Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2020

 

LA GIUSTIZIA

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Processo sulla Morte.

Processo sul Depistaggio.

Federico Aldrovandi: "Non lo dimenticate".

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Condanne scontate.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Bossetti è innocente?

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Famiglia Sfortunata.

Solita Amanda.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tso: Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani.

Il punto su Bibbiano.

La Tratta dei Minori.

Tra moglie e marito non mettere…lo Stato.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Era Abuso…

Non era abuso…

Minorenni scomparso o in fuga.

Ipocrisia e Pedofilia.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Giustizia Giusta.

Comunisti per Costituzione.

Magistratura: Ordine o Potere?

Il Potere degli “Dei”.

“Li Camburristi”. La devono vincere loro: l’accanimento giudiziario.

L’accusa conta più della difesa.

«I magistrati onorari? Dipendenti».

Il Codice Vassalli.

Lo "Stato" della Giustizia.

La "scena del crimine".

Diritto e Giustizia. I tanti gradi di Giudizio e l’Istituto dell’Insabbiamento.

Testimoni pre-istruiti dal pm.

Le Sentenze “Copia e Incolla”.

Il Male minore. Condanna, spesso, senza colpa. Gli effetti del Patteggiamento.

Il lusso di difendersi.

Il Processo telematico.

Giustizia stravagante.

Giustizia lumaca.

Diffamazione: sì o no?

La Vittimologia.

A proposito di Garantismo.

A proposito di Prescrizione.

Prescrizione e toghe inoperose.

Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio.

Salute e carcere. 

Le Mie Prigioni.

L’ergastolo ostativo: il carcere per i Vecchi.

La Prigione dei Bambini.

Le Class Action carcerarie.

Gli scrivani del carcere.

A Proposito di Riabilitazione…

Le mie Evasioni.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Oltre ogni ragionevole dubbio.

La Giornata per le vittime di errori giudiziari.

La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo. La Cedu, il carrozzone inutile che costa 71 milioni all'anno.

L’Italia dei Ricorsi alla Corte dei diritti dell’Uomo.

Quelli che...sono Ministro della Giustizia: “Gli innocenti non finiscono in carcere”.

Invece gli innocenti finiscono in carcere. Ma guai a dirlo!

Le Confessioni e le Dichiarazioni estorte.

Storie di Ordinaria Ingiustizia.

Ingiustizia. Il caso dei Marò spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Vallanzasca spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Mesina spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Johnny lo Zingaro spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Manduca spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Luttazzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gulotta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ligresti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Carminati spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Rocchelli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Occhionero spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gino Girolimoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Formigoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso De Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cuffaro spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Armando Veneto spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Vincenzo Stranieri spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del delitto di Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del Delitto di Carmela “Melania” Rea spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del Delitto di Erba spiegato bene.

Nascita di un processo mediatico.

Processo Eni e Consip. Dove osano i manettari.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini.

La spazzacorrotti. Una norma giustizialista che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia.

I Garantisti.      

I Giustizialisti.

Gli Odiatori.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Concorso truccato per i magistrati.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

E’ scoppiata Magistratopoli.

Magistrati alla sbarra.

Gli intoccabili toccati.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caso Mattei.

Attentato alla sinagoga di Roma, una nuova pista trentotto anni dopo.

Il misterioso caso di Davide Cervia.

Il Mistero di Pier Paolo Pasolini.

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il Mistero di Ettore Majorana.

Il Mistero della Circe della Versilia.

Il Mistero di Gigliola Guerinoni: la Mantide di Cairo Montenotte.

Il mistero del delitto della Milano da bere.

L’Omicidio del Circeo.

Il Caso Claps.

Il Caso Vassallo.

Il Caso di Eleonora e Daniele: i fidanzati di Lecce.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Denise Pipitone.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero della morte di Sissy Trovato Mazza.

Vermicino: la morte di Alfredino Rampi.

Il mistero di Maddie McCann.

Il giallo della morte di Edoardo Miotti.

La morte di Emanuele Scieri.

La morte di Giulio Regeni.

Storia di Antonio Ciacciofera, il Regeni dimenticato tornato morto da Cuba.

I Ciontoli e l’omicidio Vannini.

Il Giallo di Alessio Vinci.

Il Giallo Bergamini.

L’omicidio di Willy Branchi.

L’Omicidio di Serena Mollicone.

Il Mistero di Rino Gaetano.

Il Mistero Pantani.

Il Mistero della morte di Marco Cestaro.

Il mistero della morte in auto di Mario Tchou. 

La morte sospetta del giornalista Catalano.

Il caso Wilma Montesi.

Miranda Ferrante, morte e misteri di una ballerina della Dolce vita.

Christa, delitto-scandalo della Dolce vita.

L'assassinio di Khashoggi.

Dal mare tre sub morti e cento chili di hashish.

L’Omicidio di Walter Tobagi.

Il Caso della Uno Bianca.

La Strage palestinese di Fiumicino.

Quante vie partirono da piazza Fontana…

Il Caso Pinelli – Calabresi.

L'omicidio di Mino Pecorelli.

I misteri della Strage di Ustica.

I misteri della Strage di Bologna.

I Misteri della Strage di Piazza della Loggia a Brescia.

Dubbi e bugie sulla morte di Mario Biondo.

Boulder, Colorado: il mistero della baby miss strangolata.

Racale, il mistero di Mauro Romano.

La Morte di Rosanna Sapori.

Il mistero di Fabio e Enzo spariti nel mare.

Il mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Lesotho e l’Affare di Stato. L’Omicidio di Lipolelo.

Marocco e l’Affare di Stato. Lalla Salma.

Ted Kennedy poteva essere assassinato da un piano ordito da un satanista?

La Storia di Robert Durst.

Il giallo della baronessa Rothschild.

Il caso Bebawi: il delitto di Farouk Chourbagi.

Storia del rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi.

L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.

La Morte di Marco Prato.

David Rossi: suicidio o omicidio?

Le Navi dei veleni. Il mistero della morte del capitano De Grazia.

Moby Prince, dopo 30 anni.

Il caso di Emanuela Orlandi.

Renatino De Pedis fu ucciso 30 anni fa.

I Suicidi di Carmagnola. Le tre sorelle Ferrero.

Il mistero dell’Eremita. La tragica fine di Mauro «Lupo grigio».

Massimo Carlotto e il delitto di Margherita.

Antonio De Falchi, morte a San Siro.

Il caso del sequestro Bulgari.

Il mistero irrisolto dell'uomo di Somerton.

Il Mistero del massacro di Columbine.

Il Mistero del jet malese MH370 scomparso.

Il Mistero Viceconte.

Il killer dell’alfabeto.

La banda di mostri, omicidio a Bargagli.

Antonietta Longo, la decapitata del lago.

Il mistero del naufragio del Ferry Estonia.

Il mistero della Norman Atlantic.

James Brown potrebbe non essere morto per infarto.

La saponificatrice di Correggio: una storia tra verità e leggende.

Delitto Casati Stampa, triangolo di sesso e morte.

Luciano Luberti il boia di Albenga.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

 

 

LA GIUSTIZIA

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         La Giustizia Giusta.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

La dimensione sociale della legalità e i benefici dello sviluppo del diritto positivo. Daniela Piana su Il Dubbio il 13 agosto 2020.

Un grave errore mettere in secondo piano il protocollo sottoscritto dal Consiglio nazionale forense con il ministero dell’Istruzione sul terreno della cultura del diritto. Sono ormai mesi che ci misuriamo, in modo più o meno consapevole, più o meno condiviso e chiaramente articolato, con un grande dilemma: quali sono gli strumenti che ci permettono di rendere prevedibile, ovvero determinabile, e quindi, anche, governabile in modo lineare, il comportamento sociale? Per quanto un diffuso e serpeggiante understatement emerso nel crollo delle grandi teorie – non delle grandi ideologie – sul funzionamento delle nostre società ci abbia accompagnato e ci abbia incoraggiati ad aderire ad un rassicurante evitamento delle grandi domande – “tanto, poi, non si trovano le risposte e quando le si trovano sono già oggetto di discussione e giammai di consenso, dunque inutili per prendere decisioni collettive” – questo pensiero minimo oggi ci aiuta assai poco. La realtà dei fatti ci ha sbattuto in faccia, con una violenza inedita, dapprima la questione del “Cigno nero”, poi la questione di come originare, di colpo nell’arco temporale di qualche giorno, un nomos sociale tutto nuovo, sospendendo e disapplicando i dispositivi di regolazione sociale cui eravamo abituati nel gestire le nostre vite quotidiane, gettandoci nello spaesamento di un mondo di regole artefatte, cogenti e strutturanti ( cosi ci è parso, vedendoci camminare per strada, pochi e distanziati, vedendoci cedere il passo per non incrociarci nello spazio pubblico) per poi costringerci a cimentarci di nuovo con la questione dei limiti dello strumento del diritto positivo nell’orientare, no, anzi nel determinare, i comportamenti individuali. Ben venga dunque la presentazione al pubblico della traduzione del volume di Christian List, Why Free Will is Real, avvenuta qualche giorno fa sulla Lettura. Ben venga perché con la categoria del free will ci portiamo dietro moltissime conseguenze che pesano come macigni e che al contempo ci costringono ad interrogarci su uno strumento, quello cardine della società moderna e democratica, con cui siamo propensi a regolare i comportamenti individuali: ossia lo strumento del diritto positivo. Poniamoci alcune domane a mò di esempio. I cittadini italiani hanno seguito le regole del confinamento perché prevedevano le sanzioni previste dai Dpcm che si sono susseguiti, perché percepivano nel loro campo visivo quotidiano i segni palesi del controllo pubblico esercitato dalle forze dell’ordine – e quindi ne prevedevano in modo certo il potere sanzionatorio – o perché sulla base di informazioni e di valori interiorizzati hanno aderito ad una prospettiva di tutela collettiva? Ancora: le vicende che hanno messo al centro del dibattito istituzionale la questione del rapporto fra magistratura e politica si leggono, interpretano ed esplicano nei termini di “non sufficientemente cogenti interazioni” fra le strategie individuali e le norme disciplinari, ovvero le loro applicazioni, oppure abbiamo bisogno di categorie che ci aiutino a rimettere al centro la autonomia del giudizio e, quindi, quell’insieme di norme e di valori che non sono pos( i) te nelle leggi e nelle regolazioni, ma che attengono alla integrità? Sulla stessa falsariga: la recentissima vicenda dell’utilizzo distorto dei bonus ci parla di un comportamento che avrebbe dovuto essere prevenuto – ossia impedito – dalle norme che regolano l’erogazione dei bonus oppure di un self- restraint che sia interiorizzato dalle persone che svolgono funzioni pubbliche? Sarebbe troppo facile liquidare questi interrogativi come divertissement estivi di una vagante immaginazione filosofica, che forse puo’ dare soddisfazione ad alcuni studiosi di eccellenza, come List, ma che poco ci aiuta nel governo e nella prospettazione della società di domani. Troppo facile: e quando le cose sono troppo facili, forse non sono correttamente impostate. Più adeguato ci pare sia tempo interrogarci su cosa siamo intenzionati a chiedere allo strumento del diritto positivo – sottraendolo così allo spazio della autonomia del giudizio e dell’azione regolati da meccanismi self restraining di integrità e diciamolo dalla dimensione sociale della legalità, proprio nel momento in cui la questione della disciplina e della coniugazione di comportamenti individuali con l’integrità pubblica ci appare uno dei grandi temi su cui investire per il futuro. Solo un difetto visivo che non ci possiamo concedere giustificherebbe dunque il passare a coté del protocollo recentemente sottoscritto dal Consiglio Nazionale Forense con il Ministero dell’Istruzione sul tema della cultura della legalità. Se si colgono nelle recenti esperienze fatte sul territorio italiano dagli Ordini forensi, in partenariato con le scuole, le radici di un modo di vedere la legalità nella sua dimensione sociale, che si nutre di un uso corretto delle parole per definire correttamente i comportamenti, dell’uso della prassi apprese in un percorso corale, come comportamenti che si rinforzano anche attraverso i meccanismi di controllo orizzontale – e non solo quelli verticali – come apprendimento di un diritto che ha le sue radici innanzitutto nella mente delle persone, prima che nei testi di legge, forse potremmo concederci un cauto, ma non freddo, positivo sentire, che vede nel diritto positivo una delle dimensioni della legalità, la quale sarebbe però incardinata nel senso dell’equità e della reciprocità, promosse attraverso due strumenti sui quali il Paese deve investire in modo sistematico: formazione e professionalità, interiorizzate, vissute, praticate dalle persone, governati e governanti. E deve farlo ora.

Dai siluri di Davigo al carrierismo dei pm: ecco la giustizia decadente. Errico Novi su Il Dubbio il 30 maggio 2020. L’emergenza rischia di ridurre le garanzie a fastidioso orpello. Lo dimostrano i nuovi attacchi di Davigo ai tre gradi di giudizio. E le porte dei Tribunali chiuse in faccia agli avvocati. Ma ora anche una parte dell’Anm (da Pasquale Grasso a Silvia Albano e Md) ha intuito la deriva. E chiede una riforma contro il carrierismo. Tribunali deserti, con rare eccezioni. Avvocati senza udienze. E per giunta con sostegni economici diversamente adeguati, diciamo così (e con Cassa forense costretta a metterci le pezze a colori). Riforme della giustizia spesso ispirate alla riduzione delle garanzie: vedi la nuova prescrizione. Insinuazioni colpevolistiche da settori della magistratura secondo i quali la vera causa della paralisi sarebbe nella ritrosia di penalisti e civilisti dinanzi alle mirabilie del videoprocesso.

Il colpo di scimitarra del consigliere Davigo. E come se non bastasse, pure i promemoria come l’intervento di Piercamillo Davigo giovedì sera davanti alle telecamere de La 7, quando nel duello con un attonito Gian Domenico Caiazza ha reiterato la sua diffidenza verso il modello processuale accusatorio. Il consigliere del Csm ci ha messo la consueta verve da grande intrattenitore: «L’errore italiano è stato quello di dire sempre “aspettiamo le sentenze”: se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo». Il punto è che Davigo — e non solo lui, basti pensare ad altre figure altrettanto rilevanti nella storia recente della magistratura italiana come Giancarlo Caselli — non crede nel modello accusatorio introdotto 30 anni fa dal nuovo Codice, nella formazione della prova attraverso il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità davanti a un giudice terzo. Ma fosse solo questo. Fosse questo il problema, sarebbe niente. Perché il brivido che percorre le migliaia di avvocati andate ieri a lasciare i loro codici davanti ai Palazzi di Giustizia, e a cantare l’Inno di Mameli in un disperato appello alla patria perduta (la giustizia), nasce da un timore più grave. Che la pandemia abbia sì prodotto un impulso alla semplificazione, ma nel senso di semplificare i diritti e le garanzie.

Il no al carrierismo che avanza nell’avanguardia dei magistrati. La paura è analoga e simmetrica a un’altra, radicatasi in settori della magistratura diversi da quelli che hanno in Davigo il loro leader. Sono posizioni di cui dovrà tenere conto anche il guardasigilli Alfonso Bonafede, quando presenterà in Parlamento la sua riforma del Csm (che mercoledì sarà discussa con le opposizioni, probabilmente con l’Anm e, nei giorni successivi, anche con le rappresentanze forensi, Cnf in testa). È il rifiuto di una tendenza che sclerotizza la magistratura in burocrazia, e che la rende fatalmente permeabile alle lottizzazioni. E cioè dell’eccessiva gerarchizzazione degli uffici giudiziari, da cui deriverebbe lo stesso carrierismo che fa da carburante a quegli intrecci. Ne ha parlato, in un’intervista con il Dubbio di martedì scorso, anche l’ex presidente Anm Pasquale Grasso. Il nodo è nei famosi «criteri per assicurare il merito nelle nomine». Nelle bozze da cui parte il ddl sul Csm, quelle che Bonafede aveva sottoposto agli alleati già a gennaio, ci sono molti strumenti validi, dall’obbligatorietà delle audizioni alla puntualità con cui i capi adotteranno i piani organizzativi. Meno discrezionalità, più dati di fatto: va bene. Ma il punto è che nel profondo dell’Anm avanza tutt’altra concezione. Lo si era intuito già lunedì scorso, nella riunione a distanza del direttivo Anm, per esempio dall’intervento di una componente della giunta centrale, Silvia Albano, che si riconosce in Area e, culturalmente, in Magistratura democratica: «Forse i più giovani», ha detto Albano, «non sanno qual è stato il percorso faticoso che l’associazionismo giudiziario ha dovuto affrontare perché si affermasse il valore del pluralismo, e per combattere l’assetto gerarchizzato della magistratura». Gli obiettivi delle toghe più attente alla riflessione culturale sono questi: meno gerarchie (che sono pure un po’ incostituzionali), meno carrierismo, più spazio a una vita associativa orientata a difendere «il pluralismo delle idee», vera «ricchezza della magistratura», sempre per citare Albano. E anche l’esecutivo di Md ha diffuso un paio di giorni fa un documento in cui chiede non solo che l’Anm torni alle urne prima di ottobre, ma anche di ritrovare «l’impegno associativo come impegno culturale» e, soprattutto, di smetterla con la «attenzione parossistica alla carriera», favorita dal «ritorno a una prospettiva gerarchica».

Bonafede “sorpassato a sinistra” sulla riforma del Csm. Che vuol dire? Che segmenti non marginali del mondo togato tifano per una riforma del Csm, e dell’ordinamento giudiziario, meno ispirata alla gerarchizzazione degli uffici, da cui nascono adesione al volere dei capi e ambizioni poco attente ai diritti. Il punto è che da una quindicina d’anni la politica si è innamorata dell’idea che sia più comodo interloquire con il singolo procuratore che con la schiera dei suoi sostituti. È qui che Bonafede può imbattersi in un sorprendente “sorpasso a sinistra”, sulla radicalità della sua riforma. Ed è qui che avvocatura e magistratura possono saldarsi in un’alleanza contro la giustizia ridotta a fast food del potere e dei diritti.

La vera emergenza è da sempre la “Giustizia giusta”. Valter Vecellio il 9 gennaio 2020 su Il Dubbio. Pannella, Tortora, Sciascia: ne parliamo da decenni, le soluzioni ci sono. Cassese ne ha individuate alcune sui tempi del processo e le sanzioni amministrative. Sembra che qualcuno, finalmente, si stia rendendo conto che la vera, grande, emergenza di questo paese – che pure di emergenze ne ha tante – è costituita dalla Giustizia. Sembra che molti si rendano conto che la cosiddetta riforma sulla prescrizione, fortissimamente voluta dall’attuale ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dal Movimento 5 Stelle, e da alcuni eterogenei settori della magistratura e del giornalismo, è un’offesa, un oltraggio alla civiltà giuridica, alla stessa Costituzione. Par di vederlo il povero Cesare Beccaria, chissà quante volte si è rivoltato nella tomba; e quanto mai esatta l’amara definizione di Leonardo Sciascia: “Italia, paese culla del diritto, ma ormai la sua bara…”. Accade così di vedere mobilitati personaggi fino a oggi a tutto interessati e preoccupati, ma non alla Giustizia; scendono anche in piazza, manifestano. Ricordo bene la loro irridente espressione quando li si invitava a riunioni per individuare strumenti per far fronte a questa emergenza; per quanto tempo il Partito Radicale, quello Nonviolento, Transnazionale, Transpartito, e gli avvocati sono stati lasciati soli… non muovevano un dito, nel senso letterale. Marco Pannella veniva guardato con sufficienza, una sorta di nonno un poco tocco, con quella sua mono- mania: quotidianamente ricordava l’urgenza e la gravità della questione giustizia. Ora ci dicono e ci spiegano quello che da sempre sappiamo e abbiamo cercato di dire e spiegare. D’accordo: “Meglio tardi che mai”. A patto di ammettere, di capire, che la questione della prescrizione è l’ultimo anello di una catena infinita. La giustizia giusta per cui si sono battuti Pannella, Sciascia, Enzo Tortora, richiede riforme di grande respiro: responsabilità civile del magistrato; separazione delle carriere; abolizione dell’obbligatorietà penale; robusta delegificazione. Sono le cose che auspicava, tra gli altri, Giovanni Falcone: che non a caso, prima di essere ucciso dalla Cosa Nostra, ha avuto tra i suoi più implacabili avversari, tanti suoi colleghi. Poi alcune proposte sagge e giuste di recente elencate dal giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese: i tempi del processo, tutti e tre i gradi, in un solo anno; sanzionare in via amministrativa tutto ciò che non ha vera rilevanza criminale. L’accusa affidata a persone che abbiano equilibrio e procedano con cautela, senza maxi- retate, pubblicità, gestione delle ricadute mediatiche, comunichino riservatamente ( come vuole la Costituzione) le accuse agli interessati. Questo è. Altrimenti è solo fuffa.

Viviamo in un eterno processo penale. Giancristiano Desiderio il 28 gennaio 2020 su Nicola Porro. La gogna è il carattere fondamentale del nostro tempo. Se non abbiamo qualcuno da incolpare e processare sulla pubblica piazza non siamo soddisfatti. Chi incolpiamo oggi? Chi offendiamo? Chi insultiamo? La colpa altrui non ci renderà felici ma è così utile a soddisfare il nostro risentimento che, ormai, il boia che è in noi non ne può più fare a meno. Il giustizialismo politico non è più “solo” una strumentale arma politica e giudiziaria ma è diventata la forma della coscienza immorale degli Italiani che, come ho provato a mettere in luce ne L’individualismo statalista, hanno la testa a forma di Procura. Ormai l’aria che respiriamo ha capovolto tutti i sani criteri di giudizio politico, giudiziario, civile, persino scientifico, clinico, estetico e storiografico. Viviamo in un processo universale perenne i cui l’unica cosa che conta è incolpare qualcuno che avrà fatto sicuramente qualcosa. Una volta si riteneva che fosse meglio avere un colpevole in libertà piuttosto che un innocente in carcere ma oggi si pensa sia meglio il contrario. Un tempo vigeva la presunzione di innocenza ma oggi c’è la presunzione di colpevolezza. Ieri l’altro si indagava in base alla notizia di reato, oggi basta il sospetto. Non solo di fatto ma anche di diritto non esistono più innocenti ma solo colpevoli in attesa di essere sospettati e messi alla gogna. Le cose che dico non sono un’interpretazione politica più o meno originale del nostro tempo e come tale passibile di critica o di condivisione. No. Le cose che dico riguardano da presso la concezione e l’applicazione del diritto penale che nel tempo è stato travolto fino a diventare, come recita il libro di Filippo Sgubbi che invito a leggere, Il diritto penale totale (Il Mulino), sottotitolo: Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Il diritto penale è diventato ormai totale perché riguarda ogni spazio della vita individuale e sociale che è per definizione, ormai, da punire. È totale perché, con la cancellazione della prescrizione, è senza limite di tempo: infinito, eterno. È totale perché ormai tutti credono che nel diritto penale ci sia il rimedio a ogni ingiustizia e a ogni male sociale. Una volta il processo penale riguardava l’accertamento di un fatto precedentemente accaduto. Dovrebbe essere fisiologicamente così anche oggi giacché il reato precede il processo e il pubblico ministero e il giudice sono sottoposti alle leggi: così si dovrebbero ricercare le prove, accertare i fatti e verificare se rientrano nella fattispecie prevista dalla legge. Invece, oggi tutto è stato capovolto e dal processo penale che accerta un fatto si è passati al processo penale che crea il fatto. È l’accusa che costruisce la colpa! Aberrante! Il processo precede il reato e così si va alla ricerca di un fatto che poi potrà rientrare nella previsione di norme penali. Siatene certi: il fatto verrà trovato perché il diritto è stato di fatto slegato dalla legge e le fonti, ormai, sono infinite. Tanto che la famosa frase “la legge è uguale per tutti” è la parodia di sé stessa: le giurisdizioni sono innumerevoli e la giurisprudenza, che fin dal nome invitava alla prudenza, è il diritto del fanatismo. Una tale idea di giustizia è in lotta con il mondo dal quale vuole togliere i peccati e in guerra con l’umanità e il suo legno storto che vuole raddrizzare. Non è più una giustizia umana, che come tale sbaglia, ma divina e dunque diabolica e disumana perché arresta tutti senza poter essere a sua volta arrestata ossia fermata. Su tutti regna la cultura del sospetto per cui la legge è sostituita dal controllo permanente che trasforma i cittadini in sudditi. Il sospetto genera la teoria del complotto con cui ogni accadimento è spiegabile giacché il complotto capovolge l’esigenza dell’onere della prova: non è più necessario esibire prove ma bisogna dimostrare che il complotto è falso. Sennonché, il complotto è vero a priori perché è proprio l’esistenza della dietrologia – ossia della magia – che soddisfa il risentimento, l’invidia, la frustrazione, l’insicurezza, il vittimismo. Tutti noi, ormai, viviamo in questo manicomio in cui il diritto penale (totale) s’identifica con l’etica pubblica e tutto, anche i vizi, i peccati, i comportamenti “impropri”, gli sbagli, tutto è reato. Le azioni – che si tratti di affari o di sesso, di lavoro o di ambiente, di tasse o di amministrazione – non escono dal recinto dell’incriminazione penale. La giustizia penale è diventata la grande mediatrice del modo di concepire e sentire la società ossia i rapporti umani. Il celebre incipit de Il processo di Kafka – “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato – è semplicemente non solo la realtà della nostra condizione ma anche la forma ideale della coscienza. Ma con una differenza peggiorativa: in Kafka la colpa riguarda una persona in quanto tale, mentre nel nostro tempo la colpa è legata al ruolo sociale, all’attività, al genere sessuale. Auguri!

La giustizia e la Bibbia tra riconciliazione e dovere verso gli altri. Francesco Occhetta S.J. il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. Per la Bibbia la giustizia penale cura le relazioni ferite e il suo significato a livello giuridico rimanda ad un aspetto di doverosità verso gli altri e di esigibilità verso se stessi. Il suo significato è continuamente provocato da una domanda morale: «Chi è l’altro per me?» e dal senso ebraico di sedaqah, la giustizia intesa come solidarietà in relazione alla comunità di appartenenza. La Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Nella Bibbia la fratellanza non è data biologicamente, è un punto di arrivo, non ha nulla a che vedere con i legami di sangue. L’uomo è “per natura” fratricida, mentre “per cultura” può diventare prossimo e giusto. Caino cosa risponde a Dio quando gli chiede “Dov’è tuo fratello”? Gli dice: “Sono forse io il custode di mio fratello”. Tuttavia, scrive Levinas, «nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico alla mia responsabilità e non sono più un soggetto morale». Proprio grazie al suo realismo, il modello di giustizia penale di Israele è servito per regolare nella storia il significato della pena e della sofferenza nei rapporti fra gruppi e Stati, tribù e nazioni che si impegnano a ristabilire giustizia e riconoscimento reciproco. La stessa legge del taglione, spesso utilizzata dai giustizialisti per giustificare la durezza delle pene, non include una risposta vendicativa, ma esige una proporzione tra il male provocato e la pena inferta. Ma c’è di più. Sfogliando la Bibbia non emerge un’idea astratta di giustizia, ma un’esperienza concreta di uomo “giusto”. Il processo a Gesù è emblematico. Il popolo sceglie di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si era chiesto “ma che cosa ha fatto di male Costui?”, ma poi si lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri, il giusto paga per tutti. La Chiesa non si stanca di denunciare questa dinamica. Nel 2014 anche Francesco, parlando di populismo penale, ha chiesto alla cultura della giustizia di «non cercare capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, [altrimenti c’è] la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste». La morale biblica concepisce la giustizia penale secondo quattro princìpi:

1) “Non giudicare ma rieducare il colpevole”. Caino, l’archetipo dell’assassino, non viene abbandonato a se stesso, non è escluso dalla premura di Jhwh. La tsedāqāh di Jhwh prevede per Caino un lungo cammino di espiazione e di riabilitazione dopo la cacciata dal giardino.

2) La responsabilità nell’esecuzione penale è oggettiva. La vittima deve ritrovare ciò che le è stato tolto: o il colpevole assume la propria responsabilità risarcendo del danno la vittima o i suoi familiari, oppure se ne fa carico l’intera comunità. Per la Bibbia la responsabilità è oggettiva, nel diritto romano la responsabilità è soggettiva e individuale.

3) La terra macchiata dal sangue deve essere bonificata altrimenti non darà più frutto per nessuno, nemmeno per le vittime o gli estranei a quell’azione violenta, perché il luogo della relazione e della reciprocità.

4) “Nella colpa c’è già parte della pena”. Lo ha ribadito nel 1987 il cardinal C.M. Martini parlando ai detenuti del carcere di San Vittore: «Nella colpa c’è quindi insita una sofferenza, una umiliazione e una esclusione dalla comunione pacifica degli uomini». La funzione della pena è trasformare la colpa in responsabilità per riabilitare a un nuovo inizio. Si punisce severamente il male fatto, ma si salva chi lo ha fatto.

Ci si divide tra giustizialisti – che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta – e permissivisti che minimizzano l’accaduto. Tutto questo però cambia quando la giustizia tocca la carne e gli affetti. In quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Con un tasso di recidiva che si aggira intorno al 68% e una spesa di solo 95 centesimi al giorno per la rieducazione dei detenuti il modello di riabilitazione previsto dall’art. 27 della Costituzione non funziona.  Cosa significa per uno Stato come l’Italia con la sua cultura giuridica il filmino postato dal ministro Guardasigilli Bonafede sull’arrivo di Battisti all’aeroporto? Un video di tre minuti accompagnato da una musica trionfale con un montaggio da trailer cinematografico per l’arrivo di un detenuto. È solo un esempio che indica come il modello vigente di «giustizia retributiva» è arrivato al suo massimo grado di positivizzazione. È scomparso persino il nome “grazia” al Ministero di Giustizia. In quella parola si rinchiudeva un distillato di civiltà. Siamo arrivati a difenderci dal processo e non nel processo, per aver smarrito il senso di ciò che è giusto in sé. La giustizia biblica in questi ultimi anni ha però ispirato il modello di giustizia riparativa, un «prodotto culturale» che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. L’antropologia della pena viene stabilita rispondendo a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito? Il percorso si articola in alcuni fondamentali passaggi: 

1. Il riconoscimento del reo della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società. 

2. L’incontro con la vittima. 

3. L’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore. 

4. L’elaborazione della vittima della propria esperienza di dolore. 5. L’individuazione della riparazione che può essere la ricomposizione di un oggetto o di una relazione. A chiederlo è la Raccomandazione n. 19/1999 del Consiglio d’Europa: va fatta crescere la cultura della mediazione e formati i mediatori penali.

Tecnicamente la giustizia riparativa non è negoziazione; non è risarcimento; non è prestazione volontaria sociale nel carcere e fuori; non è diventare collaboratori di giustizia; non è il premio della messa alla prova o dell’applicazione delle misure alternative ecc. È un modello culturale che aiuta il modello classico ma capovolge il significato di giustizia. Il salto culturale è quello di far emergere la verità e passare dall’intimidazione della pena alla riabilitazione del detenuto che incontra il dolore della vittima, prende coscienza del male fatto e concretamente ripristina un oggetto o una relazione rotta o distrutta. Riemerge culturalmente il modello biblico, tra la mišpat (la giustizia classica) e il rîb (lite bilaterale), con cui iniziano i libri di Isaia, Osea e Geremia e che la Scrittura presenta come integrativi al sistema penale e alle sue sanzioni. La dinamica è triplice: l’accusa, la risposta dell’accusato e il perdono che permette una vera riabilitazione/riparazione.  Lo testimoniano esempi silenziosi e luminosi. Anna Laura Braghetti, che freddò con 11 colpi Vittorio Bachelet, ha ricordato l’incontro avuto con suo figlio: «Ci siamo riconosciuti. Mi ha parlato e mi ha detto che bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato. Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene». Daniela Marcone, responsabile nazionale Libera Memoria, a cui è stato ammazzato il padre, ha spiegato così la riparazione: «Ogni volta che viene commesso un crimine, questo coinvolge direttamente il reo e la vittima, ma in realtà si crea uno strappo anche ai danni della comunità in cui reo e vittima vivono: questo strappo occorre ripararlo». Lina Evangelista, moglie di un poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar nel  1980, ha affermato: «Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso»; e, dopo aver incontrato gli assassini del marito, confida: «I mostri si sono rivelati tutt’altro». Agnese Moro ha scritto agli assassini del padre dopo aver riletto le terribili pagine dell’autopsia che parlano della sua agonia: «Dopo questa lettura — ha raccontato — sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi, come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi». 

