colpevole che sanzionare un innocente, onde evitare che gli innocenti vivano nel terrore e la pace sociale ne risulti compromessa. Per questo, le semplici massime d’esperienza, le prove raccolte illecitamente, le sensazioni, non possono contribuire a formare la verità processuale. Diverso è il discorso in politica. Nessuno ha il “diritto” di governare. Nessuno, a maggior ragione, ha il “diritto” di rappresentarmi in un’assemblea parlamentare (o in altri organi analoghi). Il giudice, qui, è ciascuno di noi. Qui non ci sono regole processuali, se non il nostro fiuto. Ognuno di noi valuta se un individuo (o una parte politica) è idoneo a rappresentare nei consessi decisionali i suoi interessi e i suoi valori. Il sospetto basta eccome, come in tutti i rapporti di fiducia. Sta alla sensatezza di ognuno, come accade nei rapporti privati, filtrare il sospetto infondato da quello fondato. Allo stesso modo, sta alla sensatezza di ognuno cercare di non cadere in trappola di false rappresentazioni, brandite da nemici dei nostri amici. D’altro canto, qui un fatto è un fatto, anche se giunto alla nostra attenzione per vie poco trasparenti o interessate. Non è possibile, dunque, mutuare il “garantismo” (sacrosanto nelle aule di tribunale), all’interno dei seggi elettorali. Non sarebbe sano, né saggio. Peraltro, in politica occorre anche – come si suol dire – essere come la moglie di Cesare. L’apparenza, purtroppo, è essa stessa un fattore della capacità di proiezione di potere. Un governante su cui gravano sospetti di disonestà è debole, ricattabile e precario. Il giustizialismo, ovviamente, è anch’esso una patologia. Un giudice può sbagliare, una sentenza può – in alcuni casi – essere condizionata da fattori politici. Non solo, ma alle volte una condanna può essere politicamente irrilevante. Il giudizio politico non è un giudizio morale assoluto e tanto meno può essere ridotto ad un giudizio sulla liceità della condotta. La retorica dell’onestà è riduttiva e, a volte, dannosa. L’onestà può, al massimo, essere un pre-requisito, ma serve ben altro per poter svolgere il compito al quale la politica chiama i suoi esponenti. Si tratta di capire chi è idoneo a comandare rappresentando interessi e valori condivisi. In alcuni casi, contravvenire alla legge penale non rende automaticamente inadeguati ad espletare il compito descritto.
Il punto, quindi, non è schierarsi da una parte o dall’altra. Occorre schierarsi sempre e solo con sé stessi, per cercare di sfuggire alle numerosissime trappole manipolatorie che la macchina dell’audience e del consenso ci lancia contro quotidianamente. Schierarsi con sé stessi non significa però essere egoisti, disinteressati e apatici. Significa entrare in armonia con coloro con i quali condividiamo reali interessi e valori profondi. Vuol dire decidere se identificarci in una delle mille squadre che giocano secondo le regole o tra coloro, anch’essi tutt’altro che omogenei, che intendono forzarle. In secondo luogo, significa accettare la complessità del mondo e rassegnarsi ad usare il senso critico ogni singola volta, rifiutando riduzioni macchiettistiche della realtà. Schierarsi con sé stessi significa combattere le proprie battaglie e non abdicarle, anche quando non possono essere combattute solo nel privato e in solitudine, ma presuppongono una virtù politica. Diversamente, saremo sempre complici di quelli che consideriamo essere i nostri peggiori nemici, siano essi le toghe rosse o i cavalieri blu.
La giustizia non è vendetta. la rivoluzione si fa col perdono. Mons. Vincenzo Paglia su Il Riformista il 10 Giugno 2020. In queste settimane siamo stati capaci di altruismo e rispetto delle regole: tutelando noi stessi abbiamo tutelato anche gli altri. Una prova dura per tutti noi che ha smentito il più forte luogo comune che ci descrive come un popolo di egoisti e anarchici. Siamo stati capaci di compiere un passo avanti! Il problema è ora la capacità di imboccare strade nuove, sicuramente difficili e piene di conseguenze civili positive. Vorrei fermare l’attenzione su una dimensione che richiede una riflessione e soprattutto una decisione più audace. Può sembrare una domanda peregrina. In realtà è parte essenziale di un nuovo umanesimo da realizzare. Ed anche, di un cristianesimo davvero evangelico da vivere. Insomma, diventiamo capaci di perdonare? Guardando alle “risse” che punteggiano la vita politica, pane quotidiano per i media che sulle «risse» aumentano (o credono di aumentare) gli indici di ascolto; guardando alle «risse» a volte tra le nostre Regioni; oppure alle “risse” europee tra Paesi “virtuosi” e altri no, per finire ai litigi in famiglia e magari anche nella vita quotidiana in strada (tra auto, scooter, pedoni, ciclisti…). Ebbene possiamo immaginare una società avviata sulla strada del “perdono”, abbandonando quella tristissima consuetudine al conflitto permanente, alla vendetta illimitata? Non è un tema (solo) religioso; è un tema politico e sociale di ampia portata. Insomma, di vero umanesimo. E per questo diventa anche economico: si risparmierebbe molto in quantità di tempo personale, di tempi della giustizia, se ci fosse maggiore capacità di dialogo, ascolto, “perdono”. Perché l’altro comunque è una persona fallibile. E a ben guardare me stesso, sono fallibile anch’io allo stesso modo. Perdono e giustizia sono inestricabilmente collegati. Anzi rappresentano l’uno l’altra faccia della medaglia dell’altra. La giustizia è l’aspirazione di tutti noi, auspicando una società dove situazioni e persone vengano valutate in maniera equa ed imparziale. Questo è davvero un processo lungo: coinvolge le leggi – sempre migliorabili – e le istituzioni da queste scaturite – migliorabili sempre anche loro – e infine coinvolge le persone il cui compito è applicare e discernere. È un tema attualissimo nell’Italia di oggi: ha a che fare con le risorse da investire per snellire i tempi dei processi e per fornire risposte rapide ai problemi del cittadino, migliorando la «qualità» della sua vita. La giustizia in questo senso è un cantiere sempre aperto; non basta mai e tutti abbiamo il compito di fare qualcosa per includere tutti gli uomini e tutte le donne in un “grande disegno” di giustizia: uomini e donne di ogni età, ceto, condizione sociale, italiani o nati non in Italia. Per diventare cittadini a pieno titolo. La giustizia da sola non basta. Ci vuole un “di più” per contrassegnarci come paese davvero “civile”. È necessaria la capacità di “perdonare”. Dico subito – per evitare equivoci – che questo discorso è ben differente dal propugnare un universale “buonismo”. Le regole vanno rispettate e fatte rispettare ovunque e per tutti. Non ci debbono essere “moratorie” o “zone franche” esenti. Questo sarebbe davvero il Paese dell’anarchia e della discrezionalità. No! Penso piuttosto al perdono come stato d’animo di persone che conoscono prima di tutto i loro limiti e dunque accettano i limiti degli altri, attribuendo prima di tutto buone intenzioni, fino a prova contraria. Altro equivoco da scardinare: il perdono – sconfina nella cristiana caritas, cioè amore per l’altro, il primo comandamento di Gesù: amerai il prossimo tuo come te stesso – non è devozionismo o, peggio, segno di debolezza; è un atteggiamento politico. Di più: rivoluzionario. Chi conosce la caritas – diceva Dostoevskij – sa spingersi sino agli estremi territori della pietà e della compassione: è disposto a perdersi, pur di salvare una sola scintilla umana dalla rovina. Farsi prossimo agli uomini e donne mezzi morti del mondo contemporaneo significa scardinare quella egolatria che sta portando all’imbarbarimento della vita dei singoli e delle società. Il perdono ci fa cambiare l’ordine dei santi del calendario: togliamo san Narciso dal primo posto! Il perdono non significa cancellare le responsabilità dei colpevoli e neppure far finta che non sia successo nulla. Il perdono suppone la consapevolezza del male compiuto e lo sdegno per quanto è accaduto, accompagnato dalla decisione di sradicarlo in radice. L’esercizio del perdono, sia chiederlo sia concederlo, è un atto di maturità spirituale e sociale. Il perdono è un atto di grande spessore culturale: ognuno, perdonando, sa che il confine tra azione giusta e azione sbagliata è (anche) all’interno della coscienza, della consapevolezza; è radicato nelle universali debolezze, nelle paure, soprattutto la paura di scoprirci fragili e indifesi e deboli. Proprio all’indomani di una esperienza forte come il lockdown sappiamo tutti molto bene quanto siamo fragili. Lo abbiamo sperimentato con gli anziani morti nelle «case di riposo» dove non sono stati tutelati. Lo sanno le famiglie degli anziani, le famiglie dei 34 mila morti di Coronavirus in Italia. Ognuno chiede giustizia e dovrà venire ascoltato. Dopo la giustizia, dopo le sentenze (speriamo rapide ed eque!) cosa accadrà? Ognuno dovrà fare i conti con i propri sentimenti, e pensare al futuro con speranza e fiducia. Il perdono non cancella le responsabilità del male compiuto. Non giustifica il male. Anzi pretende di sradicarlo ripristinando la giustizia. La giustizia riparativa, di cui si parla sempre di più in anni recenti, mira esattamente a introdurre anche nel diritto penale questa logica. Essa intende promuovere la rinuncia all’idea di una pena subita passivamente dal condannato con il solo fine di rendere manifesta la gravità dell’illecito. Attuando per di più uno spirito di vendetta. In tal modo si valorizza la capacità della sanzione di esprimere, riaffermandoli, valori antitetici a quelli contraddetti dal fatto criminoso e quindi ricomporre sul terreno dei rapporti intersoggettivi – e non appagando supposti bisogni di ritorsione – la frattura rappresentata dal fatto criminoso. È importante ricordare san Giovanni Paolo II: nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002 collegava l’educazione alla legalità alla convivenza pacifica nella società. Parlava in proposito di fragilità della giustizia umana. «Poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale e internazionale». Come il Papa suggerisce, è strettissimo il legame tra giustizia e perdono. Per sanare in profondità le ferite che lacerano la convivenza tra gli uomini sono necessari ambedue: sia la giustizia sia il perdono. E allora chiediamoci: la nostra è una società capace di perdono? Chiediamoci ancora: sono capace di perdono? Non sarebbe più vivibile una società in grado di prendersi carico di tutte le persone e dei loro problemi, individuando risposte istituzionali da dare – attraverso il concreto e fattivo esercizio responsabile della giustizia – e capace di prendersi carico dei bisogni delle persone a partire dai più deboli e fragili? Il perdono non si impone; si propone. È sincero quando scaturisce da un’esigenza interiore e intima di ricomporre una frattura e non una vendetta. Allo stesso tempo deve esistere una educazione alla capacità di perdonare. Ed è un grandissimo spazio di azione per le professioni che impattano sulla società civile. È un compito per la Chiesa che deve instancabilmente proporre la coniugazione di misericordia e giustizia, senza dare spazio a coperture di persone o di interessi. È uno spazio grande per la vita politica che potrebbe davvero testimoniare una capacità alta di guardare all’interesse di tutto il Paese e dunque di tutti noi. Soprattutto è un compito per ognuno di noi: trovare – riflettendo – lo spazio per sentirci vicini, non rivali, non antagonisti, ma tutti esseri umani, arricchiti dalla diversità.
Il garantismo è un criterio non una circostanza per mantenere la poltrona. Deborah Bergamini su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Ieri quindi è successa una cosa alquanto singolare: dopo aver mandato a processo Salvini sul caso Gregoretti, la maggioranza al Senato non ha dato l’autorizzazione a procedere contro di lui sul caso Open Arms, gemello del Gregoretti. Praticamente un doppio avvitamento con carpiato. Salvini al momento è salvo dal processo (ma ci sono le forche caudine dell’Aula, ben più minacciose della giunta per le autorizzazioni a procedere che ha deciso ieri) e chissà se è stato graziato per ragioni tattiche o strategiche. Certo è che il contestuale terremoto che sta scuotendo il potere giudiziario e il potere mediatico in Italia deve aver avuto delle ripercussioni sulle scelte della maggioranza. Scelte alquanto contraddittorie, per la verità. Gli stessi che qualche tempo fa hanno mandato a processo Salvini per sequestro di persona, ieri lo hanno salvato perché agì “per interesse pubblico con la condivisione del governo”. E anche se questa volta la giustizia è apparsa in forma di carota anziché di clava, non si possono non vedere nel caso dell’ex ministro dell’Interno tutte le incongruenze di una confusione fra poteri che è balzata proprio in questi giorni agli onori delle cronache con il caso Palamara. Come ben spiegato da Piero Tony, ex procuratore di Prato e autore del libro “Io non posso tacere” in un’intervista con Maria Latella e Simone Spetia su Radio 24, “l’unico processo che funziona in Italia è il processo mediatico”. Lo dice un magistrato, e così è. Tanto che bisognerebbe chiedersi quanto è distorto un sistema in cui vige la separazione dei poteri ma in cui la politica, e cioè la faziosità al suo apice, viene incaricata di assolvere o condannare un imputato – quindi ad agire come giudice – per fargli subire un processo giudiziario quando quello vero, quello mediatico, si è già celebrato. Dispiace ricordare che solo al Riformista il fatto che la maggioranza politica usasse arbitrariamente la giustizia per mandare a giudizio il capo dell’opposizione era parso quantomeno bislacco. Il punto però è un altro. Se Salvini agì nell’interesse pubblico con la condivisione del governo sul caso Open Arms, nel caso Gregoretti i parlamentari che votarono a favore dell’autorizzazione a procedere hanno reso falsa testimonianza? La risposta a questa domanda è senz’altro sì. Non perché ci sia una qualche prova in proposito, ma per il semplice fatto che le diverse decisioni su Open Arms e Gregoretti dimostrano che in un atto ufficiale (una votazione) si può affermare una cosa e il suo esatto contrario, fregandosene del merito e pensando solo a garantirsi una sopravvivenza politica in barba persino all’evidenza. E’ un giustizialismo à la carte, così come esiste il garantismo à la carte, quello che si applica sempre agli amici e mai ai nemici. Quando difendevamo le prerogative di Berlusconi presidente del consiglio accusavano noi di Forza Italia di essere proprio questo, garantisti à la carte. Io credo che nel tempo abbiamo dimostrato il contrario. Il garantismo o è o non è, non può avere sfumature. è un criterio, non una circostanza. Nel comportamento assunto su Salvini dalla maggioranza invece di sfumature ce ne sono state troppe, tutte quelle che servono per tenere ben salde le terga sulla poltrona che le ospita.
Liberali e cattolici sono l’illuminazione baluardo del garantismo. Vincenzo Improta su Il Garantista il 13 Maggio 2020. Cesare Beccaria avvisava che «il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali». Escludeva cioè la possibilità che la giustizia si facesse vendetta e lo faceva definendo il reo un “essere sensibile” dotato di coscienza. L’uomo punisce, ma non umilia il reo. Una visione intimista dell’uomo e della giustizia. Anche Benedetto Croce ricordava ai liberali che pur volendo, non potevano non dirsi cristiani ponendo così fine alla sterile contrapposizione tra libertà e fede, basata sul riconoscimento del cristianesimo come di un evento rivoluzionario. Sul cristianesimo, il filosofo partenopeo scriveva: «Operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità». Croce, in sostanza, riconosceva che la libertà della coscienza rappresenta un autentico baluardo alla tirannide perché proprio nella manipolazione della coscienza individuale si realizza il massimo dell’oppressione. Il tema è ancora oggi molto attuale in ragione della moltiplicazione dei centri di manipolazione delle coscienze (social, radio, tv, nuovi media) che agiscono apertamente o in modo occulto nella dimensione mediale e politica. Vigilare sul possibile ripresentarsi della tirannide diventa un obbligo intellettuale e morale. E senza dubbio, il garantismo rappresenta un argine contro ogni forma di tirannide. Se questo è vero, è possibile allora porsi la seguente domanda: i cristiani e i cattolici, proprio loro che sono influenzati dall’insegnamento del Nazareno e che considerano la giustizia come misericordia, possono non dirsi garantisti? Il garantismo è il prodotto originale del pensiero liberale, il suo contributo alla civilizzazione della società fondato proprio sul rispetto dei diritti e della libertà di ogni individuo, di ogni persona. Eppure, in occasione del Venerdì Santo, la Chiesa cattolica e il Papa hanno voluto riaffermare, ed è avvenuto in modo eclatante, che al fondamento della nostra civiltà (possiamo dire dal 313 d.c, cioé dall’editto di Milano voluto dall’imperatore Costantino), il cristianesimo ha posto la necessità che in conseguenza di un reato non si debba cercare vendetta ma si debba, ma al contrario garantire che un giusto processo eviti la condanna di un innocente. In ricordo dell’ingiusto processo subito da Gesù, è risuonato potente il monito del Papa contro ogni decisione giudiziaria ingiusta. La civiltà occidentale si fonda sulla misericordia e sul rispetto dei diritti degli imputati. Senza misericordia e processo giusto si sprofonda nella barbarie dove la coscienza e la persona possono essere annichilite dalla forza del potere. Il paradosso è che lo Stato pur essendo democratico può tuttavia calpestare in nome della maggioranza, i diritti dei singoli. Lo Stato per essere la casa di tutti deve essere uno stato di diritto e non uno Stato etico! Il messaggio di civiltà, l’appello alla umanità e al diritto giusto, risuonati come non mai a Piazza San Pietro, sembrano però essere caduti nel vuoto. Il silenzio assordante che ha accompagnato il messaggio papale è stato sconcertante. Né la politica italiana, né i media ne hanno tratto elementi di riflessione che potessero aiutare a ben operare nel campo della giustizia, sottraendola alla barbarie della “vendetta”, della Nemesi dove la forma della maggioranza sopprime le garanzie individuali. La lezione di Croce e la potente parola del Vicario di Cristo sembrano incontrarsi sul comune intento di creare una società a misura d’uomo che punisca e riabiliti, piuttosto che vendicarsi e annichilire la speranza. Si tratta di un’inedita alleanza tra liberali e cristiani, non credenti e cattolici che in nome della misericordia e del garantismo, scelga senza esitazioni la pratica della giustizia giusta. Se ne avvantaggerebbero la nostra società, il diritto e ciascuno di noi.
Gherardo Colombo: “Da magistrato credevo nel carcere, ora dico: va abolito”. Nicola Campagnani di Lorem Ipsum, collettivo giornalisti indipendenti su Il Dubbio il 26 giugno 2020. L’ex magistrato di mani pulite: “Ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio commesso da due persone. Per fortuna però il tribunale non l’ha inflitto. Ma oggi, se facessi ancora quel mestiere, direi che un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale”. “L’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà”. “Io credo che sia essenziale testimoniare”, così l’ex magistrato Gherardo Colombo commenta il progetto Sui pedali della libertà del Dubbio, che porterà Roberto Sensi a incontrare e raccontare il carcere in tutte le sue sfaccettature, dell’estremo Nord all’estremo Sud del Paese, sui pedali della sua bicicletta. Chi incontra il carcere per la prima volta, si trova spesso a riformulare radicalmente la sua idea a riguardo, allora è per questo che diventa fondamentale raccontarlo. “Noi facciamo esperienza direttamente o attraverso quello che ci viene riportato da altri – spiega Colombo, che il carcere lo ha lungamente vissuto in prima persona da magistrato e oggi riporta la sua esperienza di questa istituzione – La testimonianza è proprio questo riportare a chi non ha visto direttamente”.
Gherardo Colombo cosa rappresentava per lei il carcere all’inizio della sua professione? E cosa ha capito poi?
«Il carcere per me era uno strumento. Credevo, come si impara all’università, che fosse uno strumento di prevenzione speciale e di prevenzione generale, cioè che servisse a evitare che una persona commettesse un reato per la paura della minaccia della pena. Per quanto non lo vedessi comunque bene, pensavo che fosse uno strumento necessario per educare le persone a rispettare le regole. Ma in 33 anni di magistratura, dal 1974 al 2007, progressivamente ho cambiato idea su questo punto. Sempre più ho interiorizzato la differenza tra l’articolo 27, che richiede che le pene non siano in contrasto con il senso di umanità, oltre a dover tendere alla rieducazione del condannato, e la situazione effettiva del carcere. E ormai sono convintissimo che la pena non serva a dissuadere dal commettere reati. Peraltro l’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà. Mi sono dimesso con 14 anni di anticipo sulla scadenza naturale di allora, quando i magistrati andavano in pensione a 75 anni. Poi ho intensificato un’attività che facevo già da un po’ di tempo: girare per le scuole a parlare ai ragazzi di regole e di giustizia. Perché io credo che per osservare le regole sia necessario condividerle».
Da magistrato ha chiesto l’ergastolo una volta sola. Anche questa è stata una scelta?
«Sì, ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio commesso da due persone. Per fortuna però il tribunale non l’ha inflitto, credo si stabilì una pena di 28 anni di reclusione. Sotto il profilo tecnico gli elementi per chiedere l’ergastolo a mio avviso c’erano. Ma oggi, se facessi ancora quel mestiere, direi che un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale».
Qual è la funzione del carcere oggi? Serve a educare o a punire?
«Ci sono delle eccezioni: qui in Lombardia abbiamo Bollate, che è un carcere particolare rispetto a quasi tutte le altre carceri che ci sono in Italia. Però generalmente il carcere è un luogo in cui le persone restano a scontare la pena, con degli interventi talmente minimali in senso rieducativo da essere molto spesso paragonabili al nulla».
Cos’è che manca soprattutto?
«Manca un complesso di cose: più o meno dappertutto manca lo spazio vitale; manca il diritto all’igiene; è molto compromesso il diritto alla cura della salute; il diritto all’istruzione; il diritto all’informazione; il diritto, perché anche quello è un diritto, all’affettività. Dovremmo riflettere in modo approfondito sul senso di quell’espressione che si trova nell’articolo 27, ovvero che non si può essere contrari al “senso di umanità”. Che cos’è questo “senso di umanità”? Cosa vuol dire un carcere “umano”? Un carcere umano a mio parere è un carcere in cui tutti i diritti della persona, che non confliggono con la sicurezza della collettività devono essere garantiti. Ma proprio tutti. E possono essere ridotti e ridimensionati soltanto quei diritti il cui esercizio impedisce la sicurezza della collettività, che sono però molto pochi. Se così fosse nel nostro Paese il carcere sarebbe chiamato dall’opinione pubblica un albergo a cinque stelle».
Dunque si dovrebbe smettere di pensare al carcere come una punizione che restituisce il male che si è fatto?
«Seconde me non dovrebbe essere restituito il male che si è fatto. Anche se esiste una filosofia retribuzionista, secondo cui il male si elide attraverso l’inflizione del male, a me sembra che matematicamente uno più uno faccia due, non faccia zero. Quindi se al male commesso aggiungiamo un altro male inferto, il male lo raddoppiamo invece di annullarlo. Il male costituisce l’espressione di un desiderio di vendetta che viene soddisfatto non direttamente dalla vittima, ma dall’istituzione nel suo complesso. Io credo che il desiderio di vendetta sia un desiderio negativo, che non dovrebbe essere soddisfatto, ma dovrebbe invece essere elaborato, perché si possa utilizzare, nei confronti di chi ha commesso un reato, un percorso che riporti la persona che si è allontanata dalla società, all’interno della società».
Lo Stato dovrebbe porsi al di sopra, non inseguire la vendetta come farebbe un criminale.
«Quasi tutto quello che fa un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, se fosse commesso da lui privatamente o da un altro cittadino, costituirebbe reato. Dispongo una misura cautelare in carcere, si tratterebbe di sequestro di persona; intimo a un teste di presentarsi, sotto minaccia di essere accompagnato dalla forza pubblica, è violenza privata; una perquisizione è violazione di domicilio ; un sequestro è rapina aggravata dal numero delle persone e dall’uso delle armi. Secondo la Costituzione, non è una violenza rilevante, sotto il profilo giuridico, soltanto quella minima che serve a impedire la commissione di reati. Tant’è che l’articolo 13, al penultimo capoverso, dice, usando un’espressione fortissima che compare una volta sola in tutta la Costituzione, “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. La violenza nei confronti di una persona che sta in carcere è punita dalla Costituzione. La nostra Costituzione inibisce l’uso di violenza da parte delle istituzioni, se non nel momento in cui questa sia rigorosissimamente necessaria per evitare che altri diritti di pari dignità siano posti in dubbio. E comunque vengono stabiliti tre limiti fondamentali: senso di umanità, rieducazione e assoluta mancanza di violenza».
Con l’emergenza coronavirus i carcerati hanno vissuto come una violenza l’interruzione dei colloqui con i parenti e hanno risposto con le sommosse.
«Premesso che la violenza non si deve usare, io credo che vada considerato che generalmente i detenuti hanno la possibilità di vedere i parenti solo sei volte al mese, per un tempo non superiore a un’ora in totale, per tutti i parenti. Con la pandemia il tutto è stata ridotto a un’unica telefonata di 10 minuti a settimana. Il tutto in una situazione in cui c’è un virus che si sta espandendo. Saltano i colloqui visivi, c’è soltanto una telefonata di 10 minuti alla settimana. Così sale la preoccupazione, perché sei in carcere e non sai nulla di quello che succede ai tuoi cari, pur ricevendo il segnale televisivo in cui i notiziari e il resto hanno quasi esclusivamente come oggetto questa pandemia. I rischi delle persone che stanno fuori, le immagini dell’esercito che porta via le bare, questo crea un’ansia e un’angoscia notevoli».
Il coronavirus ha almeno contribuito a sensibilizzare sulle condizioni sanitarie dei carcerati?
«Io penso che il tema delle condizioni di vita già fosse all’attenzione delle istituzioni e, per chi avesse voluto, anche della pubblica opinione. Il tema è da sempre sotto gli occhi delle istituzioni, ma non si è fatto molto. Una vera e propria riforma non c’è stata».
Cosa si potrebbe fare oggi?
«Secondo me per mettere una persona in carcere devi aver provato cosa è il carcere. Ma dovresti averlo provato per davvero, non averlo visto da turista, da operatore che arriva interroga e se ne va. Una settimanina dentro sarebbe necessario starci per capire che cos’è il carcere. È necessario capire che cos’è veramente il carcere. Oggi la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere non è pericolosa. Abbiamo una popolazione credo di circa 56 o 57mila detenuti, dopo che sono scesi un po’ con l’emergenza covid, e di questi credo che ci saranno al massimo 20mila persone pericolose, volendo esagerare. Capirete che passare da 57mila a 20mila e occuparsi degli altri attraverso misure alternativa come l’affidamento in prova ai servizi sociali, vorrebbe dire anche rendere la vita di chi è detenuto più coerente con il principio costituzionale».
Soluzioni alternative al carcere esistono già.
«Credo che siano più le persone che oggi scontano la pena fuori dal carcere, di quelle che scontano la pena dentro il carcere. La recidiva di chi sconta la pena fuori dal carcere è notevolmente inferiore di chi la pena la sconta dentro. Quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ritornano in carcere; per chi è stato sottoposto a un affidamento in prova ai servizi sociali si parla di una recidiva al 19%. La differenza è notevole».
Si parla anche di giustizia riparativa.
«Generalmente chi agisce il male non sa che ciò che agisce sia male. Per una serie di motivi, soprattutto culturali, di educazione e così via. Per evitare che una persona faccia male è necessario in primo luogo che sappia che quel comportamento provoca dolore. La strada forse più utile per arrivare a questa percezione è proprio quella del percorso di giustizia riparativa. Con la mediazione di una persona che se ne intende, la vittima e il responsabile sono accompagnati lungo un percorso che si conclude con un incontro, che serva al responsabile a rendersi conto del male che ha fatto, senza per questo essere distrutto dai sensi di colpa, e alla vittima di ripararsi del male che ha subito e di riacquistare il senso di dignità che aveva smarrito proprio per il male che era stato inferto».
Qual è la sua testimonianza del carcere?
«Ci sono delle associazioni che portano gli studenti in carcere facendogli fare lo stesso percorso che fanno i detenuti, l’ho fatto anche io una volta e forse quello è il ricordo più vivo del carcere. Poi ci sono dei ricordi terribili, perché qualcuno si è suicidato in carcere e a me è successo di andare a vedere. E gli interrogatori, per 28 anni ho fatto il giudice o il pubblico ministero investigativi, era usuale per me frequentare San Vittore per interrogare delle persone che erano detenute. In quei momenti c’è l’incontro della faccia che sta fuori e della faccia che sta dentro, che sono estremamente diverse, ma tanto diverse da essere sostanzialmente incomparabili. Non ho visto solo le carceri italiane, lavorando a uno dei tavoli degli Stati Generali mi è capitato di visitare le carceri norvegesi e poi quelle boliviane, esperienze radicalmente diverse: in Norvegia sembra davvero un albergo a cinque stelle, mentre in Bolivia è un paese circondato da mura. Di esperienze ne ho avute molte e sono tutte esperienze che confermano la mia convinzione ormai sicura che, così com’è qui da noi, il carcere dovrebbe essere abolito».
Da repressori a illuminati, Violante e Colombo: “Aboliamo il carcere”. Tiziana Maiolo su Il Garantista il 13 Maggio 2020. «Il carcere così come è oggi in Italia è da abolire». «Possiamo, anzi dobbiamo, liberarci dal carcere in maniera relativa, rompendo il monopolio della pena carceraria». Non è una discussione immaginaria tra Michel Foucault e Cesare Beccaria, ma tra due ex magistrati, Gherardo Colombo e Luciano Violante. Sono stati due accusatori, due repressori. Hanno svolto ruoli politici importanti, anche nel loro impegno di magistrati. Lo negherebbero con forza, qualora fosse loro attribuita quella veste. Ma è difficile non ricordare all’uno le modalità nelle inchieste di Mani Pulite e all’altro la vicenda di Edgardo Sogno. Ma oggi non è il momento delle contestazioni. Al contrario, ci pare importante dare valore a quel che due importanti intellettuali vanno pensando e dicendo. Pubblicamente. In due separate interviste rilasciate a Nicola Mirenzi per l’Huffington Post osano lanciare il sasso in una piccionaia di quella subcultura che attraversa disordinatamente il mondo politico, quello giudiziario e gran parte del sistema di informazione. Quello del “devono marcire in galera”, “buttare la chiave”, “sbattere dentro i mafiosi scarcerati”, quello stesso mondo che poi si dà appuntamento la domenica sera da Giletti su La7. L’argomento non è di gran moda, neppure tra gli intellettuali, si sa. Ma proprio per questo la provocazione val la pena di essere ascoltata e rilanciata. Con l’occhio della memoria. Dai discorsi di Montesquieu sulla pena fino a tutto il settecento illuministico e al pensiero di Foucault negli anni Settanta del Novecento, il carcere è stato interpretato come violenza in sé, con la sua sola esistenza. Ma, fuori dai cenacoli degli intellettuali e dei filosofi, il pensiero di una pena che non fosse di necessità legata alla restrizione, alla privazione della libertà, alla mortificazione del corpo prima ancora che della personalità, non ha mai attraversato il mondo dei “carcerieri”. Già nella scelta di indossare la toga di pubblico ministero o di giudice c’è un dogma violento: la presunzione di poter disporre del corpo e della mente di altri esseri umani attraverso l’uso di una pena corporale, la detenzione in carcere. Pena di morte, ergastolo e carcere -scriveva in un prezioso libretto (Delitto, pena e storicismo, Marco editore) nel 1994 un grande giurista, Luigi Gullo– in fondo rispondono alla stessa esigenza, quella di privare la persona della libertà, quindi della vita. Gherardo Colombo ha avviato una lunga macerazione personale nel corso degli anni. Un percorso da credente, (anche se oggi si definisce solo “cristiano filosoficamente”), da persona che ha sempre provato disagio nel dare o nel chiedere la reclusione. Pure ci credeva, nella funzione rieducativa della pena, anche attraverso il carcere. Poi ha capito che l’unica funzione della detenzione è in realtà l’asservimento della persona: «in una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire». Certo, sorvegliare e punire. Riecco Foucault che si insinua tra i due ex magistrati. «Il carcere non educa a niente. Instaura solo una rapporto di soggezione tra il detenuto e il potere», gli fa eco Luciano Violante. Il quale non parla mai di perdono, al contrario di Colombo. Usando criteri che oggi paiono un po’ arcaici, quello virtuale tra i due pare il dialogo tra un cattolico e un marxista. Ma tutti e due trattano la persona che commette un reato come colui che spezza il rapporto con la comunità. Ed è quello strappo che occorre ricucire. Non mettendo l’uomo o la donna in cattività, ma con altri strumenti. Ferma restando la necessità comunque di isolare chi è pericoloso per l’incolumità altrui, l’ex pm di Mani Pulite vede il perdono come il recupero della relazione tra il trasgressore e la società. Ma continua a mancare un pezzo, nella sua analisi, quasi avesse lui timore a distaccarsi del tutto da una visione della “società dei puri” che permea oggi più che mai la mentalità di tanti pubblici ministeri (e non solo) e che fu in passato anche la sua. Non per rinfacciare (questo mai), ma solo per aiutare la memoria: come dimenticare quella sua intervista al Corriere nel 1998 in cui aggredì la Bicamerale presieduta da D’Alema ricostruendo la storia d’Italia come storia criminale? «C’è in Italia una società del ricatto-aveva sillabato- frutto degli opachi compromessi degli ultimi vent’anni della Repubblica». Una visione moralistica, prima ancora che morale. Luciano Violante, che ha sulla coscienza la proposta di impeachment nei confronti del presidente Francesco Cossiga, nel suo percorso va al galoppo. Sentite questa: «Negli ultimi anni ha preso piede, non solo in Italia, una cultura politica che concepisce la società come un mondo da purificare. Dal quale gli impuri, le persone che commettono reati e i sospettati vanno radiati, con il diritto penale e con il carcere. La purezza però è un fantasma che si sporca facilmente. Questo alimenta il sospetto e intorno a esso costruisce un apparato di repressione capillare. Un dispositivo autoritario pericoloso». Sta pensando al procuratore Nicola Gratteri o al consigliere del Csm Nino Di Matteo, presidente Violante? O a qualche leader politico, di maggioranza o opposizione, magari anche del suo ex partito? Ringraziando i partecipanti alla tavola rotonda, i signori Montesquieu, Voltaire, Beccaria, Foucault, Colombo e Violante, ci permettiamo di lasciare l’ultima parola a Luigi Gullo, nella conclusione del suo libro: «Riflettiamo per un attimo: anche uomini di specchiato sentire accettarono tanti secoli fa la schiavitù. Chi sarebbe oggi d’accordo con loro? Proprio allo stesso modo si può ragionare per il carcere e la carcerazione».
Duello avvocati-Davigo: ecco 10 domande garantiste. Viviana Lanza de Il Riformista il 18 Febbraio 2020. L’appuntamento è per oggi pomeriggio alle 17. La biblioteca “Alfredo De Marsico” di Castel Capuano ospiterà l’atteso confronto tra il magistrato Piercamillo Davigo e gli avvocati napoletani, nato a seguito delle reazioni dell’avvocatura alle dichiarazioni che il giudice di Cassazione e componente del Csm rilasciò in un’intervista pubblicata un mese fa dal Fatto Quotidiano. Nel testo si affrontavano i temi della prescrizione e le proposte per la riforma della giustizia e la durata dei processi. Temi e reazioni raccontate in questo mese dal Riformista e che oggi pomeriggio troveranno nuovo terreno di confronto in occasione della tavola rotonda alla quale parteciperanno, oltre il giudice Davigo, gli avvocati Antonio Tafuri, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, Alfredo Sorge, consigliere dell’Ordine degli avvocati partenopei, Ermanno Carnevale, presidente della Camera penale, Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale all’Università Federico II, e il magistrato Marcello Amura, presidente della giunta napoletana dell’Associazione nazionale magistrati. Il dibattito sarà moderato dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. C’è grande attesa attorno a questo evento, nato come una sorta di provocazione. Mentre infatti dai vari ordini forensi sono state avanzate proteste (come a Milano in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario) o richieste di un procedimento disciplinare a carico di Davigo (richieste respinte dal Csm che le ha ritenute irricevibili), da quello di Napoli è arrivato l’invito che il magistrato di Cassazione ha accettato. Non tutti gli avvocati partenopei hanno però approvato l’iniziativa o le modalità con cui è stata organizzata. Il Riformista ha chiesto a dieci penalisti di proporre una domanda per Davigo. Nell’elenco manca il professore Alfonso Furgiuele, titolare della cattedra di Diritto processuale penale all’Università Federico II: contattato, ha fatto sapere di non avere alcuna domanda da porre.
1 – Domenico Ciruzzi – Caso Bachelet. Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio ucciso dalle Br nel 1980, sula scarcerazione degli assassini di suo padre ha detto: “Hanno completato il percorso rieducativo, papà se ne rallegrerebbe e lo stesso farebbe Aldo Moro”. Che cosa ne pensa?
2 – Arturo Frojo – Spazzacorrotti. Qual è l’opinione di Davigo sulla decisione della Corte Costituzionale che, proprio nelle scorse ore, si è espressa sulla irretroattività della norma?
3 – Marinella De Nigris – Prescrizione. Dinanzi all’eternità processuale che finirà per tutelare gli imputati colpevoli e i magistrati che non hanno voglia di lavorare, come si pensa di tutelare i diritti delle vittime dei reati che non arriveranno mai alla conclusione del processo?
4 – Saverio Senese – Tutti colpevoli. Cosa intendeva dire Davigo quando ha affermato che non esistono innocenti ma colpevoli non scoperti? E andrebbe Davigo a fare il ministro della Giustizia nella Turchia di Erdogan o la ritiene un Paese troppo democratico?
5 – Riccardo Polidoro – Ingiusta detenzione. Il guardasigilli ha dichiarato che “gli innocenti non finiscono in carcere”. È d’accordo con questa affermazione? E come spiega che lo Stato paga circa mille risarcimenti l’anno (circa tre al giorno), per milioni di euro, per ingiusta detenzione?
6 – Elena Lepre – Parti civili. Ha mai considerato l’incidenza che la riforma della prescrizione ha sulle pretese delle parti civili e delle parti offese? Ha mai pensato a quali conseguenze personali, professionali e umane ha questa riforma sulla vita delle persone?
7 – Carmine Foreste – Ricorsi inammissibili. Non ritiene che la proposta di rendere l’avvocato responsabile in solido in caso di ricorso per cassazione inammissibile sia incostituzionale? Ancorare un diritto fondamentale a una valutazione di economica non viola il diritto di difesa?
8 – Alfonso Stile – Reformatio in Peius. L’abolizione del divieto della reformatio in peius, pur ipotizzando una diminuzione del numero delle impugnazioni, non comporterà un maggiore aumento della durata dei giudizi di appello dovendosi rinnovare l’istruttoria?
9 – Bruno von Arx – Riforme. Perché insistono su riforme che delegittimano la magistratura e l’intero organismo dell’attività giudiziaria? Probabilmente perché non credono nell’attività giudiziaria e credono che ogni inquisito sia da considerare colpevole?
10 – Gennaro Demetrio Paipais – Non colpevolezza. Quali sono, secondo Davigo, le implicazioni processuali della presunzione di non colpevolezza? Come può l’idea di giustizia prescindere dal principio di non colpevolezza, sancito e tutelato dalla nostra Carta Costituzionale?
· I Giustizialisti.
Sfilata di assoluzioni, ma tutti zitti sul potere dei magistrati. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. Che cos’è successo dopo la sfilza di assoluzioni registrate nelle ultime settimane in favore di politici, amministratori e uomini d’industria fatti fuori dalla giustizia ingiusta? È successo che gli ex colleghi (ma alcuni, mica tutti) hanno elogiato la capacità di sopportazione dimostrata da quelle vittime della violenza di Stato, mentre i giornali (ma ancora una volta soltanto alcuni) si sono limitati a incolonnare qualche considerazione di pietà solidaristica per questa gente che non meritava il colpo di sfiga di un processo campato per aria. È il trattamento di simpatia e compassione che si dimostra alla persona colpita dall’ingiustizia di una brutta malattia: si allargano le braccia quando arriva la diagnosi, dunque si resta in trepidazione e poi, quando infine quello la scampa, baci e abbracci e il riconoscimento del vigore che il poveretto ha saputo opporre all’aggressione della patologia. Il guaio è che l’ingiustizia di anni o decenni, redenta da un’assoluzione che non restituisce la vita perduta e non ripristina la reputazione distrutta, appartiene a un altro rango: non è il coccolone arrivato chissà perché, è invece l’effetto di un dispositivo di potere lasciato libero di schiacciare la vita delle persone senza che in qualunque modo ne rispondano coloro che lo amministrano. È insopportabile che la classe politica – perlopiù proprio quella che durante il “calvario” dei finalmente assolti girava la testa dall’altra parte – rivolga i sensi della propria partecipazione al contegno delle vittime anziché denunciare i fatti che le hanno rese tali: e i fatti sono i processi intrinsecamente ingiusti che hanno inchiodato per anni gli imputati a ipotesi accusatorie evidentemente infondate. Perché un’assoluzione dopo sette, dopo quindici, dopo trent’anni non è la giustizia che infine si compie: è l’ingiustizia che si ferma troppo tardi, quando ormai il danno è fatto.
Inchieste flop ed errori giudiziari, perché non si può giudicare il lavoro di un magistrato? Nemmeno davanti a questa lugubre rassegna di vite e carriere giustiziate si sente non dico l’impellenza di interrompere lo scempio, ma anche solo un vago stimolo civile a denunciarne le cause evidenti. E, alle solite, ciò avviene in forza della più micidiale caratteristica che purtroppo accomuna il grosso delle classe dirigenti di questo Paese, cioè a dire una irrimediabile confusione tra la necessità di salvaguardare lo Stato di diritto e la opportunità, cioè la convenienza, di assolvere le aberrazioni del potere giudiziario. Da qui, da questa confusione, promanano i luoghi comuni del corso giustizialista: che “le sentenze non si commentano”, come se si trattasse di esternazioni oracolari; che “bisogna avere fiducia nella magistratura”, come se la giustizia fosse rispettabile per il lustro di chi la sbriga anziché per quel che dice; che “la giustizia deve fare il suo corso”, come se andasse bene il corso accelerato della prigione prima del processo o, appunto, quello pluridecennale che riconosce infine l’innocenza di una vita massacrata. Le pagine dell’ingiustizia italiana recano in calce nomi e cognomi degli esecutori. Nessuno ha il diritto di metterli alla berlina. Ma tutti avrebbero il dovere di ricordare che la loro ingiustizia è stata fatta in nome del popolo italiano. E le loro vittime sarebbero meglio tutelate in questo modo, piuttosto che con l’ipocrisia della solidarietà tardiva.
«Le montagne dei pm partoriscono topolini». Il pentimento postumo di Ingroia e Di Pietro. Il Dubbio il 19 dicembre 2020. Dopo Di Pietro, anche Ingroia ha cambiato opinione in tema di giustizialismo. «Che ci siano stati e ci siano spesso provvedimenti di qualche pm un po’ avventati che rubano la scena mediatica e poi si rivelano inconsistenti, purtroppo è una realtà». Trovarsi dall’altro lato della “barricata” deve aver allargato gli orizzonti agli ex pm Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia. Dismessa la toga per intraprendere, dopo alterne esperienze politiche, l’attività forense, i due magistrati hanno cambiato opinione in tema di giustizialismo “spinto”, di cui Di Pietro, in particolare, è stato il più celebre portabandiera. Il primo a intervenire nei giorni scorsi sull’argomento era stato proprio l’ex pm di Mani pulite: “Io ho fatto politica sulla paura che le manette incutono agli altri – aveva dichiarato in una intervista ai microfoni di Radio Cusano – purtroppo, spesso, nel nostro Paese, chi sbaglia non paga, anche perché tante volte il magistrato parte con la montagna di accuse, per poi partorire il topolino”. “Io sono consapevole di avere creato dei “dipietrini” nella magistratura e me ne pento”, aveva poi aggiunto, evidentemente consapevole dei danni che il populismo giudiziario, quello per intenderci del “non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca”, ha causato in questi decenni nella società italiana. Sul punto è quindi intervenuto ieri l’ex procuratore aggiunto di Palermo, il magistrato che ha incardinato la discussa indagine sulla “trattativa Stato- mafia”. “Che ci siano stati e ci siano spesso provvedimenti di qualche pm un po’ avventati che rubano la scena mediatica e poi si rivelano inconsistenti, purtroppo è una realtà cui assistiamo in questi ultimi anni, che sono anni, obiettivamente, di declino e non di progresso della magistratura. “Non so se Di Pietro si riferisca a qualcuno in particolare – ha poi aggiunto Ingroia – non faccio l’interprete delle sue intenzioni più o meno occulte, però non credo sia lontano dalla verità, lo vedo oggi nella pratica quotidiana mia di avvocato. Forse c’erano in nuce anche quando facevo il pm, per carità, ma oggi sono più eclatanti”. A dire il vero Ingroia da tempo, da quando è diventato avvocato, ha avviato un percorso di “resipiscenza”. In una intervista di qualche anno fa a questo giornale, infatti, aveva affermato che “da avvocato” vede “cose che prima faticavo ad immaginare”, criticando il fatto che i gip accoglievano nella quasi totalità dei casi le richieste del pm. “Il giudice ormai svolge una funzione notarile rispetto alle Procure”, aveva precisato Ingroia, forse dimenticandosi che il “copia& incolla” è una prassi – purtroppo consolidata da molto tempo.
TENSIONI “POSTDATATE” E TRA LE TOGHE IN SERVIZIO. I pentimenti tardivi, che giungono anche in una età matura – Di Pietro ha recentemente compiuto i settanta anni – possono essere letti come conseguenza di una perdita di autorevolezza della magistratura, perdita che ha comunque come positivo risvolto uno sforzo autocritico a cui in passatoi si è assistito raramente. E per rispondere alla profonda crisi delle toghe, messa in luce dal caso Palamara, si segnala la risposta, tutta interna alla magistratura, del gruppo “Articolo 101”, la lista nata per andare contro il sistema delle correnti e che è all’opposizione nel Comitato direttivo centrale dell’Anm. La disaffezione per l’associazionismo giudiziario, invece, è un fenomeno in crescita nell’ultimo periodo. Dopo l’astensione circa il 30 per cento degli aventi diritto non ha votato alle recenti elezioni dell’Anm – il dissenso contro l’attuale compagine associativa è l’ultima frontiera. Secondo una lettera aperta, che sta facendo molto discutere, di alcuni magistrati in servizio al Tribunale di Napoli, che hanno deciso in questa settimana di lasciare l’associazione, l’Anm sarebbe incapace di andare “oltre il bla bla sulla questione delle correnti, sul caso Palamara e sulla moralizzazione del fenomeno dei fuori ruolo”.
Dopo anni arrivano le assoluzioni ma per i Pm l’innocenza è una sconfitta. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Nelle ultime settimane c’è stata una pioggia di sentenze assolutorie: personaggi cosiddetti eccellenti hanno visto infine dichiarata la loro estraneità ai fatti che, secondo l’accusa pubblica, avrebbero denunciato la loro responsabilità. Si è trattato spesso di tribolazioni durate anni: sette anni, quindici anni, trent’anni… Ma questo perché? Perché era difficile raccogliere le prove? Perché era complicato istruire i processi? Perché eserciti di garantisti pelosi disseminavano di ostacoli il corso della giustizia? No. In molti casi l’irrevocabilità di quelle assoluzioni tardava a venire perché l’accusa pubblica, già responsabile di aver accusato senza fondamento, si incaparbiva nel suo intento persecutorio impugnando i provvedimenti favorevoli all’imputato. E infatti sono stati questi i titoli di giornale a descrizione e dell’esito: “La Cassazione conferma l’estraneità…”, “Riaffermata l’innocenza…”, e simili. Vuol dire che all’ultimo grado di giudizio non si è arrivati per il ricorso del colpevole che tentava di farla franca, ma per la pervicacia punitiva dell’accusa pubblica che non si arrendeva davanti agli accertamenti di giustizia del giudice di merito. È ben strano che il diritto di confidare nella valutazione di un giudice superiore sia trattato come un espediente da mascalzoni quando a ricorrervi è la vittima di una condanna, mentre rappresenta una sacrosanta affermazione di giustizia quando l’impugnazione è fatta dal candore togato del pubblico ministero. Ed è anche più strano considerando il ruolo che l’accusa pubblica rivendica a sé nell’amministrazione della giustizia, vale a dire il ruolo di contribuzione giurisdizionale che obbliga a tenere conto degli elementi di prova a favore dell’imputato e anzi persino a ricercarne. Un compito di portata più che altro teorica nel sistema della giustizia militante che non riconosce innocenti ma solo colpevoli ancor da scoprire. Di fatto, il cittadino che nei giorni scorsi abbia appreso di quelle definitive riabilitazioni e dei massacri umani che le hanno precedute, sappia che una simile giustizia, che interviene così tardi a denunciare di essersi esercitata malamente per così tanto tempo, è l’effetto dell’impuntatura inquirente che resiste, resiste, resiste pur quando è evidente l’inconsistenza dell’accusa, e quindi impugna e ricorre perché vuole carcere, carcere, carcere anche se vi si rinchiude l’innocenza. Perché quello, il carcere, è la loro vittoria e l’altra, l’innocenza, è la loro sconfitta.
"Confessione o morte". Caselli si scaglia contro Woodcock e detta la bibbia della giustizia secondo i 5 Stelle. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Novembre 2020. Gian Carlo Caselli dice di essersi stufato delle critiche dei benpensanti che contestano la legittimità e la modernità del carcere duro, cioè del 41 bis. Caselli rivendica il suo diritto ad inveire contro i garantisti perché ritiene di avere conquistato questo diritto sul campo, facendosi “un mazzo tanto e maturando una esperienza concreta di contrasto alla mafia”. La sua idea è molto chiara: se vuoi parlare di mafia, o anche semplicemente di Diritto, puoi farlo solo in quantità “proporzionale” alla intensità della battaglia che hai condotto contro la mafia. È l’idea del “potere dei giusti”, la “giustocrazia”, che in fondo è la base fondamentale sulla quale, in tutti questi anni, è stata costruita la famosa “società dell’antimafia”, quella che – solo lei – può distribuire titoli, prebende, diritti, credibilità, prestigio. Chi non fa parte di questa società dei giusti deve tacere, o parlare pochissimo e sottovoce. Caselli è perfettamente interno a questa logica, però si esprime, rispetto ad altri, in forme più estremiste, oppure – se vogliamo essere oggettivi – in forme più chiare, meno ipocrite. È da questa idea, estesa oltre le praterie dell’antimafia, che è nato il grillismo che oggi domina, in gran parte, il paese e la sua (scarsa) cultura politica. La polemica contro i nemici del carcere duro e i fanatici della Costituzione (e della dichiarazione dei diritti umani del 1948) stavolta il dottor Caselli la scaglia contro un suo collega. Diciamo pure un suo collega che non ha fama di liberal. Precisamente Henry John Woodcock, noto come lo sceriffo italo-inglese di Napoli. Woodcock due giorni fa ha scritto sul Fatto Quotidiano uno dei pochissimi articoli ragionevoli comparsi su quel quotidiano dal settembre 2009 (scherzo…), criticando il 41 bis e la legislazione sui pentiti. Dell’articolo di Woodcock abbiamo riferito sul giornale di sabato scorso. È vero che Caselli può rivendicare il suo “essersi fatto un mazzo tanto nella lotta alla mafia”? È vero. Sicuramente è vero (anche se io ho sempre pensato che il compito della magistratura sia quello di scoprire e perseguire i reati, e non quello di lottare contro fenomeni sociali, o politici, o anche criminali). Giovanni Falcone, cercando e perseguendo i reati, diede scacco matto, o quasi, alla mafia. Quando Falcone fu ucciso dal colpo di coda di Cosa Nostra, nel 1992, altri rappresentanti dello stato si trovarono nella sua trincea, per completare la sua opera. Ad esempio i carabinieri del generale Mori, che portarono a casa il risultato migliore possibile per i loro compiti: la cattura di Totò Riina, cioè il capo di Cosa Nostra, e la decapitazione della mafia siciliana. Poi arrivò Gian Carlo Caselli – arrivò proprio il giorno della cattura di Riina – e lavorò ventre a terra per proseguire l’opera di Falcone e di Mori. Quando lui era Procuratore di Palermo la mafia subì nuovi colpo micidiali, con l’arresto di personaggi di grande calibro, come Bagarella, Brusca, Spatuzza. Dopo di lui arrivò Piero Grasso, e fu all’epoca di Grasso, nel 2006, che Renato Cortese, ufficiale di polizia (diretto da Giuseppe Pignatone) mise le manette all’ultimo grande capomafia, Bernardo Provenzano detto Binnu. Da quel giorno Cosa Nostra non è più la terribile organizzazione che aveva dominato, non solo in Sicilia, per decenni. In questo corpo a corpo tra Stato e Mafia Caselli ha avuto sicuramente un ruolo importante. Come lo hanno avuto il generale Mori e il dottor Cortese, Piero Grasso, lo stesso Pignatone e molti altri. Oltre naturalmente ai due “giganti”, e cioè Falcone e Borsellino, che lavorarono nonostante mezza magistratura e un bel pezzo di mondo politico remassero contro di loro. Purtroppo oggi alcuni di questi uomini di valore – di valore come Caselli – navigano in cattive acque. Forse travolti dall’invidia. Pensate che i due poliziotti che hanno preso Riina e Provenzano sono tutti e due sotto processo e hanno subito tutti e due, in primo grado, condanne a molti anni di prigione. Mori addirittura è stato accusato di avere trattato con la mafia. Con chi? Beh, con Riina. Ma non fu lui a catturalo? Si, però… Come si fa ad accusarlo di aver trattato con la sua “preda”? Non so, è illogico, però lo accusano, e nessuno dice loro di smetterla con questa sceneggiata…Credo che su questo Caselli sarà d’accordo con me. Se lui ha maturato dei meriti sul campo, come è vero, certo non negherà i meriti dell’allora colonnello Mori. Caselli però protesta perché dice che i benpensanti sono contro di lui perché – sempre i benpensanti – vorrebbero abolire il 41 bis, cioè il carcere duro, dal momento che lo giudicano – adoperando semplici e logici ragionamenti – in aperto contrasto con la Costituzione. Cos’è il 41 bis? Un regime di detenzione speciale, riservato a circa 600 persone, che vengono tenute in isolamento per decenni, senza Tv, senza giornali, senza contatti coi loro compagni di prigione, con regime alimentare duro, solo un’ora d’aria, limitazione fortissima dei colloqui coi parenti, insomma, situazione da medioevo. Fino a quando? Finché non si pentono. Si chiama carcere duro. Qualcuno – io per esempio – lo chiama tortura. È evidente che è tortura. Ora, con tutto il rispetto per la cultura e la saggezza di Caselli, mi vedo costretto a fargli notare che i benpensanti non sono quello 0,2 per cento della popolazione Italiana che contesta il 41 bis, ma quel 99,8 per cento che vorrebbe renderlo ancora più duro. E infatti poi Caselli, nell’articolo di polemica con Woodcock, elenca i benpensanti: “Nessuno Tocchi Caino”, le Camere Penali e i media “schierati su questi fronti”. Che una associazione di militanti radicali, intitolata a Caino, sia contro il carcere duro, a me sembrava abbastanza prevedibile. Altrimenti avrebbero chiamato la loro associazione “Buttate la chiave”… Stesso discorso vale per le Camere Penali, che si ispirano a Beccaria, non a Salvini. Quanto ai media schierati contro il 41 bis, gli unici che conosco sono questo giornale sul quale sto scrivendo e radio radicale. Detto tutto questo, e pur conoscendo molto bene la filosofia dei fautori della repressione come strumento fondamentale di governo di una società democratica, alcune delle frasi contenute nell’articolo di Caselli mi hanno colpito per la loro ferocia. Anche perché Woodcock, nel suo articolo, non aveva esposto tesi particolarmente estremiste. Si era limitato a dire che le leggi di emergenza non possono essere eterne, che il 41 bis è legale se risponde a esigenze di sicurezza ed è invece illegale se diventa uno strumento di indagine, cioè un modo per produrre confessioni, e aveva chiesto che si facesse più attenzione nell’uso dei pentiti, non solo per garantire l’equità della legge, ma anche per evitare cantonate. La storia dei pentiti che imbrogliano i Pm, e provocano cantonate dei Pm, del resto, è ricca di esempi, a partire da Palermo, dove un pentito ha mandato a monte le indagini sull’uccisione di Borsellino. Quali sono gli argomenti di Caselli per contestare Woodcock? Essenzialmente tre. Il primo è che il 41 bis non deve essere considerato un provvedimento di emergenza perché la mafia non è un’emergenza ma è un fenomeno ordinario. Il secondo è che senza 41 bis le carceri tornano ad essere Grand Hotel (ha scritto proprio così). Il terzo è che la mafiosità è “una realtà che può cessare o con il pentimento o con la morte”. Non ho forzato questa frase. Seppure un po’ tremando, l’ho copiata esattamente nella forma nella quale l’ha scritta Caselli: “pentimento o morte”. Non ricordo di avere mai letto frasi di questo genere, così lontane da qualunque idea del diritto degli ultimi due secoli, al di fuori degli stati autoritari, pronunciate da un magistrato (nel nostro caso un ex prestigiosissimo magistrato che è stato Procuratore, è stato nel Csm, è stato giudice di Cassazione…). Mi chiedo se questa idea patibolare della giustizia, e del diritto (e dello Stato) sia solo una fuga per la tangente di Caselli. O se invece risponda, nel profondo, al modo di pensare di un pezzo, maggioritario, del paese, e della sua cultura recente, quella che ha prodotto il fenomeno dei 5 stelle, lo slittamento su posizioni reazionarie del PD, l’insalvinimento della destra. Temo che questa mia seconda ipotesi non sia infondata. E torno a tremare.
P.S. 1. Quanto al Grand Hotel carcere, evito commenti. È triste leggere queste parole. E sul 41 bis non emergenziale va detto solo che se è così è chiaro che nessuno al mondo può negare il suo essere totalmente anticostituzionale.
P.S. 2. Gian Carlo Caselli è una persona che per svolgere il suo mestiere nel modo che riteneva giusto, ha messo decine di volte a rischio la sua vita (all’epoca di Caselli era così). Io non ho mai messo a rischio la mia. Eppure sono convinto di avere esattamente lo stesso diritto che ha lui di esprimere le mie idee.
P.S. 3. Mai e poi mai, nella mia vita, avrei pensato di poter difendere Henry John Woodcock. E addirittura di apprezzare un suo articolo sul giornale di Travaglio. Spero solo che non mi capiterà, un giorno, di dover difendere Davigo…
Caro Luca Telese, le carceri non sono tombe…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 7 Novembre 2020. «È tutto nella legge». Così ha detto l’altra sera il giornalista Luca Telese, discutendo con il direttore di questo giornale durante la trasmissione “Non è l’Arena”. Si riferiva alla situazione delle carceri, replicando a Sansonetti il quale, ripetutamente interrotto, tentava di ricordare come le galere siano piene di innocenti e di malati gravi gratuitamente afflitti da una detenzione che prescinde da qualsiasi esigenza di sicurezza. A questo Telese – e ai tanti che in argomento, per disinformazione o malafede, la raccontano come lui – bisognerebbe far osservare in primo luogo che il sistema delle pene e carcerario non è tutto nella legge: al contrario, è proprio tutto fuorilegge. E non per idea di qualche stralunato amico dei mafiosi che vuol liberali mettendo nel nulla la militanza antimafia dei giudici eroi e oltraggiando i diritti delle vittime (questo è il palinsesto canonico di TeleForca): piuttosto, quel sistema è fuorilegge a lume di Costituzione e per la giurisprudenza europea che fa del nostro Paese un delinquente abituale per come tratta gli indagati e i detenuti. Reclamare galera a oltranza per i “mafiosi”, pur quando il fatto di mafia è l’incostituzionale concorso esterno e pur quando il mafioso è un relitto devastato dalle metastasi, rappresenta un modo appena più ripulito per dire che devono marcire in galera: una sostanza uguale anche se non la si mette in slogan; una concezione che prende tutti: dall’ex ministro leghista, che almeno la dice chiara e tonda, al senatore Matteo Renzi che tenta di girarci intorno ma poi con fierezza illustra l’esemplarità della morte in carcere di Riina e Provenzano e rivendica il merito di quella macabra inflessibilità. Secondo questa concezione, non si tratta di tenerli in carcere affinché non nuocciano: si tratta di tenerceli affinché vi muoiano; devono rimanerci per giungere alla morte, con la pena che – come la tortura – deve imperativamente proseguire finché un’altra vita finisce di palpitare nel chiuso di quelle tombe provvisorie. Questo lugubre finalismo vendicativo e sicario non serve alla sicurezza comune e non omaggia i diritti delle vittime: perché la sicurezza comune non è messa a rischio se un condannato muore nel proprio letto, e perché tra i diritti delle vittime, fino a prova contraria, non c’è quello di vedere un detenuto trattato come una cosa, con il carceriere che tiene in vita il recluso come il torturatore sorveglia lo stillicidio per evitare che lo spettacolo si interrompa presto. Ma esattamente questo suppone l’unanimismo giustizialista quando ringhia che «Se proprio serve può essere curato anche in carcere!»: suppone il dovere del carcere e il dovere della morte in carcere, non il dovere della cura, proprio come l’aguzzino smette per un attimo di frugare nella carne del torturato non per dargli sollievo ma per prolungare la possibilità di torturarlo. E questo schifo non è “tutto nella legge”: è tutto nei fatti, dei quali preferiamo non occuparci perché è più facile raccontare che una società minacciata dalla criminalità è provvidenzialmente protetta dallo Stato che butta le chiavi.
Italiani forcaioli, quasi 4 su 10 sono per la pena di morte…Chiara Viti su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. La pena di morte è stata ufficialmente abolita nel 1947 e definitivamente cancellata dalla nostra Costituzione nel 2007, eppure gli italiani non sembrano essere così contrari. I dati che emergono da un recente sondaggio elaborato da Swg (e offerto all’Huffington Post) raccontano un Paese pronto a somministrare, senza pietà, iniezioni letali. Il 37% degli intervistati si è dichiarato favorevole, tre anni fa la percentuale era del 35%. Nel 2010 eravamo al 25%. Il dato cresce di più di un punto all’anno e se questo trend forcaiolo continuerà, con questi ritmi, chissà se fra meno di dieci anni saremo pronti a organizzare esecuzioni in diretta streaming. Basta con la pietà e con il buonismo, sì alle sedie elettriche, magari di ultima generazione. Ma di chi è la colpa? Degli immigrati! Qualcuno è già pronto a twittare. L’Italia è uno dei paesi europei più sicuri, ma fra i casi di cronaca nera raccontati sui giornali, le opinioni di improvvisati opinionisti nei salotti tv, ecco che gli italiani sono pronti a invocare punizioni esemplari e a improvvisarsi criminologi, mentre si diffonde un sentimento collettivo di paura e sospetto che altera la realtà. Eccolo qua il punto di partenza di un legislatore pigro che inasprisce le pene, acconsente a uno scellerato uso dei trojan e sospende la prescrizione. Ma non saranno allora i ritardi e le disfunzioni del sistema giustizia il problema? Tra innocenti in carcere e colpevoli a piede libero, restiamo tutti sotterrati sotto agli enormi faldoni stipati, da anni, nelle procure. Mentre più di qualcuno è pronto a mettere in piedi veri e propri plotoni d’esecuzione, nel mondo sono ben 142 gli stati che hanno abolito la pena di morte o che comunque non eseguono condanne da molti anni. L’Oceania è l’unico continente libero dalla pena di morte. Lo sarebbero anche l’Europa e le Americhe, se non fosse per la Bielorussia e gli Stati Uniti d’America dove dopo 17 anni “grazie” al presidente Donald Trump sono ripartite le esecuzioni. Discorso a parte va fatto per la Cina che continua a considerare i dati sulla pena di morte un segreto di stato. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International in medio Medio Oriente Iran, Iraq e Arabia Saudita sono poi tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni. Qualche passo avanti lo ha fatto l’Africa sub-sahariana, dove alla fine dell’anno scorso la Corte africana dei diritti e dei popoli si è pronunciata contro l’obbligatorietà della pena capitale e dunque in favore del principio della discrezionalità del giudice. Lo scorso anno nel mondo sono state però almeno 657 esecuzioni. Per fortuna l’orientamento delle nostre istituzioni non sembra allinearsi con la sempre più invocata “pancia del paese”. Qualche giorno fa la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, intervenendo in video conferenza in occasione del decennale della nascita della Commissione internazionale contro le pena di morte ha dichiarato: «Nel corso degli anni abbiamo contribuito attivamente a diverse iniziative per sensibilizzare le opinioni pubbliche sull’applicazione della pena di morte a persone vulnerabili, ma anche sulle tantissime altre ragioni che devono spingerci a fermare le esecuzioni». Ma i dati ci sono e parlano chiaro. Forse invece di sperare inerti di non regredire alla legge del taglione dovremmo ripensare seriamente il sistema giustizia. Rendere più agile il lavoro dei tribunali, senza rinunciare però al diritto di un processo giusto. È tempo di smetterla di accettare, a prescindere, discorsi del tipo “chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave, deve marcire in carcere” o peggio “si merita la morte”. Non è la soluzione. Per invertire la tendenza c’è bisogno di riformare il sistema giustizia e migliorare il sistema carcerario, così che i discorsi sulla pena di morte restino chiacchiere da bar e che non si possano tramutare in una spaventosa realtà.
Manconi: “Ma io dico, oggi l’Italia è più garantista di 30 anni fa”. Valentina Stella su Il Dubbio il 15 ottobre 2020. Intervista a Luigi Manconi dopo l’uscita di “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale”, il nuovo libro del sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi e della studiosa di filosofia e letteratura Federica Graziani. Per il tuo bene ti mozzerò la testa Contro il giustizialismo morale è il titolo del nuovo libro del sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi e della studiosa di filosofia e letteratura Federica Graziani, edito da Einaudi. È la rappresentazione di un Paese in cui l’emotività e la paura hanno il sopravvento sull’analisi dei fatti, l’angoscia collettiva reclama pene sempre più severe nonostante i crimini siano in calo, e dove processi pubblici e gogne mediatiche hanno perfettamente preso il posto delle tricoteuses settecentesche. Con questa intervista doppia vi diamo un assaggio del libro che termina con un test per i lettori: 11 casi esemplari per capire se siamo giustizialisti o garantisti.
Scrivete che oggi «lo scontro tra il populismo penale e una concezione garantista del diritto e della pena è in pieno svolgimento. E l’esito è del tutt’altro che scontato». Sarò pessimista ma a me sembra che almeno a livello di dibattito pubblico stiamo in minoranza. Secondo lei come si delineerà questa battaglia in un futuro prossimo?
Luigi Manconi ( LM) – Sappiamo che è una battaglia cruciale e destinata a durare a lungo e a condizionare non i prossimi mesi, bensì i prossimi decenni. Se la consideriamo dentro questa lunga prospettiva, innanzitutto dobbiamo osservare che la situazione è molto migliorata rispetto a trent’anni fa: oggi la minoranza seriamente garantista è assai più ampia di quanto lo fosse all’epoca. Si può immaginare, di conseguenza, che crescerà e si allargherà e che le prossime controversie potrebbero avere anche risultati positivi e comunque favorire un cambiamento nei rapporti di forza. Non tutto è perduto.
Nel libro condividete anche una serie di dati importanti per smontare, ad esempio, la narrazione distorta che soprattutto in passato ha fatto Matteo Salvini del fenomeno migratorio. Perché l’evidenza dei dati non ha alcuna efficacia nella formazione dell’opinione pubblica?
Federica Graziani ( FG) – I dati sono univocamente a favore delle nostre tesi e non solo per quanto riguarda l’immigrazione, che non costituisce l’invasione di cui blaterano i sovranisti. I dati smontano anche, e impietosamente, il paradigma della sicurezza. Nei primi anni 90 si commettevano ogni giorno più di cinque omicidi volontari, nel 2019 gli omicidi volontari sono stati assai meno di uno al giorno. Ma perché questi dati risultano inefficaci al fine di contenere l’ansia collettiva e ridimensionare l’allarme per la sicurezza? La ragione potrebbe consistere nel fatto che la società italiana, e non solo quella, oggi è immersa in una condizione di insicurezza assai grave, profonda e diffusa. Ed è un’insicurezza materiale, concreta e dovuta alla crisi economico- sociale, che inquieta rispetto al futuro proprio e dei propri cari e provoca un generale smarrimento. È da questo stato che discende la paura rispetto alla minaccia della criminalità e che si tende a identificare, sempre e comunque, l’autore del reato nello sconosciuto, nell’ignoto, nello straniero. Personalmente su questo giornale ho seguito molto il caso di Marco Vannini di cui scrivete per evidenziare le criticità e le conseguenze di quel giustizialismo televisivo come una sorta di “populismo sputtanante” È solo uno dei tanti casi di quella che chiamate “glamourizzazione” dei crimini prendendo in prestito John Pratt. E mi ha fatto molto sorridere la caricatura che avete fatto di Giulio Golia delle Iene, «proiezione grottesca della maschera di Antonio Di Pietro». Come possiamo invertire la rotta? È il Tribunale del Popolo che chiede questo spettacolo o sono gli editori, i mass media che lo alimentano? Ci vorrebbe un intervento dell’Ordine dei giornalisti?
LM – Pensiamo che qualsiasi intervento “esterno”, come quello dell’Ordine dei giornalisti ma anche qualunque codice di autoregolamentazione – e già ci sono, non avrebbe alcuna efficacia. Il corto circuito tra opinione pubblica e informazione brucia ormai da moltissimi anni e non è reversibile. D’altra parte, l’ennesima e moralistica lamentazione contro i mass media ci sembra vana, anche per una ragione troppo spesso sottovalutata. Pure nel caso in questione, l’eterna domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina ci sembra futile. Siamo in presenza, appunto, di un circuito chiuso dove quello che lei chiama il Tribunale del Popolo alimenta il sistema dell’informazione, e quest’ultimo incentiva gli umori e i rancori del Tribunale del Popolo. L’uno giustifica l’altro. Il primo asseconda e accende, eccita e rinfocola il secondo, e ne viene, a sua volta, stimolato e blandito. Senza sottovalutare nemmeno per un attimo le responsabilità dei media, non si deve dimenticare che una domanda di giustizia sommaria e di rivalsa sociale cova nel profondo dell’animo umano. E si alimenta di relazioni private e scambi domestici, di frustrazioni personali e di sentimenti familiari persino prima di entrare in rapporto con il sistema dell’informazione.
Mi ha molto colpita l’analisi del termine “giustizialista” nell’accezione tedesca: «qualcosa di simile alla nevrosi tale da trasformare l’amore per la giustizia in ingiustizia». Ormai difendere la tutela delle garanzie individuali è diventato difficilissimo, soprattutto quando si parla di carcere. Come sanare questa situazione?
FG – Rispetto al carcere, siamo immersi in una fitta nebbia di equivoci. Equivoci che sono diventati prima luogo comune, poi emozione dominante – sono diverse le balle che reclamano attenzione pubblica – e infine si sono consolidati come modello di interpretazione egemonico. Il più diffuso è forse quello che riconosce l’esistenza nel nostro Paese di una sostanziale impunità dei criminali: sono pochi i delinquenti che vengono scoperti e inquisiti, ancora meno quelli che sono condannati e, per quei rarissimi che in carcere ci finiscono davvero, ci sono mille trucchi e mille inganni tutti strapaesani per uscirne e compiere nuovi reati. E c’è una lunga serie di efferate vicende di cronaca che sta lì a testimoniarlo. Ecco la distorsione. Non solo in Italia le pene detentive sono più lunghe rispetto alla media europea, si rimane insomma in carcere di più che negli altri Paesi, ma le misure grazie a cui le persone recluse, a vario titolo, escono di cella finiscono con una revoca perché si commette un nuovo reato nello 0,63 per cento dei casi. Esiste quindi più del 99 per cento di vicende in cui ciò non accade, ma chi mai ha visto un servizio televisivo o un articolo di prima pagina su questo? Nell’analizzare il Movimento 5 Stelle dite tre cose a parer mio significative. Sono segnati da una matrice antiscientifica, non inseguono l’onestà quanto piuttosto la punizione della disonestà, sono connotati da un profondo nichilismo: “Per essere, l’altro deve redimersi”, come ha reclamato Di Maio nei confronti del Pd prima dell’accordo per il governo "giallo- rosso". Molti sostengono, anche all’interno del Pd stesso, che ad esempio sulla questione immigrazione il Pd si sia snaturato. Ma non solo. Lei come giudica questa alleanza e fin quando durerà?
LM – Si può dire che il Partito Democratico e i 5 Stelle siano costretti all’alleanza e, probabilmente, a una coalizione di lungo periodo. Nello spazio politico italiano, la recente polarizzazione impone un’intesa non solo occasionale tra i due partiti ( diciamo due partiti perché 5 Stelle adotta, pressoché da sempre, la forma partito secondo tutti i crismi della politologia). D’altra parte, è inevitabile che l’alleanza finisca con lo "snaturare" entrambi: e come questo vada a vantaggio o a svantaggio dell’uno o dell’altro dipende e dipenderà dai rapporti di forza. Dopo un primo anno in cui ha prevalso la povera cultura politica dei 5 Stelle, con il voto del 20 settembre le cose sono andate modificandosi e la riforma dei decreti sicurezza ne è stato il primo e concreto risultato. Ma siamo soltanto all’inizio. Quello che è certo è che le distanze, per così dire ideologiche, tra i due partiti sono davvero ampie e solo un radicale processo di rinnovamento culturale e politico potrà portare a un programma che non sia semplicemente una sommatoria di obiettivi disparati e di omissioni sui punti controversi, ma una vera prospettiva comune. Il mio scetticismo sull’esito di questa prospettiva nasce esattamente da quell’analisi profondamente critica, che lei riporta, sui 5 Stelle come soggetto anti-politico, giustizialista e nichilista, che tanti danni ha fatto alla mentalità collettiva del nostro paese.
Ultima questione: Marco Travaglio, desiderato da Beppe Grillo come Ministro della Giustizia, è alla guida del partito giustizialista. A contrapporsi alla sua linea – scrivete – Il Dubbio, Il Foglio, Il manifesto, il Riformista. Come mai la scelta di dedicargli un’analisi così approfondita?
FG – Abbiamo scelto Marco Travaglio come figura paradigmatica della mentalità giustizialista innanzitutto perché gli è capitato di essere tra i front- man più aggressivi, sgraziati e onnipresenti di tutte le battaglie più furiose in campo giudiziario. E poi perché incarna in modo puntuale quella sorta di ideologia per cui la società è dominata dal male e dalla corruzione. Non si può dunque che guardare dall’alto ai fatti del mondo, da un presidio di virtù e di intransigenza che perde il contatto con la realtà e si ritrova a descriverla in tinte sempre forti e ben marcate. Ricordate il titolo del Fatto sull’” Italia a delinquere” o il nomignolo inventato per il sindaco di Bergamo, la città più colpita dalla pandemia: Giorgio Covid? Ecco, se l’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni e le forme di comunicazione sono sempre immerse in iperboli, se le sole virtù apprezzate si basano sulla forza e sulla repressione del crimine, se i fatti sono interrogati solo perché svelino contraddizioni e raggiri, che tipo di giustizia ne viene fuori?
Carlo Nordio a Quarta Repubblica contro Piercamillo Davigo: "Frasi gravissime, contro la presunzione di innocenza". Libero Quotidiano il 06 ottobre 2020. A Quarta Repubblica di Nicola Porro, il programma di Rete 4 nell'edizione di lunedì 5 ottobre, sale in cattedra Carlo Nordio, l'ex magistrato, che ha parecchio da dire su magistratura e dintorni. Si spazia dal caso Gregoretti a Luca Palamara, e Nordio punta il dito: "Un magistrato non deve fare politica attiva né durante né dopo il servizio, soprattutto se ha condotto inchieste importanti che hanno avuto conseguenze politiche". Un chiaro messaggio a tutte le toghe che scelgono di "saltare" dalla magistratura alla politica. Dunque, nel mirino ci finisce Piercamillo Davigo, secondo cui chi subisce una ingiusta detenzione nella maggior parte dei casi "è un colpevole che l'ha fatta franca". Roba da brividi, insomma. "Quella di Davigo è una frase molto grave perché confligge col principio costituzionale di presunzione d'innocenza. Spero che sia stato un momento di emotività in presenza della telecamera perché un magistrato non può esprimersi così", picchia duro Nordio. E ancora: "La carcerazione preventiva dovrebbe essere rivista interamente, abbiamo un sistema che non da adeguate garanzie, è più devastante per i colletti bianchi, perché hanno più da perdere", conclude l'ex magistrato la sua lezione di diritto.
La cultura giustizialista. Caiazza contro Giletti, lo sfogo: “Avvocati sotto attacco, siamo persone per bene”. Angela Stella su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Avvocato Caiazza, durante la puntata di domenica di “Non è l’Arena” appena lei ha citato il codice penale e la Costituzione per spiegare perché anche per i condannati per mafia è possibile accedere alla detenzione domiciliare per motivi di salute Massimo Giletti ha sbottato: «Mi sono rotto le balle di giocare con i numeri, con i dati e con gli articoli…. Vedere i mafiosi a casa mi dà lo schifo». Intanto ci tengo a dire una cosa: Giletti ha detto con molta lealtà che era rimasto molto male per il mio articolo sul vostro giornale. Nonostante ciò ha scelto di invitarmi nella sua trasmissione. Ed io ho apprezzato questo suo gesto. Detto questo, è evidente che la trasmissione è stata impostata su un piano emotivo e suggestivo, quindi indifferente agli argomenti che ho pacatamente cercato di proporre. Si sta facendo una campagna su un certo numero di provvedimenti dei tribunali di Sorveglianza che pochissimo hanno a che fare con l’emergenza covid e con la circolare del Ministro Bonafede. Però poi alla fine parliamo sempre di quei due o tre detenuti che erano al 41 bis. Anche per loro vale il diritto alla salute. Il diritto alla sospensione della pena in caso di gravi condizioni di salute vale per tutti, anche per i detenuti per fatti di mafia; è chiaro che se a queste argomentazioni si contrappone il ricordo di Carlo Alberto dalla Chiesa, la storia degli attentati a Rino Germanà, e l’intervista a Di Matteo che racconta la sua vita sotto scorta si sceglie di non confrontarsi con gli argomenti razionali e giuridici. Qualche anno fa il professor Daniele Giglioli in “Critica della vittima” ha scritto: «La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato». È d’accordo nel dire che politica e stampa spesso strumentalizzano le vittime e il loro dolore per chiedere sempre più carcere e pene più severe? Sicuramente questo è un problema cruciale che nasce da un equivoco di fondo: il reclamare il rispetto di principi costituzionali basilari – umanità della pena, diritto alla salute senza distinzione rispetto alla gravità dei reati – viene inteso e rappresentato come una forma di distanza dal dolore delle vittime di quei reati. Questo è quanto di più ingiusto, gratuito e per certi versi violento si possa fare nei confronti di chi ha una cultura liberale del diritto e della garanzie. Il richiamo alle regole non ha nulla a che fare con il giudizio sociale sul crimine e sulle vittime del crimine. Giletti l’ha accusata di attaccare i giornalisti indipendenti come lui. La stessa cosa ha fatto Nino di Matteo qualche giorno fa quando ha detto che l’avvocatura ha attaccato i magistrati liberi. In questa cultura populista e giustizialista, che fa un uso strumentale del dolore delle vittime, l’avvocato diviene un fiancheggiatore dei suoi assistiti. E infatti ad un certo punto Giletti le ha detto: «Noi siamo persone oneste». Lei ha risposto: «Anche gli avvocati». Esatto, in quella esclamazione sincera e convinta di Giletti la categoria che rappresento viene percepita come estranea al mondo delle persone perbene. Secondo lui abbiamo una morale borderline perché c’è un equivoco clamoroso, grossolano per cui veniamo sovrapposti ai nostri assistiti.
Il tribunale speciale. Giletti si traveste da Falcone e celebra in tv il processo Stato-Mafia2. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Non è l’Arena. Infatti è un Tribunale speciale, dove si celebra il processo “Trattativa-due” dello Stato con la mafia. I soggetti sono sempre gli stessi, per lo meno quelli che rappresentano l’accusa, cioè tutti meno uno. C’è il pm che urla “mi sono rotto le balle”, Massimo Giletti. C’è il pm politico, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. C’è il pm più puro e più eroe di tutti, Nino Di Matteo (intervista registrata). Ci sono, un po’ più defilate, le giornaliste Sandra Amurri e Rita Dalla Chiesa. Il gruppone dei pm è anche giudice, svolge le due parti in commedia, come si conviene nei tribunali speciali, fin da prima che si ponesse il problema della separazione delle carriere. Durante il fascismo il tribunale speciale era stato voluto da Mussolini, quindi stava dalla parte del governo. Nei processi-trattativa invece lo Stato, o una sua parte, sta sul banco degli imputati, per di più nello scomodo ruolo del contumace. In questo caso il ministro Bonafede era stato invitato a sedere anche fisicamente sul banco degli imputati. Ma, un po’ perché reduce da una sfortunata telefonata in una precedente udienza del processo, un po’ perché conosce bene, per esserne lui stesso stato artefice, la subcultura delle forche, fatto sta che si tiene ben lontano da quest’aula dove gli accusatori e i giudici sono le stesse persone e gliel’hanno giurata. Ma è presente il suo difensore, si dirà. Ecco, più che avvocato di Bonafede, Gian Domenico Caiazza (che considera il guardasigilli “una sciagura”) pare un prigioniero politico. Apparentemente è stato invitato perché si è permesso di criticare Giletti sul Riformista, e questo al conduttore-pm-giudice deve parere intollerabile. Infatti non lo lascia parlare, lo interrompe, gli urla addosso. Intanto si crea il clima, sempre più fosco, teso a mostrare un Paese in cui i delinquenti e i mafiosi comandano e dispongono a proprio piacimento degli uomini dello Stato. Lo schema è il medesimo del processo Stato-mafia sugli anni 1992-1993. Pare una pièce scritta e sceneggiata dallo stesso autore. Del resto chi era il principale pubblico accusatore del primo processo se non Nino Di Matteo? Allora si diceva che uomini dello Stato, militari e politici, per salvaguardare la propria incolumità, o anche per altri inconfessabili motivi, favorirono la mafia liberando dai vincoli del carcere duro e impermeabile del 41 bis una serie di esponenti della criminalità organizzata. Più picciotti che boss, a onor del vero. Ma non importa. Quel che conta, per celebrare processi e riscrivere la storia, è denunciare complotti, con il massimo della fantasia. E uscirne puri, sempre più puri. La storia di oggi parte apparentemente il 21 marzo scorso, il giorno in cui emanata una circolare. Non bisogna dimenticare il clima, angosciante e ansiogeno di quei giorni, non solo in Italia. Eravamo in piena sindrome da coronavirus, chiusi nelle case e con la paura che ci teneva distanti gli uni dagli altri. In tutta Europa, a un certo punto, i governi si erano posti il problema delle carceri, perennemente sovraffollate e con l’impossibilità di avviare alcuna forma di prevenzione che non comportasse un certo numero di scarcerazioni, cosa che fu fatta, dalla Francia persino fino alla Turchia. C’erano state anche manifestazioni e devastazioni nelle carceri. Nacque così il decreto governativo “Cura Italia” che prevedeva la possibilità che la pena detentiva non superiore a 18 mesi potesse essere scontata presso il proprio domicilio. Cosa che nel giro di pochi mesi ebbe un notevole effetto deflattivo, con il ritorno a casa di circa diecimila detenuti. Con l’eccezione di coloro che fossero condannati, o anche solo imputati, per i reati più gravi. In questo clima di preoccupazione, di ansia e di paura per la salute di tutti, e con il terrore che scoppiasse una colossale epidemia all’interno delle carceri, il governo assunse anche un’altra iniziativa. Fu il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a inviare, sulla scorta del parere dei sanitari, una circolare nelle carceri perché venissero segnalate le situazioni di gravi patologie come i tumori e le cardiopatie e allertati i pericoli di contagio delle persone più fragili. La segnalazione viene presa molto seriamente e diversi giudici e tribunali di sorveglianza cominciano a disporre il differimento pena nei confronti di una serie di detenuti gravemente malati, pur se condannati o imputati di reati gravi. I quali vengono mandati provvisoriamente a casa. Pare quasi un segnale, un vero drappo rosso agitato davanti al toro. Succede di tutto. Il quotidiano Repubblica si scatena, il presidente della Commissione Antimafia comincia a fare pressioni perché vuole l’elenco dei “mafiosi scarcerati”, che poi regolarmente viene pubblicato, anche con numeri sbagliati, per meglio drammatizzare. Ma lo si saprà in seguito. Il capo del Dap Basentini è costretto alle dimissioni. Ed è a questo punto che spunta l’uomo del processo-trattativa. Il dottor Nino Di Matteo, ormai membro del Csm, in una delle tante puntate di Non è l’arena, comincia a processare il ministro Bonafede perché, due anni prima, gli aveva promesso e poi sottratto, in seguito a minacce mafiose, proprio la presidenza del Dap. Si comincia così a collegare le manifestazioni delle carceri dei primi di marzo di quest’anno con le intercettazioni in cui nel 2018 i mafiosi si erano lamentati per la prospettiva che Di Matteo diventasse il capo delle carceri. Si trascura il fatto che le “scarcerazioni dei boss” fossero in realtà solo differimenti pena provvisori legati a motivi di salute e al timore di contagi letali. Tutto diventa complotto e ricatto. Lo Stato, nelle figure del dottor Basentini e di altri suoi collaboratori del Dap, si sarebbe piegato al ricatto del boss, e rimandandoli nelle loro case avrebbe mandato un messaggio molto chiaro alla mafia. E insieme a lui il ministro. In questo scenario che si è ripetuto ogni domenica per mesi e che è ripreso due sere fa con lo stesso schema, che cosa c’entrava la presenza dell’avvocato Caiazza, se non in veste di prigioniero politico di un processo da tribunale speciale? Il presidente delle Camere penali ha tentato invano di spiegare che di quei famosi 223 detenuti ai domiciliari la metà era fatta di persone in custodia cautelare, quindi non ancora processata, quindi innocente secondo la Costituzione, e che la sospensione della pena per motivi sanitari per i condannati non può fare distinzione tra detenuti. Niente da fare. Ci pensa de Magistris, che ostenta alle sue spalle la foto di Falcone e Borsellino pur essendone lontano anni luce, a rispolverare l’avverbio preferito dai processi staliniani. Qui si è “oggettivamente” favorita la criminalità organizzata, dice. Ecco il processo trattativa-due.
Ego te absolvo. Marco Travaglio archivia l’honestà e "assolve" Chiara Appendino. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Mettere la parola “onestà” al posto di “innocenza”. E tutto quadra. Si potrebbe persino modificare l’articolo 27 della Costituzione (che in realtà parla di non colpevolezza, non di “innocenza”), nel mondo di Marco Travaglio e dei suoi cari. Che in realtà non credono nella giustizia. Nel mondo in cui Chiara Appendino dovrebbe essere ricandidata a sindaco di Torino, secondo il direttore del Fatto, «non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Schiuma di rabbia, il povero Marcolino, quasi qualcuno gli avesse disobbedito, facendo deporre la fascia tricolore al sindaco di Torino. Che Chiara Appendino sia una persona per bene, un sindaco “normale”, e che non abbia fatto disastri come la sua collega Virginia Raggi a Roma, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. È sotto gli occhi di tutti. Ma in questi quattro anni la prima importante sindaca grillina, pur appoggiata inizialmente dal mondo produttivo torinese, non è riuscita a scrollarsi di dosso il suo mondo d’origine, quello dei No-Tav e della purezza da decrescita più o meno felice che l’ha portata a rinunciare alle Olimpiadi della neve e a perdere il salone dell’auto, oltre che a chinare la testa di fronte alla più combattiva Milano, concorrenziale su grandi mostre e salone del libro. Motivi politici, e difficoltà d’incontro dei due mondi – quello grillino con il ditino alzato e i grandi rifiuti, e quello della tradizione di sinistra, da Mirafiori fino all’intellighenzia snob con la puzza sotto il naso – prima ancora che la “questione di coerenza” per motivi giudiziari, hanno portato la sindaca al passo di lato. Così lei stessa ha definito il suo abbandono della fascia tricolore. Il che toglie un bel po’ di castagne dal fuoco all’alleanza rossogialla. Per lo meno a Torino, viste le difficoltà nella città di Roma con la ricandidature spontanea di Virginia Raggi. Nel mondo “normale”, come avrebbe potuto essere quello di un sindaco normale come Appendino, non peserebbe più di una piuma quella condanna a sei mesi per falso ideologico che accomuna il primo cittadino di Torino a quello di Milano Beppe Sala e a tanti altri sparsi per l’Italia. Sono gli assurdi “incidenti sul lavoro” dei pubblici amministratori. Quegli stessi soggetti che la piccola sub-cultura di Marcolino e del suo amico Bonafede ha voluto, per esempio con la legge “spazzacorrotti”, equiparare agli assassini mafiosi e ai trafficanti internazionali di droghe. Ma nel mondo di onestà-onestà ogni sospiro, ogni piccolo gesto di attenzione di un pubblico ministero conta più di un premio Nobel. A volte, e in questo il Fatto quotidiano è insuperabile maestro, gli uffici della procura vengono addirittura sollecitati. È il caso dell’assessore lombardo alle politiche sociali Giulio Gallera, per sua fortuna non sottoposto a nessuna indagine giudiziaria, ma il cui cognome viene ogni giorno storpiato con la cancellazione di una “L” in modo da evocare e sollecitare le manette. Ovvio che, nel piccolo mondo di Marcolino, quella condanna in primo grado di Chiara Appendino bruci come una bestemmia in chiesa. Un affronto. Ma anche una realtà che cozza con le strampalate regole del grillismo e del travaglismo. Basterebbe rileggere quell’accozzaglia di insulti che ogni giorno viene stampata sul colonnino laterale destro nella prima pagina del Fatto. Quel che è stato sparato, con la forza di pallottole, per esempio nei confronti del sindaco milanese Sala o del governatore lombardo Fontana. Amministratori “normali” proprio come Appendino. Di cui però Marcolino non auspicherebbe mai la ricandidatura, soprattutto per motivi giudiziari. Ecco perché non riesce a ingoiare la rinuncia della sindaca di Torino al secondo mandato. Se la prende con il partito di Grillo e Di Maio perché non aggiorna immediatamente il Codice etico, «ancora troppo rigido e dunque inefficace». Poi inciampa, ricordando come sia giusto allontanare i condannati, specie se per reati gravi come il falso. Però l’ultima parola, suggerisce, andrebbe ai probiviri. Sembra quasi dire che non conta tanto la decisione della magistratura quanto quella del partito. Complimenti per il doppiopesismo, Marcolino! Per uno che è campato sulle vicende giudiziarie di Roberto Formigoni non è male come giravolta. Che cosa dice di Chiara Appendino? «Non ha rubato, “mafiato”, truffato, sperperato, abusato del suo potere a fini personali». Sai, Marcolino quanti esempi di pubblici amministratori, da Tangentopoli in avanti, potremmo farti, anche di persone che si sono suicidate per la vergogna di insinuazioni ingiuste fatte da persone come te? Persone per bene che, proprio come Chiara Appendino, non avevano rubato o truffato o “mafiato” e hanno dovuto subire magari il carcere e la gogna quotidiana sparsa a piene mani dalla sub-cultura che a te è sempre piaciuta finché le condanne non hanno colpito i tuoi cari. Non stupisce il finale del tuo colonnino laterale destro di ieri. Uso volutamente il termine “laterale destro”, con cui viene definito, nei tribunali, il giudice più anziano che siede alla destra del presidente. Perché tu oggi hai emesso una sentenza. Hai stabilito che non ti importa niente della giustizia. Tu invochi il Movimento Cinque Stelle, cioè un partito, in favore di Chiara Appendino: «Un movimento che ha a cuore l’onestà dovrebbe annullare la sua autosospensione e spingerla a ricandidarsi. Non malgrado la sentenza, ma alla luce della sentenza». Ed ecco lo squillo di trombe, la vera anima del giacobino che in realtà non crede nelle decisioni dei giudici (del resto ha sempre preferito i pubblici ministeri): «Non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà». Ego te absolvo.
Il “verginello” Travaglio guru pluricondannato vuole aiutare Emiliano e diffama Fitto. Poverino…Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 20 Settembre 2020. Non è con i consigli di Travaglio che Michele Emiliano riuscirà a far dimenticare i suoi 5 anni disastrosi anni di presidenza della Regione Puglia ed i 10 anni del suo predecessore Nichi Vendola! C’era una volta un giornalista piemontese tale Marco Travaglio cresciuto alla “corte” di Furio Colombo ed Antonio Padellaro, che deve il suo successo esclusivamente alla sua partecipazione ed ai programmi televisivi di Michele Santoro in onda su RAIDUE all’epoca dei fatti diretta dal leghista “maroniano” Antonio Marano. Leggere oggi questo arrogante e presuntuoso giornalista mentre pretende di influenzare gli elettori sul referendum, criticare uno dei “leader” del M5S Alessandro Di Battista, per essersi permesso di “arringare bla folla pentestellata di Bari contro il mio consiglio agli elettori di ‘turarsi il naso e votare disgiunto’ mette tristezza“, induce le persone intelligenti a fare esattamente il contrario. Non è con i “consigli” di Travaglio che Michele Emiliano riuscirà a far dimenticare i suoi 5 anni disastrosi anni di presidenza della Regione Puglia ed i 10 anni del suo predecessore Nichi Vendola ( imputato a Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” !) Perchè chi mette tanta tristezza, in realtà è proprio il travagliato direttore del Fatto Quotidiano, giornale in crisi indebitato e con oltre un milione e mezzo di perdite nell’ultimo bilancio “salvato” da un finanziamento di Unicredit Banca garantito dallo Stato (fidejussione del Medio Credito Centrale, grazie all’emergenza Covid19), che si affanna a fare il ventriloquo di Rocco Casalino e “Giuseppi” Conte, il premier non eletto dagli italiani! Travaglio scrive il falso, attaccando Di Battista perchè”per Di Battista Emiliano e Fitto pari sono. Anche se uno faceva il magistrato, e l’altro l’imputato“. Ancora una volta il giornalista “travagliato” dimostra di essere poco informato sulle vicende pugliesi. Infatti mentre l’imputato in realtà è Michele Emiliano, e non Raffaele Fitto assolto dalla Suprema Corte di Cassazione! Il “manettaro-gistizialista” Travaglio dimentica la sua lunga serie di condanne subite che potete trovare e leggere grazie a questo link. Per vostra comodità ve le riassumiamo noi qui di seguito:
Nel 2000 Travaglio è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio aveva definito Previti «futuro cliente di procure e tribunali» su L’Indipendente, Previti era effettivamente indagato. Il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.
Il 4 giugno 2004 Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per quanto contenuto nel libro “La Repubblica delle banane” scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all’allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L’errore era poi stato ripubblicato anche su L’Espresso, il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché alla Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15 000 euro.
Il 5 aprile 2005 Travaglio è stato condannato in sede civile dal Tribunale di Roma , assieme all’allora direttore dell’Unità, Furio Colombo, al pagamento di 12.000 euro più 4.000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito. Travaglio in un articolo per giustificarsi…. dichiarerà che aveva scritto che “era coimputato con Berlusconi, ma usando un’espressione giudicata insufficiente a far capire che lo era per un reato diverso da quello contestato al Cavaliere“.
Il 20 febbraio 2008 questa volta è stato il Tribunale di Torino in sede civile a condannare Travaglio a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26 000 euro, a causa di una critica ritenuta «eccessiva» nell’articolo Piazzale Loreto? Magari pubblicato nella rubrica Uliwood Party su l’Unità il 16 luglio 2006[senza fonte][94]
Il 21 ottobre 2009 Travaglio viene condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato da lui definito «più volte inquisito e condannato» nel suo libro Il manuale del perfetto inquisito, affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l’idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l’idea di una pluralità di condanne)».
Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a “Che tempo che fa” il 10 maggio 2008.
L’11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del “figlioccio di un boss” all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello. Travaglio è stato condannato a pagare 15 000 euro.
Il 23 gennaio 2018 è stato condannato per diffamazione dal Tribunale di Roma in merito ad un editoriale su Il Fatto Quotidiano contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammonta a 150.000 euro. Il 15 ottobre 2013 in un articolo intitolato “La cluster-sentenza”, Travaglio scrisse: “…nelle prime 845 (pagine) non parlano del reato contestato ai loro imputati: cioè la mancata cattura di Provenzano” e aggiunge: “Si avventurano invece nella storia delle stragi e delle trattative del 1992-’93, oggetto degli altri due processi”.
Travaglio è stato recentemente citato in giudizio per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi (il padre di Matteo Renzi), per due editoriali su Il Fatto Quotidiano riguardanti un processo penale per bancarotta che ha visto lo stesso imputato assolto con formula piena.Nel primo articolo, parlando dell’indagine in corso a Genova sulla azienda Chil Post controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi , Travaglio aveva usato il termine “fa bancarotta“; nel secondo articolo Tiziano Renzi era stato accostato per “affarucci” a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il 22 ottobre 2018, il tribunale civile di Firenze lo ha condannato in solido con la giornalista Gaia Scacciavillani e con la Società Editoriale Il Fatto), al pagamento di una somma di 95.000 euro a titolo di risarcimento per diffamazione.
Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Firenze il 16 novembre 2018, in un procedimento (relativo alle parole pronunciate nel corso di un’ospitata nella trasmissione “Otto e mezzo“), al pagamento di 50.000 euro per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi. Travaglio disse che “Il padre del capo del governo si mette in affari o s’interessa di affari che riguardano aziende controllate dal governo” .Travaglio scrisse nel suo editoriale su Il Fatto Quotidiano del 17 novembre 2018 che “Tiziano Renzi era ed è indagato dalla Procura di Roma per traffico d’influenze illecite con la Consip, società controllata dal governo, ai tempi in cui il premier era il figlio Matteo” e che “Tiziano Renzi si era messo in affari con un’altra società partecipata dal governo, Poste Italiane, ottenendo per la sua “Eventi 6” un lucroso appalto per distribuire le Pagine Gialle nel 2016“.
Ma cosa aspettarsi da un giornalista passato dalla redazione torinese del quotidiano LA REPUBBLICA, al quotidiano comunista L’UNITA’, per finire al FATTO QUOTIDIANO dove i giornalisti veri , quelli che hanno fondato il giornale) rimpiangono ancora il giornalismo serio equilibrato e non fazioso dell’ ex direttore Antonio Padellaro? Ma esiste ancora qualcuno che vuole dare credibilità giornalistica e politica a questo signore ? Pensate cari lettori, che per colpa sua oggi mi tocca persino difendere il “grillino” Di Battista… ! Quindi cari lettori votate secondo coscienza e soprattutto coerenza. E senza tapparvi il naso.
Ed erano anche socialisti...Per Marco Travaglio la Costituzione è stata scritta da ex galeotti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Il nostro vecchio amico Marco Travaglio ieri ha scritto un articolo molto rigoroso, sul Fatto, nel quale ci ha criticato (a noi del Riformista che lui continua a chiamare Il Riformatorio, senza peraltro offenderci neppure un pochino) perché abbiamo ospitato un appello per votare No al referendum, firmato da un buon numero di ex dirigenti o militanti del partito socialista, e poi addirittura abbiamo fatto un’intervista a Claudio Martelli, che del partito socialista è stato vice segretario e segretario reggente. Travaglio ha scritto tutti i nomi dei firmatari, e vicino ad alcuni di loro ha messo il numero dei mesi o degli anni di galera ai quali sono stati condannati, per lo più durante gli anni terribili di Tangentopoli. A qualcuno invece ha messo, un po’ a malincuore, la parola “incensurato”, perché non ha trovato niente al casellario giudiziario con il quale il suo computer ha un collegamento diretto. Vicino agli anni di carcere ha scritto anche la motivazione, che per la maggior parte di loro era finanziamento illecito dei partiti (in quegli anni i partiti non erano stati ancora aboliti dal travaglismo a 5 Stelle). Il motivo per il quale Travaglio ha pubblicato tutti questi elenchi, riempiendoci una colonna intera della prima pagina, è la sua feroce polemica contro chi vorrebbe che al referendum vincano i No al taglio del Parlamento. Tra queste persone ci sono tra l’altro una moltitudine di costituzionalisti che la Costituzione la conoscono abbastanza bene ma che Travaglio non ama molto. Forse non li ama proprio per il fatto che conoscono e difendono la Costituzione. Anche perché tutti ne parlano sempre come di una bella cosa, di questa Costituzione, ma tanto bella mi sa che non è. Perché sono andato a spulciare nell’elenco di quelli che l’hanno scritta e mi sono accorto che gran parte di loro è gente poco raccomandabile. Trascrivo qui un breve elenco dei principali autori della Carta: Alcide De Gasperi (incensurato), Pietro Nenni (8 anni di carcere, uno scontato, cinque di confino, e poi latitante), Sandro Pertini (13 anni di galera e poi attivo nell’attività terroristica), Giuseppe Saragat (13 anni di galera, poi evaso, poi latitante e impegnato nell’attività di fiancheggiamento al terrorismo), Palmiro Togliatti (fuggiasco all’estero), don Luigi Sturzo (fuggiasco all’estero), Giovanni Leone (incensurato), Giuseppe Di Vittorio (2 anni di galera e poi confino), Giancarlo Pajetta (17 anni di galera), Vittorio Foa (13 anni di galera), Umberto Terracini (13 anni di galera), Lelio Basso (8 anni), Eugenio Colorni (3 anni e 5 di confino), Pietro Mancini (2 anni), Giuseppe Romita (5 anni). E questi sono solo i più famosi. Va bene essere garantisti – dico – però c’è un limite. Come puoi non dare ragione a Travaglio di fronte a un elenco così inquietante? Voi magari mi chiederete: cosa c’è in comune tra l’elenco di Travaglio e questo? Beh, che una buona metà dei condannati, di un elenco e dell’altro, erano socialisti. Come fai a difenderli, di fronte a tante coincidenze?
Lo stato sceglie la repressione. Il garantismo a modo loro dei grillini: liberate la No Tav, ma arrestate Formigoni. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Dopo Nicoletta Dosio, che aveva più di settant’anni, ora è toccato a Dana Lauriola, trentottenne. L’hanno presa di notte, ammanettata e trascinata in prigione. Ha ucciso qualcuno? Ha scassinato una gioielleria? Ha sparato, ha picchiato dei bambini, ha turlupinato dei vecchi? No, insieme ad un altro centinaio di suoi compagni di lotte (tra i quali Nicoletta) ha aperto per una mezz’oretta i caselli dell’Autostrada, in Val di Susa, qualche anno fa, lasciando che le automobili uscissero senza pagare. Neanche un ferito, neanche una persona spintonata o graffiata o contusa, neanche un danneggiamento a qualche oggetto. Niente di niente. Era una manifestazione politica contro la Tav. Innocua, assolutamente non violenta. Ripeto: una manifestazione politica. I giudici hanno deciso che manifestare contro la Tav e aprire i caselli per mezz’ora è un crimine molto grave. E non solo hanno rifilato un anno di prigione a Nicoletta Dosio e addirittura due anni a Dana Lauriola, ma hanno anche negato la condizionale e persino la pena alternativa. A Nicoletta non hanno concesso la pena alternativa perché lei non l’ha chiesta. Dana invece l’ha chiesta ma gliel’ha negata perché – hanno detto – non aveva abiurato. Non ci credete? E invece è così. Sì, qui, in Italia – non in Cina o in Turchia, o in Iran – qui in Italia nel 2020. Ti chiedono di abiurare per attenuare la pena. una cosa fascista? Beh, non so, ci sono anche altri termini in politologia per descrivere decisioni di questo genere, ma più o meno è quello. Io dico fascista perché è un provvedimento che mi ricorda molto quelli che si prendevano in Italia, verso i dissidenti, tra il 1922 e il 1945. Contro questo folle provvedimento dell’autorità giudiziaria si sono scagliati, per fortuna, diversi rappresentanti politici. Purtroppo tutti di sinistra. Così come si scagliarono contro l’incriminazione di Salvini diversi rappresentanti politici: purtroppo tutti di destra. Oltre ai rappresentanti della sinistra radicale (perché il Pd è molto più prudente visto che è favorevole alla Tav, e quindi non gli va di prendersela tanto coi giudici) si sono scagliati stavolta contro la magistratura anche i 5 Stelle. Deo Gratias. Per esempio è stato molto polemico il senatore Alberto Airola, che ha anche chiesto l’intervento di Mattarella. Giusto. Solo che il senatore dei 5 Stelle è riuscito, nel suo intervento garantista verso Dana Lauriola, a mettere una buona dose del tradizionale forcaiolismo del suo partito. Cioè che ha detto? Che bisognerebbe fare uscire Dana e mettere in prigione Formigoni (73 anni). Ecco, in questa richiesta sta la chiave di tutto. Cioè si spiega perché poi alla fine, su qualunque fronte, vincono sempre i magistrati. Perché nessuno vive l’arresto di un avversario politico come una ferita alla democrazia e al diritto. Tutti vivono come una ferita solo l’arresto degli amici. E chiedono la liberazione degli amici e l’arresto dei nemici. In questo modo i magistrati non troveranno mai una opposizione politica. E faranno carne di porco dei pochissimi garantisti che ci sono ancora in circolazione. E che gridano, ascoltati da nessuno: «Liberate Dana, non arrestate Roberto». Secondo voi c’è bisogno di essere No-tav per indignarsi della follia turca di chi l’ha arrestata? E c’è bisogno di essere di Comunione e Liberazione per capire che i magistrati tesero una trappola a Formigoni, e poi provarono perfino a far scattare contro di lui una legge retroattiva (una legge schifosa, la cosiddetta spazzacorrotti, che è meglio chiamare manette-facili)? Pensavo di no. Invece temo di si. Né gli uni né gli altri, temo, capiranno mai che per difendere dai soprusi i loro amici bisogna cominciare a difendere dai soprusi i propri avversari. Guardate la vicenda Battisti: avete letto qualche riga sui giornali, o ascoltato qualche dichiarazione politica,o di intellettuali, in favore dell’applicazione pure per lui dello Stato di diritto? No. E non la leggerete mai.
Il caso di Bologna. Beppe Severgnini, la cocaina e le liste di proscrizione. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Settembre 2020. “Abbiamo o no il diritto di sapere se chi vive e lavora con noi, per noi o intorno a noi è un cocainomane?”. Alla domanda, posta sul Corriere della sera sabato scorso da Beppe Severgnini, si può e si deve dare una sola risposta: no, non abbiamo questo diritto. Intendiamoci, la domanda è molto seria e non va sottovalutata, anche perché posta con un filo di angoscia all’interno di un ragionamento che mette alcuni punti fermi, non moralistici. Si parte dalla vicenda, che strazia un po’ il cuore, di quella casa di Bologna dove un gruppo di uomini così insicuri da aver bisogno di misurarsi con ragazzine, le nutriva a coca e porno per esibirsi in pubblico sui social. Posta fine alla doverosa indignazione e con la consapevolezza del fatto che, con i regimi proibizionistici di tutto il mondo, nessuno ha sconfitto il narcotraffico e anzi, dato l’abbassamento dei prezzi, anche la cocaina è ormai alla portata di chiunque la desideri, come intervenire sul piano sociale? Severgnini sa bene che l’inasprimento delle pene non ha mai fatto diminuire i reati, figuriamoci i comportamenti individuali. Perché come tale è considerato in Italia il consumo di sostanza psicotrope, sanzionato solo in via amministrativa. Se non vogliamo quindi dire la cosa più stupida e inutile evocando la galera per ogni comportamento borderline, dobbiamo affrontare il problema in un altro modo. Severgnini vorrebbe il pubblico sputtanamento del cocainomane. E non perché anche di coloro che abusano di psicofarmaci o di alcolici? Sappiamo bene che per i comportamenti pericolosi, come mettersi al volante strafatti o ubriachi, le norme esistono già. Per coloro che hanno nelle mani la vita degli altri, come i piloti di aereo, ci sono i controlli preventivi. Che forse andrebbero estesi anche ai magistrati. Forse tutto ciò non basta. Ci vorrebbero più campagne di informazione sulle conseguenze psico-fisiche che ogni smodata assunzione di sostanze chimiche o alcoliche comporta. Ma lo sputtanamento sarebbe lesivo e inutile. Come lo fu la proposta di sanzionare i clienti delle prostitute.
Il giustizialismo è il facile sfogo dei leoni da tastiera. Nicola Quatrano su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Non mi è mai troppo piaciuta l’espressione “garantista”, perché mi sembra voglia significare troppo, o troppo poco. Il giudice deve essere “garantista” a prescindere, è il suo mestiere. Se non lo è, non è un giudice “non garantista”, semplicemente non è un giudice. Al contrario, il pubblico ministero e l’avvocato non devono essere “garantisti”: entrambi sostengono una tesi, accusatoria o difensiva, e l’unico limite è il rispetto della legge e della deontologia; sarà poi il giudice “garantista” a decidere. I cittadini normali possono essere “garantisti” o meno, sono fatti loro. Qui il limite è soprattutto di ordine logico, perché l’esperienza di centinaia di processi finiti con il riconoscimento dell’innocenza di persone a suo tempo arrestate fa seriamente dubitare della ragionevolezza di chi oggi si accontenta di un avviso di garanzia o di una misura cautelare per bollare qualcuno come colpevole. La cosa si complica ulteriormente quando si confonde tra giudizio morale e vicenda giudiziaria che dovrebbero essere tenuti ben distinti. Si può essere infatti “innocenti” e moralmente spregevoli, perché le regole morali sono molto più esigenti di quelle giuridiche. E può accadere il contrario, come dimostrano i tanti “pregiudicati” di epoca fascista (da Pertini a Terracini) che hanno fatto onorevolmente parte dell’Assemblea Costituente. Anche il recente avviso di garanzia al governatore Vincenzo De Luca dovrebbe ragionevolmente essere accompagnato da un giudizio di attesa. Eppure l’opinione pubblica si è divisa tra colpevolisti per professione e innocentisti per vocazione. In questo caso, peraltro, non c’è nemmeno “giustizia a orologeria”, perché “a orologeria” è stata piuttosto la notizia giornalistica, in campagna elettorale, di un’indagine nata anni fa. No, la questione non si esaurisce mai nella contraddizione tra “garantismo” e “giustizialismo”, c’è sempre qualcosa di più profondo che sfugge a simili semplificazioni. E si tratta, credo, dell’uso che del “garantismo” e del “giustizialismo” viene fatto, che è un uso eminentemente politico. Negli anni 1990, la sinistra riuscì ad approdare finalmente al governo, cavalcando l’ondata giustizialista di Tangentopoli. Un risultato che non aveva mai prima ottenuto con metodi schiettamente politici. E oggi le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si giocheranno probabilmente sulle contrapposte sponde del “Law & Order” (Legge e Ordine) agitato dal presidente repubblicano uscente, Donald Trump, e delle proteste del movimento Black Lives Matter contro il razzismo della polizia, cui si sono allineati i democratici. In ballo, ancora una volta, non ci sono i grandi valori, ma qualcosa di molto più concreto: la presidenza degli Stati Uniti. Il problema è che l’uso politico del giustizialismo tenderà inevitabilmente ad accentuarsi. L’Occidente (e non solo) deve confrontarsi con una situazione di grave fragilità sociale e una crisi economica di impreviste dimensioni, la gente vive una situazione di grave incertezza, tra Covid e disoccupazione, impaurita dalle fibrillazioni internazionali e i rischi di guerra sempre incombenti. In questo quadro, la canea giustizialista è una formidabile occasione di sfogo ed è facilissima: prende di mira persone in carne e ossa, messe a disposizione dalla cronaca giudiziaria, esonerando dalla fatica di analizzare le cause e di individuare i veri responsabili del disastro che stiamo vivendo. Nei social network possiamo urlare tutta la nostra rabbia contro il catalizzatore di turno del rancore sociale, sia esso il presidente della Regione, raggiunto da un avviso di garanzia, o i ragazzi del “branco”, protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca di Colleferro. Possiamo chiederne l’impiccagione o lo squartamento immediato e senza processo, vendicandoci dei successi elettorali del primo o anche solo del fastidio che ci provocano le immagini da stupidi bulli che i secondi hanno postato sui loro account di Facebook. Tutto questo serve in realtà al Potere, dà sfogo a frustrazioni che potrebbero altrimenti pericolosamente dirigersi contro obiettivi più concretamente politici. Garantisce in qualche modo il mantenimento della stabilità. Ebbene non è una novità né un’invenzione recente, è solo la versione (nemmeno tanto 2.0) del panem et circenses di cui scriveva Giovenale e che trova oggi una variante post-moderna nell’intreccio tra sussidi di Stato (fatti a debito) e l’incanalamento del rancore sociale verso il capro espiatorio di turno. In quel Colosseo moderno che sono i social network.
Da Tortora a Pittelli, il giustizialismo italiano che ricorda la Russia degli anni Trenta…Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Agosto 2020. «Uccidete questi cani rabbiosi. Morte a questa banda che nasconde al popolo i suoi denti feroci, i suoi artigli d’aquila! Abbasso questi animali immondi! Mettiamo fine per sempre a questi ibridi miserabili di volpi e porci, a questi cadaveri puzzolenti!». È la conclusione della requisitoria di un grande magistrato del Novecento. Si chiamava Andrey Vysinskij ed era il Procuratore generale della Russia negli anni 30. Il passaggio che ho trascritto, in cui Vysinskij offre un saggio della sua prosa, fa parte dell’arringa finale nella quale il Procuratore chiese la condanna a morte di due alti dirigenti del partito comunista russo, anzi, di due dei leader della rivoluzione leninista del 1917: Kamenev e Zinoviev, vicinissimi durante la rivoluzione a Lenin, poi vicini anche a Stalin ma poi caduti in disgrazia e accusati di trotzkismo. Accusa estrema. Eravamo nell’estate del 1937, la richiesta di Vysinskij è del 19 agosto, fu accolta subito e la settimana successiva la sentenza fu eseguita. Vysinskij era uno di quei magistrati sempre a metà strada tra Procura e politica, un po’ come molti magistrati italiani di oggi. Finì la sua carriera di giurista come ministro degli Esteri. Da Pm era specialista nell’ottenere le confessioni dell’imputato. Con metodi vari, di solito non molto gentili. Anche Kamenev e Zinoviev confessarono il loro tradimento trotzkista. E così confessò l’anno dopo Nikolaj Bucharin, il teorico, il pupillo di Lenin: era famoso come il ragazzo più amato della rivoluzione bolscevica. Fucilato anche lui. Anche lui metà volpe e metà porco, anche se certo non era trotzkista. Da noi no. Per fortuna non siamo a questo punto. Non si fucila nessuno. Il peggio che ti può capitare, se cadi in disgrazia e se un Pm bravino posa su di te il suo sguardo e le sue attenzioni, è quello che sta succedendo in questi giorni, per esempio, a Giancarlo Pittelli, avvocato calabrese, ex parlamentare, catturato in dicembre e spedito al carcere duro di Badu ‘e Carros, quello dei mafiosi e dei terroristi. Sta lì, Pittelli, in fondo a una cella, da otto mesi: le accuse stanno cadendo tutte, una ad una, lui vorrebbe parlare con il Pm che lo ha imputato per spiegare le sue ragioni, dire perché è innocente. Non gli concedono questo colloquio. Non è suo diritto. È in prigione da quasi un anno e non ha potuto parlare mai con il magistrato che lo accusa. La politica lo ha abbandonato, perché la politica, quando vede che uno dei suoi è stato preso, preferisce battersela ed evitare guai. Lo mollano subito. I giornali, di solito, dipendono dalle Procure e quindi, anche se volessero, non potrebbero mai difendere un imputato. Voi forse ricordate qualche campagna giornalistica a favore di un imputato? Ci fu quella per Tortora, sì, che unì tutti, anche Travaglio: però iniziò dopo l’assoluzione. Prima erano tutti lì a fare il tifo per dei Pm incapaci che avevano perseguitato Tortora e lo avevano mandato al macello. Comunque Pittelli non rischia di essere fucilato. Perché sta lì in un buco di cella, isolato e senza che si degnino di interrogarlo? Beh, in questo la somiglianza con la Russia c’è. Vogliono che confessi e possibilmente che accusi qualche altro politico. La chiave per ottenere la libertà, quando ti sbattono dentro senza prove, non è quella di dimostrare la tua innocenza: è la confessione. Per fortuna qui da noi, se confessi – vera o falsa che sia la confessione – ti liberano. Perché a Mosca la beffa era che prima ti facevano confessare e poi ti fucilavano. Però Pittelli non vuole confessare. C’è qualche altra similitudine tra la requisitoria di Vysinskij e noi? Sì, la carica d’odio e la ricerca spasmodica di colpevoli da colpire e da annientare. Fatte tutte le proporzioni tra il loro regime sanguinario e il nostro traballante ma ancora ampio stato di diritto, la mobilitazione politica è molto simile. È scattato quell’equilibrio tra strategia politica dell’establishment e ricerca della perfidia del nemico, che è il cemento di tutte le dittature ma che ha – per quel che riguarda la nostra cultura politica – radici molto robuste soprattutto nello stalinismo. Sono i toni della nuova campagna moralizzatrice – aperta dalla corazzata Inps più 5 Stelle più Lega – che fanno impressione e che ricordano la Russia degli anni Trenta. La ricerca della parola più odiosa, dell’oltraggio, dell’umiliazione del sospetto o del colpevole. L’idea che solo trovando una filiera di colpevoli infami, non ha importanza colpevoli di cosa, si possa garantire la nostra propria onestà e la stabilità di un potere molto fragile. È esattamente da qui che nasce il partito “della caccia”. Che poi sbanda senza problemi da sinistra a destra, e che qui da noi ha origini indiscutibili: nella vecchia tradizione fascista della destra e nello stalinismo che non è mai morto. Lo stalinismo è stata la grande tara che ha frenato le capacità riformatrici della sinistra italiana. La sinistra italiana, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, aveva una potenzialità di pensiero e di progettazione sociale mostruosa. Ma aveva il piombo nelle ali, perché non riusciva a rompere con lo stalinismo. Poi ci fu l’89 e lo stalinismo scivolò rapidissimamente in giustizialismo. Ci mise pochi mesi a camuffarsi. Non è mai morto lo stalinismo della sinistra italiana, anzi si è rafforzato perché ha perduto il freno che gli veniva dal pensiero di sinistra e si è facilmente fuso col populismo post fascista e reazionario. È nata questa ideologia del colpevolismo e dell’infamismo. In queste ore è al diapason. Lo abbiamo già detto ieri, ricorda maledettamente i mesi bui del ‘93, costellati di sopraffazioni di Stato e di suicidi. Ora forse è peggio. Perché è un giustizialismo di governo. Più forte, più sicuro di sé, più arrogante. Proprio come fu lo stalinismo. Ed è sostenuto da una magistratura che ha superato in bellezza lo scandalo Palamara, protetta dall’azione potente e magistrale della stampa. E ora sta per tornare in tutta la sua grandiosità e spietatezza. Cosa vuole? Ve lo dico io: “Metter fine per sempre a questi ibridi tra volpi e maiali…”
Casalino, Fontana e Marini: il garantismo a dondolo è la vera questione morale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Luglio 2020. Ogni tanto qualcuno pone la questione morale. Richiamando Berlinguer. Ha ragione? Bisogna intendersi su cosa significa questione morale. Berlinguer – se capii bene il suo messaggio, consegnato a Scalfari in una celeberrima intervista del 1981 – si riferiva alla moralità nel fare politica. Lui pensava che per fare politica ci volesse una idea politica: che non bastasse un interesse amministrativo, o di piccolo gruppo, o personale. Se è così, io credo che sia aperta una grandissima questione morale. In parte del tutto nuova: quella del tradimento dei principi, e della trasformazione della battaglia politica da battaglia delle idee in guerra del puro e semplice consenso. Non è una cattiva cosa, il consenso. È il pilastro della democrazia. Se però diventa una variabile indipendente delle idee, e degli interessi collettivi, e del diritto, allora è una pessima cosa. Oggi i leader politici pensano di poter sostenere con passione un principio, e negarlo, o rovesciarlo, dopo 15 giorni. E pensano che non ci sia niente di male, in questo, se corrisponde a esigenze della campagna elettorale e della conquista del consenso e del potere. Io invece credo che questo atteggiamento introduca un elemento di immoralità profondissima nella struttura della politica – e anche del giornalismo – e di conseguenza nel cuore della società. È un modo di fare politica che corrompe profondamente il popolo. È il nocciolo duro, l’anima nera del populismo moderno. Mi riferisco in particolare alla questione del rapporto tra giustizia e politica. Esistono due idee (parlo di vere e proprie idee) su questa delicatissima questione. C’è chi pensa che la politica debba prevalere, e non possa sottomettersi alle dinamiche della giustizia, cioè della magistratura, e debba difendere la propria autonomia con tutti i mezzi (lo credeva Aldo Moro, e io penso che avesse ragione); e chi invece pensa che la giustizia sia al di sopra della politica, e la politica debba sottomettersi, anche rinunciando alla propria autonomia in nome di un’etica superiore, e della garanzia di pulizia e di trasparenza (lo credeva Pasolini, e io penso che avesse torto). La prima posizione è quella garantista. La seconda è quella giustizialista. Io, siccome sono garantista, spesso uso la parola “forcaiolo” al posto della parola giustizialista, forse con un eccesso di polemica. Ma qui non voglio fare nessuna polemica coi giustizialisti. Li rispetto, se lo sono davvero, in modo totale. Voglio farla con chi riesce a spostarsi da una all’altra posizione con l’agilità di una scimmia tra i rami della giungla. Ecco qui tre casi, recenti o recentissimi, di intreccio tra politica e giustizia. Caso Fontana, il governatore della Lombardia sospettato di aver fatto pasticci con una donazione di camici e di avere avuto dei capitali in Svizzera e di averli poi “scudati”. Le opposizioni chiedono che si dimetta. In particolare i 5 Stelle, il Pd sembra più cauto. Fontana ha ricevuto un avviso di garanzia. Caso Casalino. Il portavoce del premier ha un compagno che ha giocato in borsa delle cifre altissime, molto superiori alle sue possibilità economiche. Ha giocato in borsa utilizzando informazioni riservate? Non ci sono avvisi di garanzia. La destra chiede le dimissioni di Casalino I 5 Stelle lo difendono. Il Fatto, domenica, ha dato la notizia piccola piccola a pagina 15. Caso Marini. La presidente della regione umbra, un anno fa, ricevette un avviso di garanzia per un reato non molto conosciuto: “concorso in abuso di ufficio”. L’abuso di ufficio era attribuito al dirigente di una Asl, per alcune assunzioni. Marini fu considerata complice. L’inchiesta non si è ancora conclusa con un rinvio a giudizio, più di un anno dopo. All’epoca la destra fu inflessibile. Anche i 5 Stelle. Salvini andò a Perugia e tenne un comizio oceanico per chiedere le dimissioni della Marini. Il Pd, come spesso gli succede, ebbe paura e impose le dimissioni alla Marini. Aggiungiamo un quarto caso, che serve per capirci meglio: circa quattro anni fa Matteo Renzi, all’epoca premier, incontrando De Benedetti sulla porta di un ascensore, rispose a una sua domanda sostenendo che pensava che la riforma della banche popolari si sarebbe fatta. Da quel giorno Il Fatto di Travaglio almeno una volta al mese pubblica in prima pagina un articolo per chiedere che Renzi e De Benedetti siano processati per aggiotaggio. Domanda: e Casalino? Salvini voleva la cacciata con infamia di Catiuscia Marini. Domanda: e Fontana? I Cinque Stelle vogliono cacciare Fontana. E Casalino? La destra vuole cacciare Casalino. E Fontana? Volete che continuo? Sapete come si chiama questa posizione ideologica che prevede il giustizialismo feroce con gli avversari e il più rigoroso garantismo coi propri amici? Si chiama “Garan-forchismo”. È una posizione politica intollerabile. Provoca guasti inauditi nell’opinione pubblica e rende impossibile lo stato di diritto, corrompe profondamente i partiti e i gruppi parlamentari. Quali partiti riguarda? Direi tutti, forse escluso un pezzettino piccolo di Forza Italia (ma non tutto il partito). È uno dei drammi dell’Italia.
Giancarlo Caselli e quella nostalgia per il sistema inquisitorio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Ha proprio ragione il dottor Giancarlo Caselli. Se si attuasse la separazione delle carriere tra giudici e rappresentanti dell’accusa, questi ultimi finirebbero con l’acquisire un potere tale da rafforzare quel Partito dei pm “di cui taluno favoleggia”. Potrebbe essere così, in effetti. A meno che. È proprio in “quell’a meno che” che si sviluppano le differenza tra i paesi liberali, in cui l’indipendenza e la terzietà del giudice sono sacre, ma per il rappresentante pubblico dell’accusa non può esserci autonomia senza responsabilità, e i Paesi dove vigono i regimi e le caste senza controllo. Come è purtroppo l’Italia. Scrive parecchio, in questo periodo, il dottor Caselli. Il suo ragionamento, come quello di ieri sul Corriere della sera, fila sempre diritto, con uno schema hegeliano ricco di certezze. Anche quando si esprime sul Fatto, non è mai grillino, piuttosto esprime la cultura tradizionale di quei magistrati italiani che rimpiangono le inchieste segrete del sistema inquisitorio e che hanno mal digerito il nuovo codice di procedura penale di tipo accusatorio. Che è però rimasto incompleto, purtroppo, proprio perché la commissione che l’aveva elaborato non ha potuto o voluto completarlo con la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Né il Parlamento, nella prima, nella seconda e giammai nella terza repubblica ha osato farlo. Così, in quell’ “a meno che” dell’ex procuratore Caselli c’è la bestia nera dei magistrati conservatori o reazionari, la famosa dipendenza del pubblico ministero dal ministro di giustizia. Come se fosse uno scandalo il fatto che un governo – è quel che succede nella gran parte dei Paesi occidentali – possa elaborare un programma di politica criminale, con le proprie priorità e i propri metodi di intervento. Ed affidarne ai pm la sua esecuzione. Non è quello che fa per esempio il procuratore nazionale antimafia? Nella stessa sua definizione di “anti” non c’è un suo modo di essere Stato, governo, più che magistrato nell’accezione italiana? Di chi è il compito di lottare contro i crimini, del magistrato o del governo con i suoi apparati di sicurezza? La giurisdizione (juris dicere) è compito del giudice, non dell’avvocato dell’accusa. Non esiste Paese occidentale in cui il pubblico ministero abbia un potere in cui l’indipendenza prevalga sulla responsabilità come è in Italia. Il pm appartiene allo stesso ordine dei giudici, nessuna istituzione gli può dare istruzioni, il suo status è regolato esclusivamente da quel Consiglio superiore in cui ormai i pm la fanno da padroni, nessun ministro può interferire sulle valutazioni della sua professionalità, che del resto nessuno metterà mai in discussione, visti i ridicoli risultati della commissione disciplinare. A meno che non ci si chiami Luca Palamara e non si sia cascati all’interno di uno scontro politico-giudiziario più grande di lui. E a questo punto, considerando anche gli eventi dell’ultimo anno, non possiamo non citare altre due specialità dell’anomalia italiana: la potenza di un sindacato che ormai fa barba e capelli alla confederazione Cgil-Cisl-Uil, l’Associazione nazionale magistrati, e la visibilità mediatica che, da Di Pietro in avanti, può rendere un semplice sostituto più potente dei suoi stessi capi. Potente e intoccabile. Giancarlo Caselli, un po’ obtorto collo, conviene sulla separazione delle funzioni, che già esiste, se pure in forma molto limitata in termini logistici e geografici. Ma non riesce a levarsi dalla testa quello che è un po’ il tarlo che avvicina una parte della sinistra al Movimento cinque stelle, quel moralismo che ha sempre tenuto insieme in Italia, le due vere chiese, quella cattolica e la comunista. Se il pm prende ordini dal ministro, è il solito ragionamento, chi potrà più fare le inchieste sulla corruzione? Come se nel Paese non esistessero più la mafia e la ‘ndrangheta, e gli omicidi, gli stupri e le rapine. Come se i ministri guardasigilli (Bonafede, può ringraziare) fossero tutti corrotti o impegnati a proteggere gli amministratori disonesti. Vien da dire: caro dottor Caselli, fosse solo questo il prezzo da pagare per poter vivere in un Paese veramente libero e liberale, chissenefrega dei corrotti!
Il ripristino della pena di morte durante il Fascismo: “Non ci sono prove, ma qualcosa avrà fatto…” Alberto Cisterna su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Lunedì 27 ottobre del 1930 (anno VIII dell’era fascista). Entrava in vigore il codice penale tuttora vigente. Con quell’opera monumentale il ministro della giustizia, Alfredo Rocco, portava a compimento anche il suo progetto di ripristinare la pena di morte per i reati comuni, abolita nel Regno d’Italia sin dal 1890. L’uomo era un giurista raffinato e, sapendo di dover far di conto con la dottrina penalistica italiana ancorata alla lezione di Cesaria Beccaria, scriveva nella “Relazione a Sua Maestà il Re” per la presentazione del Codice: «Egli è considerato generalmente come il primo e più celebre avversario della pena di morte. E poichè il Beccaria fu italiano, da molti si considera la teoria abolizionista come una gloria italiana, che i progetti tendenti al ristabilimento della pena di morte condurrebbero ad offuscare. Nulla di più falso… Nel suo libretto Dei delitti e delle pene egli così scrive: “La morte del cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando, anche privo di libertà, egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione… e quando la sua morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti”» (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, 26 ottobre 1930, n.251, p. 4450). Ci sarebbe da tornare su questo passo del Beccaria e ragionare su come si acconci per quei casi di ergastolo ostativo, vigenti nel nostro Paese, quando il carcere a vita viene dispensato senza la possibilità di alcun beneficio penitenziario nella convinzione che il condannato «anche privo di libertà… abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione». Nel decennio 1931-1940 le condanne a morte comminate dalle corti italiane per delitti comuni furono 118 e 65 furono effettivamente eseguite (G. Tessitore, Fascismo e pena di morte. Consenso e informazione, Franco Angeli, 2000). Tre di queste pene capitali furono eseguite a Reggio Calabria, in una giornata piena di sole, in una vallata a ridosso della città, dove si accalcarono migliaia e migliaia di persone per assistere alle fucilazioni ordinate dalla corte d’assise il 18 agosto 1936. Un processo che aveva scosso la città quello delle “tre fosse”. Nel greto di uno dei torrenti che tagliavano in due la città erano state scoperte tre fosse, due delle quali erano servite “per occultare i cadaveri” di due giovani vittime, mentre la terza, trovata vuota, era stata preparata in vista di un prossimo, terzo omicidio. A scuotere la città era stato la morte di una giovane ragazza, Maria Teresa Ferrante, uccisa nella notte tra il 6 e il 7 maggio 1933. Una giovane assassinata dopo essere stata violentata e una fossa ancora vuota erano un’ombra terribile, il panico rischiava di assalire la popolazione impaurita. C’era quanto bastava per indurre il federale fascista di Reggio Calabria, un abruzzese caparbio e inflessibile, a pretendere che si facesse giustizia e pure in fretta. Le indagini giunsero alla conclusione che la morte della giovane non era da ricondurre a contese all’interno della malavita locale, ma che era maturata nell’alveo della sua famiglia. Era stata la matrigna di Maria Teresa Ferrante a volerne l’uccisione perché la giovane aveva sospettato che fosse stata costei la mandante del tentato omicidio del padre, maturato a seguito di dissidi coniugali. La donna, Artuso Antonietta, aveva richiesto l’esecuzione dell’omicidio a un piccolo camorrista reggino, tale Antonino De Stefano, il quale secondo l’accusa, prima di uccidere la ragazza, aveva chiesto l’autorizzazione al suo capo società, tale Francesco Mandalari. Mandalari, per quel che si sapeva della criminalità organizzata, non poteva non essere stato messo al corrente dal suo subordinato di un’azione del genere . Secondo la sentenza, Mandalari non si era limitato ad approvare l’omicidio, ma abbastanza inspiegabilmente aveva affiancato al De Stefano un suo uomo di fiducia, tale Amedeo Recupero. A fronte del successivo tradimento del Recupero, Mandalari ne aveva decretato l’uccisione, andando così a riempire la seconda delle fosse. Scrisse la corte d’assise: «L’esecuzione del Recupero è ripetizione di quella precedente della Ferrante, due colpi alla nuca alla prima, due colpi alla nuca al secondo; il terzo colpo finale alla prima vittima abbattuta, il terzo colpo finale all’altro; denudata l’una, denudato l’altro, buttata nella fossa l’una, buttato l’altro». Il dato macabro – e invero inusuale per un capo dell’onorata società calabrese – era che Mandalari, nell’autorizzare l’omicidio della ragazza, avesse «espresso il desiderio di possederla e tenerla a sua disposizione due o tre giorni». Un dato anomalo. Una ricostruzione che poteva costare la pena capitale per Mandalari e i suoi complici. Era il primo caso da condanna a morte dopo la riforma di Alfredo Rocco anche in quella terra. Tre in una volta dovettero sembrare un’enormità ai giudici popolari che facevano parte della corte d’assise. Certo Francesco Mandalari era un fior di mascalzone, un delinquente incallito, un maneggione collegato alla bassa politica locale. Il regime fascista voleva un risultato eclatante e pretendeva una prova di forza contro la picciotteria reggina, rea di molti delitti e soprattutto di una pervicace ostinazione al nuovo corso d’ordine imposto dal duce. In quella camera di consiglio, rimasta segreta e inviolabile, un distinto professore di antica cultura liberale, e fascista per necessità, guardava perplesso il presidente della corte d’assise che con fervore sosteneva la colpevolezza degli imputati e di Mandalari per primo, il peggiore del gruppo diceva. Quel minuto professore si fece forza e, nel silenzio tombale di quella stanza del tribunale reggino, cominciò a snocciolare i propri dubbi. Quello stupro anomalo, l’affiancamento al killer di una povera ragazza addirittura di Amedeo Recupero, il pupillo preferito del capo che «in giovane età era stato accolto in casa del Mandalari e assunto da questi come operaio» non lo convincevano. Certo qualcuno aveva indirizzato la polizia alle tre fosse e aveva fatto scoprire i due cadaveri. Ma perché denudarli entrambi, perché marcare in questo modo così esplicito e inequivoco la tesi della violenza sulla povera ragazza di cui non si aveva, ovviamente, alcuna prova a distanza di tanto tempo dalla morte. Erano incoerenze che gli attraversavano la mente. Non era un giurista, quel professore, insegnava in un liceo classico. Sapeva dei processi quel che aveva imparato dalla storia e dai libri, ma soffriva di una malattia inguaribile: aveva dei dubbi. All’ennesima obiezione, nell’aria afosa dell’agosto reggino, in quella stanza piena di giudici popolari sudati, con il caldo che assaliva la mente e sfibrava il corpo, il presidente poggiò le mani sul tavolo e si chinò sulle carte. Poi, quasi piegato in due, neanche fosse il duce chino sul balcone di Palazzo Venezia, volse lo sguardo al professore seduto al suo fianco e concluse: «Professore se non hanno fatto questo hanno fatto altro questi delinquenti, vanno fucilati». Alfredo Rocco era morto esattamente un anno prima, il 28 agosto 1935. Ma il ministro nelle sue convinzioni sulla pena di morte non era isolato: «Il ripristino della pena capitale non sconvolse né scandalizzò gli italiani, ma fu sorprendentemente quasi imposto ad un tentennante Mussolini non solo dagli atteggiamenti intransigenti dei duri del regime, ma anche dal coro quasi unanime degli addetti ai lavori, magistrati, docenti e persino avvocati, formatisi culturalmente in periodi in cui del fascismo non potevano avvertirsi nemmeno le più lontane avvisaglie» (Tranchina–Fiandaca nella prefazione a G. Tessitore, op. cit., p.14). Quanto a Mandalari, una sbrigativa annotazione lo inserisce nella macabra storia della pena di morte in Italia: «non si esitò, peraltro, a comminare la pena di morte ad uno dei capi della ‘ndrangheta calabrese, Francesco Mandalari, fino ad allora ritenuto intoccabile, per violenza carnale e concorso in duplice omicidio, di cui era stato identificato come mandante» (G. Portalone, La politica giudiziaria del fascismo, 2000). Se non aveva fatto quello, aveva certo fatto altro.
Così il giustizialismo diventò religione di Stato. Alessandro Barbano su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito un ampio stralcio de “Il Paese e la Luna”, uno dei due importanti capitoli che Alessandro Barbano dedica alla questione giustizia all’interno del suo nuovo saggio, “La visione – Un’altra politica per guarire l’Italia” (Mondadori, 120 pp.) La prescrizione è il dito del populismo frapposto tra gli occhi del Paese e la luna. Tutti lo guardano, e si dividono sul giudizio. E tutti ignorano la luna, la madre di tutte le emergenze, il buco nero della nostra democrazia. […] La luna è un sistema malato, che fa male al Paese. Perché troppe cose sono andate fuori posto. Il ruolo del pm è senza dubbio la prima, ma non l’unica, ad avere scarrocciato dai binari di una fisiologia sana, per diventare un fattore di turbativa del sistema giudiziario e di quello democratico, in cui il primo è iscritto. Nel nostro sistema l’indipendenza del pm coincide con la sua irresponsabilità. Non solo rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche rispetto al suo stesso ufficio, dove opera esercitando un pieno controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle sue indagini. In un sistema accusatorio incompiuto, dove il ruolo dell’accusa è andato via via crescendo rispetto a quello della difesa, il pm si muove per tutta la lunga fase delle indagini preliminari come un poliziotto totalmente indipendente. Ciò rappresenta un unicum rispetto alla maggior parte delle democrazie liberali, dove non esiste una figura processuale dotata di poteri di polizia tanto ampi quanto non soggetti a controllo. Manca anzitutto un controllo gerarchico, perché l’azione di ogni singolo magistrato inquirente è ancora sottratta, in nome dell’indipendenza, a un vaglio di merito da parte del capo dell’ufficio. Non è un caso che quando il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, chiede di essere preventivamente informato dell’iscrizione nel registro degli indagati di persone coinvolte nelle indagini, si scateni la protesta dei suoi sostituti. E manca un controllo giurisdizionale connesso a una effettiva responsabilità rispetto all’appropriatezza dell’azione penale. Perché, se pure a distanza di anni il giudizio di appello o di Cassazione certifica che questa è stata avviata per motivi penalmente irrilevanti o addirittura inesistenti, nessuna responsabilità concreta sarà mai imputata al pubblico ministero, né sotto il profilo disciplinare né ai fini di una valutazione della sua professionalità. Ogni tentativo di configurarla s’infrange contro il muro dell’obbligatorietà dell’azione penale, in nome della quale è sempre possibile invocare l’esistenza di indizi di reato che il pm era tenuto a verificare. Così questo principio costituzionale compie il miracolo di trasformare la più spregiudicata discrezionalità in un atto dovuto per legge. Come ci ricorda uno dei più autorevoli studiosi dei sistemi penali, Giuseppe Di Federico, il pericolo dell’arbitrarietà è tanto più grande in un Paese dove i reati commessi sono molto più numerosi di quelli che concretamente possono essere perseguiti. Ciò significa lasciare al pm, attraverso la sua insindacabile scelta, l’esercizio della politica criminale, cioè l’indirizzo degli strumenti predisposti dal sistema per contrastare la criminalità. Ma in nessuno dei Paesi a consolidata tradizione democratica la politica criminale è sottratta alla responsabilità di organi che rispondono politicamente ai cittadini. Questo sconfinamento in un ambito propriamente politico si specchia in quel fenomeno di irrituale investitura popolare che la magistratura in Italia ha ricevuto in alcuni passaggi chiave della storia repubblicana e che rappresenta una prima turbativa rispetto alla separazione dei poteri su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Il Consiglio superiore della magistratura (Csm) riflette tutte le contraddizioni qui raccontate. È un organo politico-corporativo a cui spetta il delicato compito di decidere gli avanzamenti di carriera dei magistrati, in assenza di un sistema gerarchicamente organizzato, cioè in assenza di una subordinazione che rifletta una gerarchia dei saperi e delle esperienze a cui far corrispondere coerenti valutazioni di merito. A cos’altro appendere allora il destino delle carriere, se non ai rapporti di forza e agli accordi transattivi e di reciproco scambio tra le aggregazioni in cui la magistratura si divide e si articola? Ci sono procure che sono rimaste scoperte per più di un anno per il mancato accordo tra i diversi cartelli della magistratura associata, altre che sono state coperte solo dopo una spartizione concordata, con reciproche concessioni, di tutti i posti vacanti. […] La seconda asimmetria della giustizia italiana è l’ampiezza della custodia cautelare. Più di un detenuto su tre, cioè il 34,5 per cento contro una media europea del 22,4, è in carcere in attesa di giudizio, cioè in assenza di una sentenza definitiva che ne certifichi la colpevolezza. Ed è sintomatico che questa percentuale sia rimasta altissima nonostante che i presupposti per l’adozione delle misure cautelari siano stati modificati in maniera più stringente, incentivando anche il ricorso alla detenzione domiciliare. Ciò vuol dire che le riforme garantiste scivolano sul corpo di un sistema dove sono i rapporti di forza tra i vari attori a fare in concreto la legge. Il terzo fattore di squilibrio del sistema è il più grave ma anche il più sottovalutato, perché più tecnico e più difficilmente comprensibile dai cittadini. Riguarda lo slittamento da un diritto penale fondato sul reato a un diritto penale centrato sulla figura del reo. Un diritto penale di marca liberale mette al centro il fatto tassativamente descritto dalla norma, in quanto lesivo di un bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Il reato di omicidio persegue l’atto di uccidere che attenta al bene, massimamente protetto, della vita umana. Ciò implica due conseguenze: la prima è che la gravità del reato si collega alla sua offensività, cioè alla sua capacità di danneggiare il bene, oggetto di tutela […] La seconda conseguenza riguarda il rapporto dell’azione penale con il reo: se persegue l’assassino, lo fa in quanto colpevole, cioè autore del fatto che costituisce il reato. Il comportamento o, addirittura, la personalità dell’omicida valgono per valutare la gravità del reato nel contesto in cui si compone il fatto, non come elementi penalmente rilevanti in sé. In un diritto liberale è la colpevolezza, non la pericolosità, il presupposto dell’azione punitiva dello Stato. Perché la pericolosità è potenzialmente insidiosa. Implica un giudizio dell’autorità sul presunto reo che non rispetta i confini di tassatività della norma penale e il più delle volte sconfina nel soggettivismo. Il diritto penale in Italia sta sposando in modo molto rischioso la pericolosità. Anzitutto con una serie di reati inoffensivi in sé, cioè privi di una lesione del bene giuridico. Pensate per esempio al traffico di influenze, una fattispecie introdotta dalla legge Severino il cui confine con l’attività lecita del lobbismo è del tutto indeterminato e, quindi, soggettivamente determinabile. La tendenza a fare della pericolosità – o anche del semplice pericolo di un pericolo – il fondamento dell’accertamento penale e della sanzione è specchio dell’influenza che ha il processo mediatico nel processo penale e della confusione che tra i due livelli si determina. Con l’effetto che l’oggetto del contendere non sono più i fatti costituenti reato, le azioni per compierli e gli elementi soggettivi del dolo e della colpa, ma le mere intenzioni non qualificabili come elementi della colpevolezza, e perfino i desideri irrealizzabili dei soggetti che entrano nel radar dell’indagine. Ciò che rende intenzioni e desideri legittimamente ostensibili non è la fondatezza probatoria, ma l’intensità del sospetto, desumibile dal numero di associazioni e collegamenti che è possibile stabilire tra le notizie acquisite. È in questa valutazione quantitativa che la captazione informatica di una microspia diventa centrale, per la sua capacità di condensare la grande mole di dettagli, indizi, associazioni e richiami presenti in una sezione di relazioni personali. Ma la raccolta e l’esibizione indiscriminate di reperti umani si rivelano invasive oltre ogni limite. Non solo perché ignorano qualunque distanza spaziale tra noi e gli altri, liquefacendo nell’iperpubblicità dell’indagine preliminare la privatezza e perfino il pudore di una confidenza. Ma perché, costipando la dimensione del tempo in un presente fatto di attimi captati, riducono la volontà delittuosa a un’espressione, riavvolgono la colpevolezza in un frammento in cui si perde ogni differenza tra un piano e un’intenzione, tra un’intenzione e un desiderio, e tra un desiderio e un’emozione. Il processo mediatico prevale sul processo penale, e un metodo, che non fa onore a chi scrive definire «giornalistico», tipico del primo, si insinua nel secondo, alimentando una confusione pericolosa. Così si realizza quello slittamento da una giustizia che punta ad accertare la colpevolezza a una che si contenta di rappresentare una pericolosità desumibile da un giudizio sulle intenzioni e sulle relazioni. La confusione non opera solo sovrapponendo un giudizio mediatico a un giudizio penale, e oscurando quest’ultimo a vantaggio del primo. […] Ma c’è ancora uno spazio amplissimo in cui la democrazia italiana ha sdoganato la pericolosità come il fondamento della pretesa punitiva dello Stato: è la legislazione speciale antimafia, interamente fondata sul sospetto, e la sua manomorta giudiziaria costruita sulle confische. Il suo libro sacro è il codice per l’applicazione delle cosiddette «misure di prevenzione», che consente allo Stato di acquisire patrimoni finanziari, immobili e aziende in assenza di un giudicato penale, cioè prima che sia intervenuta una sentenza di condanna. La sottrazione della proprietà avviene con un procedimento in camera di consiglio, che valuta la pericolosità sociale dei titolari dei beni e l’inspiegabile sproporzione tra la ricchezza conseguita e i mezzi professionali e finanziari diretti a produrla. Queste misure di prevenzione sono il sistema normativo più illiberale dell’Occidente. Sono figlie di un diritto cosiddetto «del doppio binario», un diritto autoritario e senza garanzie, che scorre parallelamente a quello ordinario. Fu adottato dopo l’Unità d’Italia dalla Destra storica per debellare i briganti, usato in seguito dai governi di fine Ottocento contro i primi sindacalisti e i movimenti operai, poi fatto proprio dal fascismo contro i dissidenti, e sopravvissuto fino ai giorni nostri, nonostante la Carta costituzionale non ne facesse menzione, con l’intento, chiaro nei lavori preparatori, di abrogarlo per sempre. È la legge dei cattivi, delle regole spicce, del fine che giustifica i mezzi. Lo abbiamo eternato per combattere la mafia. E lo abbiamo difeso contro ogni evidenza e ogni censura, come quella della Corte di giustizia europea, che ha invano esortato l’Italia a circoscriverne le fattispecie di pericolosità sociale, perché ritenute troppo generiche. Da qualche anno il diritto del doppio binario si è esteso a una enorme serie di ipotesi accusatorie, che vanno dalla mafia al peculato semplice, passando per la corruzione e l’abuso d’ufficio. Così la giustizia somiglia a un luogo dove si può entrare inconsapevolmente ben vestiti e uscirne dopo anni nudi, senza sapere perché. Se quello fin qui compiuto è, a grandi linee, il racconto della luna, da questa complessità il riformismo deve partire. Con un disegno organico, capace di rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni, di rafforzare la gerarchizzazione degli uffici delle procure, di riformare il Csm, ridefinendo i confini di un’indipendenza a vantaggio di principi di efficienza organizzativa, di limitare l’abuso della custodia cautelare, di riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività, di cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia, di ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando e riducendo i tempi dei processi, e da ultimo di restituire concretezza ed effettività alle garanzie difensive, mortificate da una prassi inquisitoria che si afferma contro gli stessi codici. Questo progetto riformatore non ha nessuna possibilità di superare le resistenze corporative di un sistema refrattario a qualunque modifica, se non è sostenuto da una retorica autenticamente liberale, alternativa e opposta a quella del giustizialismo. Contro questa trincea difensiva si sono infranti tutti i tentativi di rimetterlo in discussione negli ultimi tre decenni. Ma prima ancora che nel Parlamento e nell’universo del diritto la riforma va costruita nel Paese. C’è un punto della nostra storia repubblicana in cui la notte della giustizia ha gettato l’Italia in un buio asfissiante, in cui l’indagine, il sospetto, l’ansia della punizione sono diventati la grammatica di una «democrazia penale». Questo non ha coinciso con un singolo provvedimento legislativo, ma con il prevalere di un’idea nel corpo sociale: che conoscere il contenuto delle intercettazioni penalmente irrilevanti fosse giusto e doveroso per illuminare il lato oscuro del potere. Quando un simile convincimento si afferma come una religione civile, di marca illiberale, perfino il valore della trasparenza muta in ipersorveglianza e la stanza di vetro della democrazia somiglia a una stanza dell’orrore. La riforma della giustizia coincide perciò, più di ogni altro obiettivo politico, con una convincente pedagogia civile, diretta a ricostituire nell’opinione pubblica le ragioni dello Stato di diritto.
Intervista ad Alessandro Barbano: “Tribunali ridotti a macchine del dolore dagli ultras della morale”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Luglio 2020.
Alessandro Barbano ha scritto un vero manifesto politico. Come è nata l’idea de “La visione”?
«È nata perché credo che la funzione del giornalismo debba essere anche quella di provare ad anticipare e non solo raccontare quel che è già accaduto, ma ipotizzare una prospettiva. Con questo libro volevo parlare di cosa si muove nella società, di quali sono le domande sociali e di quali possono essere le riposte».
Muovendo da un assunto di partenza: al populismo si può e si deve contrapporre un ritorno alla politica, alle culture politiche riformiste.
«Sì, prendo le mosse dalla constatazione che la democrazia italiana, a differenza di tutte le altre democrazie, ha conosciuto e conosce una quota di populismo strisciante che si aggiunge al populismo consapevole, dichiarato e rivendicato. Una quota di populismo inconsapevole che ne porta il tasso nella classe dirigente e nell’opinione pubblica intorno se non sopra al 50%: un unicum in Europa».
Un quadro a tinte fosche a carico dei “populisti per caso”.
«Sono convinto che esiste spazio per una scelta diversa. Oggi abbiamo un’offerta politica segnata da un bipolarismo contrappositivo tra una destra egemonizzata da Salvini e una sinistra in cui l’alleanza incompiuta tra Zingaretti e Cinque Stelle consegna il Pd al populismo ideologico del M5s, rendendolo subalterno e con questo venendo meno alla natura stessa del loro patto fondativo».
Quale conseguenza trae?
«L’idea che questa offerta politica possa essere esaustiva non è credibile. Dobbiamo fare ricorso alla cultura politica liberale, quella riformista/socialista e quella popolare per ritrovare le radici che hanno dato forza al nostro Paese nelle scelte più difficili della sua vicenda storica repubblicana».
Tanto più oggi, nel mezzo di una crisi inedita, per molti versi.
«La polarizzazione del quadro politico, con una destra sovranista che tutto semplifica e una sinistra frantumata ancora alla ricerca di un’identità, ha imposto una visione «virologica» della crisi, in cui la classe dirigente ha abdicato alla sua funzione di filtro delle decisioni. Il terzo polo e i progetti di centro in Italia non hanno più funzionato, nella Seconda Repubblica. Eppure vale la pena di interrogarsi se esista lo spazio per un riformismo alternativo capace di sanare la frattura che si è creata fra libertà e responsabilità, uno spazio dove recuperare la complessità del reale che il populismo e un certo giornalismo d’assalto mirano a banalizzare. Un contenitore capace di dare risposte complesse ma credibili a problemi specifici. “Visione” ha due accezioni. “Vision” indica in politolinguistica una strategia, una visione prospettica. Ma avere una visione significa anche prendere un abbaglio, avere un’allucinazione visiva. Io cerco di studiare i fenomeni, dati alla mano. E quella di cui parlo è una visione alternativa alla destra e alla sinistra, estranea ai vecchi contenitori e autonoma rispetto alle future alleanze; capace di chiamare alla responsabilità una leadership autorevole e un quadro dirigente plurale, e di attuare scelte ispirate a una visione strategica e non solo tattica».
Intanto però scivoliamo verso l’assolutismo giudiziario.
«Io nel libro parlo di integralismo moralistico. Lo stesso che ci ha fatto pensare che il Covid fosse una condanna divina degli eccessi del capitalismo. Si leggeva ovunque che dovevamo espiare, fermare il mondo. Il compito che certa politica affida alla giustizia, appunto quello di fermare il mondo. Questa idea del giustizialismo non è di oggi. Arriva in perfetta linea di continuità dopo dieci anni di governo giallorosso, gialloverde e prima ancora, del centrosinistra. La prescrizione sine die non l’ha inventata Bonafede, l’ha inventata uno dei tanti magistrati imbarcati dal Pd per sfidare Berlusconi, Casson. Durante i governi precedenti il guardasigilli Orlando aveva tenuto una politica che aveva aumentato il tasso di giustizialismo in maniera assoluta. Di fronte all’emergenza le democrazie più fragili slittano verso l’illiberalismo».
Forse la riforma della giustizia non si può affidare a chi l’ha affossata.
«La giustizia in questo Paese è una macchina del dolore non giustificabile. Ha un impatto sulla vita delle persone che è un grandissimo carico di dolore non giustificabile, che contraddice i valori della democrazia liberale. Prendiamone atto. La giustizia è stata concepita alla pari con il potere esecutivo e il potere legislativo. Ed è sbagliato. C’è bisogno di una gerarchia diversa. In una democrazia parlamentare il legislativo deve essere il primo dei poteri. E sottoporre a un controllo democratico il potere giudiziario».
Da dove nasce il vulnus del nostro diritto?
«Da un gigantesco equivoco che ha visto slittare il diritto penale dal fatto al reo. Non si condanna più un delitto accertato, si condanna la pericolosità sociale di chi è accusato o anche solo sospettato di aver commesso un reato. Si procede per sospetti preventivi generalizzati e per condanne sociali e mediatizzate. I nazisti facevano lo stesso: incolpavano genericamente gli ebrei di tradire la patria, gli zingari di rubare, condannandoli tutti senza accertare i fatti. Il diritto diventa così illiberale e crea i presupposti per il cosiddetto “secondo binario”, che è il diritto dell’antimafia, qualcosa di orrendo. Pervade la democrazia italiana, freno lo sviluppo delle imprese, confisca patrimoni in assenza di elementi di colpevolezza».