Una sentenza ingiusta lo è sempre, anche se scritta da un giudice eroe. Iuri Maria Prado l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Chi critica il lavoro di certi magistrati è esposto a un’accusa molto sleale: e cioè che quella critica attenta alla legittimazione di uomini che mettono a rischio la loro vita. Si dice: quelli sono eroicamente impegnati per il bene di tutti, e tu ti permetti di fargli le pulci. È un’accusa sleale perché criticare un comportamento o un provvedimento di un magistrato non significa negare che il suo sia un lavoro pericoloso, né tanto meno rinunciare a pretendere che sia rigorosamente protetto. Ma un’indagine sbagliata non diventa corretta solo perché la ordina un magistrato che vive sotto scorta; una sentenza ingiusta non diventa buona solo perché scritta da un giudice eroe. È un discorso difficile, ma finalmente bisogna farlo. Non è impossibile ritrovare prova di atti eroici nella vicenda di qualche aguzzino nazista: pure, non si crede che ciò basti a impedire il dovuto giudizio sulle sue responsabilità. O sì? E non c’erano forse eroi tra quelli che evangelizzavano con la spada? Pure, non rinunceremmo a fare la storia dei loro crimini solo perché hanno sofferto la rivolta dei selvaggi. O sì? Non sono paragoni impropri: perché anche in quei casi, come sempre nei casi di ingiustizia, la violenza, l’arbitrio, la sopraffazione sono giustificati in nome di un bene supremo, di un interesse superiore.  E si dica se questo non avviene anche da noi e oggi. Si dica se l’ingiustizia in Italia, quando non è puramente e semplicemente negata o sottaciuta, non pretende di giustificarsi nel nome di questo o quel fine supremo: la vittoria sul crimine organizzato, il trionfo dell’onestà sulla corruzione, l’affermazione della politica sana su quella impresentabile. E tutto questo, appunto, condotto in modo incensurabile da magistrati “eroi”. Dovrebbe dispiacere innanzitutto al magistrato l’idea che l’ingiustizia possa trovare giustificazione nel suo eroismo. E se quest’idea non gli dispiace, allora il rischio è che il suo eroismo sia non solo giustificazione, ma causa di ingiustizia.

"Giudici di Asti, via dal distretto". Bufera tra avvocati e magistratura. Contestata dall'Anm e dal procuratore generale Saluzzo la lettera scritta dalla Camera penale di Torino per la sentenza letta senza ascoltare la difesa. I legali: "Era una lettera riservata, pubblicandola si alza il livello della tensione". Ottavia Giustetti il 21 gennaio 2020 su La Repubblica. È scontro aperto tra avvocati e magistrati sul caso dei giudici di Asti che il 18 dicembre hanno pronunciato una sentenza di condanna dimenticandosi di ascoltare, prima, l’arringa del difensore dell’imputato accusato di violenza sessuale sulla figlia. L’unione delle Camere penali piemontesi, infatti, dopo che per un mese il tribunale non aveva preso provvedimenti ha inviato una lettera chiedendo che i tre giudici coinvolti fossero trasferiti ad altro distretto. "Inaccettabile" è la risposta dell’Anm del Piemonte definisce una iniziativa attribuita alla Camera penale.  "Gravemente intimidatorie - prosegue la nota dell'Anm- risultano poi le modalità prescelte, ovvero una lettera diretta personalmente ai magistrati interessati, nella quale si sentenzia una situazione di insanabile perdita di credibilità che sconfinerebbe nell'incompatibilità ambientale". In realtà, il presidente del collegio Roberto Amerio aveva chiesto quasi immediatamente il trasferimento ad altro tribunale. Del caso si stanno occupando anche il Csm e la procura di Milano. "La Camera Penale aveva scritto una lettera riservata da non diffondere sui quotidiani proprio per richiamare tutti ad un senso di responsabilità. Constatiamo con amarezza, invece, che la nostra lettera è stata pubblicata ed utilizzata per sostenere tesi di un presunto attacco irriguardoso e persino scomposto alla magistratura che proprio non c'è stato. Questa iniziativa alza il livello della tensione" è la replica della Camera penale.  "Il nostro - prosegue la nota - era un garbato invito a valutare la possibilità di applicare i tre magistrati nel settore civile per ridare immediata credibilità al sistema giudiziario. Senza anticipare condanne. Constatiamo con amarezza, invece, che la nostra lettera è stata pubblicata ed utilizzata per sostenere tesi di un presunto attacco irriguardoso e persino scomposto alla magistratura che proprio non c'è stato. Questa iniziativa alza il livello della tensione. La nostra richiesta era evidentemente orientata a salvaguardare la terzietà e l'indipendenza della magistratura, anche quella "percepita" dall'opinione pubblica dopo un fatto abnorme e senza precedenti". "Il clima ad Asti era ed è irrespirabile dopo quanto accaduto" dice ancora la nota. Sul caso interviene anche il procuratore generale del Piemonte, Francesco Saluzzo: "Non spetta ad alcuno, e nemmeno agli avvocati (singoli o associati) fare pressioni sugli organi costituzionali o istituzionali ai quali è rimesso il potere della valutazione e della sanzione. Non è ammissibile che si invochino “misure sommarie” e neppure che si esercitino pubbliche “intimazioni” a singoli magistrati, venendo, così, a creare artificiosamente situazioni di debolezza ambientale e di difficoltà nell’esercizio della giurisdizione. Soprattutto, a fronte di un fatto isolato, unico e per nulla indice di una diffusa tendenza alla “sottovalutazione” del ruolo della difesa".

Trasferito a Torino il giudice di Asti che condannò senza sentire la difesa. Roberto Amerio potrebbe essere trasferito alla Corte  d'Appello di Torino. La Repubblica il 13 gennaio 2020. Potrebbe essere trasferito alla Corte  d'Appello di Torino il presidente del collegio giudicante del tribunale di Asti, Roberto Amerio, che lo scorso 18 dicembre, insieme alle colleghe a latere Claudia Beconi e Giulia Bertolino, ha dato lettura di una sentenza - una condanna a 11 anni per violenza sessuale - senza aver ascoltato la difesa. Lo ha detto lo stesso giudice oggi in tribunale, nel corso del suo ultimo giorno di udienze, secondo quanto riferito dal presidente della Camera penale di Asti, avvocato Alberto Avidano. Amerio ha fatto richiesta al Distretto per un posto libero e potrebbe iniziare a lavorare nel tribunale di Secondo grado di Torino già prima della fine del mese di gennaio per sei mesi, prorogabili di altri sei. Tra i giudici che potrebbero prendere il suo posto ad Asti, ci potrebbe essere l'attuale gip Alberto Giannone. Una delle udienze, fissate per domani, sulle infiltrazioni 'ndranghetiste nell'Astigiano emerse dall'operazione Barbarossa dei carabinieri, potrebbe essere rinviata.

Memorabile intervista di Travaglio a Davigo: per salvare la giustizia aboliamo la difesa. Piero Sansonetti il 10 Gennaio 2020 su Il Riformista. C’era una volta Oriana Fallaci. Lei era considerata la regina delle interviste. Ne fece decine, e le sue interviste erano spettacoli di lotta greco-romana. Prendeva l’intervistatore per il collo e non gliene passava una. Mise alle corde Gheddafi, ma anche Fellini e Bob Kennedy. Sapete che anche i miti, col tempo, appassiscono. vengono superati. È successo così. Oggi il mito di Oriana è di gran lunga superato da quello di Marco Travaglio. Ieri, sul Fatto Quotidiano, Travaglio ha intervistato Piercamillo Davigo (ex Pm, ex capo dell’Anm, attualmente consigliere del Csm) e lo ha letteralmente messo alle strette: non gliene ha passata una. Lui – Davigo – si è difeso bene, certo, perché lo cose le sa. Ma ha traballato. Ogni domanda una mazzata. Ne ricopio qui le più importanti, anche per dare ai miei più giovani colleghi un’idea di come si fa un’intervista vera. Le ricopio integrali, senza cambiare una virgola e senza ridurle, per evitare che si perda la complessità della domanda. 1) «Lei che farebbe per bloccare i processi?» 2) «Non ci sono già?» 3) «Quindi che fare?» 4) «L’avvocatura non ci sente» 5) «Altre soluzioni?». E poi la sesta domanda che davvero è il colpo del kappaò: «Basta così?». Sull’ultima domanda Davigo ha tremato davvero. E ha dovuto confessare che no, non bastava così. Che alle idee che aveva offerto fino a quel momento, rispondendo con sagacia agli affondi del giornalista, doveva aggiungerne un’ultima che può essere riassunta con queste poche parole: aboliamo il gratuito patrocinio per gli imputati, che tanto sono tutti evasori fiscali sennò non sarebbero imputati, e usiamo quei soldi per finanziare le parti civili. Reso il giusto omaggio alla aggressività di Travaglio, forse un po’ troppo rude (specie in quel perfido «Non ci sono già?»), passiamo a esaminare le idee di Davigo. La prima si fonda su questa affermazione singolare sulla prescrizione in Europa. Davigo, come già nei giorni scorsi più volte scritto da Travaglio (chissà chi dei due è il creatore di questa fake) sostiene che solo in Grecia esiste la prescrizione. Negli altri Paesi l’azione penale, una volta iniziata, non finisce più. Difficile discutere, su questo tema, perché l’affermazione non è discutibile: è assolutamente falsa. La prescrizione esiste in quasi tutti i Paesi europei (Germania Spagna, Francia, per citarne alcuni) e in molti di questi Paesi è molto più breve che da noi. Per esempio, in Francia i processi che prevedono pene sotto i 15 anni si prescrivono in tre anni (da noi fino a 15 anni, e in alcuni casi oltre) e l’eventuale interruzione della prescrizione non può comunque durare più di tre anni. A questo si aggiunge la prescrizione delle pene, che in Francia e in altri Paesi europei si conta dal momento del delitto, mentre da noi si conta dal momento della sentenza di terzo grado. Pensa un po’. Tanto che oggi i francesi dicono di non potere dare l’estradizione agli esuli italiani della lotta armata, perché da loro quei reati sono prescritti, da noi no. In Spagna e Germania le cose sono molto simili.  Davigo parte da qui per sostenere la sua idea di fondo. Che è questa. Per rendere più veloci i processi c’è un solo modo: ridurre i diritti della difesa. In varie forme. Abolizione della prescrizione, comunque dopo il primo grado, riduzione del diritto all’appello e introduzione della possibilità di reformatio in peius al secondo grado di giudizio (che vuol dire possibilità di aumentare le pene ricevute in primo grado, anche se l’appello è presentato dalla difesa), cancellazione o riduzione del gratuito patrocinio, obbligo per gli avvocati di pagare una multa per le impugnazioni che portano alla condanna. Davigo dice che in questo modo si sconsiglierebbe agli imputati e agli avvocati di ricorrere in appello, per evitare rischi. Travaglio purtroppo non chiede a Davigo se è giusto ridurre le possibilità di appello in presenza di dati molto allarmanti. Per esempio questo: il 40 per cento delle sentenze di appello rovescia o comunque attenua le sentenze di primo grado. L’appello non è una formalità o una perdita di tempo: è la possibilità di correggere un numero gigantesco di clamorosi errori giudiziari. Pensate che tra tutti coloro che finiscono indagati, la maggioranza risulta innocente: in Italia ogni 100 indagati, 75 sono scagionati nelle indagini preliminari o in processo; la percentuale è leggermente più bassa in caso di arresto: circa il 40 per cento degli arrestati risulta innocente, il che significa che probabilmente, oggi, nelle prigioni italiane ci sono solo 10 mila persone che vedranno la loro innocenza riconosciuta nei prossimi anni dopo aver trascorso in cella una piccola parte della propria vita. Questi dati sono utili anche per giudicare la proposta di Davigo di rendere più dura la condanna in processo, e poi in appello, per spingere gran parte degli imputati ad accettare il patteggiamento. Dice Davigo: se rendiamo conveniente il patteggiamento ridurremo i processi e finalmente i tempi della giustizia si abbrevieranno. Il problema è che per patteggiare devo accettare una condanna e se sono innocente (cioè nel 75 per cento almeno dei casi, secondo i dati che vi abbiamo appena fornito)? Mi conviene lo stesso accettare una condanna perché – sapendo che gran parte dei diritti della difesa sono sospesi – so di rischiare di essere condannato anche da innocente? Questa è l’idea di fondo della giustizia? La giustizia – diciamo – è una macchina per condannare, non per giudicare. Tante più condanne ottiene nei tempi più brevi, tanto più è efficiente. E a questo principio devono ispirarsi le riforme. Del resto su questa idea, Davigo trova il plauso di quasi tutta la stampa. Quante volte avete letto questo titolo: “Assolti: la giustizia ha perso”. Ma perché ha perso? Perché sono stati assolti degli innocenti? E avrebbe vinto invece se fossero stati condannati? Bah. Davigo su questo punto è convintissimo. Tanto che spiega come rinunciare all’appello sia un vantaggio per l’imputato. Perché? Perché di sicuro è colpevole, c’è poco da discutere. E dunque ricorrere in appello serve solo a rinviare la prigione. Se invece andasse subito in prigione potrebbe iniziare la rieducazione e riscattarsi prima. Non è così? Mandarlo in prigione prima è una cosa che si fa per il suo bene.  Va’ in cella ragazzo, lo faccio perché ti voglio bene! Poi ci sono gli ultimi due affondi di Davigo. Il primo è una vera e propria gaffe. Davigo si scaglia contro i ricorsi in Cassazione presentati solo per guadagnare tempo e far scattare la prescrizione. Davigo dice che in questi casi, quando la Cassazione stabilisce che i ricorsi erano infondati e inammissibili, dovrebbe essere automatico l’aumento della pena. Travaglio qui tace. Perché tace (e probabilmente arrossisce)? Perché è esattamente quello che fece lui, quando ricorse contro una sentenza di condanna e chiese la prescrizione, e  la Cassazione gliela negò perché giudicò strumentale il suo ricorso. Ma questo magari Davigo non lo sapeva, sennò sarebbe stato più delicato. L’ultimo affondo – ne abbiamo accennato – è sugli avvocati. Davigo propone che gli avvocati paghino insieme ai loro clienti per le impugnazioni inammissibili. Una specie di intimidazione per ridurre l’autonomia dell’avvocatura. Gli ha risposto ieri sera Gian Domenico Caiazza, il presidente delle Camere penali: «Volgarità per volgarità, parliamone quando parleremo anche della responsabilità dei magistrati, patrimoniale e disciplinare, per le indagini poi smentite da sentenze assolutorie e da appelli contro sentenze assolutorie poi confermate. Converrà con me, caro Davigo, che i danni (sociali, morali, ed erariali) che procurate con indagini e sentenze squinternate o grossolanamente persecutorie sono sideralmente imparagonabili coi danni che lei ritiene causati dalle nostre impugnazioni».

Gli errori del dottor Davigo. Michele Sarno, Presidente Emerito Camera Penale Salernitana, il 16 gennaio 2020 su Il Dubbio. Bisogna rammentare al Dr. Davigo che alle volte le esternazioni gratuite possono rivoltarsi anche contro chi le pronuncia. Non è la prima volta che il Dr Davigo si lascia andare a delle esternazioni gratuite ed inaccettabili nei confronti della categoria degli avvocati. Immaginare l’avvocato obbligato in solido col proprio cliente rappresenta il venire meno dei principi essenziali del nostro sistema giudiziario. Da troppo tempo il Dr Davigo ingiustamente incede ad eleggere l’Avvocatura a categoria che non agevola la corretta e spedita amministrazione della Giustizia laddove i dati evidenziano l’esatto contrario (basti pensare per es. al fatto che il 58% dei procedimenti risultano archiviati nella fase preliminare in cui l’avvocato non incide assolutamente). Non comprendendo che se realmente vuole candidarsi ad offrire un contributo effettivo alla risoluzione dell’annoso problema giustizia dovrebbe offrire soluzioni condivise o condivisibili e non certo limitarsi ad individuare un nemico immaginario. Forse è arrivato il momento in questo Paese di abbandonare la cultura dello slogan roboante e di sedersi seriamente attorno ad un tavolo per affrontare il tema giustizia. .Rammentando al Dr. Davigo che alle volte le esternazioni gratuite possono rivoltarsi anche contro chi le pronuncia e contro la stessa categoria che si rappresenta. Rifletta il Dr. Davigo e comprenda che se seguissimo la sua logica della obbligazione in solido successivamente ci sarà sicuramente qualcuno che affermerà essere giusto  e corretto sanzionare gli errori dei Magistrati (allorquando arrestano o condannano ingiustamente) attraverso l’applicazione di una sanzione pecuniaria da versare personalmente (e non come avviene oggi a carico dei contribuenti attraverso la previsione dell’istituto per es. della riparazione per la ingiusta detenzione). Ecco perchè ritengo che l’unico principio da salvaguardare sia quello della responsabilità e della capacità di cogliere nel proprio interlocutore una risorsa e non un avversario. L’Avvocatura questo lo ha capito da moltissimi anni.Da quando Calamandrei pubblicò nel 1936 : “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. Forse il vero problema e la mancata comprensione col Dr. Davigo è determinato dal fatto che a distanza di oltre 70 anni stiamo ancora aspettando un elogio della stessa natura.

Annalisa Chirico contro Piercamillo Davigo: "Sostiene la menomazione del diritto di difesa, è inaccettabile". Libero Quotidiano l'11 Gennaio 2020. L'intervista del magistrato Piercamillo Davigo, rimbalzata ovunque per quanto ammesso sui cavilli della Giustizia, ha mandato su tutte le furie proprio lei: Annalisa Chirico. "Che un consigliere del Csm - parlo di Piercamillo Davigo - sostenga pubblicamente che la prescrizione esiste solo in Grecia&Italia, balla colossale, è già grave di per sé. Ma che poi proponga, per ridurre i tempi dei processi, la menomazione del diritto di difesa, è inaccettabile" ha cinguettato al vetriolo la firma del Foglio riferendosi al colloquio del pm con il Fatto. Davigo in effetti ha rilasciato delle perle non da poco. Alcune fra tutte la proposta di "rivedere il patrocinio gratuito a spese dello Stato per i non abbienti" e il suggerimento di prendere spunto dagli Usa. Qui patteggiano in pochissimi "perché se l'imputato si dichiara innocente, sceglie il rito ordinario e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci. In Italia puoi patteggiare senza dirti colpevole e poi financo ricorrere in Cassazione contro il patteggiamento che hai concordato". Se per Davigo sono queste le soluzioni necessarie alla Giustizia, siamo messi male. 

Spangher: «L’appello non si tocca. Neanche il fascismo potè cancellarlo». Giulia Merlo il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Parla Giorgio Spangher. «Eliminare il secondo grado di giudizio significa mettere in discussione le garanzie dei cittadini, I loro diritti e libertà. Invece si rafforzi il ruolo del gip». «La prescrizione così congegnata è oggettivamente sbagliata», è il lapidario commento del professore emerito di Diritto processuale penale, Giorgio Spangher, che però mette in guardia da facili scorciatoie per ridurre la lentezza dei proces-si: «Eliminare l’appello significa mettere in discussione le garanzie dei cittadini, i loro diritti e libertà».

Professore, perchè lo stop alla prescrizione dopo il primo grado è un meccanismo sbagliato?

«Perchè in questo modo non si determinano tempi certi per la celebrazione dei giudizi di impugnazione. La riforma Bonafede, di fatto, fornisce una nuova scadenza per i pm».

Cosa intende?

«Oggi il pm decide quali reati lasciar prescrivere nella fase delle indagini preliminari e lo dicono le statistiche, che mostrano come moltissimi reati si prescrivano esattamente in questa fase. Il pericolo ora è che il pm parta dal presupposto di portare a processo più reati possibili, perchè tanto dopo il primo grado non si prescriveranno più, sia che l’imputato sia condannato, sia che venga assolto. Questo cambierà l’atteggiamento del pm ed è molto pericoloso, perchè sarà di fatto un nuovo termine del processo, oltre il quale non ci sarà più prescrizione».

Quale correttivo propone?

«Io avevo suggerito di eliminare la sospensione della prescrizione in caso di sentenza di proscioglimento. Il presupposto è che per il condannato la presunzione di innocenza sia più affievolita rispetto a quella del prosciolto, che invece è piena. Si tratta certamente di un compromesso, ma può essere che la politica possa accettarlo, dovendo trovare la quadratura del cerchio tra posizioni distanti».

La prescrizione si inserisce nel quadro della riforma del sistema penale e l’ex procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, ha ipotizzato di eliminare l’appello per rendere più il processo più efficiente.

«Con tutto il rispetto che ho per Roberti, penso che non si possa trattare il processo in questo modo, perchè significa annullare garanzie, diritti e libertà. Nemmeno il fascismo riuscì a eliminare il divieto di reformatio in peius e l’appello, che sono alla base della nostra cultura giuridica».

La sua tesi è di eliminare l’appello nel caso in cui il primo grado si sia svolto con rito ordinario, mentre di mantenerlo nel caso di riti speciali.

«Ragionando in termini giuridici, mi sembra un paradosso. Le faccio un esempio: chi sceglie il patteggiamento accetta gli esiti del processo cui si giunge attraverso un accordo. Proprio in questo caso si rinuncia a una parte delle garanzie, tra le quali l’appello. Non solo, che fine farebbero senza il grado d’appello tutti i casi in cui si verificano nullità o invalidità nei giudizi, oppure di prove sopravvenute? Pensiamo, inoltre, a quanti proscioglimenti pieni vengono pronunciati in secondo grado, che sono frutto di una diversa valutazione dei fatti da parte di un collegio».

L’appello non va toccato, dunque?

«A me pare che il giudizio d’appello già si sia ridotto, grazie all’introduzione della specificità dei motivi di appello. Proprio questo obbligo così stringente nell’indicare le ragioni dell’appello avverso la sentenza di primo grado giustifica l’appello come un giudizio di controllo, non come un nuovo giudizio. Questo meccanismo può rallentare i tempi, ma fortifica il valore e l’affidabilità della sentenza».

Cosa andrebbe modificato, allora, dell’impianto del processo penale?

«Non voglio certo tornare al codice Rocco e al giudice istruttore, ma io credo che vada rafforzato il giudice delle indagini preliminari. Prima della riforma Vassalli, il processo era incardinato sulle indagini, con un giudice istruttore forte affiancato da un giudice debole e senza poteri, che fungeva solo da controllore delle garanzie costituzionali. Con il cambio di rito, il pm è diventato fortissimo ma il giudice delle indagini preliminari è rimasto debole. Ecco, il suo ruolo va riformato e rafforzato, per esempio con maggiori poteri di controllo sui tempi delle indagini».

Ritiene che questo possa velocizzare i processi?

«Io credo che per ottenere questo risultato sia innanzitutto necessario risolvere i problemi dell’organizzazione degli uffici, procedendo poi a una seria opera di depenalizzazione. Così si inizia a risolvere il congestionamento della giustizia, non certo eliminando l’appello».

Manterrebbe invece l’obbligatorietà dell’azione penale?

«Mi sembra un falso problema, perchè già ora di fatto l’obbligatorietà non esiste. Il pm iscrive le notizie di reato ed esercita l’azione penale quando vuole ed è ovvio che sia così e che qualcosa si perda, quando un sostituto procuratore si ritrova sulla scrivania più di cinquecento fascicoli».

Per la Costituzione difendersi è un diritto inviolabile, ma ad alcuni non importa. Iuri Maria Prado l'11 Gennaio 2020 su Il Riformista. Dunque la giustizia non funziona perché c’è troppa gente che fa appello. Non tutti lo dicono proprio apertamente (alcuni, i più disinibiti, sì): ma la teoria è appunto che la giustizia sarebbe affaticata per colpa dei troppi che impugnano le decisioni di cui sono insoddisfatti. E di qui il vagheggiamento, ma spesso proprio la proposta, di ridurre ulteriormente la possibilità che il cittadino chieda la riforma di un provvedimento ritenuto ingiusto. È pur vero che i processi sono tanti (ma sono tanti anche perché c’è una selva di leggi che incriminano tutto), ed è vero che gestirli efficacemente è difficile. Ma dietro lo schermo tecnico di queste rappresentazioni lavora oscuramente una concezione speciale e inconfessabilmente incivile della giustizia, e cioè l’idea che la difesa non costituisca un diritto da proteggere ma una specie di riprovevole insubordinazione che bisogna reprimere: l’atto di rivolta compiuto da chi osa non piegare la testa davanti alla celebrazione di un rito che si pretende impassibile. Chi chiede un secondo giudizio è dunque responsabile di una duplice colpa: quella di non accettare l’esito del processo, e quella di contribuire in tal modo ad aggravare il lavoro dei magistrati impedendogli di fare giustizia come si deve. Naturalmente, si spiega, con pregiudizio dei cittadini onesti, chiamati a pagare per l’intasamento provocato dai malvissuti che depositano ricorsi per conseguire impunità. Il fatto che la Costituzione della Repubblica dica che la difesa è un diritto inviolabile importa abbastanza poco. Così come è trascurabile la precisazione che quel diritto è inviolabile “in ogni stato e grado del procedimento”. Eliminiamolo, il diritto di ricorrere, di fare appello; e pace, poi, se a quel punto la nostra legge suprema proteggerà un diritto ridotto a un simulacro, perché non ha più nessuna sede di esercizio. Hai il diritto di pregare, ma ti smantello le chiese. La verità è che l’esistenza di quel diritto è assai mal sopportata, e quel che si suggerisce è che ad esercitarlo possa essere a tutto concedere l’innocente, così trascurando di considerare che innocenti, sempre per Costituzione, devono essere ritenuti tutti almeno sino alla decisione definitiva. Un impiccio insopportabile, per alcuni, e infatti la loro pretesa è che diventi definitiva la decisione unica, un colpo e via. Il sospetto che il diritto di impugnare una sentenza protegga un bene più vasto e importante, e cioè che lo Stato non sia sfrenato e incontrollabile nel suo potere di infliggere la violenza del processo e della pena, è completamente estraneo agli intendimenti dell’apostolato giudiziario. Si preoccupano della possibilità che il colpevole la faccia franca, e sono indifferenti davanti alla certezza che con la preclusione del diritto di difesa è l’ingiustizia di Stato a farla franca.

·         Comunisti per Costituzione.

Serviamo la Costituzione per questo noi magistrati dobbiamo essere antifascisti». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 12 giugno 2020. L’appello firmato da circa 500 magistrati a sostegno del pm della Capitale Eugenio Albamonte, finito in questi giorni al centro delle polemiche per il sequestro dello stabile di via Napoleone III, da anni occupato abusivamente e divenuto la sede romana di CasaPound. «Dobbiamo essere e siamo antifascisti e sarebbe giusto indignarsi se non lo fossimo: la Costituzione, cui abbiamo giurato fedeltà nel giorno in cui abbiamo iniziato a svolgere il nostro lavoro, vieta la ricostituzione del partito fascista. Esercitiamo le nostre funzioni senza pregiudizi e lasciando le nostre idee fuori dalle decisioni. Il nostro dovere primario è garantire libertà e diritti dei cittadini; quelle libertà e quei diritti che il fascismo calpestò creando un ordine giudiziario asservito alla volontà del regime». Sono questi alcuni dei passaggi principali dell’appello firmato da circa 500 magistrati a sostegno, senza però citarlo, del pm della Capitale Eugenio Albamonte, finito in questi giorni al centro delle polemiche per il sequestro dello stabile di via Napoleone III, da anni occupato abusivamente e divenuto la sede romana di Casa-Pound. Albamonte, ex presidente dell’Anm e attuale segretario di Area, il cartello delle toghe progressiste, aveva ipotizzato a carico del movimento di estrema destra, oltre al reato di occupazione abusiva, anche quello di associazione per delinquere finalizzata all’istigazione all’odio razziale. L’indagine era nata a seguito di un esposto presentato dall’Anpi e dall’Agenzia del demanio, proprietaria dell’immobile. Erano stati iscritti sul registro degli indagati, oltre agli occupanti, alcuni militanti di CasaPound, fra cui Gianluca Iannone, Andrea Antonini e Simone Di Stefano. Il gip Zsuzsa Mendola, però, ha disposto lo sgombero ed sequestro preventivo dell’immobile per il solo reato di occupazione abusiva. «Non sussistono elementi – scrive il giudice – che consentono di ricondurre la sussistenza del delitto di partecipazione ad una associazione ( CasaPound, ndr). Nonché di accertare se le condotte poste in essere siano espressive di ideologie o sentimenti razzisti o discriminatori, ovvero se sussista lo scopo dell’incitamento alla discriminazione». I dirigenti di CasaPound, ricevuto il provvedimento del pm, avevano fatto notare che Albamonte, tempo addietro, aveva pubblicato su Fb dei post a favore dell’Anpi, manifestando così un «potenziale conflitto d’interessi». «Siamo un movimento politico legalmente riconosciuto, non un’associazione a delinquere. Diamo sostegno a famiglie italiane discriminate nelle graduatorie per la casa popolare», è stata la difesa dei vertici di CasaPound.

·         Magistratura: Ordine o Potere?

La toga adesso vuota il sacco: "Così guidichiamo la politica..." Il procuratore Domenico Airoma senza peli sulla lingua: "C'è qualche giudice che ritiene di essere investito della missione di giudicare la politica". Luca Sablone, Giovedì 01/10/2020 su Il Giornale. Domenico Airoma ha dimostrato di non avere alcuna paura di denunciare le degenerazioni della propria corporazione: il procuratore aggiunto del tribunale di Napoli Nord ha fatto ciò che le istituzioni temono, ovvero prendere atto che il sistema non è poi così sano come viene descritto. La sua tesi principali è chiara: i magistrati, con la loro "superiorità etica", con il passare del tempo avrebbero tolto il potere al popolo italiano e ai suoi eletti. Nelle cento pagine scritte dalla toga e contenute nel volume "In vece del popolo italiano" si evince che l'imputazione nasce dalla convinzione per cui "le correnti non sono un dato di natura, inscindibilmente connesse alla funzione del magistrato". Il vicepresidente del centro studi intestato a Rosario Livatino, magistrato cattolico ucciso dalla mafia nel 1990 all'età di 38 anni, ha puntato il dito anche contro Magistratura democratica che fin dalla sua nascita avrebbe usato l'Associazione nazionale magistrati "come la leva indispensabile per la compiuta realizzazione della strategia gramsciana nell'ambito della giurisdizione". Come riportato da Libero, il rapporto paritario con la politica dura sino a Tangentopoli, quando la magistratura assume un ruolo preponderante: "Non si tratta più di un giudice che fa politica (seppur sotto l'ombrello del richiamo alla costituzione materiale), ma di un giudice che ritiene di essere investito della missione di giudicare la politica stessa e non solo gli atti dei politici, se di rilievo penale".

"Vero potere alla magistratura". Airoma ha fatto ricorso a una metafora per spiegare meglio il concetto espresso: "I magistrati erano stati fatti salire sul carro armato e da quel carro armato non intendevano scendere più". E da quel punto è stato tutto un crescendo, visto che la giurisdizione si è praticamente proclamata "supremo potere con connotazioni di superiorità etica". Così come il caso Palamara ha dimostrato di recente, ormai le varie correnti si presentano sempre più come "compagnie di assicurazione e di sostegno nella scalata ad incarichi di vertice". Ma veramente la percezione che la magistratura ha di sé è quella di una categoria rovinata dal carrierismo? Macché. Molti esponenti vorrebbero promuovere quei nuovi diritti che vanno "ben al di là del tessuto costituzionale, percepito oramai come superato". Giorno dopo giorno prende sempre più campo la teoria secondo cui le questioni attinenti in particolare al bio-diritto non possano essere affidate alle mutevoli maggioranze parlamentari, "ma vadano attribuite a chi è capace di assecondare la nuova corrente antropologica". Cioè ai magistrati progressisti. La toga ha fatto infine notare che l'unica e vera questione morale della magistratura è che essa rappresenta progressivamente "il vero detentore del potere nell'epoca del politicamente corretto".

Ma adesso le toghe devono pagare. Lo voglio dire da persona libera, da giornalista libero, da ex senatore e presidente di un'inchiesta morta ammazzata, da liberale fra i liberali: è arrivato il momento di fare il passo successivo. Paolo Guzzanti, Sabato 11/07/2020 su Il Giornale. Lo voglio dire da persona libera, da giornalista libero, da ex senatore e presidente di un'inchiesta morta ammazzata, da liberale fra i liberali: è arrivato il momento di fare il passo successivo. La porcata contro Berlusconi, che è stata una porcata contro chi l'ha votato con una raffica di piccoli e grandi colpi di Stato, non può restare in sospeso e senza conseguenze, affidata al balbettio di un ministro che compita in Parlamento l'abbecedario che gli hanno messo in cartella con la merenda. C'è un principio solo da ristabilire: che la Magistratura non è un potere ma solo la funzione di un pubblico servizio, quello della Giustizia. Non siamo nella Francia di Montesquieu, col re all'esecutivo, gli Stati Generali alla Pallacorda e i giudici in parrucca che sputano sentenze. Soltanto il Parlamento ha il potere. Tutto. E lo esercita secondo il manuale della Costituzione, il cui arbitro è il Capo dello Stato. A noi sovrani cittadini è piaciuto concedere a noi stessi il servizio pubblico della Giustizia indipendente e per questo abbiamo imposto l'uniforme della toga ai funzionari che esercitano la loro funzione - come i militari affinché non dimentichino mai di essere servitori dello Stato e che lo Stato siamo noi. Il delitto è stato provato e adesso è l'ora del castigo. L'ora in cui la democrazia deve dimostrare di essere nei limiti delle regole tutto il potere delegato dal popolo e usarlo. Il potere può venire soltanto dal popolo, non da concorsi pubblici e cordate private.