A chi si rivolge questo libro?
«A chi crede che sia oggi necessaria una fase di rifondazione del sistema-Paese. A tutti coloro che non si arrendono, e spero siano tanti».
La passione di Gratteri e del trio-manetta Travaglio, Lillo e Barbacetto per le carceri. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Giugno 2020. È una attrazione irresistibile quella di Nicola Gratteri per il carcere. Lui considera il carcere il dono più prezioso che ci è stato consegnato dalla modernità. Lo coltiva. E condivide questa sua passione coi ragazzi del Fatto Quotidiano, in particolare con loro tre, gli inseparabili: Travaglio, Lillo e Barbacetto. Articoli e distintivo. L’altro giorno i tre hanno dedicato una parte importante del Fatto Quotidiano alla loro battaglia preferita. Hanno scoperto, grazie a una lettera segreta di una dirigente del Dap (dipartimento penitenziario) ai direttori delle carceri, che i detenuti in regime di Alta Sicurezza soffrono troppo poco. Per ore vengono lasciati liberi per i corridoi e questo non è un bel modo per tenere la gente al carcere duro. Le celle allora a che servono? E a che serve mantenerle sovraffollate, in modo che il detenuto possa soffrire ben bene, se poi dei direttori di carcere mollaccioni gli aprono le porte per ore e ore e gli permettono di sgranchire le gambe nei corridoi? Dove sono finiti letto di pietra, pane ed acqua? Marco Lillo (che dei tra inseparabili è sempre il meglio informato, spesso informato meglio dello stesso Gratteri) fa capire che la colpa di tutto è di quel poco di buono di Santi Consolo, ex magistrato che per quattro o cinque anni ha diretto il Dap, scelto – manco a dirlo – da quei libertini-libertari del centrosinistra, tipo il ministro Orlando, un debosciato che se non proviene da Lotta Continua poco ci manca. Consolo ha trasformato i reparti di Alta Sicurezza, dove vivono circa 10 mila detenuti, in centri estivi. Stabilito che tutto ciò è indecente, Barbacetto si è incaricato di andare a chiedere a Gratteri, il Procuratore di Catanzaro, cosa bisogna fare per porre fine a questa vergogna. E Gratteri – preso in contropiede – come al solito ha commesso un po’ di errori nelle risposte, perché le cose le sa ma non tutte bene. Ha cominciato col definire il 41 bis “carcere duro”. Vaglielo a spiegare che non si deve usare questo termine. Lo usiamo noi garantisti, polemicamente, non lo devono usare i magistrati. Il carcere duro in Italia è proibito dalla Costituzione, articolo 27. Fior di magistrati e di politici e di giornalisti ci hanno messo la faccia nella campagna per sostenere che il 41 bis è solo una misura di sicurezza e non è carcere duro, poi arriva lui e rovina tutto. Dopodiché Gratteri ha spiegato qual è la sua soluzione per evitare il sovraffollamento nelle carceri. Voi sapete che se chiedi a qualunque giurista come si può evitare il sovraffollamento, lui vi risponderà o proponendo l’amnistia (una minoranza) o la depenalizzazione di molti reati, soprattutto di quelli che hanno portato in prigione decine di migliaia di ragazzi tossicodipendenti, o, infine, la scarcerazione anticipata di chi deve scontare ancora solo pochi mesi. Beh, queste soluzioni a Gratteri ovviamente non piacciono (e tanto meno al trio-manetta del Fatto). E lui propone allora di costruire quattro maxi carceri da 5000 letti ciascuno. Con ventimila posti nuovi, hai voglia ad arrestare! L’idea è quella di dare vita a vere e proprie cittadine-gattabuia. E Gratteri, per dare forza a questa tesi, spiega che in America, nel regno delle libertà, le carceri hanno migliaia e migliaia di posti, mentre da noi sono piccole piccole. Ci sono un paio di osservazioni da fare – con gentilezza, in modo da evitare che Gratteri si offenda e ci quereli… La prima è questa: gli Stati Uniti non sono proprio un esempio di liberalità carceraria. In proporzione hanno quasi dieci volte più prigionieri dei paesi europei. In Occidente hanno il record inavvicinabile del forcaiolismo, da questo punto di vista, e superano persino parecchi paesi arabi. La seconda cosa è che questo carcere di New York del quale lui parla non è vero che ha 18mila posti ma ne ha circa 9 mila. Sempre molti, certo, ma perché un magistrato deve essere così impreciso? Se lo è pure nei processi – speriamo di no – stiamo freschi! Ma c’è un’altra questione che Gratteri non sa: a New York è stato approvato un piano per smantellare questo carcere-mostro e sostituirlo con quattro piccole prigioni da 900 posti ciascuna. L’obiettivo è rendere le carceri più piccole e quindi più umane e di ridurre drasticamente il numero dei detenuti. Si è arrivati a questa decisione, e la città di New York ha stanziato 7 miliardi per realizzarla, dopo grandi battaglie da parte dei movimenti dei diritti civili. È bello discutere dei problemi carcerari senza saperne molto. Purtroppo queste discussioni non restano platoniche, ma ci va di mezzo un sacco di gente. I detenuti. È così: nella magistratura c’è una minoranza assai combattiva che è felice solo se può essere aumentato il numero dei detenuti e peggiorata la loro condizione di vita. Anche nel giornalismo è così. Da che dipende? È una lunga storia, che probabilmente ha parecchio a che fare anche con le condizioni nelle quali molte persone hanno vissuto l’infanzia…
Gratteri’s version: Chiù carcere pe’ tutti e pugno duro…Il procuratore contro la “gestione allegra” delle carceri: le regole e il rigore rieducano. Davide Varì su Il Dubbio il 14 giugno 2020. L’ultima apparizione risale al giorno in cui aveva presentato a reti tv unificate la sua ultima operazione antimafia. Ma allora, più che le centinaia di arresti – era l’operazione RinascitaScoot – , fece scalpore la sua frase: “Voglio smontare la Calabria come un treno Lego”, ammise il procuratore nel corso del suo sermone davanti ai media adoranti. Insomma, Gratteri torna a parlare dopo mesi di silenzio, e lo fa a modo suo. Stavolta ci parla di carcere, anzi, di carcere duro che, a dispetto di quel che continuano a raccontare i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, è un vero toccasana per i detenuti. In una lunga intervista al Fatto quotidiano – e dove sennò? – il procuratore Gratteri spiega infatti che “lasciare le celle aperte non c’entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti”. Insomma, a chi si ostina a pensare che le misure alternative al carcere siano la strada da seguire, Gratteri contrappone il pugno duro dello Stato che deve rieducare, sì, ma con rigore e le celle ben sigillate. Perché secondo Gratteri, “una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell’ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole”. Certo, Gratteri non chiarisce il significato di “gestione allegra”, ma c’è da presumere che intenda la concessione dei domiciliari a chi è malato. E per quel che riguarda le rivolte, Gratteri è convinto che siano state possibili perché, dice “le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza”. E ancora: “Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti”. Ma la soluzione per Gratteri è una e una sola: “Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario”. Come dire: “Cchiu carcere pe’ tutti!”
Amnistia e indulto resi impraticabili per rispondere alla sete di giustizialismo. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 14 Giugno 2020.
1. Riformare una Costituzione per sua natura destinata a durare nel tempo è impresa difficile quanto scriverne una nuova: ciò rende le sue modifiche strutturali evento raro, spesso destinato al fallimento (citofonare Berlusconi e Renzi). Più utile è porre mano a singole disposizioni, se incoerenti con l’ordito costituzionale. Tale è il suo art. 79 che disciplina l’approvazione di amnistia e indulto, già oggetto di sciagurata revisione nel 1992. Un caso esemplare di riforma sbagliata da riformare di nuovo.
2. L’attuale art. 79 richiede per una legge di clemenza la «maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». È un mostruoso procedimento rafforzato. Le sue soglie superano quelle richieste per leggi costituzionali, così da risultare più agevole modificarne l’art. 79 che approvare un’amnistia o un indulto. Sono quorum che regalano, gratis, paralizzanti veti incrociati: basta che un terzo dei votanti si sfili o minacci di farlo, e il ricatto avrà successo. Risultato? A parte l’indulto del 2006, da trent’anni l’Italia non conosce provvedimenti di clemenza. È un copione andato in scena anche in pieno lockdown. Per disinnescare in tempo la bomba epidemiologica di carceri sovraffollati, serviva un calibrato indulto. Non lo si è preso neppure in considerazione (preferendo scaricare oneri e responsabilità sulla magistratura di sorveglianza). Invocarlo, peraltro, sarebbe stato tecnicamente vano: la maggioranza dolomitica necessaria, calcolandosi sugli aventi diritto al voto, era preclusa in partenza per ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, in un Parlamento che ha scelto di lavorare a ranghi ridotti.
3. Amnistia e indulto, dunque, non si possono né si debbono concedere. Eppure rientrano tra gli strumenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana mette a disposizione del legislatore. Perché, allora, questo tabù? Contro di essi pesano radicate riserve ideologiche, cioè pregiudizi. Nell’ordine: il loro abuso in passato, quando tra il 1953 e il 1990 vennero approvati – in media – ogni triennio. L’essere una cura palliativa per problemi strutturali, destinati a riproporsi. L’enfasi sulla paura collettiva per la messa in libertà di detenuti (che non hanno finito di scontare la pena) e di imputati (che l’hanno fatta franca). La retorica della vittimizzazione secondaria di chi ha subìto il reato. La preoccupazione di non mostrare uno Stato debole, preferendolo tutto chiacchiere e distintivo. Soprattutto, essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Scritta in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, la formulazione ostativa dell’art. 79 fu (anche) una risposta a tali pulsioni giustizialiste. Qui, però, demagogia e intransigenza fanno a pugni con il ripristino della legalità. Quando costringe gli imputati in un limbo processuale infinito, e i condannati in carceri inumani o degradanti, lo Stato vìola la sua stessa Costituzione e i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. A ciò deve porre obbligatoriamente riparo, e presto, esercitando tutte le sue prerogative. Tra queste, la Costituzione annovera anche la clemenza quale strumento di deflazione giudiziaria e carceraria. Il vero problema, allora, è come restituirle agibilità politica e parlamentare. Il che ripropone la necessità di mettere nuovamente mano al suo art. 79. Ci prova ora il disegno di legge costituzionale n. 2456, presentato alla Camera il 2 aprile scorso, per iniziativa di quattro spiriti liberi: i deputati Magi (+Europa), Giachetti e Migliore (Iv), Bruno Bossio (Pd). La premessa da cui muove la riforma è che amnistia e indulto rientrino nell’orizzonte costituzionale di un diritto punitivo rieducativo e mai contrario al senso di umanità. Le leggi di clemenza, infatti, agiscono sempre sulla punibilità, estinguendola: dunque, partecipano della duplice finalità cui la pena deve sempre guardare, da quando nasce «fino a quando in concreto si estingue» (come insegna la Corte costituzionale). Come contenerle entro questo perimetro? Condizionandone l’approvazione a “situazioni straordinarie” o “ragioni eccezionali”. Le prime rimandano a eventi imprevedibili, le seconde a valutazioni collegate all’indirizzo di politica criminale della maggioranza parlamentare. In presenza dell’uno o dell’altro presupposto, debitamente motivato nel preambolo della legge, le Camere approvano l’atto di clemenza secondo l’iter legislativo ordinario, garanzia di massima pubblicità della loro deliberazione. Sulla coerenza tra presupposti motivati in preambolo, contenuto normativo e finalità costituzionalmente orientata, diventa così possibile un duplice controllo di legalità per linee interne alla legge: a monte, da parte del Quirinale in sede di promulgazione; a valle, da parte della Corte costituzionale. Controlli oggi solo teoricamente possibili, ma mai efficacemente esercitabili. Entro questa cornice, si ipotizza un abbassamento ragionevole dell’attuale quorum deliberativo alla «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella [sola] votazione finale».
4. Ci sono ottimi motivi per sostenere il cammino parlamentare di una simile riforma. Dei tanti che si possono squadernare, ne illustro solo alcuni. Il primo è il disvelamento dell’ipocrisia che l’attuale art. 79 cela: la sua rigidità normativa, infatti, è solo apparentemente virtuosa. In realtà, fu il prezzo pagato all’approvazione della legge di amnistia e indulto del 1990, che estingueva reati riguardanti (anche) comportamenti politici e di partito: quel parlamento, «vergognandosene un po’, se ne assolse firmando un impegno a non farlo più in futuro» (Adriano Sofri). Questo è il contesto rimosso della revisione costituzionale intervenuta nel 1992. Un falso movimento che va invece denunciato, perché da cattive coscienze nascono solo cattive regole che impediscono buone pratiche. Al contrario, la proposta di legge n. 2456 trasforma l’art. 79 da norma sterile, perché interamente difensiva, a norma feconda, perché capace di modellare amnistia e indulto in strumenti di buon governo.
5. Farisaica è anche la granitica contrarietà a leggi di clemenza. È facile dimostrarlo. Quelle misure che – anche nell’attuale legislatura – prendono il nome di rottamazione delle cartelle esattoriali, voluntary disclosure, pace fiscale, saldo e stralcio, altro non sono che condoni fiscali, cioè sospensione per il passato della legge penale, dunque strumenti di impunità retroattiva. Ogni condono altro non è che un atto di clemenza atipica, una “oscena amnistia”, per la concessione della quale però ci si serve della legge ordinaria (approvata a maggioranza semplice) senza temere né il dissenso della pubblica opinione, né la crisi di governo, né la vergogna che pure dovrebbe accompagnare l’ipocrisia di chi, a parole, è incondizionatamente contrario ad atti di clemenza. La proposta di legge n. 2456 ha anche il merito di squarciare il velo che copre questa doppia morale.
6. Altra ragione a suo favore è nel valorizzare la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Un diritto penale esclusivamente retributivo e vendicativo, applicato in modo meccanico e impersonale, mostra un’arcaica origine veterotestamentaria. La logica degli atti di clemenza è invece quella evangelica, spiegata da Luca con la parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza «l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono», consapevole che «la Legge è fatta per gli uomini», mai viceversa (il copyright è di Massimo Recalcati). Vale in psicanalisi, vale nel diritto. La clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua autentica matrice. Condannata come rifugio del potere arbitrario, oggi è disprezzata dalla doxa dominante, per la quale l’indulto è un insulto e l’amnistia un’amnesia. La clemenza è stata uccisa dalla sua storia, passata e presente: abusata allora, cancellata ora. Questo circolo vizioso è finalmente spezzato dalla proposta di legge n. 2456, capace di sottrarre amnistia e indulto alla falsa alternativa tra bulimia e anoressia (perché, entrambi, sono comportamenti patologici).
7. È una facile previsione: l’iniziativa legislativa in esame sarà accusata di colpire a morte la certezza della pena. Ma chi pensa questo ha una mente che mente. La certezza della pena, oggi, è (fra)intesa come indefettibilità della detenzione in carcere, fino all’ultimo giorno: perché, per i più, pena vuol dire sanzione ma, prima ancora, sofferenza. Nasce da qui lo stigma verso leggi di clemenza, accusate di inaccettabile perdonismo. Tutto verosimile, ma non vero. Perché non è questo il modo in cui la Costituzione intende la certezza della pena. Costituzionalmente, la pena è certa quando è predeterminata dalla legge a evitare che sia il frutto, ex post, dell’arbitrio del potente. Adoperarla come clava contro una riforma dell’art. 79 che rende praticabili leggi di clemenza significa essere ignoranti, nel senso etimologico di chi non sa ciò di cui pure parla. Significa aver letto non la Costituzione, ma gli editoriali del Fatto Quotidiano, confondendo questi con quella.
8. Da ultimo, riformare di nuovo l’art. 79 restituirà potere e responsabilità a un Parlamento sempre più a bordo vasca, marginalizzato dal governo e dai suoi comitati tecnico-scientifici. Su questo obiettivo possono convergere trasversalmente deputati e senatori che conservino ancora coscienza del proprio ruolo, rivendicandolo orgogliosamente. Torneranno, poi, a dividersi sul se, quando e come deliberare una legge di clemenza. Ma, prima, andrà revocata quella cessione unilaterale di sovranità fatta nel 1992, che molto assomiglia ad una resa indecorosa alle piazze popolate da cappi, gogne e tricoteuses.
Magistratopoli, il "dondolismo" di Marco Travaglio e i Pm che se ne sbattono. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Giugno 2020. In gergo si chiama garantismo a dondolo. Oppure giustizialismo a dondolo. Quando questi due fenomeni sono presenti contemporaneamente si assiste a giravolte politiche talvolta imbarazzanti per un osservatore neutro, considerate invece naturali ed eleganti da gran parte della stampa e del mondo politico italiano. In cosa consiste il garantismo a dondolo, o a pendolo, o a saliscendi? Nell’alternarsi di impeti libertari a improvvise fiammate autoritarie. L’alternanza, in genere, non avviene in modo causale. Funziona così: se un tuo amico finisce sotto accusa da parte della magistratura tu sei garantista, se invece finisce sotto accusa un tuo avversario vieni colto da indignazione forcaiola. Nella politica italiana tutto funziona così. E ancora di più nei giornali italiani. Se si esclude un drappello piccolissimo di giornalisti e di parlamentari, tutti gli altri sono del partito del dondolo. Persino tra i forcaioli più forcaioli vincono in alcune occasioni degli empiti garantisti. Per esempio proprio ieri Il Fatto Quotidiano pubblicava ben due articoli garantisti. Quello di Travaglio, a difesa di Basentini, nel quale si giungeva addirittura ad esprimere opinioni rispettose verso il magistrato di Sassari Riccardo De Vito (quello che ha scarcerato Zagaria, con un provvedimento umanitario e in linea con la legge e la Costituzione) allo scopo di difendere Bonafede e un po’ persino Basentini (ex Dap) dalla furia di Giletti. E poi un altro articolo a difesa del carabiniere Scafarto, nel quale l’articolista si spingeva su posizioni estreme, contestando le intercettazioni e – per la prima volta in dieci anni di vita – spiegando quello che chiunque, se pensa, sa, ma che mai si dice: che le intercettazioni possono essere manipolate a piacere e senza difficoltà (talvolta persino senza dolo) dal Pm. Davvero sorprendente questa ammissione che manda al macero un decennio di tradizioni giornalistiche di Travaglio. (Ammenochè il motivo vero di questa giravolta non sia qualche diffamazione da risarcire, per esempio verso Luca Lotti…). Il “dondolamento” sta raggiungendo vette altissime con la questione coronavirus. La lotta è tra chi sostiene che la colpa di questa epidemia sia del governatore lombardo Fontana e chi pensa che sia invece tutta colpa del premier Conte e del ministro Speranza. Le due posizioni si ritrovano unite su un punto: la caccia all’untore. Se leggete la Colonna Infame di Manzoni, vedrete che gli argomenti sono cambiati solo un po’ rispetto ai giorni della peste del ‘600. Comunque c’è una opinione pubblica, sostenuta dall’establishment, che ritiene che se c’è una epidemia ci sono anche gli untori. E vuole metterli alla ruota della tortura, questi untori, e poi farli squartare dai cavalli in corsa. Successe così anche col terremoto dell’Aquila, qualche anno fa, quando furono processati gli scienziati. La magistratura ci sguazza, in questo clima, e apre indagini su indagini. E se qualche giudice temerario archivia, i sostenitori di Fontana o di Conte – o viceversa – si scagliano contro di lui. Volete sapere perché la magistratura è così potente oggi in Italia ed è riuscita a trasformare questo paese da Stato di diritto a Repubblica delle toghe? Esattamente per questa ragione. Nessuna forza politica (tranne, ma non in modo compatto, Forza Italia e piccole frange del Pd e i radicali) rinuncia al forcaiolismo come strumento di lotta politica. E in queste condizioni vincono sempre i Pm. Che possono anche sbattersene di magistratopoli e continuare a farla da padroni.
Il Pd giustizialista figlio della sua storia. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'11 Giugno 2020. La storia della sinistra comunista e postcomunista è una lunga teoria di negazioni mal riuscite, una vicenda inesausta di faticosi e mai soddisfacenti tentativi di quella sinistra di liberarsi da se stessa, di essere qualcosa rinunciando a essere ciò che è sempre stata e ha continuato a essere lungo un secolo. Si è trattato di negazioni mal riuscite e di tentativi insoddisfacenti perché nessuna fase di quel processo di accreditamento tramite auto-disconoscimento ha mai preso corso spontaneamente e in forza di un’autonoma capacità di iniziativa, ma sempre obtorto collo e cioè su sollecitazione altrui o quando la realtà delle cose squadernava l’inattualità, l’inaderenza, l’inadeguatezza essenziale di quella sinistra rispetto a ogni appuntamento notevole sul percorso civile di questo Paese. Il Pd non è il Pci ma un osservatore democratico chiederebbe oggi al Pd quel che si è sempre chiesto al Pci: di non essere se stesso. La presentabilità politica e democratica del Partito Comunista avrebbe supposto il sistematico rinnegamento di pressoché tutte le caratteristiche identitarie della tradizione con cui si era giustapposto: lo stalinismo, il rapporto irrisolto con la verità storiografica, la noncuranza per i diritti individuali, la irrevocabile propensione a criminalizzare le democrazie liberali che commettono errori e a giustificare la criminalità dei sistemi illiberali, infine ed emblematicamente la meccanica degradazione del dissenso, dell’idea contraria, dell’impostazione diversa, a realtà delinquenziali o patologiche. Questo rinnegamento non c’è mai stato, o non è mai stato compiuto, e a colmarne la mancanza è intervenuto, nel solco del solito procedimento contraffattorio, l’assunto secondo cui quel processo non sarebbe stato necessario non perché la tradizione comunista non fosse contrassegnata da quelle caratteristiche, ma perché dopotutto non era veramente comunista (l’avvicendamento delle denominazioni dissociato da qualsiasi progresso culturale effettivo e le serissime dichiarazioni di un personaggio come Walter Veltroni, che di sé dice di non essere mai stato comunista, descrivono in modo esemplare l’indisponibilità di quella storia a comporsi nella verità di un riconoscimento credibile). Oggi non è diverso. Perché ancora oggi, per il Pd, si tratterebbe di non essere ciò che è. Di non essere giustizialista. Di non essere statalista. Di non essere illiberale. E, soprattutto, di non confondere la sussistenza democratica del Paese con la propria partecipazione al potere, spacciando questa come garanzia di quella con i risultati che vediamo: i diritti individuali devastati, l’amministrazione della giustizia consegnata alla sopraffazione del potere inquirente, i decreti di stampo razzista mantenuti in purezza, la demagogia populista costituzionalizzata nell’esautoramento della democrazia rappresentativa e col trionfo del vaffanculo di piazza che si formalizza nel taglio dei parlamentari. La sinistra offrirebbe un’alternativa al Paese se fosse alternativa a sé stessa anziché competere con il proprio doppio, la componente di destra dell’identico complesso illiberale italiano.
Il giustizialismo fagocita i suoi stessi sostenitori. Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Antonio Pentangelo, deputato di Forza Italia, è indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla riqualificazione dell’area ex Cirio di Castellammare. La Procura di Torre Annunziata ne ha chiesto l’arresto sul quale sarà la Camera a pronunciarsi. Su Facebook Teresa Manzo, deputata del M5S e originaria di Castellammare al pari di Pentangelo, ha detto che il collega “avrà modo di chiarire la sua posizione”. Tanto è bastato perché Manzo venisse travolta dalle invettive degli attivisti del Movimento. Ogniqualvolta vi è un arresto “eccellente” – in modo particolare se si stratta di uomini della politica o delle istituzioni – riemergono come un mantra i rigurgiti giustizialisti che inquinano il dibattito pubblico da almeno tre decenni. Ormai, ad eccezione degli avvocati penalisti e di non molti altri garantisti che con pazienza, energia e passione continuano a difendere i capisaldi della democrazia costituzionale, la folla indistinta sembra volere la gogna, la pena esemplare e possibilmente perpetua. Le ragioni di questo decadimento culturale, politico e soprattutto etico sono molteplici e non tutte sufficientemente esplorate (manca, ad esempio, un’analisi seria e rigorosa sul perché, in questo determinato momento storico, le istanze punitive e securitarie facciano così tanto presa sulla pubblica opinione, mentre i principi garantisti siano quasi del tutto oscurati, non potendosi addebitare ogni colpa soltanto alla politica inetta o all’informazione, come si dice, embedded). Senza dubbio la responsabilità di questa esplosione compiaciuta delle pulsioni giustizialiste è, in parte rilevante, della politica. Non solo e non tanto perché in molte occasioni singoli esponenti o interi gruppi politici hanno dato pessima prova di sé, indugiando in comportamenti non consoni ai ruoli ricoperti e talvolta commettendo veri e propri reati. Ma soprattutto la politica – che può essere la più alta tra le “arti” umane – ha, e non soltanto in Italia, abdicato al suo ruolo essenziale: favorire i cittadini ad esprimere la propria personalità, le proprie capacità ed i propri talenti, rimuovendo quegli ostacoli che impediscono a ciascuno di realizzare il massimo delle sue possibilità. Sì, sto parlando proprio di quell’articolo 3 della Costituzione che deve costituire la bussola essenziale dell’agire politico e, nel contempo, la stessa ragione fondativa di una democrazia costituzionale. Ormai la politica si cura sempre meno di abbattere quegli ostacoli, di consentire ai cittadini di avere ciascuno pari e concrete possibilità. Venuto meno nel suo compito essenziale, il potere prova a celare le proprie gravi inadempienze con la terribilità dei poteri punitivi, con i tribunali, con le carceri, affermando attraverso l’uso distorto della giustizia penale – vera e propria scorciatoia del consenso – la sua stessa legittimazione. Si entra così in un circolo vizioso in cui, la macchina infernale repressiva in parte creata dalla stessa politica finisce per fagocitare il suo stesso creatore. Il tutto amplificato dalla cassa di risonanza di molti mezzi di informazione – il famigerato circuito mediatico-giudiziario – che sovente abdicano al loro ruolo di “cani da guardia della democrazia”. Da questo punto di vista viviamo indubbiamente in un’epoca oscura se finanche le esortazioni e l’attivismo del Papa sul tema restano lettera morta o addirittura sono oggetto di dure critiche che mai in passato avevano interessato la figura del Santo Padre. In questo contesto, va tuttavia registrata la recente dichiarazione di Teresa Manzo, deputata del M5S che, nel commentare la richiesta di arresto dei parlamentari di Forza Italia Luigi Cesaro e Antonio Pentangelo, si è augurata che i due esponenti politici sapranno chiarire le proprie posizioni, riconoscendo al Parlamento il ruolo di difensore dei principi garantisti su cui si fonda la nostra Repubblica. Parole semplici, rispettose dei principi costituzionali che, tuttavia, oggi addirittura appaiono quasi come una rivoluzione culturale, un cambio di paradigma. L’auspicio è che simili parole, nel rispetto degli accertamenti giurisdizionali, diventino la normalità e che la presunzione di innocenza valga sempre per tutti gli indagati, di tutti i ceti sociali.
Da huffingtonpost.it il 29 maggio 2020. “L’errore italiano è stato sempre quello di dire aspettiamo le sentenze”. Così Piercamillo Davigo, ospite a Piazza Pulita, La7, accusato di giustizialismo. “Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”, ha aggiunto il togato del Csm. Davigo ha commentato il caso Palamara difendendo la gran parte dei magistrati non coinvolti dalle intercettazioni. “La maggior parte dei magistrati italiani è perbene, poi ce ne sono ‘permale’, il compito è distinguere”, ha detto. “Ho difficoltà a parlare di casi singoli perché altrimenti mi ricusano”, ha affermato Davigo (che fa parte del collegio disciplinare di Palazzo dei Marescialli) sottolineando che “la sezione disciplinare non può procedere d’ufficio, ma viene investita da richieste. La procura generale sta lavorando su un immenso materiale, se e quando arriveranno richieste, giudicheremo”. Quindi, l’ex magistrato di Mani pulite, ha raccontato un episodio: “Una sera ho partecipato a un dibattito qui a Roma, tra i relatori c’era Palamara: alla fine ho chiesto quale mezzo pubblico passasse di lì, lui ha sentito e mi ha dato un passaggio. Immagino avesse già il trojan attivato, ma non ci sono intercettazioni contro di me, perché io non faccio queste cose, e come me migliaia di magistrati seri non le fanno”.
Il "manifesto" del magistrato. La giustizia secondo Davigo: “L’errore italiano è dire aspettiamo le sentenze”. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2020. “L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”. Sono le parole del magistrato Piercamillo Davigo, ospite giovedì sera della trasmissione di La7 Piazzapulita, che hanno alzato un vero e proprio polverone. Il membro del Csm conferma così la sua nota visione della giustizia. Per ribadire il concetto Davigo, che si è confrontato con Gian Domenico Caiazza, il presidente dell’Unione delle Camere penali, ha fatto due esempi. “Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, per invitarlo a cena non sono costretto ad aspettare la sentenza della Cassazione. Smetto subito di invitarlo a cena”, ha detto il magistrato. Ma non solo. Davigo fa un secondo esempio ancor più grave: “Se il mio vicino di casa è stato condannato solo in primo grado per pedofilia, io in omaggio della presunzione di innocenza gli affido mia figlia di sei anni affinché l’accompagni a scuola? No, perché la giustizia è una virtù cardinale, ma anche la prudenza è una virtù cardinale. Il punto è: se l’opinione pubblica e soprattutto la politica decidesse autonomamente, non ci sarebbe tutta questa tensione sulla magistratura”. L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo.
Palamara, Edmondo Bruti Liberati contro Piercamillo Davigo: "Concetti giusti ma espressi male". Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. "Ha detto in modo sbagliato una cosa giusta, ma non spetta mai alla magistratura dare una valutazione sulla moralità politica". L'ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati bacchetta Piercamillo Davigo e le sue parole sul caso Palamare e, in una intervista a Repubblica, Bruti Liberati spiega il perché non sia d'accordo sulla frase di Davigo che ha scatenato le polemiche ("Non si dimette mai nessuno per la notizia di essere indagato, l'errore italiano è aspettare le sentenze"). "Davigo dice: una cosa è la responsabilità penale, altra e diversa quella politica", spiega Bruti Liberati, "che può indurre a dimissioni a prescindere dagli esiti giudiziari. Tenere distinti i due aspetti è un principio garantista e rispettoso della presunzione di innocenza. Il problema è che Davigo si lascia talora trascinare dall'amore per la frase a effetto, a rischio che il contenuto sia inteso all'opposto. Nei talk show buttarsi nella polemica e indulgere alle battute brillanti crea solo confusione", lo bacchetta Bruti Liberati.
Maraco Travaglio, il direttore del Fatto ricorda come nacque la sua "infatuazione" professionale per Piercamillo Davigo. Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. Marco Travaglio, nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, racconta del suo colpo di fulmine per Piercamillo Davigo, il famoso pm del pool di Mani Pulite assieme a Antonio Di Pietro e Gherardo Colobo. Il giornalista ricorda, "la prima volta che conobbi Piercamillo Davigo era il 1997: presentavamo a Milano il mio libro-intervista al procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena Meno grazia, più giustizia, a cui aveva scritto la prefazione. Era ancora pm del pool Mani Pulite. Il suo intervento fu uno show di battute taglienti e aforismi fulminanti, come quelli a cui poi assistetti negli anni successivi in tanti convegni e dibattiti insieme". Travaglio poi spiega cosa lo ha fatto appassionare alle tesi del magistrato. Pensieri e tesi con cui ha poi costruito anche la sua fortunata carriera gionalistica: "La frase che più mi colpì illuminava la differenza fra responsabilità penale e responsabilità politico-morale: la prima la appura la magistratura, nei modi, nei tempi (biblici) e nei limiti previsti dalla legge; la seconda la accerta chiunque legga le carte giudiziarie, quando emergono fatti incontrovertibili (confessioni, intercettazioni, filmati, documenti, testimonianze oculari) che dimostrano una condotta sconveniente e consentono di farsi subito un'idea sulla correttezza o meno dell'autore. Che, se è un pubblico ufficiale, deve adempiere le sue funzioni "con disciplina e onore" (art. 54 della Costituzione), può essere tranquillamente dimissionato su due piedi, senza attendere la sentenza definitiva. Per spiegare questa fondamentale differenza, Davigo se ne uscì con uno dei suoi cavalli di battaglia: 'Se vedo il mio vicino uscire da casa mia con la mia argenteria in tasca, non aspetto la condanna in Cassazione per smettere di invitarlo a cena. E non lo invito più nemmeno se poi lo assolvono. Non è giustizialismo: è prudenza'".
Le barzellette da brividi di Piercamillo Davigo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Senza il pubblico in sala è tutta un’altra cosa, anche se l’arbitro continua a pendere da una parte come la torre di Pisa. Così Piercamillo Davigo nella partita di ritorno del match contro l’avvocato Gian Domenico Caiazza non prova neanche a portare a casa il punto. È già uscito soccombente nella partita di andata, lo scorso due febbraio, pur giocando in casa, con ventidue giocatori contro undici e il pubblico e l’arbitro dalla sua. Non rinuncia comunque a fare le faccine e a roteare le braccia, pur se verso il nulla, perché il pubblico è solo quello del divano di casa. Per non farci annoiare qualche barzelletta ce l’ha comunque concessa giovedì sera su La7 all’ultima puntata di stagione di Piazza Pulita condotta da Corrado Formigli. Che il “dottor sottile” di Mani Pulite abbia insofferenza nei confronti del processo e ancor di più verso le sentenze lo sapevamo. Ma non lo aveva detto mai in maniera così chiara: «L’errore italiano è dire aspettiamo le sentenze». Fa il furbo, ricordando che negli Stati Uniti i processi sono pochissimi perché in genere l’imputato patteggia prima e rinuncia al dibattimento. Con pazienza certosina l’avvocato Caiazza glielo ha già spiegato che in Usa non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e che in Italia comunque le pene patteggiabili sono solo quelle al di sotto dei cinque anni. Ma lui ribadisce, e non è che non capisca (ha reputazione di ferrea preparazione giuridica), è che proprio lui vorrebbe ogni volta avere tra le mani l’imputato nudo e crudo, possibilmente privo di difensore, che si inchina, chiede scusa e se ne va difilato in galera. In modo che il bene trionfi sul male. E giustizia sia fatta. Così, mentre l’avvocato Caiazza, che come sempre non cerca l’applauso (che in questo caso non potrebbe esserci per mancanza di materiale umano) cerca di spiegare che ormai siamo in presenza di veri squilibri costituzionali, con una pervasività massiccia dei Pubblici Ministeri nell’amministrazione della giustizia, tant’è che si finisce con il giudicare sulla base delle indagini piuttosto che della sentenza, Davigo coglie l’occasione per passare alla sua veste preferita, quella di intrattenitore umoristico. La prima barzelletta è quasi casta. «Se invito a cena il mio vicino di casa – narra – e al termine lo vedo andarsene con le tasche piene di argenteria, devo aspettare la sentenza della Cassazione per sapere che lui è un ladro e non invitarlo più?». Caiazza cerca invano di spostare il discorso sulla necessità di riforme strutturali, prima di tutto la separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa, cioè i pubblici ministeri. Non perde neanche il tempo a spiegare che, relativamente al vicino di casa di Davigo, tanti possono essere i dubbi. Siamo sicuri che il magistrato lo abbia veramente visto con la tasche piene di argenteria? E gli oggetti erano stati davvero trafugati ed erano davvero di proprietà di Davigo e non del vicino stesso? E se per caso si fosse trattato di uno scherzo? No, perché per il “dottor sottile”, «gli indizi sono dati oggettivi», confermando in questo modo quel che aveva detto l’avvocato Caiazza. In fondo basta poco per condannare, o rovinare una reputazione, nel bel mondo di Davigo e Travaglio. Così, dopo la barzelletta “casta” si può agevolmente passare a quella osé. Pericolosa, potremmo dire, dopo le vicende di Bibbiano. L’ex pm di Mani Pulite deve avere un vicino di casa che gli sta molto antipatico. Eccolo infatti protagonista di qualcosa di ben più grave di un furto in appartamento. Lo immaginiamo sul pianerottolo dopo che è stato inquisito per pedofilia e Davigo che scappa giù dalle scale trascinando con sé la propria bambina. «Volete che affidi mia figlia a un pedofilo?» Sentenzia. Ecco il mondo di Davigo: indizi e crocifissioni definitive. Che bisogno c’è della Cassazione e prima ancora dell’appello e del processo di primo grado e di un rinvio a giudizio? Se il Presidente degli avvocati gli fa notare quel che è sotto gli occhi di tutti, e cioè che Luca Palamara è visto come il rappresentante di una magistratura che ha da tempo esondato in un ruolo politico, Davigo si limita a rispondergli che la sua è una visione “da fantascienza”. E se si pone il problema di quei 200 magistrati che occupano i ministeri, con una bella contraddizione sulla divisione dei poteri, lui replica che i ministri hanno bisogno di tecnici. «Anche noi avvocati siamo tecnici»; «Lo dica al ministro», e qui il tono si fa leggermente beffardo. Separare le carriere? E perché mai, visto che l’ordinamento italiano è il migliore del mondo e tutti ce lo invidiano. Infatti, potremmo concludere, nessuno ce lo ha mai copiato. Non esiste una questione giustizia nel nostro Paese, a quanto pare. Si abbassa il sipario, anche sulle barzellette. Siamo passati da «il sospetto è l’anticamera della verità» a «gli indizi sono dati oggettivi». Da padre Pintacuda e Leoluca Orlando a Travaglio e Davigo.
L’appello di Cartabia: “La Costituzione è la bussola, il sacrificio dei diritti sia proporzionato e temporaneo”. Il Dubbio il 28 aprile 2020. La relazione della presidente della Corte costituzionale: “Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività”. “La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza. La Costituzione, infatti, non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”. E’ uno dei passaggi della relazione della presidente Marta Cartabia sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, in cui si possono leggere le principali linee di tendenza della giurisprudenza costituzionale. La relazione integrale (con gli allegati), da oggi sul sito online della Corte costituzionale, insieme a una versione ridotta, anche in Podcast: “Il nuovo anno – osserva la presidente della Consulta – è stato aperto da una contingenza davvero inedita e imprevedibile, contrassegnata dall’emergenza, dall’urgenza di assicurare una tutela prioritaria alla vita, alla integrità fisica e alla salute delle persone anche con il necessario temporaneo sacrificio di altri diritti”. La Costituzione, ricorda Cartabia, “non è insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di emergenza, di crisi, o di straordinaria necessità e urgenza, come recita l’articolo 77 della Costituzione in materia di decreti-legge. La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi, dagli anni della lotta armata a quelli più recenti della crisi economica e finanziaria, e tutti sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando al suo interno – sottolinea – gli strumenti idonei a modulare i principi costituzionali in base alle specifiche contingenze: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela “sistemica e non frazionata” dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ponderando la tutela di ciascuno di essi con i relativi limiti”. Un pensiero di sentita partecipazione al dolore per la scomparsa di migliaia di nostri concittadini” e di “sincera gratitudine per tutti coloro, e penso in particolar modo al personale medico e infermieristico, che in questo non facile frangente assicurano i servizi essenziali della Repubblica con competenza, coraggio e generosità”, aggiunge la presidente Cartabia che, lo scorso 30 marzo, era risultata positiva al test sul coronavirus, poi guarita nei giorni scorsi. “Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete”, spiega Cartabia proprio nei giorni in cui i giudici di sorveglianza sono al centro di polemiche per le scarcerazioni di boss della mafia.
«Chi è molto malato deve uscire dal carcere. Anche se è accusato di mafia. Lo dice la nostra Costituzione”». Valentina Stella su Il Dubbio il 28 aprile 2020. Brandimarte, ex Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto: “Il differimento di una pena per grave infermità fisica è una misura che riguarda indistintamente tutti i detenuti e risponde all’esigenza di salvaguardare un diritto soggettivo primario tutelato dalla Costituzione, quello alla salute”. «Il sergente Marco Galli, interpretato da Raf Vallone, nel film del 1949 Riso amaro diceva “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”». Questo riferimento cinematografico è uno dei passaggi migliori di questa nostra intervista a Massimo Brandimarte, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Taranto. Lo abbiamo contattato per commentare le polemiche nate a seguito della concessione dei domiciliari a Pasquale Zagaria decisa per motivi di salute da parte del Tribunale di Sorveglianza di Sassari.
Cosa pensa di tutte queste polemiche?
«È giusto che se ne parli perché la giustizia è amministrata in nome del popolo. Ma se poi il dibattito deve trasformarsi in uno scarica barile non serve a niente. Per giudicare bisogna conoscere i fatti. Ma soprattutto esistono dei principi cardine dell’ordinamento penitenziario: il differimento di una pena per grave infermità fisica è una misura che riguarda indistintamente tutti i detenuti, indipendentemente dal reato commesso, e risponde all’esigenza di salvaguardare un diritto soggettivo primario tutelato dalla Costituzione, quello alla salute. L’altro principio secondo me importante è che tutte le misure alternative al carcere sono dinamiche: oggi posso ritenere che ci sia una situazione tale da dover predisporre i domiciliari, ma se domani la situazione cambia posso tornare indietro sulla mia decisione. Poi c’è il principio dell’autoresponsabilità del magistrato: qualunque magistrato nel momento in cui ha preso una decisione ponderata e vagliata può stare tranquillo senza temere nulla».
A lei è mai capitato di non ricevere risposte dal Dap?
«In merito a possibili trasferimenti di detenuti, capitava spesso che il Dap rispondesse in ritardo o non rispondesse proprio. Il Dap è comunque una grande struttura burocratica e credo che il capo del Dipartimento non possa interessarsi di ogni singolo caso. Comunque quando ero in servizio, per i casi urgenti alzavamo il telefono per sentire direttamente i funzionari del Dap. E se non c’era risposta, io mi rivolgevo direttamente al ministro, perché i magistrati di sorveglianza rispondono direttamente a lui».
Il ministro Bonafede sta valutando di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative ad istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia.
«Credo che sia un modo per cautelarsi a futura memoria. La mia esperienza mi dice che questi organismi investigativi sicuramente possono fornire elementi di valutazione di primissimo ordine. Sarebbero fondamentali. Il fatto è che le informazioni che andrebbero a fornire, essendo di carattere investigativo e non giudiziario, potrebbero avere una forza prevalente rispetto all’elemento che bisogna considerare in questi casi che è quello della salute che è appannaggio del magistrato di sorveglianza. Quindi potrebbe diventare una forzatura che andrebbe ad inficiare la tutela del diritto alla salute, specialmente se il magistrato di sorveglianza che deve decidere non è esageratamente coraggioso».
Quindi potrebbe minare l’indipendenza della magistratura di sorveglianza.
«Da un punto di vista legale assolutamente no. Da un punto di vista psicologico il pericolo potrebbe essere una certa pressione che si andrebbe a riflettere nei confronti del Tribunale di Sorveglianza».
Lei che soluzione propone?
«Si potrebbe ricomporre il quadro con armonia e tranquillità senza scaraventare colpe nei confronti di qualcun altro. Tutti lavorano al servizio della giustizia. Se c’è stata una valutazione non del tutto perfetta si può ricominciare dall’inizio, si può rivedere la decisione. Mi piacerebbe che tra tutti tornasse la concordia e mi aspetterei che da parte degli organi requirenti, cioè la Procura Generale, si acquisissero degli elementi seri e fondati, che una volta comunicati ai Tribunali di Sorveglianza possano servire per far riesaminare i casi».
In questi giorni Di Matteo, Ardita, Maresca, De Raho hanno rilasciato numerose interviste dicendo che lo Stato è debole, cede al ricatto dei mafiosi. Ne esce una magistratura debole e irrispettosa delle vittime di mafia.
«Queste prese di posizione possono avere un effetto boomerang perché si riflettono in negativo sulla indipendenza di tutta la magistratura. Credo che a nessuno convenga avere una magistratura di sorveglianza che sia avvolta dal timore di dover prendere certe decisioni giuste ma che non le prende perché ha paura di assumere provvedimenti impopolari».
Quando si parla di 41 bis, è facile dipingere tutti i detenuti come mostri, come mafiosi sanguinari tralasciando le singole storie processuali e anche i possibili percorsi rieducativi fatti in tanti anni di carcere.
«Bisogna parlare con dati alla mano e non come se stessimo al bar dello sport. Parlare in maniera generica agevola le confusioni: ci può essere un boss che non si è mai macchiato di reati di sangue come Pasquale Zagaria. Ogni posizione va valutata singolarmente. E poi come diceva il sergente Marco Galli, interpretato da Raf Vallone, nel film Riso amaro, “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”».
“Csm mi mette alla gogna, alcuni Pm intoccabili”, il grido del consigliere Lanzi. Paolo Comi de Il Riformista il 23 Aprile 2020. «Siamo alle solite: in questo Paese quando si toccano certe Procure si attiva immediatamente una rete di protezione», dichiara Alessio Lanzi, il consigliere del Csm in quota Forza Italia finito ieri mattina nel mirino dei togati di Area, il gruppo di sinistra della magistratura associata. Casus belli, una intervista rilasciata dal professore milanese di diritto penale al quotidiano La Stampa dove si stigmatizzava la spettacolarizzazione con cui la Procura milanese sta conducendo le indagini sui decessi per Covid-19 nelle case di riposo. «C’è un attacco strumentale al modello politico di centrodestra della Regione Lombardia», aveva affermato Lanzi, criticando il modus operandi dei pm milanesi: «La perquisizione del Pirellone è avvenuta in diretta tv: se si vogliono acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità». Parole che hanno immediatamente scatenato la durissima reazione di Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e attuale capo delegazione di Area a Palazzo dei Marescialli. «Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente», l’attacco di Cascini, secondo cui il professore forzista avrebbe dovuto «evitare di avventurarsi in una polemica così fuori luogo e fuori tempo». Per poi aggiungere: se Lanzi non smentisce le «dichiarazioni rese, oggi chiederemo l’apertura di una pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano». La risposta di Lanzi non si è fatta attendere: «Premesso che il Csm non è l’Anm, io non ho mai delegittimato nessuno. Nelle mie parole non c’è nessun attacco alla magistratura, ma opinioni espresse nell’ambito della libera manifestazione del pensiero. Credo sia anche questo il compito di un consigliere laico». Ma non solo: «Trovo veramente stucchevole questo doppipesismo da parte di certi magistrati per i quali quando si critica il centrodestra va sempre bene tutto». «La dichiarazione del Consigliere Cascini – ha sottolineato Lanzi – è un atto politico; la critica dovrebbe intervenire unicamente sul merito delle mie dichiarazioni». Quindi la stoccata: «Il consigliere Nino Di Matteo ha attaccato durante il Tribunale di sorveglianza che questa settimana ha scarcerato per motivi di salute un boss detenuto al 41 bis (l’ottantenne Francesco Bonura, ex capo mandamento dell’Uditore di Palermo, ndr), affermando che «lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. Bene, perché nessuno ha espresso solidarietà all’ufficio di sorveglianza di Milano?». «Io ho voluto solo evidenziare che è in atto, soprattutto da parte di alcuni organi d’informazione, una campagna mediatica violentissima contro la Lombardia. Ci sono tanti dibattiti televisivi mirati con personaggi che sparano sentenze senza conoscere nulla e dove passano sotto silenzio comportamenti analoghi in altre regioni», aggiunge il professore milanese. «E nessuno – ricorda – ha commentato la divulgazione anticipata dei provvedimenti dello scorso otto marzo che ha determinato un assalto ai treni favorendo la diffusione del contagio dal Nord al Sud». Insomma, un film già visto che ci riporta agli anni “spumeggianti” del primo berlusconismo: alcuni uffici giudiziari si possono criticare altri no. Fra quelli per tradizione non criticabili, la Procura di Milano, ‘feudo’ storico della magistratura di sinistra. Dal Procuratore Francesco Greco all’ultimo degli aggiunti, esponenti storici delle toghe progressiste. Tiziana Siciliano, il procuratore aggiunto che sta conducendo le indagini sulle morti nelle Rsa, si era anche candidata, poi non eletta, alle ultime elezioni del Csm nelle liste di Area. «Comunque ho ricevuto tante telefonate e messaggi di solidarietà e vicinanza. Anche da parte di diversi magistrati», conclude soddisfatto Lanzi.
L’appello degli avvocati per i magistrati controcorrente: “Lasciati soli dal governo”. Redazione de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Mentre la pandemia imperversa e diffonde in ciascuno di noi un senso profondo di fragilità e di insicurezza, una informazione deformante esaspera gli animi scossi ed in modo subdolo e strisciante fomenta la paura. Da giorni i Magistrati, lasciati soli da un Governo immobile a custodire la vita delle persone nelle carceri, subiscono gravi attacchi che menomano la loro libertà e indipendenza, che vulnerano la separazione tra poteri dello Stato, che ledono l’essenza stessa della nostra Carta Costituzionale. Non sono eroi né martiri i Giudici che decidono di disporre gli arresti o la detenzione domiciliari per quelle persone ristrette gravemente malate o molto anziane la cui vita sarebbe a rischio in caso di contagio da Covid. Sono tutori della legge, applicano la legge, eseguono il loro sacro mandato costituzionale. Siamo accanto a loro, a chi ha rispetto del proprio compito di garanzia della vita, di qualunque individuo,come valore assoluto cui ogni altro presidio sociale cede il passo, a chi non teme le commissioni di inchiesta scatenate da pulsioni giustizialiste perché sa di avere agito in coscienza nel rigore della sua alta funzione. Maria Brucale, Stefano Giordano, Michele Passione, Maria Luisa Crotti, Daniele Caprara, Andrea Mitresi, Andrea Niccolai, Stefania Amato, Andrea Vigani, Pasquale Bronzo, Antonella Calcaterra, Michele Sbezzi, Luisa Brucale, Lina Caraceni, Monica Gambirasio, Monica Murru, Viviana Torreggiani, Annamaria Marin, Fabio Varone, Dario Lunardon, Massimo Brigati, Andrea de Bertolini, Valentina Alberta, Luana Granozio, Attilio Villa, Andrea Cavaliere, Enrico Pelillo, Ivan Vaccari, Marina Cenciotti, Claudia Prioreschi, Francesca Garzia, Annamaria Alborghetti, Mauro Danielli, Valentina Tuccari, Renata Petrillo, Marco Palmieri, Francesco Tagliaferri, Massimiliano Annetta, Marco Siracusa, Valerio Spigarelli, Maria Mercedes Pisani, Enrico Faragona, Turi Liotta, Costanza Tancredi, Roberta Boccadamo, Giuliana Falaguerra, Patrizia Bonaccorsi, Marika Rossetti, Teresa Loriga.
Che scandalo il silenzio sulle parole del Pm Di Matteo. Gian Domenico Caiazza de Il Riformista il 25 Aprile 2020. La polemica pretestuosa e mistificatoria sulla scarcerazione per gravissime e conclamate ragioni di salute, di un detenuto per fatti di mafia, peraltro anticipatoria solo di pochi mesi della totale espiazione di una pesante pena detentiva, ha di gran lunga superato i limiti della decenza. L’Unione delle Camere penali ha già espresso solidarietà e vicinanza ai giudici di Sorveglianza di Milano, fatti oggetto di questa indegna gazzarra. Ma il vero scandalo è il silenzio calato sulle parole del dott. Di Matteo, membro del Csm, che liquida lo scrupoloso lavoro dei suoi colleghi milanesi come cedimento dello Stato al ricatto mafioso delle rivolte carcerarie, senza che nessuno abbia nulla da dire. Un silenzio tanto più scandaloso nel giorno in cui dallo stesso Csm provengono censure sulle valutazioni espresse, in modo certamente meno scomposto, da un membro laico dello stesso organismo, su altri magistrati milanesi, ma questa volta appartenenti all’Ufficio di Procura. Il nostro è proprio il paese dei due pesi e delle due misure, purtroppo.
Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Domani è il compleanno di Nino Di Matteo. E’ nato a Palermo il 26 aprile del 1961. Quell’anno Leonardo Sciascia compiva sessant’anni e pubblicava Il giorno della civetta, il romanzo che, sotto le vesti del poliziesco, svelò al mondo quel che lo Stato ancora nascondeva, l’esistenza della mafia. I compleanni, specie dopo una certa età, e a maggior ragione se le candeline poco riescono a illuminare il buio dei giorni difficili come quello dell’oggi infestato dal virus, sono spesso momento di riflessione. Il momento in cui si fa il punto della situazione. Del magistrato Di Matteo si dice sempre che era giovane, che era troppo giovane per potersi assumere responsabilità, per esempio sulla più grande falsificazione della storia, la costruzione a tavolino di un falso pentito di mafia, quel tal Scarantino, “convinto” alla calunnia da un carcere speciale dove si torturavano i detenuti. Era sicuramente giovane quel 10 gennaio del 1987 (entrerà in magistratura nel 1991), quando sul Corriere della sera uscì l’articolo di Sciascia sui “professionisti”, coloro che, in politica come nella magistratura e nel giornalismo, si pavoneggiavano sul palcoscenico dell’antimafia di facciata. Era sicuramente troppo giovane per mettersi al riparo della tentazione di diventare “professionista” e anche “antimafia”. Quindi sarebbe stato al fianco di coloro che, punti sul vivo, prepararono il rogo allo scrittore di Racalmuto. Quelli come il sindaco Leoluca Orlando, per intenderci. Coloro che, con l’eroismo di chi sta sempre da un’altra parte quando c’è da combattere, si fregiano del titolo dell’”antimafia”, e questo loro basta. Certo, quel tipo di vanità non manca, al giovane Di Matteo, e neppure la parola pronta. Lo ha dimostrato in questi ultimi giorni, quando ha accusato lo Stato di «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». Una frase roboante e fuori proporzione rispetto al semplice fatto che una sua collega magistrato del tribunale di sorveglianza di Milano avesse disposto gli arresti domiciliari per un vecchio boss malato. Se il compleanno di domani sarà occasione per rivedere un po’ della sua vita, forse gli bruceranno le parole di Fiammetta Borsellino, figlia di un magistrato ucciso dalla mafia cui lui e i suoi colleghi non hanno saputo dare giustizia. Perché sarà anche stato giovane nel 1992 e nel 1993 e nel 1994, il dottor Di Matteo, ma il processo-farsa è andato avanti con la sua presenza fino al 2017, fino a quando non i giudici, ma un “pentito” di nome Spatuzza gli ha risolto il caso. Risolto per modo di dire, perché dopo la morte di Borsellino è stata buttata nel cestino l’inchiesta mafia-appalti, probabile movente dell’uccisione del magistrato. Su cui neppure lei, dottor Di Matteo, neanche nelle sue tante interviste, ha mai mostrato curiosità. O forse ricorderà quando sognava di diventare ministro, intorno al 2018, e non escludeva di poter entrare in politica mentre in politica c’era già, con l’evanescenza delle sue dichiarazioni e la realtà di due fallimenti processuali. Non aver saputo contribuire, insieme ai suoi colleghi, a fare giustizia per Borsellino, e aver puntato tutte le sue fiches su quel processo Stato-mafia che si sta sgretolando un pezzetto per volta. Ogni tanto, mentre ripensa alla sua vita, vada a rileggere le 500 pagine della sua collega giudice Marzia Petruzzella, quella che prima ha assolto Calogero Mannino e che aveva liquidato tutta la vostra inchiesta come “fantasiosa storiografia” e ricerca accanita di inesistenti complotti. Complotti già archiviati nel 2001, nel 2002 e ancora nel 2003 e nel 2004. E poi, di pensiero in pensiero, ne rivolga uno anche a Silvio Berlusconi che lei ritiene di poter calunniare ogni volta in cui rilascia un’intervista. Cioè continuamente. Lei crede veramente che Marcello Dell’Utri, condannato per un reato che non esiste nel codice, fosse “garante” per conto della mafia nei confronti di un presidente del consiglio vittima di un ricatto? Non può crederlo, eppure lo dice. Il suo mantra è sempre lo stesso. Nella sua visione da “professionista” c’è sempre il “cedimento dello Stato che subisce un ricatto”, oppure lo Stato che tratta con la mafia. Ma chi è “Lo Stato” nella sua fantasia? Lo Stato sono tutti gli altri. I colpevoli. Mentre lei non ha mai peccato. Così si ribaltano le responsabilità, quando nel 2018 si è convocati davanti al Csm e dopo le accuse della famiglia Borsellino, si può impunemente affermare che lei non c’era, che era giovane e che comunque i parenti della vittima sono stati “strumentalizzati”. Così non si è fatto niente di male quando si parla a ruota libera e per 42 minuti in una trasmissione televisiva parlando di indagini in corso sulle stragi e rivelando qualche particolare di troppo. E quando il capo dell’Antimafia ti caccia per la caduta del rapporto di fiducia, tu puoi fare spallucce e riuscire, per un fortuito caso di dimissioni di colleghi e con l’aiuto dell’amico Davigo, a infilarti al Consiglio Superiore della magistratura. Ma anche da lì continuare a farsi “professionista”. E parlare. Anche contro il governo che cerca timidamente di sfollare un pochino le carceri per impedire le stragi da coronavirus. Forse è arrivato il momento di riflettere, dottor Di Matteo. Ministro non è diventato, e vista la triste situazione del Movimento cinque stelle, difficilmente lo diventerà. Le sue interviste –ripetitive e noiose, diciamo la verità- ormai escono solo sul Fatto quotidiano. I maxiprocessi sono ormai nell’ombra. Non sarebbe ora di fare il semplice magistrato che non lotta, che non è “anti”, ma si limita a fare indagini in silenzio e a onorare la toga che indossa? Buon compleanno, Nino Di Matteo. E rilegga Sciascia, ogni tanto. C’è sempre da imparare.
Passato remoto. Michele Passione de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Nei giorni scorsi un Magistrato di Sorveglianza milanese è stato scompostamente attaccato, inverando la realtà, per aver concesso la detenzione domiciliare ad un detenuto gravemente malato cui mancavano pochi mesi al fine pena. Ovviamente, pur essendo stato applicato l’art.47 ter, comma 1 ter o.p., e sebbene sussistessero tutti i requisiti di legge (e di umanità), si è sostenuto che la decisione è un favore alla Mafia, una cessione dello Stato, il frutto dei provvedimenti governativi, e altre amenità del genere. Invece, qualche giorno dopo, ecco che arrivano due provvedimenti di segno opposto, sui quali nessuno fa sentire la sua voce.
Lo facciamo qui. Col primo, il Magistrato di Sorveglianza di Verona ha respinto analoga richiesta (anni tre di reclusione), malgrado la dichiarazione di incompatibilità al regime detentivo del condannato, trasmessa dal Direttore della Casa Circondariale, attesa l’allegazione sanitaria dalla quale risulta che il condannato è risultato positivo alla SARS – CoV2. Nell’occorso, si segnalava l’asintomaticità dell’interessato, il pericolo di insorgenza repentina di insufficienza respiratoria anche grave che non è certamente gestibile in carcere, l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale, dal che consegue una seria minaccia per la salute degli altri detenuti, della polizia penitenziaria e degli altri operatori in genere.
Testuale. A tali considerazioni il Magistrato ha opposto come non sia scontato che la grave infermità sopraggiunga, a causa dell’asintomaticità, e che comunque una eventuale crisi respiratoria risulta meglio fronteggiabile in carcere che non al domicilio, laddove un soggetto abitasse da solo e non fosse perciò in grado di chiamare l’ambulanza. La normativa evocata, ancora, sarebbe posta a tutela della salute del condannato, e non della salute di altri. Una strana concezione della salute come bene pubblico, nel dispregio assoluto sul punto dei dicta convenzionali, che impongono l’apprestarsi di tutele in via preventiva a salvaguardia della salute. L’art.3 della C.edu è diritto inderogabile, uno dei quattro core rights cui non è consentito mai fare eccezione, neanche in tempo di guerra.
Ancora. Il Magistrato di Sorveglianza di Bari ha dichiarato inammissibile l’istanza di detenzione domiciliare proposta negli stessi termini, con specifico riferimento all’esigenza di contenere i rischi connessi alla diffusione del Covid – 19, nella quale erano diffusamente segnalate le comorbilità del detenuto, i precedenti giurisprudenziali ammissivi di analoghe richieste, le indicazioni dell’OMS, la corretta lettura del bene della salute, presidiato dalla Carta costituzionale e da quella di Nizza.
Motivo: l’assenza di firma digitale da parte del difensore. Inutile segnalare che neanche il protocollo del Primo Presidente della Suprema Corte per l’invio degli atti prevede ciò, e così anche il decreto della Presidente della Corte Costituzionale. Un’istanza trasmessa via pec, firmata dal difensore, allegata in pdf, con procura speciale del detenuto. E vogliono il processo in remoto. Di remoto c’è un retrogusto di vuoto; di umanità, di empatia, di lungimiranza.
Domiciliari ai boss: lo Stato di Diritto vittima degli attacchi mediatici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2020. Dovrebbe arrivare giovedì in Consiglio dei ministri la stretta del ministro della Giustizia che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. I mass media hanno fatto la loro parte e alla fine dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri giovedì la stretta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla concessione degli arresti domiciliari, che punta a coinvolgere la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Il culmine del bombardamento mediatico è stato raggiunto con la trasmissione “Non è l’arena”, condotta da Massimo Giletti. Un programma tv dove sono stati invitati al dibattito tutte persone che sulla questione hanno un’opinione simile (non erano presenti né giuristi, né magistrati di sorveglianza e nemmeno il Garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto, però, la sfortuna di diventare capro espiatorio del presunto scandalo.
Tutto è partito da un articolo de L’Espresso relativo ai domiciliari per motivi di salute concessi a un recluso al 41 bis. Parliamo di Francesco Bonura, passato dal regime speciale alla detenzione domestica nei giorni scorsi proprio per le sue gravi condizioni. Un provvedimento della magistratura di sorveglianza limpido e motivato. Ma si è fatto leva sull’emotività e anche sull’ignoranza del tema per creare polemiche. A questo si è aggiunta anche il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria. Eppure anche questo provvedimento non dovrebbe rappresentare nulla di scandaloso visto che, alla luce dei principi costituzionali, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha concluso ritenendo sussistenti i presupposti di operatività dell’articolo 147 c. 1 n. 2 c.p. – tali da giustificare il differimento della pena per grave infermità fisica – essendosi in presenza di una patologia grave e qualificata che richiede al detenuto un iter diagnostico e terapeutico che viene definito “indifferibile”. Come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, il differimento della pena è dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati. Alla luce di ciò, «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza – equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano». Ma oramai la valanga ingiustificata di indignazioni ha sortito i suoi effetti. Il ministro Bonafede, per assecondare gli animi, ha promesso che farà di tutto per rendere più difficile la concessione dei domiciliari a chi attualmente si trova al 41 bis. Non importa sapere, come detto, che i provvedimenti che hanno creato indignazione sono stati concessi per gravi motivi di salute. Per chi si è macchiato di reati mafiosi, il diritto alla salute diventerà un optional. Le norme, che potrebbero essere contenute in un prossimo decreto legge, dovrebbero limitare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Ovvero che tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia saranno sottoposte, per il via libera, sia alla Procura nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sia alle singole Procure distrettuali Antimafia e Antiterrorismo. Tradotto, chi è al 41 bis o in alta sorveglianza difficilmente potrà ottenere un via libera da chi lo ha tratto in arresto. C’è da ricordare però che l’articolo111 della Costituzione stabilisce che il legislatore deve garantire la celebrazione del “giusto processo” affidando la decisione ad un giudice assolutamente neutrale. La terzietà del giudice penale è una terzietà diversa da quella dei giudici di sorveglianza: rendere vincolanti i pronunciamenti del Procuratore distrettuale o nazionale Antimafia significherebbe snaturare la terzietà del giudice di sorveglianza. Il problema, di fondo, è che è inimmaginabile, per un governo, muoversi a seconda delle indignazioni del momento. Non si possono fare interventi normativi in base a degli articoli di giornale o le trasmissioni televisive che hanno anche il potere di fuorviare e veicolare l’opinione pubblica. Altrimenti l’esercizio del potere esecutivo rischierebbe di diventare il terreno d’intervento privilegiato dei gruppi di pressione di ogni parte. La democrazia rischia di collassare e quindi di sostituirsi con la “dittatura della maggioranza”. Ed è così che lo Stato di Diritto muore e avanza sempre di più quello di Polizia.
Giletti: il “piccolo Travaglio” che processa chi mette ai domiciliari i mafiosi malati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2020. Il conduttore di “Non è l’Arena” parla a nome delle vittime di mafia e processa chi vuole salvare i cittadini detenuti dal Coronavirus. «I poveretti che sono in carcere non li fanno uscire, i boss che comandano vengono accompagnati a casa!», ha tuonato Massimo Giletti, il conduttore di Non è L’Arena. Lo ha detto durante la trasmissione di ieri sera trattando il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria, invitando però al dibattito tutti coloro che la pensano allo stesso modo (infatti non era presente nessun giurista, nessun magistrato di sorveglianza, nemmeno il garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto però la sfortuna di essere preso come capro espiatorio del presunto scandalo. Giletti, in modo decisamente populistico, ha contrapposto i detenuti “comuni” che restano in carcere – quasi che il loro destino gli stesse davvero a cuore – ai boss che escono per chissà quale arcano motivo. Ma si tratta dello stesso Giletti che solo poco tempo fa attaccava chiunque chiedesse una riforma che puntasse alle misure alternative, tuonando come un “Travaglio minore” – ne ha ancora di strada da fare per raggiungere la “caratura” del fondatore del Fatto – contro lo “svuotacarcere”. Ovviamente, giocando sulla facile dialettica populista, Giletti ha fatto leva sull’emotività. «Io italiano – ha sbottato in diretta -, che ho perso amici nella lotta contro la criminalità organizzata, ho negli occhi un carabiniere che è morto caduto da una scogliera per mettere una microspia, io come cittadino italiano mi vergogno, è un fatto inammissibile e intollerabile». Come per dire che aver concesso il differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica per un arco temporale di 5 mesi (poi Zagaria dovrà ritornare al 41 bis), significhi piegarsi alla logica mafiosa e dare uno schiaffo alle vittime della mafia. Da sempre funziona così. La Corte Europa ha decostruito alcuni meccanismi (in seguito dichiarati incostituzionali) dell’ergastolo ostativo? Subito si innalzano i cori indignati parlando a nome dei familiari delle vittime della mafia. La stessa Fiammetta, figlia del giudice Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo a via D’Amelio, l’anno scorso ha partecipato al “Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato dalla “Conferenza nazionale volontariato giustizia” e nel suo intervento ha parlato delle inchieste sulla morte del padre, definendole il «depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo paese». Ma ha anche parlato della sentenza sull’ergastolo ostativo e si è detta d’accordo e ha stigmatizzato i titoloni di alcuni giornali del tipo “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. Inoltre, alla domanda se è giusto parlare a nome dei famigliari delle vittime della mafia, Fiammetta ha risposto che è assolutamente sbagliato perché «ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti». Una bella lezione, quella di Fiammetta, che però è rimasta inascoltata proprio da coloro che usano i nomi di Falcone e Borsellino per criticare il provvedimento come quello emesso nei confronti del boss Pasquale Zagaria. Un provvedimento, come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati. Alla luce di ciò, «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza – equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano».
Libero Quotidiano il 5 maggio 2020. Oggi, puntuale come le tasse, scontata, prevedibile e per questo ancor più risibile, in prima pagina sul Fatto Quotidiano ecco piovere la difesa d'ufficio di Marco Travaglio, impegnato a schivare i colpi per conto di Alfonso Bonafede e impegnato a dettare la linea ai grillini dopo quanto accaduto a Non è l'arena domenica sera, dove il pm Nino Di Matteo aveva rievocato il momento in cui fu vicinissimo al Dap, salvo poi vederlo "sfuggire" poiché, ha spiegato, il suo nome era "inviso" ad alcuni boss mafiosi. Tutto ciò ovviamente accadeva quando Alfonso Bonafede era ministro della Giustizia. E nel goffo editoriale di Travaglio, con ancor più veleno e insulti del solito, c'è un passaggio che lascia veramente interdetti. Già, perché Marco Manetta scrive: "L'altra sera l'ex pm (Di Matteo, nda) ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministero sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Massimo Giletti l'ha dato per scontato". Insomma, Travaglio accusa di Giletti di aver dato "per scontato" il nesso causale tra quanto detto da Di Matteo e il ruolo di Bonafede. Ma è serio? Roba, davvero, da ridere: come se, in una vicenda del genere, il Guardasigilli non c'entrasse nulla. Una singola frase, nel contesto di un articolo di rara violenza e che fa acqua da tutte le parti, che la dice lunghissima su Travaglio e sulla sua missione: difendere sempre e comunque i grillini, anche a costo di tuffarsi per intero nel ridicolo.
Non è l'Arena, insulti e attacchi a Giletti. Dopo lo scontro con Dino Giarrusso sulle scarcerazioni e lo sciame di insulti che ne è scaturito, Massimo Giletti ha ricevuto la solidarietà di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, mentre l'europarlamentare parla di "agguato televisivo". Francesca Galici, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. Massimo Giletti è nel mirino. Il giornalista di La7, conduttore della trasmissione domenicale Non è l'Arena, nella puntata andata in onda ieri è tornato a parlare della scarcerazione di alcuni pericolosi boss mafiosi per effetto dei provvedimenti in materia di contenimento del contagio da coronavirus. Una dura presa di posizione da parte del giornalista, che ieri in diretta si è scontrato con Dino Giarrusso, europarlamentare del Movimento 5 Stelle. Uno scambio di opinioni acceso che ha scatenato violenti attacchi contro il giornalista, "colpevole" di aver fatto inchiesta nel suo programma. Da ormai diversi giorni il ministro Alfonso Bonafede è nell'occhio del ciclone per aver avallato decisioni incomprensibili sulle scarcerazioni, che hanno portato alla remissione del mandato da parte di Francesco Basentini, ex-direttore del Dap. Inevitabile la presa di posizione di Dino Giarrusso a Non è l'Arena in favore del suo collega di partito Bonafede e altrettanto inevitabile lo scontro con Massimo Giletti, che da giorni porta avanti questa inchiesta. Sono volate parole molto forti, soprattutto da parte di Massimo Giletti che ha accusato il governo di aver trattato i boss mafiosi come "ladri di polli." Il clima in studio si è surriscaldato velocemente ma non quanto quello sui social, dove il termometro dell'indignazione popolare contro il conduttore di La7 è salito vertiginosamente. Per ore, e tutt'ora, Massimo Giletti è stato fatto oggetto di insulti e provocazioni. Servo, pagato, vergognoso, viscido sono solo alcuni degli epiteti rivolti al conduttore di Non è l'Arena nel corso della serata di ieri. Non è la prima volta che i due arrivano allo scontro. Non è la prima volta che il lavoro di Massimo Giletti viene messo in discussione da una certa opinione popolare, quando si tratta di inchieste di questa levatura. Durante la puntata di ieri, il conduttore ha snocciolato nomi e cognomi di personaggi legati alla criminalità organizzata che da qualche giorno si trovano in regime di detenzione domiciliare. Un fatto gravissimo, denunciato dalle opposizioni e pubblicamente ribadito da Massimo Giletti, che ha ricevuto la solidarietà di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. "Attacchi e insulti a Massimo Giletti dolo la trasmissione Non è l'Arena di ieri sera. Il tutto per aver semplicemente svolto con professionalità il suo lavoro da conduttore e giornalista. Forza Massimo, gli insulti e gli attacchi gratuiti non ti fermeranno", ha scritto Giorgia Meloni in un tweet particolarmente apprezzato dalla rete. Pochi minuti fa è intervenuto anche Matteo Salvini, che ha ribadito la sua stima nei confronti del professionista di La7: "Tutto il mio sostegno a Massimo Giletti, uomo e giornalista libero." Resta da sciogliere il nodo delle scarcerazioni, in attesa che vengano forniti chiarimenti precisi sulle decisioni assunte in merito. Intanto, sui suoi social, Giarrusso si gioca la carta del vittimismo, accusando Giletti di avergli teso un "agguato televisivo."
Intervista a Franco Coppi: “Bonafede disastroso, Davigo fa rabbrividire”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 3 Maggio 2020. Per l’enciclopedia Treccani è l’avvocato più famoso d’Italia. Decano dei penalisti italiani, Franco Coppi – che per tutti è “il Professore” – in vita sua ne ha viste tante, assistendo anche Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, solo per citare due nomi. Raggiunto dal Riformista, attacca con ironia: «Ne ho viste tante, ma non avrei mai immaginato di finire io stesso ai domiciliari». Iperattivo, abituato a calcare le scene in tribunale, mal digerisce di dover stare chiuso in casa, nell’attesa che passi l’emergenza coronavirus. Classe 1938, lavora attivamente su alcuni dei casi recenti più spinosi, dall’omicidio del carabiniere Cerciello alle due ragazze investite in corso Francia a Roma.
Siamo tutti ai domiciliari, professore.
«Mi dicono che ne avremo per un anno o forse più. Per questo studiano misure di lungo corso».
A gestire questa fase, un premier avvocato. Che opinione ha di Conte?
«Se la sta cavando abbastanza bene, per uno che non aveva alcuna esperienza precedente in politica. Sta imparando il mestiere giorno per giorno. Ha avuto la fortuna e la sfortuna insieme di vivere questo momento particolarissimo, che comunque sarebbe stata una prima volta per chiunque. Detto questo, non ho mai avuto una predilezione per i politici dalla preparazione giuridica: i giuristi sono formali, l’uomo politico deve avere una elasticità diversa».
E dunque?
«Giudizio sospeso, in attesa di poter valutare i risultati».
Veniamo alla riforma del processo penale.
«Ecco, su questo un giudizio chiaro vorrei darlo: un disastro. Non si possono improvvisare le grandi riforme, altrimenti si ottengono risultati fallimentari. Chiunque assista a un’udienza si accorge che vengono ripetute le testimonianze e i documenti che tutti già conoscono, a eccezione del giudice, dai verbali investigativi del pm a quelli del dibattimento. Un meccanismo caotico, per di più aggravato dalla pretesa di ridurre la durata processuale complessiva, cosa che la riforma della prescrizione impedisce di fatto».
Tutta colpa del ministro Bonafede?
«È un periodo in cui occorrerebbe un ministro della Giustizia con il coraggio di fare un bilancio attuale sul pianeta giustizia. Nuovo processo penale, prescrizione, gestione delle carceri: siamo alla débâcle. Il ministro che vorrei vedere oggi deve saper prendere di petto la situazione. Invece abbiamo trenta udienze per ciascun processo, e per questo ministro non c’è nessun problema».
Glielo ha mai detto?
«Non ho mai avuto il piacere di conoscerlo e di parlargli».
La riforma della prescrizione porta il suo nome.
«Questa di Bonafede è la peggiore riforma possibile. Renderà i processi eterni, senza fine. Aumenterà la discrezionalità dei processi tra quelli da trattare prima e quelli da trattare dopo. Bisogna rendersi conto che in un Paese dove arrivano a dibattimento tutti i processi, non si possono applicare regole aleatorie. Ma ho la sensazione che certi decisori di cultura giuridica ne abbiano poca».
Tra le ultime decisioni, la rimozione del capo del Dap che aveva mandato a casa due boss mafiosi.
«Per me lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità, senza farsi trascinare dalle grida isteriche della piazza. Espressioni tipo “buttate le chiavi”, “marcire in carcere”, non devono appartenere a uno Stato di diritto, a una democrazia vera. A una persona anziana e malata deve essere accordata la detenzione domiciliare. I diritti fondamentali vanno garantiti. Non si deve ridurre la persona allo stato di cosa, altrimenti abbiamo dimenticato tutte le lezioni di Beccaria».
Quali soluzioni indicherebbe per l’emergenza carceraria?
«Partire dalla base. Mandare a casa chi ha un residuo di pena inferiore a un anno. Ed è il momento di pensare a una vera amnistia. Sarebbe opportuno accordare una amnistia di particolare ampiezza, perché ci sono processi penali che hanno fatto patire già sin troppe sofferenze. E c’è un eccesso di custodia cautelare, troppa gente in attesa di giudizio, con tempi inammissibilmente prolungati».
E per il pianeta carcere?
«Costruire carceri moderne, nuove, con la capacità di affrontare la popolazione carceraria. Oggi si vive in condizione disumana nelle carceri. E la popolazione carceraria corre il rischio di subire un supplemento di pena: se vanno evitati gli assembramenti, oggi tutte le celle delle prigioni sono fuorilegge. Qualcuno si assuma la responsabilità: cinque persone stipate in una cella piccola, non è dignitoso».
Magari anche usando i braccialetti elettronici.
«È davvero imbarazzante, uno dei simboli di una giustizia imbrigliata. Ci sono, ci sarebbero. Ma non si usano, e si fatica ad averne. Parlo di casi che conosco: ho ottenuto l’ammissione di una persona ai domiciliari, ma è rimasta in carcere perché il braccialetto elettronico non si trova. Siamo davanti a una lesione quotidiana del diritto».
Lei ha capito che fine abbiano fatto?
«Che fine abbiano fatto è un mistero. Deve esserci qualcosa dietro. Io so per certo che dal provvedimento alla disponibilità del braccialetto, passa troppo tempo».
Si scontrerebbe con i magistrati duri e puri alla Davigo.
«Quando sento un magistrato dire che un imputato assolto è un delinquente che l’ha fatta franca, rabbrividisco: vuol dire che ha giudicato per anni con pregiudizio».
Perché secondo lei certe figure finiscono per piacere così tanto alla pancia del Paese?
«Perché canalizzano la rabbia su capri espiatori facili da attaccare, non rendendo un gran servizio alla giustizia. Nella mia carriera mi sono sempre dedicato a far capire quali e quanti sono i rovesci della medaglia. Perché un giovane siciliano diventa mafioso, quali responsabilità ha la collettività. Se un giovane di 15 anni smette di andare a scuola e entra nelle file della malavita, bisogna andare alla radice, capire come avvengono certi processi. Invece siamo alla ricerca spasmodica del nemico, forti dell’idea che la colpa è sempre di qualcun altro».
Succede, se la classe dirigente è debole.
«La politica ha grandi responsabilità. Investire nella cultura e nell’educazione, curare i giovani, accogliere la sofferenza: questo bisognerebbe fare, prima di pensare alla repressione e alla punizione. Più musei si fanno visitare, meno reati si compiono».
Se finalmente vi incontraste, cosa suggerirebbe al ministro Bonafede?
«Metta mano a una revisione dei disastri cui assistiamo. Ci vuole un programma di riforma immediata, dei ritocchi presto attuabili. Metta insieme una commissione di saggi con pochi giuristi di fama per gli aggiustamenti immediati del processo penale».
Giuseppe Alberto Falci per huffingtonpost.it il 29 Aprile 2020. “Nessuna isteria, nessuna emotività ma princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”. Nei giorni del coronavirus succede anche questo: Pasquale Zagaria, super boss della Camorra esce dal carcere per motivi di salute, a casa pure il capomafia di Palermo, Francesco Bonura. Su questo tema ascoltiamo il parere di Franco Coppi, professore emerito di diritto penale, nonché illustre avvocato di imputati come Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. “Per me - insiste - lo Stato forte si dimostra tale nell’amministrare la giustizia con equanimità e senza lasciarsi condizionare dalla isteria del momento. Ripeto, ci sono dei princìpi che vanno applicati nei confronti di tutti”.
Franco Coppi: “Uno Stato è forte e autorevole quando rispetta i diritti. Anche quelli di un mafioso…” Valentina Stella su Il Dubbio l'1 maggio 2020. Secondo l’avvocato e giurista, «il processo da remoto non garantisce l’oralità, l’immediatezza del contatto tra le parti e la cross examination. Tutte caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere». In un periodo così delicato per l’amministrazione della giustizia, in cui i principi fondamentali dell’ordinamento vengono messi in discussione, l’analisi del professore e avvocato Franco Coppi è una utile bussola che ci aiuta ad orientarci nella giusta direzione.
In questi giorni hanno suscitato molte polemiche le scarcerazioni di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Secondo alcuni magistrati lo Stato si è indebolito. Qual è il suo punto di vista?
«Se non sbaglio tutti questi personaggi vengono “scarcerati” per motivi di salute. Non è che ad un certo momento vengono mandati a spasso perché le carceri sono piene o lo Stato cede al ricatto di qualcuno. Sono persone le cui condizioni sono incompatibili con il regime carcerario. Il nostro ordinamento è pieno di disposizioni che stabiliscono che se una persona si trova in uno stato di salute tale da renderla incompatibile con la reclusione in carcere viene sospesa l’esecuzione delle pena o si concedono i domiciliari. La regola è questa, anche se si tratta di un boss mafioso, e la forza dello Stato sta proprio nel rispettare le regole, piacciano o non piacciano».
Sul fronte politico quasi tutti sono contro queste concessioni di misure alternative a carcere. Matteo Renzi ha detto: “Io sono un garantista convinto. Ma essere garantisti non significa scarcerare i superboss”.
«Se il boss si trova in una situazione di salute tale per cui non risulta più curabile in carcere, trattenerlo lì dentro significa trasformare la pena in un trattamento disumano che l’articolo 27 della Costituzione vuole sia bandito dal nostro sistema».
Si può essere garantisti con il “ma” davanti?
«O si è garantista o non lo si è: non esiste il garantista a metà soprattutto rispetto a delle situazioni che sono puntualmente previste dall’ordinamento e che devono portare a certe determinate soluzioni».
Queste affermazioni vanno ad alimentare quel populismo penale per cui i mafiosi sono dei sanguinari (non sapendo ad esempio che Pasquale Zagaria non si è mai macchiato di reati di sangue) che non hanno più diritti e per cui dobbiamo buttare la chiave. Come rispondere?
«Espressioni come “buttare la chiave” o “deve marcire in carcere” non dovrebbero far parte del vocabolario di uno Stato forte che amministra la giustizia con equilibrio. Il vecchio Beccaria avvertiva e ammoniva che mai una persona può essere trasformata in cosa. I diritti fondamentali sono riconosciuti dall’ordinamento penitenziario a tutti i detenuti, anche ai responsabili di reati di mafia. In questo a mio avviso c’è la dimostrazione della forza dello Stato».
In questi giorni si discute molto anche del processo da remoto. Il decreto legge presentato due giorni fa ha scongiurato il peggio. Secondo lei, come originariamente concepito, avrebbe offerto un buon servizio ai cittadini e alla macchina della giustizia?
«Ritengo di no. In passato è stato compiuto uno sforzo per dare al Paese un processo tutto fondato sull’oralità, sull’immediatezza del contatto tra le parti e sulla cross examination, mentre il processo da remoto, così come concepito inizialmente, contraddiceva tutte queste caratteristiche che il processo penale dovrebbe avere. Aggiungo che mi sarebbe parso di difficile praticabilità un processo di quel genere quando ci si trova di fronte ad un procedimento con una pluralità di imputati, con decine di testimoni. Non dobbiamo dimenticare che in ogni grosso tribunale – pensiamo a Roma o Milano – si celebrano decine di processi al giorno. Si figuri l’organizzazione che sarebbe necessaria per mettere in atto qualcosa del genere».
Per come era immaginato, il processo da remoto non avrebbe permesso la pubblicità dell’udienza e la presenza della stampa. Su questo punto cosa pensa?
«La pubblicità dell’udienza è un fatto che viene spesso sottovalutato. Ma rappresenta il controllo della collettività su come si amministra la giustizia, è partecipazione ad essa, quindi è un dato che non può essere sottovalutato».
In questo momento che ministro della Giustizia vorrebbe?
«Mi piacerebbe avere un ministro della Giustizia capace di valutare i risultati conseguiti con il cosiddetto nuovo codice di procedura penale e che sappia prendere atto anche dei suoi fallimenti disastrosi, per poi avere il coraggio di riesaminare la situazione, eventualmente rivalutando qualche cosa del passato. Non è detto che tutto quello che è passato sia cattiva merce».
A cosa si riferisce?
«Questa idea della prova che si deve formare nel contraddittorio delle parti, per cui tutto quello che è stato raccolto in fase istruttoria non deve essere messo a disposizione del giudice prima del dibattimento perché si teme che l’organo giudicante possa formarsi un pre-giudizio, ha fatto sì che processi che con il vecchio codice si potevano concludere in due/tre udienze, oggi vengono trattati in venti/trenta udienze, con distacchi temporali incredibili tra l’una e l’altra. Ciò arreca uno svantaggio enorme, ad esempio, al principio dell’oralità e della formazione del giudizio aderente agli atti processuali. Ecco, questo sarebbe proprio il momento in cui ci si dovrebbe mettere attorno a un tavolo per esaminare freddamente e lucidamente qual è lo stato dell’arte».
Scarcerare è legittimo, il consenso non serve. Alessandra Dal Moro su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato al Plenum del Csm dalla consigliera Alessandra Dal Moro a nome di tutti i togati della corrente Area (corrente di sinistra dei magistrati). Voglio esprimere, anche a nome degli altri consiglieri che si riconoscono in AreaDG, la mia preoccupazione per le reazioni e i commenti suscitati dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali e per questo sottoposti al regime dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario, che, per i toni violenti od impropri, rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione nei confronti della magistratura di sorveglianza. Una magistratura che – con le note difficoltà dovute alla carenze di organico e di personale che la drammatica contingenza non può che aggravare – è oggi impegnata a fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri notoriamente e drammaticamente sovraffollati, valutando con attenzione le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute e ai trattamenti sanitari indifferibili. Si tratta di decisioni difficili che implicano il necessario bilanciamento di interessi di rilevanza costituzionale, che deve avvenire nel rispetto delle norme del codice penale, dell’Ordinamento Penitenziario e, innanzitutto, dell’art. 27 della Costituzione, che, sancendo il principio di umanità della pena ed imponendo che la stessa sia tesa al recupero e alla rieducazione del condannato, ricorda che i detenuti anche i più pericolosi, sono persone, rispetto alle quali in nessuna fase la giurisdizione può abdicare al proprio ruolo di tutela dei diritti, e di quelli fondamentali innanzitutto. Naturalmente ogni singola decisione deve valutare in concreto, volta per volta, ogni vicenda, e decidere attuando un difficile bilanciamento dei valori in gioco, sentiti tutti gli interlocutori coinvolti. Ed ogni decisione è suscettibile di essere verificate dal Tribunale di sorveglianza e poi nei successivi gradi di giudizio. Perciò, come bene ha sottolineato il Presidente dell’ANM, ogni magistrato sa che le proprie decisioni possono essere discusse, riformate, non condivise e criticate, anche aspramente. Ma sa anche che in nessun modo il consenso sociale o politico può condizionare l’esercizio della giurisdizione, e che al consenso – così come al dissenso – non può che essere indifferente nell’esercizio delle sue funzioni, perché in ciò si realizza, primariamente, la prerogativa costituzionale della sua indipendenza. Ogni critica è legittima, quindi. Ma legittimi non sono gli attacchi e le offese o addirittura la richiesta di espulsione dall’ordine giudiziario che pure abbiamo sentito avanzare in questi giorni. Questi costituiscono violente delegittimazioni che ledono l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione ed al contempo la serenità che sempre deve assistere – ed in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario – l’esercizio del compito difficilissimo di giudicare. Aggiungo, che, come abbiamo spesso ricordato in quest’aula anche in omaggio ad un grande Vicepresidente quale fu Vittorio Bachelet in un contesto per altre ragioni di grande emergenza democratica, lo Stato dimostra la propria forza proprio nel non abdicare mai al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda. Di fronte all’esecuzione della sanzione penale, che non è una vendetta ma uno strumento per realizzare la sicurezza sociale e tendere alla rieducazione della persona condannata, lo Stato mostra la sua forza proprio nel trattare chi delinque, chiunque egli sia, come un essere umano, rispettandone la dignità ed i diritti inviolabili come valore assoluto anche se si tratti del peggiore degli assassini. Ed in questo sta la sua grandezza. Non la sua debolezza.
Diktat dei signori della forca: vietato dare diritti ai mafiosi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Ho capito solo adesso (sono tardo) il motivo per cui alcuni magistrati perdono completamente le staffe quando è in discussione un qualsiasi provvedimento che riguardi “i mafiosi” e che non sia di puro e semplice accanimento afflittivo. Può essere una sentenza che assolve o un’ordinanza che scarcera, può essere una proposta di legge che osa immaginare l’attenuazione dei rigori detentivi, cioè il regime incostituzionale del cosiddetto “carcere duro”, insomma qualsiasi cosa che non sia pura e semplice giustizia piombata: puntualmente, quei magistrati insorgono denunciando che in quel modo lo Stato viene meno ai propri doveri, cede al ricatto della criminalità organizzata, rinuncia a combatterla e via di questo passo. In realtà la ragione vera e profonda del loro disappunto rabbioso è un’altra: ed è che la loro funzione è travolta quando un “mafioso” è destinatario di trattamenti alternativi alle manette e alle sbarre. C’è solo un caso in cui il criminale può godere di attenuanti e sperare di non essere esposto alla gogna sempiterna, e cioè quando decide di affiliarsi al sistema di pentimento e collaborazione: allora va bene, perché così si celebra comunque l’immagine del giustiziere che sottomette il crimine al proprio duro comando e anzi ne riceve riconoscimento. Altrimenti, niente. Perché quella giustizia, per esistere, ha bisogno che il mafioso delinqua o marcisca in carcere. Se ne esce, pur quando ne ha diritto, o se smette di essere torturato, l’immagine e appunto la funzione di quella giustizia è compromessa. Ma non è lo Stato di diritto a risentirne: sono loro, quei magistrati, e l’anti-Stato che essi rappresentano.
Persone con un nome, ecco perché non dovete chiamarli “mafiosi”. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Aprile 2020. È perfettamente legittimo protestare irritazione se il responsabile di gravi delitti è scarcerato per ragioni di salute. Si può legittimamente ritenere che debba marcire in galera, come legittimamente ritiene il capo del primo partito italiano in felice accordo con l’ex alleato di governo nonché, in bella unità nazionale, con il ganzo di Pontassieve. Quello è malato, ha scontato quasi tutta la pena, rischia di morire “di galera”, non “in galera”, perché la prosecuzione della detenzione carceraria mette in pericolo la sua vita: e tu vuoi che ci rimanga, perché siccome ha commesso delitti importanti deve rimanerci – letteralmente – fino alla fine. E va bene: urli vergogna vergogna, e magari ci infili che mentre i vecchietti perbene muoiono di Coronavirus quelli lì, i mafiosi, se ne vanno a casa e noi gli paghiamo pure il biglietto (questo schifo l’abbiamo visto l’altra sera su TeleSalvini, ovvero la trasmissione di quel Giletti, Non è l’Arena, l’enclave leghista di Telecinquestelle ovvero la7). Tutto bene, per modo di dire. Ma la protesta cessa di essere solo discutibile e diventa illegittima quando pretende di imporsi sulla legge che quella scarcerazione consente, e se in modo sedizioso denuncia alla riprovazione pubblica i magistrati che l’hanno disposta. Perché allora non si tratta più dell’incensurabile, per quanto ripugnante, manifestazione dell’idea barbara secondo cui chissenefotte se un cittadino crepa di carcere: si tratta piuttosto della pretesa che lo Stato diserti la propria legalità e che i magistrati siano lo strumento di quella sovversione. Non basta. Perché tu puoi ancora menare tutto lo scandalo che ti pare se la giustizia carceraria non funziona proprio come vuoi, se cioè si limita alla tortura dell’isolamento, alla vergogna del sovraffollamento, alla regolarità del suicidio, e non prevede la sacrosanta pena supplementare della morte per assenza di cure. Ma in un Paese appena decente, che non è quello in cui siamo e non è quello che tu desideri, nessuno avrebbe diritto di rivolgersi a quegli esseri umani chiamandoli “mafiosi”. Dice: ma sono mafiosi! Come dovremmo chiamarli? Non così: perché il delitto che hanno commesso conferisce alla società il potere di punirli, non il diritto di degradarli a una cosa senza identità esposta allo sputo della folla. È un piccolo dettaglio di decoro civile che forse sfugge ai più, o almeno a quelli che fanno chiasso se un ottantenne in metastasi fruisce del diritto di curarsi: ma non è giusto revocargli persino il diritto al nome, istigando il pubblico a farsi coro – “Mafioso! Mafioso!” – di quella specie di lapidazione verbale. Perché è una persona quella che lo Stato rinchiude in un carcere, ed è una persona quella che ne esce quando ne ha diritto.
Professore Coppi, dunque ci sono delle regole generali che garantiscono la salute di tutti i detenuti. Ma qui il punto è: è giusto o non è giusto che anche capi della mafia o della camorra usufruiscano di queste garanzie?
«Certo che è giusto, non c’è una limitazione sotto questo punto di vista alla eventuale gravità dei reati commessi o meno. E’ un principio di carattere generale. D’altra parte, non deve dimenticare l’articolo 27 della Costituzione che stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità. Ora lasciare in carcere una persona che è affetta da malattia, che nel carcere non può essere curata, e potrebbe portare alla morte, trasformerebbe quella pena in un trattamento disumano. Quindi si deve tener conto di questi princìpi fondamentali. E lo stesso ordinamento penitenziario vuole che vengano rispettati i diritti fondamentali dell’imputato detenuto, e fra i diritti fondamentali c’è il diritto alla salute. Anche se può dispiacere che un boss di quel calibro possa riavere “la libertà” sta di fatto che la legge è questa e va rispettata nei confronti di tutti».
Però il 41-bis prevede che si possa anche fare in un regime ospedaliero. Non a caso c’è una frase presente nell’ordinanza dei giudici di sorveglianza di Sassari, che hanno consentito l’uscita dalla prigione sarda di Zagaria, che ha sollevato polemiche: “Il tribunale ha chiesto al Dap se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria sul territorio nazionale, […], ma non è pervenuto alcuna risposta, neppure interlocutoria”. Dunque, la colpa è del capo del Dap, Francesco Basentini?
«Il problema è di verificare se correvano le condizioni per adottare il provvedimento. Se ricorrevano le condizioni, doveva essere adottato il provvedimento e non vedo perché possano essere affermate responsabilità di questo o di quello».
Nel frattempo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si dice pronto a intervenire per correre ai ripari, e Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia, rincara la dose: “Stiamo tutti piangendo la morte a Napoli di un agente di polizia morto sul dovere. [...] Ma è devastante assistere alla scarcerazione di boss mafiosi contemporaneamente oggi con la morte di agenti di polizia”. Si tratta di una reazione emotiva di un certo tipo di giustizialismo che continua a portare voti e soffia forte nel Paese?
«Bene, queste sono quelle cose che si possono dire sotto la spinta dell’emozione del momento. Bisogna ragionare a mente fredda. Se anche un boss mafioso sta morendo in carcere perché lì non ci sono le condizioni per poterlo curare, a quel punto va trasferito in un posto dove essere curato. Comunque la detenzione può essere trasformata in detenzione ai domiciliari per il periodo necessario a che lui recuperi un grado accettabile di salute».
Anche alcuni magistrati, tra cui Nino Di Matteo e Cafiero De Raho, sbottano: “Lo Stato è debole e cede ai ricatti dei mafiosi”. Qualcuno arriva a paventare una pax tacita tra lo Stato e la mafia.
«Lo Stato dimostra la sua forza proprio anche nell’amministrare la giustizia con equanimità. Lo Stato non è lì per vendicarsi o per castigare ciecamente. Il suo distacco e la sua distanza dal delinquente sta proprio nel trattare quest’ultimo come essere umano. E in questo sta proprio la grandezza dello Stato. E’ la stessa ragione per la quale non si applica la pena di morte all’assassino: il rispetto per la vita è tale che lo Stato lo tutela perfino nei confronti di chi ha tolto la vita ad altri. Questo è il princìpio».
Così facendo però si reinserisce nel suo ambiente originario un super boss. Non crede che siano necessarie delle misure di sorveglianza e cautela per la tutela della popolazione?
«Certo poi il giudice può disporre delle eventuali misure, penso allo stesso braccialetto elettronico che permette di controllare gli spostamenti».
Quando si parla di 41 bis i detenuti sono tutti uguali, o si fanno delle distinzioni fra chi ha commesso crimini sanguinari e chi ha comportamenti meno efferati? Zagaria è uguale a Cutolo?
«Il problema è che uno, Zagaria, è affetto da una malattia e da uno stato di salute incompatibile con il regime carcerario rispetto a Cutolo o altri che non si trovano in questa situazione. Ecco per loro i rimedi per porre i termini a una carcerazione che sia particolarmente lunga, rispetto alla quale non ha più una senso una prosecuzione, ci sono. Ad esempio, si potrebbe pensare al rimedio della grazia. Non è scritto da nessuna parte che a un certo momento una persona non possa ottenere una riduzione della pena. O un provvedimento favorevole. Qui, nel caso di Zagaria, stiamo parlando sì di un superboss ma che si trova in uno stato di salute non compatibile con il regime carcerario».
Insomma dopo quarantacinque anni di carcere anche uno come Raffaele Cutolo, ribattezzato “Don Rafè”, capo della “Nuova Camorra Organizzata”, ha chiuso la partita con lo Stato?
«Senta, io con riferimento a casi specifici non mi pronuncio. La pena deve tendere alla rieducazione. Sono dell’idea che nella misura in cui fosse riconosciuto il raggiungimento di questa finalità, la pena non avrebbe più ragione di essere eseguita. Mi rendo conto che sono valutazioni molto difficili, molto delicate, è scritto nella Costituzione che la pena deve tendere a quel risultato. Se lo ha raggiunto, è legittimo chiedersi se ha un senso la prosecuzione della pena».
Per concludere questa intervista la riporto all’inizio dell’emergenza Covid, a quando ci sono state le rivolte carcerarie. Ecco, quale ruolo possono avere avuto? Qualcuno paventò una regia.
«Spero che non abbiano avuto nessuna influenza».
Tutti con Travaglio: Renzi, Zingaretti e Berlusconi sono diventati forcaioli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Si è scatenata la tempesta perfetta. Ha una forza bestiale: destra, sinistra, giornali, Tv e un pezzo – probabilmente ancora minoritario ma fortissimo – della magistratura. È un susseguirsi di grida feroci. Ciascuno cerca di essere più feroce dell’altro. Qual è l’obiettivo? Direi che gli obiettivi sono due. Il primo, politico, sono i voti. Voti da rastrellare in cambio di giustizialismo a buon mercato (potremmo perfino definirli “voti di scambio”). Il secondo obiettivo è quello che indicavano sul Riformista di sabato scorso: intimidire la parte più seria e scrupolosa della magistratura, quella più legata ai principi del diritto, e fargli capire che non è più aria di discorsi e di Costituzione: la magistratura è giustizialismo o non è. La Costituzione è anticaglia. L’offensiva è condotta con grande intelligenza da quella che abbiamo chiamato la magistratura “rosso-bruna”, perché unisce i reazionari di Di Matteo e Davigo con un pezzo di “Magistratura democratica” (credo, spero, non tutta), cioè la corrente di sinistra. Tanto rosso-bruna da essere, alla fine, riconducibile alla leadership del giornale rosso-bruno per eccellenza, e cioè il Fatto di Travaglio. È da lì che è partita la campagna. Da lì la si dirige. La cosa impressionante è che a questa offensiva si son piegati tutti. In magistratura i pochi elementi rimasti a combattere sul fronte del diritto sono isolatissimi e indicati come bersagli da colpire. Pensate alla giudice di Milano che ha deciso la scarcerazione di un signore che una ventina d’anni fa si macchiò di alcuni reati di estorsione, e che oggi, quasi ottantenne, combatte per la vita contro un cancro: avete ascoltato voci in sua difesa? Cioè in difesa di una magistrata molto seria ed esperta, con trent’anni di servizio? Sì, ci sono tre magistrati che ieri hanno presentato una richiesta di apertura di una cosiddetta “pratica a tutela” a suo favore. Però, curiosamente, i tre hanno presentato la richiesta in polemica con Maurizio Gasparri, deputato, senza neppure accennare alla figura del loro collega Nino Di Matteo. È vero che l’uscita di Gasparri, che addirittura ha chiesto la rimozione del giudice, è gravissima e ingiustificata. Ma Nino Di Matteo aveva fatto molto di peggio. Aveva parlato di “cedimento al ricatto mafioso”. Cioè, in pratica, aveva accusato la sua collega di favoreggiamento, o forse di concorso esterno in associazione mafiosa. Hanno protestato gli avvocati, le Camere penali. Stop: le Camere penali e basta. In politica non si è sentita una voce. Nella magistratura silenzio, silenzio, silenzio. Come è possibile: è solo paura? Paura di che, di chi? Di Travaglio, della sua capacità di trascinarsi dietro gli altri giornali e praticamente tutto l’apparato televisivo italiano? Possibile che Travaglio sia così potente? Sembra proprio di sì. Lo scenario che abbiamo davanti è duplice, e terrificante. Da un lato la possibilità concreta che invece di avviarci verso la separazione delle carriere – cioè l’avvicinamento del sistema italiano ai sistemi di tutto il mondo democratico – si compia un passo nella direzione inversa: quella di costringere la magistratura giudicante a sottomettersi alle Procure. Cioè all’accusa. Non sarà un passaggio leggero, né semplicemente formale. Ridurrà ai minimi termini il potere della magistratura giudicante e renderà quasi onnipotente il potere delle accuse. La sorte di un detenuto, in pratica, durante il periodo nel quale sconta la pena, non dipenderà più da un giudice terzo ma dal suo accusatore, che qualche volta, magari, è esattamente il suo persecutore. Sarà lui ad avere in mano il destino del detenuto per tutto il periodo della condanna. Se è ergastolo, per tutta la vita. Il detenuto sarà un oggetto alla sua mercé. E la magistratura sarà sempre di più un potere e sempre di meno un ordine. La sua arma non sarà più il diritto ma la forza politica. Dilagante. Il secondo scenario che si apre è quello della vittoria definitiva del giustizialismo. La resa senza condizioni dell’Italia liberale. In queste ore abbiamo assistito a cedimenti spaventosi da parte delle forze che si ispirano a idee liberali. A partire da Italia Viva, per non parlare del Pd. E persino settori di Forza Italia. A me una cosa pare chiarissima. Garantismo non vuol dire difesa dei politici dai magistrati. Vuol dire difesa dei diritti, di tutti. Dei politici e dei miserabili, dei migranti e dei mafiosi, degli innocenti e dei colpevoli. Non ci sono santi: è così. Chi oggi si scaglia contro la magistrata che ha scarcerato Bonura e contro quello che ha scarcerato Zagaria deve però farci un favore. In futuro non dica più: io sono garantista. Non lo dica più: non è vero.
Su Cutolo Salvini ha annunciato una sentenza che non c’è…Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Aprile 2020. «Sono le 19 e finora non ho ricevuto alcuna notifica. Non conosco il giudice e il personale della cancelleria dell’ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia ma ritengo che siano persone perbene e credo che una decisione così delicata non la comunicherebbero prima a Salvini». Con queste parole l’avvocato Gaetano Aufiero, difensore di Raffaele Cutolo, smentisce l’ex ministro Matteo Salvini che, secondo un’agenzia di stampa, in un post su Facebook aveva scritto «Poche ore fa per fortuna hanno negato la libera uscita a Raffaele Cutolo». Bisognerà quindi ancora attendere per la decisione sulla sospensione dell’esecuzione della pena richiesta dallo storico capo della Nuova Camorra Organizzata dopo oltre 40 anni di ininterrotta detenzione. E il clima che accompagna questa attesa non è privo di commenti e interventi che spaccano l’opinione pubblica su cosa debba prevalere: se il diritto alla salute del detenuto o il peso del nome che porta.
«Cutolo ormai è una bandiera da sbandierare sulla torre della lotta alla criminalità organizzata senza pensare che è un uomo di quasi ottant’anni con seri problemi di salute» afferma l’avvocato Aufiero che ieri, con una memoria di 9 pagine, ha rinnovato al magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia la richiesta di concedere a Cutolo gli arresti domiciliari nella sua casa, a Ottaviano. «Perché – scrive l’avvocato – le patologie di cui è affetto Cutolo sono di assoluta gravità, certamente suscettibili di inevitabile e ulteriore peggioramento a causa della pandemia e quindi difficilmente fronteggiabili in regime detentivo». E lo dimostrerebbe, per l’avvocato, anche il documento con cui l’8 marzo scorso l’ospedale di Parma dimise Cutolo dopo settimane di ricovero, dichiarando che «il paziente è stato dimesso per eventi legati al coronavirus». «Quindi se dovesse ripresentarsi la necessità di un nuovo ricovero in ospedale così come avvenne lo scorso 19 febbraio, il rischio di morte per il condannato sarebbe altissimo», sostiene la difesa dell’ex capo della Nco che in tema di pericolosità, anticipando un tema che si prevede tra quelli in esame per il nuovo decreto atteso per domani e in cui si potrebbe ritenere necessario per le scarcerazioni anche il parere della Direzione nazionale antimafia, aggiunge che «Cutolo Raffaele è sottoposto a regime di 41bis dal 1992, sei dei quali trascorsi da solo all’interno del carcere dell’Asinara per lui appositamente riaperto. Commise il suo ultimo reato nel 1981, quindi 39 anni fa. Non ha familiari o prossimi congiunti che abbiano commesso negli ultimi 40 anni reati o semplici infrazioni di legge. Non ha più contatti con l’esterno da circa 40 anni» aggiunge l’avvocato citando fra l’altro l’ultimo decreto in ordine di tempo con cui a Cutolo è stato rinnovato il 41bis. «Sono trascorsi 7 mesi dal deposito del reclamo e ancora si è in attesa di fissazione della relativa udienza. Quel decreto ancòra il giudizio di pericolosità attuale e qualificata a un colloquio in carcere avuto da Cutolo con un volontario della Comunità di Sant’Egidio, colloquio regolarmente autorizzato dalle competenti autorità penitenziarie». Fin qui tutte quelle che l’avvocato Aufiero definisce «inevitabili e ineludibili considerazioni a seguito di recenti e sempre più pressanti polemiche da parte dell’opinione pubblica, organi di stampa, rappresentanti della politica locale e nazionale nonché di taluni magistrati che pure ricoprono ruoli istituzionali di assoluto rilievo». Basteranno a rendere il diritto alla salute del detenuto prevalente su tutto quello che il nome di Cutolo ancora evoca? C’è grande attesa per le sorti di colui che con gli occhiali dalla sottile montatura in oro e il sorriso sempre a labbra strette è stato protagonista non solo della storia criminale campana ma anche di una buona parte di quella più controversa del Paese. Lui, l’ingegnere, il Vangelo, il camorrista che ispirò il romanzo di Giuseppe Marrazzo e il film d’esordio del regista Giuseppe Tornatore, don Raffaè come nella canzone di Fabrizio De Andrè, il professore per quella capacità comunicativa che fece la forza del suo potere criminale negli anni Ottanta e che oggi pesa sulla possibilità di lasciare il carcere.
Renzi e Gasparri garantisti a targhe alterne: su Zagaria e Bonura diventano giustizialisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Che cosa unisce Matteo Renzi e Maurizio Gasparri, oltre al fatto che sono ambedue senatori della repubblica? Il garantismo per esempio, verrebbe da dire, visto che militano in due partiti che non amano alzare le forche: non Italia viva, men che meno Forza Italia. Invece accade proprio il contrario. Così si buttano tutti e due, con sprezzo del pericolo, nella discussione feroce su alcuni “differimenti di pena” ordinati da tribunali di sorveglianza. Si buttano, e chiedono radiazioni e licenziamenti di chi ha scarcerato. A casa devono andare i magistrati e i responsabili del ministero, magari anche lo stesso Guardasigilli, strillano. Chiariamo subito che i provvedimenti che più hanno destato scandalo, quello del giudice milanese nei confronti di Francesco Bonura e quello del tribunale di Sassari in favore di Pasquale Zagaria, sono ineccepibili. Forse tardivi, a guardare la personalità dei due reclusi e il loro quadro clinico. Il primo era arrivato al termine della pena, che scontava nel regime previsto dall’articolo 41 bis, che vuol dire carcere impermeabile all’esterno, benché non fosse stato condannato per fatti di sangue. Ha 78 anni, una gravissima forma di tumore già operato e con recidiva in corso, oltre a tutte le altre patologie tipiche dell’età. Tra nove mesi sarà comunque libero, piaccia o non piaccia ai senatori Renzi e Gasparri. In ogni caso l’ordinanza del giudice di Milano ne ha disposto i domiciliari solo fino a giugno. È ovvio che non gli convenga darsi alla fuga, ma che desideri semplicemente curarsi in un luogo più sicuro di un carcere dove il personale si muove tra tutti i reparti, compresi quelli isolati. Il caso di Pasquale Zagaria, cui il tribunale di sorveglianza di Sassari ha concesso cinque mesi di detenzione domiciliare in un paesino del bresciano dove risiede la moglie con i figli, è apparentemente frutto di qualche discrasia tra magistratura e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, cioè un’emanazione del Ministero di giustizia. I cui ritardi ne hanno impedito il trasferimento in un centro clinico di detenzione. Ma in realtà è molto ben motivato. Anche in questo caso si tratta di una persona che non si è macchiata di reati di sangue, che si è spontaneamente costituita nel 2007 e che ha ammesso le proprie responsabilità. In questo momento è gravemente malato e non può continuare le sue cure chemioterapiche (ha un carcinoma papillifero di alto grado) nell’ospedale di Sassari, perché questo è stato trasformato in centro per i malati di Covid-19. Il magistrato che ha steso l’ordinanza scrive esplicitamente che neppure nella cella singola il recluso è indenne dal rischio di contagio da coronavirus, perché non si può garantire un isolamento totale dal personale di polizia penitenziaria e dagli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere. Ineccepibili tutti e due i provvedimenti. C’è quindi da domandarsi se i vari Catello Maresca, pm napoletano che l’altra sera in una trasmissione tv ha aggredito il capo del Dap Francesco Basentini come se questi avesse avuto l’intenzione di far ricostruire il clan dei casalesi, e poi don Ciotti, ma anche politici attenti come Gennaro Migliore, e Mirabelli e Verini e Giusi Bartolozzi abbiano letto e si siano informati. Ripetiamolo: si tratta di “differimenti pena” di pochi mesi in favore di persone che a questo punto della loro vita desiderano solo potersi curare e non vedersi comminare una pena accessoria, cioè la pena di morte da coronavirus. Che cosa hanno scritto nei loro tweet Renzi e Gasparri? Il leader di Italia viva se la prende con il ministro Bonafede. “La scarcerazione dei superboss di camorra e ‘ndrangheta – scrive -è INACCETTABILE. Il ministro Bonafede cacci subito il responsabile di questa vergogna”. Chiunque sia il “responsabile” a dover essere cacciato, un magistrato (che non può certo esser licenziato da un ministro) o il capo del Dap, quel che è chiaro è che Matteo Renzi ha deciso di spogliarsi della veste di garantista ( del resto un po’ appicicaticcia) per indossare quella più consona a Gasparri, da sempre il volto forcaiolo di Forza Italia. Il quale ha fatto di peggio, rendendo pubblico il nome del magistrato milanese che ha disposto i domiciliari per Bonura e ne ha chiesto la radiazione dalla magistratura, insieme ai colleghi del tribunale di sorveglianza di Sassari. Venendo immediatamente preso di mira da alcuni consiglieri del Csm, che lo citano come “un noto politico” e chiedono l’apertura di una pratica a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei magistrati colpiti. Ma al di là dei singoli casi, c’è un altro problema che dovrebbe allarmare chi ha a cuore la divisione dei poteri e i diversi ruoli all’interno dell’amministrazione della giustizia. L’ha ben individuato la giunta dell’Unione delle camere penali e riguarda l’ipotesi prospettata dal ministro Bonafede di mettere le decisioni dei tribunali di sorveglianza sotto la tutela delle Direzioni Distrettuali antimafia quando si trattano pratiche che riguardano determinati reclusi. Sarebbe gravissimo, dicono i penalisti, che un organo di giurisdizione dovesse essere controllato da un organo di investigazione, cioè il giudice sottoposto al Pm. Forse anche il Csm farebbe bene a essere allarmato, aggiungiamo noi, non solo quando viene toccata la corporazione. La commissione bicamerale antimafia, infine, che nella riunione di domani avrebbe un compito molto importante, perché esaminerà il tema dell’ergastolo ostativo dopo la sentenza della Corte costituzionale, ma che probabilmente finirà con il perdere il suo tempo a scandalizzarsi perché quattro malati andranno a casa per qualche mese. Ritenendo di essere a “Non è l’arena” invece che nel Parlamento della Repubblica.
Le polemiche. La trovata di Bonafede, giudici sottoposti all’accusa. Giovanni Fiandaca su il Riformista il 28 Aprile 2020. Il fenomeno della legislazione «motorizzata» (per dirla con Carl Schmitt), se si manifesta con particolare evidenza in questo periodo di emergenza sanitaria, è tutt’altro che nuovo nel nostro paese. Esso è in vigore da non poco tempo e già un quindicennio fa, per stigmatizzare la tumultuosa e confusa produzione continua di norme in quasi tutti i settori della vita associata, non si è esitato a utilizzare metafore di tipo medico-psichiatrico: si è così di volta in volta parlato di «psicopatologia» delle riforme quotidiane, di legislazione «compulsiva», di «nomorrea» o «sanzionorrea» et similia. A ben vedere, questa pulsione nevrotica ad aggiungere nuove norme (o a modificare norme preesistenti) nasce, spesso, da un vuoto sostanziale di elaborazione e strategia politica: prima ancora di comprendere le cause reali dei problemi sul tappeto, e di riflettere sui più efficaci strumenti di intervento, si ricorre in fretta all’espediente di creare nuove disposizioni normative (sempre più spesso di natura penale) come comodo e temporaneo tappabuchi, o come mero “ansiolitico” per rasserenare una opinione pubblica allarmata. La novità di questi ultimi tempi consiste in un ulteriore aggravamento del fenomeno, che potrebbe indurre ormai a parlare di normazione “ad horas” o “all’impronta”. Una esemplificazione emblematica la individuerei nella celerissima proposta normativa che trae spunto dalla polemica recentemente esplosa in seguito alla scarcerazione per motivi di salute (e per prevenire il rischio di contagio da Covid-19) di alcuni boss mafiosi anziani e gravemente malati. Com’è noto, da alcuni fronti politici e da alcuni settori della magistratura inquirente si è obiettato che è pericoloso rimandare in detenzione domiciliare nelle zone d’origine mafiosi di grosso spessore provenienti dal regime carcerario del 41 bis, dal momento che ciò rischia di riconsegnare un pezzo di paese alla criminalità organizzata. Inoltre, secondo il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, equivarrebbe a un segnale di debolezza consentire che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi e terroristi, perché «sarebbe come ammettere di non sapere gestire le carceri. E questo non è vero. Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza necessaria». Con tutto il rispetto per la professionalità e la competenza di Cafiero De Raho, personalmente non sarei altrettanto sicuro che l’attuale e mal funzionante sistema penitenziario nostrano riesca a garantire ai detenuti quella piena protezione dal contagio che egli sembra troppo ottimisticamente dare per scontata (la mia concreta esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti mi induce, purtroppo, a nutrire in proposito un certo pessimismo). Ma neppure mi sentirei di esprimere certezze, in termini di prognosi empirica, sul fatto che il ritorno di boss vecchi e malati nelle dimore originarie comporti, pressoché automaticamente, il ripristino del loro antico potere: darlo aprioristicamente per sicuro rischia di perpetuare una concezione mitica del mafioso quale essere onnipotente, e perciò esentato da tutti i limiti umani e dalle forme di fragilità cui sono soggette le persone comuni. Più realisticamente, penso – e credo di non essere il solo a pensarlo – che la valutazione preventiva del pericolo concreto di riassunzione di ruoli di comando andrebbe effettuata caso per caso, in rapporto alle diverse caratteristiche dei personaggi e dei contesti. Fatte queste premesse, passiamo a considerare il tipo di atteggiamento che il ministro Bonafede ha assunto per reagire alle polemiche di cui sopra. Per prima cosa, egli ha chiesto agli ispettori ministeriali di compiere accertamenti sulle scarcerazioni di boss già disposte dai magistrati di sorveglianza competenti, pur ribadendo – non senza ambigua ipocrisia istituzionale – che tali scarcerazioni «vengono adottate in piena indipendenza e autonomia dalla magistratura» (messaggio politico sottointeso: «io non c’entro niente, spetta ai magistrati decidere; ma poiché hanno deciso in una maniera che anche a me pare inopportuna, come ministro mi riservo di sanzionarli!»). Nel contempo, ecco riemergere in Bonafede la tentazione compulsiva del miracoloso rimedio normativo: egli ha cioè subito annunciato di concordare col presidente della Commissione Antimafia sulla necessità di introdurre al più presto una nuova norma, che «mira a coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia in tutte le decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia» (ed ha aggiunto di avere già emanato una circolare che va in questa direzione). Orbene, sorge spontanea una domanda: che vuol dire «coinvolgere» i magistrati delle direzioni antimafia nelle decisioni sulle misure extracarcerarie da concedere ai mafiosi? Si ipotizza di attribuire loro un potere di interlocuzione (sotto forma di parere o qualcosa di simile a un preventivo concerto con i magistrati di sorveglianza), o un vero e proprio potere interdittivo (che darebbe, peraltro, luogo a possibili obiezioni di legittimità costituzionale)? In effetti, è da escludere che i magistrati d’accusa siano i più adatti a farsi carico di un bilanciamento equilibrato fra tutti i valori, i diritti e le esigenze di tutela che richiedono di essere contemperati nella materia penitenziaria: essi, per specializzazione (per non dire “deformazione”) professionale, sono infatti portati a privilegiare in maniera unilaterale – direi quasi “totalizzante” – la sicurezza collettiva e l’efficacia del contrasto alla criminalità organizzata (per cui passano in seconda linea, ai loro occhi, la tutela dei diritti dei condannati, come appunto lo stesso diritto fondamentale alla salute e persino il diritto alla rieducazione). Mentre un orientamento tecnico e culturale incline a tenere conto di tutta la complessità delle diverse esigenze in campo è appunto tipico, tradizionalmente, dei magistrati di sorveglianza. Se le cose stanno così, prima di emanare nuove norme urgenti, il potere politico-governativo dovrebbe avere bene chiaro che esiste una connessione stretta tra le possibili forme di coinvolgimento della magistratura antimafia nelle decisioni giudiziarie sui boss che chiedono di uscire dal carcere e i possibili modelli di bilanciamento tra la rispettiva tutela della sicurezza collettiva e della salute individuale: nel senso che enfatizzare il ruolo valutativo delle direzioni antimafia equivarrebbe – inevitabilmente – a porre in primo piano la tutela della sicurezza; mentre attribuire loro un ruolo meno determinante lascerebbe maggiore spazio – come ritengo sia più giusto – a soluzioni giudiziarie di ragionevole compromesso tra i concorrenti valori in gioco. È, in ogni caso, da scongiurare una nuova disciplina dai connotati così generici o dal contenuto talmente pasticciato, da produrre ancora una volta l’effetto di trasferire sulla magistratura lo scioglimento di un nodo problematico che la politica non riesce – da sola – a risolvere.
L’attacco dei magistrati di sorveglianza: “Un pezzo di magistratura ci delegittima”. Il Dubbio il 29 Aprile 2020. La dura nota del Coordinamento: «contro di noi attacchi ingiustificati, anche da parte dei colleghi». Una «campagna di sistematica delegittimazione, che in alcuni casi si è spinta fino al dileggio», perfino ad opera di magistrati e, quindi, di colleghi. È un attacco durissimo quello del coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza, che con una nota – a firma del coordinatore Antonietta Fiorillo e del segretario Marcello Bortolato – replica alle polemiche dei giorni scorsi, nate a seguito delle scarcerazioni di alcuni boss sottoposti al 41 bis per motivi di salute. Decisioni prese dai magistrati di sorveglianza, valutando atti e documenti, e che hanno spinto la politica – ma anche le toghe antimafia – a criticare aspramente il ministro della Giustizia, chiedendo la testa dei responsabili. E Alfonso Bonafede, accogliendo le richieste, ha subito proceduto a commissariare, di fatto, il Dap, annunciando un coinvolgimento delle Procure antimafia nelle future decisioni di competenza dei tribunali di Sorveglianza. L’ultima polemica, in ordine di tempo, è quella che ha riguardato la scarcerazione di Pasquale Zagaria, detto “Bin Laden”, considerato la mente economica dei casalesi. I magistrati di sorveglianza parlano di «un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni». I magistrati fanno riferimento all’articolo 27 della Costituzione, che impone una detenzione mai contraria al senso di umanità. Disposizione che vale per qualsiasi detenuto, «anche il più pericoloso», valutando caso per caso, in collaborazione – «come avvenuto in questi casi» – con tutte le autorità coinvolte, «che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati». Nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, si legge nella nota del coordinamento, «non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio». Decisioni prese sulla base di norme contenute nel codice penale che «prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Ogni decisione «è destinata ad essere discussa nel pieno contraddittorio delle parti pubbliche e private ed è ricorribile nei successivi gradi di giudizio». Da qui l’inutilità delle polemiche. «Il coordinamento ribadisce che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione – conclude la nota – e che continueranno ad avere come proprio riferimento null’altro che non sia la Costituzione e le leggi cui unicamente si sentono sottoposti».
Bonafede difende i giudici di sorveglianza ma li mette sotto tutela. Davide Varì su Il Dubbio il 29 Aprile 2020. Dopo i domiciliari concessi all’ex boss Zagaria, il ministro grillino prepara un decreto legge che limita i poteri del tribunale di sorveglianza. Con una mano rivendica l’indipendenza della magistratura di sorveglianza e con l’altra la mette sotto tutela. Insomma, il caso Zagaria – l’ex boss a cui sono stati concessi i domiciliari per gravissimi motivi di salute – sembra aver mandato in tilt il ministro della Giustizia Bonafede e con lui un pezzo di governo. Di fronte agli attacchi dell’antimafia militante, tv comprese, e quelli di Meloni, Salvini e financo Renzi – tutti indignati per la scelta di mandare a casa il boss malato – il Guardasigilli ha dovuto per forza di cose difendere i giudici salvo poi annunciare un decreto legge che toglie loro ogni potere. Colpito al cuore del giustizialismo – il core business politico del grillismo – il ministro ha infatti deciso che prima di scarcerare i detenuti al 41bis, il tribunale di sorveglianza dovrà sentire anche il parere del procuratore nazionale antimafia. Una decisione che ha fatto saltare dalla sedia mezza magistratura italiana – la metà più garantista, naturalmente – la quale ha parlato senza mezzi termini di grave atto di delegittimazione. A quel punto Bonafede, nel suo question time alla Camera, ha cercato di mettere una pezza: “Non c’è alcun governo che possa imporre o anche soltanto influenzare le decisioni dei giudici”, ha tuonato il ministro della giustizia dallo scranno che fu di Moro, Vassalli, Conso e Flick. E ancora: “La Costituzione – ha continuato -non lascia spazio ad ipotesi in cui la circolare di un direttore generale di un dipartimento di un ministero possa dettare la decisione di un magistrato. Le scarcerazioni richiamate sono decisioni giurisdizionali di natura discrezionale impugnabili secondo la relativa disciplina”. Punto. Insomma, il ministro Bonafede ha preso due piccioni con una fava: da un lato ha scaricato sui giudici del tribunale di sorveglianza tutte le responsabilità del caso Zagaria e dall’altro ha preparato una legge che toglie loro ogni potere futuro.
Anche per la visita a un familiare in punto di morte servirà il parere della procura Antimafia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 Aprile 2020. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, in un comunicato, denuncia di sentirsi «colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione». Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha presentato al Consiglio dei ministri un decreto ad hoc per scongiurare i domiciliari ai detenuti al 41 bis. Tutti erano in attesa di sapere in quale modo, visto che le decisioni spettano alla magistratura di sorveglianza in completa autonomia e dopo un’attenta valutazione. Ed è proprio questo il punto: come può intervenire il potere esecutivo senza incidere sull’indipendenza della magistratura di sorveglianza? Il ministro Bonafede è stato chiaro durante il question time alla Camera. «I principi e le norme della nostra Costituzione sono univocamente orientati ad affermare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ciò vuol dire che non c’è nessun governo che possa imporre e anche soltanto influenzare sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza», ha detto il guardasigilli. Ha anche sottolineato che le scarcerazioni al centro della cronaca «sono decisioni giurisdizionali, di natura discrezionale e impugnabili secondo la relativa disciplina». Poi è passato all’intervento normativo. «Approveremo un decreto legge che stabilisce, per questo tipo di scarcerazione, che debbano essere obbligatoriamente acquisiti il parere della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo e delle Direzioni distrettuali Antimafia». Il guardasigilli ha precisato che «non si tratta di sfiducia nei confronti dei giudici di sorveglianza che meritano rispetto e che in generale stanno facendo un lavoro importantissimo, ma si fa semplicemente in modo che il giudice abbia un quadro chiaro e completo della pericolosità del soggetto». Il decreto, infatti, non aggiunge nulla di vincolante, presenterrebbe degli aspetti di incostituzionalità. Però qualcosa cambia e di molto. L’autorità competente, prima di pronunciarsi, ha l’obbligo di chiedere il parere del procuratore della Repubblica del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, anche quello del procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Inoltre il procuratore generale presso la Corte d’Appello deve essere informato dei permessi concessi e del relativo esito con relazione trimestrale degli organi che li hanno rilasciati. La parte che potrebbe però creare qualche problemino è il passaggio nel quale si prevede: «Il magistrato di sorveglianza ed il tribunale di sorveglianza decidono non prima, rispettivamente, di due giorni e di quaranta giorni dalla richiesta dei suddetti pareri, anche in assenza di essi». Nei casi di urgenza, come quelli in cui il detenuto è gravemente malato, se un parere non arriva, aspettare quaranta giorni può voler dire non fare in tempo. Forse è questo il punto in cui il magistrato di sorveglianza può non sentirsi di libero di prendere una decisione urgente. Ma c’è di più. Oltre per i domiciliari, anche per il permesso di necessità c’è bisogno del parere della procura Antimafia e in questo caso di massima urgenza il magistrato deve comunque aspettare un giorno dalla richiesta del parere. Cosa significa? Se la moglie del recluso al 41 bis sta morendo, quest’ultimo fa richiesta urgente per il permesso di necessità. Il magistrato ha l’obbligo di chiedere il parere dell’Antimafia e attendere la risposta entro le 24 ore. A quel punto poi può concederla. Ma un giorno potrebbe essere fatali. La moglie del recluso al 41 bis potrebbe morire nel frattempo e quindi non si potrebbero più vedere per l’ultima volta. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza è intervenuto, con un duro comunicato per difendere il loro lavoro, sottolineando che «si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni». Ma non solo. Significativa la presa di posizione dei magistrati di sorveglianza a favore del Dap e in particolare per la famosa circolare, criticata da più parti, che darebbe l’impressione di una sorta di “tana libera tutti” per chi è al 41 bis. «Nel contesto della grave emergenza sanitaria da Covid19 – si legge nel comunicato dei magistrati di sorveglianza a firma della dottoressa Antonietta Fiorillo – non si può non apprezzare l’iniziativa dell’Amministrazione penitenziaria, in ottemperanza a norme primarie e regolamentari, di segnalare i casi sanitari critici alla Magistratura di sorveglianza che come di regola adotta tutte le sue decisioni in piena autonomia di giudizio». «Solidarietà ai magistrati di sorveglianza» è stata espressa anche dai consiglieri di Unicost: in particolare, il togato Mancinetti, intervenendo in plenum ha sottolineato che «ogni provvedimento giurisdizionale può essere criticato, ma non si può cadere negli attacchi personali». Gli esponenti di Magistratura indipendente hanno chiesto al Csm l’apertura di una pratica a tutela per la magistratura di sorveglianza. Nel plenum è intervenuta anche la togata di Area, Alessandra Dal Moro, esprimendo, a nome del suo gruppo, «preoccupazione per le reazioni suscitate dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni detenuti, esponenti di pericolose associazioni criminali sottoposti al 41 bis». Secondo Dal Moro, «i toni violenti rischiano di alimentare una campagna di delegittimazione verso la magistratura di sorveglianza, impegnata nel fronteggiare l’emergenza sanitaria che interessa carceri sovraffollati, valutando le istanze dei detenuti che chiedono tutela del diritto alla salute». Il paradosso è che sono stati proprio i mass media a far credere ai detenuti al 41 bis di poter uscire grazie a alla circolare del Dap, difesa dal coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza. Un indizio, forse senza volerlo, lo ha dato il Fatto Quotidiano con un articolo di ieri. Racconta di un boss recluso a Rebibbia che invita un parente a chiamare l’avvocato perché dalla tv ha saputo che ci sono novità sui domiciliari anche per i 41 bis.
Il partito dei Pm sta infangando la magistratura, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Qualcosa si muove dentro la magistratura. Timidamente, timidamente. Il discorso pronunciato l’altro giorno al Plenum del Csm da Alessandra Dal Moro a nome di Area (la corrente di sinistra della magistratura) è finalmente una boccata d’aria, dopo giorni e giorni di silenzio asfissiante e di scatti di ira reazionari che ci stavano fornendo un’immagine terrificante del potere giudiziario. Ho scritto potere consapevolmente. Negli ultimi giorni la magistratura – guidata dai davighiani, da Di Matteo, Gratteri e poi Caselli, Travaglio e tutti gli altri ufficiali di complemento – non si è presentata all’opinione pubblica come un Ordine, qual è, ma come un potere: un potere arrogante e tiranno. Con l’esclusione, naturalmente, di alcuni suoi settori, come i magistrati di sorveglianza, che sono stati presi a bersaglio dai loro colleghi, vilipesi, insultati e alla fine massacrati e messi fuori gioco da un decreto che il partito dei Pm ha imposto al suo ministro – sempre piuttosto obbediente – il quale mercoledì notte lo ha varato, sebbene sia un decreto irrazionale e del tutto estraneo ai principi della Costituzione (ma anche dello Statuto Albertino del 1848) e a qualunque perimetro democratico. Il punto debole del discorso di Alessandra Del Moro è l’assenza di un vero e proprio atto d’accusa verso la stessa magistratura. La dottoressa Dal Moro, in modo assai efficace, ha demolito le sparate reazionarie dei politici e dei giornalisti che in questi giorni hanno fatto a gara nel chiedere che i principi della giustizia e i codici fossero messi da parte per dare spazio ai tribunali del popolo e delle Tv e ai linciaggi mediatici, o anche reali. La dottoressa Dal Moro ha spiegato molto bene quali siano i principi del diritto da rispettare e il recinto costituzionale dentro il quale magistratura deve muoversi. Però non ha denunciato esplicitamente due cose. La prima è la presa di posizione di magistrati, ex magistrati e anche membri autorevoli del Csm (mi riferisco ovviamente a Di Matteo), i quali si sono uniti alla campagna del linciaggio, anzi l’hanno guidata. Di Matteo, in particolare, ha accusato la sua collega del Tribunale di sorveglianza di Milano di collusione con la mafia. Ha detto che la sua collega milanese ha ceduto al ricatto della mafia. Possibile che il Csm non prenda posizione contro questa inaudita e orrenda calunnia lanciata da un suo membro? Eppure, con la partecipazione attiva proprio dei consiglieri di Area, il Csm aveva messo sotto accusa il consigliere professor Lanzi per molto meno. Solo per avere criticato genericamente la magistratura milanese per le inchieste sul Trivulzio. Come si spiega questa pratica dei due pesi? Come è possibile che l’incredibile uscita del consigliere Di Matteo resti così, senza che nessuno la censuri, la condanni, che almeno ne prenda le distanze? La seconda mancata denuncia riguarda il nuovo decreto Bonafede. Quello che prevede la delegittimazione della magistratura di sorveglianza e la concessione dell’onnipotenza alle Procure e ai Pubblici ministeri. È chiaro che è un decreto che viola non solo la Costituzione, ma ogni criterio di legalità. È una guappata, uno spavaldo colpo di maglio al diritto. Mi chiedo come mai il Csm, sempre così attento a giudicare e spesso condannare tutte le iniziative dei passati governi sui temi della giustizia, lasci passare senza obiezioni questa follia che mette in discussione in modo plateale e senza precedenti ogni principio di indipendenza del giudice. Chi scrive non è un tifoso dell’indipendenza della magistratura. Io penso che non ci sia niente di male nello schema francese o americano che non prevede l’indipendenza del Pubblico ministero ma lo subordina all’esecutivo. Però in quello schema è l’accusa che non è indipendente, non certo il giudice. Nessuno mai ha pensato di poter mettere in discussione l’indipendenza del giudice e addirittura di sottometterlo all’accusa. È una cosa evidentemente dissennata, dovuta probabilmente a pulsioni illegali e autoritarie, e a scarsa conoscenza della giurisprudenza e del diritto e della logica formale. Succede, quando uno vale uno. Le due cose – mancata denuncia della magistratura e mancata protesta contro il governo – sono in realtà molto legate tra loro. Per una ragione semplice: questo governo è in grandissima parte subalterno non alla magistratura in quanto tale, ma al cosiddetto partito dei Pm. E questo è un problema molto serio. Perché in questo modo si ferisce l’autorevolezza della magistratura, e la sua autonomia, e si delegittima il governo. Non è autonoma una magistratura che permette a un suo settore (il più visibile, il più attivo, il più televisivo) di adoperare la propria funzione per interferire o per egemonizzare, o per sottomettere, o per ricattare il potere politico. In queste condizioni non ha più senso parlare di indipendenza della magistratura. Tanto più quando le pressioni politiche della magistratura, paradossalmente – come nel caso dell’intervento contro i tribunali di sorveglianza – avvengono per delegittimare e per far perdere indipendenza a un settore della magistratura stessa. Su questi temi ci sono settori della magistratura disposti ad alzare la voce? A fermare la deriva autoritaria e reazionaria che oggi sembra inarrestabile? A uscire dal coro, a riprendere in mano le battaglie per il diritto, opponendosi al dilagare del corporativismo che da 30 anni ha preso il sopravvento nella categoria?
Antonietta Fiorillo: “Giudici di sorveglianza sotto tiro di politici, stampa e colleghi”. Giovanni Altoprati su Il Riformista il 30 Aprile 2020. «In questo Paese, purtroppo, sui temi del carcere, della magistratura di sorveglianza, della devianza in genere, si fa sempre molta spettacolarizzazione e poca informazione», afferma Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza (Conams). I magistrati di sorveglianza, dopo giorni di polemiche violentissime, hanno diramato ieri un comunicato per respingere «la campagna di delegittimazione», in alcuni casi spintasi fino al “dileggio”, suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati sottoposti al regime del 41 bis. Un attacco “ingiustificato” che rischia di ledere «l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione» e la “serenità” che quotidianamente deve assisterli nelle “difficili decisioni” in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito il mondo penitenziario. «Le norme applicate, quindi la sospensione della pena per chi si trovi in stato di grave infermità fisica, si rinvengono nel codice penale ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana», sottolineano i magistrati di sorveglianza, ricordando a tutti che continueranno a svolgere il proprio dovere senza pressioni o condizionamenti esterni.
Presidente, vi sentite sotto tiro?
«Io alle polemiche sono abituata da tempo. Non è la prima e non sarà l’ultima volta. Dopo tanti anni che svolgo questa funzione (prima di Bologna, la dottoressa Fiorillo è stata presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, ndr) sono ormai “corazzata”».
Non ho dubbi, però questa volta mi sembra che “l’assedio” venga da più fronti: commentatori, editorialisti, politici, Tv, anche qualche suo collega pm…
«Guardi, mi sono laureata con una tesi sui limiti dell’articolo 21 della Costituzione nelle sentenze della Corte costituzionale. Sono da sempre per la massima libertà di espressione da parte tutti. Nei limiti, ovviamente, della continenza».
Va bene, ma non crede comunque che si stia esagerando?
«Il discorso è molto complesso. Nessuno ha mai avuto l’interesse di dire al cittadino quali sono i compiti e le funzioni della magistratura di sorveglianza».
Forse perché è una magistratura molto specializzata (sono circa centocinquanta i magistrati di sorveglianza) e quindi poco conosciuta al grande pubblico?
«Non solo. Il dibattito sulla nostra funzione è sempre stato polarizzato: o la si ama o la si odia. E questo non va bene. In entrambi i casi, naturalmente».
Si può affermare che sul vostro ruolo esiste condizionamento ideologico?
«Può darsi. Ma ciò non toglie il fatto che le nostre decisioni vengono sempre prese in “scienza e coscienza”, senza pregiudizio alcuno».
Nel comunicato avete ricordato che il vostro riferimento è la Costituzione.
«Esatto. Ad iniziare dalla tutela del diritto alla salute della collettività. Abbiamo questa visione che tanti non hanno».
Alcuni commentatori, a proposito dei rischi di contagio da Covid-19, dicono che il carcere è oggi il luogo più sicuro che ci sia.
«Non è vero. È un errore. Nel carcere non esiste un dentro o un fuori ma c’è un dentro che è collegato al fuori. Mi spiego: anche se i detenuti non escono, gli agenti della polizia penitenziaria, i medici, gli operatori, entrano ed escono. Il carcere non è impermeabile dall’esterno. E noi dobbiamo considerare proprio questo aspetto».
Non vuole, allora, replicare a qualche suo collega che ha attaccato la magistratura di sorveglianza in questi giorni? C’è chi ha addirittura parlato di un cedimento alla mafia.
«Ripeto, noi magistrati di sorveglianza cerchiamo di garantire una risposta di giustizia. E comunque i provvedimenti, che sono pubblici, si impugnano, non si “aggrediscono”. Inviterei tutti a leggerli prima di criticarli».
Forse, e torniamo alla domanda iniziale, c’è stato un deficit di comunicazione?
«Gli organi d’informazione su questo punto hanno una grande responsabilità. Un’informazione corretta deve far capire cosa effettivamente sta succedendo. Se l’informazione rinuncia a questo importantissimo ruolo è finita.
Antonietta Fiorillo: «Noi giudici di sorveglianza seguiamo la Costituzione: se un detenuto rischia la vita deve uscire». Valentina Stella su Il Dubbio il 30 aprile 2020. Intervista ad Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza. La misura deve essere colma se la dottoressa Antonietta Fiorillo, Presidente del Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza, insieme al collega Marcello Bortolato ha firmato un duro comunicato per respingere «con forza la campagna di sistematica delegittimazione» portata avanti anche da «autorevoli esponenti della Magistratura e delle Istituzioni» e suscitata dalle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni condannati al 41 bis. «I magistrati di sorveglianza – si legge nella nota del Conams – si sentono colpiti da un ingiustificato attacco che rischia di ledere ad un tempo l’autonomia e l’indipendenza della loro giurisdizione, esercitata nel pieno rispetto della normativa vigente, e insieme la serenità che quotidianamente deve assistere, in particolare in un momento così drammatico per l’emergenza sanitaria che ha colpito anche il mondo penitenziario, le loro spesso difficili decisioni».
Dottoressa Fiorillo, scrivete che alcuni si sono spinti fino al dileggio nei vostri confronti.
«Quello che chiediamo, come fatto anche in altre occasioni, è che si affronti il problema partendo dai dati reali: le norme applicate nei casi in oggetto si rinvengono nel codice penale che, ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, all’art. 147 prevede la sospensione della pena qualora essa debba eseguirsi nei confronti di chi si trovi in stato di “grave infermità fisica”. Questo può piacere o non piacere ma è la scelta di politica giudiziaria che ha fatto il Legislatore molti anni fa. I magistrati che si occupano dell’esecuzione della pena sono chiamati ad applicare questa legge in scienza e coscienza e a motivare le loro decisioni. Poi esistono dei rimedi tecnici da applicare alle decisioni prese, come le impugnazioni, che spettano agli organi competenti, come la Procura».
Un riferimento importante nel comunicato è all’articolo 27 della Costituzione.
«Noi ci muoviamo nel solco della Carta Costituzionale che ha guidato il legislatore nell’emanare una legge sull’ordinamento penitenziario. Le nostre interpretazioni delle norme si muovono nell’ambito dei paletti posti dalla Costituzione e dalle sentenze della Consulta. La Magistratura di sorveglianza è stata sempre consapevole della rilevanza degli interessi in gioco e del loro, quando possibile, bilanciamento ed ha sempre operato, nel pieno rispetto delle norme, in particolare dell’art. 27 della Costituzione che impone venga assicurata a qualunque detenuto, anche il più pericoloso, una detenzione mai contraria al senso di umanità, valutando caso per caso previa interlocuzione, come avvenuto in questi casi, con tutte le Autorità coinvolte, che hanno il preciso dovere di rispondere nei tempi e nei modi processualmente congrui e nei contenuti adeguati. Noi non applichiamo le nostre idee. Una legge una volta emanata deve essere applicata, secondo le corrette regole di interpretazioni. Le norme prevedono la tutela del diritto alla salute come diritto primario anche per le persone detenute condannate per reati di grave allarme sociale, valutando altresì l’attualità della pericolosità del soggetto attraverso il compendio di informazioni che la magistratura di sorveglianza richiede».
Dopo giorni di polemica avete deciso di scrivere la nota soprattutto per parlare a chi non conosce i meccanismi.
«Il nostro obiettivo è che chi non ha le conoscenze specifiche capisca il giusto inquadramento del problema. In una fase così delicata del Paese in generale, alle persone vanno forniti i dati che ognuno poi può valutare liberamente. La nostra attenzione verso la situazione sanitaria degli istituti di pena in questo periodo di emergenza sanitaria va inquadrata in una attenzione generale verso tutto il mondo penitenziario: detenuti, agenti di polizia penitenziaria e tutti gli operatori che entrano e escono dal carcere. Ci interessiamo anche della salute della collettività: se si diffondesse l’epidemia all’interno delle mura carcerarie ciò potrebbe portare alla diffusione del virus fuori, un problema per tutta la collettività».
Concludete il comunicato scrivendo che i magistrati di sorveglianza non sono sottoposti a qualsivoglia pressione e continuerete a lavorare come sempre fatto.
«Il problema non è solo della magistratura di sorveglianza. Il giudice è una persona che deve sentirsi libero di poter garantire un giudizio terzo ed imparziale al cittadino, e applicare in scienza e coscienza ciò che è scritto nelle norme».
Scarcerazioni Bonura e Zagaria, il partito dei Pm diffama i magistrati di sorveglianza. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Lungi dal placarsi, l’inverecondo linciaggio di magistrati di Sorveglianza che fanno solamente il loro dovere, il loro difficilissimo ed ingrato mestiere, aggiunge ogni giorno sassi scagliati senza il benché minimo sentimento di misura, di rispetto della verità, e di senso del pudore. Stando alla solita filiera mediatico-giudiziaria dei guardiani della ortodossia politica, etica e legalitaria che imperversa senza freni nel nostro Paese, dobbiamo allora necessariamente presumere che magistrati di Sorveglianza da sempre ansiosi di sguinzagliare liberi ed impuniti per il Paese mafiosi, ndranghetisti, terroristi e criminali di ogni genere e natura, abbiano colto la ghiotta occasione della pandemia per realizzare finalmente la turpe missione alla quale hanno votato la propria toga. Occorrerebbe almeno che ci venisse data una spiegazione. Chi sarebbero, costoro? Giudici imbelli? Ricattati? Corrotti? Intimoriti? Sodali di quei criminali? Mi rendo conto che riuscire a ottenere una risposta, o almeno avviare una riflessione, mentre fischiano i sassi di questa indignazione berciante, protetta da un conformismo protervo e stomachevole, è impresa impossibile. E tuttavia, mentre puntuali giungono le notizie di ispezioni e tonitruanti riforme normative di stampo poliziesco, nemmeno è possibile rassegnarsi, tacendo di fronte a questo spettacolo indecoroso, indifferente ai fatti. Che sono due. Il primo riguarda un signore che ha espiato pressoché per intero la pena inflitta di poco più di 14 anni di reclusione, per gravi fatti di estorsione e altri reati connessi di stampo mafioso. Detratta l’ultima quota di sicura liberazione anticipata (ha già fruito legittimamente delle precedenti), sarebbe uscito dal carcere tra otto mesi. Senonché, ha un cancro al colon in uno stadio che -apprendiamo- il Tribunale di Sorveglianza ha accertato essere talmente avanzato da determinare una condizione di incompatibilità con il permanere (per quei residui otto mesi) in carcere. Gli indignados che straparlano di inaudito cedimento al ricatto mafioso hanno dunque notizia che tale condizione sia falsa, o pretestuosa, o ingigantita ad arte? Non ho letto nulla del genere; non una tra quella pioggia di vituperanti e fiammeggianti parole di sdegno si è soffermata su questa senz’altro allarmante ipotesi. Nemmeno ci viene spiegato cosa cambierebbe, per la sicurezza sociale messa così irresponsabilmente in pericolo, l’anticipazione di qualche mese di quella libertà che il detenuto avrebbe comunque e definitivamente riguadagnato tra una manciata di settimane. Perché vi comunico una notizia su come funzionano le cose: perfino un mafioso, quando ha scontato la pena inflittagli, ritorna libero tra di noi. Oddio, i guardiani della pubblica moralità potrebbero cogliere l’occasione per proporre il carcere a vita per qualunque reato di mafia, e questo – mi diano retta – è il governo giusto per provarci con successo. Nel frattempo tuttavia le cose funzionano come vi ho detto. Il secondo è un condannato per fatti di camorra che ha un cancro alla vescica, giunto a uno stadio che richiede cure specialistiche indisponibili nel carcere dove attualmente è ristretto. Il Tribunale chiede formalmente al Dap di indicargli altra struttura detentiva attrezzata all’uopo, dove trasferire il malato. Il Dap non risponde, e dopo oltre venti giorni di silenzio il Giudice di Sorveglianza, al quale non possiamo chiedere né di cancellare d’imperio il diritto alla salute del detenuto, né di assumersi responsabilità gravissime e personali, lo scarcera perché possa curarsi.In quale modo, per quale ragione minimamente seria e credibile si deve immaginare che un Paese civile possa crocefiggere quei giudici? Occorre allora rassegnarsi a un dato di fatto: esistono magistrati di serie A e magistrati di serie B. Magistrati che quando arrestano 400 persone vengono portati in trionfo, senza attendere di sapere (e sarebbe decisamente il caso) se e quanti di quegli arrestati saranno poi giudicati effettivamente colpevoli; e magistrati che amministrano la giustizia convinti di dover rispettare anche quella regola secondo la quale il diritto alla salute di un detenuto per mafia vale quanto il diritto alla salute di chiunque di noi. Se osi dire una parola sui primi, sarai crocefisso; se lanci la prima pietra sui secondi, seguirà linciaggio di massa, e l’immancabile decreto-legge: per aumentare il potere dei primi, guarda caso.
Chi è Roberto Tartaglia, il "commissario" Dap che a 10 anni indagava su Riina…Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Il capo del Dap, Francesco Basentini, ormai è delegittimato. Messo alla porta prima da Renzi, poi da Giletti, poi dai davighiani, poi da Bonafede. Renzi aveva chiesto che fosse rimosso per via dei 13 morti in carcere durante la rivolta. È caduto invece per ragioni opposte: hanno scaricato su di lui la colpa di avere consentito la scarcerazione di due detenuti in fin di vita. Si sa che i moribondi si tengono in cella, che diamine! ‘Sto Basentini deve aver confuso l’Italia con un Paese civile. Sciò. Non lo hanno ancora sostituito ma lo hanno commissariato. La biografia del commissario, cioè di questo ex Pm Tartaglia, è riassumibile in poche parole: allievo di Di Matteo. Di Matteo sarebbe quel membro del Csm che ha accusato la sua collega milanese che aveva scarcerato un detenuto ottantenne, più o meno, di “intelligenza con la mafia”. Cioè di avere ceduto al ricatto. Diciamo, a occhio, favoreggiamento. Di Matteo è l’ex Pm che credette al pentito Scarantino, che si era inventato tutto (o era stato imbeccato) e in quel modo mandò a puttane le indagini sull’uccisione di Borsellino. Di Matteo è quello che ha dato l’anima per mandare a processo il generale Mori, cioè uno dei pochi che dopo la morte di Falcone ha proseguito la sua opera di lotta alla mafia, giungendo, dopo 30 anni di latitanza, all’arresto del capo della mafia, cioè di Riina. A Tartaglia non possono essere addebitate le responsabilità del suo maestro, ovvio. Ma se volete indovinare la sua dottrina serve conoscere il suo maestro. È quella squadra lì. E infatti un altro grande eroe dell’antimafia professionale, Nicola Morra, 5 Stelle doc, ha esultato per la sua nomina, peraltro avvenuta per decisione del ministro cinquestellissimo, Bonafede. Per la verità, nella biografia ufficiale di Roberto Tartaglia, diffusa anche dall’Ansa, c’è scritto che ha indagato sui corleonesi di Totò Riina e ha svolto indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro. Vabbè: Riina è stato catturato (dal generale Mori, cioè quello che Tartaglia ha contribuito a mettere sotto processo) nel gennaio 1993: Tartaglia aveva 10 anni. Quinta elementare. E Messina Denaro, se non siamo male informati, è ancora libero. Ecco: le carceri ora sono in mano a questo qua. Al “piccolo Di Matteo”. Chi di noi mai avrebbe pensato che dopo nemmeno due anni avremmo rimpianto lacrimando i tempi di Orlando come tempi di ipergarantismo? Quante critiche ingiuste a quel povero ministro! (Magari, se oggi dicesse qualche parola liberale anche lui non sarebbe male…). Oggi la situazione è questa. I rosso-bruni marciano trionfanti nei palazzi della politica e in quelli della Giustizia. Sembrano inarrestabili. Avanzano senza paura di nessuno, e la gran parte di quelli che in passato si era un po’ opposta, ora gli va dietro. Tartaglia negli ultimi tempi ha fatto il consulente di Morra all’antimafia. Volete che vi parli due minuti di Morra? Beh, basta dare un’occhiata all’auto-intervista (1) che ha fatto pubblicare ieri dalla Stampa. In questa auto-intervista ci sono due perle. La prima, di tipo squadrista, sono le minacce ai pochi giornalisti, agli avvocati, e ai pochissimi politici che si sono battuti per l’indulto o per qualche misura di riduzione del numero dei carcerati (forse nella lista dei nemici Morra ha segnato anche il Papa e il Presidente della Repubblica). Minacce generiche ma pesanti. Sembra di capire che Morra voglia usare l’antimafia per indagare su di loro (su di noi). Indagare per che cosa? Beh, un concorso esterno non si nega a nessuno. La seconda perla è clamorosa. Morra dice che i mafiosi non devono essere scarcerati mai perché sono prigionieri di guerra. Oddio, prigionieri di guerra? Ma lo sa Morra che se sono prigionieri di guerra vanno trattati da prigionieri di guerra? Che vuol dire? Innanzitutto che è proibito chiedergli informazioni, e dunque tutte le dichiarazioni dei pentiti dal 1981 a oggi sono illegali e prive di valore e tutti i processi di mafia vanno annullati. Quelli passati, quelli presenti, quelli futuri. Il pentitismo è finito. Bisogna tornare a fare indagini e raccogliere prove. Un vero disastro. Poi che i detenuti per mafia non possono essere isolati, e quindi salta il 41 bis. Devono essere trattati alla stregua di ufficiali dell’esercito regolare. E sul loro trattamento deve vagliare la Croce Rossa Internazionale. È anche possibile la richiesta che siano consegnati a uno stato neutrale. Questo povero Morra, diciamo la verità, di politica e di storia ne sa poco (insegnava filosofia, credo…), è finito lì in Parlamento un po’ per caso nell’andata degli uno-vale-uno. Ne può combinare di guai. Il problema è che uno degli aspetti più delicati nella vita di una nazione democratica, e cioè l’aspetto carcerario – e anche quello della giustizia – sono affidati a lui, a Bonafede, a Tartaglia e a gente così. Capite?
Roberto Tartaglia è l’erede di Francesco Di Maggio, il magistrato del "pentitificio". Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Aprile 2020.
2020. Un governo debole, un guardasigilli debolissimo, un capo del Dipartimento penitenziario inesistente. Che si fa? Si mette un uomo forte al fianco di uno debole. Ecco spuntare dal cilindro del ministro di giustizia Alfonso Buonafede il nome del pubblico ministero Roberto Tartaglia, uomo forte perché proviene dalla cantéra del prode Di Matteo e perché ha partecipato al banchetto del farsesco processo “trattativa” Stato-mafia. Tartaglia viene nominato al Dap come vice di Francesco Basentini, cui il ministro non vuol rinunciare, ma che viene messo a balia perché si faccia una cultura “antimafia”, in cui evidentemente è deboluccio. Il che significa non scarcerare più nessuno che sia sfiorato dai reati di mafia, neanche i vecchi moribondi. Chissà se tra 25 anni, al prossimo processo “trattativa” istruito dai nipotini di Di Matteo, Bonafede, Basentini e magari anche Tartaglia saranno immeritatamente ricordati come quelli che hanno scarcerato i boss per fare un favore alla mafia. Impossibile? Ma è quel che è capitato venticinque anni fa al più duro e intransigente vicepresidente del Dap, il più entusiasta applicatore del 41bis, Francesco Di Maggio.
1993. Il 29 aprile aveva votato il governo Ciampi, debole perché tecnico e destinato a segnare la fine della prima repubblica dopo nove mesi. Guardasigilli era un altro tecnico, Giovanni Conso, giurista raffinato ma inadatto a gestire la giustizia nei momenti tragici che seguirono la stagione delle stragi di mafia e il circo di tangentopoli. Alla presidenza del Dap un altro tranquillo magistrato, Alberto Capriotti. La confusione era totale, quando arrivò nella veste, solo apparente, di vice, Francesco Di Maggio, preceduto da un grande successo milanese, la resa del Talebano, quell’ Angelo Epaminonda che diventerà il primo pentito di mafia a Milano. Il pm milanese sapeva giocare con le carceri speciali e il 41bis come su una scacchiera. Dopo il suo arrivo al Dap, ben presto ci fu un uso spropositato dei “colloqui investigativi”, incontri riservati di funzionari di polizia con singoli detenuti, senza nessun controllo di magistratura. Quelli di Di Maggio si svolgevano in totale riservatezza, in locali con vetri affumicati e porte sprangate. Dopo l’incontro il detenuto cambiava velocemente luogo e regime di detenzione, scappava quasi senza i suoi vestiti e presto conquistava la libertà.