Pieni poteri sono provvidenza se ad assumerli è la milizia eroica della magistratura. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 29 Maggio 2020. Non c’è giorno che la magistratura corporata non dia prova della propria impostazione antidemocratica. Ferma sulla linea di una buona fede forsennata, non diversa rispetto a quella dell’inquisitore che ti brucia per il tuo bene, essa crede davvero che la propria funzione sia di costituirsi in una centrale di indirizzo che pone rimedio ai mali della società e combatte gli agenti dei poteri diversi che la imprigionano nell’ingiustizia. I rappresentanti di questa cultura ispirano la propria vocazione al totem costituzionale, ma in realtà non sono soggetti alla legge suprema e piuttosto rivendicano di esserne gli esecutori esclusivi nell’esercizio di una “indipendenza” pervertita nella contestazione aperta del sistema politico rappresentativo. Come si ripete, è spesso (non sempre) un approccio in buona fede a comandare questi proponimenti di governo della società per tramite giudiziario, ma questo non ne attenua la pericolosità e anzi la aggrava perché essi si accreditano sull’idea diffusa che i “pieni poteri”, inquietanti quando a reclamarli è un politico discusso, rappresentano una provvidenza se ad assumerli è la milizia eroica della magistratura incorrotta. Ieri (ma come sempre) questa cultura spadroneggiava sul giornale senza padroni, cioè Il Fatto Quotidiano, con un articolo questa volta non sgrammaticato a firma del solito Gian Carlo Caselli il quale, dopo aver fatto l’elogio delle correnti che garantiscono vitalità alla pozzanghera giudiziaria («furono utili», spiega, «per incrinare l’estraneità dei giudici rispetto alla società e per cercare di introdurre in un corpo burocratico il rifiuto del conformismo”»), ripropone appunto l’idea che la magistratura adempie al suo ufficio se diventa «strumento di emancipazione dei cittadini» e quando assume «la funzione, anch’essa inedita, di controllo dell’esercizio del poteri forti». Con eloquio appena aggiornato, l’orientamento della giurisdizione verso la conquista rivoluzionaria che ripristina la giustizia conculcata dal potere corrotto: cosicché la democrazia che sbaglia, fastidiosamente governata dall’impiccio del voto e dalla chiacchiera parlamentare, possa trovare redenzione nei rigori del processo e nel verbo più sicuro delle sentenze. Naturalmente (è un altro classico) l’esigenza di proteggere una “autonomia” intesa in questo modo, e cioè quale strumento di reazione alla inaccettabile pretesa che le riforme in tema di giustizia siano rimesse alla decisione politica e non siano subordinate all’accettazione della magistratura militante, si giustifica nell’assunto demagogico secondo cui è l’interesse dei cittadini, non quello della corporazione, a trovare tutela nel perpetuarsi del dominio togato. Chissà se c’è speranza che questo falso cominci a essere riconosciuto.

Magistratura eversiva, il Csm si è sostituito allo Stato e i pm non rispondono alla legge. Alberto Cisterna su Il Riformista il 2 Giugno 2020. Pochi giorni or sono il prof. Serio, docente universitario stimato e già componente del Csm ha censito tra i mali che affliggono la magistratura italiana anche una elefantiaca autoproduzione di regole che il Consiglio ha approntato e affinato negli anni munendosi di poteri pressoché illimitati sulla carriera dei magistrati. Gli strali del professore si sono concentrati sul Testo unico della dirigenza giudiziaria, la Magna Charta per l’attribuzione degli incarichi su cui si esercitano spesso il Tar e il Consiglio di Stato annullando delibere consiliari di varia indole ed estro. Si legge nel suo intervento: «Attualmente, è in vigore per gli incarichi più ambiti un immodestamente denominato, testo unico sulla dirigenza, espressione alquanto pomposa che tradisce il desiderio di equiparazione del Consiglio al legislatore. Ebbene, quella che avrebbe dovuto essere una miniera di regole oggettive capaci di risolvere in modo netto e indiscutibile il conflitto tra più aspiranti, si è rivelata un’autentica trappola a causa della compresenza di decine di disposizioni minute che, isolatamente considerate, spesso vengono contraddittoriamente utilizzate per favorire l’uno o l’altro dei concorrenti, a seconda spesso dell’orientamento correntizio del consigliere o del candidato o di entrambi». Insomma, nulla per cui stare tranquilli. La scelta dei capi degli uffici è fondamentale per l’assetto del servizio-giustizia e manipolarne il corso in vista di interessi privati in qualunque altra amministrazione porterebbe alle manette, anche se – paradossalmente – fossero scelti i migliori: è il metodo a inquinare. Molti dei miasmi velenosi che emergono dalle ultime chat – purtroppo tardivamente cadute nella disponibilità dei giornali rispetto ad altre più tempestivamente propalate in piena indagine perugina a vantaggio di taluno – mostrano come siano proprio queste regole elastiche e plasmabili a consentire vendette, segnalazioni malevoli, sgambetti e, a volte, quelle vere e proprie esortazioni alla persecuzione che animano in taluni casi la lotta per il potere all’interno della magistratura. Indimenticabile l’incitazione di una (ex) toga altolocata al componente del Csm che si doleva di essere incappato in qualche intercettazione di un processo per corruzione: «Certo. Dillo ai tuoi colleghi del Csm» avrebbe sibilato il grand commis aizzando contro il reprobo giudice che non aveva subito censurato l’impiccio. Un «dillo ai tuoi colleghi» che sta a metà strada tra il callido mandato e la viscida sollecitazione, in quella fangosa terra di mezzo in cui allignano le vigliaccate e non solo Buzzi e Carminati. Tolta la pietruzza che, come sempre, nella scarpa duole, ma che un interesse generale deve pur sempre avere se la conversazione è stata pubblicata con tanto di nomi e cognomi, torniamo al discorso molto più elevato che il prof. Serio ha intrapreso.  L’articolo 108 della Costituzione dispone che «le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge» (v. anche art. 102), questo comporta che i poteri del Csm sulla carriera dei magistrati non potrebbero prevedere – come attualmente accade in molti settori – una delega in bianco in favore dell’organo di autogoverno e in fondo a discapito anche dei cittadini. Si pensi, a esempio, al principio di precostituzione del giudice naturale, fissato nella Carta e canone fondamentale della giustizia in tutti gli ordinamenti. La designazione del giudice deve precedere il reato e non seguirlo, sono vietati giudici ad personam. Oggi il suo rispetto è, processualmente parlando, carta straccia in quanto alla fine rimesso alle disposizioni amministrative del Csm che, a propria discrezione, può scegliere un giudice per un solo processo e, se occorre, anche per un solo imputato senza che sia possibile per l’imputato obiettare alcunché. La mancanza di criteri e regole precisi – come ricorda Serio – ha comportato l’espansione a dismisura dei poteri cosiddetti paranormativi del Csm che interviene con propri statuti in qualunque ganglio della vita dei magistrati (dai rapporti parentali all’interno degli uffici ai trasferimenti, dagli incarichi extragiudiziari alle valutazioni di professionalità, dalle nomine all’organizzazione del lavoro, dalle commissioni dei concorsi alle ferie) a prescindere e, troppe volte, a dispetto anche dei radi e lacunosi interventi legislativi. Il Parlamento, con un costante self-restraint ai limiti della colpevole sottovalutazione, ha concesso al Csm una vera e propria delega in bianco sui magistrati che, a quel punto, sono stati sospinti dalla stessa politica a soggiacere al potere delle correnti e dei loro rappresentanti. Sono state ristrette le toghe in un recinto anomico e illegale in cui poi la stessa politica torna a negoziare con gli emissari più smaliziati della corporazione, così dilatando il proprio controllo sulla giurisdizione oltre i limiti costituzionali. Il tutto con buona pace anche dell’articolo 101 della Costituzione che, come noto, pretende che i giudici siano «soggetti soltanto alla legge». Se le norme di legge sull’ordinamento giudiziario sono soppiantate da elastiche delibere, circolari, risoluzioni e testi unici di valenza amministrativa, è evidente che la soggezione dei giudici alla legge risulta filtrata e mediata da quella, ben più temuta, al Csm con ogni inevitabile ricaduta. Comprese quelle che tanto rumore stanno facendo in questi giorni a proposito di politici illustri. Il punto vero è che non si tratta solo di degenerazioni individuali da contenere e reprimere – come taluno ancora si illude che sia – ma della deriva sistemica di un’organizzazione (un ordinamento) che, abbandonata a sé stessa, ha creato una doppia soggezione, alla legge e alle disposizioni dell’autogoverno, con una conseguente doppia morale foriera delle peggiori distorsioni e che ha, oggi, quale contrappeso solo l’enorme patrimonio etico di quasi tutti i magistrati italiani. Lo aveva detto la Corte costituzionale in una memorabile pronuncia (n. 497/2000): «L’applicazione imparziale e indipendente della legge… sono beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini» per poi affermare in modo esemplare da scolpire in ogni aula di giustizia «nel patrimonio di beni compresi nello status professionale (dei magistrati) vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura». L’orgoglio dell’indipendenza e dell’autonomia da tutelare e da esercitare anche nei confronti del Csm e degli altri magistrati. Un orgoglio che sarebbe ingiusto non riconoscere a tantissime toghe italiane, ma che in troppi hanno dismesso partecipando al saccheggio delle clientele. Un patrimonio troppo importante perché la politica pensi di sbrigare la pratica giustizia con una frettolosa legge elettorale. Se non si ripristina il primato delle legge voluto dalla Costituzione, liberando le spalle ricurve della magistratura dal peso asfissiante dei poteri impliciti del Csm e del rischio di un loro uso distorto, ogni cambio di passo sarà insufficiente e destinato a fallire. Né la giustizia amministrativa può essere rimedio a questo vulnus, alla fine, eversivo della Costituzione.

100 magistrati occupano il ministero della Giustizia e fanno saltare l’equilibrio tra i poteri. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 30 Maggio 2020. La settimana scorsa Il Foglio ha pubblicato un’intervista a Sabino Cassese in cui si sostiene che la numerosa presenza dei magistrati all’interno del ministero della Giustizia (sempre intorno ai 100) e il monopolio che essi hanno delle posizioni dirigenziali al suo interno, rappresenta una violazione del principio della divisione dei poteri, cioè di uno dei cardini di uno stato democratico. Questa denunzia è stata condivisa e rilanciata dal presidente dell’’Unione Camere Penali, Giandomenico Caiazza, su due quotidiani, Il Riformista e Il Giornale. Nel considerare questo fenomeno occorre innanzitutto ricordare che esso è collegato alla natura burocratica dell’assetto delle magistrature dell’Europa continentale per cui i dipendenti dello Stato centrale possono essere destinati a svolgere, nell’ambito dell’apparato statale, funzioni diverse da quelle per cui sono stati reclutati. Pertanto non solo in Italia ma anche in altri stati europei numerosi sono i magistrati che svolgono la loro attività nei vari ministeri della Giustizia (in Francia, Germania, Austria. Spagna e così via). Detto questo, rimane da spiegare perché solo in Italia questo fenomeno viene denunziato ripetutamente come una violazione del principio della divisione dei poteri e negli altri Paesi no. Ciò dipende dal differente status del magistrato italiano che opera presso il nostro ministero della Giustizia rispetto a quello dei magistrati di altri paesi. Negli altri stati i ministri della Giustizia hanno, in varia misura, poteri decisori sullo status dei magistrati quantomeno per il periodo in cui sono alle loro dirette dipendenze (disciplina, valutazioni di professionalità, futura destinazione alle sedi giudiziarie alla fine del loro servizio presso il ministero). In Italia, invece, il ministro della Giustizia non ha alcuna influenza nel governare lo status dei magistrati che da lui formalmente dipendono. A differenza dagli altri paesi europei, in Italia solo il Csm può assumere decisioni in materia disciplinare e di valutazione di professionalità dei magistrati anche per il periodo in cui formalmente dipendono dal ministro della Giustizia. Si è con ciò stesso sottratto al nostro ministro della Giustizia uno degli strumenti fondamentali dell’assetto gerarchico che fa capo ai ministri della Giustizia degli altri paesi democratici e su cui poggia in misura rilevante la capacità del ministro di formulare e perseguire autonomamente le iniziative da prendere e quindi di sollecitare ed ottenere dai suoi dipendenti comportamenti conformi alle politiche che vuole perseguire e per le quali formalmente assume la responsabilità politica. In un tale assetto è solo ovvio che i magistrati del ministero privilegino le aspettative del Csm (che coincidono sostanzialmente con quelle del loro sindacato) in tutte le attività di ricerca, elaborazione delle informazioni e proposte al ministro nella sua attività di iniziativa legislativa e operativa. Tener presenti gli elementi sin qui forniti non è però ancora sufficiente ad apprezzare appieno il significato che assume l’autonomia tutta particolare della dirigenza del ministero della Giustizia rispetto al ministro. Tale autonomia ha trovato ulteriore nutrimento negli orientamenti, a lungo prevalenti e fortemente radicati nell’ambito della magistratura organizzata e delle sue rappresentanze in seno al Csm e che riguardano le ragioni con cui viene giustificata la presenza dei magistrati al ministero. Secondo questi orientamenti tale presenza sarebbe nella sostanza pienamente legittimata proprio dall’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura dalle iniziative del ministro che potrebbero lederla. Questo orientamento non solo mi è stato ripetutamente ricordato nel corso degli anni in numerose interviste/conversazioni con magistrati, ma è confermata in vari documenti ufficiali e trova la più chiara esplicitazione in una relazione di vari anni fa della “Sottosezione dell’Anm presso il ministero della Giustizia”. Relazione inviata proprio al ministro della Giustizia e avente per oggetto “Proposte sulla riorganizzazione del ministero”. In tale documento, si forniscono infatti “le ragioni che giustificano questa presenza” (dei magistrati al ministero), e a riguardo si dice: «Innanzitutto essa è volta ad attenuare i pericoli che la funzione servente nei confronti del funzionamento della giustizia – costituzionalmente attribuita al potere esecutivo – si trasformi, nel concreto esercizio, in un condizionamento del potere giudiziario e in una conseguente violazione del fondamentale principio dell’indipendenza della magistratura»…. E si prosegue dicendo: «È opportuno che gli ampi poteri riconosciuti al ministro dagli artt. 107 e 110 Costituzione e (come interpretati dalle sentenze n. 168/63 e 142/73 della Corte Costituzionale) nei confronti del funzionamento della giustizia siano esercitati a mezzo di magistrati, anziché di funzionari amministrativi. I primi, pur se posti fuori temporaneamente dall’ordine giudiziario, sono i soggetti istituzionalmente più in grado di conciliare l’autonomia e l’indipendenza del detto ordine con l’osservanza della linea politica-ministeriale». Una delibera, che a dispetto di quanto possa apparire a un osservatore esterno, non aveva intenti rivendicativi ma si limitava a rappresentare l’assetto interno del ministero. Uno degli autori e firmatari di quella relazione inviata al Ministro era Ernesto Lupo, futuro presidente della Corte di Cassazione, da tutti sempre considerato persona di grande equilibrio, non certo portatore di orientamenti estremisti. Ed è significativo anche il fatto che il ministro dell’epoca nulla obiettò nel ricevere quella delibera dell’Anm, nonostante in essa si teorizzasse un ruolo davvero peculiare dei magistrati al ministero della Giustizia: dovrebbero addirittura svolgere un ruolo di resistenza, di contrasto ai voleri del ministro allorquando questi volesse, con le sue iniziative, ledere in qualche modo, a giudizio della magistratura organizzata o dei suoi rappresentanti in seno al Csm, l’indipendenza (o gli interessi corporativi) della magistratura stessa. Nei ministeri della Giustizia di altri paesi di cui ho conoscenza diretta (come Francia, Germania, Austria, Olanda) i magistrati che vi lavorano sono tenuti alla riservatezza che, se violata, viene sanzionata. Da noi no. Se le iniziative del ministro, persino quelle a livello embrionale, toccano poteri della magistratura o aspetti dell’ordinamento che contrastano con gli orientamenti del sindacato della magistratura esse vengono subito comunicate, e gli esempi a riguardo sono numerosi, ad esponenti della magistratura organizzata e/o al Csm perché possano essere intraprese le eventuali azioni di contrasto. A riguardo è certamente emblematico anche un episodio verificatori nell’ottobre del 2001 che pone in evidenza come i magistrati del ministero della Giustizia si ritengano liberi, nei casi non certo frequenti di contrasti col ministro, di operare in opposizione al ministro stesso da cui formalmente dipendono e come siano appoggiati in tale loro opera dal Csm. In quell’occasione alcuni magistrati dell’Ufficio legislativo fecero pervenire a deputati dell’opposizione un parere che avevano di loro iniziativa predisposto per il ministro della Giustizia e di cui il ministro non aveva tenuto conto; un parere che era fortemente critico proprio nei confronti di un disegno di legge del ministro che in quel momento era in discussione al Senato. È interessante notare che, a seguito di questo comportamento, i magistrati in questione hanno lasciato il ministero ma non hanno subito né procedimenti disciplinari né conseguenze negative sul piano della valutazione della professionalità da parte del Csm. Hanno invece acquisito titoli di benemerenza nella corporazione, tanto che uno di essi è stato quasi subito eletto dai colleghi, nel 2006, componente del Csm. A rinforzare e rendere i comportamenti dei magistrati del ministero aderenti alle aspettative del Csm e del loro sindacato vi è poi anche il fatto che essi sanno, per esperienza, che possono essere gravemente penalizzati dal Csm se sospettati di “collaborazionismo” col ministro su questioni che pregiudicano gli interessi corporativi. Si tratta di casi poco frequenti anche perché i pochi che si sono verificati costituiscono un chiaro ed efficace monito a futura memoria per tutti gli altri. Uno dei casi più noti e clamorosi – certamente il più facile da richiamare – si è verificato allorquando Giovanni Falcone, nel periodo in cui era direttore generale degli Affari Penali del ministero, fu diffusamente sospettato e anche pubblicamente accusato da componenti del Csm e da esponenti dell’Anm di aver assecondato il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, nella formulazione di un decreto legge in cui si prevedeva un effettivo e cogente coordinamento nazionale delle attività del pubblico ministero in materia di criminalità mafiosa, minando con ciò stesso l’indipendenza interna dei pm. Durissima fu la reazione dell’Anm e del Csm ed il decreto fu radicalmente modificato. Si pose allora in dubbio pubblicamente persino la credibilità dell’indipendenza di Falcone quale magistrato e quindi, in sede di Csm, anche la sua attitudine e capacità a svolgere con indipendenza il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Tanto che la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm – nonostante la fama, anche internazionale di Falcone in quel settore – non si espresse a suo favore. Le proposte della commissione non pervennero al vaglio del Plenum del Csm perché nel frattempo Falcone era stato assassinato dalla Mafia. Falcone non divenne quindi Procuratore nazionale antimafia ma dopo la sua uccisione fu subito riammesso nei favori dell’Anm e da allora celebrato come uno dei suoi martiri più illustri. Mi sembra che quanto detto sin qui, per quanto molto sommario, sia sufficiente a dare sostanza alle preoccupazioni espresse dal professor Cassese e dall’avvocato Caiazza in materia di divisione dei poteri. È tuttavia opportuno aggiungere due postille a questo articolo già troppo lungo. Prima postilla. Vi sono state diverse iniziative legislative aventi per oggetto la presenza dei magistrati al ministero della Giustizia, tutte senza successo. Una limitata, temporanea eccezione è costituita dall’art. 19 del DPR del 4/8/2000 il quale stabiliva che i magistrati desinati al ministero non dovessero superare le 50 unità. A seguito del parere dato dal Csm (il 16/11/2000) quella limitazione fu abrogata. Ed è comprensibile. L’Anm ed il suo “braccio armato”, cioè il Csm, non potevano consentire che venisse, seppur di poco, messo in discussione l’articolato assetto di potere che fa capo alla magistratura. Seconda postilla. L’Avvocato Caiazza nel suo articolo su questo giornale ci ha ricordato che la divisione dei poteri viene menomata gravemente anche dalla presenza dei magistrati in molti dei gangli decisionali del nostro Stato (posizioni di rilevo in altri ministeri e in Parlamento, presso la presidenza del Consiglio e della Repubblica, presso la corte Costituzionale e altre ancora). Le ricerche da noi condotte sulle attività extragiudiziarie dei magistrati certamente avvalorano la sua tesi. Forse ce ne occuperemo in un altro articolo. È tuttavia difficile da comprendere perché le Camere penali non abbiano inserito questo problema nel loro progetto di riforma costituzionale, visto che la divisione dei poteri è certamente questione di rilievo costituzionale.

La dittatura dei Pm: politici succubi, giornalisti zerbini. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 28 Maggio 2020. La magistratura militante non si oppone solo a qualsiasi riforma dell’amministrazione della giustizia rivolta a limitare i privilegi della corporazione: si oppone anche, con pari energia, a ogni iniziativa di maggior tutela dei diritti delle persone sottoposte a giustizia. La ragione è molto semplice e non ha niente a che fare con le sempre sbandierate esigenze di giustizia complessiva: il rafforzamento dei diritti degli imputati, dei condannati, dei detenuti e la compiuta salvaguardia delle loro facoltà di difesa diminuiscono la forza del potere inquirente. È tutto, tragicamente, qui. L’assoluzione è fastidiosa perché denuncia la fallibilità dell’accusa, che in quest’ottica è necessariamente contrastata con mezzi pretestuosi e sleali: la difesa come attentato alle ragioni della giustizia confuse con l’interesse di chi la amministra. Si tratta di una vera e propria deviazione di potere, perché non c’è nessuna riprova – anzi c’è prova del contrario – che lo Stato di diritto democratico si affermi nel trionfo dell’accusa pagato col sacrificio dei diritti della persona. Il fatto che la magistratura deviata non operi clandestinamente dimostra anche meglio quant’è potente. Essa coltiva e protegge quel suo interesse nell’efficace sintonia di due canali: il primo è quello più appariscente sulla ribalta del dibattito pubblico, con il sistema dell’informazione asservito a orientarlo e con la classe politica intimidita e disciplinata nell’autocensura; il secondo canale è quello che percorre il ventre dello Stato e si dirama nei posti del potere vero, dove le leggi passano o si fermano, e a dirigere il traffico c’è appunto la magistratura distaccata al lavoro di macchina. La prepotenza di questo complesso sostanzialmente reazionario è simile a quella che nei sistemi di democrazia incerta esercitano i militari, con la differenza che la capacità intimidatoria della magistratura deviata è anche più efficace perché non ha bisogno di dimostrarsi in modo strepitoso coi carri armati che assediano i palazzi del potere e minacciano la cittadinanza: basta e avanza avere alle dipendenze un altro tipo di esercito, quello togato, che è composto sicuramente da ottime persone che però possono aggredire la tua vita e rinchiuderla in una cella. Le istanze antiriformatrici della magistratura deviata non sono sorrette da una migliore dottrina, ma da quel brutale presupposto di potere: ti arrestano, ti giudicano, ti condannano, e in modo non dichiarato ma perfettamente operante è quel carico di potere a pesare sulla bilancia delle riforme. Non c’è più scienza a rendere possibile l’imperio della magistratura deviata e a impedire che se ne contesti la continuazione, non c’è più competenza, più cultura della giurisdizione: c’è il ritrarsi e il sottomettersi di una società intimorita. C’è la paura.

Delirio di onnipotenza del Partito dei Pm: siamo noi la Costituzione. Piero Sansonetti de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Nel rifiuto dell’Anm (l’associazione magistrati) di andare all’incontro con il ministro per discutere sulla riforma penale, c’è una quantità di arroganza che nella politica italiana non si era mai vista. L’Anm con questa sua decisione afferma in modo solenne ed esplicito il proprio diritto di disporre in pieno e senza condizionamenti della legislazione italiana in materia di giustizia. Chiunque può vedere in questa linea politica assunta dall’Anm tutte le caratteristiche dell’eversione: della negazione di ogni dialettica democratica. Cosa rimproverano i Pm al ministro? Di avere recepito tutte le richieste che l’Anm aveva avanzato, ma di avere inopinatamente aggiunto un codicillo che deve essere immediatamente cancellato. Deve essere cancellato prima ancora di iniziare la discussione. Qual è il codicillo? Quello che prevede – non per adesso ma per un ipotetico futuro, comunque non prima della prossima legislatura – che sia possibile prendere delle misure disciplinari nei confronti dei magistrati che, in modo colposo, provochino ritardi molto gravi nelle indagini. È chiaro che questo codicillo è un fatto puramente platonico. I magistrati (tranne Lupacchini, l’ex Pg di Catanzaro che si è macchiato dell’unica colpa considerata imperdonabile dalla categoria: criticare Gratteri) non sono punibili e mai e poi mai vengono puniti. E comunque la leggina Bonafede non prevede neanche quale sarà la possibile punizione. Ragionevolmente un richiamo orale. Ma al partito dei Pm non interessa: è una questione di principio. Loro dicono che la totale incontrollabilità e superiorità del Pm è l’unica garanzia di indipendenza della magistratura. Loro identificano indipendenza e potere assoluto. Il povero ministro era stato consigliato dai suoi consulenti di introdurre quel codicillo, per far sembrare almeno in qualche modo che la cancellazione della prescrizione non violasse l’articolo 111 della Costituzione, quello che impone la ragionevole durata del processo. Il partito dei Pm risponde indignato: la Costituzione non può pretendere di stare sopra di noi. La Costituzione siamo noi.

L'ordine giudiziario ha sostituito la politica. Andrea Cangini, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. Due atti parlamentari e un anniversario: il voto della giunta delle immunità del Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere ai danni di Matteo Salvini, il voto della Camera sull'abolizione della prescrizione, il ventennale della morte di Bettino Craxi. Sono questi, oggi, i tre temi attorno ai quali ruota il dibattito politico e dal cui sviluppo in parte dipenderà il futuro stesso della politica italiana. Fosse un passatempo tipo «trova l'errore», elementi incongrui rispetto al contesto sarebbero tutti e tre. Balza, infatti, agli occhi che il denominatore comune di queste tre pietre angolari della politica italiana non sia politico, ma giudiziario. Due fatti essenzialmente politici, le scelte di un ministro dell'Interno in quanto ministro dell'Interno e la memoria di un uomo di governo che mostrò la tempra dell'uomo di Stato, vengono letti attraverso le lenti non della politica ma della morale, per essere poi affrontati non in chiave istituzionale, ma penale. Uguale e contrario è il caso della prescrizione, la cui abolizione piace molto ai grillini di Giggino Di Maio e moltissimo sarebbe piaciuta al Grande Inquisitore di Dostoevsky. Non è un caso. È la logica conseguenza dell'ultradecennale processo di delegittimazione della politica e di centralizzazione dell'ordine giudiziario. Un processo magistralmente inquadrato dal professor Filippo Sgubbi in un imprescindibile pamphlet appena pubblicato dal Mulino: «Il diritto penale totale». «Totale» nel senso di totalitario, come si evince dal sottotitolo «Punire senza legge, senza verità, senza colpa». Scrive, infatti, Sgubbi che siamo ormai nel pieno di «una deriva neomedievale in cui la jurisdictio esprime la totalità del potere, di ogni potere (legislativo, amministrativo, giudiziario)», al punto che «la potestà penale si identifica ormai con l'etica pubblica». Detta in volgare, l'ordine giudiziario ha preso il posto del potere politico. Ma allora quelle pur giuste attenzioni che vengono rivolte alla Politica andrebbero spostate sulla Magistratura. La formazione, la competenza, l'imparzialità, la trasparenza, la responsabilità... Una politica timorosa finge di non vedere il problema, ma mai come oggi assume carattere di necessità e di urgenza la riforma dei meccanismi di reclutamento e di valutazione dei magistrati.

Politici sotto sorveglianza, la giustizia ha troppo potere. Francesco M. De Sanctis il 18 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il termine garantismo circola sempre più con una sorta di specializzazione semantica che lo rivolge in maniera prevalente all’attività inquisitoria della magistratura. In realtà, quando parliamo di garantismo, dobbiamo far riferimento all’intero sistema di garanzie che offre l’ordinamento giuridico, a partire dalle “garanzie costituzionali” che lo informano in tutta la sua struttura. Certo, nel vecchio Stato di diritto, la garanzia fondamentale del cittadino era che il giudice fosse sottoposto alla legge, ma con le costituzioni della seconda metà del XX secolo (tra cui la nostra) si è modificata in maniera radicale la posizione dei diritti fondamentali, che, dette costituzioni, non istituiscono più, affidandole al potere legislativo, ma presuppongono rispetto allo stesso potere costituente. E ciò proprio per evitare il “torto legale” imputabile a leggi (come ad esempio quelle “razziali”) pur valide dal punto di vista formale. E le Corti costituzionali sono istituite proprio come “giudice delle leggi” costituendo, così una garanzia apicale. Ma che significa questa presupposizione dei diritti fondamentali anche contro il potere legislativo come incarnazione della sovranità del popolo? Significa che la legittimazione dell’ordinamento non riposa più soltanto sulla sovranità che tale potere incarna, ma anche sulla vigenza di tali diritti, da mettere in salvo, per il fatto di essere fondamentali, anche nei confronti delle mutevoli maggioranze a cui la democrazia affida il potere di fare le leggi. Da questa nuova condizione consegue necessariamente l’ampliamento, rispetto agli altri poteri costituzionali, del potere del giudice posto in relazione diretta con i principi della costituzione. Alla vecchia separazione dei poteri, sotto la sovranità del legislativo, si è sostituita la “cooperazione” tra detti poteri tutti vincolati alla garanzia dei diritti come concorrente fondamento di legittimità dell’ordinamento. Resta scontato che la cooperazione può anche generare conflitti, nonché egemonie più o meno passeggere di un potere rispetto agli altri (come abitualmente avviene a favore del potere esecutivo) allorché si creano “vuoti di potere” in relazione all’espletamento di determinate competenze; ma tutto ciò può anche restare nella fisiologia, per così dire, della democrazia rappresentativa. È, invece, la patologia del tessuto dello Stato costituzionale democratico che può determinare gli eccessi del “potere del giudice” o (in caso di rigida subordinazione ad altri poteri) le sue deficienze. Se dunque partiamo dal presupposto oggettivo che lo Stato di diritto costituzionale in cui abita la democrazia occidentale poggia su una doppia legittimità, vale a dire sulla sovranità del popolo e sui diritti fondamentali, dobbiamo anche ammettere che tra le due possa esserci, oltre l’auspicata convergenza o addirittura sinergia, anche divergenza e frizione. La sovraesposizione del potere giurisdizionale a cui assistiamo oggi è, soprattutto, l’esito dell’indebolimento della volontà politica, talché la giustizia si offre come luogo di esigibilità della democrazia di fronte al discredito delle istituzioni politiche e alla depressione dello spirito pubblico. E parlo chiaramente della giustizia nel suo complesso e non solo di quella parte iperprotagonista che in Italia è rappresentata dai Pubblici Ministeri (pur interni all’unico “ordine” dei magistrati) e che, per altro, altrove (es. tradizione anglo-sassone), non rientra pienamente nel puro potere giudiziario (esponendo la natura politica della funzione). Il centro di gravità della democrazia si è spostato verso la giustizia: i suoi metodi, le sue argomentazioni, il suo vocabolario (trasparenza, motivazione, imparzialità, contraddittorio, ecc.) appaiono più credibili dell’esercizio della volontà politica. Tale tendenza ha accentuato un profilo a sua volta connaturato alla struttura ambivalente della democrazia costituzionale: la difesa dei diritti individuali e collettivi di cui i cittadini si sentono titolari al di là della loro soggettività politica attiva e che vogliono veder tutelati davanti a un’autorità imparziale. Ma, si badi bene, altro è la tutela giurisdizionale dei diritti – funzione coessenziale alla democrazia costituzionale – altro è la sfiducia nella rappresentanza politica, che ha generato un atteggiamento di sorveglianza “giudiziaria” dei cittadini sull’operato dei loro rappresentanti.