Francesco Di Maggio costruì un vero “pentitificio”. Pure, nella storiografia di chi apparentemente ha vinto, cioè quella di Travaglio-Ingroia-Di Matteo, e anche di Tartaglia che all’epoca aveva undici anni, il duro diventa il molle, quello che – e non se ne capisce il perché – il gentiluomo Conso avrebbe collocato al Dap per scarcerare i mafiosi. Bisognerebbe conoscerla bene la storia. E magari esserci stati. Successe che, verso la fine di quell’anno, un governo agli sgoccioli, fece quel che da tempo chiedeva non la mafia, come pensano gli imberbi storiografi, ma decine di giudici di sorveglianza e cappellani carcerari, oltre che un’opinione pubblica sconvolta dai racconti sulle torture perpetrate nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Non furono rinnovati 373 casi di 41bis. Non c’era nessun boss trai detenuti che fruirono del provvedimento, ma in gran parte reclusi che non appartenevano neanche ad associazioni mafiose ma che erano stati rastrellati e gettati nelle carceri speciali nel furore disordinato e un po’ impazzito del dopo-stragi. Una sorta di compensazione a qualche ingiustizia, insomma. Ma che è diventata la base del processo “Trattativa”. Di Maggio non c’entrava niente in quell’iniziativa del ministro Conso. E solo la morte nel 1996 a soli 48 anni lo salverà da una gogna che lo aspettava nella passerella del processo. La sua permanenza al Dap del resto durerà poco, perché dopo lo scioglimento delle Camere e l’arrivo del governo Berlusconi, alla giustizia si troverà il ministro Alfredo Biondi e l’incompatibilità tra i due sarà subito palese. Lo scontro arriverà nell’estate, al meeting di Comunione e Liberazione. Dove Di Maggio, nell’annunciare le proprie dimissioni, lascerà una sorta di testamento al cui centro pose proprio l’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario come fondamentale. In quaranta minuti di discorso attaccherà con forza “garantisti vecchi e nuovi” e ricorderà a proprio merito «il rapporto tra detenuti sottoposti a regime differenziato ex articolo 41 bis e numero di collaborazioni processuali in delitti di mafia importanti». Il pentitificio, insomma. E citerà a titolo di esempio proprio il pentimento di due indagati per l’assassinio di Paolo Borsellino. Uno dei due è il falso collaboratore Enzo Scarantino.
2020. Il Csm ha convalidato la vicepresidenza al Dap del pubblico ministero Tartaglia che, proprio nei giorni in cui si ha notizia che in breve tempo nelle carceri sono quadruplicati i casi di detenuti positivi al Covid-19, avrà il compito di fare il duro, di sorvegliare che qualche magistrato non disponga la liberazione di vecchi e malati. Ma sarà difficile che, essendo cresciuto nella bambagia del “processo trattativa”, possa mai raggiungere la statura di un vero repressore quale è stato Francesco Di Maggio.
Dap, Roberto Tartaglia "commissaria" lo sfiduciato Basentini. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Aprile 2020. È la mossa della disperazione: “commissariare” Francesco Basentini in vista del suo avvicendamento e salvare la propria poltrona a via Arenula. Dopo giorni di polemiche ferocissime, Alfonso Bonafede ha dunque scelto la linea dura per tranquillizzare l’elettorato giustizialista e Marco Travaglio che temono un cedimento nella gestione delle carceri. Il “commissario” è il pm del pool del processo Trattativa Stato-mafia Roberto Tartaglia. 38enne, napoletano, dieci anni di servizio in magistratura e zero esperienza in tema di sorveglianza. Ieri da via Arenula è partita la richiesta al Csm per il suo collocamento fuori ruolo con l’incarico, al momento, di “vice capo” del Dap. Con la nomina di Tartaglia, Bonafede spera di allentare la tensione su Largo Daga. Basentini, infatti, era stato graziato il mese scorso quando nelle carceri erano scoppiate sanguinose rivolte che avevano provocato 13 morti fra i detenuti, centinaia di feriti, maxi evasioni. Il Dap, e il Ministero della giustizia, erano stati accusati di non avere avuto un piano, scoppiata l’emergenza sanitaria, per contrastare la diffusione del Coronavirus con misure idonee per ridurre il sovraffollamento carcerario, coinvolgendo anche la magistratura di sorveglianza. Bonafede aveva scaricato la responsabilità di quanto accaduto sui singoli direttori, su alcune circolari, sulla burocrazia. La stessa burocrazia che, ad esempio, avrebbe impedito al Guardasigilli e a Basentini di conoscere le determinazioni dei Tribunali di sorveglianza a proposito dei recenti differimenti pena per motivi sanitari di alcuni detenuti al 41bis. Quella di Basentini, già procuratore aggiunto di Potenza, fu una delle prime nomine del Guardasigilli grillino appena insediatosi. Senza alcun trascorso specifico in materia penitenziaria, il magistrato lucano aveva allora uno sponsor potentissimo: Luca Palamara, l’ex presidente dell’Anm e ras di Unicost, la corrente di centro delle toghe di cui Basentini era il plenipotenziario in Basilicata. Legato al pm Luigi Spina, togato del Csm vicinissimo a Palamara e poi travolto nello scandalo sulle nomine dell’anno scorso, Basentini è stato “scaricato” dalla sua corrente. I vertici di Unicost, all’indomani degli attacchi al Dap, si sono limitati a diramare un generico comunicato stampa in cui invitavano la politica a risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. Dopo lo tsunami della scorsa estate, con due consiglieri dimissionari su cinque (Spina e il giudice Pierluigi Morlini), Unicost ha iniziato a perdere pezzi, subendo i diktat della nuova maggioranza al Csm, il binomio Area-Davigo, per non rimanere con la bocca asciutta nella partita delle nomine. L’obiettivo è contenere i “danni” nei prossimi due anni, fino a quando si tornerà a votare per il rinnovo del Csm. Sotto assedio da mesi, Unicost sta vedendo cadere, per vari motivi, molti dei propri esponenti di punta. Fra le toghe di centro costrette a lasciare recentemente l’incarico, il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, il procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Il terrore per i togati di Unicost è che la mannaia possa abbattersi anche su coloro che, nominati nella scorsa consiliatura del Csm, devono essere a breve valutati a Palazzo dei Marescialli per la riconferma nell’incarico. Ma la debolezza di Unicost, che sotto la gestione Palamara riusciva a imporre i vertici dei più importanti uffici giudiziari, rischia di penalizzare Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, molto esposta in questi giorni per impedire la diffusione del coronavirus nelle carceri lombarde. Fino a qualche mese fa il suo nome era in pole position per sostituire Marina Tavassi, presidente della Corte d’Appello di Milano, in procinto di andare in pensione per raggiunti limiti di età. Difficile, però, che nel clima di caccia alle streghe che si sta creando intorno alle carceri, Di Rosa possa essere votata dal Csm. Di Matteo, il magistrato preferito dai grillini e da Travaglio, ha sparato a zero, nel silenzio delle toghe di sinistra di Area, contro i provvedimenti di scarcerazione dei detenuti al 41bis disposti dalla Sorveglianza di Milano, paragonandoli a un cedimento “alla mafia”. L’ultima parola in questa complessa partita spetterà, ancora una volta, al tandem Davigo-Cascini a cui il nome di Tartaglia come prossimo capo del Dap potrebbe comunque andare bene.
Scarcerazioni, Travaglio e Bonafede impongono la linea al PD che china la testa. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Maggio 2020. Il Pd si allinea perfettamente ai 5 Stelle sulle carceri. Ieri ha diffuso una nota congiunta dei suoi tre massimi esponenti, nel campo della giustizia, nella quale china la testa in modo plateale alla prepotenza degli alleati. Sia per quel che riguarda il decreto che delegittima i giudici di sorveglianza, ponendoli sotto la supervisione della Procura antimafia e dei Pm, sia per la nomina del nuovo vice del Dap, scelto da Bonafede e Morra (cioè dai due leader dei Cinque stelle in tema di giustizia), e allievo prediletto dell’ex Pm Di Matteo. Si chiama Roberto Tartaglia ed è un giovane magistrato che non ha nessuna esperienza di carceri e che nella sua carriera può vantare solo la partecipazione al processo sulla trattativa Stato-mafia, quello basato sulla teoria complottista (di Ingroia e Di Matteo) che già è stata smontata in almeno altri tre processi. Gli autori della nota congiunta del Pd – Verini, Mirabelli e Bazzoli – non reagiscono in nessun modo neanche alle dichiarazioni gravissime di Di Matteo (che ha accusato il tribunale di sorveglianza di Milano di essere sotto il ricatto della mafia) e accettano con tranquillità il nuovo corso, con tutto il potere ai Pm in nome della lotta alla mafia. È un passaggio molto impegnativo per il Pd, che negli ultimi anni aveva avuto qualche tentazione “garantista”. In questo frangente fa la scelta opposta: sacrifica ogni principio del diritto sul tavolo del compromesso coi 5 Stelle. I quali hanno partita vinta e dimostrano di avere carta bianca sul terreno della giustizia, così come l’hanno avuta qualche mese fa quando si era aperto il fronte della prescrizione. Sull’altro versante, diciamo sul versante della difesa della Costituzione, le forze schierate sono pochine. Ieri sono tornate in campo le Camere penali con una nota durissima di condanna per il decreto che blinda le porte delle carceri e delegittima la magistratura di sorveglianza. Per il resto è un gran silenzio. L’impressione è che Travaglio e Bonafede abbiano vinto la partita.
Dap, Basentini non accetta commissariamento di Tartaglia e sbatte la porta. Redazione su Il Riformista l'1 Maggio 2020. Francesco Basentini ha presentato ieri le dimissioni da Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). La notizia, non ancora confermata dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede, è iniziata a circolare ieri, in tarda serata, quando, su Facebook, il senatore della Lega Stefano Candiani ha postato un video in cui ha annunciato le dimissioni del capo dell’amministrazione penitenziaria. “Siamo riusciti a ottenere oggi le dimissioni del direttore del Dap. È il primo che paga il conto che ora deve passare a Bonafede“, dice il ricordando la vicenda delle scarcerazioni dei boss. In mattinata arrivano anche le reazioni di Italia Viva: “Si rincorrono voci, non confermate, sulle dimissioni del Capo dell’amministrazione delle carceri, Basentini. Italia Viva le ha chieste pubblicamente da tempo. Sarebbero un gesto necessario anche se tardivo. Bonafede proponga come nuovo capo una figura saggia e autorevole”, scrive Maria Elena Boschi. Di segno uguale anche il commento di Gennaro Mgliore: “Sono sempre più insistenti le voci delle possibili dimissioni del Capo Dap Basentini. Come Italia Viva le chiediamo da tempo. Si risponda alle urgenti necessità di sicurezza e affidabilità di una amministrazione che merita, oggi più di ieri, una guida autorevole e qualificata“. Più tardi arriva una nota del capo della Lega Matteo Salvini, che chiede un passo indietro del Guardasigilli: “Le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera. Il ministro Bonafede è il primo responsabile: dimissioni! Secondo notizie circolate negli ultimi giorni la scelta del successore di Basentini potrebbe ricadere su Nino Di Matteo, una decisione anticipata dalla nomina di Roberto Tartaglia come vice di Basentini.
Massimo Giletti ha vinto: Basentini si dimette dal Dap. Il drammatico scontro telefonico a Non è l'Arena. Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. "Ma ci prendiamo in giro?". Massimo Giletti, nell'ultima puntata di Non è l'Arena, arrivò al punto di aggredire verbalmente Francesco Basentini, capo del Dipartimento di Amministra penitenziaria, a tal punto era indignato per la serie di ritardi burocratici e reticenze nel Dap che hanno portato alla scarcerazione del camorrista Pasquale Zagaria, boss dei Casalesi. Uno scandalo che ha portato a sviluppi clamorosi: anche a seguito del caso sollevato da Giletti, Basentini si è dimesso. A confermarlo è il Corriere della Sera, ricordando come a scatenare le polemiche sul caso sia stato proprio il ritardo con cui il Dap ha risposto alla richiesta del Tribunale di Sorveglianza di Sassari su come comportarsi di fronte all'aggravamento delle condizioni di salute del boss con conseguente richiesta di scarcerazione. Le alternative al ritorno a casa c'erano, ha ricordato Giletti in puntata, prima di lasciarsi andare a un devastante sospetto proprio col Corriere: "Non penso a trattative, ma mi colpisce il silenzio dei mafiosi in cella". "Le polemiche di questi giorni sono strumentali e totalmente infondate ma fanno male al dipartimento", avrebbe detto Basentini in un incontro avvenuto ieri col ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, secondo fonti di via Arenula riportate dal Corsera. Basentini di fatto era già stato commissariato dal ministro, che ora potrebbe affidare la sua poltrona a Nino Di Matteo, anche perché il vice di Basentini Roberto Tartaglia è molto vicino al magistrato siciliano.
Giustizia, Basentini si è dimesso dai vertici del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il fuoco di fila sull'ormai ex capo del Dap era iniziato a marzo con le rivolte nelle carceri che hanno portato alla morte di 14 persone e una clamorosa evasione di massa a Foggia. Leo Amato su il Quotidiano del Sud l'1 maggio 2020. Si è dimesso ieri sera dai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’ex pm potentino Francesco Basentini. Il passo indietro è maturato ieri sera dopo che anche il Pd si è accodato alle pressanti richieste di rimozione partite dall’opposizione e cavalcate, all’interno della maggioranza, dall’ex premier Matteo Renzi e i suoi fedelissimi, mai dimentichi della sua firma sull’inchiesta Tempa Rossa, che nel 2016 segnò l’inizio del declino per il politico fiorentino. Il fuoco di fila sull’ormai ex capo del Dap era iniziato a marzo con le rivolte nelle carceri che hanno portato alla morte di 14 persone e una clamorosa evasione di massa a Foggia. Quindi si è intensificato a seguito degli arresti domiciliari concessi dai Tribunali di sorveglianza di mezza Italia, per il rischio sanitario, a diversi detenuti in condizioni precarie, tra i quali diversi nomi “eccellenti” del crimine organizzato come il casalese Pasquale Zagaria, fratello del più noto Michele. Scarcerazioni accompagnate da un duro scambio di accuse tra il Dap, a cui è stato contestato di aver emanato una circolare in cui si invitavano i direttori delle carceri a segnalare i detenuti in condizioni sanitarie a rischio, e i magistrati di sorveglianza. Basentini era stato scelto due anni fa dal ministro M5s della giustizia Alfonso Bonafede per guidare l’amministrazione penitenziaria. Martedì, dopo che le polemiche per le scarcerazioni erano tornate ad accendersi in televisione dalle frequenze di La7 con una violenta invettiva di Massimo Giletti, era arrivata la nomina di un vice alla guida del Dap, Roberto Tartaglia, per 10 anni in servizio nell’antimafia di Palermo. A gennaio Basentini si era conquistato la fama di “punitore” anche tra alcuni sindacalisti della polizia penitenziaria dopo aver licenziato 5 agenti scoperti a suonare al matrimonio di un noto cantante neo-melodico napoletano e della vedova di un boss di camorra. “Le dimissioni di Basentini sono tardive ma giuste”. E’ stato il commento a caldo alla notizia dell’ex ministro renziano Maria Elena Boschi, che ha rivendicato come Italia viva le avesse invocate “pubblicamente in tutte le sedi”. “Le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini non bastano a cancellare quanto successo in poche settimane tra carceri in rivolta, morti, evasioni e perfino mafiosi e assassini usciti a decine di galera”. Così il leader della Lega Matteo Salvini, che ha rilanciato la richiesta di dimissioni anche di Bonafede. “Con le sue dimissioni da responsabile del Dap il dottor Basentini ha compiuto un gesto giusto e non inatteso, di cui gli va dato atto”. Ha scritto in una nota il deputato e responsabile giustizia del Pd Walter Verini. “Nel momento drammatico delle rivolte e delle morti in carcere e delle pericolosissime punte di sovraffollamento non ci eravamo accodati alle voci di chi chiedeva dimissioni immediate. In quel momento bisognava solo lavorare per spegnere gli incendi. Oggi i detenuti sono circa 53.000. Anche se ancora troppi, non sono i 61.000 di un mese fa. Poi c’è stata la brutta vicenda delle scarcerazioni di alcuni boss mafiosi e anche in questa vicenda il Dipartimento ha mostrato alcune lacune. Per questo anche come Pd abbiamo da qualche giorno posto il problema di una riflessione seria sul funzionamento del vertice del Dap. Le dimissioni del dottor Basentini possono aiutare il lavoro di rafforzamento per una gestione dell’Ordinamento Penitenziario fondata sui principi fissati dalla Costituzione: pena certa, trattamenti umani, percorsi di recupero e reinserimento per non tornare a delinquere. Dopo la significativa nomina a vice del dottor Tartaglia, ci aspettiamo adesso per il ruolo di Responsabile una figura autorevole, capace e all’altezza della delicata situazione”.
Dimissioni Basentini, Nessuno Tocchi Caino: “Ha pagato l’essere un antimafioso poco furioso". Redazione su Il Riformista l'1 Maggio 2020. L’associazione Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem, sulla notizia delle dimissioni da capo del DAP di Francesco Basentini, con gli esponenti Rita Bernadini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti ha dichiarato quanto segue: “Con Francesco Basentini non abbiamo mancato di polemizzare, aiutandolo, durante il tempo della sua presidenza del DAP, né di segnalare i casi più gravi legati alle condizioni di detenzione nelle carceri sovraffollate del nostro Paese. Detto questo, le sue dimissioni non sono altro che il risultato dell’inasprimento di una linea, sempre più sguaiata e compulsiva, che in questi ultimi mesi si vorrebbe imporre su tutto e a tutti. Troppo anche per Francesco Basentini, da sempre ‘antimafioso’, ma non abbastanza furioso quanto lo sono quelli in voga oggi, per i quali la lotta alla mafia deve essere una guerra senza quartiere, da condurre all’insegna della terribilità e anche in deroga a principi costituzionali fondamentali e diritti umani universali, quali il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona. Le Erinni dell’Antimafia, della Certezza della Pena, del Fine Pena Mai, non abitano solo in via Arenula, popolano anche il mondo della politica e dell’informazione. In quest’ultimo, fanno eccezione Il Riformista diretto da Piero Sansonetti totalmente dedito a una straordinaria campagna politica e culturale garantista; fanno eccezione anche Carlo Fusi, Errico Novi e Damiano Aliprandi per la loro meritoria opera di informazione dalle pagine de Il Dubbio. Consola poi leggere e ascoltare gli interventi, a tutela della Costituzione e a garanzia dei diritti di giustizia e libertà, di alte magistrate come Marta Cartabia, Presidente della Corte Costituzionale, Giovanna di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano e, ancora, di Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e coordinatrice del Coordinamento nazionale magistrati di Sorveglianza, così come di Alessandra dal Moro, componente del CSM, tutte donne capaci, nel dialogo anche con le Erinni, di contenerle, porre loro un limite e volgerle al bene, preservando così il senso autentico del Diritto che è volto a evitare che l’individuo, detenuto o libero che sia, sia ridotto a mero oggetto di consumo, da usare e di cui abusare”.
E’ Dino Petralia il nuovo capo del Dap. Il Dubbio il 2 maggio 2020. Magistrato antimafia amico di Giovanni Falcone, è stato scelto oggi dal ministro Alfonso Bonafede in sostituzione del dimissionario Basentini. A sorpresa il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha scelto Dino Petralia come nuovo capo del Dap. La nomina arriva dopo le dimissioni del precedente vertice, Francesco Basentini, travolto dalle critiche dopo la messa ai domiciliari di alcuni boss. Dino Petralia, magistrato antimafia che era con Giovanni Falcone nel Movimento giustizia, è stato pm a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Dal 2006 al 2010 è stato membro del Csm, con la corrente che oggi è nel gruppo Area insieme a Magistratura democratica. L’anno scorso era stato accreditato come possibile successore alla Procura di Torino di Armando Spataro, ma Petralia ha rinunciato alla candidatura quando il suo nome è finito nelle carte del caso Palamara che ha sconvolto il Csm. In quell’occasione ha dichiarato: “Per me è insieme un momento di grande amarezza ma anche un recupero di serenità. Al danno si è aggiunta la beffa, ma non sono disponibile a sporcare la mia dignità”.
È Dino Petralia, da sempre toga antimafia, il nuovo capo delle carceri scelto da Bonafede. Dino Petralia con la moglie Alessandra Camassa anche lei magistrato. Amico di Falcone, con lui nel Movimento giustizia, Petralia ha lavorato a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Al Csm ha contestato le leggi di Berlusconi. L'anno scorso ha ritirato la sua candidatura a procuratore di Torino perché Palamara, Lotti e Ferri avevano fatto il suo nome. Liana Milella il 02 maggio 2020 su La Repubblica. En plein antimafia al vertice delle carceri. Come segnale netto contro chi addebita al governo la responsabilità di aver messo ai domiciliari dei boss. A sorpresa il Guardasigilli Alfonso Bonafede sceglie come nuovo capo Dino Petralia, una vita spesa nella lotta alle cosche e, nello stesso tempo, nell'approfondimento giuridico per garantire una giustizia giusta. La vita di Petralia va tutta in una direzione, dalla parte dello Stato contro chi ne viola le leggi. Contro la mafia, senza indulgenze di sorta, ma nel pieno rispetto della Carta e delle leggi che ne originano. Bonafede, che ormai da giorni rifletteva sul nuovo incarico, ha chiuso la partita il primo maggio. Il Guardasigilli ha incontrato e insediato al Dap il vicedirettore Tartaglia. Su Petralia dice solo poche parole dopo la conference call con il premier Giuseppe Conte: "In attesa della risposta del Csm (che deve autorizzare il suo fuori ruolo, ndr.) posso solo dire che si tratta di un magistrato che ha speso la sua vita per la giustizia e la lotta alla mafia". A Petralia arrivano anche le lodi da ex collega di Piero Grasso che parla di "ottima scelta" e di un magistrato "serio e competente" che, con il vice Tartaglia, "saprà affrontare con rigore e nel rispetto dei diritti il delicato tema delle carceri". En plein perché accanto a Petralia ci sarà come vice l'ex pm antimafia Roberto Tartaglia, già scelto da Bonafede tre giorni fa. Un team che sostituisce il dimissionario Francesco Basentini e che taglia le polemiche politiche sulle recenti scarcerazioni dei boss (Zagaria, Bonura, Iannazzo e altri) decise dai magistrati di sorveglianza, ma addebitate politicamente allo stesso Bonafede. Il quale ha comunque avviato, per il via libera a Zagaria, un'indagine ministeriale. Stamattina Tartaglia prende ufficialmente possesso dell'incarico di vice direttore, e subito dopo la stretta di mano con il Guardasigilli andrà al Dap. Tra i due, Petralia e Tartaglia, il rapporto è ottimo, perché entrambi hanno lavorato a Palermo, Tartaglia pm e Petralia procuratore aggiunto. Di più: Tartaglia lavorava nel pool sulla corruzione, di cui Petralia era il diretto coordinatore. È la prima volta che la scelta di un vertice cade su due figure già in stretto rapporto tra di loro, che quindi possono garantire una guida concordata. Ma vediamo chi è Petralia e qual è stata la sua carriera. Sempre elegantissimo e curato nei dettaglia, Bernardo Petralia, Dino per gli amici e di fatto per tutti, classe 1953, è un siciliano ma di madre ligure. Inizia il suo lavoro di magistrato a Trapani dove lavora in procura con Giacomo Ciaccio Montalto, il magistrato ucciso dalla mafia. Come racconta il sito nonsiamofannulloni, it, che pubblica la sua biografia e anche la foto che vi proponiamo, assieme alla moglie Alessandra Camassa, anche lei magistrato e oggi presidente del tribunale di Marsala, Petralia proprio a Trapani "scopre la più grande raffineria di droga di cui si servivano le famiglie mafiose". Nel 1985 si trasferisce a Sciacca dove, come giudice istruttore, istruisce il primo processo contro le cosche in cui utilizza i pentiti storici di Cosa nostra, da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno a Pietro Calderone. Nel 1990 eccolo al tribunale di Marsala come giudice, prima civile e poi penale, dove presiede il collegio dei primi processi di mafia celebrati con il nuovo codice. A soli 43 anni, nel 1996, diventa procuratore di Sciacca, dove resta per dieci anni fino alla sua nomina nel 2006 a consigliere del Csm. Di quel periodo si ricordano le misure patrimoniali, in particolare una da 400 miliardi di vecchie lire, tra le più cospicue che siano mai state fatte. Al Csm la corrente di Petralia è il Movimento per la giustizia, il gruppo che aveva tra i fondatori Giovanni Falcone e che nell'attuale Consiglio figura nel gruppo di Area assieme a Magistratura democratica. Dal 2006 al 2010, al Csm negli anni caldi delle leggi ad personam di Berlusconi e Angelino Alfano. Petralia non si tira indietro dai richiami alla Costituzione e alla necessità di rispettarla. Quando il suo quadriennio finisce non cerca un posto di vertice negli uffici giudiziari che pure gli spetterebbe visto che è stato procuratore, ma torna a fare il semplice pubblico ministero a Marsala, per poi passare a Palermo nel 2013 come procuratore aggiunto. Tre anni fa eccolo conquistare il ruolo di procuratore generale a Reggio Calabria. Poi, a giugno dell'anno scorso, quando era il più accreditato possibile successore al posto di procuratore a Torino dopo Armando Spataro, ecco la sua immediata rinuncia e il ritiro della candidatura quando il suo nome finisce nelle carte di Perugia del caso Palamara e le intercettazioni svelano che proprio Palamara, Cosimo Maria Ferri, parlamentare Pd oggi renziano ed ex leader di Magistratura indipendente, e il renziano e oggi Pd Luca Lotti, ovviamente a sua insaputa, erano a suo favore. In quell'occasione ad Alessandra Ziniti di Repubblica Petralia dice: "Per me è insieme un momento di grande amarezza ma anche un recupero di serenità. Al danno si è aggiunta la beffa, ma non sono disponibile a sporcare la mia dignità". Basentini ha salutato i suoi collaboratori giovedì sera dicendo che "tornava a Potenza", la città dov'è stato pm e dove ha seguito anche l'inchiesta Tempa rossa. Questo ha fatto trapelare ieri mattina la notizia, annunciata dal segretario del Sappe Donato Capece. Una decisione assunta dopo un colloquio con Bonafede, che si è concluso con le sue dimissioni. Subito dopo le rivolte di febbraio in ben 27 penitenziari italiani, concluse con il tragico bilancio di ben 14 morti e 35 milioni di euro di danni, nonché il carcere di Modena completamente distrutto e inagibile, Bonafede aveva cominciato a pensare a una sostituzione di Basentini, non realizzata subito, nonostante le pressioni dell'opposizione di centrodestra e le richieste espresse dei renziani, perché riteneva di non mettere mano al vertice in un periodo di crisi. Poi il Covid e le scarcerazioni dei boss dopo una circolare sugli over 70 del vertice del Dap, hanno fatto precipitare la situazione. In particolare a far rumore è stato, a Sassari, il caso della concessione dei domiciliari al boss della camorra Pasquale Zagaria. Petralia arriverà a Roma la prossima settimana. Tartaglia è già al Dap da oggi. E oggi comincia una sfida sulle prigioni italiane dopo le rivolte di febbraio, le scarcerazioni di numerosi mafiosi, le polemiche su Basentini. Conoscendo i due magistrati si può già immaginare quale sarà la loro linea: nessuna concessione ai mafiosi e ai detenuti al 41 bis, ma un carcere comunque giusto, senza soprusi, né violenza.
Il governo dà le carceri al magistrato anti Cav che incriminò i 5 Stelle. Al posto di Basentini (licenziato) arriva il procuratore generale di Reggio Calabria. Luca Fazzo, Domenica 03/05/2020 su Il Giornale. Sessantamila detenuti sull'orlo della crisi di nervi, i sindacati degli agenti in polemica permanente, il coronavirus contenuto a fatica nei reparti di isolamento, penitenziari dove i malavitosi si fanno recapitare i telefonini col drone all'ora d'aria. Insomma: per andare a dirigere le carceri italiane in un momento come questo serviva un magistrato dotato di attributi particolari. D'altronde un nuovo capo era necessario, perché la posizione di quello in carica, Francesco Basentini, si era fatta insostenibile, tra rivolte e scarcerazioni di cui non era certo il principale responsabile: ma qualche testa doveva saltare. Così Basentini viene costretto a dimettersi, e arriva Dino Petralia, palermitano, 67 anni. Ieri mattina, quando dal ministero della Giustizia esce l'annuncio che sarà lui il nuovo capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è difficile trovare all'interno della magistratura qualcuno che non condivida la scelta compiuta dal ministro Alfonso Bonafede. Qualche malumore, piuttosto, ci sarà stato nel partito del ministro: i grillini non amano Petralia, perché proprio lui quando era procuratore aggiunto a Palermo incriminò lo stato maggiore dei 5 Stelle per lo scandalo delle firme false, dando il via al processo che si è concluso a gennaio con una raffica di condanne. Oggi Petralia fa il procuratore generale a Reggio Calabria, gli mancano tre anni alla pensione, insomma poteva godersi la fine della carriera in un posto confortevole. Invece quando gli arriva la chiamata dal ministero non ha esitato un secondo ad accettare. Questione di carattere, stiamo parlando di uno che quando cessò la carica al Consiglio superiore della magistratura, invece che accomodarsi come i suoi colleghi in un ufficio di prestigio chiese e ottenne di venire spedito a fare il sostituto a Marsala, una Procura sciagurata da cui le toghe fuggivano in massa, alla fine era rimasto un solo pm. Petralia fece le valigie e da Roma scese nel disastro di Marsala a dare la caccia a Matteo Messina Denaro. Al Csm era arrivato nel 2006, da Sciacca dove era procuratore: nome sconosciuto al grande pubblico, ma sorretto nelle urne dalla corrente che allora andava per la maggiore, il Movimento per la giustizia, fondato da Armando Spataro. Oggi il Movimento è alleato di Magistratura democratica, ma allora faceva - e con un certo successo - una dura concorrenza alla corrente delle toghe rosse. Piombato al Csm Petralia si distinse per la durezza con cui difendeva i colleghi e la categoria negli scontri con il potere politico, soprattutto a partire dal 2008, quando a Palazzo Chigi tornò Silvio Berlusconi. Nelle polemiche con il governo, Petralia era in prima fila. Come quando insorse a difesa dell'amico Spataro, accusato dal centrodestra di avere creato il clima d'odio che spinse un poveretto a lanciare un souvenir di pietra in faccia al Cavaliere. E a costo di sposare cause sfortunate: c'era la sua firma in testa all'appello in difesa dei pm dell'Aquila che avevano incriminato Guido Bertolaso come complice del terremoto. L'inchiesta finì con un buco dell'acqua, ma intanto aveva decapitato la Protezione civile. Depurata dalla vis con cui tutela la casta delle toghe, la figura di Petralia è quella di un duro e di un indipendente. Rispetto a Basentini, ha un surplus: conosce il mondo delle istituzioni, sa come muoversi, sa come fare la voce grossa. Ce ne sarà bisogno se le carceri torneranno ad esplodere.
Di Matteo contro Bonafede: “Mi ha offerto Dap ma dopo reazioni boss ha cambiato idea”. Redazione de Il Riformista il 4 Maggio 2020. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. È l’accusa arrivata dal magistrato Nino Di Matteo, intervenuto telefonicamente a "Non è l’arena" su La7 domenica sera. Di Matteo si inserisce così nella polemica sulle dimissioni di Francesco Basentini, l’ormai ex numero uno del Dap che si è dimesso dopo il caso delle scarcerazioni dei boss mafiosi (sostituito da Dino Petralia). Ma il magistrato e consigliere del Csm ha fatto riferimento anche ad un particolare allarmante: Di Matteo ha parlato infatti di alcune intercettazioni di colloqui tra boss reclusi in carcere che avevano manifestato timori per il suo arrivo al vertice del Dap. Una ricostruzione dei fatti smentita dallo stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede, intervenuto a sua volta telefonicamente durante la trasmissione: “L’idea per cui io avrei ritrattato una proposta a Nino di Matteo non sta né in cielo né in terra”, ha detto il ministro della Giustizia. “Io ho chiamato di Matteo – ha sottolineato Bonafede – parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Nella stessa telefonata di Matteo mi chiarisce che ci sono state intercettazioni nelle carceri”. Bonafede quindi chiarisce che quando Di Matteo è andato al ministero, “tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli affari penali che era il ruolo di Giovanni Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrata che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi e lì mi ha detto che non poteva accettare quel ruolo e che voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”. Il Guardasigilli ha anche negato i timori di reazioni dei boss sulla nomina di Di Matteo a capo del Dap: “Quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata”.
Il pm Di Matteo "travolge" il ministro Bonafede: «Mi propose di guidare il Dap, ma i boss non volevano». Saverio Puccio il 4 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Un magistrato antimafia, in prima linea e tra i più esperti, alla guida del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il nome proposto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, fu quello di Nino Di Matteo, attuale consigliere del Csm, ma quando il magistrato decise di accettare, lo stesso ministro ritirò la proposta. A ricostruire questa versione non è una terza persona, ma direttamente il magistrato Di Matteo, durante la trasmissione “Non è l’arena”, condotta su La7 da Massimo Giletti. Le parole di Di Matteo hanno squarciano il silenzio e aperto una questione molto più ampia, legata alle scarcerazioni facili degli ultimi mesi. «Bonafede – racconta al telefono Di Matteo – mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta», ma «quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini». Una ricostruzione non di poco conto, se si considera che lo stesso Basentini si è poi dimesso proprio a causa delle polemiche sulle scarcerazioni di diversi detenuti, alcuni anche al 41bis, avvenute in questi giorni. Ma ad aggravare la situazione è una seconda parte della ricostruzione fornita dal magistrato che ha ricordato alcune intercettazioni dei boss che avrebbero espresso “fastidio” e contrarietà per il possibile incarico a Di Matteo: «Se nominano Di Matteo è la fine», avrebbero detto i boss intercettati. Giletti ha incalzato il magistrato legando la mancata nomina e le intercettazioni («lei ci fa capire che il timore che a sua nomina potesse portare reazioni è stata messa da parte per un personaggio meno invasivo e forte, rispetto a lei») e il magistrato ha risposto: «Io sto riportando un fatto». In poche tempo le reazioni alle affermazioni del magistrato si sono moltiplicate. In tanti hanno chiesto le dimissioni di Bonafede, chiedendo anche al ministro di riferire in Parlamento. Lo stesso Bonafede ha, però, smentito la ricostruzione attraverso un comunicato: «L’idea che io abbia ritrattato la proposta a Di Matteo non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor Di Matteo». «Sono esterrefatto nell’apprendere che viene data un’informazione che può essere grave per i cittadini – ha spiegato il ministro – perché fa trapelare un fatto sbagliato cioè che io sarei andato indietro rispetto alla mia proposta perché avevo saputo di intercettazioni». Il ministro ha puntualizzato la ricostruzione dei fatti: «Ho chiamato di Matteo parlandogli della possibilità di fargli ricoprite uno dei due ruoli, direttore affari penali o capo del Dap . Gli ho detto “venga a trovarmi e vediamo insieme”. Lui – ha aggiunto Bonafede – mi disse delle intercettazioni di detenuti che in carcere dicevano “se viene questo butta le chiavi”. Sapevo chi stavo per scegliere, e sapevo di quella intercettazione, perché ne dispone anche il ministro. Quando di Matteo è venuto gli dissi che tra i due ruoli era più importante quello di direttore affari penali, ruolo che era stato di Falcone, molto più di frontiera in lotta a mafia, non gli ho proposto un ruolo minore. Questa è la verità. A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d’accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già fatto».
Il pm Di Matteo: "Mi offrirono il Dap, ma Bonafede non mi ha voluto". Le dichiarazioni del magistrato, intervenuto durante la trasmissione Non è l'arena: "I capi mafia dicevano: 'Se nominano Di Matteo è la fine'". La replica del ministro: "Sono esterrefatto". Francesca Bernasconi, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. "Non ho mai fatto trattative politiche con nessuno". Così, il magistrato Nino Di Matteo interviene a Non è l'arena, programma di La7, condotto da Massimo Giletti, per raccontare un episodio del 2018, relativo alla nomina di Francesco Basentini come capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Il magistrato dice di essere intervenuto in trasmissione perché qualcuno "parlava di trattave tra me e Bonafede". E racconta la sua versione dei fatti: "Venni raggiunto da una telefonata del ministro Alfonso Bonafede che mi chiese se ero interessato ad accettare il ruolo capo del Dap o in alternativa prendere il posto di direttore generale degli affari penali". Di Matteo sostiene di aver chiesto al ministro 48 ore di tempo, per pensare alle offerte che gli erano state fatte. Nel frattempo, spiega il magistrato, erano venute alla luce alcune informazioni sulle reazioni di importantissimi capi mafia all'indiscrezione della possibile nomina del magistrato a capo del Dap: "Quei capi mafia dicevano: Se nominano Di Matteo è la fine". "Dopo meno di 48 ore andai trovare il ministro- racconta Di Matteo, specificando di aver deciso di accettare la nomina a capo del Dap- ma mi disse che ci aveva ripensato e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli affari penali del ministero. Il giorno dopo gli dissi che non avrei accettato. Nel giro di 48 ore mi sono ritrovato a essere designato come capo del Dap e quando accettai mi trovai di fronte a questo cambio". Incalzato da Massimo Giletti, il magistrato precisa; "Al ministro dissi 'Mi consenta di parlare con i miei famigliari prima di decidere' e quando andai per dire che avrei accettato Dap, il ministro ci aveva ripensato o qualcuno l'aveva indotto a ripensarci questo non lo posso sapere". Poco dopo, nel corso della trasmissione è intervenuto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per replicare alle dichiarazioni di Di Matteo. "Sono esterrefatto nell'apprendere che viene data un'informazione che può essere grave per i cittadini, nella misura in cui si lascia trapelare un fatto sbagliato- dice il ministro- cioè che la mia scelta di proporre a Di Matteo il ruolo importante all'interno del ministero sia stata una scelta rispetto alla quale sarei andato indietro perché avevo saputo di intercettazioni". E precisa:"Gli ho parlato della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui, gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia ed era stato il ruolo ricoperto da Giovani Falcone". Per questo, sostiene Bonafede, si era mosso per offrire il Dap a Basentini: "A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d'accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il Dap, ma io nel frattempo avevo già fatto". E riguardo alle intercettazioni relative alle reazioni del capi mafia, Bonafede afferma che "quando gli feci la proposta, le intercettazioni erano già state pubblicate. Ne parlai con lui durante la nostra prima telefonata". Sulla vicenda sono intervenuti anche i parlamentari leghisti Giulia Bongiorno, Nicola Molteni, Jacopo Morrone e Andrea Ostellari. "Rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa e il capo del Dap sostituito: come se non bastasse tutto questo, ora arrivano le parole di un magistrato come Nino Di Matteo in diretta tv- hanno commentato i parlamentari della Lega-È vero che non è stato messo alla guida del Dap perché sgradito ai mafiosi?". "In ogni caso- aggiungono- anche senza le parole di Di Matteo, Bonafede dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori". Toni duri anche da parte della deputata di Fratelli d'Italia, Carola Varchi: "O Bonafede si dimette o faremo le barricate", ha tuonato. E riferendosi al botta e risposta del ministro con il pm Di Matteo, aggiunge: "Le accuse del dottor Di Matteo sono state molto gravi ed io avrei voluto la certezza che, nelle istituzioni, nessuno si lasci intimidire da quello che ascolta nelle intercettazioni captate in carcere. Purtroppo l'intervento del ministro Bonafede ha lasciato tutti noi nello sconforto e nel dubbio che effettivamente la mancata nomina del dottor Di Matteo sia conseguenza del contenuto di quelle intercettazioni".
Di Matteo accusa Bonafede: “Mi offrì il Dap poi ci ripensò”. Il Guardasigilli: “Non è vero”. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Scontro tra il magistrato della presunta Trattativa e il ministro della Giustizia che nega e parla di “percezione sbagliata”. “Bonafede mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali. Chiesi 48 ore di tempo di tempo per dare una risposta”, ma “quando ritornai, avendo deciso di accettare la nomina a capo del Dap, il ministro mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano pensato di nominare Basentini”. La confessione del magistrato Nino Di Matteo, arriva direttamente negli studi di a Non è l’arena, su La7, che ormai sembra divenuto una sorta di Plenum ufficioso del Csm così come Porta a Porta di Vespa è la terza Camera dello Stato. Fatto sta che la dichiarazione del magistrato Nino Di Matteo arriva al pochi giorni dalla bufera che ha travolto il Dap a causa della scarcerazione – del tutto legittima in termini di legge e di Costituzione – del mafioso Zagaria al quale sono stati concessi i domiciliari a causa delle sue gravi condizioni di salute. In ogni caso il ministro ha negato la ricostruzione del magistrato della trattativa: “L’idea per cui io avrei ritrattato una proposta a Nino Di Matteo non sta ne’ in cielo nè in terra”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, intervenuto a “Non è l’arena” su La7. “Io ho chiamato Di Matteo – aggiunge – parlandogli della possibilità di fargli ricoprire uno dei due ruoli di cui ha parlato lui. Nella stessa telefonata Di Matteo mi chiarisce che ci sono state intercettazioni nelle carceri”. “E’ una percezione di Di Matteo. Quando è venuto al ministero tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli affari penali che era il ruolo di Giovanni Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrata che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi e lì mi ha detto che non poteva accettare quel ruolo e che voleva ricoprire il ruolo di capo del Dap”.
Ora Bonafede finisce nel romanzo sulla Trattativa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 maggio 2020. Da tifosi a vittime: anche i 5Stelle finiscono nel tritacarne mediatico dove riaffiora la trama della presunta trattativa Stato-mafia. Se uno dovesse inventarsi un teorema giudiziario su una trattativa Stato-mafia odierna, ci sono tutti gli ingredienti giusti per creare suggestioni. Il 7 marzo scoppiano le rivolte nelle carceri italiane, alcune davvero devastanti con tanto di evasione spettacolare e lasciando una scia di 13 detenuti morti, la maggior parte stranieri e con problemi di tossicodipendenza. Dietro le rivolte – come ha detto recentemente il sociologo Nando Dalla Chiesa e adombrato anche dal presidente della commissione antimafia Nicola Morra – ci sarebbe stata una regia mafiosa per fare pressione sul governo per ottenere le scarcerazioni dei boss mafiosi al 41 bis. Detto, fatto. Spunta la circolare del Dap che raccomanda alle direzioni del carcere di segnalare ai giudici tutti i detenuti che presentano patologie letali in caso di Covid 19. Esce un articolo de L’Espresso nel quale si denuncia che la circolare avrebbe fatto un favore ai boss al 41 bis, i quali ne avrebbero approfittato per chiedere la detenzione domiciliare. Si crea mistero, inquietudine e aleggia nell’aria il famoso “terzo livello”. Il giorno dopo l’allarme viene scarcerato il boss Francesco Bonura per gravi malattie e messo in detenzione domiciliare. Spunta fuori la lista di centinaia di boss che avrebbero o potrebbero beneficiare della scarcerazione. Poco importa che di un centinaio di nomi, solo tre del 41 bis sono coloro che hanno usufruito della detenzione domiciliare. Ma il dado è tratto. La presunta nuova trattativa avrebbe quindi dato i suoi frutti. Lo stesso Nino Di Matteo – membro togato del Csm e tra coloro che imbastirono il famoso processo sulla presunta trattativa Stato- mafia – all’indomani delle scarcerazioni si era espresso così: «Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. E sembra aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato- mafia». Gli ingredienti ci sono tutti. Ma durante l’ultima trasmissione “Non è l’Arena” di Massimo Giletti se n’è aggiunto un altro che ha mandato in tilt i seguaci delle “agende rosse”, tutta una certa antimafia che crede alle “entità” e alle regie occulte del fantomatico (Giovanni Falcone non a caso stigmatizzava questa fandonia) “terzo livello” e soprattutto il Movimento 5Stelle, che attualmente è al governo e che del teorema trattativa ne ha fatto un caposaldo della sua narrazione politica. Di Matteo è intervenuto durante la trasmissione affermando che nel 2018 il guardasigilli Alfonso Bonafede gli aveva offerto di dirigere il Dap, offerta che sarebbe poi venuta meno, dopo la reazione di alcuni boss detenuti al 41 bis, che in alcune intercettazioni si sarebbero detti preoccupati per la sua nomina al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Ovviamente Di Matteo ha raccontato solo i fatti che sarebbero accaduti, non aggiungendo altro né dando alcuna interpretazione. Ma chi ha ascoltato ha avuto inevitabilmente la percezione che Bonafede stesso avrebbe avuto paura delle pressioni mafiose. Una sorta di minaccia psicologica a un corpo politico dello Stato (reato contestato agli ex Ros per la presunta trattativa). Il ministro della Giustizia ha replicato smentendo quella ricostruzione. Ricorda qualcosa? Ma certo. La stessa narrazione suggestiva e priva di fondamento sulla presunta trattativa Stato-mafia. Anche in quel caso è stato omesso un elemento non trascurabile: viviamo in uno Stato di Diritto e soprattutto c’è la magistratura di sorveglianza che opera secondo legge e in maniera del tutto indipendente. Pensare che le scarcerazioni siano frutto di accordi con la mafia che avrebbe fatto pressione tramite le rivolte, è frutto di superficialità e mancanza di conoscenza. Le rivolte sono provocate dal disagio che imperversa da sempre nelle nostre carceri e l’emergenza Coronavirus ha messo a nudo tutte le fragilità. I mafiosi sono per l’ordine all’interno delle carceri. La ribellione non è nel loro Dna. Le scarcerazioni non hanno ovviamente nulla a che fare nemmeno con quella circolare del Dap, che è un atto amministrativo doveroso in un Paese civile. I magistrati di sorveglianza hanno fatto il loro dovere. Nessun pericoloso boss sanguinario è stato liberato. Nessuna regia occulta. Analoga vicenda è accaduta nel 1993 e c’entra sempre il 41 bis. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa, per la quale sono stati condannati in primo grado gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il ’92 e il ’ 94, non c’è ombra di dubbio. L’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa. Il 41 bis sarebbe stato il fulcro di tali iniziative. In realtà c’è stata una sentenza della Corte costituzionale scaturita grazie al ricorso – udite udite – dei magistrati di sorveglianza. Tale sentenza ha invitato il governo a valutare caso per caso il rinnovo o meno del 41 bis (all’epoca il rinnovo avveniva automaticamente e indistintamente per tutti). Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, il quale non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente” del ’93.I giudici che hanno assolto l’ex ministro Calogero Mannino, che nel processo trattativa ha scelto il rito abbreviato, hanno sottolineato come dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».
Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere «a tratti – scrivono i giudici -, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità». Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, «che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano». Ed ecco qua. Si parla di tutela della dignità dei detenuti, Costituzione, Stato di Diritto. In soldoni nessuna manovra oscura, come oggi non c’è stata alcuna regia occulta dietro la concessione della detenzione domiciliare (di cui tre del 41 bis, non centinaia come hanno fatto un po’ credere) odierne. Chissà se il ministro Bonafede, che adesso è anche capodelegazione del M5S nel governo, si sia ora accorto di quanto è facile cadere nell’equivoco. Il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle (o addirittura uno strumento di potere) che condiziona il governo nel fare qualsiasi scelta politica. Soprattutto nel campo giudiziario e penitenziario.
Fuoco amico su Bonafede: “Io condizionato dai boss? Accuse infamanti”. Simona Musco Il Dubbio il 4 maggio 2020. Il Guardasigilli sotto accusa dopo la mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap. E Italia viva chiede le dimissioni. «L’idea trapelata nel vergognoso dibattito di oggi, secondo cui mi sarei lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso è un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda. D’altronde, se mi fossi lasciato influenzare dalle reazioni dei mafiosi non avrei certo chiamato io il dottor Di Matteo per valutare con lui la possibilità di collaborare in una posizione di rilievo». Rigetta ogni illazione Alfonso Bonafede, la cui poltrona, a seguito delle clamorose rivelazioni del pm Nino Di Matteo sulla nomina sfumata al Dap, traballa. E a chiedere la sua testa sono quasi tutti, con una timida levata di scudi da parte del M5s e del Pd, che però chiede chiarezza. In un post su Facebook il ministro prova a fare il punto: sapeva di quelle intercettazioni prima di chiamare Di Matteo, fu lui stesso a dirlo al pm, ciò nonostante pensò comunque a lui. E pensò di dargli un altro incarico, «in qualche modo equivalente a quello che era stato di Giovanni Falcone», proprio per mandare un segnale «chiaro e inequivocabile alla criminalità organizzata». Rivendicando la Spazzacorrotti e la lotta per l’inasprimento del 41 bis, con la stretta sulle scarcerazioni, Bonafede ribadisce la sua assoluta tranquillità su una vicenda che a distanza di 24 ore Di Matteo conferma tale e quale. «I fatti che ho riferito ieri li confermo e non voglio modificare o aggiungere alcunchè nè tantomeno commentarli», ha riferito il pm ad Affaritaliani.it. E intanto il grido che arriva dalla politica è quasi all’unisono: «Bonafede si dimetta», affermano le opposizioni. Ma non solo: anche Italia Viva, attraverso il deputato Cosimo Maria Ferri, ex componente del Csm, ha chiesto al Guardasigilli spiegazioni sul «perché ha prima offerto l’incarico di Capo del Dap a Di Matteo e poi revocato la proposta», chiedendo le sue dimissioni. «Dove è finita la sua trasparenza, perché non lo ha mai raccontato, ora venga in Parlamento a dire cosa è successo?». Il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, secondo cui si tratta di «un regolamento di conti» tra «giustizialisti», ha chiesto «trasparenza», invocando un intervento del Csm al fine di chiarire la posizione di Di Matteo, «perché è evidente che se dice queste cose deve avere degli argomenti». Dall’altra parte, «deve chiarire il ministro Bonafede, perché ha avuto un atteggiamento discutibile». Una condizione essenziale prima di discutere una possibile mozione di sfiducia. Per Azione, movimento politico guidato dall’ex ministro Carlo Calenda, lo scontro tra Di Matteo e Bonafede «è stato semplicemente grottesco. Dire che un Ministro ha preso una decisione importante come la nomina del capo del Dap facendosi condizionare dalle reazioni dei boss soltanto due anni dopo i fatti è abbastanza assurdo – ha commentato Andrea Mazziotti, membro del comitato promotore -. Bonafede dovrebbe chiarire davanti al Parlamento». Più secche e decise le opposizioni, come Fdi, che attraverso la sua leader, Giorgia Meloni. «Fossi Alfonso Bonafede, domani mattina rassegnerei le mie dimissioni di ministro della Giustizia», ha commentato con un post su facebook pubblicato nella tarda sera di domenica, dopo le rivelazioni di Di Matteo a “Non è l’Arena” di Giletti. Per la Lega, si tratta, invece, dell’ennesimo «errore» di Bonafede, del quale chiede, come gli alleati di FdI, le dimissioni. «Rivolte, evasioni, detenuti morti, agenti feriti, migliaia di delinquenti usciti dal carcere, boss tornati a casa e il capo del Dap sostituito: come se non bastasse tutto questo, ora arrivano le parole di un magistrato come Nino Di Matteo in diretta tv. È vero che non è stato messo alla guida del Dap perché sgradito ai mafiosi? In ogni caso, anche senza le parole di Di Matteo, Bonafede dovrebbe andarsene in fretta per i troppi scandali ed errori», affermano i parlamentari Giulia Bongiorno, Nicola Molteni, Jacopo Morrone e Andrea Ostellari. Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia, parla di «senso dello Stato calpestato», puntando il dito sia contro Di Matteo – «dopo quasi due anni dai fatti sente l’impellente necessità di raccontare al Paese un episodio che lo ha scioccato. Ma perché aspettare così tanto tempo, manco fosse equiparabile a un pentito della criminalità organizzata?» – sia contro Bonafede – «anche in questo caso dimostra di essere totalmente inadeguato al suo ruolo». E mentre la collega forzista Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, chiede chiarezza, Enrico Costa, ex ministro di Forza Italia, replica le parole di Renzi, parlando di «cortocircuito forcaiolo», chiedendo una discussione in parlamento. Timida la reazione del M5s. «È davvero inqualificabile la sfacciataggine con la quale minoritarie porzioni della politica e del giornalismo politicamente orientato a destra strumentalizzino vicende inattuali ed ampiamente spiegate dal ministro Bonafede per un attacco ingiusto ed inveritiero al Governo, senza considerare le misure predisposte in questi giorni in materia di articolo 41 bis e le prestigiose e qualificate nomine appena fatte al Dap cui sono stati preposti magistrati di grande coraggio ed esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata – ha commentato il senatore Giorgio Trizzino -. Nel volgare palcoscenico che è diventata la trasmissione di Giletti, viene costantemente messa in discussione l’azione del Governo. Questo modo di gestire l’informazione non corrisponde al sentimento della stragrande maggioranza degli italiani che ormai riesce a distinguere con chiarezza il giornalismo qualificato da quello improvvisato ed arrogante. Quando lo capirà Giletti?». Ma una parte dei grillini è in subbuglio: «Tutto questo è irreale – dice alla AdnKronos Piera Aiello, testimone di giustizia e componente della Commissione parlamentare Antimafia -. Devo essere sincera, non so più cosa pensare. Aspetto una risposta concreta, certa, su come sono andate le cose. Si deve fare luce: se Bonafede ha sbagliato, è giusto che ammetta le sue colpe». Chiede chiarimenti Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, secondo cui «il sospetto non può mai essere anticamera della verità», mentre il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini e il senatore e capogruppo in commissione antimafia Franco Mirabelli, parlano di «confusione», definendo «irresponsabile l’atteggiamento di chi usa un tema come la lotta alle mafie per giustificare l’ennesima richiesta di dimissioni di un ministro, approfittando di queste dichiarazioni estemporanee. Siamo certi che il ministro al più presto verrà a riferire in commissione e in parlamento sull’impegno del governo contro le mafie». E il vicesegretario dem Andrea Orlando, predecessore di Bonafede, ha aggiunto: «So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma se un ministro dovesse dimettersi per i sospetti di un magistrato, si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l’anticamera della verità, sinchè non verificato resta un sospetto». A chiedere le dimissioni è anche il Partito Radicale, ma non per la vicenda Di Matteo. Ora che «il ministro Bonafede è sotto il fuoco incrociato per lesa maestà del dottor Di Matteo, anche se le cose fossero andate come le ha raccontate il dottor Di Matteo si potrebbe configurare un gesto di scortesia, ad essere feroci di maleducazione. Nulla di più né di meno. Ci auguriamo che questa sia l’occasione per il ministro Bonafede di rivedere le sue politiche sulla giustizia e sul carcere con l’occhio antimafista, e si faccia guidare dalla Costituzione».
Scontro Di Matteo-Bonafede, il boomerang giustizialista. Alessandro Rico, 4 maggio 2020, su Nicola Porro.it. Siamo ormai allo squadrismo sanitario. Il virus ha infettato il loro ego. Perciò voglia Dio, nella fase 2, liberarci dai ducetti della pandemia. Abbiamo bisogno di leader che ci trattino da cittadini maturi e responsabili, non da ragazzini minchioni da sottoporre a minacce e umiliazioni. Prendete la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Già si era esibita sotto Pasquetta: se andate a fare le grigliate «vi becchiamo», «vi pizzichiamo», avvertiva i romani. Un linguaggio da poliziotto penitenziario, più che da primo cittadino di una capitale. Evidentemente, entrare nella «cabina di regia» con Giuseppe Conte deve averle montato la testa. E così, la Raggi, alla vigilia di questa falsa ripartenza, ha rincarato la dose, reclamando i pieni poteri per i sindaci e presentando in questi termini la riapertura dei parchi: «Sono una concessione che ci viene fatta dal presidente del Consiglio, ma dobbiamo meritarcela». Chiara la filiera? Se possiamo mettere il naso nella natura è per bontà del caudillo. La caudilla però ci mette sull’attenti, come all’asilo: se non fai il bravo, ti tolgo il giocattolo. D’altro canto, la scuola d’illibertà del Movimento 5 stelle non ha nulla da invidiare alla scienza della reclusione del Pd. Il circolo Litorale dem di Ostia, ad esempio, per la stagione balneare aveva lanciato una brillante idea: il braccialetto elettronico contro gli assembramenti. Bello: andare in spiaggia come i condannati ai domiciliari. Per fortuna, i gestori degli stabilimenti hanno riconsegnato l’idea al mittente. Il circoletto piddino potrà rivendersela a una delle varianti del totalitarismo asiatico: dal regime di Xi alla tecnocrazia populista di Singapore. A proposito di tecnici. Al coro delle minacce agli italiani s’è aggiunto il superesperto del ministero, Walter Ricciardi. Quello che era dell’Oms ma non è dell’Oms. Quello che attaccava il Veneto per i tamponi a tappeto, però aveva torto marcio, perché i tamponi a tappeto hanno consentito alla Regione di Luca Zaia di spegnere i focolai infettivi. Ebbene, il consigliere di Roberto Speranza, con un passato da attore, già rimprovera «le tante persone viste in giro»: «Voglio ricordare che come si è aperto, si può anche richiudere». Siamo ormai allo squadrismo sanitario: noi vi abbiamo ridato un pezzetto di libertà, noi ve lo possiamo togliere. Perché «abbiamo ancora bisogno di un cambiamento culturale forte, permanente». Scusi Ricciardi, ma lei chi è per imporcelo a suon di intimidazioni? Chi l’ha eletta? Chi la controlla? In virtù di quale autorità dovremmo sposare le sue convinzioni? Solo lavate di capo. Nessuno è sfiorato dal sospetto che gli italiani non siano anarchici e smidollati, che sappiano regolarsi da soli, che i loro diritti fondamentali non dipendono dai comitati tecnico-scientifici o dalle manie di protagonismo di politicanti di secondo piano, poiché sono scolpiti della Costituzione e nel diritto naturale. Abbiamo preso in giro Boris Johnson e la Svezia, Donald Trump e Jair Bolsonaro. Ma noi siamo sotto il tiro dei «lanciafiamme» di Vincenzo De Luca, identico alla sua caricatura, personaggio più che persona. Il sospetto è che qualcuno, qui, stia mischiando le carte per poter mettere le mani avanti: se le cose vanno storte, dannato sia chi va a correre, chi va al parco, chi fa al bagno al mare o la passeggiata sotto i portici con i bambini. Lo si legge nelle parole di Conte al Corsera: «La ripartenza del Paese è nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se vogliamo che sia risolutiva e definitiva». Loro sono stati bravissimi: se poi finisce male, la colpa è nostra.
Giletti aveva ragione: "Sulla scrivania di Bonafede...". Boss mafiosi fuori dal carcere, altro documento bomba per il ministro. Antimafia e Dap, carteggi di fuoco: cosa non torna sulla scarcerazione dei boss mafiosi al 41 bis. Renato Farina Libero Quotidiano il 07 maggio 2020. Chi ha ragione nella contesa a mazzate tra il ministro della Giustizia e il magistrato eletto nel Csm? Chi dei due deve perciò andarsene? La risposta più comoda e ovvia sarebbe: tutt' e due, ne hanno combinate troppe, prima, durante e dopo. Hanno dato vita a baruffe chiozzotte da comari meridionali, con graffi sul naso e ciocche di capelli nel water, e proprio nel tempio dell equilibrio dove i piatti della bilancia dovrebbero essere immuni dagli sputazzi di chi dovrebbe reggerla. A che serve dar ragione all' uno o all' altro. Tanto è sicuro: resisteranno indomiti ai loro posti, si accomoderanno, del resto è già intervenuto come paciere e sarà sicuramente bravissimo anche come crocerossina Marco Travaglio, che porterà brodino di piccione e ne sorveglierà la convalescenza. Ci tocca prima un po' di cronaca dell' attualità spicciola. Ribadendo il concetto sopra esposto, che cioè rispetto all' enormità del disastro giudiziario trattasi di una pinzillacchera. La contesa fra un tremebondo Alfonso Bonafede (ministro della Giustizia) e un prepotente Nino Di Matteo (pm ora al Csm) verte su due opposte versioni di un unico fatto. Nel 2018, l' allora pubblico ministero Di Matteo, famoso ideologo della trattativa Stato-Cosa nostra, avrebbe ricevuto dal neo-ministro Bonafede l' offerta di dirigere il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria, il luogo da cui un magistrato dirige le carceri, con uno stipendio sontuoso, circa il triplo di quello di un deputato). Di Matteo era pronto per dire di sì, è andato a trovarlo per comunicarlo di persona, e quello gli ha contro offerto un incarico da portaborse ministeriale, direttore degli affari generali. Sarebbe sì il posto esatto occupato da Giovanni Falcone, come sostenuto da Bonafede, peccato che nel frattempo la legge avesse ridotto alla metà della metà il rango di quel posto. Un no scontato - Logico che Di Matteo dicesse no, e ha giurato di vendicarsi, con il solito animo sereno delle toghe. Passano neanche due anni, e Bonafede sloggia il capo del Dap, Francesco Basentini, ritenuto poco adatto, avendo dato l' ok alla liberazione di trecento e passa boss per ragioni di salute legate al Covid. Non interveniamo nel merito. Ma un fatto simile è la negazione del dogma più-galera-per-tutti che sta alla base della politica giudiziaria dei grillini. Questo sentimento del M5S ha sospinto a furor di popolo manettaro negli uffici di via Arenula l' unico avvocato lieto del gabbio per i suoi clienti, e sollevato al rango di divinità in toga Nino Di Matteo, famoso per considerare i politici per lo più venduti alla mafia. Di Matteo ha rivelato di essere stato scartato per «l' interferenza di boss mafiosi», che avrebbero minacciato vendette nel caso fosse stato nominato lui, come risulterebbe da intercettazioni dove il boss Graviano dice: «Se nominano Di Matteo è la fine», pubblicate dalla Pravda quotidiana, cioè il Fatto. Bonafede si è difeso, ovvio. Ha prima dichiarato «infami» le accuse. Ieri in Parlamento ha negato «interferenze». Non può dire di aver ceduto ai boss, e neppure appare francamente verosimile. Ma ha il dovere di essere sincero, confessando come in quei giorni ha funzionato il mercato politico. Chi ha scartato la vacca Di Matteo? Per un posto così delicato, uno schierato così radicalmente è possibilissimo abbia suscitato contestazioni. Per la Lega accettarlo senza scalciare, sarebbe stato come mettere un dito nell' occhio a Berlusconi, viste le accuse rivolte dal pm a Dell' Utri, e sullo sfondo allo stesso Cavaliere. Il Quirinale davanti a un candidato che ha portato in tribunale fior di carabinieri considerati eroi, avrà fatto presente che presentare un candidato unico e volerlo a tutti i costi per un posto delicatissimo, sarebbe stato un brutto precedente, poco dialogico. Oltretutto nel corso di questo processo, Di Matteo aveva insieme con Ingroia trattato il predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, come un complice reticente. È andata così? Che male c' è? Il nome di Dio non è mica Nino, almeno per ora. Normali compromessi - Cose normali, quante promesse abbiamo tutti ricevuto, poi andate in discarica e nel silenzio. Il fatto è che Bonafede non può dire la verità, perché com' è noto negli statuti di costoro chi tratta è un Giuda, e se dicesse di questo o quel niet e di aver ceduto, sarebbe impiccato fuori dalla Casaleggio e associati. Eppure si fa, la politica è compromesso, non esiste nessuno che abbia un potere da autocrate, e per fortuna. Ora Di Matteo, dopo che il suo contendente vittorioso ha spedito fuori di galera dei mafiosi, gongola e morde, Bonafede sta cercando di rimediare, non per giustizia, ma per salvarsi la faccia. E li vuole tutti dentro, fossero moribondi, o anche morti, purché di tre giorni soltanto, perché poi li resusciterebbe senz' altro per consegnarli al rigore il divino Di Matteo. Ben altro che per la bugia diplomatica detta a Di Matteo, e per la reticenza con il naso lungo detta oggi alla Camera, andrebbe rimandato nel suo studiolo da paglietta di provincia. Questo ministro da anni sta perpetrando una tortura da maniaco contro lo Stato di diritto. Ha abrogato la prescrizione, ha infilato il trojan nelle vite di sessanta milioni di italiani, dando da gestire miliardi di dati a tecnici perché poi siano filtrate dai pm. Rifiuta l' indulto, e poi non si accorge di circolari che scremano per la libertà il peggio (a torto o nel giusto non sappiamo: di sicuro lui non se n' è accorto). Non riusciremo a cacciarlo. Uno così incapace lascia però aperta la speranza che mandi con la sua insipienza a gambe all' aria oltre che lo Stato di diritto anche quello di rovescio.
376 mafiosi e trafficanti fuori dal carcere per l’emergenza virus. La chiamano giustizia…Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2020. Il ministro Bonafede questa mattina si è recato presso il carcere di Rebibbia a Roma, fermandosi nell’ariosissimo ingresso, evitando di andare a vedere le celle. Nessuno rivela dice che era anche prevista una conferenza stampa all’interno del carcere ma c’è stata la protesta dei detenuti… che hanno indotto a sospendere l’incontro con i giornalisti e le telecamere, proseguendo il tutto fuori sulla Tiburtina. Sulla scrivania del ministro di giustizia Alfonso Bonafede (M5S) c’è un documento con elenco di 376 nomi che ha generato non poichè tensioni anche all’interno della stessa maggioranza. Un elenco in cui spiccano i nominativi di boss di “peso” come Francesco Bonura, Vincenzo Di Piazza, Vincenzo Iannazzo, Antonino Sudato e Pasquale Zagaria, che sono stati posti agli arresti domiciliari per decisione dei magistrati di sorveglianza per l’emergenza CoronaVirus. E non solo. Compaiono in quell’elenco anche quelli degli altri 372, diventati di fatto ex detenuti nonostante siano legati alle criminalità organizzate mafiose ed ancora oggi operativi sul piano criminale, considerato che nessuno di loro si è mai dissociato. Le procure antimafia sono molto preoccupate del ritorno dei mafiosi nei territori ove operavano . “Gli arresti domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità” commentano i pm della Dda di Palermo, ricordando che comunicano spesso con le loro truppe mafiose persino dal carcere, figurarsi cosa potranno fare dalle loro abitazioni. E tutto ciò adesso comporta un superlavoro per le forze dell’ordine che dovranno monitorare e controllare tutti i mafiosi ai domiciliari, per assicurarsi che rispettino l’obbligo di non incontrare o comunicare telefonicamente con nessuno. L’elenco con i 376 nomi è stato trasmesso tre giorni fa dal DAP, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia, che sovrintende alle carceri, alla Commissione Parlamentare Antimafia, che l’aveva espressamente richiesta, e che spiega le conseguenti ragioni della fretta del guardasigilli Bonafede nel nominare i nuovi vertici delle carceri italiane. E spiega anche come mai ieri, e per giunta di sabato il ministro ha fatto insediare immediatamente al Dap il nuovo vice capo Roberto Tartaglia ed ha comunicato alla maggioranza di governo il nome di Dino Petralia (entrambi noti magistrati antimafia) attuale procuratore generale a Reggio Calabria, come nuovo direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria posto del dimissionario Basentini. Sulla limitata competenza ed operativa di Basentini ha influito non poco che non sia riuscito al Dap ad organizzare e predisporre soluzioni alternative agli arresti domiciliari, disponendo il loro trasferimento non a casa ma nei centri medici penitenziari, come quelli di Roma, Viterbo, Milano. Nona caso tale ipotesi era stato espressamente richiesta dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari per il camorrista Pasquale Zagaria, ma la risposta sollecitata più volte, è arrivata dal Dap solo il giorno successivo del provvedimento “leggero” dei giudici che lo avevano già mandato a Brescia a casa dalla moglie. Bonafede ha di fatto indotto alle dimissioni Francesco Basentini l’ex Direttore generale del DAP al quale viene addossata la colpa di aver malgestito le rivolte di febbraio ed ancora peggio le scarcerazioni del CorionaVirus, soprattutto per le scarcerazioni dei mafiosi. Il nuovo capo Petralia arriva dalla procura generale di Reggio Calabria mentre il suo vice Tartaglia arriva dalla Commissione Parlamentare Antimafia e dopo una lunga stagione a Palermo come pm, dove ha lavorato insieme con il procuratore aggiunto Petralia. Dino Petralia a parte un incarico come membro del Csm , aderendo alla stessa “corrente” di Giovanni Falcone, ha prestato servizio come magistrato in procure ad alto rischio come quelle di Marsala , Sciacca e Trapani. E’ stato in corso per la guida della Procura di Torino l’anno scorso dopo il pensionamento di Armando Spataro, ma quando seppe che la “cricca” di Palamara e compagni di merende lo sponsorizzavano, chiaramente senza dirglielo, ritirò immediatamente la propria candidatura, dimostrando spessore ed etica non comuni. Il ministro Bonafede ha anche assegnato a Tartaglia il primo incarico, cioè quello esaminare uno ad uno i fascicoli degli scarcerati , per una preliminare analisi che, qualora fosse necessario, proseguirà con gli ulteriori accertamenti. Non a caso ieri pomeriggio, la nuova reggenza del Dap ha emanato una circolare con cui viene disposto ai direttori delle carceri italiane l’obbligo di comunicare immediatamente al Dipartimento tutte le istanze presentate dai detenuti al 41 bis o comunque inseriti nei circuiti carcerari di massima sicurezza. Ma chi compare nella lista dei 376 scarcerati ? Un elenco dei boss di vario livello peso che sono stati scarcerati dai giudici negli ultimi due mesi per il rischio Covid o per altre patologie, e che oggi sono detenuti ai domiciliari, nelle loro abitazioni e quindi nei loro territori di dominanza malavitosa. Sono capi e gregari delle associazioni mafiose, esattori del pizzo e persino narcotrafficanti. Nei giorni scorsi la polemica era già scoppiata per la concessione dei domiciliari a quattro mafiosi detenuti 41 bis: il camorrista Pasquale Zagaria, fratello di Michele Zagaria al vertice del potente e spietato “clan dei Casalesi”, i mafiosi siciliani Francesco Bonura e Vincenzo Di Piazza, e lo ‘ndranghetista calabrese Vincenzo Iannazzo. Il monitoraggio del DAP ha portato alla luce un numero che non ha precedenti che comprende anche l’ergastolano Antonino Sudato detenuto nel reparto più rigido della cosiddetta “Alta sorveglianza 1″. Nessuna detenzione domiciliare concessa invece per l’ “Alta sorveglianza 2” dove sono ristretti i terroristi. Tutti gli altri scarcerati erano nell’ “Alta sorveglianza 3“, il settore che ospita 9.000 detenuti, le truppe al servizio di mafie ed organizzazioni specializzate nel traffico della droga. Duecento circa dei 376 scarcerati erano comunque ancora in attesa di giudizio, e sui quali il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza. Il ministro Bonafede questa mattina si è recato presso il carcere di Rebibbia a Roma, insieme al ministro degli Affari regionali Francesco Boccia ed il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, fermandosi nell’ariosissimo ingresso, evitando di andare a vedere le celle. Nessuno rivela dice che era anche prevista una conferenza stampa nella sala teatro della Casa circondariale romana, ma c’è stata la protesta dei detenuti… che hanno indotto a sospendere l’incontro con i giornalisti e le telecamere, proseguendo il tutto fuori sulla Tiburtina. Bonafede parlando con stampa ha definito “un grande successo” le decisioni prese in materia delle carceri durante l’emergenza coronavirus. “Adesso uno sforzo in più: abbiamo deciso, con una sinergia importantissima tra il ministero della Giustizia, la Protezione Civile, il ministro Boccia e quello della Salute Speranza”. Il ministro ha presentato a Rebibbia i 62 operatori socio-sanitari che entreranno in servizio a partire da domani presso gli istituti penitenziari per adulti e le strutture minorili del Lazio. Fanno parte della task force dei mille operatori selezionati con il bando emanato dalla Protezione civile di concerto con i ministeri della Giustizia, della Salute e degli Affari regionali e che opererà nelle carceri italiane fino al 31 luglio 2020 in ausilio al personale sanitario. Il vero dramma per la giustizia italiana è che lo chiamano anche “Guardasigilli”…..
Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Ogni giorno, per le forze dell' ordine, è un lavoro complicato controllarli tutti nelle loro abitazioni. Più volte, anche di notte. Sono 376 fra mafiosi e trafficanti di droga. A Palermo, 61. A Napoli, 67. A Roma, 44. A Catanzaro, 41. A Milano, 38. A Torino, 16. Tutti mandati ai domiciliari per motivi di salute e rischio Covid, nell' ultimo mese e mezzo. Una lista riservata che il Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria ha inviato solo mercoledì scorso alla commissione parlamentare antimafia, che l' aveva sollecitata più volte al capo del Dap Francesco Basentini, che alla fine si è dimesso, travolto dalle polemiche per le scarcerazioni. Una lista che preoccupa anche i magistrati delle procure distrettuali antimafia, dalla Sicilia alla Lombardia, che continuano ad opporsi al ritorno dei boss nelle loro abitazioni, sollecitando piuttosto il trasferimento in centri medici penitenziari, che peraltro sono strutture di eccellenza della nostra sanità. «Il diritto alla salute è sacrosanto - hanno ribadito nei giorni scorsi i pm di Palermo in un' udienza in cui si discuteva dell' ennesima richiesta di scarcerazione - ma i domiciliari sono assolutamente inidonei per soggetti ad alta pericolosità». Perché resta forte il rischio che i mafiosi continuino a comunicare con il clan. Soprattutto quando così tanti, all' improvviso, si ritrovano nei propri territori. Ecco perché i controlli delle forze dell' ordine continuano senza sosta, come disposto dal ministro dell' Interno Luciana Lamorgese.
L' elenco Le cinque pagine della lista riservata del Dap svelano che adesso si trova ai domiciliari uno dei boss più pericolosi di Palermo: Antonino Sacco, l' erede dei fratelli Graviano, gli uomini delle stragi del 1992-1993, per i magistrati faceva parte del triumvirato che ha retto di recente il potente mandamento di Brancaccio. Ai domiciliari è tornato anche Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli che fino a gennaio dettava legge sui Nebrodi: dopo aver finito di scontare un' altra condanna aveva messo in piedi una rete di insospettabili professionisti per una maxi truffa all' Unione Europea, così ha razziato finanziamenti per milioni di euro.
Ai domiciliari, per motivi di salute, è tornato anche Francesco Ventrici, uno dei principali broker del traffico internazionale di cocaina, che trattava direttamente con i narcos colombiani. Come un altro manager a servizio della 'Ndrangheta, Fabio Costantino, della famiglia Mancuso di Limbadi. L' elenco del Dap è ordinato per carcere e per giorno in cui è stato emesso il provvedimento del giudice. Dall' inizio di marzo a qualche giorno fa. Alcuni detenuti stanno scontando una condanna definitiva, dunque la decisione è stata dei tribunali di sorveglianza.
Altri sono ancora in attesa di giudizio, su questi il ministero della Giustizia non ha alcuna competenza, tutte le valutazioni spettano a gip, tribunali e corti di d' appello. Ma sono i numeri a fare impressione. Anche se dal 41 bis sono usciti solo in tre: il camorrista Pasquale Zagaria, il palermitano Francesco Bonura e lo 'ndranghetista Vincenzo Iannazzo.
Tutti gli altri erano però inseriti nei reparti della cosiddetta "Alta sicurezza 3", il circuito che ospita l' esercito di mafie e gang della droga, 9.000 detenuti in totale. Fra loro, i "colonnelli" che secondo le procure e le forze dell' ordine hanno in mano gli affari e i segreti dei clan.
La circolare La lista arrivata alla commissione parlamentare antimafia svela anche un altro numero destinato ad alimentare le polemiche di questi giorni: per 63 detenuti dell' Alta sicurezza sono stati i direttori degli istituti penitenziari a sollecitare la magistratura ad adottare provvedimenti, così come disponeva la circolare del Dap del 21 marzo, quella che voleva preservare i detenuti con alcune patologie dal rischio Covid. E in assenza di un piano di trasferimenti predisposto dal Dap nei centri medici penitenziari i giudici non hanno potuto far altro che disporre i domiciliari per tutti. E, ora, resta quell' elenco dei 376.
Dietro ogni nome, le storie di uomini e donne con problemi di salute e il loro diritto a essere curati. Ma anche le storie di uomini e donne che hanno segnato le pagine più drammatiche delle nostre città. Storie che spesso si intrecciano con quelle di chi ha trovato il coraggio di ribellarsi alle mafie.
Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, anche lui adesso ai domiciliari, fu denunciato da un ambulante del rione Forcella, stanco di pagare il pizzo. Anche Emilio Pisano, il cognato del boss di Arena ora tornato in Calabria, venne denunciato da un cittadino coraggioso: un imprenditore che non voleva pagare la tassa mafiosa del 5 per cento sull' appalto che si era aggiudicato. A Reggio Emilia, un commerciante aveva invece denunciato gli esattori del clan Grande Aracri, fra loro c' era Marcello Muto, un altro nome segnalato dal Dap.
Nella lista adesso al vaglio dell' Antimafia ci sono soprattutto i nomi di chi continua a conservare tanti segreti. Giosuè Fioretto era uno dei cassieri dei Casalesi. Rosalia Di Trapani non era solo la moglie del boss della Cupola Salvatore Lo Piccolo, era la sua consigliera. Nicola Capriati era un manager della droga inviato in missione dalla Sacra Corona Unita a Verona. Vito D' Angelo è uno degli anziani della nuova Cosa nostra dell' imprendibile Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Eccola, la preoccupazione più grande di magistrati e investigatori. Ognuno di questi uomini tornati a casa conserva un pezzo di segreto. Più o meno grande. Su patrimoni mai trovati, su relazioni mai scoperte. I segreti che potrebbero diventare il terreno della riorganizzazione delle mafie.