Il Palazzaccio dei passi perduti (degli avvocati). Renato Luparini il 15 gennaio 2020 su Il Dubbio. Nei meandri della sede della Cassazione. Girando per I corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano I viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati solo ai magistrati. A Roma si dissacra tutto. La sede della Suprema Corte di Cassazione è per tutti “Il palazzaccio”, anche se la sua architettura a confronto con certe realizzazioni contemporanee non merita tanto disprezzo. Per anni è stato il tempio laico del diritto. Così lo volle il ministro Zanardelli che ne prescrisse la costruzione e che lo volle in palese antitesi alla prigione papalina di Castel Sant’Angelo e al Cupolone di San Pietro, che gli sono vicinissimi, ma che da Piazza Cavour volutamente non si vedono. Ogni avvocato che dalle provincie più remote saliva le sue scale, magari dopo aver noleggiato una toga all’ingresso, si sentiva onorato e tornava a casa lusingato anche solo per le poche parole che gli toccava di dire davanti al supremo consesso. I più diligenti di viaggi a Roma ne facevano un paio, uno per la discussione e uno per leggere le requisitorie scritte della Procura Generale e controllare il fascicolo, perdendosi nei meandri affascinanti del Palazzo, tra statue di giuristi e corridoi infiniti. Da qualche tempo, l’incanto è finito. Il tempio è diventato una fabbrica, dove si producono massime e decisioni in quantità industriale. La presenza dell’uomo-avvocato è ormai superflua. Non si fanno più sentenze, che anche dall’etimo richiamano l’ascolto e il sentimento, ma si emanano secche ordinanze. Non si ascolta quasi più la voce degli avvocati. Nella cause civili la loro presenza è rarefatta e in quelle penali ridotta al minimo, spesso al simulacro del “riportarsi ai motivi”, fatto da un legale di passaggio. Girando per i corridoi si notano cartelli perentori affissi alle porte che avvisano i viandanti di non valicare le soglie delle aule, diventate oramai laboratori destinati ai soli e veri scienziati del diritto, i magistrati, che decidono “in camere di consiglio non partecipate”, come si dice in gergo, senza la fastidiosa presenza dei logorroici postulanti. Perfino l’accesso alla cancellerie è limitato ; gli avvocati ora si arrestano alla soglia dell’ufficio relazioni con il pubblico, come se anziché protagonisti del giudizio in cassazione fossero solo spettatori. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, si è ascoltata la voce del Presidente Davigo, che si è fatto latore di un pensiero già diffuso tra i giudici: agli avvocati ridotti a spettatori far pagare di tasca loro il biglietto ogni volta che osano turbare i lavori del laboratorio giuridico con i loro vani ricorsi. Del resto il Primo Presidente Canzio pochi anni fa scrisse e parlò di una “Corte assediata”, dove la parte dei barbari invasori era destinata ai difensori, che con le loro inutili doglianze rendevano dura la vita nella cittadella del giure. Eppure chi è avvocato cassazionista, per poter patrocinare e soggiornare al Palazzaccio anche solo per qualche minuto paga già regolare quota annuale, una sorta di simbolico canone e risulta iscritto nel registro speciali dei patrocinanti in Cassazione, un tempo vanto e lustro delle toghe con i cordoni dorati. Insomma, da sacerdoti laici di un tempio ( la definizione, bellissima è contenuta nel testamento spirituale di Gabriele Cagliari, una delle prime vittime di Tangentopoli), gli avvocati in Cassazione sono ridotti a occupanti senza titolo, morosi e senza nemmeno un Monsignore a sostegno. Questa potrebbe sembrare una bagatella senza importanza e le mie lamentele marginali, se in Cassazione non si decidesse dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini e se in gioco non ci fosse una questioncella che si chiama Stato di diritto. L’abolizione della prescrizione, per chi non lo sapesse, esisteva già: era contenuta in una circolare del Primo Presidente della Corte di Cassazione che incentivava lo strumento della declaratoria della inammissibilità per manifesta infondatezza. Per i non addetti ai lavori, funziona così: anziché scrivere che un ricorso non va accolto e limitarsi a respingerlo, i giudici di Cassazione scrivono che è palesemente infondato, come se invece di parlare del processo il difensore avesse scritto qualche poesia. In questo modo, si deduce che il ricorso è come se non fosse mai stato presentato e quindi che il tempo passato per esaminarlo non vale ai fini della prescrizione. Sembrano cronache di Bisanzio e invece è quotidiana realtà, con l’aggravante che magari quello stesso ricorso era stata ritenuto talmente fondato da richiedere il suo accoglimento dalla Procura Generale. Con l’amaro risultato che il povero avvocato non solo vede vanificato il proprio lavoro, ma si vede anche beffato dal fatto che il suo scritto ha convinto il massimo organo dell’accusa, ma è stato considerato carta straccia dal Giudice supremo. Ora, secondo Davigo, l’avvocato, che già passa brutti momenti ad annunciare rigetto e magari galera al cliente, va anche multato. Aspetto solo che siano riaccesi i fuochi in Campo dei Fiori, con una sommessa avvertenza: ho scoperto che un mio antenato, certo Fulvio Luparini, fu messo al rogo per sospetta eresia qualche anno prima del più famoso Giordano Bruno. Insomma: abbiamo già dato. Quanto meno, come pare abbia detto San Lorenzo sulla graticola, girateci dall’altro lato; da questo siamo già cotti.

I modi dei magistrati per umiliare gli imputati come un sergente con il soldato semplice. Iuri Maria Prado il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. In questi giorni di rievocazioni mi sono rivisto un po’ di udienze del processo Cusani-Enimont, quello sulla cosiddetta maxi tangente. La cosa più impressionante era il modo in cui il giudice – peraltro una brava persona – si rivolgeva agli imputati e ai testimoni. Così: «Senta, Martelli…»; «Sama, lei che ci dice?», e simili. Come fa un sergente con il soldato semplice. Come fa il padrone con il maggiordomo. A che titolo si permetteva di rivolgersi in tal modo a quelle persone? È presto detto: quelle persone erano “cadute in basso”. E non perché avevano commesso illeciti, così guadagnandosi una riprovazione che toglieva loro il diritto di ricevere riguardo, ma “in basso” perché sottoposte al potere del processo. Ti interrogo, ti giudico, e questo implica una degradazione sufficiente a permettermi di non darti di “signore”. Si noti che i magistrati incassano senza perplessità roba come “Eccellentissima Corte” o “Illustrissimo Signor Presidente”, certamente anche per responsabilità degli avvocati che si lasciano andare a queste disgustose manifestazioni di servilismo indegno: ma proviamo a immaginare quale reazione avrebbero se il cittadino che loro sottopongono a processo esordisse con qualcosa tipo «Senta un po’, Davigo…». Inutile precisare che mentre esistono magistrati rispettosissimi, ai quali neppure verrebbe in mente di rivolgersi all’imputato come fa il prof. con l’alunno delle medie, altri che non si fanno troppi riguardi ritengono evidentemente che si tratti di sciocchezzuole: e non avvertono il pericolo che lo stato di soggezione in cui è posto chi finisce “sotto” processo sia generalmente trattato con noncuranza. E invece bisognerebbe che l’amministrazione della giustizia risentisse come primario l’obbligo di non degradare in nessun modo, e anzi di trattare con il massimo grado di rispetto, il cittadino affidato alle cure giudiziarie. Perché è un “signore” qualunque cosa abbia fatto, e revocargli questo attributo rappresenta una versione solo attenuata di messa in berlina. Non è ancora come lasciare che gli lancino verdura marcia, ma condivide la medesima causa: l’idea che chi giudica sia “superiore”, stia sopra, appunto, e sotto di lui il bandito che ha perso rango civile. La medesima causa e dunque il medesimo effetto: l’imbarbarimento della società che, indifferente o compiaciuta, assiste allo scempio.

Il giudice si deve trasferire, raffica di udienze senza approfondimenti per sentenza sui Cesaro. Giovanni Altoprati il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Questo processo è la Waterloo dei diritti degli imputati»», afferma senza peli sulla lingua l’avvocato Vincenzo Maiello, difensore dei fratelli Raffaele e Aniello Cesaro, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa con il clan Polverino. Secondo la Dda di Napoli, i Cesaro, fratelli del senatore di Forza Italia Luigi e titolari di un’azienda di costruzioni, si sarebbero aggiudicati illecitamente il bando per la realizzazione di un’area industriale nel comune di Marano (NA). Ad accusarli alcuni collaboratori di giustizia. I due fratelli, dopo aver trascorso circa due anni di custodia cautelare in carcere, dal marzo del 2019 si trovano agli arresti domiciliari fuori dalla Regione Campania. «Il Tribunale di Napoli Nord ha deciso che questo dibattimento deve concludersi entro tre mesi. Il motivo? Il presidente del collegio, il giudice Francesco Chiaromonte (colui che da gip nel 2008 decise l’arresto di Sandra Lonardo, moglie dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, poi assolta da tutte le accuse nel 2017, ndr) dal prossimo mese di marzo andrà al Tribunale di sorveglianza dove ha chiesto di essere trasferito», prosegue l’avvocato Maiello. Pur essendo i reati contestati caratterizzati dall’aggravante mafiosa, per la quale si applica l’art. 190bis che non prevede la ripetizione delle udienze in caso di cambio del collegio, il Tribunale vuole procedere a tappe forzate: tre udienze a settimana e i testimoni citati direttamente dai carabinieri. Come è successo l’altro giorno a un teste della difesa che è stato chiamato a casa alle dieci di sera con l’avvertimento di presentarsi l’indomani mattina in Tribunale. Il perché di questa frenesia lo spiega sempre l’avvocato Maiello: «Il presidente dell’iniziale collegio, Giuseppe Cioffi, dopo una campagna stampa di Repubblica, ha deciso di astenersi, sostituito quindi da Chiaromonte». «Repubblica – prosegue Maiello – aveva per giorni scritto di alcune relazioni tra il gruppo dirigente di Forza Italia in Campania e Cioffi. Il magistrato, secondo le testimonianze del giornale, aveva partecipato anche a una convention di FI ad Ischia dove era stata ipotizzata una sua candidatura». Sulla vicenda era intervenuto l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, avviando accertamenti, e anche il Csm, con l’apertura di una pratica. «Il sospetto è che il Tribunale abbia voluto lavare quest’onta di essere colluso con il centro destra», prosegue Maiello. Per far concludere il dibattimento, in corso da due anni, in novanta giorni è stato quindi stravolto l’interno calendario delle udienze. I giudici del collegio che deve giudicare i Cesaro sono stati esonerati da tutti gli altri processi che stavano seguendo. In questo lasso di tempo – ed è qui il punto più delicato della questione, quello che ha spinto i legali degli imputati ad abbandonare (non rinunciare) le difese – dovranno essere ascoltati oltre 130 testimoni. «Si, ieri ho abbandonato la difesa dei Cesaro», puntualizza l’avvocato Maiello, secondo cui «il contesto ambientale non agevola alla percezione di un giudice imparziale». «Non ci sono problemi sul fronte della prescrizione. Questa compressione delle udienze è una chiara limitazione dei diritti degli imputati ed è il segno che si vuole chiudere in fretta un processo senza i dovuti approfondimenti», precisa ancora Maiello. L’indagine, eseguita dai Ros dei carabinieri, è stata condotta dai pm Maria Di Mauro e Giuseppe Visone, con il coordinamento dell’allora aggiunto Giuseppe Borrelli, ora procuratore di Salerno. Il fascicolo si basa essenzialmente sulle dichiarazioni di alcuni pentiti. I Cesaro hanno sempre respinto le accuse, dichiarandosi vittima di estorsione da parte di esponenti del clan Polverino.

Caso Cesaro, penalisti in rivolta: «Istituito processo speciale». Simona Musco il 21 gennaio 2020 su Il Dubbio. Gli avvocati dei sei imputati abbandonano la difesa. Sciopero di cinque giorni dopo la compressione di 130 testi in poche settimane, per consentire al giudice di chiudere il caso prima di essere trasferito, paralizzando così l’intero tribunale. Il giudice a breve cambierà ufficio e così i testi della difesa vanno ascoltati il più velocemente possibile. Ovvero con tre udienze a settimana, per smaltire entro il giorno del trasferimento – previsto a metà febbraio – 130 testimoni, bloccando però il resto delle udienze previste negli stessi giorni nelle due uniche sezioni del Tribunale. Una «eccessiva compressione dei tempi del processo» che ha portato i difensori dei sei imputati ad abbandonare la difesa, come forma di protesta nei confronti del presidente Francesco Chiaramonte. Il processo è quello in corso al Tribunale di Napoli Nord, che vede tra gli altri imputati anche gli imprenditori Raffaele e Aniello Cesaro, fratelli del senatore di Forza Italia Luigi ( prosciolto nello stesso procedimento), accusati di concorso esterno in associazione mafiosa. All’ultima udienza, calendarizzata per martedì scorso, i difensori hanno messo in atto la protesta, dopo un acceso scambio di battute tra l’avvocato Vincenzo Maiello, difensore dei fratelli Cesaro, e il presidente Chiaramonte. A spingere il giudice a velocizzare l’iter è il suo trasferimento al Tribunale di Sorveglianza, dove si sposterà il prossimo mese. Da qui un calendario serratissimo per smaltire tutti i testimoni della difesa entro quella data. Tant’è che su richiesta della coordinatrice dei collegi penali, Domenica Miele, il presidente del Tribunale di Napoli Nord, Elisabetta Garzo, ha esonerato i componenti del collegio del processo Cesaro da tutte le altre udienze previste nelle stesse date. Da qui la protesta: i difensori hanno denunciato l’istituzione di un «processo speciale», con la predisposizione una corsia preferenziale di trattazione, al punto di sacrificare le esigenze di tutti gli altri processi – con «un florilegio di violazioni dei diritti della difesa». «Innanzi ad una inesistente ragione normativa di determinare un’accelerazione dei tempi di trattazione di questo processo – avevano argomentato in aula – noi riteniamo che si sia aperta la falla per una mortificazione eclatante dei diritti della difesa e della dignità dell’attività del difensore, che è intollerabile. Per queste ragioni, noi abbandoniamo la difesa e quindi non partecipiamo allo svolgimento di questo processo, che riteniamo paradigmatico di un oscurantismo nella gestione dei diritti. Mentre noi andiamo e stiamo in Europa, che è la civiltà dei diritti fondamentali, noi qui stiamo centrando la morte di un processo che tutela i diritti fondamentali». Ad aumentare l’indignazione anche il paragone con le tempistiche relative all’audizione dei testimoni dell’accusa: le 37 udienze necessarie per ascoltare tutte quante le persone chiamate a deporre dalla procura sono state distribuite in un arco di tempo di due anni, mentre la difesa, lamentano gli avvocati, si vede costretta ad «un tour de force». «Come si fa a sentire 130 testi e a prevedere la requisitoria del pm e le arringhe di 10 difensori entro il 15 febbraio?», si sono chiesti i penalisti, secondo cui «il Tribunale non è sereno». Ciò anche alla luce della notevole pressione mediatica che si è abbattuta sul Tribunale in apertura di processo: alcuni articoli di stampa, nel 2018, avevano documentato la frequentazione del presidente dell’originario collegio assegnatario con gli ambienti forzisti vicini a Luigi Cesaro, pur non essendo mai stati, i suoi fratelli, impegnati in politica. Da ciò si è arrivati all’astensione del giudice. E da tale dato è stata fatta scaturire l’esigenza di garantire una priorità assoluta al processo, finendo, appunto, per decretarne la specialità. Un’accelerazione inutile, per gli avvocati, dal momento che la sostituzione di Chiaramonte non comporterebbe un azzeramento del processo e anche considerando che i termini delle misure cautelari scadranno a maggio 2021. Dopo il fatto la Camera Penale di Napoli Nord ha programmato cinque giorni di astensione dalle udienze, dal 27 al 31 gennaio, chiedendo al presidente Garzo la revoca del decreto. Una protesta che ha trovato il sostegno della Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane, secondo cui il presidente del Tribunale avrebbe assegnato «una inopinata e squilibrata priorità alla trattazione di quel processo, mediante l’adozione di provvedimenti organizzativi senza precedenti», sintomo «di una indebita “specialità” che pregiudica la indispensabile terzietà del giudicante». Anche perché l’esonero dei componenti del Collegio da ogni altro impegno giurisdizionale, denuncia l’Ucpi, comporterebbe una paralisi dell’amministrazione della giustizia «nel già collassato distretto di Napoli Nord», ed alla «citazione dei testi della difesa ad horas e d’imperio da parte del Tribunale». Legittimo, affermano i penalisti, soddisfare «esigenze di sviluppo di carriera», ma le stesse non possono prevalere «sul diritto di difesa degli imputati, nonché sui diritti e sulle legittime aspettative di molte centinaia di altri imputati e persone offese nei processi che, per tale incredibile ragione, sono destinati ad una ingiustificabile paralisi nei prossimi mesi».

Processo contro i fratelli Cesaro, scontro tra penalisti e Anm. Giovanni Altoprati il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ad aprire il caso era stato nei giorni scorsi Il Riformista. Poi la polemica. Che ora divampa a base di comunicati fra gli avvocati e i magistrati del Tribunale di Napoli Nord. Oggetto della discussione il “turbo calendario” del processo a carico agli imprenditori Raffaello e Aniello Cesaro, fratelli del parlamentare Luigi di Forza Italia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa con il clan Polverino. II presidente del collegio, il giudice Francesco Chiaromonte, avendo avuto dal Csm il trasferimento al Tribunale di sorveglianza, vuole chiudere il dibattimento entro il prossimo mese di marzo. Con un provvedimento “ad hoc” il presidente del Tribunale Elisabetta Garzo ha stravolto l’intero calendario delle udienze, esonerando il collegio dei Cesaro dagli altri processi che stava seguendo: centotrenta testimoni della difesa da sentire, requisitoria dei pm, arringhe difensive, sentenza, tutto compreso in 90 giorni. Un record senza precedenti. Per protesta, il legale dei Cesaro, l’avvocato Vincenzo Maiello, ha abbandonato la scorsa settimana la difesa in quanto «il contesto ambientale non agevola alla percezione di un giudice imparziale». All’udienza di ieri i Cesaro erano assistiti dal difensore d’ufficio. «Se la complessa istruttoria dibattimentale ha seguito fino all’altro giorno, e per oltre due anni, tempi del tutto ordinari nella escussione dei testi d’accusa, sorprende che si pensi ora di dover liquidare l’assunzione della prova a discarico con scadenze frenetiche, che giungono all’esonero dei componenti del collegio da ogni altro impegno giurisdizionale (con conseguente paralisi della amministrazione della giustizia nel già collassato distretto di Napoli Nord), e alla citazione dei testi della difesa ad horas e d’imperio da parte del Tribunale», scrivono i penalisti. «Né può sottacersi l’inammissibile gravità del fatto che l’inopinato scatenarsi di questa polemica sia generata dalla pretesa di vedere tutelata e garantita una mera aspettativa di carriera, ancorché legittima, del presidente del collegio, rispetto alla quale ogni superiore esigenza di giustizia viene avvertita come secondaria e recessiva», aggiungono dalla Camera penale. Al vetriolo la replica dell’Anm. «Stupisce la posizione delle Camere Penali con la quale si stigmatizzano i provvedimenti adottati dal collegio giudicante e dal presidente del Tribunale di Napoli Nord al fine di garantire la sollecita conclusione del dibattimento di un processo di particolare complessità, con imputati detenuti». «Le Camere Penali – puntualizza l’Anm – alimentano una polemica sterile, fondata su presupposti di fatto inesistenti; polemica che arriva a trasmodare in offese indirette a singoli magistrati con accenni infondati e pretestuosi ad aspettative di carriera». «Invece di riconoscere, ed apprezzare lo sforzo compiuto dai magistrati, ci si duole proprio di quelle disposizioni e di quegli accorgimenti organizzativi, volti a evitare il mutamento del giudice», aggiungono le toghe, ringraziando «i colleghi per il loro grande impegno, nella certezza che nessun attacco alle loro persone e al loro ruolo potrà turbare la loro serenità o condizionare l’equilibrato svolgimento delle loro funzioni». I Cesaro hanno sempre respinto le accuse, dichiarandosi vittima di estorsione da parte di esponenti del clan Polverino. Titolari di un’azienda di costruzioni, per i pm si sarebbero aggiudicati illecitamente il bando per la realizzazione di un’area industriale nel comune di Marano (Na). Ad accusarli alcuni collaboratori di giustizia. I due fratelli, dopo aver trascorso circa due anni di custodia cautelare in carcere, dal marzo del 2019 si trovano agli arresti domiciliari fuori dalla Regione Campania.

Magistrati sostituiscono i medici: scoperta l’origine dei tumori. Redazione de Il Riformista il 15 Gennaio 2020. La Corte d’Appello di Torino ha deciso che un lavoratore di 57 anni, che è stato colpito da un tumore benigno all’orecchio destro, e che per causa di questo tumore ha perso in parte l’udito, dovrà essere risarcito. A noi sembra una cosa ottima che i lavoratori che si ammalano di tumore, e perdono una parte dell’udito, siano risarciti. Sembra invece un po’ curiosa la ragione per la quale è stato deciso questo risarcimento (circa 500 euro al mese per tutta la vita). La ragione è che, secondo i magistrati, il motivo per il quale questo signore si è ammalato è l’uso troppo frequente del telefonino. E la ragione per la quale questo telefonino veniva usato molto spesso stava nel lavoro della vittima. L’Inail, che dovrà pagare il risarcimento, ha fatto osservare che in realtà, sin qui, l’Istituto Superiore di Sanità ha escluso che l’uso eccessivo del telefonino possa provocare il tumore. Ma all’istituto Superiore di sanità, in verità, lavorano solo scienziati e medici, non ci sono magistrati. E forse gli scienziati e i medici non ci capiscono tanto di malattie. Così i magistrati hanno deciso di sostituirli e, dopo aver attentamente esaminato un telefonino e un orecchio, hanno accertato che il telefonino provoca il tumore. Stavolta è andata bene. Qualche soldo a un lavoratore non è certo una disgrazia. Il problema è che ogni tanto i magistrati decidono, in base alla propria convinzione di capirci molto di medicina, di spedire in prigione dei medici innocenti. E questo è più doloroso.

Italia alla deriva, sta diventando una Repubblica penale. Biagio De Giovanni il 3 Gennaio 2020 su Il Riformista. Mentre lo Stato di diritto si appresta a perdere i suoi pezzi pregiati, l’Italia ristagna tra alta retorica e distrazioni di massa, «più soldi nelle tasche degli italiani», come irresponsabilmente promesso dall’ineffabile presidente del Consiglio in una manovra spezzettata, fatta di mille proroghe e sempre salvo intese. Intanto il quadro politico della maggioranza si frantuma in mille pezzi, i 5 Stelle ne perdono uno al giorno, Conte pensa a come continuare a far politica “dopo”, il Pd, come sparito, abbraccia Conte, Italia viva spiazzata da Conte, diventato il primo nemico di Salvini. Se non batte un colpo, ma serio, mi pare fuori gioco. L’opposizione, a sua volta: sparita Forza Italia, fermo e in discesa Salvini che certe volte, in assenza di ong, sembra gridare alla luna, Meloni in un fortino in moderata e lenta espansione, questo destra-centro non si sa più che cosa sia, quale sia la sua nuova identità, dopo gli scossoni dei mesi passati. L’Italia senza nocchiero, ferma nell’economia, nel vuoto di una politica pensata, storicamente determinata in relazione al mutamento dei tempi, tutto gridato però, in modo che dal caos descritto qualche voce cerchi di isolarsi e gridi a piena voce nel vuoto caotico. È la voce che sta distruggendo lo Stato di diritto, l’unica cosa seria che sta accadendo in questa Italia “altruista”, secondo alta retorica. Altruismo è pensare agli altri, ma chi pensa, per fare un esempio ora in gioco, ai condannati a vita da un processo eterno? L’obbrobrio giuridico esercitato sulla prescrizione, che vige dal primo gennaio deve essere smantellato, ma posso dire di aver scarsa fiducia nei timidi emendamenti proposti per ora? Come se l’unico tema, impossibile se isolato, fosse: proviamo, perché no?, ad accorciare i tempi dei processi e tutto va a posto, quando in Italia non c’è il “processo giusto” proclamato dalla costituzione, non c’è terzietà dell’accusa, mancano condizioni costituzionali di base, e in assenza di queste si decide di abolire una possibile fine del processo stesso. Ah, Mario Pagano, chi era costui? Un povero illuminista napoletano che ragionava sul processo penale, vissuto nel lontano Settecento, e impiccato in Piazza Mercato, rivoltati nella tomba! Tutto questo, quando in Italia, non in Europa, vige una Repubblica penale, non c’è più illecito amministrativo che non sia penale, non c’è indagato che non sia alla gogna mediatica con viva collaborazione di una parte della magistratura e di una informazione spietata, quando la vita privata va spesso sconsideratamente sotto intercettazione; quando la magistratura pretende di rifare la storia d’Italia e giudicarla in vitro. Quando in Italia, unico paese dell’Occidente democratico, una inchiesta giudiziaria, Mani pulite, annientò un intero sistema politico, e da quel vuoto ogni equilibrio è andato perduto, non è stato più possibile, dai partiti che avevano modernizzato l’Italia, un passaggio di consegne. E poi, il grido contro l’untore prima che ne siano accertate le vere e inconfutabili responsabilità, vedi il caso concessioni ad Autostrade. Il sorriso abbozzato sul volto, sempre quello, jena ridens scrissi in un blog, superfluo il nome, di chi, rivolgendosi alla parte peggiore di un paese, sui morti innocenti dice di sapere tutto, tutto sulle responsabilità, attizzando l’odio sociale, addirittura personificando, con nomi e cognomi, i sicuri colpevoli. E ciò da un posto di responsabilità politica di gran rilievo. E i Pd, scomparso, tace o flebilmente, sottovoce, farfuglia qualcosa. Invece di dirgli: così non puoi fare o dimettiti da ministro! Ecco con il nuovo anno l’augurio: che ci sia nella cultura italiana, dico cultura, nei luoghi dove questi temi possono essere affrontati, con scienza e coscienza, che ci sia in questa cultura un risveglio serio, costante e perfino un po’ gridato per farsi ascoltare oltre il frastuono che ci copre. Non aggiungo altro, è una speranza per l’anno che si apre.

Delusione Mattarella, ha ignorato i tre problemi dell’Italia. Piero Sansonetti il 2 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il discorso del presidente della Repubblica è stato deludente. Non solo perché costruito quasi esclusivamente sulla retorica, e su un vago appello alla fiducia, alla speranza. (È giusto, si capisce, chiamare il popolo alla fiducia: ma se resta un grido, vale niente). È stato deludente per un’altra ragione. Perché non ha indicato i problemi fondamentali di fronte ai quali si trova l’Italia, né tantomeno ha segnalato le vie per superarli. Ho visto che Stefano Folli, su Repubblica, fa un ragionamento opposto. Dice: ottimo discorso perché si è rivolto direttamente agli italiani senza impicciarsi nelle dispute politiche. Non sono d’accordo, non credo che il presidente della Repubblica debba rinunciare a occuparsi di politica, o essere una specie di via di mezzo tra il parroco e il diplomatico. Credo che debba guidare il Paese e garantire la saldezza politica quando questa vacilla. Oggi vacilla. Non mi pare che Mattarella lo abbia fatto, con questo discorso. Quali sono i problemi politici fondamentali di fronte all’Italia? Diciamo tre, che sono di sicuro i più evidenti. Il primo è la stagnazione produttiva. Il secondo è l’aumento delle diseguaglianze, e quindi della povertà. Il terzo problema è la giustizia, che negli ultimi anni ha subìto dei colpi durissimi, travolta dal populismo dilagante, dalla codardia della politica e dall’arroganza del partito dei Pm, che forse è minoritario in magistratura ma accumula sempre più potere. Mattarella ha sfiorato i primi due problemi, enunciandoli, ma quasi per dovere. Senza neppure provare a entrare nel merito delle questioni, e a indicare delle vie per superarli, o almeno dei principi da tenere saldi. Il terzo problema lo ha totalmente ignorato. Sebbene il suo discorso sia stato pronunciato appena tre ore e mezza prima dell’entrata in vigore della norma che cancella la prescrizione (dopo il primo grado di giudizio), sancisce il processo perpetuo e sferra un colpo micidiale allo Stato di diritto, facendo strame dell’articolo 111 della Costituzione. Sergio Mattarella è un uomo politico molto esperto, colto, e una persona che conosce perfettamente la struttura della giustizia, i suoi principi, e i suoi problemi. Soprattutto, è il presidente del Consiglio superiore della magistratura, e dunque è il capo della magistratura. È uno degli ultimi prodotti di qualità di quel partito, la Democrazia Cristiana, che ha contribuito in modo decisivo a ricostruire la democrazia nel nostro Paese e poi è stata rasa al suolo (insieme al partito socialista) da una iniziativa della magistratura. È impossibile che non si renda conto della drammaticità della situazione italiana, descritta molto bene qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, dal professor Angelo Panebianco. Siamo in presenza di un’offensiva formidabile del partito dei Pm, che è il più originale, piccolo, potente e sovversivo partito che sia mai apparso in Italia dai giorni della Liberazione in poi. È un partito che fonda la sua forza su due elementi: il controllo su quasi tutto il sistema della stampa e dell’informazione; la neutralizzazione di quasi tutte le possibilità di opposizione nel mondo politico. Il partito dei Pm non rappresenta la magistratura, ne rappresenta una scheggia, e tuttavia non trova nessun freno – tranne pochissimi casi isolati – all’interno della magistratura. Perciò dilaga. Ha un disegno molto chiaro, e questo disegno è sostenuto da una parte consistente dell’intellettualità, delle classi dirigenti, dei partiti politici, e naturalmente del sistema dell’informazione: quello di modificare le tradizionali regole della democrazia, di annullare la distinzione e la pariteticità dei poteri, affermando una struttura dello Stato dove uno dei poteri, e cioè quello giudiziario, è sovraordinato e dominante rispetto a tutti gli altri. E dove la struttura stessa della giustizia viene modificata, indebolendo i principi essenziali del diritto e assegnando un compito salvifico al sospetto e alla missione etica. Talvolta questo progetto e questi principi sono espressi in modo esplicito. Come quando Davigo dice che i presunti innocenti sono solo colpevoli che l’hanno fatta franca, o quando Gratteri dichiara di voler smontare la Calabria come un treno Lego. Talvolta sono sottintesi. E comunque sostenuti da una campagna molto forte di opinione pubblica che adopera la parte più importante e più rumorosa delle televisioni, dei giornali, dei social. Il presidente della Repubblica può restare puro osservatore? Ignorare il rischio eversivo? Fingere di non sentire l’appello dei penalisti, che forse sono l’unica forza organizzata che si oppone al bonafedismo e al travaglismo? Escludo che il presidente Mattarella non si renda conto del pericolo che corre l’Italia. E del modo sghimbescio e sciagurato con il quale rischiamo di entrare in una modernità molto oscura (del resto il problema dello strapotere giudiziario riguarda anche altri Paesi dell’Occidente, a partire dagli Stati Uniti e da Israele). E allora? Mattarella, forse da buon democristiano, crede nei passi brevi, nel lavoro invisibile, nella mediazione, nella prudenza. Come il governatore Ferrer dei Promessi Sposi, quando, col più curioso degli ossimori, esorta il cocchiere: «Adelante, Pedro, con juicio». Spicciati ma vai piano. Sarà la strategia giusta? Ne dubito.

Intervista ad Antonio Leone: “Cari Pm, se volete il rispetto rinunciate al potere”. Paolo Comi il 24 Dicembre 2019 su Il Riformista. «Le correnti in magistratura sono sempre più forti. Vuole un esempio? La recente elezione del procuratore generale della Corte di Cassazione. Per una carica tanto importante (il pg della Cassazione, oltre a tutto il resto, è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe, ndr) era auspicabile una maggiore condivisione del Plenum. Invece ci sono stati ben tre candidati, ognuno riferibile a un preciso gruppo associativo. Senza togliere nulla a Giovanni Salvi, magistrato decisamente meritevole e di altissimo profilo professionale e morale, la sua elezione è avvenuta a maggioranza, con 12 voti a favore e ben 5 astensioni. Per una così alta carica, in questo momento, una maggiore condivisione sarebbe stata auspicabile e non avrebbe dato adito a reciproche recriminazioni correntizie. Insomma, poteva essere un segnale e invece si è proseguito con lo stesso sistema anche su altre importanti nomine. Quali Torino, Brescia e Salerno». Antonio Leone, presidente del Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, fino allo scorso anno componente laico del Csm, non crede che dopo lo dimissioni forzate di cinque togati sia cambiato qualcosa a Palazzo dei Marescialli.

Presidente Leone, è scettico?

«Guardi, lo “scandalo” Palamara fino a oggi ha prodotto solo un cambiamento degli equilibri al Csm, con la corrente di Davigo che è passata da due a quattro consiglieri, cinque se vogliamo considerare anche l’indipendente Di Matteo che è stato appoggiato dall’ex pm di Mani pulite. I tanti magistrati italiani che nel 2018 votarono per i cinque consiglieri che si sono dimessi non hanno ora rappresentanza. Le pare normale? Non credo. Sa come si chiama in politica una cosa del genere? Ribaltone bello e buono».

Il problema della magistratura ha un nome e un cognome: Luca Palamara. Concorda?

«Palamara è diventato il capro espiatorio della magistratura italiana. So per certo che molti magistrati fanno addirittura fatica a pronunciarne il nome. È diventato il simbolo della lottizzazione correntizia. Ma le oltre mille nomine che sono state fatte nella scorsa consiliatura non credo siano solo farina del sacco dell’ex consigliere Palamara. Dove erano tutti coloro che oggi lo attaccano e gridano contro il sistema clientelare della spartizione degli incarichi? E dove sono quelli che avrebbero ‘usufruito’ della incriminata spartizione? Il fil rouge dell’ultimo congresso nazionale dell’Anm è stato sostanzialmente: “Basta con Palamara!”. Ma prima di lui lo strapotere delle correnti non esisteva?»