Alessia Candito, Dario Del Porto, Salvo Palazzolo per ''la Repubblica'' il 9 maggio 2020. La lista dei 376 mandati ai domiciliari per motivi di salute connessi al rischio Covid non è solo un pezzo di storia delle mafie. È, soprattutto, la cronaca attualissima di boss manager, uomini e donne, che con i loro affari si sono infiltrati nel tessuto economico del nostro Paese, da Sud a Nord. Si tratta, in parte, di detenuti arrestati nei mesi scorsi, e dunque ancora in attesa di giudizio. I loro nomi richiamano recenti operazioni di procure e forze dell' ordine. Altri sono stati invece già condannati, negli ultimi anni. Repubblica è tornata a riesaminare la lista degli scarcerati finiti agli arresti domiciliari perché quei nomi indicano storie di clan-aziende spesso in piena attività. E, magari, affari non del tutto bloccati. Mentre altri complici potrebbero essere ancora sul territorio, lo stesso dove i detenuti ai domiciliari sono stati trasferiti. C' è di più: molti dei proventi realizzati da questi boss potrebbero non essere stati sequestrati. È la ragione per cui i mafiosi usciti dal carcere rappresentano un potenziale pericolo. La lista dei 376 posti ai domiciliari è ora all' attenzione delle procure distrettuali antimafia, che tengono sotto controllo le dinamiche delle cosche. Sono soprattutto i boss manager tornati nelle loro abitazioni a preoccupare chi indaga. I boss manager che conservano la chiave di relazioni, affari e patrimoni, il vero capitale delle mafie.
Gino Bontempo. Il ras dei fondi Ue nella zona di Messina. Gino Bontempo, il ras della mafia dei pascoli in provincia di Messina, aveva messo in campo una schiera di insospettabili professionisti per razziare i contributi europei destinati ai Nebrodi. E, tutti insieme, avevano trovato un sistema quasi perfetto per evitare i controlli. Bastava non indicare l' Iban delle loro società, così le pratiche venivano temporaneamente accantonate. Per prassi, in questi casi, le liquidazioni avvenivano soltanto in un secondo momento. E, a quel punto, i controlli non venivano più fatti. È un grande baco quello scoperto di recente dalla procura di Messina con le indagini di Finanza e carabinieri. Fra il 2010 e il 2017, l' Ue ha versato 5 milioni a 151 aziende agricole della provincia in mano ai boss dei Nebrodi.
Santa Mallardo. La vedova di camorra al centro degli affari. La sua posizione processuale è apparentemente secondaria, una lieve condanna per intestazione di beni con l' aggravante mafiosa. Ma è la tragica storia familiare di Santa Mallardo a renderla quasi suo malgrado un personaggio di rilievo: vedova di camorra, perché il marito fu ucciso 30 anni fa in una delle faide più cruente della periferia settentrionale di Napoli, sorella di Feliciano Mallardo, esponente della cosca egemone a Giugliano e madre di Giuseppe e Carlo Antonio D' Alterio, accusati di aver tessuto trame imprenditoriali di spessore, con interessi tanto nel mondo dell' edilizia quanto in quello della distribuzione del caffé. Affari nei quali è rimasta imbrigliata anche Santa fino al ritorno a casa nei giorni del Covid.
Pio Candeloro. Il re di Desio dall'aria anonima. A Desio lo chiamavano Tonino o Tony, non di certo Pio come nella Melito Porto Salvo da cui decenni fa era partito. E prima dell' inchiesta Infinito Crimine, nessuno lì mai avrebbe pensato che dietro quell' aspetto anonimo si celasse il capo di uno dei più attivi locali dell' hinterland milanese, pronto a convincere gli imprenditori a pagare o cedere appalti e subappalti a forza di teste d' agnello lasciate in auto e bombe carta «che mezza casa gli vola». Però Pio Candeloro con i politici ci sa fare, trova anche la strada per discutere a tu per tu con l' amministrazione comunale e la macchina burocratica che governa lavori e appalti e non solo nella sua Desio. Rimedia una condanna pesante, le accuse contro di lui reggono a tutti i gradi di giudizio e i magistrati ne sono convinti. È lui il capo di Desio.
Carmela Gionta. La donna del clan denunciato da Siani. Palazzo Fienga, la roccaforte del clan che Giancarlo Siani denunciava nei suoi articoli, il Fortapasc del film di Marco Risi, oggi fa parte finalmente patrimonio dello Stato. Ma il nome Gionta, a Torre Annunziata, continua a pesare. E Carmela Gionta, sorella del boss Valentino, sul territorio si faceva sentire, come racconta l' inchiesta del procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli, che l' aveva arrestata per usura dopo la denuncia di un imprenditore riguardante prestiti da 10mila e 15mila euro al tasso del 10 per cento. Ma anche in una famiglia storica come quella dei Gionta, le donne litigavano, sembra proprio per la gestione della cassa: Carmela infatti entrò in contrasto con figlia, moglie e suocera del nipote, all' epoca reggente dell' organizzazione e fu accoltellata al viso.
Antonio Romeo. Il Gordo della rotta San Luca-Medellin. Antonio Romeo è nato e cresciuto a San Luca, poche migliaia di anime fra cui i nomi si tramandano per tradizione e strategia. Ma rispetto alle decine di omonimi parenti lontani e vicini, "el Gordo" era speciale. Dalla Locride ha fatto strada, è diventato uno degli emissari abilitato a trattare con i narcos dei cartelli di Medellin, gestire prezzi e spedizioni, assicurare garanzie. Uno affidabile, riconosciuto. Forse per questo, lui è uno di quelli che il parroco di San Luca, don Pino Strangio, e il suo braccio destro, chiedono di "salvare" dalla galera in cambio di precise informazioni su Giovanni Strangio, il killer della strage di Duisburg all' epoca latitante. Offerte rispedite al mittente, "el Gordo" si è dovuto rassegnare alla cella. Fino a qualche settimana fa.
Domenico Pepè. L'uomo del pizzo del clan Piromalli. Domenico Pepè, fidato del clan ndranghetista dei Piromalli, si poneva con modi gentili nei confronti degli imprenditori del porto di Gioia Tauro a cui imponeva le estorsioni per l' ingresso dei container.
«Potete sempre fare delle false fatturazioni per pagare». L' uomo dell' Ndrangheta dispensava consigli, come se la tassa mafiosa - «un dollaro a container» - fosse una cosa normalissima. Pepè, arrestato nel 2017 dopo un periodo di latitanza, provava a guardare avanti e a dare consigli anche al vertice della storica cosca dei Piromalli. Aveva così aperto la strada per una maxi truffa su alcuni fondi statali. Perché il traffico di droga porta tanti soldi, ma anche la macchina dei contributi pubblici può far realizzare grandi profitti alle cosche.
Francesco Ventrici. L'erede del narco che ama investire. Non è nato 'ndranghetista, ma quella vita, di soldi e di lussi grazie alle grandi importazioni di coca, a Francesco Ventrici piaceva. La scopre grazie a Vincenzo Barbieri, ufficialmente imprenditore del mobile di San Calogero, in realtà grande narco al servizio dei Mancuso. I due sono tanto diversi quanto inseparabili. Elegante e distinto Barbieri, un ragazzone obeso Ventrici, che gli diventa amico, socio, alla fine persino parente, per averne sposato una cugina. Ma soprattutto erede, dopo l' agguato in cui Barbieri è stato ucciso. E sulla scia del suo mentore, il giovane narco importa fiumi di bianca da Ecuador e Colombia e poi investe. Soprattutto nel bolognese, ma senza dimenticare la Calabria.
Diego Guzzino. Da autista a capo col tesoro nascosto. Diego Guzzino era negli anni Ottanta solo l' autista del capomandamento di Caccamo, Francesco Intile, autorevole componente della Cupola. «A un certo punto cominciò a fare affari con la droga a Palermo - ha raccontato il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè faceva palate di soldi, ma non mandava niente alla famiglia». Per questo, Giuffrè, il successore di Intile, aveva chiesto l' autorizzazione a Bernardo Provenzano per uccidere Guzzino. E il padrino di Corleone aveva autorizzato. Ma poi Giuffrè venne arrestato, nel 2002. E Guzzino ha continuato la sua scalata nel clan, con affari fra Palermo e la provincia. Ma il tesoro accumulato in tanti anni di attività non è stato ancora sequestrato.
Giosuè Fioretto. Il custode dei segreti dei Casalesi. Giosuè Fioretto conosce tanti segreti del clan dei Casalesi: era uno dei cassieri addetti al finanziamento delle operazioni più riservate. E, naturalmente, curava anche l' approvvigionamento della cassa, attraverso forme nuove di estorsione. È forse quel tesoretto accumulato in tanti anni di attività criminale ad averlo convinto a non aprire mai bocca davanti ai magistrati della direzione distrettuale antimafia di Napoli. Fioretto non ha voluto seguire neanche la scelta di due esponenti di spicco del clan, Francesco Schiavone e Bernardo Cirillo, che quattro anni fa avevano annunciato di volersi dissociare dal clan. Tornato ai domiciliari continua a custodire il segreto del patrimonio di famiglia.
Francesco Grignetti per “la Stampa” l'8 maggio 2020. l'8 maggio 2020. Una lunga litania di nomi da brivido, quella dei 376 detenuti pericolosi scarcerati, preparata dall' amministrazione penitenziaria e inviata alla commissione parlamentare Antimafia. Ma ce n' è un' altra in preparazione, con quelli scarcerati tra il 25 aprile e oggi: potrebbero essere altri due o trecento boss inviati a casa (e tra questi c' è Franco Cataldo, il custode del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi sciolto nell' acido). E poi c' è un' altra lista ancora, di quelli che hanno presentato istanza e aspettano risposta dalla magistratura di Sorveglianza: ne hanno contati 456, ma potrebbero essere molti di più. Il più conosciuto di tutti è il fratello di Totò Riina, Gaetano, 87 anni, in carcere a Torino: respinta la sua domanda in prima istanza, ora spera nel ricorso al Tribunale di Sorveglianza. Tra quelli già a casa, i più noti sono il camorrista Pasquale Zagaria, il mafioso Francesco Bonura e lo 'ndranghetista Vincenzo Iannazzo. Gli unici tre che erano al 41 bis. Per promemoria: Zagaria era la mente dei casalesi, Bonura il luogotonente di Bernardo Provenzano, Iannazzo il capo della cosca di Lamezia Terme, protagonista di una faida che ha causato decine di morti, l' implacabile boss che ha preteso tangenti all' infinito sulla modernizzazione dell' autostrada. Ora sono a casa perché si temeva per la loro salute. Poliziotti e carabinieri, che hanno rischiato la vita per arrestare ciascuno di loro, sono senza parole. L' elenco è lungo. Antonino Sacco, considerato erede dei fratelli Graviano, mandamento di Brancaccio. Gino Bontempo, uno dei padrini della mafia dei pascoli nei Neobrodi. Francesco Ventrici, broker della cocaina. Fabio Costantino, della 'ndrina Mancuso di Limbadi. Ciro Quindici, del clan Mazzarella di Napoli, terrore del rione Forcella. Giosuè Fioretto, un cassiere dei Casalesi. Rosalia Di Trapani, moglie del boss Salvatore Lo Piccolo e sua ascoltata consigliera. Sbalordisce che 63 di questi scarcerati nemmeno avesse fatto domanda: ci hanno pensato i direttori dei penitenziari, sulla base della circolare del Dap, a sollecitarne la scarcerazione. Erano tutti nel circuito Alta Sicurezza 3, dove finiscono quelli che hanno terminato il periodo di 41bis. Si vede che non vedevano l' ora di mandarli a casa. La circolare del Dap risale al 21 marzo. Da quel momento è stata una corsa a presentare domanda di scarcerazione. Uno dei principali boss del clan Traiano a Napoli, Salvatore Perrella, è tornato a casa accolto dai fuochi artificiali. È uscito anche Placido Toscano, in carcere dal 2014 per associazione mafiosa ed estorsione, di Biancavilla (Catania). E Francesco Manno, di Marina di Gioiosa ionica (Reggio Calabria), ergastolano condannato per omicidio, danneggiamento e illegale detenzione di armi. Tutti personaggi pericolosi. Saverio Capoluongo, boss dei Casalesi che aveva coordinato l' infiltrazione in Veneto. Lorenzo Cono, condannato per aver gestito piazze di spaccio a Torre Annunziata e comuni limitrofi e altresì fuori provincia, oltre a smerciare droga anche negli istituti penitenziari di Lanciano e Salerno: ben 700 le contestazioni di spaccio di stupefacente. Il 10 aprile è tornato a casa persino Rocco Santo Filippone, del clan Piromalli, imputato in Corte d' Assise nel processo «'Ndrangheta stragista» con il palermitano, ex capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano.
Da leggo.it il 7 maggio 2020. Cataldo Franco ha ottenuto il trasferimento agli arresti domiciliari per il rischio di contrarre il Covid-19. L'uomo, stava scontando una condanna all'ergastolo. Per circa due mesi fu il carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, che venne rapito il 23 novembre 1993 - quando non aveva ancora compiuto 13 anni - per intimidire il padre del bambino che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Fu tenuto sotto sequestro per 779 giorni, ucciso e sciolto nell'acido per indurre il padre a ritrattare per volontà di Giovanni Brusca. Cataldo Franco, anziano (ha 85 anni) e malato, è tornato nella sua casa di Geraci Siculo, a Palermo, trasferito ai domiciliari per il pericolo di poter contrarre il coronavirus. È uscito dal carcere di Opera lo scorso 28 aprile. C'è anche il suo nome nell'elenco dei 370 detenuti finiti agli arresti domiciliari per "motivi di salute". Tenne segregato il piccolo Giuseppe Di Matteo dalla fine dell’estate all’inizio di ottobre del 1994. Il bambino fu successivamente trasferito per la richiesta di Cataldo Franco di liberare il capannone dove era rinchiuso perché l'inizio della stagione della raccolta delle olive. Fu poi arrestato e condannato all’ergastolo.
'Ndrangheta, ecco tutti i nomi dei boss scarcerati per l'emergenza Covid19. Nell'elenco letto da L'Espresso i pezzi da novanta della mafia calabrese. Narcotrafficanti ai domiciliari e autorizzati per due ore giorni a uscire per «accudire gli animali». Altri finiti in storie di trattative parallele con pezzi dello Stato. Il fratello del capo dei capi dell'organizzazione. Il boss della Lombardia. E quelli implicati nei sequesti di persona degli anni 80-90. Giovanni Tizian il 7 maggio 2020 su L'Espresso. Oltre 40 i detenuti di 'ndrangheta scarcerati. Boss, colonnelli, soldati semplici, complici del sistema. Nomi pesanti, con condanne definitive o in attesa di giudizio. Giovani leve o anziani padrini che hanno attraversato la storia criminale della mafia calabrese. Scorrendo l'elenco riservato del Dipartimento dell'amministrazione pentitenziaria, una cosa è certa: le disposizioni dell'emergenza Covid19 hanno garantito alle cosche di 'ndrangheta di rimpolpare i ranghi con pezzi da novanta della gerarchia mafiosa. Tralasciando le polemiche e i giudizi di valore sulle scarcerazioni, c'è da fare una premessa: tutti, nessuno escluso, hanno diritto alle migliori cure. L'antimafia si pratica con i codici e seguendo la Costituzione. E non brandendo clava. È interessante, però, partire dai nomi. Molti dei quali condannati in via definitiva. Altri invece in attesa di giudizio. Cominciamo allora da questo piccolo esercito fino a poco tempo fa recluso e da qualche settimana a casa dopo che i tribunali di sorveglianza gli hanno concesso i domiciliari sulla base del rischio contagio da coronavirus. Scorrendo l'elenco troviamo la geografia criminale della 'ndrangheta. Dalla Calabria fino alle Alpi, passando per la Capitale. Dalle anguste celle dei reparti Alta Sorveglianza, un gradino sotto al più temuto 41 bis, alla gabbia domestica, nei regni, cioè, dove un boss esprime tutto il proprio potere senza doversi neanche spostare dalla poltrona. I provvedimenti di scarcerazione sono diversi, alcuni prevedono delle cautele disponendo, per esempio, l'uso del braccialetto elettronico, altri, invece, lasciano la massima libertà anche a figure centrali nello scacchiere del sistema criminale. C'è da scommetterci: quanti padrini affiancheranno alla fede per la madonna e san Michele Arangelo la devozione per quel virus chiamato Covid che gli ha concesso di lasciare gli spazi inumani della galera? Solo il tempo darà il responso.
Il narco e gli animali. Il caso di Sebastiano Giorgi, classe '67, è l'emblema di questo caos giurisprudenziale che ha provocato polemiche a non finire: sulla base di cosa vengono scarcerati i boss? Va dato a tutti il braccialetto elettronico? Che tipo di vigilanza va prevista? Insomma, grande confusione e poche linee guida certe. Giorgi è affiliato all'omonima cosca, conosciuta anche con il nomignolo “Suppera”. La sua carriera è scritta nelle sentenze che lo hanno condananto in via definitiva a 21 anni per traffico di droga e di armi, «in ossequio alle disposizioni in materia di contenimento del contagio da Covid19» gli è stato concesso il 23 marzo scorso di trasferirsi nella sua San Luca, il paese dell'Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, ricosciuto dagli affiliati di tutto il mondo come la “mamma” della 'ndrangheta. Dalla massima sicurezza del carcere di Sassari al luogo in cui tutto è cominciato. Il narco-boss della 'ndrangheta è però più fortunato di altri. Chi ha disposto la scarcerazione non ha previsto particolari obblighi, anzi: a L'Espresso risulta, infatti, che oltre a non dover indossare il braccialetto elettronico, potrà( con un permesso giornaliero) assentarsi due ore. Un permesso valido non per prendersi cura di un familiare ammalato o in difficoltà, ma per prendersi cura degli animali alle pendici della montagna. Si spera dotato di mascherina. Sarà l'occasione giusta per scambiare due chiacchiere con l'attuale boss del paese. Perché no?
Dai sequestri agli affari. San Luca si ripopola grazie all'emergenza Covid19. Anche grazie all'arrivo di un padrino della vecchia guardia 'ndranghetista tuttavia ancora molto influente: Francesco Mammoliti classe 1949. Colonnello della famiglia che porta il suo cognome conosciuta anche con l'alias “Fischiante”. Un'autorità a San Luca, i Mammoliti “Fischiante”. Don Ciccio Mammoliti è stato coinvolto in numerose vicende giudiziarie, era un boss della famigerata Anonima sequestri. Il suo nome, infatti, lo ritroviamo nelle inchieste sul sequestro di persone dell'ingegnere Carlo De Feo. Tra le doti di don Ciccio quella di farsi passare per morto: vent'anni fa un'inchiesta iniziata sulle dichiarazione del nipote venne archiviata per «morte del reo». Ma lui stava benissimo, tanto che dopo aver scontato la pena e rimesso ai domiciliari non è sceso dal trono. Poi un'altra inchiesta, il carcere. E ora di nuovo i domiciliari.
Il Gordo e quella trattativa dopo Duisburg. A San Luca è tornato anche Antonio Romeo, detto il “Gordo”. Narco della' ndrangheta di primissimo piano. Contatti internazionali, con emissari dei cartelli colombiani di Medellin, e una condanna definitiva a 17 anni per traffico di droga. Il nome del “Gordo” spunta in una vicenda mai chiarita di una presunta trattativa per l'arresto dell'allora latitante Giovanni Strangio, super ricercato, poi catturato in Olanda, per la strage di Ferragosto 2007 a Duisburg, in Germania. Una trattativa che sarebbe stata condotta da un carabiniere, un avvocato e il parroco don Pino Strangio di San Luca. Il Gordo all'epoca latitante doveva essere una pedina di scambio in uno scacchiere di favori e cortesia per poi arrivare il ricercato del momento, il killer di Duisburg. Vicenda che non ha avuto alcun risvolto penale, ma gli atti sono stati depositati nel più importante processo ai clan di Reggio Calabria in corso in questo momento nella città dello Stretto. Dove nel frattempo è tornato Demetrio Serraino, nato nel '47, fratello di don Ciccio Serraino, tra i padrini più influenti della vecchia 'ndrangheta.
Il fratello del capo dei capi. E del gotha della mafia calabrese fanno parte anche i Morabito, guidati da Giuseppe Morabito, detto “u Tiradrittu”, rietnuto uno dei capi supremi della 'ndrangheta. Suo fratello Rocco, detto “u Pilusu”( il peloso), è tornato a casa ad Africo. Il gruppo del Tiradrittu ha ramificazioni all'estero e in Lombardia, dove vanta business illegali ma soprattutto legali: sono stati i primi a infiltrare l'ortomercato di Milano. I “Tiradritti” sono imparentati con il latitante e narcotrafficante Rocco Morabito, evaso dal carcere uruguaiano dopo l'arresto che aveva fermato una fuga che durava da anni. Con Rocco “u Pilusu” è uscito dalla massima sicurezza anche il suo braccio destro: Domenico Antonio Moio. La coppia seppure a distanza si è riformata. Chi ha lasciato il carcere per i domiciliari è anche Pasquale Lombardo: di Brancaleone, in attesa di giudizio, è stato arrestato in un'inchiesta sulle nuove leve della mafia calabrese. É ritenuto un vero capo dagli inquirenti. E negli atti di quell'inchiesta un episodio, tra gli altri, indica quanto conta la sua presenza fisica sul territorio. Con il fratello e i sodali organizzano una vera e propria caccia all'uomo per scovare un rapinatore e fargliela pagare per aver violato il territorio.
Gli uomini dei Piromalli. Pure la piana di Gioia Tauro si ripopola di boss al tempo del covid. È tornato a casa Domenico Longo: 53 anni, condannato per associazione mafiosa, è considerato il reggente della 'ndrina Longo di Polistena. E sempre di queste zone è anche Vincenzo Bagalà, che però è in attesa di giudizio: secondo i pm è soggetto di massima fiducia dei Piromalli, del gotha della 'ndrangheta dunque. Della stessa “famiglia” è anche Domenico Pepè, adesso ai domiciliari grazie alla pandemia.
I boss del Nord. Risalendo la penisola, arrivamo in Lombardia, nella regione che più di tutte ha pagato un prezzo altissimo per la pandemia. Anche qui ci sono state scarcerazioni nell'ambiente alto della 'ndrangheta. Tra questi c'è Pio Candeloro: 56 anni, detenuto a Siena, capo della cosca di Desio e personaggio centrale nelle dinamiche della 'ndrangheta lombarda, quella svelata dalla maxi inchiesta “Crimine – Infinito” del 2010. Altro nome eccellente è Domenico Natale Perre, uno dei sequestratori delll'imprenditrice Alessandra Sgarella. Boss originario di Platì, il paese da cui sono partite le cosche Perre-Barbaro-Papalia per conquistare il mondo: da Buccinasco, in Lombardia, fino in Australia. Non sono i soli. Ci sono altri “lombardi” delle 'ndrine scarcerati: Saverio Catanzariti e Alfonso Rispoli. E c'è pure Leonardo Priolo della cosca di Mariano Comense. Profondo Nord. Come l'Emilia. Dove uno dei capi del gruppo legato alla potente cosca Arena di Isola Capo Rizzuto è uscito dal carcere e si trova ai domiciliari: Paolo Pelaggi. Dall'inchiesta sugli affari di Pelaggi, l'architetto di una truffa carosello milionaria, è nata l'inchiesta Aemilia, tra le più imporanti indagini contro la 'ndrangheta settentrionale. Il gruppo di Pelaggi è stato condananto oltreché per il business delle truffe anche per aver messo una bomba davanti all'agenzia delle entrate di Sassuolo, che si era permessa di interferire sugli affari oscuri del clan. L'elenco dei nomi che compongono l'esercito delle 'ndrine fuoriuscito dai penitenziari è ancora lungo. Sono storie di soldati e gregari, di giovani che gestiscono piazze di spaccio enormi come quella di San Basilio a Roma. Tutti uniti dal silenzio, nessuno che tradisce i capi. Fedeli ai mammasantissima che li hanno arruolati.
Massimo Giletti, la terrificante vignetta sul Fatto Quotidiano di Travaglio: schizzi di cacca e insulti. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Marco Travaglio ordina, i suoi soldatini eseguono. Il bersaglio del momento è Massimo Giletti. La ragione? Presto detto: ha "disturbato" i grillini con la bomba su Alfonso Bonafede, sganciata da Nino Di Matteo a Non è l'arena. E dato che il caso crea non pochi problemi anche a Giuseppe Conte, ecco che contro Giletti partono le bastonate di Travaglio. Come? Presto detto, con una vignetta disgustosa pubblicata in prima pagina sul Fatto Quotidiano e firmata da Mannelli. Nell'immagine si vede un Giletti deforme intento a spargere schizzi di escrementi. A spiegare il disegno, il commento: "Non è Giletti, è Shpalman! Che shpalma la merda in faccia. Aiuto arriva Shpalman che tutti ci shpalmerà". Il riferimento di tal porcheria è a una canzone di Elio e le storie tese. La "merda spalmata in faccia", ovviamente, sarebbe il caso con cui ha messo all'angolo Bonafede. Per Travaglio è vietato criticare i grillini. E chi si permette di farlo viene ricoperto di merda...
Da tvzoom.it il 21 maggio 2020. Scrive ''TVZoom'', nella sua rassegna stampa degli articoli sulla televisione: ''dopo che "Non è l’Arena" ha mandato in tilt il mondo grillino con l’intervista scoop al procuratore Giovanni Di Matteo contro il ministro Alfonso Bonafede, il "Fatto Quotidiano" tira fuori uno spot pro-Forestale del 2005 per sporcare l’immagine del conduttore''. L'articolo del ''Fatto'' è firmato da Enrico Fierro e Lucio Musolino, e racconta una campagna pubblicitaria anti-incendi con il volto di Giletti, finanziata dalla regione Calabria e commissionata a una società di comunicazione guidata da Salvatore Gaetano, oggi editore di ''Video Calabria'' e candidato alle ultime regionali con la Lega: «(…) Incassai 132 mila euro compresi di Iva. Ricordo i manifesti 6×3 con la faccia di Giletti, le foto, lo spot tv e la conferenza stampa con l’Assessore. Giletti lavorò con noi per un paio di giorni, forse tre, e io gli feci una fattura tra i 6 e i 9 mila euro. Conosco tanta gente, e credetemi, nessuno viene a lavorare in Calabria gratis». Giletti si chiede come mai debba rendere conto di un lavoro (fatturato) di 15 anni fa: «Devo dire che non capisco questa telefonata. Evidentemente, qualcuno pensava che potesse essere utile usare la mia immagine per fare una promozione antincendio».
Ma Giletti non era grillino? Ora è nel mirino dei Cinque Stelle. Marco Castoro il 7 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Era il 2017 quando Massimo Giletti – suo malgrado – fu costretto ad alzare i tacchi dalla sua amata Rai e a cambiare azienda. L’Arena – il programma che conduceva – stava andando fortissimo nel primo pomeriggio della domenica. Con una media di 4 milioni di spettatori e oltre il 20% di share. Eppure si chiusero i battenti. Perché – purtroppo per Giletti – quell’Arena di Rai1 era diventata sempre più la sua Arena, nella quale il conduttore si esibiva come un gladiatore, combatteva le sue battaglie che spesso (troppo spesso) non coincidevano con la linea governativa della Rai. L’allora dg Mario Orfeo decise di togliere l’Arena dal palinsesto della nuova stagione e a Giletti offrì di condurre delle prime serate il sabato. Ma il conduttore si sentì ferito nell’orgoglio e non senza rimpianti decise di lasciare la sua vecchia azienda sposando la proposta di La7 che Urbano Cairo stava forgiando. Chiese subito la domenica sera per sfidare faccia a faccia il suo antagonista, Fabio Fazio. Dalle parti del Cavallo di Viale Mazzini si disse nei corridoi delle sacre stanze: «Giletti è diventato grillino. Fa opposizione e porta avanti le sue campagne populiste contro i vitalizi e i privilegi della casta». Ebbene tre anni dopo Giletti – ormai in forza a La7 con Non è l’Arena – è finito nel mirino indovinate con quale accusa? È diventato l’antagonista dei cinque stelle. I suoi attacchi al ministro Bonafede e al governo sulla questione delle scarcerazioni dei boss della mafia e sulla nomina al Dap saltata con le relative accuse del magistrato candidato Nino Di Matteo, hanno surriscaldato gli animi. Sul Fatto Quotidiano ha fatto scalpore la vignetta di forte impatto apparsa in prima pagina nella quale si descrive un Giletti che getta e sparge escrementi. Con la seguente scritta a contorno: «Non è Giletti, è Shpalman! Che shpalma la merda in faccia. Aiuto arriva Shpalman che tutti ci shpalmerà». L’anchorman sta portando avanti da alcune settimane la sua nuova crociata, questa volta contro le scarcerazioni facili. Domenica scorsa ha fatto nomi e cognomi. Scatenando un putiferio. Con interventi in diretta al telefono prima dell’accusatore Di Matteo e poi del ministro che si è difeso. A tratti ha ricordato i programmi del miglior Michele Santoro, quando i centralini delle redazioni andavano in tilt per le reazioni. Giletti non è nuovo a sfidare i poteri forti. A suo tempo perfino nel calcio ha scatenato una bagarre non indifferente, finendo sulle prime pagine dei giornali. Certo, non nella stessa maniera di come c’è finito sul Fatto Quotidiano.
Le figurine ingombranti dei M5s. Il magistrato antimafia, prima riferimento della legalità, ora è diventato difficile da gestire. Gianluigi Paragone il 6 maggio 2020 su Il Tempo. La vicenda Di Matteo/Bonafede ha diverse chiavi di lettura. La più immediata è quella parlamentare: qui parti storicamente ostili al magistrato si sono affrettate a prenderne le difese con il solo intento di indebolire il governo mettendo alle corde il Guardasigilli. Ci sta, per carità; ma non è per nulla il copione che intendo seguire, non fosse altro perché certe difese sono ridicole. La precisazione mi era doverosa perché anch’io criticherò Bonafede e il Movimento (quindi allineandomi in apparenza al gioco dell’opposizione) ma in quanto ex parlamentare del Movimento, espulso per eccesso di ortodossia con il programma grillino. (Avrei voluto scrivere per eccesso di coerenza ma chi si loda s’imbroda...). Per decifrare il duello rusticano tra il magistrato antimafia e il ministro andato in onda a Non è l’arena vanno affrontate almeno tre chiavi di lettura: quella interna al movimento, quella esterna e quella di comunicazione. Tratterò inizialmente e brevemente la seconda perché è già stata sviscerata: l’offerta avanzata dal ministro al magistrato tra l’opzione Dap e l’opzione Affari penali; la scelta del secondo di puntare al Dap; il ripensamento del Guardasigilli poche ore dopo l’offerta avanzata al magistrato. A rendere più fitto il mistero del dietrofront di Bonafede su Di Matteo sono le voci che arrivano dalla criminalità, voci di ribellione in caso di nomina di Di Matteo. E qui si arriva alla messa a fuoco interna al Movimento, per commentare la quale mi dilungherò. La caratura...
Contro Massimo Giletti il vitavizio dei grillini. Francesco Storace il 06 Maggio 2020 su 7colli.it. Anche contro Massimo Giletti, grillini con il vitavizio. Nel senso di vizio a vita. Il vizio di gettare a mare chi non gli serve più. Usano. Fanno come certi potenti, ma tanto la ruota gira per tutti. E anche loro subiranno la stessa sorte. Intanto ci chiediamo se ci sia un giudice a Berlino, o almeno alla procura di Roma. Perché anche le minacce contro Giletti – per ora a mezzo social – sono un reato da perseguire. La vicenda Bonafede raffigura – di nuovo – i pentastellati in modalità odio. Appena ne sputtani le gesta insorgono e minacciano.
Prima Di Matteo, poi Giletti, il vitavizio dei grillini. Ma sono loro stessi a distruggere i loro miti. Lo fanno spesso. In queste ore prima con il magistrato Di Matteo, che ha insinuato dubbi enormi sulla condotta del ministro della giustizia, che resta avvinghiato alla poltrona. Di Matteo sta al Csm, i due sono destinati ad incontrarsi e non sarà un bel vedere per entrambi dopo le accuse mosse e respinte sulle collusioni con i mafiosi nelle carceri. O meglio – e anche peggio per un ministro di quel livello – aver subito pressioni per evitare la nomina di Di Matteo a capo delle carceri italiane. Era una loro bandiera, lo hanno trasformato in banderuola. Idem per Massimo Giletti, osannato fino a quando si occupava di vitalizi. Ogni giorno spuntavano sulla rete i video con le sue trasmissioni contro la casta. Adesso che la casta sono loro, fanno la voce grossa, armano la tastiera, strillano al complotto. Stavolta è vitavizio, perché fanno sempre così. Abbiamo letto valanghe di insulti sui social. Accuse di aver ordito una trappola a Bonafede. “Un agguato” ha detto quel sapientone di Giarrusso, il deputato europeo. Parolacce. Offese. E minacce, appunto.
Fa il giornalista. Anche se l’Ordine non dice una parola. Eppure, Giletti si è limitato a fare il giornalista. Volevano che facesse il tappetino di fronte a sua eccellenza il signor ministro. Semmai avrebbero dovuto chiedersi, i pentastellati, perché una trasmissione del genere dobbiamo vederla su La7 e non alla Rai. Ci sarà un motivo se la chiamano “Non è l’arena…”, dopo avergli impedito di apparire sui canali del servizio pubblico radiotelevisivo. Domenica prossima Giletti tornerà alla carica sul tema dei mafiosi usciti di galera e non si lascia intimorire: “Dico subito a chi mi minaccia che domenica tornerò a parlare di questa storia” . A Myrta Merlino che gli ha chiesto: “Sapevi o no che avrebbe telefonato in diretta?”, Giletti ha risposto come doveva: “Ma come facevo? Neanche il mago Otelma può prevedere che un uomo dello spessore, dell’importanza di Di Matteo possa chiamare in diretta. Piuttosto, avete sentito il tono sofferto? Io a Bonafede riconosco grandi meriti nella lotta alla corruzione, ma la domanda è: chiami un uomo importante come Di Matteo, non un quaquaraqua qualunque e poi improvvisamente gli dici che ti sei sbagliato?! E’ questa la vera domanda. Cosa è successo?”.
P.s. Giletti si prepari, che gli hater grillini torneranno a tentare di trafiggerlo. Ma l’Ordine dei giornalisti, sempre così sensibile quando tocca a lorcompagni, stavolta non parla. Curioso no? Libertà di informazione a corrente alternata, pare di capire.
Di Matteo dà del mafioso a Bonafede, Travaglio prova a fare da paciere. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. E’ finita con un duello rusticano la battaglia del Dap. Si sono sfidati al ferro corto i due campioni del giustizialismo. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, campione di gaffe e fiero della qualifica di ministro più forcaiolo della storia della Repubblica. E Nino Di Matteo, pm molto politicizzato, con una storia di intuizioni giudiziarie assai poco felici e una storia di “dichiaratore” e personaggio mediatico assai più brillante. Di Matteo (che prima o poi, ne sono sicuro, finirà per dare del mafioso a se stesso) l’altra sera ha preso di petto il suo ministro e ha accusato anche lui di essere agli ordini dei boss, o almeno di averne subìto il ricatto, come aveva fatto giorni fa col tribunale di sorveglianza di Milano. L’imputazione esatta, credo, sia – al solito – concorso esterno in associazione mafiosa. Di Matteo lo ha fatto dalla televisione di Giletti, che sul piano della politica istituzionale della Giustizia oggi è la sede più accreditata. Bonafede ha provato a reagire, telefonando disperato e giurando sul suo manettismo, ma non è stato creduto. Ora c’è il fronte giusti-giusti–giustizialista che chiede le sue dimissioni. Forse Travaglio lo difenderà. Speriamo. Cos’è la battaglia del Dap? Il Dap è il dipartimento che si occupa di governare il sistema delle carceri. Recentemente è stato messo sotto accusa perché ritenuto responsabile di aver liberato un paio di persone molto anziane, molto malate, e che avevano quasi del tutto scontato la loro pena. Scarcerati sulla base di un articolo del codice penale scritto da Alfredo Rocco, giurista amato da Mussolini, nel 1930. Il Dap non è in realtà per niente responsabile delle scarcerazioni, ma il fronte del “buttate la chiave” (che ormai forse sta sfuggendo di mano anche al partito dei Pm) non ammette repliche. Fuori fuori fuori. La cosa che più preoccupa, forse , è proprio questa. Il partito dei Pm sta sfuggendo di mano anche al partito dei Pm. Le sue frange reazionarie più estremiste stanno stravincendo. Forse persino Travaglio ora ha paura…
Buona fede di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 5 Maggio 2020: Tutto potevamo immaginare, nella vita, fuorché di vedere il centrodestra (e dunque anche l’Innominabile e la sua Italia Morta) schierato come falange macedone in difesa di Nino Di Matteo, il magistrato più vilipeso e osteggiato (soprattutto dal centrodestra, ma non solo) degli ultimi vent'anni. Del resto, questa vicenda che lo contrappone al ministro Alfonso Bonafede è tutta un paradosso. Il Guardasigilli viene accusato di cedimenti alla mafia e alle scarcerazioni dagli stessi che gli davano del “giustizialista”, “manettaro” e per giunta colluso col “grillino” Di Matteo. Tant’è che l’altra sera, a “Non è l’Arena: è Salvini”, s’inchinavano deferenti a Di Matteo il capitano “Ultimo” (il neoassessore dell’immacolata giunta Santelli in Calabria, che Di Matteo fece a pezzi in varie requisitorie per la mancata perquisizione al covo di Riina) e l’ex ministro Claudio Martelli, che lo definì “uno stupido, forse anche in malafede” che “naviga nel caos” e “non escludo che si inventi delle balorde” nel processo 'Trattativa' che “finirà in un nonnulla” (infatti, tutti condannati). Una lezione di legalità resa ancor più credibile da maestri del calibro di Flavio Briatore (imputato per evasione fiscale) e dello stesso Martelli (pregiudicato per la maxitangente Enimont). Gli imputati, ovviamente assenti, erano due pericolosi incensurati: Bonafede e il suo capo uscente del DAP Francesco Basentini, che la vulgata salviniana e dunque gilettiana vuole colpevoli delle decine di scarcerazioni di detenuti (opera di altrettanti giudici di sorveglianza iper “garantisti”), quando tutti sanno che il DAP è corresponsabile solo in quella del fratello del boss Zagaria, scarcerato da un giudice di Sassari con la scusa del Covid e spedito a casa sua a Brescia (epicentro Covid). Nel bel mezzo di quel fritto-misto di urla belluine miste a notizie vere, verosimili e farlocche, fatto apposta per non far capire nulla, ha chiamato Di Matteo per raccontare la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018. I lettori del Fatto sapevano già tutto. Il 27 giugno 2018 Antonella Mascali la raccontò insieme alle esternazioni di alcuni boss al 41-bis contro l’ipotesi di Di Matteo al Dap. Poi Marco Lillo criticò Bonafede per la “figuraccia” fatta con Di Matteo. L’altra sera l’ex pm ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministro sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Giletti l’ha dato per scontato. Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. E non ne conosciamo i particolari. Ma già due anni fa ci facemmo l’idea di un colossale equivoco fra due persone in buona fede. Ecco la cronologia. Quando nasce il governo Salvimaio, voci di stampa parlano di Di Matteo al DAP o in un altro ruolo apicale del ministero della Giustizia. E fanno impazzire i boss (che evidentemente preferivano le precedenti gestioni). Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l’arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l’equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il DAP. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l’impressione del ministro): ruolo che il Guardasigilli s’impegna a liberare riorganizzando il ministero e ritiene più consono alla storia di Di Matteo, oltreché alla sua esigenza di averlo accanto per le leggi anti-mafia/corruzione che ha in mente (all'epoca il problema scarcerazioni non era all'ordine del giorno). Il PM invece ritiene l’incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il DAP a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il DAP e di non essere disponibile per l’altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il DAP l’ha già affidato al suo collega. Invano. Il 27 giugno il Fatto pubblica le frasi dei boss: a quel punto, come osserva Lillo sul Fatto, Bonafede potrebbe accantonare Basentini e richiamare Di Matteo per dare un segnale ai mafiosi; ma, per non mancare alla parola data, non lo fa. In ogni caso l’ipotesi che la contrarietà dei mafiosi l’abbia influenzato è smentita dalla successione dei fatti, oltreché dalla logica: chi vuol compiacere i boss non offre a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Martelli agli Affari penali, non al DAP. Ma Di Matteo si convince, memore dei mille ostacoli incontrati nella sua carriera, che “qualcuno” sia intervenuto sul ministro per bloccarlo. Intanto Bonafede continua a sperare di portarlo con sé. Ma ormai il rapporto personale è compromesso, anche se poi Di Matteo non manca di sostenere le riforme di Bonafede (voto di scambio, spazza-corrotti, blocca-prescrizione ecc.) e la recente nomina a vicecapo del DAP del suo “allievo” Roberto Tartaglia, giovane PM del processo 'Trattativa'. Un’altra mossa che a tutto può far pensare, fuorché a un gentile omaggio a Cosa Nostra.
Malafede di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 6 Maggio 2020. Le persone perbene, che a certi livelli si contano sulle dita di un monco, sono naturalmente portate al battibecco: l’antimafia, anche la migliore, è piena di casi del genere (Sciascia-Borsellino, Orlando-Falcone…). Invece i manigoldi, che a certi livelli si contano sulle dita della Dea Kalì, sono molto più flessibili grazie ai loro stomaci moquettati. Quindi oggi in Parlamento assisteremo alla scena più comica della storia dopo la mozione “Ruby nipote di Mubarak”: Bonafede trascinato a render conto di presunti cedimenti alla mafia indovinate da chi? Da Forza Italia, partito ideato da un mafioso e fondato da un finanziatore di Cosa Nostra, che sventola senza pudore la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Dell’Utri per la trattativa Stato-mafia durante i governi Amato, Ciampi e B. e che, se dipendesse da FI, sarebbe stato spazzato via dalla magistratura prima che ci pensasse la mafia. La fiera del tartufo, e della malafede. Dopo i trii comici Troisi-Arena-De Caro, Aldo-Giovanni-Giacomo e Lopez-Marchesini-Solenghi, ora abbiamo FI-Lega-Iv. Salvini – appena eletto dalla Bbc cazzaro dell’anno insieme a Trump e Bolsonaro, con gran scorno dell’Innominabile – parla di “sospetti preoccupanti avanzati da un pm antimafia. Pensate se fosse accaduto a un ministro della Lega o a Berlusconi: sarebbe stata la rivoluzione della sinistra”. Veramente Di Matteo non ha mai detto che Bonafede abbia ceduto a pressioni mafiose. Quanto a cosa sarebbe accaduto alla Lega o a B., non c’è bisogno di immaginare: durante i loro governi si tennero trattative fra Stato e mafia sul 41-bis, sul decreto Biondi, sulla dissociazione ecc, un ministro mai cacciato disse che “bisogna convivere con la mafia”, si approvarono leggi svuotacarceri à go go e si propose di abrogare il 41-bis, il 416-bis, l’ergastolo e i pentiti, come da papello di Riina. Quanto alla “nuova” Lega, che da Nord a Sud ha imbarcato il peggio del forzismo, chi fu ad arruolare e sponsorizzare Paolo Arata (socio occulto del fiancheggiatore di Messina Denaro e compare del pregiudicato Siri)? Naturalmente Salvini. Ultimo del trio in ordine di voti è l’Innominabile che riesce a definire, restando serio, la polemica Di Matteo-Bonafede “il più grande scandalo della giustizia degli ultimi anni”. Modesto, il ragazzo: e dove lo mette lo scandalo del Csm, coi suoi amichetti Ferri e Lotti impegnati in notturni conversari a pilotare le nomine dei procuratori? Cosimino Ferri, anziché darle lui, ha chiesto le dimissioni di Bonafede. Una zampata da capocomico che stermina in un sol colpo il trio FI-Cazzaro-Innominabile e fa di lui il nuovo Principe della Risata.
Buttadentro&fuori di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 8 Maggio: Analizzando i danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, ci è tornato alla mente il tormentone di Eduardo De Filippo in A che servono questi quattrini?: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. In effetti il battibecco fra ex pm e ministro potrebbe sortire almeno due effetti positivi. Il primo è l’improvviso coup de foudre per Di Matteo del centrodestra più Innominabile più house organ e giornaloni al seguito, che li costringe a parlare ogni giorno della sua inchiesta più importante, quella sulla trattativa Stato-mafia, approdata – com’è noto – due anni fa alle condanne in primo grado di tutti gli imputati per violenza o minaccia ai governi Amato, Ciampi e Berlusconi. Non se n’era mai parlato così tanto, nei due anni d’inchiesta e nei quattro e più di dibattimento (regolarmente ignorato o svillaneggiato), né all’indomani della sentenza. Dunque siamo certi che ora chi dà ragione a Di Matteo sul sospetto, tutto da dimostrare, di pressioni sul ministro Bonafede per la mancata nomina a capo-Dap, non mancherà di far conoscere ai suoi (e)lettori le pressioni mafio-istituzionali ampiamente dimostrate in quel processo. Già immaginiamo le puntate speciali di “Non è L’Arena: è Salvini” con letture intensive della requisitoria Di Matteo e della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, nonché le edizioni straordinarie di Repubblica, Corriere, Stampa, Giornale, Verità e Libero con tutte le carte del processo del secolo (chi fosse interessato può copiare i paginoni del Fatto di due anni fa). Il secondo effetto benefico è che ora chi difendeva quei governi e quei ministri per aver trattato con la mafia “a fin di bene”, alleggerito il 41-bis e varato altre norme pro-mafia in ossequio al papello di Riina per “ragion di Stato”, farà senz’altro autocritica. Per un motivo di coerenza, cioè per rendere credibili le accuse sulle recenti scarcerazioni di mafiosi al ministro Bonafede, che peraltro non ha mai scarcerato nessuno e sulla mafia ha fatto (e ancora sta facendo) sempre e solo leggi anti, mai pro. Purtroppo la coerenza stenta ancora a farsi strada, dunque assistiamo a un gustoso paradosso: chi giustificava o minimizzava o ignorava la documentata trattativa Stato-mafia del 1992-’94 ora cavalca la falsa trattativa Bonafede-mafia del 2020. E attribuisce al ministro le ultime scarcerazioni, che invece sono farina integrale del sacco di circa 200 giudici. A parte il centrodestra, pieno di mafiosi e filomafiosi, che presenta mozioni di sfiducia contro Bonafede in nome dell’antimafia (quella di Dell’Utri, B.&C.), segnaliamo il neodirettore di Repubblica Maurizio “Sambuca” Molinari. Ieri, con l’empito tipico del neofita, ipotizzava “una trattativa” (termine da lui mai usato prima, Usa e Israele a parte) “fra i boss e lo Stato” in corso oggi e domandava, restando serio, “se fosse vero che i boss hanno ottenuto di poter uscire per salvaguardare la loro salute, fino che punto il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio sono stati informati e hanno autorizzato? Interrogativi molto seri che hanno a che vedere con la sicurezza dello Stato”. Se chiedesse a qualche suo cronista, Sambuca apprenderebbe con gran sorpresa che le scarcerazioni le decidono i tribunali di sorveglianza, a meno che il governo non le abbia disposte per legge o per decreto. Ma Bonafede, nel dl Cura Italia, ha escluso i condannati per mafia dalla lista di quelli scarcerabili a fine pena in base alla legge Svuota-carceri Alfano del 2010. Purtroppo un gruppetto di giudici se n’è infischiato e ha messo fuori tutta quella bella gente in base al comico assunto che i detenuti in carcere, inclusi quelli sigillati al 41-bis, rischiano il Covid più di chi sta fuori, mentre la logica e i numeri dicono che è esattamente l’opposto. Ma evidentemente il giureconsulto che consiglia Sambuca è quell’altro genio di Stefano Folli (il quale chiede le dimissioni di Bonafede “per responsabilità oggettiva” nelle “scarcerazioni di massa”, come se Tocqueville non fosse mai nato). Risultato: Repubblica ieri titolava in prima pagina “Boss, Bonafede ci ripensa” (non si sa rispetto a cosa, visto che non aveva mai detto di scarcerare mafiosi, anzi aveva decretato l’opposto). Il che deve aver aumentato fra i lettori l’imbarazzante sensazione di aver comprato per sbaglio il Giornale (“Bonafede si rimangia le scarcerazioni facili”), o La Verità (“La trattativa coi boss l’ha fatta Bonafede?”), o il Messaggero (“Frenata Bonafede”). Massima solidarietà al caporedattore Stefano Cappellini, che da mesi si dannava l’anima per spacciare Bonafede per un sadico carceriere per aver fatto le leggi che Repubblica aveva chiesto per vent’anni prima della tragicomica metamorfosi. Quando il Guardasigilli varò la blocca-prescrizione, Cappellini tuonò: “Calpestati i fondamenti di uno Stato di diritto degno di chiamarsi tale”, “giustizialismo”, “barbarie giuridica”, “tribunali dell’Inquisizione”. Ora vai a spiegare ai lettori che quel fottuto manettaro ha messo fuori, con la sola forza del pensiero, quasi 400 boss e forse sta pure trattando con la mafia. Qualcuno potrebbe domandare a Repubblica: ragazzi, l’abbiamo capito che ’sto Bonafede vi sta sul culo, ma siate gentili, diteci una volta per tutte se è un buttadentro o un buttafuori. Così, per sapere.
La nuova Repubblica di Molinari all’inseguimento di Travaglio e del Fatto Quotidiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Repubblica, ieri mattina, è uscita con un titolo a caratteri di scatola che campeggiava in prima pagina: Boss scarcerati, la lista segreta. Nel sottotitolo si spiegava che c’è un elenco di 376 detenuti messi in libertà dalla magistratura all’insaputa di tutti e che ora in Italia è scattato l’allarme rosso per la mafia. In un articolo sul nostro giornale, Stefano Anastasia spiega che i boss che lasciano il 41 bis non sono esattamente 376. Sono tre. E i tre nomi non sono neppure segretissimi. Zagaria, Bonura e un certo Vincenzo Iannazzo, condannato a 14 anni perché considerato esponente della ‘ndrangheta. Di Zagaria e Bonura si è già parlato molto nei giorni scorsi. Su tutte le prime pagine e in tutti i talk show. E la notizia della scarcerazione di Iannazzo è nota da un po’ più di un mese. Diciamo pure che lo scoop, in quanto scoop, non c’è. C’è però, evidentissima, la volontà di creare allarme e di favorire la sensazione, nell’opinione pubblica, che la mafia stia tornando a essere una grande emergenza nazionale e che occorrano provvedimenti rigorosi e una stretta a base di manette e più anni di carcere. È una offensiva in grande stile, condotta in particolare dai partiti più inclini al populismo, e cioè quelli della destra di Salvini e Meloni e, naturalmente, i 5 Stelle. Probabilmente però questa offensiva non avrebbe dato i risultati eccezionali che sta dando, in termini di indignazione pubblica, se non avesse ricevuto il sostegno appassionato del sistema informativo. Giornali e Tv, soprattutto. Guidati e governati e frustati come cavalli dal Fatto di Travaglio, ma ormai in grado di muoversi anche indipendentemente. Un po’ stupisce che questa uscita ultra-giustizialista sia il primo atto significativo della nuova direzione di Maurizio Molinari. Non lo conosco bene, personalmente, ma lo ho sempre letto e apprezzato. Molinari è un giornalista molto serio, colto, intelligente. È stato un eccellente corrispondente da New York e poi un ottimo direttore della Stampa. Non riesco a capire come abbia potuto permettere la scivolata di oggi del suo giornale. Una scivolata in pieno stile Fatto Quotidiano. Peraltro il titolo contiene una notizia assolutamente falsa. Nel gergo giornalistico, e nella vulgata dell’opinione pubblica, “boss” vuol dire capomafia. Come immagino voi sappiate, i capi della mafia, in Italia, da diversi anni vengono imprigionati in regime di 41 bis, cioè son messi al carcere duro. Non solo i più spietati, anche quelli che magari sono stati condannati solo per reati minori, ma con l’aggravante mafiosa (come è il caso dei tre scarcerati). Che poi questa sia una pratica compatibile con la Costituzione e con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo è un’altra discussione (comunque non è compatibile..) Ora, dire che c’è una lista di 376 boss quando in realtà la lista è di solo 3 presunti boss, è chiaro che equivale a fornire al lettore una notizia falsa. Ed è falsa anche la notizia che questa lista sia segreta, perché i nomi dei tre boss in questione erano noti a tutta l’opinione pubblica. Diciamo pure che su cinque parole di quel titolo, l’unica vera vera è la parola lista. Troppo poco, no? Come può succedere che uno dei due colossi dell’editoria italiana, pilastro dell’intellettualità borghese illuminata, scelga di inseguire il Fatto Quotidiano – cioè un giornale ostentatamente qualunquista – sia nella linea politica sia nello stile giornalistico? Secondo me questa è una domanda seria. Perché riguarda non solo il mondo dell’informazione ma l’intero svolgersi dello spirito pubblico in questo Paese. Le classi dirigenti danno ormai per scontata una egemonia fondamentalista e giustizialista. E si sottomettono. Qualunque idea liberale è scacciata dal panorama intellettuale e informativo. È considerata indecorosa, inapplicabile, inavvicinabile, scandalosa. Il ceto giornalistico è quasi interamente costruito nel cantiere post-Tangentopoli. Il giornalismo giudiziario ha preso il sopravvento su tutte le altre categorie del giornalismo, e per giornalismo giudiziario si intende quel tipo di informazione che parte dall’idea che una verità esista e questa verità sia a palazzo di Giustizia, o nelle stazioni dei carabinieri o anche, spesso, nei corridoi dei servizi segreti. Una parte non piccola del giornalismo giudiziario nasce lì: o nelle anticamere dei Pm o direttamente nelle stanze degli 007. E anche i commentatori sono ormai subalterni ai cronisti giudiziari. Tutto questo sta provocando un gigantesco spostamento di opinione pubblica. I partiti c’entrano qualcosa, c’entra la crisi, c’entrano anche le difficoltà delle democrazie in tutto l’Occidente. Ma il sistema dell’informazione, scritta e Tv, qui da noi ha un peso sconvolgente nella grande operazione populista. Un titolo come quello di oggi di Repubblica, che comunque influenza un settore significativo della borghesia perbene e un po’ di sinistra, vale più di cento citofonate di Salvini. C’è un modo per salvarsi? Per reagire? Forse, se si muove qualcosa in politica. Ma occorrerebbero leader coraggiosi, che sappiano guardare al futuro. O, addirittura, statisti. Ne avete visto qualcuno in giro?
Francesco Grignetti per “la Stampa” l'8 maggio 2020. Il «cantiere» per il nuovo decreto sulle scarcerazioni, evocato dal ministro Alfonso Bonafede in Parlamento due giorni fa, non ha ancora terminato i lavori. Mentre il centrodestra accelera i tempi per tentare la spallata, con mozione di sfiducia al Senato, firmata da Lega Fd' I e Forza Italia, e incentrata più su una complessiva «inadeguatezza» della gestione che sul caso Di Matteo, Bonafede ha passato la giornata al telefono con Giuseppe Conte, i capi M5S, interlocutori di maggioranza e anche magistrati. L' obiettivo è arrivare al più presto a un consiglio dei ministri, preferibilmente entro la settimana. Dev' essere un decreto in grado di superare il vaglio di costituzionalità: l' Esecutivo non può certo intimare alla magistratura che cosa fare. Ecco perché il decreto dovrà avere due capitoli distinti: uno per i detenuti mafiosi con condanna definitiva, le cui posizioni sono state vagliate dal Tribunale di Sorveglianza; l' altro per quelli in custodia cautelare, che hanno ottenuto gli arresti domiciliari da tribunali ordinari. Per i primi, s' immagina un obbligatorio riesame ogni mese. E così, quando il Tribunale di Sorveglianza dovesse riguardare il caso di un Pasquale Zagaria, il nuovo corso del Dap potrebbe ora garantire che c' è un posto-letto in carcere anche per la sua patologia. Per i secondi, si pensa di dare la possibilità alle procure distrettuali di fare ricorso davanti al tribunale ordinario, facendo leva sulla fine del lockdown e l' inizio della Fase 2. Se non c' è più un rischio assoluto per la popolazione, a maggior ragione cala il pericolo di contagio per un detenuto, ristretto in un carcere ad alta sorveglianza. Bonafede è in difficoltà. Quando ha scoperto che ci sono altre 456 domande di scarcerazione che pendono, e potrebbero essere anche di più, il suo primo pensiero è andato al decreto del 28 aprile, quello che ha imposto un «parere» preventivo alle distrettuali Antimafia. «Almeno non ci saranno scarcerazioni al buio», ha commentato. Si è scoperto infatti che centinaia di boss sono stati mandati a casa sulla base di un sillogismo astratto: dato che nelle carceri c' è sovraffollamento e non si può garantire il distanziamento, allora il detenuto va scarcerato. A prescindere da quale rischio rappresenti. Il ministro ha letto con rabbia che il precedente capo del Dipartimento, Francesco Basentini, aveva trattato con atteggiamento burocratico il caso Zagaria, e ha ordinato al nuovo vicedirettore Roberto Tartaglia di riesaminare tutti i casi simili. Si andrà a ritroso per fare le bucce alla gestione uscente.
Stefano Folli per “la Repubblica” il 7 maggio 2020. In altri tempi la vicenda dei capi della malavita scarcerati in massa avrebbe provocato le dimissioni del ministro della Giustizia per responsabilità politica oggettiva. E forse avrebbe dato la spinta decisiva alla caduta del governo. Nella Repubblica dei Cinque Stelle il guardasigilli per ora resta al suo posto e si sforza di rimandare in carcere i boss come uno che si affanna a rimettere nel tubetto il dentifricio spremuto. Ma è impossibile non vedere che nelle ultime ore l' esecutivo Conte ha sofferto un altro colpo alla sua credibilità, stavolta sul terreno assai delicato dell' ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Pur volendo accantonare per un attimo le polemiche sulle mascherine mancanti o sui sussidi economici fantasma, resta un senso d' incertezza il cui fondo è tutto politico. L' intesa tra Pd e M5S è fragile e lo diventa ogni giorno di più. È chiaro che in questa fragilità l' astuto Renzi coglie l' occasione per riprendere le sue scorrerie corsare, fino alla tentazione di firmare con la Lega salviniana la mozione di sfiducia individuale contro Bonafede: il che sarebbe un gesto di rottura plateale con il resto della coalizione dagli esiti destabilizzanti. Ma se il capo di Italia Viva ha ritrovato smalto, lo si deve solo in parte alla sua spregiudicatezza. Il resto dipende dalla debolezza politica dell' asse Pd-5S, tanto solido in apparenza quanto contraddittorio nella sostanza. I democratici di Zingaretti sono per ingessare lo status quo senza limiti di tempo, ma ogni giorno temono qualche trappola e vorrebbero Conte sotto controllo. I Cinque Stelle ormai si fidano poco del loro premier troppo ambizioso, ma non hanno carte di ricambio da giocare. Come del resto non le ha nessuno, compreso Renzi. Quest' ultimo tuttavia, non pilotando una nave mercantile bensì un veloce barchino, può permettersi cambi di rotta veloci. Così mette in mora Bonafede in una chiave "legge e ordine" e al tempo stesso lancia la sua fidata Bellanova in una battaglia "di sinistra", qual è l' ipotesi di regolarizzare alcune centinaia di migliaia di immigrati irregolari che si caricano dei lavori più umili, soprattutto al Sud ma non solo. Così si apre una frattura di nuovo con i Cinque Stelle, timorosi di lasciar spazio ai leghisti su questo terreno. È una guerriglia quotidiana che potrebbe essere contenuta in un unico modo, quello suggerito con antica saggezza da Emanuele Macaluso: ricostruendo un vero patto politico tra Pd, grillini e LeU, magari esteso ai renziani sulla base di accordi chiari. Un patto - bisogna aggiungere - che dovrà comprendere gli scenari economici che si delineano, non meno del quadro internazionale: la questione Cina non è una bazzecola di scarso rilievo, ma un tema cruciale del prossimo futuro, chiunque siederà nei prossimi anni alla Casa Bianca. Gli alleati europei lo hanno compreso, in Italia ci sono ancora troppe ambiguità. In assenza di un' iniziativa del genere, per la quale forse siamo già fuori tempo massimo, ci si deve solo affidare al senso istituzionale del presidente della Repubblica e al suo monito sulle elezioni anticipate a breve. I partiti farebbero bene ad ascoltarlo, tuttavia l' esperienza insegna che quando il tessuto politico si lacera non basta il rispetto delle istituzioni per evitare di inciampare. Anche se non ci sono alternative a portata di mano.
Stefano Folli per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. Non deve stupire se alla fine Renzi e il manipolo di Italia Viva non voteranno la sfiducia al ministro Bonafede. È un documento del centrodestra e il senatore di Scandicci non è tipo da andare dietro a Salvini oltre un certo limite. Qualche incontro, molte parole, nessun impegno concreto, un rimbalzo mediatico sui "due Matteo" uniti nel logorare il governo Conte...tutto questo fa parte del gioco di palazzo che riprende quota man mano che il Covid s' indebolisce e si apre la voragine dell' economia. Ma votare insieme all' opposizione, nel momento in cui almeno su questo punto (forse solo su questo) Berlusconi, Giorgia Meloni e il capo leghista si ritrovano compatti, non fa parte del repertorio renziano. D' altra parte, nessuno può credere che il caso Bonafede sia risolto e che l' esecutivo ne esca rinfrancato. Al contrario, la vicenda dei malavitosi mandati ai domiciliari si arricchisce di nuovi particolari, nessuno incoraggiante, e la matassa si aggroviglia. Chi ha gestito fin qui la vicenda, sia sul piano tecnico sia nei suoi risvolti politici, si è assunto una responsabilità agli occhi di un' opinione pubblica disorientata. Responsabilità che nel caso di Bonafede è oggettiva, tipica di chi come ministro deve rispondere politicamente dell' operato del suo dicastero. Il Guardasigilli sta tentando di riparare al danno prodotto. Ma come farlo, attraverso quali strumenti amministrativi, è assai più complicato del previsto, segno di una generale sottovalutazione iniziale. Il decreto, che avrebbe dovuto risolvere il problema con un colpo a effetto, ieri sera era ancora un foglio bianco. E si capisce: sono in ballo delicati aspetti che toccano lo Stato di diritto, anche quando i protagonisti sono fuorilegge, nonché precise prerogative della magistratura. Quindi la questione è al tempo stesso drammatica e piuttosto semplice nella sua dinamica. O Bonafede risolve il caso nelle prossime ore, armandosi di un decreto inattaccabile che riporti in cella almeno i più pericolosi tra i capi mafiosi, ovvero la sua permanenza alla testa del dicastero di via Arenula diventerebbe poco plausibile. Non solo: una difesa a oltranza da parte dei Cinque Stelle di questo loro esponente che non è - va ricordato - un personaggio di secondo piano, produrrebbe un' onda destinata a rovesciarsi su Palazzo Chigi, cioè il livello politico superiore. Conte può ancora dimostrare che il pasticcio è nato e si è gonfiato presso il ministero della Giustizia, a sua insaputa, ma ciò presuppone che Bonafede sia lasciato al suo destino (sempre, va ribadito, che la vicenda non si risolva in brevissimo tempo e senza ulteriori passi falsi). Viceversa, è probabile che a rispondere sarà il premier. In ogni caso, la difesa del ministro in una causa pressoché indifendibile non è senza un prezzo. Se la ferita non si richiude in pochi giorni, i Cinque Stelle potrebbero dover decidere tra la lealtà verso Bonafede e la sopravvivenza del governo di cui fanno parte con loro piena soddisfazione. Bisogna sottolineare: sopravvivenza. Perché in ogni caso la navigazione del Conte 2 è e rimane faticosa. C' è da credere che lui stesso ne sia consapevole dietro l' ottimismo di maniera. Forse, come dice Zingaretti, se si apre la crisi si andrà a votare e molti nodi si scioglieranno. O forse qualcuno, magari anche nel Pd, ha in serbo una soluzione che tirerà fuori al momento opportuno.
Annalisa Cuzzocrea per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. Alfonso Bonafede sa, lo ha capito, che indietro non si torna. Non si possono rimandare i mafiosi in carcere per decreto, checché ne dica la propaganda del Movimento 5 stelle. Non si può neanche decidere, per decreto, cosa devono fare e quando i giudici di sorveglianza, di appello, di corte d' Assise. Il ministro della Giustizia al question time ha tentato ancora una volta di difendersi: «Invito tutti a fare un' operazione di verità: le scarcerazioni sono avvenute in virtù di leggi non di questo governo, ma che erano lì da anni e che nessuno aveva mai modificato ». E ancora: «Nel decreto "Cura Italia" nessuna legge porta alla scarcerazione dei mafiosi, che sono invece esclusi dai benefici». Tutto vero, ma quello che viene imputato al Guardasigilli dall' opposizione e dall' interno della sua stessa maggioranza è di non essere stato in grado di capire quello che stava succedendo. Di gestire il fenomeno. Di prevedere le conseguenze della circolare con cui il Dipartimento di polizia penitenziaria invitava i direttori delle carceri - a causa dell' emergenza Covid - a verificare lo stato di salute e di particolare fragilità di tutti i detenuti. Senza indicare in alcun modo delle soluzioni alternative ai domiciliari per i più pericolosi. C'è un' aria avvelenata e impaurita, nella maggioranza di governo. Il Movimento 5 stelle fa quadrato attorno a Bonafede, parte la batteria di sostegno e il consueto post sul blog con cui viene definito un ministro «scomodo per i poteri forti». Ma all' interno dello stesso esecutivo c' è chi denuncia: «Per tutta l' emergenza ha lavorato quasi sempre da casa, da Firenze, non si dirige così un posto delicato come via Arenula ». Di più: il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra fa sapere di aver chiesto a lungo al Dap l'elenco dettagliato di tutte le persone scarcerate a causa dell' emergenza sanitaria, senza avere risposte in tempi congrui. Di qui, un duello sulla convocazione di Bonafede in Antimafia, che tarda a essere fissata. Il tweet del senatore M5S ieri è sembrato quasi un atto di accusa nei confronti del governo per la gestione dell' intera vicenda: «Cosa nostra, come tutte le mafie - scrive Morra, che di Bonafede non è mai stato amico - non verrà sradicata e dissolta fino a quando ci sarà un solo mafioso che trova in un esponente del potere democratico la disponibilità alla conservazione dell' esistente, al compromesso sugli ideali, al ripudio dei valori costituzionali». Un attacco a salve, senza un destinatario preciso, ma che mina ancora di più la maggioranza nel momento in cui proprio a Palazzo Madama, la prossima settimana, si dovrà votare la mozione di sfiducia contro il Guardasigilli presentata da un centrodestra a sorpresa compatto. E con la minaccia di Italia Viva ancora in sospeso: quel testo è fatto apposta perché Matteo Renzi e i suoi possano votarlo in nome delle battaglie garantiste fatte. Così, dopo il question time, Bonafede si è chiuso al ministero a lavorare. Da lì, si è collegato in videoconferenza con il reggente M5S Vito Crimi e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: ha spiegato quanto sia delicata e difficile la stesura del decreto. Con una consapevolezza: va fatto subito. Prima che la situazione degeneri ulteriormente, prima che escano altri boss. Segnando un danno d' immagine enorme per il governo guidato da Giuseppe Conte. E infatti, subito dopo, il ministro della Giustizia ha sentito il presidente del Consiglio. Che ha capito di dover seguire la vicenda da vicino anche perché gli è giunta eco della preoccupazione del Quirinale per l' impatto delle scarcerazioni sull' opinione pubblica. Il capo dello Stato sorveglia l' intera operazione e dai suoi uffici filtra la richiesta di un testo che valuti bene il problema della retroattività: lo scoglio su cui si sono infrante le intenzioni iniziali di Bonafede, che non può fare un provvedimento in contrasto con l' autonomia della magistratura e ha dovuto ridimensionare il testo che aveva immaginato. Il Pd, in tutto questo, non intende infierire. La pedina Bonafede non può saltare senza che vada tutto in aria. Ma un dirigente dem ricorda come il guaio, prima ancora del Dap, sia stato il non voler affrontare davvero e per tempo il problema del sovraffollamento delle carceri. Lasciando che poi, davanti all' emergenza sanitaria e ai disordini, a prevalere fossero panico e confusione.
Marco Travaglio, altro che "equivoco". Clamoroso al Fatto, Marco Lillo lo smentisce: "Perché Bonafede ha scelto Basentini, nel giro di Conte". Libero Quotidiano l'08 maggio 2020. Altro che "equivoco", Marco Travaglio aveva provato a gettare acqua sul fuoco della polemica tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo per la mancata assegnazione al pm antimafia della poltrona da capo del Dap, ma ci pensa Marco Lillo, spalla del direttore e firma di punta del Fatto quotidiano a cambiare clamorosamente le carte in tavola. E a smentire categoricamente Travaglio. Come sottolinea perfidamente Dagospia, Lillo lascia intendere chiaramente cosa abbia portato il ministro della Giustizia Bonafede, nel 2018, a privilegiare Basentini (oggi dimessosi) a Di Matteo: "Meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo. Per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell' università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere". Insomma prima gli amici di Conte e Bonafede, come Basentini, che quelli di Travaglio come Di Matteo.
DAGONEWS l'8 maggio 2020. Ma non era solo un equivoco? Così aveva scritto in prima pagina Marco Travaglio, commentando il pasticciaccio tra Bonafede e Di Matteo. Ma a leggere Marco Lillo, confinato in un trafiletto di commento, la strategia dei grillini di governo di mettere da parte il pm antimafia viene da lontano. Secondo il vicedirettore del Fatto Quotidiano, a Di Matteo fu offerto in segreto addirittura il ministero dell'Interno prima delle elezioni del 2018 (mentre in pubblico si parlava di Paola Giannetakis per non metterlo in difficoltà). Invece al Viminale ci andò Salvini, e così Bonafede gli offri un posto che non c'era (la direzione Affari penali era occupata da Donatella Donati) e un posto che svanisce quando Di Matteo lo accetta: il Dap.
Scrive Lillo: Già allora, nel 2018, notavamo che Basentini è meno esperto di 41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo: per esempio è amico di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002 al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell' università. Pucci e Basentini si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost, come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede sono questi. Il resto sono chiacchiere. Accipicchia. Quindi ci sarebbe la filiera Conte-Bonafede dietro alla promozione di Basentini e al siluramento di Di Matteo. La cosa viene confermata dall'articolo di oggi sul Giornale che racconta come sia già pronto una nuova poltrona per Basentini:
Laura Cesaretti per ''il Giornale'' l'8 maggio 2020. I casi sono due: o il dottor Basentini, già direttore del Dipartimento per l' amministrazione penitenziaria scelto dal Guardasigilli Bonafede, si è dimesso perché ha svolto male il proprio ruolo, e quindi è utile che non si occupi più di carcere. Oppure lo ha svolto bene, e allora non si doveva dimettere. Quel che non si comprende è perché il magistrato potentino (con al suo attivo la gloriosa inchiesta Tempa rossa, che mise nel mirino il governo Renzi per oscuri complotti petroliferi, fece saltare la ministra Guidi e poi finì ovviamente col collasso delle imputazioni e l'archiviazione per gli indagati) debba essere recuperato e continuare - per il ministero di Bonafede - ad occuparsi di detenuti. La voce circola da giorni, la notizia è stata data da diverse testate online e blog che ruotano attorno al carcere e alla polizia penitenziaria: al pm Francesco Basentini, che aveva tristemente annunciato il 30 aprile scorso: «Mi tocca tornare a Potenza», donde era giunto, sarebbe invece stato assegnato un posto «romano» nella task force creata da Bonafede per affrontare l' emergenza Covid nelle patrie galere. La voce non è stata finora smentita da Via Arenula. Del resto esiste ormai in Italia, soprattutto in area grillina, una tale pletora di task force che sarebbe possibile dare una poltrona a qualsiasi trombato o amico di ministri, tanto della composizione e dell' operato di questi organismi emergenziali non si sa nulla o quasi, neppure negli stessi ministeri presso cui vengono quotidianamente costituiti. In attesa di scoprire se si tratti di una malignità, o se sia invece vero che Bonafede, spinto dal suo cuore d' oro, abbia offerto un ripescaggio governativo al Basentini in disgrazia, vale la pena di ricordare il bilancio con il quale il magistrato lucano ha lasciato l' importante incarico (mettendo però sul tavolo, dicono i rumor, la richiesta di essere spostato in una procura più prestigiosa, Torino o Firenze): rivolte in tutte le carceri, 13 detenuti morti, 40 agenti feriti, danni alle strutture per 60 milioni. Per tacere, ovviamente, della esilarante guerriglia tra manettari sulla sua nomina, a colpi di accuse di connivenza con la mafia, tra gli ex amici del cuore Bonafede e Di Matteo. Intanto ieri il Consiglio superiore della magistratura ha ufficializzato la sostituzione di Basentini con il nuovo direttore del Dap Dino Petralia, scelto dal ministro per rimpiazzarlo. Via libera - con una sola astensione, quella del laico della Lega Stefano Cavanna - dal plenum del Csm al collocamento fuori ruolo del magistrato, fino ad oggi procuratore generale di Reggio Calabria.
Alessandro Sallusti per “il Giornale” l'8 maggio 2020. Il caso Bonafede, ministro della Giustizia finito nel tritacarne delle guerre tra magistrati, è l' emblema dell' epopea grillina, un mix di incapacità, demagogia, moralismo, giustizialismo, sete di potere e di soldi. L' altro giorno Antonio Padellaro, giornalista di lungo corso e presidente de Il Fatto Quotidiano, scriveva a proposito della situazione politica: «Vorrei aver visto la faccia di Sallusti quando Berlusconi, senza avvisarlo, ha detto che il governo Conte non deve cadere». Ecco, detto che Berlusconi può dire ciò che crede, io avrei pagato per vedere la faccia di Padellaro quando Travaglio ha scritto, senza avvisarlo, che se un magistrato suo amico (Di Matteo) accusa un politico suo amicissimo (Bonafede) di presunte collusioni con la mafia, che sarà mai, «si tratta solo di un equivoco». In poche righe, e all'insaputa di Padellaro, Travaglio ha smentito anni di duro lavoro suo e dei suoi giornalisti sguinzagliati a inseguire tutti i teoremi giustizialisti e pistaroli possibili e immaginabili. Ma com' è la storia? Se un killer pentito di mafia, tale Spatuzza (che partecipò al sequestro del bambino sciolto nell' acido), dice di aver sentito dire che Berlusconi è stato amico di un mafioso, significa che Berlusconi è mafioso: se invece un famoso magistrato antimafia dice che un ministro ha trattato con la mafia, è solo un innocuo gioco tra bambini. Il problema non è se Bonafede, detto anche mister boria, è o no colluso con la mafia (non lo è) o se Di Matteo sia o no un grande magistrato erede di Falcone (certamente non lo è). Il problema è quanto stupidi e pericolosi siano questi professionisti dell' antimafia, politici o giornalisti o magistrati che siano, rimasti vittime dei loro stessi giochini e delle loro ossessioni. Vederli in mutande arrampicarsi sui vetri per spiegare balbettando che lo scambio di accuse tra Bonafede e Di Matteo avvenuto in diretta tv da Giletti è stato «un equivoco» è lo spettacolo dell' anno, che ci ripaga di tante sofferenze. Anzi, come canta il grande Jovanotti è «il più grande spettacolo dopo il Big Bang». Di Matteo ha passato (inutilmente) la vita a voler far fuori Berlusconi e in due minuti ha bruciato la carriera del suo amico e sodale Bonafede; Bonafede voleva affidare il Paese ai magistrati manettari ed è riuscito ad azzoppare per sempre il magistrato numero uno dell' antimafia, ieri scaricato anche dal moralista Davigo. Dei veri geni, si sono «arrestati» tra di loro, Bonafede e Di Matteo (le rispettive carriere finiscono qui, al di là del fatto se rimarranno ancora per qualche tempo al loro posto) e insieme hanno smascherato l' ipocrisia del loro megafono Travaglio. Neppure Paolo Villaggio ha avuto tanta fantasia nel descrivere le bislacche disavventure di Fantozzi.