Che idea ha di questa vicenda?

«Tutto nasce dall’indagine di Perugia. Indagine che era nota a ognuno di noi fin dal mese di settembre del 2018, quando un importante quotidiano nazionale pubblicò in prima pagina i dettagli del procedimento pendente a Perugia che riguardava Palamara. Nessuno allora si scandalizzò o parlò di fughe di notizie. Vedo molta ipocrisia. E poi, la stura all’inoculazione del trojan, avvenuto lo scorso maggio, qual è stata? E poi, se l’immagina cosa sarebbe accaduto se qualche “trojanino” avesse girato nei dintorni del Csm da una ventina di anni a questa parte?»

Quindi al Csm non è cambiato nulla?

«I tre candidati per le ultime suppletive, quelle per eleggere il sostituto del consigliere Paolo Criscuoli, erano tutti riconducibili a una corrente, avendo fatto in passato anche vita associativa con incarichi nell’Anm. Il tanto sbandierato pluralismo delle candidature che fine ha fatto? E anche le nomine di importantissimi uffici giudiziari, Roma in primis, sono al palo. Ma non solo: le nomine in dirittura di arrivo vengono bloccate e rimesse in discussione in ossequio, sembra, alle risultanze trojanesche. Mi riferisco al caso della Procura di Salerno che è tornata in Commissione per valutare che tipo di rapporti avesse avuto l’aspirante con Palamara».

Cambiamo argomento, cosa pensa della riforma “epocale” della giustizia di Bonafede?

«La riforma di Bonafede? E chi l’ha vista? Doveva essere pronta per la fine di quest’anno e invece ci sono stati solo annunci per soddisfare l’elettorato giustizialista. Il blocco della prescrizione provocherà il collasso delle Corti d’Appello e creerà una nuova figura giuridica: quella dell’imputato a vita. Siamo di fronte alla fine della stato di diritto. Lo stop alla prescrizione annulla completamente la ratio per cui è stato creato l’istituto stesso. È sostanzialmente un modo per rimediare a un fallimento dello Stato: quello di non riuscire a portare a termine i processi. Il ricorso al “fine processo mai”, diciamocelo, diventa sostanzialmente una sostituzione. La sostituzione della condanna, che lo Stato non riesce a comminare, con un processo infinito. Siamo alle prese con uno strisciante ricorso a una ideologia giustizialista, o giacobina che dir si voglia, che valorizza la teoria in base alla quale siamo tutti e sempre presunti colpevoli. Teoria, questa, molto cara anche a qualche alto magistrato. Questa assurdità riesce a mettere al bando due “parole” di non poco conto: umanità e innocenza. Per non parlare, poi, del giusto processo che servirà solo a riempirsi la bocca. Contro questa riforma, ricordo, si sono schierati gli avvocati penalisti, numerosissimi e autorevoli professori di diritto, e anche molti magistrati. Il ministro, invece, continua a usare toni trionfalistici e propagandistici, supportati da argomentazioni – direi meglio spot – prive completamente di verità».

Il Pd sulla riforma Bonafede sembrava aver preso le distanze. Cosa ne pensa?

«Le distanze a mio parere si sono azzerate. Mi meraviglia come il buon Andrea Orlando (ex ministro della Giustizia, ndr) si sia rimangiato le sue posizioni, che sicuramente avevano avuto un maggiore apprezzamento, per compiacere l’alleato di governo».

Cosa andrebbe fatto subito nel tanto “criminalizzato” rapporto politica e magistratura?

«Innanzitutto andrebbe eliminata da parte della politica la sudditanza psicologica nei confronti della magistratura più ideologizzata. Il legislatore deve essere meno pavido nel normare, una volta per tutte, le regole che impediscano le porte girevoli tra magistratura e politica. Tra l’altro, bisognerebbe eliminare immediatamente tutti gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, affidati proprio dalla politica. Pensi che c’è un magistrato, con l’incarico anche di giudice tributario, che è stato autorizzato dal Csm a svolgere attività di consulenza per il presidente del Consiglio Conte. Questo magistrato, senza essere fuori ruolo, la mattina scrive le sentenze di due giurisdizioni ed il pomeriggio scrive i pareri sulle leggi del governo. Tale consulenza è retribuita con la modica cifra di 40.000 euro all’anno, 500 euro l’ora per essere maggiormente precisi. Su questo i grillini non dicono nulla: la loro battaglia sulle esagerazioni degli emolumenti è terminato».

Il taglio dei vitalizi dei parlamentari ha fatto scomparire la povertà! La magistratura è sempre più delegittimata. Cosa suggerisce per invertire la rotta?

«La delegittimazione è partita dall’interno stesso della magistratura, così come accaduto per la politica anni addietro. Il populismo si è impossessato di ampie fette della magistratura. Penso, poi, a quella folle ipotesi del sorteggio dei membri del Csm voluto da Bonafede e finito nel cassetto in cambio del via libera dei magistrati allo stop alla prescrizione. Magistrati che, durante lo scorso congresso nazionale dell’Anm, hanno repentinamente fatto inversione di marcia proprio su un argomento così delicato come la prescrizione. E la riforma del Csm qualcuno l’ha più vista? Le toghe, giustamente, rivendicano sempre la loro autonomia e indipendenza. Ma per tornare ad avere il rispetto e la considerazione di tutti devono anche rispettare l’autonomia della politica e, principalmente, del legislatore».

·         Il Potere degli “Dei”.

C'era una volta la giustizia. I Pm "intoccabili" che hanno distrutto la magistratura tra beghe, giochi di potere e ricatti. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Il Csm ha scelto la via venezuelana: Palamara non sarà processato, la stragrande maggioranza dei testimoni che lui ha chiesto siano ascoltati non saranno ascoltati. I giudici dei quali ha chiesto la ricusazione (in quanto complici del presunto delitto) non saranno ricusati. Il processo sarà rapidissimo – anche per dimostrare che la giustizia quando vuole sa essere svelta – la difesa sarà messa a tacere, il collegio giudicante sarà composto da complici del delitto, e tra tre settimane ci sarà la sentenza. La sentenza – questa è una notizia che noi abbiamo avuto in esclusiva – sarà di condanna. E a quel punto il caso Palamara potrà essere considerato chiuso e nessuno più dovrà parlarne. I giornalisti sono stati già avvertiti e chi violerà la consegna la pagherà cara. Ha deciso così il Csm. Non c’è niente di forzato nelle righe che ho scritto. È così. Il Csm ha stabilito che non si svolgerà il processo perché il processo vero farebbe saltare in aria tutto l’impianto della magistratura, metterebbe in discussione quasi tutte le Procure, i procuratori, gli aggiunti, i presidenti dei Tribunali, anche moltissimi giudici, renderebbe evidente la necessità assoluta di separare le carriere, potrebbe persino rendere illegali molte e molte e molte delle sentenze emesse in questi anni da giudici sottoposti al ricatto, o comunque al condizionamento, del partito dei Pm che domina il Csm e che si fonda sullo sperimentato sistema delle correnti. È un rischio troppo grande per le istituzioni. Dalle intercettazioni sul telefono di Palamara, e dai trojan, risulta esattamente questo: che la struttura portante della magistratura è illegale e nominata da un sistema ad incastro di condizionamenti e talvolta di ricatti. Che quasi nessun magistrato di potere è estraneo a questo sistema. E che l’intera magistratura italiana è stata ferita a morte e va riformata e riportata almeno vicina alla legalità, dalla quale oggi è lontanissima. Il Csm ha deciso di ignorare tutto ciò, e di prendere in considerazione solo la riunione all’Hotel Champagne (un paio d’ore in tutto) alla quale parteciparono i deputati Lotti e Ferri e nella quale si discusse della nomina del Procuratore di Roma, punto e basta. Per questa riunione – che peraltro fu intercettata in modo totalmente illegale, perché la Costituzione proibisce l’intercettazione dei parlamentari – si propone (e si accoglie) la condanna di Palamara e poi si chiede di stendere su tutto il resto un velo e di cancellare ogni cosa in un grande silenzio. Come esce da questa vicenda la magistratura italiana? Seppellita. È inutile che ogni volta che parliamo della magistratura ripetiamo che però un gran numero di magistrati rispettano le leggi, son persone per bene, sono professionisti capaci. È vero, certamente, ma la magistratura nel suo insieme è una struttura marcia. “Chiacchiere e distintivo”. E di conseguenza la gran parte delle inchieste giudiziarie e delle sentenze, probabilmente, sono ingiuste e sono determinate dai rapporti di forza tra i Pm e i giudici. È così in tutti i paesi dell’occidente? No, non è così. La malagiustizia è uno dei problemi della modernità, ma in pochissimi paesi democratici esiste una situazione così vasta di illegalità, dovuta allo strapotere che negli ultimi trent’anni la magistratura si è conquistato, schiacciando la politica e soffiando via i cardini essenziali dello stato di diritto. Ogni giorno che passa c’è una controprova. Prendete Gratteri, tanto per parlare di uno che un po’ i nostri lettori conoscono. Ma voi sapete di un altro paese occidentale dove un Procuratore, mentre è in corso l’udienza preliminare nella quale si decide la sorte di circa 400 suoi imputati, se ne va in Tv a fare spettacolo, ride, fa battute e sostiene che se la gente viene assolta è perché i giudici sono corrotti, e se spesso le sue inchieste finiscono in un flop è perché nella magistratura c’è molta invidia? E nessuno gli chiede conto del perché un Pm impegnato in un maxiprocesso trova normale e giusto andare in Tv a fare polemica contro i suoi imputati. E se qualcuno al mondo possa mai credere che quel Pm è un Pm rigoroso e serio che si occupa solo del suo lavoro? Conoscete i nomi di magistrati inglesi, o francesi, o tedeschi o americani che si comportano così, senza peraltro che né la politica, né il Csm si occupino di censurare questi atteggiamenti? Non li conoscete. In verità c’era qualcuno che aveva criticato Gratteri: il suo diretto superiore, il Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Fior di magistrato con gloriosa carriera alle spalle. Il Csm nel giro di una settimana, invece di intervenire su Gratteri intervenne su Lupacchini, lo degradò sul campo e lo spedì a mille chilometri dalla sua sede. Voi pensate che ci sarà qualche altro magistrato che leverà la sua vocina, pure flebile, verso lo sceriffo di Catanzaro? E perché – magari uno si chiede – Gratteri è così potente? Perché ha sconfitto la ‘ndrangheta? No, la ‘ndrangheta oggi è infinitamente più forte di quando lui ha iniziato ad operare in Calabria. Ha decuplicato le sue forze. E allora perché? Perché è un Pm che sa fare la parte del Pm moderno: censore, uomo di spettacolo, scrittore, politico. Alla ricerca di reati? No, quelli li trova raramente. Alla ricerca di imputati. Possibilmente illustri. Cosa resta della magistratura? Cenere.

La ramanzina di Di Matteo: «Avvocati, state dalla parte sbagliata». Errico Novi su Il Dubbio il 19 settembre 2020. A un convegno di penalisti il pm Di Matteo parla degli avvocati come se si trattasse dei repubblichini a Salò. “Dalla parte sbagliata si muore”. Solo che la canzone di Francesco De Gregori, “Il cuoco di Salò”, parla di fascisti, di repubblichini. Adesso che Nino Di Matteo ritenga la parte opposta alla sua sbagliata quanto le brigate nere dopo l’ 8 settembre, è francamente esagerato. Sorprende che Di Matteo espliciti, come ha fatto ieri a un convegno organizzato dalla Camera penale di Palermo, un’idea finora apparsa solo sottintesa, tra le righe di sue precedenti dichiarazioni. L’idea cioè che l’avvocatura sia, generalmente, un nemico, addirittura un «ariete» schierato appunto «dalla parte sbagliata», contro quelli da lui definiti «i magistrati liberi e intelligenti». Tra l’altro ne parla a proposito delle toghe, come quelle coinvolte nel caso Procure, intente a tramare con «parti importanti delle istituzioni» per «sbarrare la strada a chi veniva considerato cane sciolto», cioè «quei magistrati considerati non controllabili». A parte il fatto che non è chiaro né a quali trame ci si riferisca né cosa c’entri la classe forense. Ma il togato Di Matteo si è accorto o no che quando gip come il povero Vinicio Cantarini di Rimini sono stati quasi linciati per aver osato firmare ordinanze cautelari in dissenso dalla curva forcaiola, i soli a difenderli sono stati gli avvocati ( e il loro giornale, ossia il Dubbio)? E sempre il consigliere Di Matteo ha dato uno sguardo alle parole pronunciate nell’ultimo lustro, innanzitutto dal presidente Andrea Mascherin, a ogni inaugurazione dell’ano giudiziario del Cnf, riguardo la riforma dell’avvocato in Costituzione, proposta come scudo da assicurare ai magistrati contro i tentativi della politica di insidiarne l’indipendenza? Vogliamo per caso ricordare, consigliere Di Matteo, che a disegnare l’ordinamento della giustizia italiana per come lo conosciamo ( organo di governo autonomo a maggioranza togata, indipendenza assoluta del pubblico ministero) è stato un avvocato, Piero Calamandrei? Ma comunque sarebbe ingiusto replicare a Di Matteo senza ricordare che, come spesso gli capita, anche al convegno dei penalisti palermitani di ieri ne ha avute per tutti, non solo per gli avvocati. Il primo della lista in fondo resta Alfonso Bonafede. Di Matteo ha di nuovo silurato la riforma del Csm, che secondo lui ha «più ombre che luci». Non ha risparmiato i colleghi, soprattutto chi ha assunto la stessa carica da lui oggi ricoperta di consigliere superiore: «Ho già detto che il metodo dell’appartenenza, privilegiato nelle scelte sulla carriera di un magistrato, è un metodo, nelle logiche, dell’agire mafioso: lo dico e lo confermo». Poi però ci piacerebbe rilevare che sempre da lui, il pm antimafia, il titolare dell’indagine sulla trattativa, si è ascoltata ieri una delle più lucide analisi sulla crisi della magistratura: «Temo che stia cambiando il dna dei giovani magistrati: prima noi ci accapigliavamo per avere l’assegnazione del processo ritenuto più interessante o potenzialmente più rischioso, oggi la gerarchizzazione degli uffici ha favorito quella ricerca delle cosiddette medagliette, degli incarichi che servono a poter dire, quando si aspira a un direttivo, “ho già coordinato un gruppo” o “ho collaborato con il dirigente dell’ufficio”. Così si crea figura di un magistrato che piuttosto che fare giustizia vuole ottenere la gratitudine del proprio dirigente». Ecco, con magistrati liberi e intelligenti come Di Matteo si potrà essere in disaccordo su molte cose, ma mai schierarsi «contro» come in una guerra.

La giustizia da riformare. “Pm senza freni, vanno controllati”, l’accusa del penalista Furgiuele. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Non crede nelle inchieste a orologeria, né nelle persecuzioni giudiziarie. «Non si può generalizzare, bisogna analizzare caso per caso», osserva Alfonso Furgiuele, giurista, penalista e titolare della cattedra di Diritto processuale penale all’Università Federico II di Napoli. È stato il difensore di Clemente Mastella nei processi che si sono conclusi con le piene assoluzioni dell’ex ministro e leader dell’Udeur. È attuale difensore di Luigi Cesaro, leader del centrodestra campano, e di suo figlio Armando che proprio per le vicende giudiziarie che recentemente vedono coinvolto il padre ha deciso di non candidarsi alle regionali. E di esempi se ne potrebbero citare ancora tanti. Furgiuele è esperto in processi per reati contro la pubblica amministrazione e, nella sua lunga carriera, ha sostenuto la difesa di politici e imprenditori. Di storie di vite stravolte da vicende giudiziarie ne ha viste tante. Per lui il vero nodo della giustizia sta nell’uso che i pubblici ministeri fanno dell’azione penale. «In Italia – spiega – abbiamo un uso discrezionale strisciante dell’azione penale e delle iniziative in vista dell’azione penale. Una delle cose che trovo gravi è che il pubblico ministero ha delle notizie di reato che lascia dormire a oltranza finché non si prescrivono nella fase delle indagini e altre notizie di reato che seguono una corsia preferenziale». Ed è in questa discrezionalità che potrebbe (il condizionale è d’obbligo per non cadere in facili generalizzazioni) inserirsi l’anomalia della strumentalizzazione dell’indagine da parte di un pm desideroso di attirare su di sé l’attenzione mediatica o innamorato di una tesi investigativa su una determinata persona, che sia un politico, un imprenditore, o chiunque altro. «Il processo penale – aggiunge Furgiuele – è una macchina terrificante che distrugge le persone ma per il solo fatto che c’è il processo. Molte volte si teme più il processo che la sentenza, anche se si viene assolti o il reato si prescrive, perché intanto le conseguenze sono devastanti». Si pensi a un imprenditore che si ritrova sotto inchiesta e per anni processo, intanto che riesce a dimostrare la sua innocenza la sua azienda può fallire. O si pensi al politico o a al professionista le cui carriere possono essere bruscamente fermate e stravolte da un’inchiesta giudiziaria per accuse che non saranno mai accertate nel processo, che non sono fondate, dalle quali si verrà assolti. La nostra storia giudiziaria è piena di casi di questo tipo. E a metterci il carico sono i tempi dei processi, quelli tanto lunghi da rappresentare una condanna che arriva prima ancora che si definisca il processo e la decisione dei giudici. «Il processo – sottolinea Furgiuele – deve avere una durata ragionevole. È necessario un serio controllo sull’operato del pubblico ministero. Servirebbe un controllo più attento e capillare anche sulla tempistica delle indagini e sulle archiviazioni per prescrizione. E se si rileva una violazione dell’articolo 112 della Costituzione si deve procedere nei confronti del pubblico ministero almeno con un provvedimento disciplinare se non addirittura per abuso d’ufficio o favoreggiamento. Ci vorrebbe, quindi, un controllo maggiore sull’ufficio del pubblico ministero ad opera del procuratore generale o, se si vuole, di una commissione di inchiesta o di organi di vigilanza sulla magistratura». Da giurista, Furgiuele ha una proposta: «L’obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla Costituzione in Italia viene elusa continuamente, allora a mio giudizio si potrebbe anche rendere discrezionale l’azione penale purché sia controllata. Il pubblico ministero – osserva – non può scegliere in maniera arbitraria dove procedere e dove no, perché allora il sospetto che ci sia una strumentalizzazione sarebbe un sospetto fondato. Meglio, quindi, un’azione discrezionale penale sottoposta al controllo giurisdizionale: eliminiamo l’obbligatorietà a favore di una discrezionalità sottoposta al vaglio di un giudice che controlli se si è fatto buon governo o mal governo della discrezionalità. Altrimenti continueremo ad affidarci alla scelta del singolo sostituto, perché a volte nemmeno il procuratore sa che fine fanno i processi e dove stanno, e avremo ancora molti procedimenti archiviati dopo essere stati anni negli armadietti dei magistrati».

Il mondo delle professioni. “Fare l’avvocato è difficile, anche per colpa dei magistrati”, l’accusa del penalista Botti. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Settembre 2020. La crisi della giustizia coincide con la crisi della professione di avvocato. Per l’avvocato Claudio Botti, penalista di grande fama e di grande esperienza, l’emergenza legata alla pandemia ha solo amplificato un problema che ha origini lontane e una matrice culturale. La sua è un’analisi lucida e precisa che termina con un monito per le nuove generazioni affinché si affaccino alla professione forense con più consapevolezza e un richiamo all’avvocatura più esperta affinché recuperi la responsabilità e la centralità del ruolo del difensore. La sua proposta? L’istituzione di albi di specialità in modo da rendere più specialistica la formazione degli avvocati. Quanto alla lenta ripresa delle attività giudiziarie che scandisce i ritmo della riapertura degli uffici giudiziari dopo la pausa feriale, afferma: «Non si tratta di ripresa, perché la ripresa presuppone che ci sia stata un’attività. Qui si tratta di organizzare un inizio di attività giudiziaria, tenendo conto delle contingenze e della situazione con la quale purtroppo ancora dobbiamo convivere».

Avvocato Botti, quanto è difficile svolgere oggi la professione di avvocato?

«Certamente oggi è più difficile. I numeri e il contesto non consentono di valorizzare il merito. Oggi avanza più facilmente chi è più furbo, chi è astuto, chi ha più conoscenze. E questa è una responsabilità degli avvocati ma anche della magistratura, perché l’assoluta indifferenza nei confronti del difensore ci ha reso tutti soggetti fungibili. Inoltre siamo gli ultimi tuttologi, perché superato l’esame di accesso alla professione, che così come è strutturato è un terno al lotto, dal giorno dopo possiamo fare qualsiasi tipo di causa, dal tar alla Corte di Assise, al giudice del lavoro, senza alcun controllo esterno se non quello della propria coscienza perché non è previsto un albo di specialità. Il problema è che il rapporto fra domanda e offerta nel nostro ambito è completamente saltato, c’è assoluta trasversalità e una qualità sempre più scadente, perché già è difficile stare dietro alla propria specialità, figuriamoci doversi occupare di tutto».

L’avvocatura rivendica il suo ruolo centrale e lamenta un’emarginazione fisica e culturale. In che senso?

«Il degrado della categoria professionale e l’assoluta inconsapevolezza del proprio ruolo ha consentito a chi non ha sensibilità giudiziaria di emarginare il difensore, perché gli avvocati sono troppi, tanti, e non più capaci di rivendicare il loro ruolo. Servono avvocati consapevoli e seri affinché l’emarginazione culturale possa avere un’inversione di tendenza. C’è un problema di cultura della giurisdizione per cui la presenza del difensore e dell’avvocato è una presenza più sopportata che desiderata e auspicata. È un problema che viene da lontano e che l’emergenza sanitaria ha solo esasperato. Il percorso di emarginazione ha una sua matrice certamente legislativa, e quindi nella cultura del legislatore, recepita dalla magistratura. Gli avvocati non sono stati in grado di invertire questa tendenza per riaffermare la centralità del loro ruolo nel processo. E l’emergenza sanitaria ha amplificato al massimo questa contraddizione per cui addirittura si era pensato che i processi penali si potessero fare da remoto con la toga sopra e il pigiama sotto».

Dopo il lockdown la giustizia stenta ancora a ritrovare i suoi ritmi di sempre, che pure non potevano dirsi rapidi. Come mai secondo lei?

«Ci sono stati lavoratori messi da subito in condizione di lavorare perché si è ritenuto che il loro fosse un servizio pubblico essenziale, invece la giustizia non è stata ritenuta tale e questo è assurdo. C’è stata un’assoluta superficialità della politica e gli avvocati sono stati e continuano a essere ritenuti ospiti quasi indesiderati nei Palazzi di giustizia d’Italia. Non devono esserci presenze di serie A e presenze di serie B, ma il problema, come dicevo, è anche culturale. Inoltre c’è stato un ostruzionismo dei sindacati dei cancellieri rispetto a ogni apertura sia a livello legislativo e ministeriale sia a livello di capi degli uffici giudiziari, e così loro decidono con la consapevolezza che il proprio stipendio va e viene. Sono in una condizione di assoluto privilegio che però determina una specie di ricatto per l’intera macchina giudiziaria, e non solo a Napoli».

«Le procure vogliono solo potere e nessuna responsabilità». Parola di Tullio Padovani. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 agosto 2020. «Che senso ha riformare il Csm senza aver risolto il problema della separazione delle carriere». Parla Tullio Padovani, avvocato penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Tullio Padovani, avvocato penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa è tra i pochissimi accademici del suo campo ad essere stato invitato a far parte della Accademia Nazionale dei Lincei. In questa lunga intervista affronta i temi attuali di politica giudiziaria senza molti giri di parole.

Cosa ne pensa della riforma Bonafede del Csm? Il Presidente dell’Ucpi Caiazza ha parlato di una riforma dalla “gravità inaudita” che consegna il Csm in mano alle Procure.

«Condivido pienamente il punto di vista di Caiazza, è demoralizzante quello che ho letto. Mi chiedo chi scriva certe “riforme”. Dobbiamo chiederci se ha senso riformare il Csm senza prima aver risolto il problema della separazione delle carriere. In caso contrario avremo un Csm che sarà comunque dominato dalle Procure. A meno che non si adotti il sorteggio puro contrario alla Costituzione – i pm domineranno perché sono i magistrati più visibili, quindi saranno i più votati, anche perché incutono più rispetto e timore. L’illusione di sradicare le correnti attraverso meccanismi elettorali somiglia tanto a quella illusione, che a suo tempo Giovanni Sartori dileggiava, secondo cui con la legge elettorale si potesse determinare la conformazione dei partiti: ad esempio favorire il bipartitismo con il sistema uninominale. Il sistema elettorale non è in condizioni di determinare l’assetto degli attori in gioco. Questo vale di più per i magistrati perché le correnti della magistratura hanno la forma dell’acqua: puoi inventare tutti i recipienti del mondo, sempre acqua sarà. Dunque con questa riforma si vuol far finta di riformare. Come diceva Tancredi nel Gattopardo: «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»».

Ma i tempi per la separazione delle carriere sono maturi?

«Si tratta di un dato ormai conquistato dall’opinione pubblica più sensibile, più consapevole; però non è un ostacolo facile da superare per una serie molteplice di ragioni, non ultima quella che i pm si renderebbero conto di perdere potere, e dico potere nel senso negativo del termine: oggi dominano la scena. Le indagini preliminari esauriscono in pratica il procedimento, quello che avviene dopo interessa fino ad un certo punto. La ragione della loro contrarierà è rappresentata dal dire che non vogliono finire sotto l’Esecutivo».

Ma la proposta di legge depositata dall’Ucpi non prevede questo.

«Avverrebbe solo se lo si volesse ma non è questo il caso. In Francia avviene perché si vuole che sia così. Ogni sistema si può impostare secondo gli obiettivi da raggiungere. Da noi non solo non c’è quell’obiettivo ma non lo si deve raggiungere. Ci sono Paesi in Europa da cui trarre spunto per meccanismi alternativi: in Olanda, ad esempio, c’è un sistema della separazione delle carriere con l’azione penale non obbligatoria e una procedura che consente un controllo interno sull’esercizio delle procure, con una responsabilità politica al vertice».

A proposito dell’obbligatorietà dell’azione penale le Procure escono rafforzate anche dal potere che il ddl conferisce loro di definire priorità fra i reati da perseguire.

«I manuali inglesi di procedura penale iniziano dicendo che la pubblica accusa deve scegliere, non si può perseguire tutto perché il sistema non è in condizioni di farlo. Quindi è necessario fare una scelta per non ingolfare la macchina della giustizia. La scelta come va organizzata? E qui arrivano i dolori: loro pensano di cavarsela con le “priorità”: sono una balla, sono un inganno, una frode direi. Quando un pm dice “prima perseguo una cosa e le altre le metto in fila” si presuppone logicamente che prima o poi tutte le ipotesi di reato dovranno essere vagliate. E nel nostro caso quando arriva il turno di coloro che sono ultimi in questa fila? Si presuppone così che i processi siano eterni: verranno posposti i processi che si terranno forse dopo 30 anni».

La situazione si è aggravata ulteriormente con la riforma che ha reso la prescrizione pressoché inesistente.

«Infatti riempiamo gli armadi di fascicoli. Prima avevamo l’amnistia e l’abbiamo abolita, poi è arrivata la prescrizione per supplire ad una mancanza di discrezionalità ordinata. Si diceva ‘” scegli cosa è importante e il resto va in prescrizione”. Adesso neanche più la prescrizione! Quindi cosa rimane? La morte del reo. Allora non parliamo di priorità; dobbiamo trovare un meccanismo che stabilisca cosa si persegue e cosa no. L’obiettivo è selezionare cosa va a giudizio e cosa non ci va».

L’articolo 112 della Costituzione dice che l’azione penale è obbligatoria senza aggiungere altro.

«Non entrando nel dettaglio – come, quando, con quale intensità processuale – dice sostanzialmente che l’azione penale è arbitraria: fate quello che volete. Intanto è obbligatorio fare tutto e le altre cose aspetteranno perché noi non possiamo dire che non le perseguiremo ma lo faremo in un dopo indefinito. La resistenza contro l’abolizione dell’obbligatorietà deriva proprio da non volere superare questo regime di arbitrarietà: fa comodo ora agire con assoluta discrezionalità senza limiti né controlli».

Sarebbe importante dunque un controllo sull’operato delle Procure?

«Un sistema controllato e guidato consentirebbe anche la verifica dell’efficienza dell’operato rispetto a quello che decidi di portare a giudizio. Come è andata a finire? Perché è fallito il processo? Perché hai deciso di perseguire Tizio o Caio? O questo tipo di reato? Perché le prove non sono state sufficienti? E perché, se non lo erano, hai deciso di andare avanti lo stesso? Un meccanismo del genere responsabilizzerebbe molto. Mia cara, nessuno in questo Paese vuole un responsabilità. Tutti vogliono il potere che deve essere insindacabile. Si tratta di una logica che si sta imponendo».

A proposito di visibilità dei pubblici ministeri e Csm, cosa ne pensa della querelle Di Matteo- Bonafede sul Dap?

«Sono polemiche miserabili, roba squallida di provincia. Di Matteo e Bonafede sono due personaggi di un’antica commedia che purtroppo è stata inaugurata in epoca repubblicana. Uno dei mali nato con il regime repubblicano è che a dirigere l’esecuzione penitenziaria ci va per lo più un pubblico ministero. Ma siamo matti? L’esecuzione penale a tutti può andare ma non ad un pm perché è colui che ha portato nel processo un punto di vista, quello dell’accusa, e quindi non può avere la sensibilità di gestire la condanna, che casomai proprio lui ha ottenuto, a prescindere dalla colpa. La condanna in linea di principio dovrebbe prescindere dalla colpa: quest’ultima rimane alle spalle, pensiamo al futuro del detenuto. Ma il pm non è l’organo del futuro, è quello del passato. L’Italia liberale mai avrebbe pensato di mettere a capo dell’amministrazione penitenziaria un pm: è un pensiero osceno. Si ricordi che nell’Ottocento noi abbiamo avuto fior di penitenziaristi di livello europeo, gente che veramente ha fatto compiere passi straordinari al pensiero penitenziario: erano grandi funzionari dello Stato che dirigevano l’esecuzione penale. Le faccio un nome: Martino Beltrani Scalìa».

Un altro tema enorme è quello dei magistrati fuori ruolo, in particolare di quelli distaccati presso il Ministero della Giustizia con buona pace del principio della separazione dei poteri.

«Chi le parla ha lavorato per il Ministero della Giustizia per 25 anni. Il mio ingresso fu propiziato da un giovane e brillante magistrato che ai tempi stava all’ufficio legislativo: Giorgio Lattanzi. Ho prestato questo servizio con gioia, avevo accanto molti colleghi e anche magistrati con cui abbiamo costruito diversi tavoli e commissioni. Il problema in realtà sta qui: perché il Mini- stero della Giustizia deve essere gestito solo da magistrati? Ma non dovrebbe proprio essere così. Chi deve decidere, il giudice, non può amministrare proprio niente: deve essere nelle condizioni di dirimere un conflitto che vede da un lato la Repubblica e dall’altro il signor Rossi. Per questo il giudice è terzo e le carriere devono essere separate, perciò il giudice deve essere immune da un rapporto con le due parti che lo coinvolga addirittura in termini di colleganza. Le pare che chi ha questo compito va a dirigere qualche ufficio al Ministero?»

Oggi sembra che nessuno conosca Palamara o che gli abbia chiesto favori. La sua espulsione dall’Anm e l’eventuale radiazione bastano a sanare la questione?

«Palamara comincia a farmi simpatia: buttata via la pecora nera rimane un gregge di pecorelle bianche. Ci sono o ci fanno? Palamara aveva il potere di fare tutto quello che è accaduto da solo? O aveva bisogno di una miriade di rapporti, di relazioni, di complicità, di connivenze? E infatti la sua lista testimoniale evoca questa rete sociale. Han fatto bene i suoi avvocati: Palamara non era solo. Sarà anche colpevole ma la sua colpa va inserita in un contesto in cui non ha agito da furfante solitario ma come esponente di un sistema nel quale ha assunto un ruolo non certo da unico protagonista. Siccome questa linea di difesa è sconvolgente nel senso che sconvolge equilibri e distrugge l’idea della solitaria pecora nera da sacrificare, ora non sanno a che santo votarsi: come faranno a non ammettere questi testi? Secondo me alla fine troveranno un modo, altrimenti sarebbe devastante per l’intero sistema. Ora vogliono solo isolare il tumore senza riconoscere le metastasi: si tratta di un tumore piccolo di un organo periferico, lo asportano e pensano che l’organismo guarisca. Non stimo Palamara ma vederlo così vilipeso e così isolato mi spinge ad essere dalla sua parte, perché da radicale sto dalla parte dei più deboli».

Appunto, Lei è radicale dal 1956. Da questa sua prospettiva come giudica questa alleanza tra Movimento 5 Stelle e Pd?

«Si tratta di una delle cose più tristi che siano accadute in Italia negli ultimi 50 anni. Qualcosa di inqualificabile. Perché siamo arrivati a questo risultato lo sappiamo tutti. Non posso non pensare senza una fitta al cuore a come il Pd ha gestito la riforma penitenziaria della Commissione Giostra. Il Partito Democratico aveva la possibilità di approvarla e se l’è venduta per un piatto di lenticchie, aveva paura che alle elezioni avrebbe perso. E ha perso lo stesso. Come disse Winston Churchill sugli accordi di Monaco del '38: "Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra"».

Una ultima domanda in relazione all’emergenza covid: cosa ne pensa dell’Associazione Nazionale Prèsidi che ha chiesto di rivedere la responsabilità penale imputabile ai dirigenti?

«Fanno benissimo, li capisco perché noi viviamo in un Paese dove i paradossi sono la normalità, dove è facilissimo finire nell’orbita di un procedimento penale da cui ti potrai difendere in non si sa quanti anni. Questa situazione li allarma ma in un Paese civile tutto si ridurrebbe alla constatazione dell’aver eseguito le istruzioni che sono state impartite per la gestione della prevenzione. Se poi si verifica un contagio come si fa a stabilire che è dipeso dall’inosservanza di quelle cautele? Non sono mica chiusi in una istituzione totale i bambini: vanno a casa, comunicano tra loro, frequentano altri luoghi. L’attribuzione di una colpa è un gioco a cui assistiamo ogni giorno. Giustamente i prèsidi vogliono una garanzia scritta perché non vogliono finire in un tritacarne. So da avvocato quanto l’esercizio dell’azione penale possa essere devastante nella vita di una persona».

Il paradosso dei giudici italiani: fanno leggi, condannano e vigilano sulle prigioni. Franco Corleone su Il Riformista il 13 Agosto 2020. Discontinuità. Una parola scomparsa dal dizionario della politica di colpo, dopo essere stata evocata come fondamento di una operazione trasformistica. Ora si vuole tornare alla normalità pre-covid in ogni settore economico o sociale. Nessuna riforma è all’orizzonte né nella sanità, né nella scuola, né nell’università, né nei consumi (tanto meno nei costumi), né nell’ambiente e nella produzione. Parodiando la abusata frase del Gattopardo si sente ripetere “che tutto torni come prima, presto” e soprattutto si sente la molla della dea pecunia, il denaro della vituperata Europa da sperperare senza controllo per grandi e piccole opere, spesso inutili se non dannose. Due grandi questioni di civiltà, il carcere e il rapporto tra magistratura e politica, sono state accantonate irresponsabilmente. Carcere e giustizia rappresentano un binomio che fa capire molto del potere e dei rapporti di potere nella società. La riforma del CSM si limita a una modifica della tecnica elettorale e a un bizzarro ricorso al sorteggio. Invece di puntare alla qualità si ricorre al caso, evitando le questioni spinose della responsabilità e degli errori. Il carcere rappresenta il deposito finale di una attività giudiziaria indirizzata alla repressione di questioni sociali come il consumo di droghe vietate in nome di un proibizionismo ideologico, l’immigrazione resa illegale, l’emarginazione sociale e, in ultima analisi, la povertà. Il totem della obbligatorietà dell’azione penale copre le scelte discrezionali per cui i reati dell’articolo 73 della legge antidroga relativi alla detenzione e al piccolo spaccio sono perseguiti in maniera esponenziale rispetto ai delitti contro la persona e il patrimonio. I dati clamorosi sono svelati nell’undicesimo Libro Bianco sugli effetti sulla giustizia e sul carcere del Dpr 309/90 (il decreto sulla droga). Il paradosso dell’Italia è che i magistrati giudicano nelle aule di tribunale, governano il ministero della Giustizia e sono padroni assoluti del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria che determina la vita delle carceri dove sono rinchiusi i condannati. Un potere unico che fa le leggi, condanna e vigila sul regime delle prigioni. Una evidente stonatura a cui si dovrebbe porre rimedio. Lo dico consapevole della qualità che in alcuni momenti storici è stata rappresentata proprio da magistrati che hanno rappresentato una eccelsa classe dirigente. Quando fui sottosegretario in via Arenula con Giovanni Maria Flick ministro, lo staff era composto da Loris D’Ambrosio, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Franco Ippolito, Vladimiro Zagrebelsky, Luigi Scotti e altri giovani collaboratori che ora sono in Cassazione (il mio capo segreteria era Giuseppe Cascini) e al Dap responsabili furono prima Michele Coiro e poi Sandro Margara. Se infine ricordo che in Parlamento erano presenti autorevolmente Luigi Saraceni, Elvio Fassone e Salvatore Senese si rischia di essere travolti da un mix di nostalgia e malinconia. Erano protagonisti A Montecitorio e a Palazzo Madama prestigiosi avvocati come Giuliano Pisapia, Guido Calvi e Gaetano Pecorella. Davvero un altro mondo. Però proprio in quegli anni ci si pose il problema di limitare il numero dei magistrati fuori ruolo nei ministeri e si approvò la legge per assicurare l’accesso degli avvocati in Cassazione, che non era un provvedimento corporativo ma di grande valore simbolico, anche se dispiace constatare che una riforma attesa da tanto tempo sia rimasta sostanzialmente bloccata e inapplicata. Purtroppo anche l’istituzione di una doppia dirigenza, in modo da attribuire i compiti amministrativi delle procure e dei tribunali a personale specializzato e non ai magistrati, è rimasta nel limbo dei desideri. Ma gravissima è stata la ripercussione sulla gestione del Dap che ha visto l’esclusione totale dei laici. Dall’epoca di Nicolò Amato fino a pochi anni fa, uno dei due vicecapi proveniva dalla carriera dei direttori. Nel momento in cui è stato previsto un solo vice, questo ruolo è stato affidato a un magistrato. Così oggi il Capo del Dap e il suo vice sono magistrati (che siano PM è irrilevante o un eccesso), il dirigente dei detenuti e del trattamento è un magistrato, il responsabile del personale e risorse è un magistrato. È una situazione aberrante e intollerabile. Come ha detto icasticamente Mauro Palma nell’incontro promosso dalla Società della Ragione il 29 luglio per prendere forza dal pensiero di Sandro Margara, il carcere è oggi un luogo vuoto e sordo. Il virus da combattere con intransigenza è quello che cancella i principi della Costituzione, i diritti e le garanzie.

Spada e bilancia, ai magistrati il potere (senza controlli) della polizia giudiziaria. Alberto Cisterna su Il Riformista il 9 Agosto 2020. Alcuni punti fermi nella discussione esistono. Allinearli rapidamente può essere utile per tentare un passo in avanti. Ad esempio non ci voleva lo scandalo delle toghe per enfatizzare un dato noto da tempo, ossia che la lotta per le carriere è al calor bianco soprattutto tra i pubblici ministeri e soprattutto quando si aspira a posti di comando nelle procure della Repubblica. A innescare la guerriglia e a dar fuoco alle polveri una pericolosa miscela che prende le mosse da improvvide riforme legislative (la brusca riduzione dell’età pensionabile a 70 anni e il rafforzamento, dal 2006, dei poteri dei capi degli uffici) e giunge sino alle opache commistioni – sempre più intime – tra non poche toghe e un certo giornalismo “da riporto” più che “da caccia”. Il tutto reso più instabile e precario dalla disponibilità sempre più vasta che i Pm esercitano sulla polizia giudiziaria; una potestà che ha addirittura un fondamento costituzionale e che, per tale ragione, si ritiene intangibile. Ci sarebbe altro, ma accontentiamoci di questo, per questa volta. Di tutte le criticità che affliggono settori esponenziali della magistratura inquirente quella delle relazioni tra Pm e polizia è la più difficile da affrontare. Invero in molti vorrebbero che non se parlasse affatto. È un intreccio inestricabile di norme, di prassi e di qualche devianza che affligge certo a macchia di leopardo la giustizia inquirente, ma che – come tutte le malattie pericolose – ha un alto tasso di contagiosità. È un connubio a geometria variabile quello tra Pm e polizia giudiziaria che, solitamente, vive sommerso, a pelo d’acqua, appena percepibile, ma che, tuttavia, è capace di ergersi possente e spietato quando occorre. Un potere in apparenza mite, cresciuto e giustificato dalla retorica del “fare squadra” che un senso aveva nella Palermo degli anni ’80 in cui toghe e divise corrotte occupavano i palazzi del potere, isolando gli onesti, ma che è privo di ogni giustificazione in questi decenni del nuovo secolo, quando 40 anni sono passati, e non invano per fortuna, da quella stagione buia. Si diceva della disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero. A parlarne si varcano i cancelli di un giardino proibito e si affonda lo sguardo sui pilastri sommersi dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura in Italia. Senza l’articolo 109 della Costituzione («L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria») l’ordine giudiziario, la sua stessa rappresentazione iconografica, avrebbe in mano la bilancia, ma non la spada, ovvero il simbolo della sua capacità di recidere e colpire il male. Si badi bene: la giustizia penale in Italia non si limita a stabilire chi sia colpevole o innocente, come nel resto del mondo occidentale, ma dispone tra le proprie fila di un braccio operativo, di un’organizzazione praticamente illimitata, fondata sulla disponibilità che il pm ha di centinaia e centinaia di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria anche nel più minuto dei circondari di tribunale. Organizzazione che, come noto, ha un compito decisivo ovvero stabilire di cosa i giudici si possano e si debbano occupare. Anche solo indicare a chi competa la qualifica di operatore di polizia giudiziaria è un compito immane: oltre alle tradizionali forze di polizia, ci stanno dentro gli ispettori dell’Inail, quelli dell’Inps, quelli delle Dogane, quelli dell’Ispettorato del lavoro, gli uomini della polizia provinciale, quelli della polizia locale in ciascun comune, quelli dell’Agenzia delle entrate e tanti altri ancora. Un esercito che, manovrando abilmente, può rappresentare una forza d’urto incontenibile e che ciascun Pm può adoperare a propria discrezione: a Piacenza, per dire, le indagini sui carabinieri sono state condivise tra Guardia di finanza e Polizia municipale. In altri ordinamenti questa possente ed efficiente macchina da guerra viene tenuta meticolosamente distinta dai giudici. L’attività inquirente è concepita come un’attività amministrativa e non giurisdizionale e, quindi, soggiace naturalmente a un altro modello organizzativo. La pensava così anche Giovanni Falcone, come noto, che del processo accusatorio, quale strumento per battere le mafie, era un convinto e leale sostenitore. Il nocciolo della questione è che, distinta la bilancia dalla spada, il peso complessivo della corporazione svanirebbe o quasi, come in molti altri ordinamenti in cui la giustizia è un mero apparato di servizio e non la cruna dell’ago attraverso cui deve passare il cammello della moralità e della legalità di una Nazione. Ciò che rende centrale nel nostro ordinamento la posizione del Pm nei ranghi della giurisdizione è proprio questa incondizionata disponibilità di uomini e mezzi con un budget, a sua volta, privo di limitazioni finanziarie e di rendicontazioni contabili. Un fatto impensabile altrove. E’ l’ufficio del pubblico ministero che, per così dire, impugna la spada e – condividendo con i giudici l’appartenenza alla medesima corporazione – si pone, lui stesso e lui solo, alla ricerca dei colpevoli, senza incontrare alcun limite che non sia quello, fragile e indifeso, di incanalare le indagini all’interno di un fascicolo. Non importa, poi, quanto questo fascicolo sia smisurato e per quanto tempo resti aperto o che ci entri o ci esca con il sistema degli “stralci”. Non esiste, di fatti, alcun controllo su questo snodo del lavoro inquirente e ogni, pur recente, tentativo di porre un argine a queste prassi è naufragato a fronte di un’evidenza assoluta: per controllare l‘ufficio del pm ci sarebbe in teoria la procura generale in ciascun distretto, ma i mezzi del primo surclassano quelli del secondo di innumerevoli volte. Il controllato è molto più efficiente e, quindi, molto più potente del controllore. Per cui partita chiusa; anzi mai disputata, se non in qualche rara occasione. E’ come far giocare Messi con il troppo cieco Mr. Magoo. L’erezione di questo monolite, si badi bene, è un’operazione complessa, richiede intelligenza, alleanze e una capacità di reclutamento tanto feroce quanto efficiente. Soprattutto richiede consenso e parecchio, in modo tale che non trovino ostacoli negli edifici del potere le prassi di cooptazione con cui il pm si sceglie la propria polizia giudiziaria e, altrettante volte, la polizia giudiziaria individua il proprio pubblico ministero. Il decennio appena trascorso appare, a ogni evidenza, come il laboratorio ideale in cui questo inatteso Moloch ha preso vita tra le maglie sfilacciate del processo. Su come sia stato possibile ne riparleremo. Per ora si profila chiaro che coloro i quali – da qualche decennio e invano – reclamano la separazione delle carriere tra giudici e pm in nome della parità tra le parti del processo, trascurano quasi sempre un fattore decisivo della partita che vorrebbero giocare: la diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pm. Una disponibilità che si é tentato inutilmente e blandamente di contenere da parte del potere politico e dei vertici delle forze di polizia (basta leggere la sentenza 229/2018 della Corte costituzionale) e su cui si fonda la complessiva potestas (più che l’ormai scarsa auctoritas) della magistratura italiana. Non é detto che il potere politico nasca sempre e ovunque dalla canna dei fucili (Mao Tsé-Tung), ma ci sarà una ragione se Brenno, durante il sacco del 387 a.C., davanti ai Romani che protestavano per la bilancia truccata con cui si pesava l’oro del riscatto consumò il gesto di lanciarvi sopra la propria spada prima di pronunciare il celebre “vae victis”. Ecco una spada che difende una bilancia truccata, pessimo monito per una protesta senza grandi speranze.

Il Pm sceglie il giudice, Costituzione calpestata. Italia peggio del Venezuela. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Luglio 2020. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Questo è l’incipit dell’articolo 25 della Costituzione. E l’articolo 25, insieme all’articolo 111, è uno dei pilastri dello stato di diritto. Bene. a Roma questo articolo della Costituzione non è conosciuto. O forse è conosciuto ma è considerato ingombrante. Comunque non è applicato. Cosa succede a Roma? Che c’è una disposizione presa di comune accordo dal Presidente del tribunale e dal Presidente della Corte d’Appello – e approvata poi anche dal Csm – in base alla quale il Pubblico Ministero ha il diritto di chiedere l’assegnazione del processo a una sezione penale e a un collegio, e dunque a un giudice, di suo gradimento. Ora sembra che questo metodo venga applicato con una certa frequenza. Cioè, cosa succede? Che il Pm conclude le indagini, chiede il rinvio a giudizio e poi chiede che il giudizio sia affidato a un magistrato di proprio gradimento. È avvenuto recentemente in un processo nel quale il Pm era piuttosto noto, Stefano Fava (il suo nome è stato portato sui giornali soprattutto dal caso Palamara). Anche l’imputato era piuttosto noto: Stefano Ricucci. Cosa ha fatto il Pm? Ha chiesto al Gip di affidare il giudizio alla seconda sezione penale del tribunale di Roma collegio numero 1. Il Gip ha accolto solo in parte la richiesta di Fava, perché ha assegnato il processo alla seconda sezione ma al terzo collegio. Il Presidente del primo Collegio era la dottoressa Anna Maria Pazienza, e il Presidente del terzo collegio era la dottoressa Anna Maria Pazienza. Dunque il Gip ha formalmente non accolto la richiesta del Pm, ma nella sostanza la ha accolta. Ha commesso una irregolarità? C’è stata qualche violazione di legge o di regole? Ci sono dei sospetti sull’imparzialità della dottoressa Pazienza? No: tutto regolarissimo, perché Pm e Gip hanno agito rispettando le indicazioni del Tribunale e della Corte d’Appello e perché la dottoressa Pazienza è sempre stata considerata una ottima giudice. Non è scandaloso il loro comportamento, è scandaloso che esista questa circolare. Gli avvocati di Ricucci hanno chiesto ad una avvocata molto nota, Barbara Randazzo e a un luminare del diritto come il professor Valerio Onida (che è stato presidente della Corte Costituzionale) di esprimere un parere su questa vicenda. Onida e Randazzo, hanno studiato bene la questione e hanno presentato una memoria molto dettagliata nella quale citano diverse sentenze della Corte Costituzionale e si richiamano anche al diritto europeo. La conclusione non lascia spazio a dubbi. Ricopio qui solo una frase breve scritta in questo parere: «È evidente che la scelta, da parte della Procura, della sezione o del collegio giudicante cui assegnare il processo getta un’ombra sulla necessaria imparzialità-terzietà dell’ufficio giudicante, che non solo deve essere ma deve anche apparire imparziale e terzo, secondo l’adagio inglese “justice must not only be done, it must also bee seem to be done”, espressione di frequente utilizzata dalla giurisprudenza europea. Insomma, viene pregiudicata quella equidistanza del giudice dalle parti del singolo processo… facendo correre il rischio al giudice di apparire come un alleato di una delle parti, nella specie la Procura…». Così stanno le cose. Quantomeno a Roma – e Roma è la Procura più importante d’Italia – la Costituzione non ha valore, la difesa vede lesi tutti i suoi diritti, i Pm hanno anche formalmente il diritto di scegliersi il giudice, ed è francamente abbastanza probabile che lo scelgano in modo da avere buone possibilità di vincere il processo. Diciamo che a Roma l’amministrazione della giustizia avviene in una condizione di illegalità che danneggia gli imputati. Tutto questo, naturalmente, riporta in primo piano la questione della separazione delle carriere dei magistrati. Della quale si discute anche in Parlamento da qualche giorno, ma che è ferocemente osteggiata dal partito dei Pm. Si capisce anche il perché. Con il sistema attuale i Pm hanno in mano moltissimi strumenti per condizionare o addirittura sottomettere i giudici. Il caso Palamara ci ha fatto vedere come le carriere dei giudici siano interamente nelle mani della lobby dei Pm, che controlla l’Anm – vero centro del potere in Italia – e controlla il Csm. Ora scopriamo addirittura che i Pm possono scegliersi i giudici. Provate a immaginare di essere imputati, di trovarvi di fronte a un Pm che non tiene conto di tutti gli argomenti difensivi che gli portate, e di sapere poi che andrete a giudizio e che il giudice è scelto dal Pm ed è un suo amico. Cosa pensate? E qual è la possibilità, in queste condizioni, di far vivere uno Stato di diritto? C’è un giudice a Berlino? Beh, forse sì, ma Berlino è molto, molto lontana da Roma. In genere qui da noi, quando si ha l’impressione che siano in corso degli avvenimenti che ledono lo Stato di diritto, si parla di Sudamerica, o più precisamente – negli ultimi anni – di Venezuela. Io credo che neppure in Venezuela accadano cose del genere. L’imputato in queste condizioni non è più un cittadino, non ha diritti, non può difendersi con la Costituzione. È un oggetto in mano alla Procura. Può sperare solo nell’estrema onestà personale di un Pm o di un giudice. Può appellarsi alla clemenza della Corte. Va bene così? Facciamo finta di essere ancora il paese, non dico di Beccaria, ma di Calamandrei, di Leone, di Gullo, di Moro, di Vassalli? No, non scherziamo: siamo tornati ad essere un paese nel quale il Diritto è una variabile dipendente del potere della magistratura. Tutto il lavoro dei costituenti è stato inutile. La Giustizia vive in un sistema di completa illegalità. Quasi quasi è meglio il Venezuela…

No al Foro che giudica le toghe: la riforma del Csm ha il suo tabù. La valutazione dei magistrati non potrà essere affidata anche agli avvocati nei consigli giudiziari. Federico Novi su Il Dubbio il 25 luglio 2020. Non si può dire che le ipotesi di riforma del Csm siano tenere con le toghe. Proprio no. Si va dalla configurazione dell’illecito “Palamara” — modellato cioè proprio sulla contestazione di “interferenza indebita” mossa all’ex capo Anm nel processo disciplinare — fino al divieto di costituire gruppi consiliari in plenum, dove oggi le delegazioni riconducibili alle correnti esistono eccome, con tanto di capigruppo. Ma allora viene da chiedersi perché sussista un così insuperabile timore nel dare adeguato peso al ruolo dell’avvocatura, non solo all’interno della componente laica ma anche nei Consigli giudiziari, i cosiddetti “mini Csm” istituiti in tutti i distretti. Remore relative anche all’ipotesi di aprire al Foro gli incarichi nell’ufficio Studi e documentazione. Una timidezza irriducibile, che ha condotto la maggioranza giallorossa a scelte di compromesso. Come se la presenza dell’avvocatura quale controparte tecnica della magistratura inducesse cupi retropensieri. Andiamo con ordine. E partiamo dai Consigli giudiziari. Un anno fa, quando era ancora in vita l’alleanza M5S- Lega, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede presentò un testo molto ampio, in cui le modifiche relative al Csm erano integrate in un’unica legge delega comprensiva anche della riforma penale. Già in quella bozza compare una norma, allora codificata all’articolo 27, che rimedia a un aspetto assai antipatico nel funzionamento dei Consigli giudiziari: in tutti i casi in cui si deve discutere e deliberare un parere, da inviare al Csm, relativo alla valutazione di professionalità su un magistrato, i “componenti avvocati e professori universitari” sono costretti a lasciare la seduta. Come se fossero spie. Il guardasigilli ritenne già allora che al Foro e all’Accademia andasse quanto meno riconosciuta la “facoltà di assistere” a quelle discussioni. Poi nell’autunno scorso, dal Pd e da Italia viva erano arrivate sollecitazioni affinché si sancisse un riconoscimento più pieno per il rappresentante dell’ Ordine forense distrettuale, ossia il diritto non solo di assistere ma anche di votare. Il 16 ottobre l’Anm produsse però un documento che stroncava l’ipotesi. Che nei mesi successivi è gradualmente stata ridimensionata. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini hanno così ritenuto di sollecitare almeno una riformulazione di quella riforma dei Consigli giudiziari che era stata prospettata dall’ex guardasigilli Andrea Orlando con il Cnf, in particolare con il presidente Andrea Mascherin: ed è così che, nell’attuale testo sul Csm, si è arrivati a prevedere almeno l’obbligo, per Palazzo dei Marescialli, di acquisire il parere dell’avvocato che presiede l’Ordine nel distretto in cui è in servizio il magistrato candidato a un incarico direttivo. È un ulteriore passo avanti, che si aggiunge al diritto di tribuna nei Consigli giudiziari, ma non è la stessa cosa. Ci sarebbe un capitolo a parte sui componenti laici del Csm: Forza Italia, con Enrico Costa, ha proposto a Bonafede di affidarne l’elezione direttamente al Cnf e alla Conferenza dei rettori. Idea che richiede ovviamente una modifica all’articolo 104 della Costituzione. Bonafede l’ha accantonata proprio per l’iter troppo oneroso. Ma ora un confronto impegnativo rischia di aprirsi a proposito dei “magistrati segretari” e delle toghe in servizio nell’ufficio Studi e documentazione di Palazzo dei Martescialli. Al Dubbio, il sottosegretario Giorgis ha spiegato di tenere molto alla modifica del «sistema di reclutamento: oggi», ha ricordato, quelle funzioni sono affidate appunto a «magistrati scelti per cooptazione. Sarebbe invece più opportuno selezionarli per concorso un po’ come avviene per i consiglieri parlamentari, o comunque», ha spiegato, «attraverso modalità capaci di garantire una loro maggiore autonomia, e di coinvolgere tutte le migliori espressioni del mondo giuridico». È un punto sul quale la linea nella maggioranza non è univoca. E che certamente animerà la discussione in Parlamento. Certo è che chi è in servizio al Csm con ruoli tecnici spesso assume un peso molto rilevante rispetto alle decisioni dei consiglieri: si occupa del fascicolo sulla base del quale prima la quinta commissione e poi il plenum decidono, in particolare, l’assegnazione degli incarichi dirigenziali. Siamo al cuore delle cosiddette degenerazioni, al motivo stesso che, a partire dal caso Procure dell’anno scorso, spinge ora il governo alla riforma. Ebbene, anche qui le resistenze nella maggioranza sull’apertura agli avvocati auspicata da Giorgis sono particolarmente difficili da scalfire. C’è un ultimo capitolo. Riguarda la sezione disciplinare. L’Unione Camere penali, nella lettera inviata ieri a tutti i deputati ( firmata dal presidente Gian Domenico Caiazza e dal presidente del Comitato promotore dell’iniziativa sulla separazione delle carriere, Beniamino Migliucci) riserva un passaggio assai significativo alla valutazione degli illeciti e della professionalità: «Né può essere ignorato il tema dei rapporti tra “controllore” ( il Giudice) e “controllato” ( il Pubblico Ministero). Per rendere effettivo, proficuo e credibile il controllo, giudicante ed inquirente non devono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo che, tra l’altro, decide promiscuamente anche degli avanzamenti in carriera di Giudici e Pubblici Ministeri, condizionando altresì le reciproche aspettative rappresentative». Argomento portato, dai penalisti, a sostegno della riforma che separa le carriere e istituisce due Csm. Ora, il paradosso ricordato dall’Ucpi rischia di essere ingigantito nella sua rilevanza da un aspetto piuttosto sottovalutato della b riforma sul Csm, in arrivo martedì in Consiglio dei ministri: l’elezione dei componenti togati prevede l’eliminazione dei posti riservati a requirenti e giudicanti: in futuro i consiglieri superiori potrebbero anche essere solo pubblici ministeri. A valutare i magistrati giudicanti, sia in termini di carriera che di condotta disciplinare, si troverebbero cioè solo, o prevalentemente, gli inquirenti. Si è disposti a correre un simile, pur teorico rischio piuttosto che consentire agli avvocati di giudicare i magistrati. Una remora che l’esame in Parlamento rischia di mostrare in tutto il suo carattere paradossale.

 “Onida si scusi”, Catello Maresca e il divieto di critica a Di Matteo. Redazione su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Vietato criticare Di Matteo. Perché criticare Di Matteo, secondo il teorema di alcuni pm, equivale a disonorare Falcone e Borsellino. «Perché mai un magistrato di procura specializzato nella benemerita lotta giudiziaria alla mafia (benemerita se condotta con mezzi legali e costituzionalmente consentiti) dovrebbe vantare una sorta di pretesa a occupare il ruolo di direttore del Dap?», si era chiesto ieri nella bella intervista che ha concesso al Riformista, il presidente emerito della Consulta, Valerio Onida. Parole che hanno attirato contro di lui, gli strali di Catello Maresca. «Il presidente Onida – ha tuonato il sostituto procuratore di Napoli – con le sue dichiarazioni sui magistrati antimafia disonora la memoria di Falcone e Borsellino. Peraltro lo fa nei giorni nei quali si commemora la strage di via D’Amelio e in un periodo nel quale la lotta alla criminalità organizzata rischia di subire durissimi colpi e un drammatico arretramento». Ma non basta. Onida, rincara Maresca, «chiarisca le sue dichiarazioni sul collega Di Matteo e chieda scusa a tutti i magistrati antimafia». Secca la replica che il presidente Onida affida alle colonne del Riformista: «Non intendo e non mi pare il caso di replicare a dichiarazioni che non portano argomenti, ma solo usano i nomi e la memoria di Falcone e Borsellino per alimentare polemiche infondate».

Parla Onida, ex presidente Consulta: “Correnti Anm spesso agiscono per il potere”. Angela Stella su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Il professore Valerio Onida, già Presidente della Corte Costituzionale, da avvocato ha perorato la causa di un richiedente asilo su cui si è espressa la Consulta qualche giorno fa. Con lui abbiamo commentato questa decisione ma anche i temi della giustizia all’ordine del giorno del dibattito.

La Consulta è intervenuta sul primo decreto sicurezza. Ancora una volta il giudice si è sostituito alla politica? Cosa ne pensa di quanto ha detto Salvini, ossia che questa decisione è una scelta politica?

«Con la decisione sul divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (annunciata in un comunicato, ma non ancora motivata nella sentenza che sarà fra breve pubblicata) la Corte ha semplicemente fatto il suo mestiere, che è quello di scrutinare le disposizioni legislative sotto il profilo della loro conformità o meno alla Costituzione, e, quando ne riconosce l’incostituzionalità (come nel caso), dichiararla con effetto erga omnes e sin dall’inizio (salvo eventuali rapporti esauriti). La legge è frutto della politica, ma incontra il limite della Costituzione, e questo trova il suo presidio nella Corte costituzionale. Una sentenza di incostituzionalità è una decisione “politica”, nel senso che smentisce una determinazione o un orientamento degli organi politici che hanno dato vita alla legge, ma in nome della Costituzione, che appunto limita la discrezionalità del legislatore».

Secondo Lei questa “irragionevole disparità di trattamento” a cui sono sottoposti i richiedenti asilo può essere letta con una connotazione di razzismo?

«Questa decisione colpisce una scelta legislativa che è apparsa subito, a molti, come irragionevole e discriminatoria, e quindi contraria alla Costituzione, poiché negava ai richiedenti asilo il diritto di iscriversi nell’anagrafe del luogo di residenza effettiva senza alcuna plausibile giustificazione, che non fosse l’intento di rendere più difficile la vita a queste persone che soggiornano regolarmente nel territorio in attesa dell’esito della loro domanda di asilo, e hanno quindi diritto alla protezione. Non parlerei di “razzismo”, se non nel senso che la discriminazione ingiustificata di certe persone ha la stessa radice antigiuridica e incostituzionale che si manifesta negli atteggiamenti di chi discrimina in nome di quelle distinzioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” che per l’articolo 3 della Costituzione non possono negare la “pari dignità sociale” delle persone e l’eguaglianza di tutti “davanti alla legge”».

Cosa ne pensa della crisi che sta attraverso la magistratura in questo momento?

«La magistratura nel nostro sistema è soggetta, a tutela della indipendenza “esterna” ed “interna” (cioè nei rapporti fra di loro) dei magistrati, ad un sistema di governo autonomo, ma di “autogoverno temperato” dalla presenza nel Csm di membri “laici” eletti dal Parlamento, e analogamente di membri “laici” nei consigli giudiziari costituiti in ogni distretto di Corte d’Appello. Le “correnti” dell’Associazione nazionale magistrati, nate per consentire la libera espressione dei diversi orientamenti culturali e indirizzi per il governo autonomo presenti nella magistratura associata e nel Csm, sembrano troppo spesso essersi trasformate in gruppi di potere che agiscono solo per il potere, specie quando si tratta di attribuire incarichi direttivi nei vari uffici giudiziari; e la presenza dei membri “laici” (tra i quali è eletto il Vice Presidente del Csm, che è presieduto dal Presidente della Repubblica) sembra troppo spesso a sua volta essere ricondotta solo a scelte di partito. In questo modo però si tradisce il ruolo del governo autonomo, che non è chiamato a proteggere interessi personali o di gruppo, né interessi politici di parte, ma a fare scelte mirate all’indipendenza, al buon andamento e all’efficienza degli uffici giudiziari».

Come porre rimedio?

«Non certo con una riduzione dell’autonomia dell’organo di governo, e neanche forse con una crescita in esso del peso della componente di estrazione parlamentare, che potrebbe eventualmente giovare solo se gli eletti dal Parlamento a loro volta agissero in piena indipendenza e in nome non di interessi di partito da loro rappresentati, ma in nome dell’interesse pubblico all’indipendenza e al buon andamento degli apparati giudiziari. A quest’ultimo fine potrebbe giovare richiedere per l’elezione parlamentare dei membri laici una maggioranza più elevata, per favorire scelte autorevoli e non partigiane (magari anche fra magistrati in pensione, e non solo professori e avvocati), e soprattutto un costume di piena indipendenza di essi dai condizionamenti della politica contingente. Il sistema per l’elezione dei membri “togati” dovrebbe favorire la conoscenza personale dei candidati da parte degli elettori, e magari includere forme di sorteggio (però facendo sì che in definitiva si tratti pur sempre di “eletti” dai magistrati) atte a contrastare il prevalere di logiche di potere correntizio. Soprattutto occorrerebbe che in tutte le componenti della magistratura si affermasse una prassi di prevalenza dell’interesse pubblico al buon funzionamento degli uffici e non di carrierismo organizzato».

In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un quarto potere, ormai indipendente dalla magistratura. È d’accordo?