Claudio Tito per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. «Un decreto per rivalutare la scarcerazione dei boss». L' altro ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha tentato di chiudere con questo annuncio la polemica che stava infuriando sul trasferimento agli arresti domiciliari, causa pandemia, di diversi condannati per mafia. Ma come si è arrivati a questa decisione? Cosa è accaduto da marzo fino a ieri? Tutto è stato eseguito nella trasparenza? I rapporti tra il Dap (il Dipartimento dell' Amministrazione penitenziaria) e il Guardasigilli sono stati corretti? Ci sono state delle mancanze o delle approssimazioni? Le violente rivolte registrate nelle carceri hanno svolto un ruolo diretto o indiretto? La sequenza temporale degli eventi è l' unica certezza da cui partire. Si tratta di una catena di episodi che conferma tutti gli interrogativi. Inizia nella prima settimana di marzo. Quando l' emergenza Coronavirus si trasforma in allarme sociale e istituzionale. In quel momento, in diverse case circondariali del Paese scattano delle vere e proprie rivolte. Da Salerno a Napoli, da Roma a Milano. Il primo incidente risale al 7 marzo. La tensione resta altissima per quattro giorni. I morti sono 12. Molti dei quali tossicodipendenti, i detenuti più deboli all' interno della società carceraria e i più "sacrificabili" nelle logiche malavitose. Il sospetto di molti è allora che i tumulti siano orchestrati dai gruppi più facilmente attivabili: quelli della criminalità organizzata. I più agitati, gli affiliati a camorra e mafia. In silenzio, quelli della 'ndrangheta. Nelle prigioni calabresi non si muove un dito, ma nei canoni delinquenziali viene considerato un segnale ulteriore. Negli stessi giorni, il 9 marzo, il governo annuncia il lockdown. L' 11 le rivolte vengono sedate. Sei giorni dopo l' esecutivo approva il primo decreto per affrontare la crisi: il Cura Italia. È il 17 marzo e in quel testo compare la prima norma sui detenuti. Per evitare il sovraffollamento durante il picco dei contagi, si prevede la scarcerazione di chi ha una pena residua non superiore ai 18 mesi e comunque non condannati per delitti gravi. Da quel momento quasi sei mila reclusi vengono liberati. Ma non, appunto, quelli macchiatisi dei reati più pesanti. Non quindi i mafiosi. Passano altri tre giorni e il Dap, guidato allora da Francesco Basentini, emette una circolare sulla base dell' unità medica interna, in cui si segnalano i rischi sanitari per chi è affetto da alcune patologie. L' elenco riguarda i malati oncologici o quelli affetti da Hiv, ma anche chi presenta «malattie dell' apparato cardiocircolatorio» o «malattie croniche dell' apparato respiratorio». Da quel momento si susseguono le decisioni dei magistrati di sorveglianza. Il "confine" dei condannati si allarga. Fino a contemplare, appunto, la scarcerazione di boss di chiara fama. Ogni provvedimento è motivato dalla pandemia e dal pericolo determinato dalla difficoltà di mantenere il distanziamento sociale. Due dati, però, fanno riflettere: al 31 marzo, dopo dieci giorni dalla circolare del Dap, i carcerati contagiati dal Covid ammontano a 19 su una popolazione carceraria di quasi 61 mila persone. Gli agenti penitenziari colpiti dal virus sono 116 su un corpo di 37 mila unità. Resta il fatto che dal 21 marzo le maglie della scarcerazione si dilatano. Al punto che il 22 aprile il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, scrive al direttore del Dap per chiedere spiegazioni e per conoscere «se vi siano state determinazioni di sorta che abbiano inciso su uno o più detenuti sottoposti alle misure di cui all' articolo 41 bis dell' ordinamento penitenziario». Ancora Morra, due giorni dopo, manda una nuova lettera per sollecitare «i dati di cui dispone il Dipartimento ». Basentini risponde. Ma evidentemente per l' Antimafia non è esaustivo. Non tutto è chiarito e se ne lamenta platealmente facendo notare di non aver ricevuto l' elenco dei mafiosi liberati. Il 29 aprile allora spedisce un' altra missiva reclamando «i documenti relativi alle modifiche del regime penale intramurario per i detenuti condannati per i reati di cui all' art. 41-bis dell' ordinamento penitenziario». A quel punto Basentini manda a Morra la lista, poi pubblicata il 6 maggio da Repubblica . E «per conoscenza » la trasmette anche al capo di gabinetto del ministro Bonafede e al suo capo della segreteria. Il Guardasigilli, attraverso il suo staff, era quindi a conoscenza delle disposizioni assunte almeno dal 29 aprile. Il primo maggio - due giorni dopo -Basentini rassegna le dimissioni e viene nominato il due maggio il nuovo responsabile del Dap, Dino Petralia. Il ministro della Giustizia, però, fino al 6 maggio non adotta alcun provvedimento. E annuncia il decreto solo dopo che Repubblica pubblica l' elenco dei mafiosi scarcerati.
Il giudice “senta” tutti tranne l’avvocato: la beffa del Dl carceri. Nelle nuove norme arriva un altro duro colpo al diritto alla difesa. Errico Novi su Il Dubbio il 12 maggio 2020. Non è un granché come decreto. E se ne sono visti di peggiori, tra i provvedimenti poco attenti ai diritti. Ma nelle nuove norme sulle scarcerazioni varate sabato notte dal Consiglio dei ministri, emanate domenica dal presidente Mattarella e in vigore da ieri, c’è una voragine giuridica pazzesca: non è previsto alcun ruolo per la difesa del detenuto. Non fa differenza che si tratti di un condannato in via definitiva, al 41 bis o in “Alta sicurezza”, o anche solo di un imputato a cui la misura cautelare sia stata sostituita con la detenzione domiciliare. Non cambia se si tratta di reati di mafia, droga o terrorismo. Il giudice avrà l’obbligo di acquisire il parere della Procura distrettuale o della Dna, ma mai quello dell’interessato e dei suoi avvocati. Potrà decidere di riportare in carcere o in una “struttura protetta” il condannato o imputato in gravi condizioni di salute, ma potrebbe farlo senza dare ai suoi legali alcuna possibilità di ribattere ai pm. È un limite gigantesco, che sarà difficile veder corretto in fase di conversione. Certo, si tratta di un provvedimento mirato ai soli casi in cui il differimento o la sostituzione della pena con i domiciliari siano avvenuti per «motivi connessi all’emergenza Covid 19», ma lo sfregio al diritto di difesa resta. A denunciarlo è stata già domenica una delibera dell’Unione Camere penali, che ha parlato di decreto «volto a sottomettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati di sorveglianza alle esigenze propagandistiche dell’esecutivo e al controllo delle Procure distrettuali antimafia». La misura tradise, secondo i penalisti italiani, innanzitutto «la cultura poliziesca» che la anima. «Oltre ad imporre un insensato obbligo di rivalutazione legato ad improbabili criteri cronologici», prosegue la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza, il provvedimento «prevede il parere degli uffici dell’accusa, ma ignora del tutto il titolare del diritto alla salute a tutela del quale è stato assunto il provvedimento, ed il suo difensore. Tutti hanno voce, fuorché il detenuto e la sua difesa tecnica. Una vergogna», accusa l’Ucpi, «degna della incultura del diritto e della infedeltà alla Costituzione che avvelena il Paese». Il paradosso è che le nuove norme non hanno disarmato la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra contro Bonafede, il quale oggi interverrà alla Camera. Il ministro non ha potuto far altro che stressare i già esausti Tribunali di sorveglianza e gli stessi uffici di Procura, con un obbligo di rivalutazione mensile e con l’ordine di compiere la prima verifica entro quindici giorni dall’ordinanza. Il magistrato sarà tenuto ad acquisire il parere dell’ufficio inquirente distrettuale o, nel caso dei detenuti al 41 bis, della Procura nazionale antimafia. Dovrà verificare con il Dap se si sono liberati posti nei pochi ospedali attrezzati che si trovino all’interno degli istituti di pena o nelle altrettanto poco capienti “strutture protette”. Dovrà poi sentire il governatore per capire se nella regione in cui si trova il carcere ove riportare il detenuto l’emergenza Covid si sia ridotta. Nel caso delle persone sottoposte a misura cautelare, sarà invece la Procura a dover compiere valutazioni mensili e a presentare al giudice, eventualmente, richiesta di revoca dei domiciliari. Un meccanismo pesante ma inutile. Perché l’emergenza non è finita e non lo sarà per mesi, ma anche perché una parte notevole delle scarcerazioni, e anche quelle, appena quattro, dei detenuti al 41 bis, sono legate a condizioni di salute comunque gravissime, e all’obbligo, imposto dall’articolo 147 del codice penale e dalla Costituzione, di bilanciare le esigenze di sicurezza con il principio di umanità della pena. Le conseguenze materiali del decreto saranno modeste e Bonafede resterà esposto alle accuse della curva forcaiola. A maggior ragione è assurdo non aver previsto di vincolare il giudice ad acquisire anche la valutazione degli avvocati. La sola attenzione al diritto di difesa sta nell’articolo 4 del decreto, che ha tradotto in norma di legge la delibera con cui il Cnf aveva chiesto e ottenuto dal Dap lo svolgimento in videochiamata, anziché dal vivo, dei colloqui tra detenuti e difensore. Resta comunque salvo il diritto a un colloqui al mese con i familiari anche in tempi di covid. Ma l’impressione è che il governo abbia avuto l’ennesimo cedimento ai torquemada del giustizialismo.
TravagliEni e l’angoscia per la lite tra i figliocci Bonafede e Di Matteo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2020. «È un colossale equivoco tra persone in buonafede». Ha scritto proprio così. Chi? Travaglio. Le accuse di Di Matteo a Bonafede, la furia di Bonafede contro Di Matteo, la rottura tra i 5 Stelle e Di Matteo, gli stracci che volano al Csm… tutto questo, semplicemente, un equivoco. Sembra che Bonafede e Di Matteo non si capirono bene sull’ora del loro colloquio e così successe un pasticcio su quella questione del capo del Dap, anche perché nel frattempo i Gom avevano passato delle intercettazioni a Marco Lillo e Di Matteo si era allarmato. Ma insomma niente di grave. Ora magari con una telefonata si sistema tutto. Non sto mica scherzando. Sto facendo un riassunto dell’editoriale di ieri di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Da quando il nostro amico si è impossessato dell’Eni (chi è confidenza con lui, scherzosamente, lo chiama TravagliEni, ma lui si arrabbia) è proprio cambiato da così a così. Una volta sospettava di tutti, immaginava scontri, manovre sotterranee, complotti, segreti, ripicche, i più improbabili misteri nel mondo politico. Oggi tutto gli sembra semplice e placido. E se qualche giornalista (pochi pochi, per la verità) si impiccia e fa notare che si è aperto uno degli scontri istituzionali più clamorosi, almeno dai tempi di Cossiga, tra Csm e governo, e maggioranza, lui va su tutte le furie e immagina complotti massonici. Una volta mi ricordo che Travaglio accusava il Corriere della Sera di “paludismo”. Lo chiamava il “Pompiere della Sera”. Adesso altro che De Bortoli e Fontana: Travaglio più che un pompiere sembra un idrante…Detto questo, l’affare Di Matteo ormai è esploso ed è molto difficile nasconderlo, anche se gran parte della stampa è disposta a collaborare col Fatto e a mettere la sordina allo scandalo. Il problema è che nessuno sa più dove metterla questa sordina. Perché Di Matteo è un icona dei 5 Stelle e del partito dei Pm (che sostanzialmente sono lo stesso partito) ma ora una parte consistente dell’establishment dei 5 Stelle è furiosa con lui. Travaglio in persona è il capofila della corrente che comprende sia Di Matteo che Bonafede, entrambi considerati suoi colonnelli di prima fila. E capite che non è facile rimettere insieme i cocci. La teoria del nostro TravagliEni, quella del colossale equivoco, non è che sembra particolarmente astuta. La destra ne approfitta – in democrazia funziona così… – e picchia sul ministro. Usando disinvoltamente le accuse di Di Matteo. Al Csm forse non c’è più maggioranza, e magari la sinistra di Area si sta rendendo conto che andare appresso a Di Matteo non è cosa saggia. Difficile impedire che questo casino non abbia una ricaduta sulla politica nazionale. Anche se…Anche se coi 5 Stelle non si sa mai. Rispetto alla vecchia Dc, al Pd e allo stesso Berlusconi, questi sono molto, molto più dorotei…
P.S. 1 Spesso i 5 Stelle dicono che la politica è un po’ uno schifo perché alla fine è solo una questione di poltrone. Ma questo scontro tra Di Matteo e Bonafade ho capito male o ha come posta in gioco la poltrona del Dap?
P.S.2 – Certo, gli stipendi dei deputati sono troppo alti. Forchettoni. Conoscete lo stipendio del capo del Dap?
Carlo Tarallo per “la Verità” il 6 maggio 2020. Il travaglio (molto doloroso) dei grillini dura una notte, solo una notte: quella, in realtà assai agitata, trascorsa ad attendere cosa avrebbe scritto Travaglio (Marco) sul Fatto Quotidiano a proposito dello scontro tra il magistrato e membro del Csm Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Quando ieri mattina appare l' editoriale, il M5s tira un sospiro di sollievo: «L' abbiamo sfangata». Travaglio, infatti, non sguaina lo spadone a difesa di Di Matteo, ma minimizza, parla di «colossale equivoco», assolve Bonafede, perché il fatto (quotidiano) non sussiste, e così i membri laici pentastellati del Csm possono sganciare le loro bombe sull' ex idolo antimafia: «Vogliamo sottolineare con forza», scrivono Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti, «la nostra convinzione che i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell' esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l' autorevolezza del Consiglio. Chi ha l' onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale», aggiungono i tre laici targati M5s, «deve sapersi auto-limitare». Di Matteo, si contenga! La nota di Benedetti, Donati e Gigliotti ricorda la famosa telefonata di Silvio Berlusconi a Michele Santoro, del 16 marzo 2001: caso chiuso, quindi, in superficie. In profondità, però, le acque grilline sono assai agitate: «Ormai», confida alla Verità un esponente pentastellato di governo, «il M5s è l' establishment e il populismo giudiziario e giornalistico che ci ha dato i natali come Movimento ora ci si ritorce contro. Era prevedibile, forse inevitabile, ma non ci sarà alcuna ripercussione. Il governo non si tocca, basta spostare una casella per far crollare tutto e darla vinta a Alessandro Di Battista, che non vede l' ora di tornare alle elezioni. Piuttosto, la vicenda Bonafade mette in difficoltà Luigi Di Maio, che è il nume tutelare del ministro della Giustizia». «Non a caso», prosegue il big del M5s, «Danilo Toninelli è stato sacrificato, ma Bonafede con tutte le gaffe e gli errori sta sempre là ed è pure capodelegazione del M5s al governo, piazzato da Di Maio, che ha ricoperto quel ruolo prima di lui». Se è per questo, Bonafede è anche colui il quale ha presentato Giuseppe Conte a Di Maio «Bonafede», aggiunge la nostra fonte, «non si muove. La faccenda è molto semplice: il governo deve restare in piedi a tutti i costi, non c' è discussione o polemica che tenga». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d' Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto che Bonafede vada in Aula per comunicazioni, quindi ci sarebbe un voto sulle parole del ministro. Spaccature in vista? «Macché», ridacchia il big pentastellato, «ormai chi doveva andar via lo ha fatto, i parlamentari sono letteralmente terrorizzati dall' idea che la legislatura non duri cinque anni. Se si torna a votare, in Parlamento torna un terzo di noi. Se va bene». Difficile in ogni caso che Bonafede accetti di presentarsi in Aula per comunicazioni, più probabile la scelta di una semplice informativa, che non preveda un voto. Pd e M5s si schierano compatti a difesa del Guardasigilli, e pure Italia viva, che su Bonafede e la riforma della prescrizione aveva minacciato di far cadere il governo, ingrana la retromarcia: «Da mesi», sottolinea il capogruppo dei renziani al Senato, Davide Faraone, «chiediamo le dimissioni del ministro della Giustizia, ma oggi no. Oggi che il destino ridicolo si è abbattuto su chi si è servito dei processi in piazza per poi rimanervi vittima, no. E lo facciamo perché c' è in gioco la democrazia. Quello che è andato in onda», aggiunge Faraone, «è un botta e risposta tra due correnti del medesimo giustizialismo». Con Forza Italia pronta ad approfittare della primi crisi seria del governo per entrare a far parte di una maggioranza di ricostruzione nazionale, Italia viva si guarda bene dal premere sull' acceleratore, e così anche il caso Di Matteo-Bonafede è destinato a essere archiviato il più presto possibile.
Da liberoquotidiano.it il 5 maggio 2020. Marco Travaglio, nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, racconta la polemica tra il pm antmafia Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dopo le dichiarazione del magistrato nella trasmissione Non è l'Arena su La7 condotta da Massimo Giletti. Il magistrato, in diretta tv, ha raccontato la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018. "Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. Travaglio nella querelle si schiera al fianco del ministro grillino e spiega che la lite tra i due sarebbe nata da "un equivoco tra due persone in buona fede", scrive il giornalista. "Tutto nasce quando voci di stampa parlano di Di Matteo al Dap, nel primo governo Conte. Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l'arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il Dap. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l'impressione del ministro). Il pm invece ritiene l' incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il Dap a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il Dap e di non essere disponibile per l'altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il Dap l'ha già affidato al suo collega", conclude Travaglio chiarendo così come la grande polemica politica del momento con richieste di dimissioni sia per Bonafede che per Di Matteo, sia nata tutto da un equivoco tra i due. Convinto lui...
Mattia feltri per ''la Stampa'' il 5 maggio 2020. La scorsa legislatura, non so più quale ragazzaccio dei cinque stelle s' alzò in Parlamento a consegnare al Pd il titolo di partito della mafia. Nella sollevazione sdegnata dei destinatari, rimane indimenticabile la cera esterrefatta di Rosy Bindi, una vita trascorsa, col volenteroso sostegno dei colleghi, a dichiarare mafioso questo e quello, Andreotti, tutta la vecchia Dc, Berlusconi, i suoi alleati in odore di concorso esterno in governo mafioso. Adesso l' esterrefatto di turno è proprio un ragazzaccio dei cinque stelle, Alfonso Bonafede, promosso a ministro della Giustizia perché nello stringato curriculum vantava la qualifica di onesto, e d' improvviso additato al popolo da Nino Di Matteo, pm feticcio della via immacolata al potere, e per quella via arrivato al Csm. Senza vincolarsi a concetti inafferrabili tipo la nemesi, considerata la sceneggiatura e i protagonisti, succede che il pm feticcio va alla trasmissione di Massimo Giletti e butta lì che forse, chissà, stai a vedere, la sua mancata nomina alla direzione delle carceri dipese dalla disapprovazione dei boss, cui Bonafede fu forse sensibile. Al di là del curioso approccio del dottore Di Matteo alle notizie di reato, indagate due anni dopo in favore di telecamera, e dell' eterna e sottovalutatissima tiritera del più puro che ti epura, a incantare è la velocità con cui i nemici del governo, interni ed esterni, hanno trasformato in verità l' illazione, cioè l' identico meccanismo per cui Bonafede è diventato ministro della Giustizia. Il peggiore nella storia delle democrazie occidentali, ma se vince Di Matteo, ricordarselo, senz' altro migliore del prossimo.
Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 5 maggio 2020. Domenica sera, su La7, è andato in onda a sorpresa il primo derby di Sospettopoli. In campo, da una parte il campione in carica dell' antimafia Nino Di Matteo, dall' altra Alfonso Bonafede, il ministro spazzacorrotti. Arbitro Massimo Giletti, il barbarodurso del populismo prêt-à-porter. Sulle curve opposte, incollati ai teleschermi, gli ultras dei manettari e quelli dei forcaioli, che hanno aspettato fino all' ultimo secondo - prima della pubblicità - per capire chi dei due lottatori avesse la meglio, quello che i cattivi li brucia e li squarta o quello che li grattugia e li divora. La partita l' ha vinta Di Matteo, con il suo dettagliato racconto di quello che avvenne quando nacque il primo governo Conte. Allora il neo-ministro Bonafede prima gli chiese di scegliersi una poltrona - quella del Dap che controlla la polveriera dei penitenziari o quella degli Affari penali che fu di Giovanni Falcone - e poi, quando il pm palermitano andò a dirgli che accettava la prima, ritirò la proposta e gli offrì solo la seconda (che fu rifiutata). E il colpo da maestro di Di Matteo è stato l' accostamento sapiente di due fatti evidenti per dar corpo a quel sospetto che - come disse padre Pintacuda - è l' anticamera della verità. Mentre io riflettevo sull' incarico da scegliere, ha detto infatti il magistrato, al ministro arrivò un rapporto che rivelava che nelle celle dei mafiosi al 41 bis si temeva il suo arrivo al Dap, «se mettono Di Matteo è la fine, quello butta la chiave». E aggiungendo che «questo è molto importante che si sappia», il pm antimafia non ha apertamente accusato il ministro di essersi fatto condizionare dall' ira dei boss. No, ha solo sganciato un dubbio termonucleare, su quella poltrona scottante che il giorno prima gli era stata offerta e il giorno dopo sarebbe sparita mentre stava per sedervisi. Diciamo la verità: era quasi commovente ascoltare Bonafede mentre sosteneva che «dobbiamo distinguere i fatti dalla percezione», mentre sosteneva che bisogna credere «alla verità», e non agli esplosivi sospetti che con accorta misura il suo accusatore aveva messo sul tavolo. E non solo perché Di Matteo è il cavaliere senza macchia e senza paura che i cinquestelle hanno portato in trionfo fino al raduno casaleggese di Ivrea, il pm che un tempo sognavano come ministro della Giustizia, ma perché il povero Bonafede non avrebbe mai immaginato essere raggiunto anche lui, un giorno, dal fumo velenoso di quel sospetto che nel codice di entrambi è più vero della verità.
Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 5 maggio 2020. «Al minimo dubbio, nessun dubbio»: da domenica sera (dopo le rivelazioni del magistrato Nino Di Matteo a Non è l' Arena sulla trattativa con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per la scelta del capo del Dap) nelle chat dei parlamentari grillini rimbalza la citazione di Gianroberto Casaleggio. È il fucile nelle mani di chi nel Movimento spinge per il passo indietro del Guardasigilli. La tensione è alle stelle. Il caso Bonafede diventa l' occasione per regolare i conti tra le anime del Movimento. È una faida tra chi contesta la deriva e chi rimane fedele ai valori dell' origini. Scorrendo le agenzie non c' è traccia, fino alle 18 e 30 di ieri, delle dichiarazioni (in difesa del Guardasigilli) da parte di ministri e parlamentari dei Cinque stelle. Solo dopo la replica (balbettante) del ministro, c' è chi esce allo scoperto. Un vuoto di venti ore che certifica la spaccatura. Il Movimento si interroga (e litiga) sulla strada da imboccare: scaricare Bonafede o aprire il fuoco contro il magistrato simbolo dell' ala giustizialista dei Cinque stelle. I gruppi whatsapp dei grillini sono una polveriera. La discussione si infiamma subito. Quasi in tempo reale, con l' intervento in diretta di Bonafede al programma condotto da Massimo Giletti, si accende lo scontro. Nel privato delle chat c' è chi avanza la richiesta di dimissioni. «Bonafede è indifendibile», «onestà onestà solo slogan»: è questo il tono dei messaggi che si scambiano deputati e senatori del M5s. Il silenzio stampa (anche del capo reggente del Movimento Vito Crimi) è lo specchio dell' imbarazzo. La tentazione di mollare il ministro, chiedendo un passo indietro, c' è. Ma i vertici (da Luigi Di Maio e Riccardo Fraccaro) frenano: «Bonafede è anche il capodelegazione dei Cinque stelle al governo. Se salta il ministro della Giustizia è a rischio la tenuta del governo Conte». Prevale, dunque, la linea del silenzio. Nessuna fuga. Niente attacchi dall' interno. Non manca chi sollecita un intervento di Alessandro Di Battista. Entra nella polemica l' ex senatore grillino Gianluigi Paragone per chiedere le dimissioni del ministro. Lo scontro Bonafede-Di Matteo manda in tilt lo staff comunicazione dei Cinque stelle. Nessuno è in grado di attivare (fino alle 18 e 30) la macchina della propaganda per alzare uno scudo in difesa di Bonafede. Per tutta la giornata i parlamentari incassano l' offensiva delle opposizioni. C' è chi chiede al ministro di assumere una posizione chiara. Di ricostruire con un post (che poi arriva) tutta la vicenda. Non manca chi invece suggerisce di aspettare l' editoriale del direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio per capire la strategia da seguire. È un susseguirsi di accuse, veleni e timori. Alla fine si opta per il salvataggio (della poltrona) di Bonafede. Il viceministro dell' Economia Laura Castelli tira un sospiro di sollievo e si lancia nella difesa: «Sulla linearità d' azione e correttezza, morale e professionale del nostro ministro nessun deve alimentare congetture». Anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D' Incà sceglie la difesa pubblica del ministro. I duri e puri battono in ritirata. Ma lo scontro resta aperto. Dagli ai Social. Ma non è altro che censura della Rete non omologata.
Massimo Giletti contro Martina a L'aria che tira: "Mafia e coronavirus, come posso affidarmi a certi incompetenti?" Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Mettendo a confronto due piani distinti, Massimo Giletti mette all'angolo Maurizio Martina, esponente di spicco del Pd, partito di maggioranza. Siamo a L'aria che tira, il programma di Myrta Merlino su La7, dove il conduttore critica l'esecutivo sia per la gestione dell'emergenza coronavirus sia per le scarcerazioni dei boss che tanto stanno facendo discutere (e che, in controluce con le dichiarazioni di Nino Di Matteo a Non è l'Arena, hanno messo in profonda difficoltà Alfonso Bonafede). "Come posso affidarmi a certe persone incompetenti nella task force creata per il coronavirus che hanno gestito la liberazione di Zagaria?", chiede Giletti a Martina. Dunque, aggiunge: "Se la meritocrazia tanto sventolata porta persone che neanche gestiscono uno dei criminali più importanti nel nostro Paese, io alzo le mani". Da par suo, Martina, più che rispondere respinge la domanda al mittente: "Non capisco che cosa significhi mischiare il bisogno drammatico che c'è di proteggere il personale sanitario con un giudizio rispetto a un componente di una task force". Come detto, le risposte stanno a zero.
Sei anni fa la clamorosa lite tra Di Battista e Speranza, così lontana, così attuale. Redazione su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Il video che abbiamo deciso di riproporvi, documenta una accesa lite, con tanto di urla e insulti, avvenuta nel gennaio del 2014, nella sala stampa della Camera dei deputati, tra l’allora capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, oggi Ministro della Salute e Alessandro Di Battista, in quel momento deputato per il M5s, oggi senza un preciso ruolo politico, ma sempre molto attivo nel movimento. Il senso dello scontro si racchiude in due posizioni molto precise: Di Battista urla con disprezzo contro Speranza, invitandolo a tagliarsi lo stipendio, mentre lo accusa con il suo partito, di affamare gli italiani, di rubare loro il pane e Speranza al quale veniva impedito di rilasciare un’intervista, rimprovera a Di Battista di essere un fascista, di non rispettare democraticamente la diversità di idee e posizioni. Nel gennaio del 2014 Di Battista e Speranza erano avversari politici, l’uno esponente del Pd, e l’altro di un movimento che accusava il Pd di aver distrutto il paese. Cosa resta oggi di questa storia politica, con Pd e M5s alleati nella stessa maggioranza di Governo? Tutto. Resta il populismo di misure del tutto inefficaci per affrontare i bisogni reali del paese e resta una propaganda che pone, per esempio in primo piano, come risposta ad ogni crisi economica, la scelta di auto ridursi lo stipendio da parte dei deputati e dei senatori del M5s, naturalmente con le dovute e numerose eccezioni che hanno causato l’espulsione di chi non ha rendicontato e restituito. Resta la tendenza del Movimento ad annunci facili, ma spesso vuoti di contenuto, dalla sconfitta della povertà al decreto liquidità per far fronte all’emergenza covid-19: 400 miliardi di euro che nessun imprenditore ha visto e nessuno vedrà, se non al prezzo di un debito da contrarre mentre non c’è alcuna certezza o stabilità di lavoro e sviluppo. E resta una sinistra che continua a smarrire l’anima e il coraggio di una politica di riforme e di sostegno alle componenti più fragili del paese. Il video è una visione, una sintesi dell’atteggiamento politico di un Movimento che detestava alla sua nascita la politica, che aspirava al Parlamento al solo scopo di “aprirlo come una scatoletta di tonno”, che malediceva l’Europa e che oggi nella dialettica di Governo, non ha ancora ricomposto molti dei suoi eccessi, senza però averne più il coraggio e che rischia di liquefarsi al prossimo appuntamento elettorale. Ora però mentre PD e M5s, sono insieme al governo, ci piacerebbe non sentir più parlare degli stipendi dei parlamentari, nè delle virtuose riduzioni di un terzo, di un quarto o della metà, adottate dai grillini, vorremmo ricominciare a parlare degli stipendi degli italiani. Stipendi che non ci sono. E’ tornata la povertà, ma non ditelo al Movimento!
Nunzia De Girolamo contro Bonafede a L'aria che tira: "Di Matteo era in diretta, ma quale informazione distorta?" Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Ad aggiungere ulteriori dettagli, pesantissimi, che inguaiano Alfonso Bonafede e il M5s, tutto, sul caso-Nino Di Matteo ci pensa Nunzia De Girolamo. Ospite a L'aria che tira di Myrta Merlino in onda su La7, la De Girolamo torna a domenica sera, alla puntata di Non è l'arena di Massimo Giletti, a cui era presente, e mette in evidenza una semplice circostanza, che già di per sé basterebbe a far chiarezza sulla vicenda e a spazzare via le critiche di chi parla di informazione distorta: "Di Matteo ha ascoltato - premette la De Girolamo -, era in diretta anche quando ha chiamato Bonafede. Non c'è stata alcuna interpretazione delle sue parole", sottolinea. E ancora: "E pensare che il M5s urlava onestà-onestà proprio difendendo Di Matteo. Ma questo è il M5s: Bonafede viene da un percorso completamente diverso da tutta l'altra politica", conclude.
Matteo Renzi, il regolamento di conti tra i giustizialisti Bonafede e Di Matteo: "Lo scandalo più grave sulla giustizia". Libero Quotidiano il 04 maggio 2020. “È un regolamento di conti tra giustizialisti”. Così Matteo Renzi ha commentato a L’aria che tira lo scontro in atto tra Alfonso Bonafede e Nino Di Matteo. Sono sempre più insistenti le richiede di dimissioni nei confronti del ministro della Giustizia, messo in difficoltà dallo scandalo dei boss mafiosi scarcerati e mandati ai domiciliari (domenica sera Massimo Giletti ha letto in diretta l’elenco dei nomi dei criminali rilasciati) e anche dalle parole dal magistrato Di Matteo. Il quale, sempre durante Non è l’Arena, ha rivelato che Bonafede gli aveva chiesto la disponibilità per il ruolo di capo del Dap ma che dopo 48 ore, quando aveva deciso di accettare, il ministro gli aveva detto di averci ripensato. Secondo Di Matteo la polizia penitenziaria aveva informato la Procura Nazionale Antimafia e la direzione del Dap della reazione di importantissimi capimafia che dicevano 'se nominano Di Matteo è la fine'. Secondo Renzi si tratta di una vicenda “molto pesante”, però al di là del regolamento di conti tra giustizialisti sono anche membri delle istituzioni, quindi quello in atto è un “grave scontro istituzionale”. “Vorrei sapere la verità - ha dichiarato l’ex premier - se c’è qualcosa sotto si faccia chiarezza. Siamo in presenza di una clamorosa vicenda giudiziaria, mi aspetto parole chiare in Parlamento e al Csm, è il più grave scandalo sulla giustizia degli ultimi anni”.
Bonafede, Daniela Santanché: "Tg1, sconcertante silenzio dopo lo scoop di Massimo Giletti". Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Le critiche nei confronti di Massimo Giletti, reo di aver dato spazio a Nino Di Matteo, hanno mandato su tutte le furie Daniela Santanchè. Il caso è quello andato in onda domenica a Non è l'Arena, il programma su La7 condotto proprio da Giletti. Qui il pm antimafia ha dichiarato di essere stato scartato dalla presidenza del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, perché la sua nomina avrebbe scatenato l'ira dei boss mafiosi. Un'accusa gravissima nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e che il giornalista ha ammesso di voler approfondire. A non menzionare neppure la vicenda invece viale Mazzini. "È sconcertante - denuncia su Twitter la senatrice di Fratelli d'Italia - come nell’edizione odierna del Tg1 non si sia fatto cenno a quanto successo ieri sera nel programma di Giletti, una tv pubblica dovrebbe dare maggiore spazio a notizie così importanti. Porterò il caso in Vigilanza Rai", ha assicurato.
Di Matteo da Giletti degno delle sceneggiate del pool di Mani Pulite. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Perfino se fossero vere le sconclusionate ma gravissime insinuazioni del dott. Di Matteo nei confronti del Ministro di Giustizia Bonafede, la gravità del desolante scontro mediatico tra campioni del giustizialismo populista in diretta tv sta altrove. E cioè nell’essere noi ormai assuefatti alla idea che una sconcertante performance televisiva come quella messa in scena dal dott. Di Matteo rientri nell’ordine delle cose che possono legittimamente accadere nel nostro Paese, e che infatti regolarmente accadono. Dalla sceneggiata televisiva del pool di Mani Pulite in tv, maniche di camicia, barbe incolte e volti affranti, per silurare un decreto legge adottato da un Governo legittimo e democraticamente eletto, fino al Procuratore di Catanzaro Gratteri che ad ogni pie’ sospinto ribadisce che fu il Presidente della Repubblica Napolitano a non volerlo ministro della Giustizia, lasciandoci ad annegare nel dolore e a macerarci nel dubbio di innominabili connivenze ‘ndranghetistiche al vertice supremo dello Stato, lo spartito è sempre quello. Ditemi voi in quale altro Paese democratico del mondo sarebbe mai consentito a un magistrato di sparare simili bordate contro un ministro in carica. Egli può aprire una indagine su quel Ministro, o sollecitarla ai suoi colleghi competenti per territorio, se vi sono fatti e circostanze che lo legittimino: ecco tutto quello che un magistrato può fare, e scusate se è poco. Fuori da questi invalicabili limiti, ogni altra iniziativa o esternazione è, semplicemente, fuori dal recinto della legittimità costituzionale. Noi invece apriamo un dibattito sul merito della vicenda: chi ha ragione, chi ha torto. Addirittura Massimo Giletti, autore non saprei quanto involontario dello scoop, insiste perché ci si indigni del fatto che “un uomo come Di Matteo” sia stato, come dire, prima sedotto e poi abbandonato dal suo ministro più adorato e stimato. Le amarezze o le malinconie del dott. Nino Di Matteo dovrebbero insomma essere poste al centro di una sorta di lutto nazionale, magari da risolversi con le dimissioni dell’oltraggioso ministro. A volte mi capita di chiedermi – e questa è una di quelle – se sogno o son desto. Lasciatemelo dire dal profondo del cuore, senza voler mancare di rispetto a nessuno: ma chissenefrega! Se la vedano tra di loro. Di Matteo mandi un whatsapp a Bonafede, seppure un po’ tardivo, e gli dia del maleducato: di cos’altro dovremmo discutere? E dunque, mentre – non credendo più da tempo a Babbo Natale – occorre interrogarsi su cosa possa avere in realtà ispirato questa improvvida sceneggiata, e se magari essa abbia a che fare con alcune recenti delusioni legislative (vedi il giocattolino del processo da remoto, tolto via dal Parlamento sovrano ai suoi frenetici sostenitori, tra i quali Di Matteo, a un passo dalla agognata riduzione a icona del diritto di difesa nel processo penale), sarebbe sciocco e ingeneroso nascondere alcuni motivi di enorme, impagabile soddisfazione. Il mondo politico, culturale ed editoriale nato, cresciuto e pasciuto parassitando l’antimafia (ah, indimenticabile Sciascia!) per farne un micidiale strumento di formazione del consenso e di conquista crescente di cruciali leve del potere, è in cortocircuito. Lo schema fino a ora meravigliosamente vincente del mondo in bianco e nero, buoni e cattivi, o con Di Matteo e Gratteri o con mafiosi e ‘ndranghetisti, che ha portato il più improbabile dei movimenti politici a governare il Paese ed un gruppo di giornalisti scrittori ed editori ad accumulare fortune e potere, implode come un sufflè venuto male. Eccovi ripagati della stessa moneta, e da chi? Dall’idolo immalinconito e deluso. Spettacolo strepitoso vale – anche solo per poche ore – qualunque prezzo del biglietto. Quel Giarrusso, per dire, collegato in trasmissione mentre Di Matteo bombardava placidamente il suo ministro antimafia anticorruzione eccetera, che roteava gli occhi e balbettava frasi insensate non sapendo che pesci prendere e non avendo, d’improvviso, più nessuno a cui dare comodamente del mafioso; e Travaglio, con il suo editoriale interminabile con il quale ci spiega che è tutto un equivoco, si sono capiti male, l’audio non era dei migliori e Giletti è amico di Salvini; beh non so voi, ma io, almeno per qualche ora, ho avuto netta e commovente la sensazione di assistere, per la prima volta nella mia vita, alla prova scientifica della esistenza di Dio.
Giletti mette in scena una rissa tra boia con fake news sui boss. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Oramai tutto quello che accade al Dap non sfugge a Giletti, che sta sviluppando su di esso un’autentica campagna in più puntate. Domenica la campagna ha avuto un’ulteriore escalation. La settimana prima nel mirino era finito Basentini e solo pochi giorni dopo ci ha lasciato lo scalpo. Il risultato paradossale della seconda puntata è che, con un paio di eccezioni, si è trattato di uno scontro senza esclusione di colpi fra giustizialisti in servizio permanente effettivo. Per non farsi mancar nulla infatti Giletti ha messo in campo anche il sindaco di Napoli de Magistris, che ovviamente si è trovato benissimo in questa parte e che sembrava addirittura un Pm ancora in funzione e anche un membro del Csm. È stato presentato un elenco di circa 40 carcerati ad altissimo livello di pericolosità mafiosa spostati agli arresti domiciliari per ragioni di salute; poi è risultato che al 41bis di essi ce n’erano solo 3 e quindi l’impalcatura politica costruita secondo la quale si era davanti ad una “resa dello Stato” dopo i recenti moti nelle carceri è risultata del tutto ridimensionata. Infatti, a nostro avviso, lo Stato non si arrende a nessuno se 3 criminali finiscono agli arresti domiciliari. Siccome però Giletti deve avere uno scalpo, questa parte della trasmissione si è conclusa con l’invito, urlato come un ordine, che dopo Basentini venga “eliminata” anche la dirigente del Dap che si era occupata del caso Zagaria, ma il punto culminante della trasmissione è consistito in uno scontro durissimo fra ultra giustizialisti (Giletti, il ministro Bonafede, il Pm Di Matteo, il Pm Catello Maresca, l’on. Dino Giarrusso, molto a disagio nei panni per lui inconsueti di avvocato difensore del ministro, il comandante Ultimo), che ha avuto per oggetto la seguente questione: il delitto di lesa maestà nei confronti del Pm Di Matteo presentato come una sorta di icona protagonista di una vicenda politico-giuridica, quella della pretesa trattativa Stato-mafia su cui invece è in corso una durissima discussione perché contestata alla radice da molti giuristi, storici, magistrati e avvocati. Il ministro Bonafede è finito sotto accusa quasi che fosse un pericoloso garantista con tendenze criminogene e amicizie pericolose per una colpa imperdonabile. Stando a Di Matteo che, nella sorpresa generale, a un certo punto ha fatto una telefonata a Giletti, il malcapitato Bonafede nella sua qualità di ministro della Giustizia aveva offerto al Pm Di Matteo di scegliere fra due incarichi, quello di capo del Dap e quello di direttore generale degli Affari Penali del ministero della Giustizia, per capirci il posto di cui fu titolare Giovanni Falcone. Di conseguenza Bonafede si era mosso sul terreno del più organico legame a una tendenza ben precisa della magistratura, quella che fa riferimento a Davigo. Quando si sparse la voce sulla possibilità che Di Matteo andasse al Dap alcuni mafiosi di alto lignaggio si fecero intercettare esprimendo la loro totale contrarietà a quella nomina. Nel frattempo, Di Matteo si prese 48 ore per riflettere, al termine delle quali comunicò a Bonafede che preferiva l’incarico al Dap. Nel successivo incontro (è sempre Di Matteo che ha raccontato i termini di questo colloquio a due assai riservato) mentre Di Matteo comunicò di aver scelto la carica di capo del Dap a quel punto il ministro Bonafede (trattato nel corso della trasmissione un po’ da tutti, da Giletti a de Magistris allo stesso Pm Catello Maresca come se fosse un ragazzo di bottega) gli rispondeva che avrebbe preferito averlo con sé al ministero nella carica altissima di direttore degli Affari Penali che era stata addirittura di Falcone e che ha poteri e un ruolo molto rilevanti. A quel punto, siccome Giletti ha stabilito che la carica del Dap è mille volte superiore per importanza a quella di direttore degli Affari Penali egli ha investito Bonafede del delitto di lesa maestà spalleggiato da de Magistris, dal comandante Ultimo, dal Pm Maresca, mentre a quel punto l’avvocato difensore batteva in ritirata: come si era permesso Bonafede di non accettare in ginocchio la scelta fatta dall’icona e invece gli aveva controproposto la carica di direttore degli Affari Penali a quel punto considerata dagli interlocutori un incarico del tutto subalterno e trascurabile? Allora Bonafede è stato trattato non come un ministro dotato della sua autonomia di giudizio e di decisione, ma come una sorta di passacarte, di esecutore in automatico della scelta fatta dall’icona che nella gerarchia dei giustizialisti ha una collocazione molto superiore anche a quella del ministro. È così avvenuto che il ministro della Giustizia più ottusamente giustizialista della storia della Repubblica è stato letteralmente sballottato fra diversi accusatori uno più scatenato dell’altro. Vedendo l’andamento di quel pezzo di trasmissione è risultata del tutto confermata una famosa battuta di Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura».
Liana Milella per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. Nino Di Matteo è al Csm. Chiuso nella sua stanza. Per un' intera giornata, lunedì dopo la sua telefonata a "Non è l' arena", è stato irraggiungibile. Poi ieri eccolo di nuovo disponibile. Con la voce vagamente angosciata di sempre. Non vuole dire nulla. Lo premette. Insisto.
Perché questo silenzio?
«Ho tenuto il telefono spento, ho lavorato. Quello che avevo da dire sono riuscito a dirlo nella telefonata, non voglio commentare i fatti».
Ma i fatti sono quelli?
«Sì, i fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato».
Ripercorriamoli, allora, quei fatti.
«Era lunedì, il 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla procura nazionale antimafia. Squillò il telefono una prima volta, con un chiamante sconosciuto. Non risposi. Suonò di nuovo. Era Bonafede. Con lui non avevo mai scambiato una parola. C' era stato solo un incontro alla Camera nel corso di un convegno sulla giustizia e poi un altro alla convention di M5S a Ivrea. La telefonata durò 10 o 15 minuti».
Cosa le disse Bonafede?
«Mi pose l' alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere subito perché mercoledì ci sarebbe stato l' ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo. Richiesta che era urgente per il Dap, ma non lo era per la direzione degli Affari penali».
Che in quel momento però era occupato dalla collega Donati e che non conta più come ai tempi di Falcone perché nella scala gerarchica c' è un capo dipartimento?
«Esatto. Gli dissi che sarei stato a Roma il giorno dopo e mi sarei recato da lui al ministero».
Come finì la conversazione?
«Bonafede chiuse il telefono dicendo "scelga lei'"».
Insomma, lei poteva fare il capo di una polizia con un indiscutibile potere del tutto autonomo oppure stare sotto un capo?
«Proprio così».
Che accadde a Roma quel martedì?
«Entravo per la prima volta al ministero della Giustizia dai tempi del concorso. I colleghi che mi accolsero mi dissero "lei viene qui su invito del ministro, altri vengono di loro iniziativa...". Mi sedetti davanti a Bonafede e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato».
Chiese al ministro perché aveva cambiato idea?
«No, non lo feci, ma rimasi sorpreso. Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all' improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione».
Il giorno dopo lei tornò in via Arenula.
«Sì, lo chiamai e tornai da lui per cinque minuti, il tempo di dirgli che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili. Come il nostro ultimo scambio di battute. Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali "non c' è dissenso o mancato gradimento che tenga". Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare».
Con il Guardasigilli fu affrontata la questione delle esternazioni dei boss contro di lei?
«Bisogna fare un passo indietro. Dopo le elezioni alcuni giornali scrissero che c' era un' ipotesi Di Matteo al Dap. Dell' esistenza del rapporto lo appresi il giorno prima o lo stesso giorno della visita. Mi chiamarono da Roma dei colleghi per dirmi che c' era una cosa molto brutta che mi riguardava. In più penitenziari, per esempio all' Aquila, boss di rango avevano gridato "dobbiamo metterci a rapporto col magistrato di sorveglianza per protestare contro questa eventualità". Subito dopo 52 o 57 detenuti al 41 bis, ciascuno per i fatti suoi, avevano chiesto di conferire. A quel punto era stata fatta un' informativa diretta a più uffici di procura e al Dap».
Sì, questi sono i fatti, ma lei parlò del rapporto con Bonafede?
«Il ministro si mostrò informato della questione».
Perché rimase deluso da quella che considerò una marcia indietro del ministro?
«Pensai allora, e ho sempre pensato, di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l' esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente".
Visto che ne ha parlato già in tv mi spiega di nuovo cosa la turbò nel comportamento di Bonafede?
«Prima una proposta, poi un' altra. Da allora mi sono sempre chiesto cos' era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta un' indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo».
Scusi, Di Matteo, ma sono passati due anni da allora, perché non ne ha parlato subito?
«Per alto senso istituzionale non potevo dire perché non avete nominato me anche se c' era chi, accanto a me, faceva le ipotesi più fantasiose, ma io non ho mai voluto dire niente. Se avessi parlato sarebbe apparso fuori luogo, come un' indebita interferenza».
E perché allora lo ha fatto adesso?
«Dopo le dimissioni di Basentini, proprio come due anni fa, alcuni giornali hanno di nuovo scritto che mi avrebbero fatto capo del Dap. Quando Roberto Tartaglia è diventato vice direttore eccoli scrivere "arriva il piccolo Di Matteo". Poi domenica sera, quando ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa - e sia chiaro che lo rifarei negli stessi termini - ho sentito l' irrefrenabile bisogno di raccontare i fatti, al di là delle strumentalizzazioni».
Lei ora passa per anti Bonafede, ma in questi due anni più volte ha parlato bene delle sue leggi.
«È un fatto che quanto è accaduto non mi ha condizionato, tant' è che sono intervenuto sulle iniziative del ministro. Ho detto sempre quello che pensavo, com' è accaduto sulla prescrizione. Io non sono uno che fa calcoli. Che rimugino su quanto dico e a chi lo dico. Ma dopo quei colloqui ci sono rimasto male e ho detto quello che pensavo quando ho sentito dire delle inesattezze. Non intendo giudicare il lavoro di Basentini, né contestare la scelta di Petralia, ma se si parla del perché non è stato scelto Di Matteo per fare il capo del Dap io ho il diritto di dire come sono andati i fatti. Se mi chiameranno in una sede istituzionale andrò a spiegare quei fatti per come li ho vissuti. Ma almeno adesso mi sono tolto un peso».
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Solo il poeta potrebbe cantare «l' ira funesta» del dottor Nino Di Matteo, il pm più scortato d' Italia, protagonista del processo sulla trattativa Stato-mafia, spirito inquieto che entrò in conflitto con molti colleghi di Palermo, con il capo della Superprocura antimafia, e ora al Csm è destinato a entrare in guerra pure qui. Dopo il suo sfogo televisivo di domenica notte, il dottor Di Matteo è diventato protagonista di una nuova guerra. Fratricida, si potrebbe dire, perché ora è in conflitto con chi, il Movimento Cinque Stelle, lo ha idolatrato fino al giorno prima. Ma siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, è chiaro che sapeva quel che faceva. «I fatti sono quelli. E non sono pentito di averli raccontati. Ricordo tutto nei particolari. Per me è stato un episodio indimenticabile e non c' è nessun equivoco». Così si è sfogato con diversi interlocutori, ieri, in una giornata trascorsa tutta al telefono. Siccome a parlare di «equivoco» sono stati i grillini, è evidente con chi ce l' ha. Con chi vuole farlo passare per un pasticcione e un visionario. Nossignore. «Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore, tra un lunedì sera e un martedì mattina. E quel che non posso accettare, è che si metta in discussione la mia lealtà». Con Bonafede, però, è amareggiato. «Da cittadino sarei preoccupato per un ministro che in un momento così delicato e con un magistrato così esposto si lasciasse convincere e tornasse indietro. Se chiamarmi e poi cambiare idea è stata una sua valutazione autonoma, non lo so». Lui si dichiara «un soldato della Repubblica». Quando i capi politici del M5S lo contattarono e gli offrirono il ruolo di ministro dell' Interno, e per ben due volte in pochi giorni, e poi cambiarono idea e scomparvero, «mica ho chiesto il perché. Non è mio costume chiedere niente ai politici». Così come quando lo contattò il ministro. «Una chiamata sul mio cellulare, anonima. Sono Alfonso Bonafede. Non ero mica stato io a chiamarlo». Come è finita, ormai è storia. Bonafede gli offrì due incarichi: direzione delle carceri e direzione degli affari penali al ministero. Il primo, incarico molto operativo e di prima grandezza. Il secondo, più oscuro e subordinato a un altro magistrato. «Era un lunedì sera. Mi disse solo che avrebbe preferito avermi al Dap e di decidere presto perché dopo due giorni ci sarebbe stato un plenum del Csm, ancora nella vecchia formazione (era la consiliatura 2014-18 con la vicepresidenza Legnini, ndr), e se avessi scelto il Dap, avrebbero potuto deliberare in giornata di mettermi fuori ruolo». Ebbene, il mattino dopo Nino Di Matteo varcava il portone del ministero («Dove non ero mai più entrato dai tempi del concorso del 1991», ha ricordato a un amico). Ma l' aria era già cambiata. Il ministro aveva scelto un altro per il ruolo del capo delle carceri. «Perché sia avvenuto non lo so e non l' ho chiesto: se ci siano state pressioni politiche, se da parte di qualcuno dei miei colleghi o se da ambienti istituzionali». Nel frattempo c' era stata la sollevazione dei mafiosi al solo ventilare il suo nome. «Cinquantasette boss al 41 bis del carcere dell' Aquila chiesero rapporto al magistrato di sorveglianza, per annunciare che se fosse passato Di Matteo al Dap, sarebbe esplosa la protesta. Mi chiamò un collega della Superprocura per chiedermi se dovevano rafforzare ancora la scorta. Oddio, no. A me già mi toglie il respiro come è ora». Insomma, il dottor Di Matteo s' è tolto un rospo dalla gola. E tutti lì a chiedere: perché ora? «Perché ci sono state centinaia di scarcerazioni di persone vicine a Cosa Nostra con la storia del contagio. Preoccupa solo me? Giletti mi ha chiesto di spiegare come funzionano le cose e io ho spiegato. Oltretutto, se sentivo di avere un debito di riservatezza con Basentini ora non ce l' ho più. E siccome il ministro ha scelto altre persone, non si può dire neanche che mi sto candidando». E però la bestia nera dei mafiosi è nella scomoda posizione di trovarsi in solitudine. «Una dinamica che ho visto molte volte con i collaboratori di giustizia. Finché parlano dettagliatamente di fatti criminali, tutto bene. Viceversa, tutto cambia quando alzano il tiro e chiamano in causa il potere. È successa la stessa cosa con me. Immediatamente si è pensato che io volessi avere chissà quale interesse politico». Il magistrato ha fiutato l' aria domenica sera subito dopo la diretta di "Non è l' Arena". «E' andata bene, Nino, erano tutti dalla tua parte», gli ha spiegato la moglie. Ma lui, già in quel momento, non ha avuto dubbi: «Vedrai che tra due giorni la frittata si rivolta». E così è stato. I grillini lo caricano a testa bassa. I tre colleghi laici del Csm espressi dal M5S sostengono che ha leso l' istituzione. Lui ha sotto gli occhi la loro dichiarazione e trattiene a stento la rabbia. «L'onorabilità di questa istituzione è lesa dalle mille opacità». Comunque, siccome il dottor Di Matteo non è un ingenuo, ora si aspetta il peggio. Non solidarietà dai suoi colleghi. Già l' intervista a questo giornale di Armando Spataro, suona da campane a morte. «Proprio lui che quando io portavo avanti l' indagine sulla trattativa Stato-mafia sosteneva che quel processo non andava fatto». Ha confidato ai suoi amici che non si meraviglierebbe persino che sia avviata una iniziativa disciplinare. «Ma li aspetto a pié fermo. Mi difenderò con il coltello tra i denti». E c' è da credergli.
Non si placa l’ira di Di Matteo: “Bonafede cambiò idea a causa dello stop di qualcuno”. Il Dubbio il 6 maggio 2020. Il presidente dei penalisti, Caiazza: “C’è chi ha parassitato l’antimafia per farne una leva politica…” Non accenna a concludersi la lite furibonda tra il magistrato del processo Trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, e il Guardasigilli Alfonso Bonafede. E lo sconcerto dentro il gruppo grillino – che ha avuto bisogno di 24 ore prima di difendere il suo ministro – continua a crescere. In una intervista a Repubblica, Di Matteo non ritratta e anzi rincara la dose, nonostante Bonafede abbia negato la sua versione dei fatti sulla nomina a capo del Dap. «Prima una proposta, poi un’altra» dal ministro Bonafede. «Da allora mi sono sempre chiesto cosa era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta una indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo», ha detto il consigliere del Csm, confermando la sua versione: «Era lunedì 18 giugno. Ero a Palermo, a casa, il giorno dopo sarei tornato a Roma, nel mio ufficio alla Procura nazionale antimafia. Squillò il telefono, era Bonafede. Mi pose l’alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Chiuse il telefono dicendo ’scelga leì». All’indomani, Di Matteo si reca al Ministero per incontrare Bonafede. «Gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui, però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini». Quanto al repentino cambio di idea, Di Matteo afferma: «Non chiesi al ministro Bonafede perché aveva cambiato idea» sulla mia nomina al Dap «ma rimasi sorpreso».
“Non c’è nessun dissenso agli Affari penali”. Ma rilancia la sua ipotesi:«Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all’improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati (che in quel momento era a capo degli Affari penali ndr) perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione». A quel punto, «Tornai da lui e gli dissi che a queste condizioni non ero più disponibile. Cose come queste sono indimenticabili». E, a conclusione del racconto, Di Matteo aggiunge: «Come il nostro ultimo scambio di battute, io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali “non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga”. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare».
“Io trattato in modo non consono”. «Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l’esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente».
La reazione delle Camere Penali. Il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, ha commentato dalle pagine del Foglio la vicenda Bonafede-Di Matteo, stigmatizzando il comportamento del magistrato. «Non siamo certo sospettabili di indulgenze nei confronti del ministro Bonafede, il tema dunque è un altro: a che titolo il dottor Di Matteo bombarda il ministro in carica insinuando con chiarezza che la revoca della proposta della sua nomina a capo del Dap sarebbe avvenuta per timore o compiacenza dopo le banali recriminazioni di alcuni detenuti al 41 bis?» È la domanda che si pone Caiazza. «E’ una cosa fuori dal mondo e risponde all’idea, ipertrofica, dell’invadenza della magistratura mediatica sulle dinamiche democratiche. Anche su quelle che non ci piacciono».
Caiazza: Bonafede non deve render conto a Di Matteo. Poi continua: «Oltretutto, non abbiamo capito di cosa stiamo parlando: e se anche Bonafede avesse cambiato idea nottetempo? Oppure se, in virtù delle dinamiche della politica (proposte terze, suggerimenti del presidente della Repubblica o dell’Anm) avesse preferito altri equilibri? Non deve renderne conto a Di Matteo. Non si capisce insomma la ragione di questo attacco a distanza di due anni. Forse Di Matteo sperava di andare a dirigere il Dap adesso». Di certo, aggiunge il presidente Ucpi, «un pm, a maggior ragione se componente del Csm, non può permettersi per nessuna ragione al mondo di chiamare un ministro a discutere delle sue valutazioni politiche. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti». Siamo «all’implosione di un mondo che ha costruito la propria fortuna politica e non solo, anche editoriale e giornalistica, sul parassitismo dell’antimafia». «Alcuni soggetti hanno parassitato l’antimafia per farne una leva politica e di distruzione dell’avversario politico – spiega Caiazza -, è un aspetto che dovrebbe far riflettere seriamente».
Luca Fazzo per ilgiornale.it il 5 maggio 2020. Un mestieraccio ingrato, più da carceriere che da magistrato, alle prese con strutture fatiscenti e soldi che non bastano mai. A descriverlo così, si faticherebbe a capire come mai il ruolo di capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sia tanto accorsato da diventare in queste ore l'oggetto di uno scontro senza precedenti tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e una delle toghe più famose d'Italia, il palermitano Nino Di Matteo. Certo, sull'altro piatto della bilancia c'è uno stipendio invidiabile: essendo anche il comandante della polizia penitenziaria, il capo del Dap porta a casa una delle buste paghe più pesanti dell'intero apparato statale: 320mila euro all'anno, con ricaduta su Tfr e pensione. Sarebbe però prosaico ridurre a faccenda di quattrini l'aspirazione di Di Matteo a approdare sulla poltrona lasciata libera da Santi Consolo. Il Dap è un posto di potere, ha soprattutto le orecchie lunghe. Nulla, di quanto accade nelle 231 carceri italiane, sfugge al capo del Dipartimento, che riceve per primo le informazioni dei direttori e dei Gom, i temuti nuclei speciali della polizia penitenziaria. E sapere, si sa, significa potere. Se così si capisce perché Di Matteo aspirasse alla carica, più difficile è capire cosa sia andato storto quando il focoso pm siciliano era a un passo dal successo. Di Matteo era il candidato ideale sia come curriculum, occupandosi di mafia da vent'anni, sia come relazioni politiche: vicino a Marco Travaglio e al Fatto Quotidiano, è da sempre - insieme a Piercamillo Davigo, oggi suo compagno di corrente al Csm - una delle toghe più amate dal Movimento 5 Stelle. Quando Bonafede diventa ministro nel governo Conte 1, a giugno 2018, Di Matteo appare il candidato ideale per diventare il suo uomo sul fronte delle carceri. Eppure qualcosa, all'improvviso, si rompe. E la spiegazione più verosimile, tra le tante circolate all'epoca, è che in realtà, alla fine, a decidere non sia stato il ministro Bonafede ma direttamente il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Che di mestiere fa l'avvocato, su livelli più alti di Bonafede. E che nel mondo della giustizia ha rapporti, amici e consiglieri. Nelle ore cruciali in cui prende il via il suo primo governo, Conte ha al suo fianco, ad aiutarlo con pareri e indicazioni, un magistrato: Fabrizio Di Marzio, consigliere di Cassazione e docente universitario, ben introdotto nel mondo della politica romana anche perché siede nella commissione che fa le pulci ai conti dei partiti. Di Marzio, tra l'altro, dirige la rivista dell'Osservatorio sulle Agromafie, di cui Conte è uno dei referee. È in quel contesto che i rapporti tra i due si consolidano. E quando Conte decolla verso i vertici dello Stato, è Di Marzio a sussurrare al suo orecchio. Passa da quel canale anche il niet all'approdo di Di Matteo al ministero? Di Marzio, questo è sicuro, ha un amico che i pregi e i difetti del pm palermitano può averglieli descritti bene: Gian Carlo Caselli, che è stato il suo capo alla Procura di Palermo. E che ne conosce a fondo tanto l'acume investigativo che - come dire - gli spigoli caratteriali.
Dagospia il 6 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Direttore, con riferimento all’articolo di Luca Fazzo “Quella toga amica di Conte dietro al niet a Di Matteo al Dap”, da Voi pubblicato il 5.5.20, preciso che con l’amico Fabrizio Di Marzio non ho mai avuto occasione alcuna di parlare di Nino Di Matteo nelle circostanze e per i motivi di cui all’articolo. Ringrazio per la cortese attenzione e auguro buon lavoro. Gian Carlo Caselli
Dagospia il 6 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago,la lettera di Giancarlo Caselli al mio giornale sulla spettacolare querelle Bonafede-Di Matteo è interessante anche per la cautela con cui è scritta. Caselli ammette due cose, una esplicitamente: di essere amico di Fabrizio Di Marzio, ex giudice di Cassazione, l'uomo che nei mesi della formazione del primo governo era il consigliere dietro le quinte di Giuseppe Conte e che continua a svolgere questa funzione non si capisce in quale veste. Oltretutto dal curriculum di Di Marzio si scopre che non lavora più in Cassazione. Poichè è troppo giovane per essere andato in pensione, perché ha lasciato la magistratura? In che veste sussurra all'orecchio di Conte? E perché Caselli è suo amico (anche se curiosamente, nella prima versione della lettera che ci ha mandato, lo chiama Maurizio anzichè Fabrizio)? La seconda ammissione che Caselli fa è implicita: e cioè di avere parlato con Di Marzio del povero Nino Di Matteo. Infatti nella sua lettera Caselli nega di avere affrontato con l'amico il tema Di Matteo "nelle circostanze e per i motivi di cui all'articolo", ovvero la nomina di Di Matteo al Dap. Io ho scritto una cosa diversa: che Caselli all'amico Di Marzio aveva verosimilmente confidato, anche in altra epoca, le sue opinioni su Di Matteo, pregi e difetti. Questo Caselli non lo nega. E rimane così la curiosità di capire quali fossero queste opinioni. Grazie per l'attenzione. Luca Fazzo
Alfonso Bonafede, il "no" a Di Matteo non è "farina del suo sacco". Chi ha dato l'ordine da "molto in alto". Libero Quotidiano il 6 maggio 2020. Quel “no alla nomina di Di Matteo al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dal) non è opera sua. Alfonso Bonafede “di menate ne ha fatte tante, ma il no non è farina del suo sacco. È venuto da molto, molto in alto”. Dal Quirinale forse? E’ quanto rivela un esponente grillino del governo ad Augusto Minzolini che riporta il retroscena su Il Giornale. E così il capo della delegazione Cinque Stelle al governo rischia di pagare a caro prezzo quel sogno interrotto. “Il caso”, aggiunge un big della maggioranza, “potrebbe essere il sassolino nell'ingranaggio che provoca l'incidente irreparabile per Conte e il suo governo”. Certo l’idea di Bonafede aveva un suo perché dal punto di vista del Movimento. Peccato che il magistrato, ricorda Minzolini, “era stato anche il grande accusatore nel processo sulla trattativa Stato-mafia, quella dei primi anni '90, che si imperniò proprio sul fatto che nell'estate del '93 il responsabile del Dap dell’epoca decise di togliere centinaia di mafiosi dal regime di carcere duro”. Una vicenda che ha tormentato i piani più alti delle istituzioni. “Furono distrutte un unicum nella storia di un Paese come il nostro le intercettazioni di quattro conversazioni telefoniche tra l'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano e l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino”, aggiunge Minzo. Insomma, mai Colle poteva essere vista di “buon occhio l'idea di nominare Di Matteo al Dap”.
I membri 5Stelle del Csm avvisano Di Matteo: “Ora continenza…” Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio il 5 maggio 2020. Lo scontro tra il pm della presunta Trattativa Stato-mafia e i consiglieri pentastellati di palazzo dei Marescialli. «Continenza e cautela». Arriva dai consiglieri del Csm in quota M5s il primo “stop” alle esternazioni di Nino Di Matteo. Con una nota, i laici pentastellati Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti ricordano che «i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio». Oggetto della reprimenda, pur senza mai citarlo, l’ex pm antimafia Nino Di Matteo e la sua dura presa di posizione nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7.Di Matteo, intervistato domenica scorsa a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, aveva “accusato” Bonafede di aver sostanzialmente ceduto ai boss non nominandolo al vertice del Dap. Una vicenda “tenuta riservata” (parole del magistrato siciliano) fino ad ora e gettata sulla pubblica piazza a distanza di due anni.Le affermazioni di Di Matteo avevano scatenato una violenta polemica politica con la richiesta, da parte delle opposizioni e dei renziani di Italia viva, di dimissioni di Bonafede che, oltre ad essere il ministro della Giustizia è anche il capo delegazione del Movimento. Esprimiamo, proseguono i tre consiglieri, «forte preoccupazione per il clima venutosi a creare, specie in un momento in cui la giustizia necessiterebbe di unità e collaborazione tra tutti gli operatori, nell’interesse del Paese e dei cittadini. Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa – aggiungono, quindi, i laici del M5s – rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. E’ quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm». Una presa di posizione forte che cerca di “salvare” il Guardasigilli, allentando il fuoco di fila di queste ore su via ArenulaDomani Bonafede, infatti, risponderà sul punto al question-time alla Camera. Il dibattito si preannuncia incandescente in quanto molti parlamentari hanno già fatto sapere che chiederanno di conoscere i reali motivi per cui il ministro, a giugno del 2018, dopo aver offerto a Di Matteo l’incarico di n. 1 del Dap, decise di cambiare idea, preferendogli Francesco Basentini. La giustificazione fornita da Bonafede sarebbe che aveva proposto a Di Matteo un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia, cioè di direttore degli Affari penali. Una spiegazione che non ha convinto dato che quell’ufficio non esiste più da anni, a seguito della riorganizzazione del Ministero, avendo cambiato nome in Direzione Affari interni. Un ufficio non apicale come il Dap e che, soprattutto, non si occupa di contrasto alla mafia. Cosa succederà al Csm adesso è difficile prevederlo.Il fatto che l’attacco a Di Matteo venga dai laici del M5s suscita più di un interrogativo. Di Matteo, oltre ad aver partecipato ad eventi organizzati dal Movimento, è da sempre l’idolo dei grillini che avrebbero voluto lui, e non Bonafede, come ministro della Giustizia. Di Matteo è stato eletto ad ottobre dello scorso anno a Palazzo dei Marescialli nelle liste di Autonomia&indipendenza, la corrente che ha in Piercamillo Davigo il punto di riferimento ed è oggi “alleata” con le toghe progressiste di Area. A&i ed Area contano cinque consiglieri a testa. A questi dieci togati si sommano i tre laici in quota M5s ed il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (Area). Sulla carta, dunque, 14 voti che garantiscono una solida maggioranza. La presa di distanza dei laici pentastellati da Di Matteo rischia di mettere in discussione gli equilibri al Csm, dove anche un voto è determinante.
Di Matteo rischia il procedimento disciplinare al Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'8 maggio 2020. Per il codice etico dell’Anm, il magistrato deve avere una corretta “interlocuzione” con la stampa, evitando una sovraesposizione mediatica, il “protagonismo”, ovvero la “costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati”. Le recenti affermazioni di Nino Di Matteo sulla mancata nomina a capo del Dap da parte di Alfonso Bonafede potrebbero costare all’ex pm antimafia l’apertura di un procedimento disciplinare. Il decreto legislativo 109 del 2006, “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati”, nel richiamare il magistrato al rispetto dei doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetto della dignità della persona” nell’esercizio delle funzioni e al di fuori di esse, vieta “comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria”. Il codice etico dell’Anm, poi, sottolinea che il magistrato debba avere una corretta “interlocuzione” con la stampa, evitando una sovraesposizione mediatica, il “protagonismo”, ovvero la “costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati” con i media in relazione all’attività del proprio ufficio. Pur mantenendo fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato deve ispirarsi “a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa”. I precedenti specifici non mancano. Come non ricordare, ad esempio, la vicenda dell’ex gip di Milano Clementina Forleo che era intervenuta alla trasmissione Annozero di Michele Santoro segnalando “sottili pressioni” da parte di “poteri forti” durante l’inchiesta Bnl-Unipol e lamentando l’isolamento dei colleghi? Nei confronti della magistrata venne immediatamente aperto un procedimento disciplinare, poi conclusosi con una archiviazione, ed avviata una pratica di trasferimento da Milano per incompatibilità ambientale. Il potere disciplinare spetta al procuratore generale della Corte di Cassazione e al ministro della Giustizia. Mentre quest’ultimo ha “facoltà” di promuovere l’azione disciplinare, il pg della Cassazione ha “l’obbligo” di esercitarla. Difficile, comunque, visti i richiami da più parti a Bonafede e Di Matteo di “chiarire” l’accaduto che il Guardasigilli possa procedere. Potrebbero, invece, essere gli stessi consiglieri del Csm a “sollecitare” il pg della Cassazione. I laici in quota 5s hanno preso le distanze dal pm antimafia. Un comportamento che è stato stigmatizzato dal togato di Autonomia&indipendenza, la corrente con cui è stato eletto al Csm Di Matteo, Sebastiano Ardita.I consiglieri del Csm, per la cronaca, godono della stesse guarentigie dei parlamentari, non essendo “punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione”. Il vice presidente del Csm David Ermini ha scelto la strada del silenzio. L’ex responsabile giustizia del Pd non ha intenzione di essere trascinato nelle polemiche che contraddistinguono questa burroscosa consiliatura. Ma quando ci sono di mezzo i magistrati il low profile non è mai facile.
L'intervento. Il Csm detta linee guida per i magistrati ma i suoi membri non sono tenuti a rispettarle…Giorgio Varano su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Le esternazioni (definiamole così) del dott. Di Matteo, consigliere in carica del Csm, portano alla ribalta un tema sempre passato sotto silenzio, un “incredibile ma vero” che dura ormai da troppi anni: le linee guida del Csm sulla comunicazione dei magistrati non valgono per i magistrati che siedono a Palazzo dei Marescialli. In Italia, dunque, tutti i magistrati devono attenersi alle regole deliberate dai consiglieri del Csm sulla comunicazione, tranne loro. Il perché? “Incredibile ma vero 2”: «L’aspetto precettivo e sanzionatorio, infatti, mal si concilia con lo svolgimento di un simile elevato compito istituzionale essendo lecito ritenere che la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione sia connaturata al livello etico dei componenti eletti». Così ha stabilito il Csm stesso, in una delibera del 2010. Ora, le esternazioni di un consigliere del Csm, per una questione di due anni prima dal tenore personale o equivocabilmente ben peggiore, espresse in diretta tv contro il ministro della Giustizia in carica (grazie anche alla retorica dell’antimafia da tv) rendono lecito ritenere che non ci si possa più affidare a una presunzione assoluta di consapevolezza dei doveri insiti nella funzione. Perché il Csm, che ha affermato di voler superare in maniera strutturale la devastante crisi a cui l’istituzione è stata sottoposta, non rende obbligatorie le linee guida anche per i propri consiglieri? Certo, poi nascerebbe un imbarazzo. Quello di valutare il comportamento di un proprio appartenente, magari vicino di sedia nel plenum. Ma questo imbarazzo potrebbe essere superato esaminando la condotta del singolo componente in relazione ai doveri dei consiglieri. Doveri? “Incredibile ma vero 3”, non ce ne sono. Leggendo infatti il regolamento interno del Csm (2018), scorrendo le centotrentuno pagine non troverete mai la parola “dovere”. Non ne è previsto alcuno specifico relativo al ruolo di consigliere, tutto viene rimandato quindi ai codici etici delle singole categorie di appartenenza, come se il consigliere, togato o laico che sia, non avesse dei doveri specifici impostigli dal ruolo. La volontà del Csm di uscire dalla crisi, di “autoriformarsi”, è rimasta dunque una mera dichiarazione di intenti sotto molti aspetti. Il magistrato “quisque de populo” ha l’obbligo di tenere presente che «la fiducia nella giustizia è in qualche modo collegata alla rappresentazione che della stessa viene data attraverso i mezzi di informazione», pertanto la comunicazione diventa «strumento principale per la costruzione di un rapporto fiduciario tra i cittadini e il sistema giudiziario», e deve evitare la «costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione», «l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi» (risoluzione 2010). Per i consiglieri del Csm tutto questo non vale. Perché non estendere semplicemente il dovere di osservanza delle linee guida sulla comunicazione dei magistrati anche ai componenti del Csm? Perché non prevedere nel regolamento interno anche dei doveri di comportamento dei consiglieri? A proposito, nel 2019 il Procuratore nazionale antimafia, Cafiero De Raho (serissimo magistrato che infatti lavora nelle procure, non nelle tv), rimosse con provvedimento immediatamente esecutivo il Dott. Di Matteo dal pool che indaga sulle stragi. A seguito di una intervista di quest’ultimo – a sua discolpa, all’epoca non era consigliere del Csm, quindi non aveva “la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione” – De Raho ritenne “incrinato il rapporto di fiducia all’interno del gruppo”. A oggi il Csm, in quanto organo, nemmeno attraverso il proprio ufficio stampa, ha preso le distanze dal comportamento del Dott. Di Matteo. Dunque, possiamo stare sereni: non appare incrinata la fiducia all’interno del gruppo. P.s. Nel frattempo un primo risultato miracoloso queste esternazioni l’hanno ottenuto. Il ministro Bonafede parlando alla Camera ha affermato che, alla luce del nuovo quadro sanitario nazionale, sta valutando l’emissione di un decreto per fare ritornare in carcere i detenuti scarcerati perché maggiormente esposti al rischio di contrazione del virus, a causa delle loro precarie condizioni di salute. Li renderà dunque immuni per sempre, per decreto-miracolo, spazzando il pericolo del contagio nelle carceri. Nei tribunali non c’è ancora riuscito a spazzarlo via, ma i miracoli si fanno uno alla volta, lo sanno tutti. I miscredenti magistrati di sorveglianza che non crederanno al decreto-miracolo saranno mandati al rogo senza nessuna “pratica a tutela” da parte del Csm, come avvenuto finora?
Regolamento di conti nel Csm, ma sullo sfondo ci sono i movimenti per l’Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Aprile 2020. Una intervista di un consigliere laico diventa l’occasione per regolare i conti all’interno del Csm, ridisegnando equilibri e alleanze in vista della prossima tornata elettorale per il rinnovo dell’Anm, originariamente in calendario il mese scorso e rinviata al prossimo giugno a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. L’occasione per il “redde rationem” togato è stata offerta dalle dichiarazioni di Alessio Lanzi, membro laico in quota Forza Italia, rilasciate alla Stampa questa settimana. Il laico forzista aveva criticato il clima che si era creato in Lombardia, parlando di spettacolarizzazione da parte dei pm milanesi nella gestione delle indagini sulle morti sospette per coronavirus nelle case di riposo lombarde. L’indignazione del professore milanese, oltre che sul fuoco di sbarramento dei media sull’amministrazione di centrodestra della Regione Lombardia, si era concentrata sulle modalità di conduzione delle investigazioni. In particolare, una girandola di perquisizioni show effettuate senza soluzione di continuità dal tandem guardia di finanza/nas carabinieri, su delega dei pm, nelle Rsa lombarde e negli uffici della Regione Lombardia. Perquisizioni e sequestri di montagne di documenti rigorosamente eseguiti alla presenza di giornalisti e a favore degli operatori televisivi, verosimilmente non avvisati dai manager indagati delle Rsa. «Se si voglio acquisire documenti ci sono modi meno eclatanti. Si rischia di consegnare all’opinione pubblica messaggi di sconforto e sfiducia nelle istituzioni. È una questione di sensibilità», le parole “incriminate” di Lanzi. Giuseppe Cascini, togato di Area, il gruppo di sinistra di cui fa parte Magistratura democratica, aveva chiesto conto delle affermazioni al consigliere milanese. «Il compito del Csm – secondo Cascini – è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente». La pratica a tutela è un istituto a cui il Csm ricorre quando sente minacciata l’autonomia e l’indipendenza di qualche Procura. Durante gli anni frizzanti del berlusconismo e dello scontro politica-magistratura erano frequentissimi i casi in cui vi si ricorreva a Palazzo dei Marescialli. «Non c’è stata alcuna delegittimazione della Procura di Milano», regno incontrastato delle toghe di sinistra, hanno replicato i togati di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, rimasta travolta l’anno scorso dall’indagine sul pm romano Luca Palamara. «Le dichiarazioni di Lanzi risultano espressione di libero esercizio del diritto di critica: volevamo un dibattito ma c’è stato impedito», si legge in un comunicato diffuso ieri dai tre consiglieri di Mi al Csm. La voglia di riscatto delle toghe di Mi è tanta. Dopo aver vinto le elezioni al Csm nel 2018, il gruppo di cui faceva parte Paolo Borsellino è finito all’opposizione. L’obiettivo per la prossima tornata elettorale è chiaro: catalizzare il voto dei magistrati stufi della contrapposizione politica. Sarà un miraggio?
L’Anm bacchetta Di Matteo: «Un magistrato deve esprimersi con misura e nelle sedi opportune». Il Dubbio il 6 magio 2020. L’Associazione nazionale magistrati prende posizione sulla querelle Bonafede-Di Matteo: «È sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, soprattutto per un membro del Csm». La bacchettata all’ex pm di Palermo e attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo arriva dall’Associazione nazionale magistrati. Il sindacato delle toghe diffonde una nota durissima a corredo dell’infuocato dibattito di questi giorni che vede contrapposti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e lo stesso Di Matteo. E pur senza citare il magistrato della “trattativa Stato-mafia”, l’Anm lancia un monito severissimo. «Per i magistrati della Repubblica, ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero, è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici e le sedi ove svolgerli nonché tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le Istituzioni», recita il comunicato, facendo implicito riferimento alla telefonata in diretta alla trasmissione “Non è l’Arena” di Giletti in cui Di Matteo svelerebbe il retroscena della sua mancata nomina al Dap. Il ministro Bonafede, secondo la ricostruzione dell’ex pm, avrebbe ceduto alle pressioni, assecondando il qualche modo le «reazione di importantissimi capimafia» alla notizia di un suo possibile insediamento al Dap. Ed è proprio per censurare queste fughe in avanti che l’Anm prende ufficialmente posizione. Perché l’accortezza e la correttezza istituzionale sono imperativi per «tutti i magistrati, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale», conclude il sindacato togato. Se non è un messaggio ad personam, poco ci manca.