«I membri della magistratura “requirente” (le Procure) sono magistrati a tutti gli effetti, membri dell’ordine giudiziario “autonomo e indipendente da ogni altro potere” ai sensi dell’articolo 104 della Costituzione. In particolare, l’indipendenza delle Procure dal potere esecutivo (che tradizionalmente le controllava, e altrove le controlla) è e deve essere piena. All’interno i singoli magistrati delle Procure non godono invece di piena indipendenza dai Capi delle stesse, che hanno nei loro confronti anche poteri di tipo gerarchico e di coordinamento (per cui, per esempio, i rapporti col pubblico devono essere intrattenuti sempre dai Capi). Soprattutto, la magistratura giudicante (i giudici) è e deve essere del tutto indipendente dalle Procure, per assicurare l’assoluta imparzialità dei giudici, in particolare nel processo penale, ove l’accusa impersonata dalla Procura si contrappone all’altra parte, l’imputato, e il giudice deve essere per definizione “terzo e imparziale”. Per questo i provvedimenti che incidono sulla libertà e sui diritti degli imputati sono bensì chiesti dalle Procure procedenti, ma adottati e controllati esclusivamente dai magistrati giudicanti. Anche la commistione di poteri inquirenti e giudicanti che si verificava nella figura del Pretore col vecchio codice, nel nuovo codice è eliminata, affermandosi sempre la distinzione tra le due funzioni. I magistrati delle Procure hanno solo poteri di indagine e di promozione dell’azione penale: giudicare spetta solo ai giudici. Nel processo il pm è solo parte, e perciò il giudice non è mai vincolato alle sue determinazioni o richieste. Dunque c’è e ci deve essere una netta distinzione di funzioni fra Procure e magistratura giudicante. Tradizionalmente tuttavia, trattandosi di magistrati appartenenti allo stesso ordine, è ammesso che i singoli magistrati passino da una “carriera” all’altra, e svolgano volta a volta funzioni requirenti o giudicanti. Oggi il passaggio è meno frequente e più difficile, e ovviamente si evita che lo stesso magistrato, che passa da una carriera all’altra, possa ricoprire funzioni requirenti e giudicanti nello stesso processo. Tuttavia la provenienza dagli stessi concorsi, la formazione analoga, il fatto che le Procure operino nelle stesse sedi e nelle stesse strutture dei Tribunali e delle Corti d’appello, il fatto che sono “amministrati” dallo stesso Csm, la possibilità del passaggio di un magistrato dall’una all’altra funzione nella sua carriera, da un lato sono elementi utili a far sì che i due organi siano accomunati dalla stessa “cultura della giurisdizione”. Il pm è bensì parte, ma deve sempre agire nel solo interesse pubblico e della legalità, anche assumendo le prove a favore dell’imputato; e l’aver svolto prima funzioni di giudice può favorire un miglior cultura e un maggior equilibrio del magistrato. Ma dall’altro lato questi elementi possono creare o indurre ad una “vicinanza” fra pm e giudici che può ridurre l’effetto della rigida separazione funzionale. Sono pur sempre “colleghi” nella stessa magistratura. Di qui spesso l’istanza di una “separazione delle carriere”, che però meglio sarebbe forse configurare come una rigida separazione di funzioni e reciproca indipendenza fra i due corpi della magistratura».

Può spiegare meglio?

«Ai fini di assicurare la piena imparzialità dei giudici (che debbono anche “apparire” imparziali, non solo esserlo) e il giusto processo conta di più che i poteri e la durata delle indagini dei pm siano attentamente limitati e definiti, e che sulle richieste della Procura, allorquando formula le accuse e chiede l’adozione di provvedimenti restrittivi nei confronti dell’imputato, si attui il più attento e severo controllo dei giudici. Anche a questo sono intesi i principi costituzionali per cui “nessuno può esser distolto dal giudice naturale precostituito per legge”, onde mai la pubblica accusa può influire sulla scelta dei giudicanti, e “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Chi è solo indagato dalla Procura non è ancora nemmeno imputato, e l’imputato che deve ancora essere giudicato non è e non può essere considerato giuridicamente colpevole».

Il nostro giornale ha reso nota la trascrizione di una conversazione tra Silvio Berlusconi e il dott. Amedeo Franco. Che idea si è fatto della vicenda?

«Stiamo ai fatti. Un anziano giudice di Cassazione, Amedeo Franco, dopo avere condiviso e addirittura (sembra) scritto la sentenza che confermava la condanna di Berlusconi (e non risulta che avesse fatto ricorso alla facoltà, che hanno i giudici dissenzienti da una deliberazione collegiale, di far constare per iscritto il proprio dissenso dalla maggioranza), si reca a casa del condannato, ove si trova anche un altro magistrato fuori ruolo, noto esponente di una corrente e investito di funzioni di governo (come sottosegretario alla giustizia) e di parlamentare; e dice cose che potrebbero far pensare a influenze esterne sulla condanna. Perché lo fa? Viene registrato, a quanto pare a sua insaputa, ma la registrazione viene resa pubblica solo ora, dopo la sua morte, e utilizzata per contestare l’imparzialità dei giudici della Cassazione che hanno confermato la condanna. Nessuno, che io sappia, ha ancora dimostrato, tanto meno in modo convincente, che quella sentenza e quella condanna erano sbagliate e dovute a pregiudiziale inimicizia per l’imputato: condanna che, si noti, era stata sancita e motivata, prima che da quel collegio di Cassazione che la confermò, dai giudici di merito del Tribunale e poi della Corte d’Appello (e dunque avrebbero sbagliato o sarebbero stati condizionati tutti i numerosi giudici che vi avevano nel tempo concorso). Dunque uno “scandalo” a dir poco del tutto prematuro, che addirittura dà per acquisito, su questa base fattuale così poco credibile, un presunto voluto errore giudiziario mai dimostrato, e induce qualcuno ad invocare – questo è il colmo – la nomina del condannato a senatore a vita (avrebbe dunque “illustrato la Patria per altissimi meriti”) a titolo di risarcimento per essere stato dichiarato decaduto dal Parlamento!»

Al momento nelle nostre carceri ci sono 1276 ergastolani ostativi. Sarebbe favorevole all’abolizione del fine pena mai che toglie ogni speranza?

«L’ergastolo (fine pena mai) è una pena che in tanto può esser ritenuta non del tutto incompatibile con la Costituzione (per la quale la pena non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla risocializzazione del condannato), in quanto sia prevista fin dall’inizio la possibilità per il condannato di conseguire la libertà in esito ad un percorso che attesti il suo “ravvedimento”. L’istituto previsto a tale scopo è la “liberazione condizionale”, che il condannato all’ergastolo può ottenere dopo aver scontato almeno ventuno anni di carcere. Oggi è però previsto che i condannati per certi reati gravi (non solo di tipo mafioso) possano chiedere la liberazione condizionale solo se collaborano con la giustizia (cioè assumono il ruolo di cosiddetti “pentiti”, che aiutano attivamente ad accertare altri reati e a trovare altri colpevoli), salvo che la collaborazione risulti impossibile o irrilevante. Questa previsione è incostituzionale, perché non si può considerare la “collaborazione” (che può comportare anche autoaccuse o accuse ad altri, anche familiari) come unico possibile modo di dimostrare il proprio ravvedimento. Lo ha stabilito ormai la Corte europea dei diritti dell’uomo, e ha cominciato a dirlo la Corte costituzionale, che tuttavia non si è ancora pronunciata sul tema della liberazione condizionale nel caso dell’ergastolo ostativo, ma lo farà fra breve, poiché è stata sollevata la relativa questione».

Qual è il suo giudizio sull’operato del Ministro Bonafede durante il lockdown? Mi riferisco soprattutto a quel decreto "emergenziale" che è intervenuto sul lavoro dei magistrati di sorveglianza a seguito delle polemiche nate dopo alcune concessioni di detenzioni domiciliari a detenuti di alta sicurezza e al 41 bis.

«La salute dei detenuti è un diritto, come quella di tutti. Non è dunque possibile sacrificarla ad alcuna ragione di “sicurezza”. Ci sono molti modi per garantire la sicurezza necessaria anche nel caso di ammissione alla detenzione domiciliare dei detenuti di “alta sicurezza” per ragioni stringenti di salute. Alta sicurezza, 41 bis e dintorni non possono in nessun caso esimere dal dovere di adottare – e ciò spetta solo ai magistrati di sorveglianza – le misure necessarie per garantire il diritto alla salute dei detenuti, né dal dovere di adottare le altre misure necessarie per fronteggiare la situazione di scandaloso sovraffollamento delle carceri. Più in generale, la pena non può mai essere configurata ed eseguita in modo da garantire la sola “sicurezza”, nel senso dell’isolamento dei detenuti dalla società, senza invece contemporaneamente attuare tutte le misure atte a rendere la pena della reclusione, oltre che non inumana, idonea, in forza del trattamento carcerario, a favorire la risocializzazione del condannato. Ci vorrebbe insomma, per così dire, un “41-ter” che imponga di realizzare davvero le condizioni per l’opera di risocializzazione di tutti i condannati, anche per delitti mafiosi o altri gravi reati».

Che giudizio dà della querelle tra Di Matteo e Bonafede sulla direzione del Dap?

«Perché mai un magistrato di procura specializzato nella benemerita lotta giudiziaria alla mafia (benemerita se condotta con mezzi legali e costituzionalmente consentiti) dovrebbe vantare una sorta di pretesa a occupare il ruolo di direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria? È invece anomalo che a svolgere questo ruolo si ritenga sempre necessario preporre un magistrato (il cui compito è quello di svolgere le funzioni giudicanti o requirenti, non quelle amministrative relative si servizi della giustizia), quando l’amministrazione penitenziaria dispone di tanti ottimi e sperimentati funzionari, alcuni dei quali anche noti esponenti di punta della cultura dell’esecuzione penale aderente dalla Costituzione, e tutti specificamente formati e cresciuti nell’esercizio proprio di questi compiti».

Esiste l’ipotesi che il Governo proroghi lo Stato di emergenza. Qual è il suo parere su questo?

«Lo stato di emergenza di rilievo nazionale è stato dichiarato dal Consiglio dei Ministri il 30 gennaio scorso sula base dell’art. 24 del testo unico sulla protezione civile, che prevede tale eventualità nel caso di “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo”. La durata non può superare i 12 mesi, prorogabili per non più di altri 12 mesi. La eventuale proroga, e la sua durata, nei limiti di tempo predetti, dipendono dunque dal fatto che si reputi tuttora in corso una emergenza che debba essere fronteggiata con urgenza e con mezzi e poteri straordinari. In effetti, data la persistente emergenza a livello internazionale, e le incognite relative al modo in cui l’epidemia ancora si diffonde, mi pare difficile negare che sussistano i presupposti per una eventuale proroga».

L’accusa di Cassese: “Le procure sono il quarto potere, la rovina della magistratura”. Angela Stella su Il Riformista il 22 Giugno 2020. Il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, non si sbilancia sulla recentissima nomina di Raffaele Cantone a capo della Procura di Perugia, critica chi ha già condannato Palamara prima di una sentenza, e ritiene ineludibile una riforma del Csm, bocciando la soluzione del sorteggio. Non risparmia giudizi severi nei confronti delle Procure della Repubblica, ormai diventate un quarto potere dello Stato.

Professor Cassese, il Presidente Sergio Mattarella ha usato parole molto forti nei confronti dello scandalo che ha investito il Csm. Qual è il suo parere in merito al discorso del Capo dello Stato?

«Valutazione severa ed equilibrata. Giudizi pertinenti. Suggerimenti (impliciti) condivisibili. Occorre che Csm stesso e Parlamento diano un seguito alle parole del Presidente».

Il Presidente è anche tornato sui limiti dei poteri del Capo dello Stato: i partiti hanno il potere di modificare l’attuale sistema del Csm nella due Camere. Cosa ne pensa?

«Il Parlamento può, anzi deve modificare l’attuale assetto legislativo del CSM, non la struttura e i compiti definiti dalla Costituzione, che ha configurato il Csm come uno scudo per assicurare che, attraverso l’amministrazione delle carriere dei magistrati, il governo non potesse influenzare l’esercizio della funzione giudicante. Purtroppo, su questa base è poi invalsa nella pratica e nell’uso linguistico l’idea che il Csm sia “organo di autogoverno” della magistratura, come se questa fosse un corpo che si autoamministra».

Ritiene condivisibile procedere per sorteggio per la nomina dei componenti del Csm?

«Il sorteggio è stato sperimentato al posto della elezione politica, ma con poco successo, in epoche e luoghi diversi (Atene, Venezia) e considerato negli Stati Uniti, alla fine del ‘700. Ma sempre in luogo delle elezioni politiche. Applicarlo a un organo tecnico come il Csm sarebbe un errore, perché lì vanno scelte persone in relazione a specifiche capacità, non a caso. Tra il meccanismo odierno, nelle mani delle correnti, e il sorteggio, vi sono molte soluzioni migliori, come quella di cambiare il sistema elettorale, in modo che il voto venga dato sulla persona, non sul rappresentante della corrente. Se non erro, vi è una proposta in tal senso presentata in Parlamento da Stefano Ceccanti, che è anche un serio studioso di diritto pubblico. Né si può vietare l’organizzazione in correnti, perché va rispettato il diritto di associazione e perché le correnti hanno in passato svolto un utile ruolo culturale».

È giusto pensare che alcune procure abbiano un eccessivo potere?

«Le procure sono diventate un potere indipendente dalla stessa magistratura, un quarto potere dello Stato, grazie al compito che si sono arrogate di “naming e shaming”, cioè di additare al pubblico ludibrio. Un attento esame compiuto da un magistrato, qualche tempo fa mise in luce che solo un numero molto limitato delle accuse si rivelavano fondate. Ma intanto, rese pubbliche, avevano già “condannato” gli accusati».

Oggi il dottor Luca Palamara sarà sentito dall’Anm e cercherà di scongiurare la sua espulsione. Secondo Lei è il capro espiatorio di un sistema che oggi si sente ricattato da quanto potrebbe rivelare?

«Non so risponderle e penso che anche il dottor Palamara abbia diritto di non essere condannato dalla opinione pubblica con quel meccanismo che ho appena criticato».

Secondo Lei la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con due Csm distinti e separati, potrebbe essere una soluzione alla degenerazione all’interno della magistratura?

«Penso che, giunti a questo punto, sia semplicemente la codificazione di una situazione di fatto, essendosi tanto distaccati poteri, “modus operandi”, stile dei due corpi. Le procure sono il luogo nel quale è nata la politicizzazione endogena della magistratura. Basti vedere da quale esperienza provengono i magistrati che sono “entrati in politica” o che si esprimono più spesso sui mezzi di comunicazione. Non penso che i magistrati debbano esser degli “stiliti”, quei monaci anacoreti che vivevano su una piattaforma in cima a una colonna. E non penso che i magistrati debbano “parlare solo con le sentenze”. La società ha bisogno dell’opinione anche dei magistrati. Ma c’è un problema di misura, di temi che vanno evitati, di sovraesposizione. In tutto questo il Csm stesso è stato molto carente. Così come è stato carente nel definire i criteri della scelta dei titolari degli uffici direttivi. Tra applicare la sola regola dell’anzianità e lasciare che dominino le correnti, ci sono molte soluzioni intermedie, come quella di udire i candidati, di “misurare” e valutare la loro pregressa attività, di acquisire opinioni degli uffici giudiziari».

Come giudica la nomina del dottor Cantone al vertice della Procura di Perugia? Ricordo che quando Raffaele Cantone ricopriva il ruolo di Zar dell’Anticorruzione il suo giudizio sull’operato dell’Anac fu molto spesso negativo.

«Ho più volte espresso un giudizio negativo sull’Anac e sulla sua guida, perché ritengo che abbia spaventato i dipendenti pubblici e rallentato l’azione amministrativa, senza tuttavia ridurre la corruzione. Ma non ho elementi per giudicare la bontà della scelta fatta dal Csm, non conosco la “performance” dell’attività svolta dal dottor Cantone quale magistrato, e non conosco neppure quella del suo concorrente. Finirei per giudicare – in modo parziale – solo sulla base della mia grande stima e simpatia personale per il dottor Cantone».

Il Ministro della Giustizia Bonafede è in grande difficoltà dopo le accuse che gli ha lanciato contro il dottor Antonino Di Matteo dal salotto di Giletti prima e in commissione antimafia poi per la questione relativa al vertice del Dap. Qual è il suo giudizio su questo?

«Che alla base ci sia un’altra anomalia istituzionale. I magistrati fanno parte dell’ordine giudiziario, che è uno dei poteri dello Stato. Perché occupano il Ministero della giustizia, che è parte di un diverso potere dello Stato, quello esecutivo? Pongo questa domanda perché la vicenda alla quale fa riferimento è la prova della contraddizione che ne deriva: i magistrati che siedono ai vertici del Ministero debbono eseguire le direttive del ministro, come tutti i funzionari, oppure operare in maniera indipendente, come hanno titolo di fare per il loro “status” di magistrati? Negli studi che ho fatto, alcuni anni fa, sulla storia dello Stato, ho mostrato come questo connubio è nato e perché oggi non ha ragion d’essere».

Il j'accuse. Le accuse di Ernesto Galli della Loggia: “Il potere dei Pm e la paura degli intellettuali”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Suppongo (e spero) non stia parlando di sé, il professor Ernesto Galli della Loggia quando narra di una indeterminata “opinione pubblica” che in tutti questi anni, pur conoscendo le nefandezze dei magistrati oggi scoperchiate dalla bocca e dalla mano di Luca Palamara, non ha mai detto nulla per paura. Sì, lo scrive e lo ripete con un certo vigore, il commentatore del Corriere della sera. Paura. Se alludesse al comprensibile timore che ogni cittadino nutre nei confronti di colui che dall’alto del suo scranno, della sua nera toga e del suo bianco bavaglino, decide della sua libertà (cioè della sua vita), Galli della Loggia si sarebbe limitato a dire una ovvietà. Ma l’uomo non è mai ovvio, e non lo è neppure in questa occasione. Infatti ci dà una notizia. Questa è la notizia. Silvio Berlusconi nelle sue battaglie per una giustizia imparziale aveva ragione (talvolta, dice il professore) ma non lo si poteva dire per la paura di essere appiattiti sulla “destra berlusconiana”. È questa la paura. È interessante la scelta delle parole che esprimono il concetto. Che cosa è “la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica”? Sono solo i cittadini che vanno a votare o non anche gli intellettuali che scrivono sui giornali, quelli che vaneggiano di “caste” sui libri, e quei politici che, facendosi un baffo dell’opinione di illustri costituzionalisti, hanno fatto espellere Berlusconi dal Senato? Dobbiamo pensare che tutti questi, cioè coloro che hanno contribuito a cambiare la storia giudiziaria, e quindi politica, del Paese lo hanno fatto per “paura”? La magistratura, scrive ancora della Loggia con una continua attenta selezione del linguaggio, «ha guadagnato il silenzio complice di molti». Fino a perdere l’anima della propria identità. Perché, in sintesi, in questo presunto corpo a corpo che la “destra berlusconiana” avrebbe ingaggiato con le Procure, il clima si è avvelenato tanto che questo esercito di paurosi è stato silenziosamente complice dei peggiori intrallazzi (il sostantivo scelto non è mio) degli uomini in toga, del loro sindacato corporativo e lottizzato e anche del Consiglio superiore, che proprio superiore non è, come si è visto. Povero Silvio! “Avvisato” a Napoli mentre presiedeva un convegno internazionale sulla criminalità per un reato da cui è stato assolto, poi condannato per l’evasione di una cifra che per le sue società rappresentava qualche nocciolina, poi indagato-archiviato-indagato-archiviato-indagato addirittura come mandante di stragi di mafia. Ma nessuno finora, neanche un procuratore della Repubblica, lo aveva mai sospettato di essere il mandante della vigliaccheria di un drappello di intellettuali capaci di contribuire, con il loro “silenzio complice”, alle ingiustizie di venticinque anni di storia giudiziaria e politica italiana. Sono sicura che Ernesto Galli della Loggia non abbia parlato di sé, nel commento che sul Corriere della sera narra «dell’Identità smarrita dei magistrati italiani». Perché lui – e non lo fa neppure in questa occasione – è un intellettuale non abituato a nascondersi, neppure quando pizzica i suoi colleghi cattedratici. Ma forse sta parlando di qualche direttore di grandi quotidiani, o di qualche assemblatore di atti giudiziari trasformati in libri, o magari di qualche imprenditore proprietario di giornale. Forse anche lui ricorda gli anni di Tangentopoli e quelli che vennero dopo, fino all’oggi. Non c’è bisogno di tornare ai tempi di Romiti e De Benedetti e delle trattative (quelle sì, erano vere) dei loro avvocati con i pubblici ministeri per evitar loro il carcere, per confermare quel che “l’opinione pubblica sapeva” ma solo il trojan di Palamara ha saputo raccontarci. Quando il magistrato diventa politico, perde l’immagine della sua imparzialità, scrive ancora il professor della Loggia. Ma dobbiamo anche chiederci, oggi che qualcuno ha, se pur non di propria volontà, gridato a gran voce che “il re è nudo”, se questa imparzialità sancita dalla Costituzione (cosa che i magistrati dimenticano spesso, a loro interessano solo l’autonomia e l’indipendenza) non sia caduta anche all’interno e come conseguenza di comportamenti portati all’“intrallazzo” e alla “collusione” con la politica. Intrallazzi e collusioni che, per esempio, hanno rafforzato moltissimo, nel processo e fuori di esso (con la complicità di tanti giornalisti), il ruolo dell’accusa. Mortificando non solo la figura dell’avvocato difensore ma addirittura quella del giudice. Se oggi il pubblico ministero vale mille e l’avvocato zero, il giudice arriva al massimo a uno, nella scala dei valori di quelli che contano. Ma quando dico “oggi” intendo dire almeno negli ultimi trent’anni. Vorrei raccontare un episodio “antico”, che ha ritrovato il professor Giuseppe di Federico (e che mi ha gentilmente passato) nell’appendice del libro La degenerazione del processo penale in Italia pubblicato da un grande giurista, Agostino Viviani nel 1988. È la storia del casuale ritrovamento, tra le carte di un processo celebrato in una grande città italiana, di una lettera scritta da una presidente del tribunale del Riesame al presidente del tribunale. Questa giudice raccontava di aver subito una «violenta aggressione verbale da parte del pm poiché si era permessa di rimettere in libertà un imputato di partecipazione a banda armata, nonostante la diversa richiesta dell’accusa. Ma questo pubblico ministero non si era limitato agli insulti e all’aggressione, si era anche rivolto al Presidente del tribunale della grande città perché intervenisse. E costui, invece di denunciare il pm ai titolari dell’azione disciplinare, aveva convocato la presidente del Riesame. Tanto che costei, «in uno stato di grave disagio», poiché doveva giudicare un altro caso analogo e con la presenza dello stesso pm, si era dimessa. Va da sé che il suo successore non scarcerò. Proprio come voleva il famoso pm. Questo caso fu portato due volte al Consiglio superiore della magistratura, prima dallo stesso Viviani e poi da Di Federico. Furono insultati pure loro e non successe niente. Per l’organo di autogoverno tutto ciò era normale. Il famoso pubblico ministero poté percorrere tutta la sua carriera fino ai massimi vertici e tranquillamente in seguito andare in pensione. Ma quel presidente di tribunale che portò una sua collega, supponiamo molto più giovane di lui, alle dimissioni, come si sente con la coscienza? Di questo bisognerebbe parlare quando si narrano gli intrallazzi e le collusioni della magistratura e soprattutto il dis-funzionamento del Csm e il ruolo politico di giudici e pubblici ministeri. E mi tocca anche leggere, sempre sul Corriere, ma del giorno prima, che Niccolò Ghedini, che casualmente è anche l’avvocato di Silvio Berlusconi, dice che non si devono separare la carriere di giudici e pm perché è bene che il rappresentante della pubblica accusa mantenga (ma quando mai l’ha avuta?) la “cultura della giurisdizione”. Consiglio anche a lui la lettura del libro di Agostino Viviani. E della lettera (che pubblicheremo) di quella presidente del tribunale del Riesame dei tempi dei processi per terrorismo. Quelli in cui si fecero le prove generali di quel che capiterà in seguito con tangentopoli e le inchieste di mafia.

In Italia non c’è giustizia, i Pm condizionano sentenze e processi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Luca Palamara, nell’intervista che ha rilasciato al nostro Paolo Comi, è stato spietato nei confronti della magistratura. Io penso che ci si possa fidare di lui. La conosce bene la magistratura. L’ha frequentata in lungo e in largo, nel bene e nel male, nelle retrovie e in prima linea. Conosce i soldati e i generali. La sua denuncia mi sembra che si concentri su un punto: lo strapotere delle Procure e dei Pm. Ci spiega bene questo strapotere, che non consiste – come in genere si dice – nei rapporti con la politica. Anche se quei rapporti spesso ci sono e sono palesi ma illeciti. Consiste nel ruolo stesso che è stato consegnato ai Pm, nel grado della loro indipendenza e delle loro competenze. L’indipendenza è considerata dai Pm semplicemente come il diritto di essere al di sopra di ogni controllo. Dominus senza condizioni. Le competenze danno loro il potere di comandare ogni tipo di polizia, anzi di sceglierla, di decidere come e dove indirizzare le indagini, di gestire i rapporti con la stampa, e la subordinazione della stampa, e anche di esercitare una influenza fortissima sulla magistratura giudicante, che nel disegno istituzionale dovrebbe essere la controparte del Pm, ma nella realtà, salvo eccezioni, è molto spesso una parte sottomessa. Ora la riflessione che va fatta, credo, è questa. Proviamo anche a disinteressarci del problema di come avvengono le nomine e di come il partito dei Pm domini la giustizia, la renda dipendente di se stesso e di come condizioni con facilità la politica. Poniamoci invece questa semplicissima e drammatica domanda: il partito dei Pm è in grado di condizionare i processi e le sentenze? Il problema veramente drammatico che abbiamo davanti è esattamente questo. Perché la risposta alla domanda che ho posto è inequivocabile: sì, i Pm sono in grado di condizionare le sentenze e lo fanno con una certa frequenza. E le sentenze, e il corso dei processi, spesso sono merce di scambio, o partita di giro nelle trattative di potere che avvengono tra le correnti, nelle correnti, e nei rapporti tra Procure e Giudici. Capite che vuol dire? Che in Italia non esiste la giustizia. E che il destino dei cittadini che a centinaia di migliaia, o forse a milioni, incontrano la strada della magistratura, non sarà determinato dalla giustizia o dalle leggi o dal diritto, ma dai giochi di potere nella magistratura. Lo dico meglio: viviamo in una società illegale. La domanda di giustizia è del tutto inevasa. La speranza per un cittadino per bene che finisca nelle maglie della giustizia, è che il Pm abbia interesse o inclinazione a favorirlo. Tutto questo lo abbiamo scoperto grazie al trojan? No, lo sapevamo, i giornalisti lo sapevano: però tacevano. Per convenienza, per complicità. Si può correggere tutto questo? Sì, ma non bastano certo le riformette di Bonafede. La separazione delle carriere va realizzata immediatamente. E poi bisogna trovare il modo giusto per salvare l’indipendenza della magistratura e annullare il potere dei Ras. Probabilmente va messa in discussione l’indipendenza del Pubblico Ministero. Che, del resto, non esiste in quasi nessun paese democratico.

Per colpire Berlusconi i Pm infangarono la Guardia di Finanza. Alessandro Butticé su Il Riformista il 25 Giugno 2020. L’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, sembra essere l’unico (chissà perché) rimasto col cerino in mano. Ma chi ha beneficiato delle sue trame in tutti questi anni? Sicuramente molti anche tra quelli che oggi fingono di essere sorpresi e scandalizzati, e che gli tirano, oltre alla prima, una raffica di altre pietre. Dimenticando però il vero scandalo. Che è quello di sorprendersi, dopo aver dato o accettato una valenza istituzionale a un’Anm che non è nient’altro che un sindacato. Se non proprio una cupola di gestione del potere per il potere. Che fa quindi unicamente gli interessi personali di coloro che ne fanno parte. Barattando e consolidando carriere all’interno ed all’esterno delle aule giudiziarie. A discapito dell’efficienza ed imparzialità della giustizia, e alle spalle dei cittadini, che di giustizia avrebbero tanto bisogno. Ora sembra essere stato trovato il colpevole di tutto. Per oltre trentacinque anni – prima di congedarmi nel 2014 dalla Guardia di Finanza – ho praticato molte delle più importanti procure della Repubblica italiane. Quale primo ufficiale delle forze di polizia e dirigente italiano presso i servizi antifrode della Commissione Europea (Uclaf e Olaf, ho poi avuto a che fare con molti dei nomi più illustri della magistratura requirente. Che, in considerazione dell’incarico dirigenziale internazionale rivestito sino al 2018, ho potuto osservare, con rapporti diversi dalla dipendenza funzionale dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria che avevo in Italia. Confrontandoli anche con magistrati di altri paesi europei. A volte ricoprendo posizione gerarchica o funzionale a loro sovraordinata, ho avuto modo di conoscerli e valutarli non solo sul piano professionale, ma anche e soprattutto su quello umano e psicologico. Ne ho incontrati di valorosissimi. Con alcuni dei quali ho mantenuto legami di amicizia. Ma ne ho incrociati anche altri, a volte con nomi e reputazioni roboanti, o destinati a diventarli, che mi hanno letteralmente disgustato. Sono tanti gli aneddoti che avrei da raccontare. Mi limito a ricordarne solo uno. Ad alcuni di questi signori non garbava la posizione di grande prestigio che la Guardia di Finanza aveva assunto in Europa. In particolare presso la Commissione Europea. Dovevano quindi scalzarla, e prenderne il posto. Col pretesto che le Fiamme Gialle non avevano l’indipendenza che solo i magistrati, secondo loro potevano vantare. E le chat di Palamara dimostrano quanto poco l’avessero nella realtà, quanto meno dalle loro sfrenate ambizioni personali. E ciò nonostante l’Uclaf prima, e l’Olaf poi, fossero strutture investigative di polizia amministrativa. E la ragione era nelle ambizioni personali e degli amici degli amici. Cercando di instaurare un canale privilegiato e autoreferenziale con l’Ue, cortocircuitando le istituzioni, delle quali il Comando Generale delle Fiamme Gialle aveva il difetto di far parte. Ma era evidente sin dall’inizio anche il desiderio di iniettare nell’antifrode Ue i metodi mediatico-giudiziari, impensabili all’estero, tanto in voga in Italia. E dalla seconda metà degli anni Novanta l’obiettivo principale era uno soltanto: Silvio Berlusconi. In considerazione della fiducia e della stima personale che avevo guadagnato dai tre Direttori dell’Antifrode Europea che si sono succeduti nel tempo sono quasi sempre riuscito ad evitare che le inchieste dell’Uclaf e poi dell’Olaf venissero strumentalizzate per fini diversi da quelli strettamente istituzionali, e fuori dell’assoluto rispetto della legalità. Questo non piaceva ad alcuni, ovviamente. Perché impediva di utilizzare l’Ue come base di lancio contro obiettivi italiani. Ed era il periodo della cosiddetta inchiesta sulle “tangenti alla Guardia di Finanza”, apparentemente strumentale a colpire Berlusconi. E ci fu chi, affascinato dai metodi e dalla facile gloria del rito ambrosiano, mi rivelò il suo essere alla ricerca, per conto terzi, del testo, che io avevo personalmente negoziato, di un protocollo d’intesa tra il Comando Generale della Guardia di Finanza e la Commissione Europea. Mi venne detto (anche se non ho mai potuto verificarne la veridicità) che qualcuno alla Procura di Milano era molto interessato ad averlo. Da notare che, sempre per colpire Berlusconi, qualcuno pensava persino di qualificare la Guardia di Finanza come un’”associazione criminale”. “Agente persino sul piano internazionale”, immaginai io, in considerazione di quel protocollo d’intesa. Il servitore sciocco che si prestò a questo gioco, era un altro appartenente alle forze di polizia italiane. Che io stesso avevo reclutato alla Commissione Europea. Ma l’ambizione all’immaginata facile gloria derivante dal rendere servizio agli allora auto-proclamati eroi senza macchia e senza paura del giustizialismo italiano, si rivelò per lui più forte di tutto. Anche della sua riconoscenza e della mia stessa amicizia. Che da quel giorno perse per sempre, assieme alla mia stima. Questa è la ragione per cui non è il “metodo Palamara” a scandalizzarmi, ma l’ipocrisia di chi finge di cadere dal pero.

Lanzi (Csm): «Troppo potere alle Procure, rischio per i magistrati e la giustizia». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 giugno 2020. «L’allarme del Presidente Mattarella va condiviso in pieno. Sui media appare un orrendo spettacolo. Gli inquirenti hanno la politica in pugno». «Condivido pienamente l’intervento del presidente della Repubblica: la magistratura sta attraversando un momento molto triste, con il rischio di una perdita irreparabile del prestigio di cui invece dovrebbe godere l’Autorità giudiziaria», afferma il professore milanese Alessio Lanzi, consigliere del Csm eletto nel 2018 su indicazione di Forza Italia, circa il duro monito di Sergio Mattarella alle toghe pronunciato giovedì scorso.

Professor Lanzi, è tutta colpa delle chat dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara? Un tormentone che alcuni giornali, come nei romanzi d’appendice, hanno deciso di pubblicare a puntate.

«Quello che viene svelato e che appare sui media, un orrido spettacolo, è il picco più appariscente di una grande crisi di sistema che coinvolge l’ordine giudiziario».

Da dove iniziamo?

«La magistratura è un potere dello Stato che è uscito, per una serie di motivi che qui non possono essere esaminati, dal proprio perimetro costituzionale, e che con una reiterata attività di supplenza e di interventi oltre i propri limiti si è reso un soggetto politico, attribuendosi prerogative che non gli possono essere concesse».

Ad esempio?

«Le anomalie sono numerose».

Possiamo elencarne qualcuna?