L'Anm si schiera col Guardasigilli e striglia il pm Antimafia. Ma in passato l'ha sempre difeso. Luca Fazzo, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale. Il linguaggio è un po' curiale, come se l'obiettivo fosse di farsi capire solo dagli addetti ai lavori: cosa già singolare per l'Associazione nazionale magistrati. Ma ancora più singolare è che dietro il paludamento si celi l' attacco non solo a un magistrato ma anche a una facoltà, entrambi finora strenuamente difesi dal sindacato delle toghe. Il magistrato è Nino Di Matteo, pm antimafia e oggi membro del Csm: la facoltà è quella per qualunque giudice di dire la sua come e quando gli pare, in convegni e interviste, in aula e sul web, a tutela della libertà di parola garantita dalla Costituzione più bella del mondo a tutti i suoi cives, magistrati compresi. E invece stavolta l'Anm mazzola Di Matteo per avere parlato troppo. Per capire che i colleghi ce l'hanno davvero con lui bisogna (titolo a parte) arrivare alla penultima riga, quando per meglio indicare i destinatari dell'appello scrivono che «ciò è richiesto a tutti i magistrati, ancor di più a coloro che fanno parte di organi di garanzia costituzionale». Tradotto: è richiesto a Di Matteo, in quanto membro del Consiglio superiore. Bene. E quali sarebbero i precetti cui tutti, e soprattutto Di Matteo, dovrebbero attenersi? «Esprimersi con equilibrio e misura», valutare «con rigore l'opportunità di interventi pubblici», tenere conto «delle ricadute che le loro dichiarazioni possono avere». Viene da dire: volesse il Cielo, o - come dicono a Napoli - fuss a 'Maronna. Dopo decenni in cui ha assistito silente (quando andava bene) o plaudendo a esternazioni di ogni tipo, da quelli che «rivolteremo l'Italia come un calzino» a chi diceva che «i torturatori sono al vertice della polizia», l'Anm scopre la virtù teologale del riserbo. Meglio tardi che mai, per le rivoluzioni copernicane a volte servono secoli, stavolta ne è bastato mezzo. Certo, fa un po' effetto che a venire tirato per le orecchie sia lo stesso magistrato, Di Matteo, che in passato poté dirne di tutti i colori senza che il suo diritto di manifestazione del pensiero venisse messo in discussione: compreso quando accusò il Csm, di cui da lì a poco avrebbe fatto parte, di essere governato da metodi mafiosi. Cos'è cambiato da allora? Che Di Matteo ha osato attaccare il ministro Bonafede, verso cui l'Anm mostra incomprensibile sudditanza. I sindacati che stavano col padrone, negli anni Cinquanta venivano chiamati «sindacati gialli». Come bisogna chiamare l'Anm?
Di Matteo ennesimo caso. La lottizzazione della magistratura: 200 Pm che si spartiscono poltrone d’oro. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che la separazione dei poteri in Italia è una chimera, apra subito il sito istituzionale del Ministero della giustizia e legga i nomi dei capi dipartimento e dei responsabili degli uffici di diretta collaborazione del Guardasigilli. Scoprirà che sono tutti (tutti) magistrati collocati, previa autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura, “fuori ruolo”. L’argomento non è nuovo. Il recente scontro fra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede a proposito dell’incarico, capo del Dap o direttore degli Affari penali, che sarebbe stato offerto all’ex pm antimafia dal ministro appena insediatosi a via Arenula ha, però, fatto tornare di attualità questa tematica che si trascina stancamente da anni fra mille polemiche. Tralasciando infatti il caso in questione – Di Matteo è da sempre una icona per i grillini – in che modo i ministri della Giustizia scelgono i loro più stretti collaboratori? La regola non “scritta” prevede che il numero uno di via Arenula effettui una “consultazione” con i referenti delle varie correnti dell’Anm. I capi delle correnti indicano allora al ministro i rispettivi candidati. Normalmente la scelta ricade su magistrati che hanno fatto vita associativa in mood attivo. Toghe, insomma, che hanno dato prova di stretta adesione al gruppo, scalando tutti i gradini della corrente fino al raggiungimento di posizioni di rilievo. Si cerca di trovare una mediazione fra i desiderata del ministro e quelli dei ras delle correnti. Lo scopo è garantire la rappresentanza delle varie anime dell’associazionismo giudiziario in proporzione al consenso elettorale della singola corrente. Una sorta di manuale Cencelli togato. Nella scorsa legislatura, Guardasigilli Andrea Orlando (Pd) e maggioranza relativa al Csm dalla parte del cartello progressista di Area con ben sette consiglieri su sedici, il ministro della Giustizia era “monopolizzato” dalle toghe di sinistra. Erano di area progressista il capo di gabinetto e i suoi due vice, il capo dell’ufficio legislativo, il capo dell’ispettorato e il suo vice. Unicost, il gruppo di centro che aveva cinque consiglieri al Csm, esprimeva il capo dipartimento organizzazione giudiziaria e dei servizi e il suo vice, più diversi direttori generali: giustizia civile, servizi, personale e della formazione. Magistratura indipendente, la corrente di destra con solo tre consiglieri a Palazzo dei Marescialli, aveva il capo del Dap e il suo direttore generale, oltre al vice capo ufficio legislativo. Bonafede, cambiata la gerarchia del potere in magistratura con l’ascesa dei davighiani a discapito delle toghe progressiste, aveva puntato su magistrati vicini al gruppo dell’ex pm di Mani pulite, effettuando anche colloqui con i potenziali candidati. Vedasi, appunto, Di Matteo. La commistione tra politica e magistratura ha tante controindicazioni. Viene meno il principio di indipendenza in quanto il magistrato, accettando il fuori ruolo, deve condividere l’indirizzo politico del ministro. E si creano carriere parallele dal momento che pur non scrivendo una sentenza la toga avanza nelle valutazioni di professionalità. E poi ci sono gli stipendi che si attestano per questi incarichi mediamente sui 240mila euro lordi. Tranne il caso del capo Dap: la maxi retribuzione viene “trascinata” anche quando si termina l’incarico e vale ai fini pensionistici. Rita Bernadini con i Radicali aveva provato negli anni a stoppare, senza riuscirci, questa “tradizione”. Al momento il numero dei magistrati fuori ruolo è fissato in 200. La durata dell’incarico non può superare i dieci anni. Tornando invece a Di Matteo, nella serata di ieri è arrivata la reprimenda da parte dell’Anm. «Ferma la libertà di comunicazione e manifestazione del pensiero – si legge in una nota – è sempre doveroso esprimersi con equilibrio e misura, valutando con rigore l’opportunità di interventi pubblici tenendo conto delle ricadute che le loro dichiarazioni, anche per la forma in cui sono rese, possono avere nel dibattito pubblico e nei rapporti tra le istituzioni».
Nino Di Matteo, Augusto Minzolini: "Ecco perché ha sputtanato Alfonso Bonafede". Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Un tempo, anzi forse soltanto fino a domenica, era vicinissimo al M5s. Si parla di Nino Di Matteo, il pm preferito (o ex preferito) da Marco Travaglio e grillini, insomma un "re" del giustizialismo. Poi, però, quella telefonata a Massimo Giletti e Non è l'arena, le accuse neppure troppo velate ad Alfonso Bonafede, che lo avrebbe prima scelto per il Dap salvo cambiare idea dopo un piao di giorni per alcune inquietanti pressioni. Insomma, una telefonata che sancisce, anche a livello pubblico, una clamorosa rottura. E che soprattutto mette a rischio il futuro di Bonafede alla Giustizia e, anche, quello dell'intero governo (che accadrà sulla sempre più probabile mozione di sfiducia?). E sulle ragioni di quella telefonata, ragiona e indaga Augusto Minzolini in un retroscena pubblicato su Il Giornale, che ricostruisce le "fila del giustizialismo nostrano", i comportamenti delle persone in ballo, a partire da Di Matteo, uno che "non guarda in faccia nessuno", eroe grillino, grande accusatore nel processo sulla trattativa Stato-mafia, "quella dei primi anni '90, che si imperniò proprio sul fatto che nell'estate del '93 il responsabile del Dap dell'epoca decise di togliere centinaia di mafiosi dal regime di carcere duro". Insomma, uno che vive per la giustizia e che lo ha fatto a modo suo, con accuse roboanti e clamorosi eccessi giustizialisti. Minzolini, dunque, arriva a delle conclusioni. "Se si sceglie questa chiave di lettura si capisce perché Di Matteo abbia sputtanato - l'espressione è azzeccata - un ministro amico come Bonafede: per lui il processo sulla trattativa, il Dap e tutto il resto, sono ferite ancora aperte", sottolinea Minzolini. E ancora: "Si arguisce perché il primo a scendere in difesa del Guardasigilli sia stato il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, e non un grillino. Si intuisce perché l' intemerata contro Di Matteo l' abbia recitata l' ultimo capo delle toghe rosse, il magistrato Armando Spataro, mentre l' icona grillina tra i giudici, Piercamillo Davigo, sia rimasto in silenzio", conclude.
Il linciaggio. Di Matteo accusa Bonafede di concorso esterno in associazione mafiosa. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Ti sei fatto ricattare dalla mafia! E tu parli per sensazioni e travisi la realtà! Ha il sapore della faida il corpo a corpo che domenica sera poco prima di mezzanotte ha visto protagonisti non due ragazzotti sul ring di una palestra di periferia, ma un consigliere del Csm e un ministro della repubblica. Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Se non proprio mafioso, quanto meno imputabile di concorso esterno. È questa l’immagine che Nino Di Matteo dà del ministro di giustizia Alfonso Bonafede. Lo fa nel corso di una puntata-gogna di una trasmissione che non sarà l’Arena, come pretende il titolo, invece pare del tutto simile al luogo dove venivano perseguitati i cristiani. Con l’esibizione dei corpi, anche. La vittima predestinata questa volta è proprio il guardasigilli, non invitato, mentre il conduttore, con il contorno consenziente di personaggi come Luigi de Magistris e Catello Maresca, una volta ottenute, con la trasmissione precedente, la dimissioni del capo del Dap Basentini, azzanna alla gola una povera funzionaria, rea di aver inviato una mail in ritardo. Anche lei deve essere licenziata. Si canta e si suona tra persone che la pensano allo stesso modo. Ma il boccone è poco consistente, quindi si torna a fare le pulci a tutta quanta l’organizzazione delle carceri italiane, al vertice delle quali finalmente sono arrivati due magistrati cosiddetti, con il solito strafalcione incostituzionale, “antimafia”. Si può stare tranquilli per il futuro, si dice, ma intanto la frittata è fatta, i mafiosi passeggiano giulivi nei parchi delle loro città perché nessuno ha provveduto, come incautamente ricorda l’ex ministro Martelli, magari con una “norma interpretativa” (cioè abrogativa) delle leggi esistenti, a riacciuffarli tutti. Cioè a dire, sia il ministro della giustizia che l’ex capo del Dap sono stati due incapaci, dovevano violare la legge e lasciar morire in carcere qualche vecchio moribondo pur di mostrare i muscoli. Ah, se ci fosse stato a dirigere le carceri Di Matteo, sospira Massimo Gilletti. Lo evoca, ed eccolo. Mancato ministro, mancato capo del Dap, cacciato dall’Antimafia, entrato per il rotto della cuffia dopo dimissioni di altri al Csm con il sostegno del suo amico Davigo, dovrebbe stare un po’ caché, come dicono i francesi. Invece no, alza il telefono quasi fosse stato in attesa della parola d’ordine, ed entra a cavallo nella trasmissione. Lancia subito sospetti nei confronti dell’autonomia del ministro Bonafede, anche lui sottoposto, lascia capire, al ricatto della mafia. Ma è proprio un pallino, il suo. Portare il processo “trattativa” ovunque. Chiunque rappresenti lo Stato, tranne lui, è condizionato dai mammasantissima. Certo, va detto che Alfonso Bonafede gli ha rubato il posto, non dimentichiamolo. Era Di Matteo che avrebbe dovuto diventare ministro di giustizia nel 2018. Lui era pronto e si è visto scavalcato da uno qualunque. Vendetta, tremenda vendetta. E’ giunto il momento di fargliela pagare. Anche perché, sempre nel 2018, questo modesto ministro riconfermato si è permesso di proporgli la presidenza del Dap o in alternativa il prestigioso ruolo che fu di Falcone come Direttore generale degli affari penali, e poi gli ha soffiato la prima poltrona (preferendogli un Basentini qualunque) e gli ha riservato solo la seconda. Perché? Perché i capimafia nelle carceri avevano protestato: se arriva al Dap Di Matteo, quello butta la chiave, dicevano. Il ministro ci ha ripensato, dice il magistrato. Poi, allusivo: o qualcuno lo ha indotto a ripensarci. Ci risiamo. Dopo aver insultato i giudici di sorveglianza quasi fossero fiancheggiatori della mafia solo perché avevano applicato alcuni differimenti di pena, ora è la volta del ministro. Colpito e affondato. In studio si comportano tutti (con l’eccezione dell’ex jena Giarrusso che non sa più come difendere il suo ministro) come ragazze coccodè intorno al loro mito e alla sua ricostruzione dei fatti. Fedele, onesta e leale, la definisce il suo ex collega de Magistris. Martelli gli domanda come mai lui non abbia chiesto spiegazioni sul dietrofront di Bonafede. Per orgoglio, sussurra con modestia il magistrato. Tutti annuiscono compunti. Si potrebbe chiudere il sipario con il funerale del ministro e la beatificazione dell’ex Pm, tanto che viene accolta con fastidio, mentre è ancora aperto l’audio di Di Matteo, la chiamata di Bonafede, che è “esterrefatto” e quasi piange al telefono, nel ricordare quanto tasso di antimafia e di forcaiolismo lui abbia nel sangue. Dà inutilmente la sua versione dei fatti e viene trattato come la cugina impresentabile che viene nascosta quando arrivano gli ospiti importanti. Faccia presto, si sbrighi che abbiamo cose più importanti, gli fanno capire. Fa tenerezza, anche perché nessuno ricorda che un ministro nomina chi ritiene all’interno del suo dicastero. E non deve certo render conto al partito dei professionisti dell’antimafia. Ma il guardasigilli è ormai diventato un pungiball su cui chiunque ritiene di potersi esercitare. Tutti i partiti dell’opposizione ne chiedono le dimissioni ignorando chi detiene oggi il vero potere, e il Pd che non lo sa difendere, tranne l’ex ministro Orlando che ritiene sarebbero scandalose le dimissioni a causa dell’opinione di un magistrato. Persino il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, forse vedendolo debole, gli rifila una lezioncina sulla divisione dei poteri, ricordandogli di agire su delega dell’autorità giudiziaria e non del ministero. Intanto per ora la vicenda finirà con una seduta parlamentare in cui ci sarà una gara di forche alte verso il cielo da parte di tutti, speriamo con qualche singola eccezione. Chi salverà il soldato Bonafede? Pier Camillo Davigo, se lo vorrà. È l’unico più potente di Di Matteo. Ieri mattina era dato sul treno della contro-immigrazione Milano Roma, nel primo giorno della fase due anticovid. Chissà se è andato a consolare il suo allievo.
Nino Di Matteo, il pm che accusava gli innocenti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Ma guarda un po’ se alla fine ti tocca persino difendere Alfonso Bonafede! È che quando prende la parola Nino Di Matteo ti viene da difendere chiunque lui accusi, perché sai di non sbagliarti. Se lui accusa vuol dire che quello è innocente. La biografia di Di Matteo è abbastanza limpida sotto questo punto di vista. Da giovane si fece strada indagando sull’uccisione di Paolo Borsellino. Fece un bel lavoro: insieme ad altri suoi colleghi scovò un pentito formidabile che raccontò loro per filo e per segno come andarono le cose. Si chiamava Scarantino questo pentito. Loro lo ascoltarono bene e poi arrestarono tutti i colpevoli: l’indagine la chiusero lì. Poi si scoprì che Scarantino aveva raccontato solo balle, e loro si erano fatti prendere in giro e non avevano verificato. Scagionati i condannati, ma ormai era troppo tardi per trovare i colpevoli veri e capire cosa era successo. Non lo sapremo mai. Allora Di Matteo cercò di riscattarsi. E, andando appresso al suo collega Ingroia, mise sul banco degli imputati l’unico personaggio ancora vivente di quelli che la guerra alla mafia l’aveva fatta davvero, incastrando e catturando decine di boss autentici, a partire dal capo dei capi, Totò Riina. Questo personaggio, che è uno dei giganti della lotta alla mafia, è il generale Mori: oggi è in pensione e deve pensare a difendersi da accuse scombiccherate e già smentite molte volte in altri processi, ma purtroppo la giustizia funziona così: un pugno di Pm si è fissato con la storia della trattativa Stato mafia e non molla. Se ne infischia delle assoluzioni che in altri processi arrivano a pioggia e scagionano tutti. E ti processa allegramente, anche se sa che tu sei quello che ha dato il contributo maggiore a ridurre la mafia nelle condizioni di debolezza nelle quali si trova oggi. A questo punto Di Matteo si è dato alla politica politica. Cioè la politica fatta in prima persona dal partito dei Pm. Ha trovato un posto alla Procura nazionale antimafia, ma dopo pochi mesi l’hanno buttato fuori perché parlava troppo con giornali e Tv. E allora lui è riuscito a farsi portare da Davigo al Csm. E ogni giorno tuona contro la mafia, dando a tutti del reggicoda dei mafiosi. Persino a questo povero ministro lo ha detto, che sicuramente è il ministro della Giustizia più forcaiolo della storia della Repubblica e che proprio ‘sto fatto di finire sotto il martello di Di Matteo non se l’aspettava. Come possono succedere queste cose? Succedono quando i partiti liberali si fanno intimidire da quelli delle manette e gli corrono appresso. In questi giorni sta succedendo al Pd e anche a Italia Viva. Chissà se questa nuova esibizione del partito dei Pm, e del suo alfiere più pittoresco, alla fine non li farà ragionare…
Di Matteo accusa Bonafede di mafia, intervenga Mattarella. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Lo scontro tra l’ex Pm Di Matteo, membro autorevole del Csm, e il ministro Bonafede si sta allargando. Nei 5 Stelle si è aperta la guerra. I consiglieri laici del Csm che fanno capo ai 5 Stelle si sono dissociati da Di Matteo. È andata in crisi l’alleanza che controlla la maggioranza del Consiglio, cioè quella tra la sinistra giudiziaria e la destra di Davigo. Perché Di Matteo è un “soldato” di Davigo, e la sua rivolta fa saltare tutti gli equilibri. Cosa vuole Di Matteo? Evidentemente voleva essere nominato capo del Dap. Invece Bonafede gli ha preferito Petralia. E lui non ci sta. Anche perché Bonafede gli aveva promesso quel posto già due anni fa, quando governava con Salvini, e poi non aveva mantenuto. Fatto fuori per la seconda volta? Di Matteo si è infuriato per questo sgarbo e ha chiamato Giletti per lanciare accuse feroci contro Bonafede. Ha detto che il ministro ha ceduto al ricatto dei mafiosi. Secondo lo schema abitualmente usato da Di Matteo questa accusa equivale a “concorso esterno in associazione mafiosa”. È un reato per il quale si rischiano 10 anni di prigione senza benefici né sconti. Perché è così ambito il posto di capo del Dap? Per varie ragioni. Dà potere. È un posto “politico”. Può essere un trampolino. E poi è anche ben pagato: credo circa 320 mila euro all’anno, molto più di un posto da ministro o da deputato. Una bella poltrona, dicevano una volta i 5 Stelle. Ora – come scrive l’ex parlamentare radicale Franco Corleone su questo giornale – si pone il problema di cosa farà il presidente della Repubblica. È il capo del Csm. Ha ricevuto il giuramento di Bonafede. Può far finta che non sia successo niente e credere all’ipotesi – un po’ umoristica – di Marco Travaglio, che ha scritto sul Fatto (testualmente), riferendosi allo scontro tra Di Matteo e Bonafede, che “è stato solo un colossale equivoco tra due persone in buonafede”? Un mancato intervento del Quirinale potrebbe costare caro alla credibilità del governo e di una istituzione fondamentale come il Csm.
Su rivelazioni Di Matteo assurdo il silenzio di Mattarella ed Ermini. Franco Corleone su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Una volta ci si lamentava che Porta a porta di Bruno Vespa costituisse la Terza Camera, oggi con la crisi conclamata del Parlamento ci si è ridotti alla copia riveduta e scorretta di un giornalista che preferisco non nominare. Durante una trasmissione televisiva il magistrato Nino Di Matteo che fa parte del Csm e il ministro della Giustizia Bonafede si sono esibiti in un duetto sgangherato sulla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2018. Non si capisce la ragione della rivelazione dopo due anni, ma se viene fatta da chi vive di teoremi e complotti, non può essere casuale. Forse si tratta della ripicca per la mancata seconda offerta dopo le dimissioni di Basentini, messo sulla graticola per una presunta responsabilità nella scarcerazione di alcuni detenuti eccellenti per gravi patologie. Altre erano le responsabilità del vertice del Dap che di fronte a una vera possibile emergenza sanitaria annunciò misure restrittive senza alcun dialogo e provocò rivolte in più di venti carceri come non accadeva da cinquant’anni. Una vera Caporetto che non ha ancora trovato una soluzione di monitoraggio, prevenzione e cura: solo la fortuna ha evitato che in galera non si sia verificata un’ecatombe simile a quella toccata agli ospiti delle case di riposo. Le misure nei decreti per ridurre il sovraffollamento sono state timide, prudenti e condite con il rilancio del rassicurante braccialetto (in realtà cavigliera), fino ad ora noto solo per lo sperpero di denaro pubblico. In realtà nelle celle si continua ad essere troppo vicini e con condizioni igieniche e sanitarie deplorevoli, con i lavandini attaccati alla tazza del cesso. Ma per le vestali della legalità, questa non è una vergogna sesquipedale da eliminare immediatamente. Lo scandalo si concretizza quando alcuni magistrati di sorveglianza decidono l’incompatibilità con la detenzione domiciliare per alcuni detenuti di calibro gravemente malati e prossimi al fine pena. Nessuna considerazione per 13 detenuti morti, invece. Pietà l’è morta, davvero. Torniamo al battibecco tra Di Matteo e Bonafede che ha al centro l’accusa al ministro di non avere proceduto alla nomina del magistrato palermitano al capo del Dap per paura delle reazioni dei capi mafia ristretti nelle sezioni del 41bis. La difesa di Bonafede è patetica. Viene svelato un triste mercato per l’occupazione di fondamentali incarichi di responsabilità. Altro che la vituperata lottizzazione della Prima Repubblica. Di fronte a questo spettacolo increscioso (miserabile, avrebbe detto Ugo La Malfa), è inquietante il silenzio del presidente della Repubblica che nomina i ministri sulla base di un giuramento che impegna a esercitare le funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione e che è il presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Nemmeno una parola da parte del vice presidente del Csm David Ermini. Le istituzioni ricevono un duro colpo e la crisi della democrazia e dello Stato di diritto pare irrimediabile. Sono solo peccati di omissione o segno di complicità? Neppure la pandemia fa prevalere il senso di umanità e l’egemonia giustizialista mette nell’angolo il Papa e la sua Via Crucis, la Corte Costituzionale e le sue sentenze, i magistrati garantisti e gli avvocati impegnati con i volontari e i garanti per i diritti. Manca la politica e un soggetto politico con l’ambizione di perseguire un disegno alternativo al populismo penale. La “Società della Ragione” che negli scorsi anni si è battuta per la cancellazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe e per la chiusura degli Opg, nella sua assemblea del 30 aprile ha deciso di lanciare una sfida ambiziosa. Ripresentare nel Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga a fine giugno una proposta di una riforma radicale; il 29 luglio nell’anniversario della morte di Sandro Margara porre sul tappeto i cambiamenti del carcere per rispettare la Costituzione; infine lanciare una campagna per la modifica degli strumenti di clemenza (amnistia, indulto e grazia) e delle norme del Codice Rocco sull’imputabilità dei malati di mente. Proprio ora nel fuoco della crisi sociale va scritta con coraggio un’agenda del cambiamento, contro l’arroganza del senso comune e della paura.
Da mesi chiediamo le dimissioni di Bonafede, oggi no. Davide Faraone su Il Riformista il 4 Maggio 2020. Nessuno tocchi Bonafede. Perché noi non cambiamo idea a seconda delle stagioni o delle convenienze politiche. Perché per noi la separazione dei poteri è un principio irrinunciabile ed è intollerabile un processo in piazza da parte di un magistrato, membro del Csm, nei confronti di un politico, qualsiasi maglietta indossi. Perché noi siamo seri e questa faccenda l’abbiamo affrontata cinque mesi fa al Senato con l’intervento di Matteo Renzi. Zitto Bonafede, zitti tutti. Da mesi chiediamo le dimissioni del ministro della giustizia ma oggi no. Oggi che il destino ridicolo si è abbattuto su chi si è servito dei processi in piazza per poi rimanervi vittima, no. E lo facciamo perché in gioco c’è qualcosa di più importante della poltrona di via Arenula, della nostra visione garantista che è alternativa a quella dei cinque stelle. C’è in gioco la democrazia. E secondo me anche il buon gusto. Domenica sera da Giletti non è andato in onda un botta e risposta tra due amici, cresciuti a pane e giustizialismo, è andata in scena la politica a libertà vigilata, il governo agli arresti domiciliari, una democrazia in cui regna il vuoto politico. Craxi del vuoto e della debolezza della politica provava orrore, Bonafede è oggi vittima, ieri è stato artefice. Di questo dobbiamo parlare, di una deriva populista che investe tutti i poteri dello Stato. Perché non è serio quello che è successo domenica sera. E se fossi stato al posto di Bonafede, paragonato a uno Zagaria qualunque, avrei scelto il silenzio e avrei chiesto immediatamente un chiarimento al ministero e non in un talk show. Ma Bonafede è Bonafede, quel vuoto politico che consente a chiunque di poter aspirare ai pieni poteri. Nessuno tocchi Bonafede, ma da domani o la politica ha il coraggio, la forza e l’autorevolezza di affermare quei principi di libertà che risiedono, per dirla alla Montesquieu, nella separazione dei poteri o l’Italia, culla del diritto, confondendo la politica con la giustizia penale, rischierà di diventarne la tomba. Così scrisse Giovanni Falcone.
La poltrona del Dap vale 320mila euro l’anno. Il Dubbio il 4 maggio 2020. Dietro lo scontro per la poltrona del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non ci sono solo ragioni ideali ma una super indennità che i magistrati mantengono per tutta la vita. Trecentovemtimila euro. Seicento e passa milioni del vecchio conio. E’ il valore della poltrona del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che si occupa dei detenuti e delle carceri italiane. A quanto pare male vista la situazione disastrosa dei nostri istituti di pena e la condizioni, al limite dell’inumano (fonte Cedu), nelle quali sono costretti a vivere i detenuti. Insomma, dietro lo scontro per sedere sull’ambitissima poltrona del Dap non ci sono solo motivi “ideali”. Ammesso che si possano considerare tali i motivi di chi usa il carcere come strumento punitivi e repressivo e non come mezzo rieducativo e di reinclusione sociale. In un lungo e informatissimo articolo, il Segretario Generale Aggiunto del Sappe, Giovanni Battista de Blasis, spiegava che il problema delle carceri italiane sta proprio in quello stipendio monumentale del capo del Dap: “Inevitabilmente, la poltrona di capo del Dap – scrive de Blasis – è uno degli incarichi dirigenziali più ambiti e desiderati dello Stato italiano. Per questa ragione, nonostante siano anni, forse decenni, che continuiamo a lanciare sos sulla necessità che a capo del Dap sia nominato un manager, esperto di organizzazione e, soprattutto, di gestione delle risorse umane, continuiamo a subire la nomina di Capi Dipartimento che non hanno alcuna cognizione di che cosa significhi comandare un Corpo di polizia e senza esperienza manageriale in senso stretto”. Non solo, de Blasis spiega anche che chi diventa capo del Dap mantiene quei 320mila euro per tutta la vita. Insomma, uno stipendio dal Dap è per sempre.
Di Matteo e Bonafede? Una questione da 160mila euro. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Continua in maniera feroce la polemica tra Nino Di Matteo e Alfonso Bonafede. Di Matteo è il pm di Palermo che credette a Scarantino e mandò a puttane l’inchiesta sull’omicidio di Paolo Borsellino, quello che ha costruito il grande processo sulla trattativa Stato-mafia che poi è stata demolita in moltissimi altri processi. E’ quello che andò alla procura nazionale anti-mafia ma che dopo qualche mese fu mandato via dal procuratore poiché “parlava troppo” rilasciando troppe interviste. La rottura con Bonafede è misteriosa. Perché una delle icone del Movimento 5 Stelle ha rotto con i grillini? Abbiamo fatto due conti, forse influenzati dal modo di pensare dei 5 Stelle. Abbiamo visto che Bonafede ha proposto a Di Matteo di fare il direttore del Dipartimento degli affari penali o di fare il capo del Dap. Di Matteo, dopo averci pensato, ha detto al ministro “Voglio fare il capo del Dap”. A quel punto Bonafede ha detto “No devi fare il direttore del Dipartimento degli affari penali“. Qui nasce il caso. Il capo del Dap guadagna 320 mila euro, il direttore del Dipartimento degli affari penali “solo“ 160 mila. Il capo del Dap è il magistrato più privilegiato d’Italia, guadagna molto più del presidente di Cassazione, dei deputati. Perché Di Matteo avrebbe dovuto guadagnare la metà e così rinunciare a 160 mila euro? Su questa polemica, intanto, si sta aprendo una grande crisi istituzionale che coinvolge il presidente della Repubblica, che avrebbe bloccato due anni fa la nomina di Di Matteo. C’è di mezzo il ministro della giustizia accusato dall’ex Pm di “concorso esterno in associazione mafiosa“. C’è Di Matteo che ha fatto saltare la maggioranza rosso-bruna del Csm. Tutto per una questione di 160 mila euro. La toga è sacra, finché non arriva qualche vantaggio politico o economico.
Scontro Di Matteo-Bonafede, i grillini scaricano il Pm adorato. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Si rompe il fronte “delle manette” al Csm. Per la prima volta nella storia, i consiglieri laici grillini “criticano” Nino Di Matteo, il pm del processo Trattativa Stato-mafia e magistrato di riferimento della base pentastellata. Con una nota diffusa ieri mattina, i laici in quota M5s Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti sottolineano come “i consiglieri del Csm, togati e laici, dovrebbero, più di chiunque altro, osservare continenza e cautela nell’esprimere, specialmente ai media, le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Consiglio”. Nel mirino, l’attacco di Di Matteo sferrato nei confronti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante l’ultima puntata della trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. In collegamento telefonico, a proposito delle recenti scarcerazioni di detenuti sottoposti al regime del 41 bis, il magistrato siciliano aveva “accusato” Bonafede di aver dato retta ai boss non nominandolo al vertice del Dap nell’estate del 2018. Parole durissime che avevano lasciato “esterrefatto” il Guardasigili, scatenando una violenta polemica politica. “Chi ha l’onore di ricoprire un incarico di così grande rilievo costituzionale, deve sapersi auto-limitare; questo non significa – proseguono i laici del M5s – rinunciare a esprimere le proprie opinioni, ma vuole dire farlo nelle forme e nei modi corretti. E’ quello che noi facciamo, e convintamente continueremo a fare, da quando, nel settembre 2018, siamo stati chiamati dal Parlamento al ruolo di componenti del Csm”. La difesa pancia a terra del Guardasigilli anticipa l’intervento che Bonafede oggi pomeriggio terrà alla Camera sull’accaduto. Il ministro si era subito giustificato dicendo di aver proposto a Di Matteo anche un altro incarico di prestigio sul fronte della lotta alla mafia, quello di direttore degli Affari penali, lo stesso avuto ai tempi da Giovanni Falcone al Ministero della giustizia. Un ufficio che, leggendo però l’organigramma di via Arenula, non esiste. La sparata televisiva a scoppio ritardato di Di Matteo e la presa di distanza dei laici pentastellati rischia ora di provocare un terremoto al Csm, il secondo, dopo il “Palamara-gate”, incrinando l’asse di ferro fra i Davighiani, le toghe di sinistra e, appunto, i laici grillini. Di Matteo, un passato da toga progressista, poi transitato in Unicost ricoprendo l’incarico di segretario distrettuale dell’Anm del capoluogo siciliano, lo scorso ottobre venne “folgarato” da Davigo, accettando di correre per le elezione suppletive del Csm nelle liste di Autonomia&indipendenza, il gruppo fondato dall’ex pm di Mani Pulite. Su 26 componenti del Csm, l’asse “rosso-bruno” ne conta adesso 13, a cui si deve aggiungere il voto del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, toga progressista. “Sfilandosi” Di Matteo, c’è la parità perfetta e nessuna maggioranza predefinita. Ci sarà da divertirsi.
Pd non è giustizialista, avvisare le procure antimafia è buon senso. Franco Mirabelli su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Le recenti polemiche sulle scarcerazioni di diversi, forse troppi, uomini legati alla mafia e detenuti in alta sicurezza o per il 41 bis, richiedono alcune precisazioni. Innanzitutto credo sia senza fondamento l’idea di riconoscere in questo passaggio, nella preoccupazione per l’uscita dei boss e nelle norme contenute nel recente decreto, una svolta giustizialista del Pd. In questi mesi abbiamo lavorato e lavoriamo in coerenza col passato. Sia sull’emergenza carceri come sulla riforma del processo penale per noi resta centrale il tema dell’allargamento degli spazi per l’utilizzo delle pene alternative al carcere, per introdurre misure fondate sul risarcimento a fronte dei reati meno gravi, per non far entrare nel circuito penale gli autori di reati bagatellari. Ricordo che è stato il Pd ad impedire che la direzione delle carceri cambiasse natura dando, come si voleva fare col riordino delle carriere, ai comandanti degli agenti le stesse funzioni attribuite ai direttori. Avevamo e abbiamo questa idea della pena, siamo ancorati ai principi costituzionali e consideriamo prioritario l’obbiettivo di garantire a chi viene condannato la possibilità di trovare percorsi non solo punitivi ma utili per avere a fine pena possibilità di reinserimento e per trovare opportunità di vita che rompano col passato. In secondo luogo non è vero che ci sia da parte nostra alcuna volontà di ridimensionare il ruolo della magistratura di sorveglianza. Abbiamo difeso e continueremo a difendere le prerogative e l’autonomia di chi deve decidere sui benefici e valutare i percorsi e le condizioni di salute dei detenuti. Anzi abbiamo riconosciuto l’importanza delle decisioni assunte, in questi difficili mesi in cui il Covid19 ha reso esplosiva la questione della sovrapopolazione delle carceri, che hanno consentito di ridurre la popolazione carceraria da 61 a 53 mila unità. È grazie alle normative vecchie e nuove, ma soprattutto al lavoro dei magistrati di sorveglianza, se ciò è avvenuto e di questo l’intero Paese deve essere loro grato. Per noi esprimere preoccupazione, che dovrebbe essere di tutti, per il numero significativo di boss mafiosi tornati a casa non significa, e lo abbiamo detto a chiare lettere anche in Antimafia, accusare la magistratura ma piuttosto guardare agli errori e alle sottovalutazioni del DAP nella gestione delle richieste di benefici da parte di detenuti dell’alta sicurezza o per il 41 bis, che, in corrispondenza della pandemia, si sono moltiplicate. Su questo e non certo sul lavoro della magistratura la stessa commissione Antimafia ha deciso di indagare. Detto questo resta il punto di come rispondiamo al clamore che hanno suscitato, in particolare, alcune scarcerazioni. Questo non deve e non può rischiare di tradursi nell’idea di uno Stato che ha abbassato la guardia nella lotta alla mafia. È un problema che riguarda tutti coloro che hanno a cuore la battaglia contro la criminalità organizzata. Affrontare questa questione riproducendo la narrazione di una contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sbagliato. Non è questo il tema. Il tema è come mettiamo i capi mafia nelle condizioni di non nuocere più alla società pur rispettando il loro inalienabile diritto alla salute. Per comprendere meglio e evitare di considerare la norma contenuta nell’ultimo decreto come una violazione dell’autonomia della magistratura di sorveglianza, o peggio un atto ostile o, addirittura, eversivo perché interverrebbe con decreto su una modifica delle competenze, vorrei stare al merito. C’è una norma dell’ordinamento carcerario (l’articolo 4bis al comma 3 bis) che dice che permessi premio e misure alternative al carcere non possono essere concessi se il procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunicano che permangono collegamenti con la criminalità organizzata. Con la norma contenuta nel decreto si chiede semplicemente ai magistrati di sorveglianza, prima di prendere decisioni, di informare questi soggetti in modo che essi possano verificare se permangono collegamenti dei detenuti con le mafie che renderebbero pericolosa la scarcerazione. Mi pare una norma di buon senso. Trarre da questa misura l’idea che governo e Pd sono appiattiti su posizioni giustizialiste mi pare, onestamente, difficile.
Senatore Mirabelli, vorrei farle solo una domanda. Secondo lei fare uscire dal carcere un signore di 80 anni, gravemente malato di tumore, che ha già scontato quasi per intero la sua condanna a 18 anni (gli mancano 8 mesi) che non ha mai ucciso nessuno né mai ha ordinato un omicidio (condannato per estorsione) equivale a mettere in libertà il gotha dei boss mafiosi? Sa perché glielo chiedo? Io penso che il giustizialismo sia questo: lanciare allarmi infondati e chiedere misure d’eccezione per fronteggiarli. A spese dei diritti di tutti. Lei non crede che il suo partito, in questi giorni, sia corso appresso ai giustizialisti? Piero Sansonetti
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020. Un equivoco. Sgradevole quanto si vuole ma pur sempre un equivoco, niente di più. Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede prova a chiudere l' incidente con l' ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo. Icona grillina della prima ora, e forse anche per questo individuato come possibile governatore delle carceri italiane dallo stesso ministro della Giustizia, appena insediatosi nel giugno 2018. Ma nel giro di ventiquattr' ore la proposta fu ritirata, con un «voltafaccia» di cui il magistrato non ha mai avuto spiegazioni. Oggi una spiegazione è arrivata: quella del malinteso, per l' appunto. Che però non può bastare, perché non si può declassare a fraintendimento la ritrattazione di un' offerta così importante che nemmeno il ministro smentisce. Né è credibile immaginare che l' altro incarico prospettato a Di Matteo e improvvisamente ritenuto «più adatto» (il posto di Direttore generale degli Affari penali del ministero), potesse essere considerato equivalente o addirittura migliore. Dire che «fu l' ufficio di Giovanni Falcone» è solo un altro slogan, perché nel frattempo quell'ufficio è stato depotenziato, ha cambiato collocazione e competenze, e si sarebbe dovuto mettere mano a una riforma per riportarlo a qualcosa di equiparabile a quello che era. Le ricostruzioni dei due contendenti divergono soprattutto sulla percezione avuta da Di Matteo nel primo colloquio con il ministro, il quale aveva capito che «fossimo concordi su quella collocazione», mentre il magistrato intendeva accettare l' altra. Ma al di là dell'equivoco più o meno credibile, il nodo che Bonafede non ha sciolto resta un altro: perché ha cambiato idea rinunciando a nominare l'ex pm della trattativa Stato-mafia al vertice dell' Amministrazione penitenziaria? Scelta legittima e persino insindacabile, per carità. Se però si decide di darne conto - sia pure attraverso una irrituale telefonata semi-notturna in diretta televisiva, in risposta a un' altrettanto irrituale chiamata in cui il magistrato ha svelato il retroscena taciuto per due anni - la motivazione dev'essere almeno verosimile. Bonafede s'indigna all'insinuazione che il dietrofront fu dovuto alle proteste dei detenuti mafiosi per il temuto arrivo di Di Matteo, e ne ha tutto il diritto. Tuttavia un' altra ragione ci deve essere per aver virato, dalla sera al mattino, su un altro candidato: Francesco Basentini, nome che al popolo grillino diceva poco o niente. Non per questo non adatto all' incarico, sebbene i due anni di gestione e l' epilogo consumatosi pochi giorni fa possano legittimare i dubbi. Ma continua a mancare un chiarimento. Divenuto ormai ineludibile secondo i canoni istituzionali, prima ancora che del Movimento Cinque Stelle di cui Bonafede guida la delegazione governativa. Se il ministro non avesse replicato all' irruzione di Di Matteo (anch' essa discutibile, visto il ruolo istituzionale che ricopre da componente del Consiglio superiore della magistratura), o si fosse limitato a respingere ogni sospetto rivendicando la propria autonomia nelle scelte politiche di così alto livello, avrebbe forse potuto chiudere il caso. Con spiegazioni poco plausibili invece no. È possibile che la repentina marcia indietro del ministro su Di Matteo sia dovuta a qualche consiglio arrivato nel breve intervallo tra la prima e la seconda proposta, come ipotizzato dallo stesso magistrato. Ma pure in questo caso, visto che ormai l' episodio è stato squadernato in diretta tv, sarebbe meglio dirlo. Senza necessità di svelare altri particolari. Un ripensamento, autonomo o indotto, non è motivo di scandalo. Basta essere chiari, una volta che ci si inerpica sulla strada della trasparenza. Sempre più invocata che praticata, secondo vizi antichi che nemmeno la politica sedicente nuova riesce a scrollarsi di dosso.
I dubbi e le vergogne sulla querelle Bonafede-Di Matteo. Troppe le domande serie e pesanti senza risposta in una storia che sarebbe costata la crisi per qualsiasi Governo di centrodestra e che oggi passa quasi sotto silenzio. Maurizio Tortorella il 6 maggio 2020 su Panorama. Tanti dubbi, di certo qualche bugia e alcune omissioni, e tutt'intorno giornali e tv immersi un clima di fischiettante disattenzione, come se la querelle che ha opposto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il magistrato antimafia Nino Di Matteo fosse questione irrilevante. I fatti: domenica sera, a Non è l'Arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti su La7, si parlava di carceri e mafiosi liberati, e dei disastri combinati negli ultimi mesi dal Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, affidato dal ministro al dimissionario Francesco Basentini. A un certo punto, però, Di Matteo chiama in diretta e rivela una storia che, da sola, farebbe cadere qualsiasi governo di centrodestra. Il pm palermitano, che dal 2019 siede come membro togato nel Consiglio superiore della magistratura (per la corrente fondata da Pier Camillo Davigo), rivela che nel giugno 2018 Bonafede, appena insediatosi al ministero come ministro guardasigilli del primo governo Conte, l'aveva chiamato per proporgli di diventare "o il capo del Dap, o in alternativa il direttore generale degli Affari penali". Di Matteo ricorda di aver chiesto 48 ore di tempo per rispondere. Poi sottolinea con forza un particolare di gravità assoluta: "Nel frattempo" , dice, "e questo è molto importante che si sappia, alcune note informative redatte dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap". Quelle reazioni, ovviamente, erano state più che negative. "Trascorse le 48 ore, o forse già l'indomani" continua Di Matteo nella telefonata in diretta "io andai a trovare Bonafede perché avevo deciso di accettare la nomina al Dap. Il ministro, che pure fu molto cortese, mi disse però che ci aveva ripensato, che aveva pensato di nominare per quel posto Basentini, e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli Affari penali nel quale mi vedeva meglio". Il magistrato conclude: "Io rimasi colpito da quell'improvviso cambiamento di proposta. Il ministro ci aveva ripensato, o forse qualcuno l'aveva indotto a ripensarci; questo io non lo posso sapere. Il giorno dopo gli dissi di non contare su di me, perché non avrei accettato". Una rivelazione sconvolgente e sconcertante, insomma: uno dei pubblici ministeri più vicini al Movimento 5 stelle, l'uomo che gli stessi Cinque stelle considerano un'icona dell'antimafia, ipotizza oggi a freddo che il ministro grillino della Giustizia due anni fa avesse subìto pressioni che l'avrebbero indotto a cambiare idea sulla sua nomina al Dap. Sono affermazioni tanto gravi da indurre Bonafede a intervenire nella trasmissione, a sua volta in diretta. Il ministro si dice "esterrefatto" di quanto ha sentito, però conferma tutto il racconto di Di Matteo. Gli contesta solamente «l'idea che io, in virtù di chissà quale paura sopravvenuta, avrei ritrattato la mia proposta: è un'idea che non sta né in cielo né in terra». Così dice Bonafede, aggiungendo però una frase ambigua: «È una percezione, legittima, del dottor Di Matteo». Il ministro conclude facendo leva soprattutto sulla proposta alternativa che due anni fa ha fatto a Di Matteo: "Gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli Affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia, il ruolo ricoperto da Giovanni Falcone". Con queste parole, Bonafede cerca insomma di dimostrare di aver voluto a tutti i costi accanto a sé Di Matteo. È come se dicesse: io gli ho proposto il massimo tra quel che avevo a disposizione, ma alla ne è stato lui a non accettare. Questo, però, non corrisponde al vero. Perché nel giugno 2018, quando Bonafede s'è appena insediato, la direzione degli Affari penali del ministero della giustizia che nel maggio 1991 il ministro Claudio Martelli aveva affidato a Falcone in quanto «cabina di regia» del ministero, non esiste più. Meglio: non è più quella da quasi vent'anni, è stata depotenziata e ridimensionata. Dal 1999, cioè dalla riforma della Pubblica amministrazione di Franco Bassanini, il ministero della Giustizia si regge su quattro Dipartimenti che sotto di sé hanno varie direzioni generali: questi sono uffici secondari, burocratici. E la direzione generale degli Affari penali che Bonafede vorrebbe dare a Di Matteo è proprio uno di questi uffici. Quindi, se è plausibile che l'importante guida del Dap venga offerta a un magistrato della caratura di Di Matteo, l'altra proposta - quella della direzione degli Affari penali - è inverosimile. E è appena ammissibile che Bonafede potesse ignorarlo nelle sue prime settimane al ministero, due anni fa. Ma è del tutto impossibile che il ministro grillino possa continuare a non saperlo oggi: è anzi letteralmente incredibile che il ministro continui a fare confusione tra un suo capo Dipartimento e un direttore generale. Deve sapere per forza quanto sono diversi quei due ruoli: il primo, per esempio, parla direttamente con il ministro, mentre il secondo no; il primo ha uno stipendio di 320.000 euro, il secondo ne guadagna 180.000. Sull'importanza della direzione generale offerta a Di Matteo, quindi, Bonafede non dice il vero. Ma c'è di peggio: perché nel giugno 2018 la direzione generale degli Affari penali ha già un titolare, e quindi Bonafede non può nemmeno offrirla a Di Matteo. Tre mesi prima, infatti, e per l'esattezza il 21 marzo 2018, il suo predecessore Andrea Orlando l'ha affidata a un serio magistrato, Donatella Donati: e dato che si tratta di una nomina triennale, costei è ancora in quel ponto, tecnicamente inamovibile no al marzo 2021. C'è chi tenta oggi di censurare la gravissima querelle tra Di Matteo e Bonafede (il Tg1 non ne ha nemmeno fatto cenno) o di derubricarla a banale "equivoco" tra i due. L'ha scritto ieri, per esempio, il Fatto quotidiano, negli ultimi mesi divenuto particolarmente filogovernativo e lo-grillino. Il suo direttore Marco Travaglio, di solito accurato e documentato, nell'editoriale di ieri ha scritto: "Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l'equivalente della direzione affari penali (che già era stata di Falcone) o il Dap". E continua a difendere a spada tratta Bonafede, aggiungendo che "chi vuole compiacere i boss non ore a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Claudio Martelli agli Affari penali, non al Dap". Ma questo non corrisponde al vero, come abbiamo visto. E anzi accende il neon di un altro punto interrogativo sul comportamento del ministro nel giugno 2018. Perché in quel momento Bonafede avrebbe la possibilità di offrire a Di Matteo, in alternativa alla guida del Dap, una poltrona davvero importante, un ruolo che assomiglia molto da vicino a quello affidato nel 1991 a Falcone: è il posto di capo del Dag, il Dipartimento affari di giustizia. A metà del giugno 2018, quando il ministro parla e s'incontra con il magistrato antimafia, il responsabile (/) / del Dag è ancora da nominare. Bonafede lo sceglierà soltanto il 27 di quel mese. Non sarà Di Matteo, ma Giuseppe Corasaniti, procuratore aggiunto della Cassazione. Certo, sulla questione restano irrisolti molti altri dubbi. Possibile che i grillini accettino senza problemi che un'ombra così grave oscuri il loro ministro della Giustizia? E com'è possibile che il presidente della Repubblica non abbia almeno chiesto chiarimenti? Va ricordato, in proposito, che Sergio Mattarella è presidente del Csm, di cui Di Matteo fa parte: è possibile che il Consiglio non abbia sentito la necessità di fare chiarezza su un tema così importante? Ma le domande riguardano anche Di Matteo: perché parla soltanto oggi, a quasi due anni dalla vicenda? Lo fa perché, come ha scritto qualcuno, oggi avrebbe voluto essere chiamato per il posto di capo del Dap, lasciato libero dal dimissionario Basentini? E ancora, visto che Di Matteo è uno dei pubblici ministeri del controverso procedimento palermitano sulla presunta "Trattativa" fra Stato e Cosa nostra, partita proprio sulla gestione dei capi di Cosa nostra in carcere, e visto che in qualche misura insinua che il ministro della Giustizia abbia assoggettato le sue scelte a quel che accadeva in prigione, tra i boss mafiosi, perché in questi due anni non ha adottato alcuna iniziativa?
Dagospia il 7 maggio 2020. Testo di Paolo Cirino Pomicino. Una Italia confusa e smemorata. La confusione. La denuncia fatta da Nino di Matteo nella trasmissione di Giletti circa pressioni da parte di detenuti mafiosi sul ministro della giustizia Alfonso Bonafede, vecchio dj siciliano, perché non nominasse a capo della polizia penitenziaria lo stesso di Matteo è una notizia di reato. E tanto più lo è in quanto di Matteo riferisce che quelle pressioni fecero addirittura cambiare una decisione già assunta dallo stesso ministro. Insomma un attentato ad un corpo dello Stato e chi lo dice è un magistrato senza macchia e senza paura. Il perché il di Matteo non abbia segnalato alla procura di Roma questo episodio è un mistero visto che lo stesso reato lo ha contestato ad un autorevole gruppo di carabinieri, dal generale Mori al generale Subranni passando per il capitano de Donno. E meraviglia che essendo diventata la notizia di pubblico dominio, ancora oggi ne ’Palermo ne’ Roma se ne stiano interessando aprendo una indagine. La smemoratezza. Oggi il fatto quotidiano ricorda il decreto Andreotti con il quale furono riarrestati i mafiosi del maxi processo intentato da Giovanni Falcone che erano usciti per decorrenza dei termini. Quel decreto però non fu nel giugno del 1991 come ricorda il Fatto ma nel settembre 1989 (Andreotti-Vassalli) e Scotti, che racconta fantasie, non era neanche al governo mentre nel parlamento Luciano Violante lo contrasto’ con durezza inimmaginabile come risulta dagli atti parlamentari. Passata la pandemia alcuni dovrebbero andare in una confortevole residenze per anziani.
L'intervista all'ex direttore del Sisde. Intervista a Mario Mori: “Parole Di Matteo aberranti, politica tace perché ha paura dei magistrati”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2020. «Ma come si permette un magistrato della Repubblica di attaccare il ministro della Giustizia in diretta televisiva?». Mario Mori, generale dei carabinieri in pensione, ex comandante del Ros e direttore del Sisde, da qualche decennio è imputato in servizio permanente effettivo presso la Procura di Palermo. Tre i processi aperti contro di lui dai magistrati siciliani. Nel primo l’accusa era di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Con Mori era imputato il colonnello Sergio Di Caprio, alias il capitano Ultimo. Il processo si è concluso con l’assoluzione per entrambi. Nel secondo l’accusa era di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Coimputati erano il colonnello Mauro Obinu e il generale Giampaolo Ganzer, successore di Mori al Ros. Di Matteo, che rappresentava la pubblica accusa, aveva chiesto una condanna a nove anni di carcere. L’impianto dell’accusa si basava essenzialmente sulla testimonianza, dimostratasi inattendibile, di Massimo Ciancimino. Assoluzione per tutti, sia in Tribunale che in Corte di Appello. Infine c’è il processo Trattativa Stato-mafia. Nel dibattimento, all’inizio condotto dall’allora procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, l’accusa è stata rappresentata nuovamente da Di Matteo. Ad aprile del 2018 la sentenza di primo grado con la condanna a dodici anni di carcere. L’appello è in corso.
Generale, lei è critico con Di Matteo per via dei suoi processi?
«Guardi, le mie vicende processuali esulano dal giudizio sulle parole pronunciate di Di Matteo che, voglio ricordarlo, ha di fatto accusato il ministro di non averlo nominato al vertice del Dap a causa del “condizionamento” dei boss al 41 bis».
Una nuova “trattativa”?
«Quello che è accaduto l’altra sera in tv è semplicemente aberrante. Io che ho qualche anno sulle spalle non ho memoria di un magistrato che si rivolge a un ministro con quei modi. È mancato totalmente il senso delle istituzioni».
Lei però adesso esprime giudizi molto duri.
«Io parlo ora che sono in pensione. Quando ero in servizio non mi sono mai permesso di criticare i miei comandanti o l’autorità politica.
Il colonnello Di Caprio, suo stretto collaboratore, ha “difeso” Di Matteo stigmatizzando chi ha ostacolato la sua attività di magistrato».
Adesso è in pensione anche lui.
«Di Caprio esprimeva giudizi critici anche quando era in servizio…E ha sbagliato. Se vuoi criticare i tuoi superiori o chiunque altro, ti togli la divisa. Non puoi venire meno al giuramento di fedeltà prestato alle istituzioni».
Crede che ci sia una sorta di “sudditanza psicologica” nei confronti del dott. Di Matteo?
«Io non ho mai creduto alla sudditanza psicologica. Penso invece che molti abbiano una grande coda di paglia. Soprattutto la classe politica».
Sono terrorizzati?
«È impossibile esprimere una critica nei confronti di un magistrato in questo Paese. Tutti hanno paura. Adesso se mi espongo chissà cosa succederà, si domandano».
Il centrodestra ha messo nel mirino il ministro della Giustizia chiedendone le dimissioni.
«E sta sbagliando. Perché attaccare Bonafede è come sparare sulla Croce rossa. È Di Matteo a dover essere criticato. L’unico che ha preso posizione sulla vicenda è stato Armando Spataro, un magistrato in pensione».
Non è proprio possibile fare nulla?
«Siamo indifesi. L’ultimo pm della Procura di Guastalla ha un potere immenso. Può mettere sotto indagine il presidente del Consiglio. Anzi, pure il Papa. Chi ha il coraggio di dire qualcosa?»
“Tutti dentro!”. Bonafede dice che l’emergenza virus è passata e vuol riempire le carceri. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 7 magio 2020. Il guardasigilli segue le sirene dei “professionisti dell’antimafia” e studia il modo di far tornare in cella i detenuti messi ai domiciliari dai magistrati di sorveglianza. È in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41 bis». La notizia più importante il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la riserva per la fine del suo intervento alla Camera. È in Aula il Guardasigilli per rispondere per rispondere all’interrogazione, presentata dal deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, sullo “scontro” in atto tra via Arenula e il magistrato Nino Di Matteo sulla nomina del Capo del Dap del giugno 2018. Bonafede risponde colpo su colpo alle accuse mosse dalle opposizioni e alle «illazioni» sul suo operato avanzate in tv proprio dall’ex pm palermitano. Ma alla fine cede alle pressioni interne ed esterne al suo partito, il Movimento 5 Stelle, e annuncia la retromarcia. I 376 detenuti per mafia beneficiari delle misure alternative a causa dell’emergenza covid torneranno in galera. Oltre la metà di loro, 196, non ha ancora una condanna definitiva. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti in attesa del giudizio di primo grado. Bonafede, dunque, torna sui suoi passi per non finire impallinato in Aula ( a breve potrebbero arrivare mozioni di sfiducia nei suoi confronti dalle opposizioni ma anche da Italia Viva) ma prima prova a togliersi qualche sassolino dalla scarpa. «Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza, diretta o indiretta, nella nomina del capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria», scandisce a Montecitorio, nel tentativo di confutare una volta per tutte il “teorema Di Matteo”, secondo cui il Guardasigilli avrebbe scelto un altro magistrato alla guida del Dap dopo la «reazione di importantissimi capimafia» alla notizia di un possibile arrivo del pm della “Trattativa”. «Ogni ipotesi o illazione emersa in questi giorni è del tutto campata in aria», spiega Bonafede, «perché, come emerso dalla ricostruzione temporale dei fatti, le dichiarazioni di alcuni boss erano già note al ministero dal 9 giugno 2018 e quindi ben prima di ogni interlocuzione con il diretto interessato». Il ministro definisce poi «surreale» il dibattito di questi giorni, anche se per attaccare deve difendersi. E ribadire alcuni concetti già espressi nelle ore precedenti. A Di Matteo Bonafede avrebbe voluto affidare «o il vertice dell’amministrazione penitenziaria oppure un ruolo che fosse in qualche modo equivalente alla posizione ricoperta a suo tempo da Giovanni Falcone, a seguito di riorganizzazione», cioè il direttore degli Affari penali del ministero. E per l’inquilino di Via Arenula, proprio questo secondo incarico calzava a pennello per il pm antimafia, anche «perchè avrebbe consentito al dottor Di Matteo di lavorare in via Arenula, al mio fianco». Il Guardasigilli pulisce gli schizzi di fango arrivati in questi giorni, nella convinzione di non dover dimostrare a nessuno il suo impegno contro le mafie. «La linea della mia azione da ministro è stata, è, e sempre sarà improntata alla massima determinazione nella lotta alla mafia», continua in Aula. «Basta semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla Spazzacorrotti fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della Direzione nazionale e delle Direzioni distrettuali antimafia sulle richieste di scarcerazione». E infine mete in chiaro la supremazia della politica sulle chiacchiere: «Anche con riferimento alla recente nomina del nuovo Capo Dipartimento, ho seguito mie valutazioni personali nella scelta, la cui discrezionalità rivendico». Ma alle opposizioni la risposta del ministro non basta. Lega e Fratelli d’Italia chiedono maggiori chiarimenti a Bonafede, mentre per Forza Italia è il responsabile “Giustizia” Enrico Costa a replicare in Aula. «Nel premettere che noi consideriamo inappropriato che un membro del Csm utilizzi una trasmissione televisiva per accusare il Guardasigilli di essersi piegato alla mafia», dice il deputato azzurro, «il ministro della Giustizia ha una diretta responsabilità grande come una casa: aver legittimato, coccolato e rafforzato personaggi che mettono sotto i piedi le garanzie, la presunzione di innocenza, che usano i mass media per rafforzare la loro immagine e le loro inchieste, che sparano a zero sulle istituzioni e sui loro rappresentanti», è l’ammonizione. Ma il passo indietro del ministro sulle misure alternative fa tirare un sospiro di sollievo al capo politico del Movimento, che in mattinata aveva annunciato, ben prima di Bonafede, il provvedimento “correttivo”. La linea Di Matteo ha avuto comunque la meglio.
Il retroscena. Decreto liquidità, spunta la norma salva-Davigo. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Il governo rischia di cadere sulla giustizia. Anche se la ragione, come ha detto Marco Travaglio, è tutta un colossale equivoco. Il centrodestra ha presentato una mozione di sfiducia per il ministro Alfonso Bonafede e non per quello che si può pensare. Non per il suo giustizialismo, per aver abolito la prescrizione, per essere responsabile di 13 morti nelle carceri, ma per “aver liberato i mafiosi“. Una cosa nuova, inventata da giornali e politici. In questo clima di caos Bonafede appare come ministro liberale e rischia di cadere per questo. Ma scavando abbiamo scoperto che la questione tra il ministro e l’ex pm Nino Di Matteo è nata per una poltrona a cui ambiva il membro del Csm, quella del Dap che porta un sacco di vantaggi economici. Ma oggi scopriamo anche un’altra cosa. Il capo di Di Matteo, che è Piercamillo Davigo, a settembre compie 70 anni e per questo motivo perderebbe la sua poltrona al Csm che, naturalmente, vuole mantenere. Ma la legge è chiara: chi ha 70 anni termina il mandato. Così nel decreto liquidità, che serve per contrastare il danno economico dovuto al Coronavirus, per dare i soldi a chi sta in difficoltà, c’è un emendamento all’articolo 36 bis che recita così: “Al fine di assicurare l’espletamento dei compiti assegnati dalla legge ai rispettivi servizi di preminente interesse generale, […] è aumentata di due anni l’età di collocamento d’ufficio a riposo per raggiunti limiti d’età come previsto dai rispettivi ordinamenti […] dei magistrati in servizio alla data del 9 aprile 2020“. Cosa per cui Davigo sarebbe salvo. Un emendamento infilato tra buoni pasto a chi non può mangiare e sostegno alle imprese che stanno fallendo. Pare che Bonafede non sia d’accordo a questo emendamento e Di Matteo, che è un soldato di Davigo, è furibondo e tutto ciò rischia di far saltare il governo.
Il retroscena: perché Pd e Fdl si sono uniti per salvare Davigo. Giorgio Varano su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Continua il rapporto ombroso tra la politica e la magistratura. Mentre prosegue il silenzio imbarazzato e imbarazzante del CSM sulle esternazioni del proprio consigliere in carica Di Matteo contro il Ministro della Giustizia (nate a causa di aspettative tradite), la poca limpidezza dei rapporti tra magistratura istituzionale e politica può considerarsi persino peggiorata rispetto alla crisi che ha travolto il CSM mesi orsono. Per superare la crisi della magistratura, ormai sotto gli occhi di tutti, occorre partire dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, riforma costituzionale ineludibile. La critica mossa a questa riforma, da parte della magistratura inquirente, si fonda su un dogma: il pubblico ministero sarebbe sottoposto all’esecutivo! Quando viene chiesto perché ed in quale modo, si viene trattati da eretici e non si ottengono spiegazioni, come per ogni dogma degno di accettazione fideistica. Appare evidente che il problema attuale è l’esatto contrario: la necessità di separare le carriere tra magistratura e politica. Sono proprio alcuni pubblici ministeri che hanno aspettative dalla politica, non create certamente dal nulla, ma nascenti da una serie di rapporti personali e politici che poi portano o alla realizzazione di quelle aspettative con relativi ringraziamenti, o quando vengono tradite a reazioni scomposte come quelle del Dott. Di Matteo. Dunque il pericolo di sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo può nascere solo dai comportamenti di alcuni pm, non certo da una riforma costituzionale che darebbe finalmente in parte attuazione al giusto processo. Basterebbe, per fare smettere la commistione magistratura-politica, interrompere la chiamata dei magistrati nei palazzi della politica e dei ministeri, rimandando le centinaia di magistrati fuori ruolo a lavorare nei tribunali e nelle procure (dove ce n’è un gran bisogno, vista la cronica scopertura degli organici), e sostituendoli con dei professionisti esperti del settore legislativo e legale. Questo rapporto insano tra politica e magistratura è un tema sempre caldo che in questi giorni è diventato esplosivo. Alcuni partiti politici – su stimolo di chi? – stanno tentando di interferire ancora una volta sulla composizione del CSM, questa volta con alcuni emendamenti, (nientemeno che al decreto per il Covid) al momento dichiarati inammissibili, per allungare di almeno due anni la durata di alcune cariche. Dopo l’estate il Dott. Davigo sarà collocato a riposo per raggiunti limiti di età, e pertanto dovrà decadere dalla carica di consigliere del CSM. Lo dice la legge, lo ha detto il Consiglio di Stato (per un caso analogo), lo dice l’opportunità politica e istituzionale di non avere ancora in carica un consigliere togato non più giudicabile sotto il profilo disciplinare perché in pensione come magistrato (mica come Di Matteo!). Cosa dovrebbe accadere? Al suo posto subentrerebbe il secondo dei non eletti. In un organismo normale sarebbe una inezia non degna di interesse, ma in un organo di rilievo costituzionale che decide sulle nomine degli uffici giudiziari e quindi sull’amministrazione della giustizia è un argomento di grande interesse per il rapporto tra i poteri dello Stato e quindi anche per la nostra democrazia. Prescindiamo dalle persone, anche perché alcune le vorremmo sempre in TV (ho visto dal vivo il confronto tra Gian Domenico Caiazza e Piercamillo Davigo, e ne vorrei vedere ancora, ma temo non accadrà…). Il problema sono gli equilibri interni del CSM. Il secondo dei non eletti che dovrebbe subentrare al Dott. Davigo non è della corrente di Autonomia e Indipendenza, che quindi vedrebbe diminuire la propria rappresentanza all’interno dell’organo di governo della magistratura a favore di un’altra corrente della magistratura e dunque il proprio peso sulle nomine. Può la politica favorire una corrente, a discapito di un’altra? Può inserirsi nei risultati elettorali del CSM? Può influenzare gli equilibri di rappresentanza? Può creare una norma “ad correntem”? Può incidere sulle future nomine dei capi degli uffici giudiziari? Perché Partito Democratico e Fratelli d’Italia si sono uniti in questa volontà politica, presentando emendamenti simili? Queste domande, anche un po’ inquietanti nella loro genesi, se l’è poste anche l’Associazione Nazionale Magistrati, con una risposta univoca: no, la politica non può farlo e la magistratura deve dire no. E mentre l’ANM interviene contro qualsiasi favoritismo verso un suo past president, il Consiglio Superiore della Magistratura tace. Tacciono in pubblico anche le correnti, alcune delle quali interrompendo di colpo una certa assidua e scomposta grafomania degli ultimi tempi.
Davigo querela Il Riformista, emendamento per prolungare carriera era a sua insaputa. Piero Sansonetti de Il Riformista il 14 Maggio 2020. Piercamillo Davigo è molto arrabbiato con noi perché noi abbiamo scritto che era molto arrabbiato con Bonafede perché Bonafede era molto arrabbiato con lui per via di un emendamento alla legge rilancia-Italia, il quale emendamento – presentato da Fratelli d’Italia e in forma identica dal Pd – prevedeva il rinvio di due anni della pensione di Davigo. Come vedete è un giro vorticoso e un po’ cacofonico di arrabbiature che si inseguono. Davigo dice che invece queste arrabbiature non ci sono mai state (tranne la prima). E che lui non sapeva niente dell’emendamento di Fratelli d’Italia e del Pd sulla sua pensione. Noi ci crediamo a Davigo, anche perché lui è un magistrato e i magistrati sono persone che non dicono bugie (anche Di Matteo è un magistrato). L’emendamento di Fratelli d’Italia e quello del Pd, evidentemente, sono stati presentati all’insaputa di Davigo. Del resto noi siamo tra quelli che credettero senza tanto discutere all’ex ministro Scajola quando disse che certi pagamenti per la ristrutturazione della sua casa (mi pare) furono eseguiti a sua insaputa. Se uno fa delle cose e non te le dice, è chiaro che tu non puoi saperle. E così è successo che un gruppo di deputati di Fratelli d’Italia, che si era riunito per esaminare il decreto con le misure economiche a favore della ripresa dopo il tonfo del Covid, si è accorto che tra quelle misure mancava un provvedimento per alzare a 72 anni la pensione dei magistrati. Devono essersi detti: va bene i finanziamenti alle imprese, va bene l’aiuto ai lavoratori, le casse integrazioni, i prestiti, i bonus baby sitter, ma se poi non teniamo al lavoro i magistrati che compiono 70 anni, magari li compiono a ottobre, come si fa a garantire la ripresa economica? E così in fretta e furia hanno scritto quell’articolo 36 bis del decreto che prevedeva l’aumento dell’età pensionabile di 2 anni per i magistrati. Cosa c’entra Davigo? Niente, è logico: niente. Fatto che lui stesso ad ottobre compirà 70 anni e che se non si fa una leggina al più presto possibile per rinviare la pensione lui debba andare in pensione a ottobre, e che se lui va in pensione deve lasciare il seggio al Csm, e che se lascia il seggio al Csm, oltretutto, al suo posto entra il primo dei non eletti che fa parte di una corrente diversa da quella di Davigo, e che se ciò avviene in Csm non c’è più la maggioranza destra-sinistra che sta governando in questi mesi, e cambiano tutti i rapporti di forza…è chiaro che tutto questo è una pura e semplice coincidenza. Del resto pare che mentre il gruppetto di deputati di Fratelli d’Italia si riuniva per controllare che ci fossero misure pro-settantenni nel decreto rilancia Italia, la stessa cosa faceva un gruppetto di deputati del Pd, e pure a loro appariva subito evidente, nelle misure previste dal governo, la clamorosa mancanza di un provvedimento per cambiare la pensione dei magistrati. E quando sono due gruppi così distanti ideologicamente tra loro ad accorgersi di un difetto di una legge, è chiaro che quel difetto è un vero e clamoroso difetto, e che va corretto subito. Poi è successo che l’emendamento è stato dichiarato inammissibile. E che Bonafede non ha fatto nulla, sembra, per salvarlo. Ma questo non ha provocato nessun malumore di Davigo, che – lui stesso ci informa – è rimasto molto sereno, anche perché siccome non sapeva niente dell’emendamento, tantopiù non ha saputo niente del fatto che l’emendamento fosse stato bocciato. Davigo ha anche annunciato che ci querelerà. Non ho capito bene perché. Dice che non è vero che lui è stato il “mandante del diverbio” tra Bonafede e Di Matteo. Di Matteo, prontamente, ha smentito lui stesso Davigo escludendo di avere avuto un diverbio con Bonafede, diverbio invece accreditato dalla dichiarazione di Davigo. Mamma mia, come litigano questi tra loro! Ormai basta che uno parla e l’altro gli dà sulla voce. Povero Davigo, diceva diverbio così per dire, si riferiva semplicemente – credo – al fatto che Di Matteo aveva accusato Bonafede di avere ceduto ai ricatti mafiosi, così come – secondo Di Matteo – fece a suo tempo Dell’Utri, che infatti poi, per questa stessa ragione, è stato tenuto in prigione per cinque anni filati. Non era un diverbio, santo cielo! Il fatto è che neanche noi abbiamo mai parlato di diverbio. E tantomeno di mandante. Chissà dove le ha lette Davigo queste due parole. Ci siamo limitati a dire che correva voce che Davigo si sarebbe arrabbiato per la caduta di quell’emendamento salva-Davigo. Non gli avevano attribuito nessuna gagliofferia, soltanto uno stato d’animo. Gli stati d’animo, per definizione, sono incerti e opinabili. Si tratta di quella parte del giornalismo che di solito viene chiamato di “retroscena”. È una parte rilevantissima del giornalismo politico. E nessun politico mai ha querelato qualche giornalista per un retroscena. Figuratevi che giorni fa avevamo accreditato l’ipotesi che a bloccare la nomina di Di Matteo al Dap, nel 2018, fosse stato Mattarella. Il Quirinale ci ha fatto sapere che non era vero. Che Mattarella si era guardato bene dall’intervenire. Non ci ha mica querelato. Forse però la costituzione materiale, in questo Paese, prevede che i retroscena sono ammissibili per tutti, ma non per i magistrati. Loro vanno lasciati in pace. Non tutti, magari. Per esempio il Procuratore Generale di Catanzaro, che aveva osato criticare Gratteri, è stato punito con una velocità fulminante. Degradato e spedito a 1000 chilometri da Catanzaro. Trattato quasi quasi da giornalista, mica da magistrato… Chissà perché. E chissà perché a Di Matteo che ha accusato di intelligenza con la mafia il tribunale di sorveglianza di Milano nessuno dice niente. Beh, anche tra magistrati bisogna distinguere. Molti sono assai più uguali degli altri magistrati…
P.S. 1. Al solito ho trovato il modo per polemizzare con Gratteri. È più forte di me. Al quale Gratteri comunque va riconosciuto un merito: non querela mai i giornalisti. Dimostra, almeno in questo, di avere un senso della sua funzione istituzionale piuttosto alto. Non tutti sono come lui.
P.S. 2. Davigo potrebbe fare una cosa molto semplice per dimostrare di aver ragione: dichiarare pubblicamente che, comunque, a ottobre se ne va in pensione.
Da liberoquotidiano.it il 20 maggio 2020. Non sarà Piercamillo Davigo a sostituire Alfonso Bonadfede al Ministero della Giustizia. Il magistrato più amato dal Movimento 5 Stelle, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, prima evita di entrare sul caso che potrebbe portare alla sfiducia del Guardasigilli grillino: "Non so niente di cosa sia avvenuto tra Bonafede e Di Matteo". Poi. incalzato da Paola Tommasi che gli chiede di una sua possibile discesa in campo, ribadisce secco: "Lo ripeto da anni, i magistrati non devono fare politica. Noi ragioniamo in termini completamente differenti dai politici: noi decidiamo se uno è innocente o colpevole, non se una cosa è conveniente o dannosa". Poi l'aneddoto che stupisce anche i presenti: "Ho già rifiutato una proposta di diventare ministro, dal primo governo Berlusconi (nato quando l'inchiesta Mani Pulite era ancora in corso, ndr)". Davigo non spiega se a chiederlo è stato lo stesso Silvio Berlusconi, ma rivela la sua risposta: "Non puoi indossare la maglia di una squadra se nel primo tempo facevi il guardalinee".
Roberto Cota linciato perché la moglie è un giudice serio, scaricato anche dai leghisti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Sui social è iniziato da qualche giorno il linciaggio del leghista Roberto Cota. Che oggi è fuori dalla ribalta politica, ma è stato qualche anno fa un personaggio di prima fila. Per quattro anni ha fatto il governatore del Piemonte. Poi è finito sotto processo per la storia dei rimborsi ai consiglieri regionali. Sul suo nome fu costruito lo scandalo “delle mutande verdi”, una espressione riferita all’acquisto di articoli di vestiario coi soldi pubblici e al colore verde della Lega. In realtà Cota è stato del tutto assolto dalle accuse, in primo grado, poi condannato in appello con una sentenza che è stata cancellata dalla Cassazione. Non è – come vorrebbe Davigo – uno che l’ha fatta franca: è un esponente politico che ha pagato un prezzo altissimo al protagonismo della magistratura. Prima o poi dovremmo convincerci di questo: se uno viene trascinato nel fango da un Pm e poi risulta innocente, può a ragione considerarsi un perseguitato dalla giustizia. Stavolta però Cota viene linciato per una ragione curiosissima: sua moglie. Che ha combinato la signora? È un giudice. Ha avuto una limpida carriera come Gip e come giudice ed ora è al tribunale di sorveglianza di Milano. E le è capitato di dover giudicare sulla richiesta di scarcerazione di un detenuto (Domenico Perre) al quale restava un modesto residuo di pena da scontare e per il quale i medici avevano certificato l’incompatibilità con la vita carceraria. Lei, insieme altri due sue colleghe e a un suo collega, ha deciso di accogliere la domanda sulla base del codice penale (sempre quello scritto da Alfredo Rocco ai tempi di Mussolini, non da un gruppetto di scalmanati garantisti liberali troppo umanitari…). Apriti cielo. Si è realizzata la perfetta convergenza tra destra e sinistra. Maurizio Gasparri ha reso noto il nome della magistrata e ha chiesto addirittura la sua radiazione da parte del Csm. A quel punto si è scatenata una macchina di propaganda di sinistra e Cinque Stelle che ha iniziato a inveire contro il leghista. «Ecco qui chi sta dalla parte dei mafiosi – hanno iniziato a gridare – la giudice, quindi suo marito leghista, quindi Salvini e magari anche Meloni». Difficile a questo punto trovare qualcuno che difenda Cota e soprattutto che difenda la dottoressa Rosanna Calzolari ( è il nome della moglie: avremmo preferito non scriverlo, ma ormai è stato esposto al pubblico). La destra non se la sente, perché nei giorni scorsi ha chiesto di imprigionare mezzo mondo e di cacciare a calci nel sedere i giudici di sorveglianza. La sinistra neppure perché comunque trova ghiotta l’occasione per attaccare la Lega. Chi resta? Beh, ci sarebbe lo schieramento liberale, che potrebbe prendere le difese della magistrata. Ma a voi risulta che esista uno schieramento liberale, in Italia? Non pervenuto.
P.s. La piena anche se isolatissima solidarietà da parte di questo giornale alla dott.ssa Calzolari e anche, ovviamente, all’avvocato Roberto Cota.
Bonafede "commissaria" i giudici di sorveglianza, sono troppo umani. Angela Stella su Il Riformista il 30 Aprile 2020. «La lotta alla mafia è una cosa seria» ha detto ieri il Guardasigilli Alfonso Bonafede rispondendo al question time sulle “scarcerazioni” di boss: di fronte a «fatti allarmanti – ha proseguito – non si rimane inerti». E allora il Governo passa al contrattacco attraverso un decreto legge, in discussione nel Consiglio dei Ministri di ieri sera alle 21:30, che andrà a limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura di sorveglianza. Come? Mediante alcune importanti modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354 – Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà – . In particolare, per la concessione dei permessi e dei domiciliari nel caso di detenuti condannati per reati di grave allarme sociale come associazione mafiosa, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, terrorismo il magistrato di sorveglianza, prima di pronunciarsi, dovrà chiedere il parere del Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis, anche quello del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. «Salvo ricorrano esigenze di eccezionale urgenza – si legge del decreto – il permesso non può essere concesso