«Probabilmente, la principale è lo strapotere delle Procure, che condiziona la politica, detta l’agenda della gestione della cosa pubblica, comporta intrighi e manovre per assicurarsene il controllo. In Csm quando si tratta di nominare un procuratore ci sono quasi sempre tensioni. Qualche volta la componente laica cerca di porvi rimedio».

Credo che nessuno oggi possa più avere alcun dubbio sul fatto che il procuratore della Repubblica sia una figura molto potente…

«Oltre tutti gli orpelli che si vorranno trovare con le riforme, il punto centrale rimane l’indispensabile separazione delle carriere tra giudice e pm».

Detto da lei ha un peso non indifferente…

«Si, è aggiungo anche che è necessario creare un Csm ad hoc per i pm, nominato anche a seguito di sorteggio, come dovrebbe essere per quello attuale».

Sul fronte dei giudici, invece?

«Anche la categoria dei giudici non sempre è immune da anomalie, specie quando si vuole sostituire al legislatore, lo esautora, superando volutamente la lettera della legge e agendo quale giudice di scopo. In altre parole rendendosi un soggetto politico, travalicando la regola imposta dall’articolo 101 secondo comma della Costituzione».

Se per il potere dei procuratori dobbiamo “ringraziare” la riforma Castelli che ha gerarchizzato le Procure, per quanto concerne i giudici di chi è la “colpa”?

«Il ruolo che il potere giudicante è riuscito a farsi assegnare da un pavido e miope legislatore, specie con l’introduzione della nomofilachia – istituto di per sé accettabile, ma dalle conseguenze devastanti se calato nel contesto del nostro sistema confuso -, ha determinato il compito essenziale, per ogni equilibrio di rilievo costituzionale, della Corte di Cassazione».

Si torna allora all’appello di Mattarela: “Il cittadino ha diritto a poter contare sulla certezza del diritto e sulla sua prevedibilità”.

«Non si può non osservare con apprensione, a tal proposito, la deriva che sta prendendo la nostra giurisprudenza. Precedenti che sviliscono la chiara lettera della legge, che integrano a loro piacimento il precetto penale e la sua rilevanza. Non è un caso che addirittura gli incidenti di costituzionalità investano non solo e non tanto la disposizione di legge ma l’interpretazione che ne danno e l’applicazione che ne fanno i giudici».

Si parla di “diritto vivente”.

«Diritto vivente è un termine ricorrente da parte di magistrati, giustamente stimati ed apprezzati, che tiene conto di un imprecisato e impalpabile “sentimento di giustizia” in alcun modo regolamentato».

Possibili rimedi?

«Credo sia giunto il momento che la società civile tecnica intervenga seriamente nell’amministrazione della giustizia di legittimità, concreta e attuale. Vi sono ottimi magistrati i quali sono anche valenti giuristi e non devono però essere lasciati soli in questo ruolo che, realisticamente, allo stato loro compete».

Cosa può fare il Csm?

«Mi auguro che il Csm, che deve gestire ma non deve rappresentare la magistratura, intervenga con un segnale forte e concreto nel cercare soluzioni in grado di superare l’attuale critico momento. Credo sia interesse di tutti».

Come dovrebbe esplicitarsi questo cambio di rotta?

«Su due piani: una fase di novità e di progresso, per coloro che si definiscono progressisti; per altri la valorizzazione dell’indipedenza altrui per consentire la compiuta attuazione della propria. Scopo ultimo deve essere la ricerca di una giustizia liberale e democratica per coloro che credono in tali valori».

Gli accessi in Cassazione?

«Il tema degli accessi in Cassazione è importantissimo. Urge valorizzare il contributo, voluto dalla Costituzione ( articolo 106 terzo comma), di avvocati e accademici di spessore ( i cosiddetti meriti insigni). Tale categoria è stata fino ad oggi poco considerata e probabilmente svilita da accessi anche modesti che si sono verificati».

Un cambiamento nei fatti e non solo a parole?

«».

Cassese: «Le procure sono diventate un quarto potere». Il Dubbio il 20 giugno 2020. «Penso che, nel quadro delle istituzioni, le procure siano diventate un quarto potere, accanto a legislativo, esecutivo e giudiziario». «Penso che, nel quadro delle istituzioni, le procure siano diventate un quarto potere, accanto a legislativo, esecutivo e giudiziario».  Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, usa parole molto severe per commentare lo scandalo che sta investendo la magistratura, nel corso dell’iniziativa “La riforma radicale della giustizia” in corso da ieri su Radio Radicale. «Come si esercita questo potere? Si esercita fondamentalmente al di fuori del processo con un procedura che gli americani chiamano “naming-shaming”, cioè segnalare il nome di una persona ed additarla al pubblico ludibrio, consumando questa specie di potere accusatorio e nello stesso tempo di decisione, mediante un rapporto diretto con l’opinione pubblica e anche grazie ai temi che l’accusa utilizza», aggiunge Cassese.

Non solo, «se l’accusa fosse seguita da una decisione entro 3/4 mesi vi sarebbe un risultato, ma questo non accade. Praticamente vi sono delle persone che sono condannate mediante questo processo senza contraddittorio ed un vero e proprio giudizio», conclude il professore.

Magistratopoli, ora anche molti giudici chiedono la separazione delle carriere. Alberto Cisterna su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Canto XIX, Inferno, VIII cerchio, terza bolgia: i simoniaci stanno conficcati a testa in giù in buchi infuocati della roccia; ne fuoriescono le gambe dell’ultimo peccatore, lambite dalle fiamme. Uno dei canti più belli della Divina Commedia si apre con la nota apostrofe di Dante contro Simon Mago e i suoi seguaci, i simoniaci appunto, colpevoli di aver fatto commercio delle cose sacre. A spanne la reazione di una parte dei magistrati italiani allo tsunami che si è abbattuto su di loro potrebbe essere declinata con i versi del Sommo. Lo sdegno per un mercimonio di favori e di posti sarebbe da addossare a un pugno di infedeli faccendieri, di contagiati dal mal di potere, di dannati della carriera, di apostati della purezza della corporazione. Per carità, è un sentimento, in alcuni casi, anche sincero, profondamente giustificato dai disagi e dai sacrifici che tantissime toghe affrontano ogni giorno nel gestire una macchina lenta, farraginosa, vetusta. Non è di questo sdegno, però che occorre discutere, anche perché, francamente, appare il più delle volte incanalato in una gara, a tempo largamente scaduto, a chi si mostra più indignato, o più sorpreso, a tratti imbarazzante. Lo si era già visto l’anno scorso questo sdegno a scandalo (mezzo-scandalo, invero) appena esploso e nulla era cambiato. Anzi a confrontare certe nomine recenti con certe telefonate intercettate si ha il sospetto che operazioni pianificate da tempo continuino ad andare in porto a dispetto di ogni denuncia e di ogni rassicurazione e malgrado il nocchiero sia stato appeso all’albero maestro. Evidentemente l’abbrivio del transatlantico correntizio è piuttosto lungo e lo stop impresso al vapore non ha ancora fermato le macchine. Comunque, poiché il principio di buona fede e la presunzione d’innocenza rappresentano i cardini del diritto, mettiamo da parte come buone le dichiarazioni che vorrebbero rassicurare un Paese in gran parte sbigottito dagli avvenimenti e prendiamo in esame la situazione. La magistratura italiana ha dissipato, in un tempo non breve, un patrimonio enorme di credibilità e una reputazione immensa. Si trattava di risorse cospicue, frutto dello straordinario intersecarsi di un assetto costituzionale della giustizia ampiamente di favore (come in nessun’altra nazione) verso la magistratura e di un impegno talvolta eroico sul versante del terrorismo, della corruzione e della mafia. Se si volge lo sguardo al modello di giurisdizione tracciato in Costituzione ci si accorge che l’avvocatura non è neppure menzionata e che tutto l’indispensabile apparato di servizio ha solo un fugace cenno nella parte relativa alle competenze del Ministro. Un impianto appena ritoccato nel 1999 con la riforma sul giusto processo, ma senza alcuno spostamento del baricentro costituzionale dall’asse delle toghe e dal loro ordinamento. Un epicentro mai messo in discussione. Una totale identificazione tra toghe e giurisdizione che coinvolge anche il pubblico ministero. Un monolite, si ripete, senza eguali nelle democrazie occidentali e non solo. In questo monopolio costituzionale la funzione di regolazione della corporazione spettava al Csm, a sua volta un insolito monarca assoluto a base elettiva con pochissime regole esterne e un controllo – a tratti asfissiante – sui comportamenti dei singoli magistrati, sull’organizzazione degli uffici, sul funzionamento del processo, sugli incarichi e su molto altro. Tutto questo, sarebbe inutile nasconderlo, è andato in frantumi e proprio nel suo ganglio più vitale. Il corpo del re è apparso nudo, lacerato e purulento. La caduta di prestigio dell’Organo di autogoverno – che tanto aveva impensierito il Quirinale lo scorso anno nella stagione delle dimissioni di alcuni dei consiglieri coinvolti – rischia ora di travolgere la magistratura italiana che, come potere pulviscolare e diffuso, non è in grado di reggere le spinte disgregatrici che la investono in tutti i settori. Un potere sostanzialmente acefalo costituirebbe una rottura della Costituzione e non è possibile fare a meno di un centro di imputazione della funzione giudiziaria. Il Csm è indefettibile. Tuttavia, i magistrati, lasciati a sé stessi, non hanno dato buona prova nella gestione dell’amplissima autonomia e indipendenza che il Costituente aveva loro affidato nel 1947. Quando l’autogoverno ha iniziato a volgersi verso il malgoverno (questa è la percezione diffusa anche tra le toghe) è chiaro che si sono messi in discussione i pilastri della terra su cui dovrebbe essere edificata la casa della giustizia. Occorre comunque aggirarsi con discernimento tra le molte ipotesi di riforma. A esempio, silenziosamente e con circospezione, guadagna consenso tra i giudici l’idea di una separazione delle proprie carriere da quelle dei pubblici ministeri; intesa non più quale strumento per il riequilibrio delle parti processuali innanzi alle corti, ma come via per liberarsi di quella che è apparsa la zavorra più malmostosa e greve delle vicende recenti: la corsa per capeggiare le procure. Non si può dimenticare che tutto è nato dalla successione alla guida della più importante procura della Repubblica del paese e che la maggior parte dei soggetti invischiati, sino ai livelli apicali, fossero appartenenti agli organi requirenti. Il protagonista dell’affaire lo ha dichiarato pubblicamente in un’intervista televisiva: il problema della lotta per gli incarichi riguarda quasi esclusivamente le procure della Repubblica che hanno la disponibilità della polizia giudiziaria. Parola in più, parola in meno. La sensazione è quella che porzioni, purtroppo non marginali, della magistratura inquirente abbiano delimitato una terra infida e pericolosa che il Csm non è riuscito a governare con la necessaria risolutezza e fermezza. Si insinua, in più di un giudice e a mezza voce, la tentazione che sarebbe meglio liberarsi degli scomodi “colleghi” per evitare che colino a picco l’intera corporazione. Magari dando loro un proprio Csm in cui azzuffarsi e regolare i conti dei propri conflitti senza coinvolgere la terzietà e imparzialità dei giudici, presidio irrinunciabile del patto sociale, da tenere al riparo da ogni sospetto.

Parla Giovanni Maria Flick: “Da ministro proposi riforma giustizia ma fui bloccato dalle correnti”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Giugno 2020. Giovanni Maria Flick, giurista di discendenza italo-tedesca e formazione gesuita a Torino, ha fatto il magistrato al tribunale di Roma e insegnato come ordinario Diritto Penale alla Luiss. È stato chiamato da Romano Prodi nel 1996 come Ministro di grazia e giustizia nell’esperienza del primo governo centrosinistra della Seconda repubblica. Una stagione di riforme alle quali darà il suo contributo: a sua firma una serie di pacchetti-leggi, come allora si chiamavano, tra cui l’istituzione di un singolo giudice per i reati di entità minore che prima richiedevano l’impiego di tre magistrati e la chiusura di due penitenziari, non più utilizzabili. È stato il trentaduesimo Presidente della Corte Costituzionale. Ha avuto tre infarti ma sulle grandi scelte di campo del diritto è subito pronto ad alzare la voce.

Che anni erano quelli del suo Ministero, per la giustizia, rispetto a oggi?

«Una esperienza estremamente stimolante nella quale ho però incontrato tante difficoltà. E la prima di queste fu l’atteggiamento non collaborativo da parte delle correnti della magistratura, che fu ostile a tutte le iniziative messe in atto per riorganizzarla. Il mio obiettivo principale era allora quello di non fare piccole riforme, ma riformarla globalmente».

Ma le resistenze furono tante.

«Molte. Ho avuto poi da parte dei magistrati, andandomene, sentori di rimpianto. Ho fatto quel che potevo, per affrontare un tema mai toccato prima come quello della riorganizzazione del sistema giudiziario, cercando di coniugare efficienza e salvaguardia dei valori fondamentali in modo da avere un risultato ragionevolmente soddisfacente».

Il Csm dei suoi anni com’era?

«Avevo un ottimo rapporto con il Csm che era allora presieduto da Capotosti. Quel rapporto ottimo è poi è proseguito quando ci siamo trovati con lui in Corte costituzionale».

Che effetto le fa leggere oggi delle intercettazioni?

«Un gran senso di pena. Perplessità rispetto all’incredibile tonfo che la magistratura ha fatto nella fiducia presso l’opinione pubblica. Magistratura da un lato dilaniata da faide interne tra le correnti e dall’altro quasi sempre sopra le righe, almeno una parte di essa, nel rapporto con la politica e nella gestione del proprio lavoro».

Non c’erano le avvisaglie di quello che sarebbe poi successo?

«Direi di no. Anche se la situazione allora non era molto allegra, la magistratura aveva la sua indipendenza, la sua autonomia, il suo spazio di sovranità. Non che andasse tutto bene, intendiamoci. Ma c’era una cultura della costruzione del sistema che oggi non vedo più. C’era la sensazione che si stesse andando avanti verso il futuro. Oggi non c’è più molto ottimismo».

Com’è cambiato il pianeta carcere?

«La situazione carceri era molto problematica ma c’era l’idea che il carcere andava affrontato nel quadro di un disegno più ampio, in cui era importante il recupero della posizione del detenuto, in ossequio all’art. 27 della Costituzione. Erano state introdotte da non molto le misure alternative e ci si contava molto: non semplicemente per sfollare il carcere ma nella prospettiva del trattamento e della rieducazione del detenuto. Non c’era un sovraffollamento cronico come quello che si sta verificando adesso. Era forse meno difficile la situazione, e non c’era lo strapotere della criminalità organizzata e forse c’era una maggior attenzione dell’opinione pubblica rispetto alle degenerazioni. Attenzione che si è poi allentata».

Com’era la gestione del Ministero, degli uffici e del Dap?

«Io ho cambiato tutti i direttori generali e in particolare, malgrado le difficoltà del clima correntizio, c’era un’aria nuova; sto pensando al futuro presidente della Cassazione, Ernesto Lupo. E sto pensando a Giorgio Lattanzi, futuro presidente della Corte Costituzionale. E sto pensando soprattutto a Sandro Margara, direttore degli affari penitenziari. Perfino i detenuti lo rispettavano. E quando sono stato mandato a casa con il governo Prodi, è stato mandato a casa anche Margara che con grande umiltà è tornato a fare il giudice di sorveglianza a Firenze. Ha dato tantissimo al sistema della giustizia in Italia. Eppure quando è morto, nel congedo da lui, eravamo in quattro gatti. E il Ministero in particolare brillò per assenza. Ci sono servitori dello Stato che finiscono dimenticati».

Amnistia e indulto possono essere soluzioni?

«Personalmente sono convinto che non servano. Sono misure-tampone, non affrontano strutturalmente i problemi ma solo i profili di emergenza. Non è quello il sistema per risolvere il sovraffollamento. Ma questo apre la via a un altro tipo di riflessione: ai miei tempi la pena doveva essere l’extrema ratio. Oggi è la prassi. Mettere in carcere le persone o minacciare di mettercele è diventata la prassi, una regola normale soprattutto nei confronti di certe forme di diversità che danno fastidio alla società: i migranti irregolari e i tossicodipendenti ad esempio».

Qui c’è un fatto di civiltà giuridica. E forse anche solo di civiltà e basta.

«Allora in via Arenula si era cominciato a capire l’importanza di una statistica a spanne nella quale si sottolineava la necessità di tener conto del tasso di recidiva di chi ritorna in carcere: il 70% circa, contro il 30% di chi sconta la pena con gli arresti domiciliari. Esiste oggi una enfatizzazione progressiva che ha portato alle premesse per una sorta di diritto penale del diverso, l’anticamera del diritto penale del nemico. Deformazioni del trattamento particolare, 41 bis, norme sul carcere duro, divieto di pene alternative per chi non collabora con le autorità giudiziarie… Problemi sociali molto diversi, ma gestire tutto al medesimo modo mi sembra sbagliato dal punto di vista concettuale».

Siamo in una fase in cui si afferma la cultura del sospetto, il non dover aspettare la sentenza…

«Una fase che mi trova totalmente in disaccordo. Totalmente, alla luce del principio della presunzione costituzionale di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva. Temo che alcuni valori costituzionali estremamente importanti ed in equilibro tra loro, vengano sacrificati a favore di altri. Penso ad esempio al rapporto tra salute e sicurezza: si finisce, in un modo o nell’altro, per far prevalere le esigenze della sicurezza a discapito della salute».

Vede una deriva nell’uso delle intercettazioni?

«Nella Costituzione la comunicazione prevede due grandi branche: il diritto di comunicare con tutti e la libertà di manifestare loro il proprio pensiero, e il diritto di comunicare solo con qualcuno (articoli 21 e 15 della Costituzione). Quest’ultimo diritto è stato dimenticato pressochè completamente. Il controllo della comunicazione finisce per essere utilizzato per un pre-giudizio, anche per un pre-giudizio penale, per una valutazione sulla vita della persona che prescinde dai fatti in indagine. Non è una cosa che si possa condividere. Credo che sia un problema; progressivamente si sono scolorati i passaggi, i vari step di controllo della magistratura. Parlo della responsabilità deontologica della magistratura, non sanzionata dalla legge ma da un codice etico che non ho mai visto applicato, se non a parole; e della responsabilità del giornalista che ha seguito un analogo deterioramento attraverso una cogestione della comunicazione con alcuni protagonisti della giustizia».

Una deriva lontana dall’essere auto-controllata.

«Trovo in termini generali preoccupante il fatto che il diritto penale sia diventato non più una extrema ratio clause ma venga utilizzato, sventolato come placebo per la sicurezza sociale davanti all’opinione pubblica. Questo crea un circolo vizioso tra le attese dell’opinione pubblica, giustificate e comprensibili, e quello che si pretende dal magistrato; e ciò senza contare le anticipazioni di giudizio formulate o favorite attraverso la spinta mediatica».

La bozza di riforma del CSM la convince?

«In realtà si parla troppo a questo proposito di riforma generale del sistema giudiziario. Quando non si sa come affrontare il merito delle questioni, ci si perde nei tecnicismi e nell’abbondanza degli obbiettivi. Comodi per perdere tempo e collocare i problemi in una massa di prospettive, di modo che non si risolva nulla».

Non è ottimista.

«Ho solo speranze, che mi sono abituato a non coltivare troppo».

Qual è la sua ipotesi?

«Sono molto perplesso sul sorteggio per la composizione del CSM, e vedo anche dei problemi di costituzionalità. Ma a mali estremi mi chiedo se non si debba finire per ricorrere a rimedi altrettanto estremi come il ricorso al sorteggio. L’ultima legge sull’elezione del Csm, oggi in vigore, era ben fatta; è stata distorta completamente nella sua applicazione. Come diceva Giolitti un tempo: le leggi per gli amici si interpretano, per gli altri si applicano».

Da dove partire per la riforma?

«La prima cosa da fare è rompere il legame perverso che lega le correnti e le candidature. Se il numero dei candidati è pari al numero dei posti da eleggere, ecco un sistema che per quanto perfetto, non funziona più. Quale sia la strada migliore, non sono in grado di dirlo. Penso anche al rapporto incestuoso che c’è tra politica e magistratura per la scelta dei membri laici del Csm. Sono pienamente d’accordo con chi sostiene che l’indicazione dei membri laici deve riguardare professori universitari, giuristi, magistrati, avvocati con anzianità, che non possono e non devono essere politici. Devono essere giuristi esperti, portatori della loro esperienza, non politici esperti. Altrimenti creiamo un doppione nel rapporto rafforzato tra politica e magistratura che non funziona. Non credo che ci vorrebbe molto per intervenire su questi punti specifici, senza doverli o volerli annegare in un mare di proposte che finiscono per essere utopistiche».

Manca la volontà.

«Non voglio dare giudizi politici. Posso solo dire che la giustizia dei miei tempi era diversa (anche se quei tempi erano anche loro diversi da quelli di oggi). Oggi non c’è più una visione globale, anche se si parla di riforme epocali a costo zero. In questo momento mi fa paura immaginare grandi riforme costituzionali: alla luce dell’esperienza passata e del modo con cui si è decisa la riduzione del numero dei parlamentari ho paura di certe riforme che rischiano di peggiorare la materia trattata».

Riforma del Csm, molte ombre dietro i soliti propositi. Giorgio Spangher su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Fra i tanti annunci si segnala anche quello – ennesimo – della riforma della giustizia, questa volta sotto il profilo di quella ordinamentale. Sono vari gli aspetti considerati nella proposta di legge delega che doveva già approdare al Consiglio dei Ministri questa settimana e di cui si stanno perdendo le tracce. Si tratta, peraltro, della riproposizione – riveduta e corretta – di quanto già elaborato sotto il precedente Governo, ora stralciato per rispondere all’emergenza del Palamara 2, dopo che sono state dimenticate le premesse legate all’urgenza di dare una risposta al Palamara 1. Si sprecano i buoni propositi, le promesse di autoriforma sia della magistratura, sia della politica. Si notano già i primi distinguo. Il processo sarà lungo e accidentato nella speranza dei protagonisti e dei comprimari della questione “giustizia” che altre emergenze possono obliterare quanto è emerso e con esso la necessità di una riforma oggi ritenuta non rinviabile. Non sono poche, anche sui profili ispirati da lodevoli intenti, le riserve che il disegno di legge presenta. Bisognerà vedere, nel momento elettorale dell’autunno per il parlamento dell’Associazione magistrati, come si posizioneranno – in termini di rapporti di forza – le “correnti” e i vari gruppi. Sotto quest’ultimo profilo, non può non segnalarsi che al tradizionale aggregarsi culturale, le correnti – sul modello di alcuni partiti – si stanno strutturando attorno a leadership individuali, con conseguenze non secondarie in punto di cristallizzazione dell’aggregazione, prima caratterizzata – pur in presenza di persone che avevano rilievo nelle singole correnti – da strutture maggiormente dinamiche. Il risultato elettorale inevitabilmente indicherà chi sarà l’interlocutore della riforma con il Governo e il Parlamento, ma soprattutto quanto peseranno le varie aggregazioni nel riformato sistema elettorale per il Consiglio Superiore della Magistratura. Il dato assicurerà rilievo rispetto alla capacità delle correnti di gestire, sia il primo, ma soprattutto il secondo turno elettorale con possibilità di coordinare gli elettorati. Un profilo di criticità della riforma è costituito dal mantenimento dentro il Consiglio della sezione disciplinare, seppur temperato dalla partecipazione esclusiva dei consiglieri e la divisione in due sezioni. Appare difficile che i componenti si sottraggano alle logiche del Consiglio alle quali la composizione di due togati e di un laico non sarà in grado di sottrarsi, anche se è vero che rispetto all’attuale situazione cambia non poco la possibilità di un giudizio di responsabilità dell’accusato: oggi nella composizione a 6 (due laici e quattro togati) ci vogliono quattro voti per un giudizio di colpevolezza. La proposta (Ermini) di collocare all’esterno l’organo disciplinare richiederebbe tempi lunghi e forse una modifica costituzionale. Il rischio è che più si alza il tiro, più si rinvia la riforma che è già in ritardo, scontando tutti i rinvii già maturati. Riserve, in materia di modello elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura sembrerebbero emergere anche in relazione alla mancata presenza di quote di genere e per l’accorpamento di giudici e pubblici ministeri, nei collegi e nell’elettorato attivo e passivo. In tal modo la riforma esclude – allo stato – qualsiasi elemento legato alla introducibilità attualmente all’esame del Parlamento della separazione delle carriere. La riforma non affronta neppure il problema dei magistrati fuori ruolo che pur rappresentano al pari della nomina dei direttivi e dei semidirettivi un problema di non secondario rilievo. Parimenti la riforma non affronta la questione della composizione dei magistrati segretati, da sempre distribuiti secondo logiche ispirate alla proporzionalità della composizione consiliare, con esclusione non solo di componenti laici, ma anche riconducibili ad una possibile loro indicazione. Si tratta di un ulteriore strumento attraverso il quale le correnti alimentano il proselitismo e costruiscono le carriere dei magistrati negli spazi destinati alla magistratura. Al tema del rapporto con la politica, sicuramente e significativamente toccato dal fuori ruolo, al quale si è accennato, la riforma dedica solo due aspetti. Il primo attiene alla partecipazione dei magistrati alla competizione elettorale ed al rientro nei ruoli dopo l’esaurimento della vicenda politica, e quello delle condizioni per la nomina a componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura. L’esclusione – molto opportuna – di membri del Parlamento che hanno la possibilità di diventare vicepresidenti del Consiglio Superiore della Magistratura – come è emerso nelle più recenti vicende (Rognoni, Vietti, Mancino, Legnini, Ermini) – dopo un passato diversamente caratterizzato è già stata avversata da alcune forze politiche. Sarà un significativo banco di prova della tenuta della riforma. Non si può negare che anche la componente laica, si connoti per “visioni” politiche e ideologiche riconducibili a specifiche aree della rappresentanza parlamentare da cui riceve il consenso ancorché a maggioranza altamente qualificata. Sarebbe ipocrita altresì negare che le nomine non siano legate alle maggioranze e minoranze parlamentari ed all’interno di queste ai rapporti di forza delle sue componenti. Si tratterebbe, tuttavia, di un rapporto maggiormente mediato rispetto a quello di un parlamentare che transita da uno status ad un altro. Al di là delle (buone?) intenzioni, si ha la sensazione che, pur dovendo assistere all’oblio di alcuni burattinai, i protagonisti dei condizionamenti sul potere giudiziario, continueranno ad operare anche con le nuove regole, evitando soltanto le patologie troppo evidenti. La riforma non affronta – e forse non poteva farlo – altri aspetti che le intercettazioni hanno evidenziato: i rapporti tra magistrati e giornalisti e le implicazioni dell’ideologia dei magistrati nell’esercizio dell’attività giudiziaria. Si dice che oggi la fiducia dei cittadini nella giustizia, sia crollata: non c’è da meravigliarsi. Piuttosto stupisce che, pur essendo quanto emerso, perfettamente conosciuto, la fiducia potesse considerarsi elevata.

Magistratopoli, così sono nate le correnti che hanno cancellato il merito. Giuseppe Di Federico su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Le confessioni televisive di Palamara sulle disfunzioni generate dal c.d “correntismo” e la lettura delle intercettazioni che ne documentano la diffusione non dicono nulla che le ricerche sul Csm non conoscessero da più di 40 anni. Peraltro già all’inizio di questo secolo, e ricorrentemente nel corso del suo lungo mandato, il Presidente Napolitano aveva condannato pubblicamente e con parole durissime, quel fenomeno, anche per i suoi collegamenti con la politica, sollecitandone l’abbandono. Nei suoi discorsi in Consiglio ha, infatti, definito le modalità decisorie del Csm come «malsani bilanciamenti tra le correnti» e frutto di «pratiche spartitorie rispondenti a interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici». Il fenomeno dell’influenza delle correnti sui processi decisori del Csm è stato, peraltro, ripetutamente e duramente criticato dalle stesse correnti della magistratura. È quindi una condanna unanime del fenomeno cui non si è dato rimedio anche perché manca la volontà di individuarne le principali cause e di adottare soluzioni efficaci. Varie sono le ragioni del cosiddetto “correntismo” e del perché esso sia da vari decenni una componente rilevante e, a mio avviso, ineliminabile delle modalità decisorie del Csm. La principale ragione deriva dal fatto che al momento di decidere tra le domande, a volte numerose, di trasferimento a funzioni direttive e/o a sedi più gradite, la documentazione ufficiale sui singoli candidati spesso non fornisce ai consiglieri del Csm informazioni utili o sufficienti a scegliere chi tra i concorrenti sia il più meritevole. Ciò dipende in larga misura dal fatto che a partire dagli anni 60 il Csm ha, in vario modo, smantellato tutte le preesistenti e competitive valutazioni di professionalità e ha dato a tutti i magistrati valutazioni positive sulla base dell’anzianità, valutazioni positive che, occorre ricordarlo determinano anche il passaggio da una classe stipendiale a quella di volta in volta più elevata. Le valutazioni negative, di regola solo momentanee, hanno variato tra lo 0,9 e lo 0.5%. Questo è avvenuto nonostante l’articolo 105 della nostra Costituzione preveda espressamente che il Csm debba effettuare le promozioni dei magistrati. Il Csm non ne ha tenuto conto ed ha smesso di farle da cinquanta anni circa. Da allora lo stesso termine “promozioni” non appare più nelle decisioni e nei verbali del Csm. Negli altri paesi dell’Europa continentale ove, come da noi, i magistrati rimangono in servizio per circa 40 anni (ad esempio Germania e Francia), si ritiene necessario, per garantire qualità ed efficienza della giustizia, che i magistrati vengano sottoposti periodicamente a sostantive e selettive valutazioni della professionalità nel corso della lunga permanenza in servizio e solo un numero limitato di loro raggiunge i vertici della carriera. Le graduatorie di merito generate da quelle valutazioni limitano drasticamente la discrezionalità nella assegnazione degli incarichi e nei trasferimenti.  Da noi, invece, l’assenza di sostantive valutazioni e di graduatorie di merito rendono formalmente quasi tutti i nostri magistrati altamente qualificati e di grande diligenza. L’unica graduatoria di merito rimasta è quella basata sugli esami di ingresso in magistratura. Di necessità, quindi, le scelte del Csm sono molto spesso caratterizzate da ampi margini di discrezionalità, e non potrebbero non esserlo. Una discrezionalità che ha generato e consolidato nel tempo il cosiddetto correntismo e le disfunzioni ad esso direttamente collegate sotto almeno tre profili. In primo luogo perché l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili e prive di graduatoria di merito da un canto fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio, dall’altro perché spinge i magistrati a considerare l’appartenenza alle varie correnti come condizione necessaria per ottenere decisioni consiliari a loro favorevoli. In secondo luogo perché le decisioni discrezionali, frutto di appoggi correntizi, sono spesso sorrette, nel dibattito consiliare che le precede, da motivazioni insufficienti e contraddittorie. Cosa che ha generato un numero crescente di ricorsi al giudice amministrativo contro le decisioni del Csm: nei tre anni per cui ho dati certi (ero componente del Consiglio) i ricorsi sono stati complessivamente 777. Sono ricorsi che spesso hanno successo e costringono il Csm a modificare le sue decisioni, il che è sovente accaduto anche con riferimento a incarichi giudiziari apicali (come quelli di Presidente e di Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di due presidenti titolari di sezione e del procuratore generale aggiunto della Corte stessa). È un fenomeno che non si verifica in nessun altro paese europeo in cui, come da noi, si prevedono ricorsi al giudice amministrativo (ad esempio in Francia e Germania). In terzo luogo perché l’assenza di elementi di valutazione su cui basare con relativa certezza le proprie decisioni è particolarmente gravosa per i consiglieri laici, i quali per avere informazioni più attendibili sui candidati in lizza non possono che rivolgersi ai consiglieri togati, e finire quindi di necessità coinvolti essi stessi nella morsa del correntismo. Le proposte di riforma avanzate dal Ministro Bonafede non sono certamente in grado di restringere la discrezionalità con cui il Csm gestisce il personale di magistratura e le sue aspirazioni. Né a tal fine egli potrebbe proporre di adottare le stesse soluzioni in vigore nei paesi democratici dell’Europa continentale che non conoscono il correntismo. Proponendo cioè di adottare anche da noi severi vagli di professionalità, graduatorie di merito, e promozioni limitate dal numero di vacanze che si creano ai livelli superiori della giurisdizione. Si tratta di innovazioni per varie ragioni impraticabili anche se giuridicamente possibili (la Costituzione prevede infatti che il Csm effettui le promozioni dei magistrati). Per comprendere l’impraticabilità di una tale proposta basti pensare al solo fatto che il Csm, utilizzando i suoi poteri discrezionali per promuovere i magistrati in base all’anzianità (cosa non prevista da nessuna legge), ha tra l’altro anche consentito a tutti i magistrati italiani di raggiungere i più elevati livelli della retribuzione (più di 8000 euro netti al mese). Toccare questi privilegi in un sistema in cui la magistratura ha da decenni acquisito un incontrastato controllo sulla legislazione che la riguarda è assolutamente impensabile. Aggiungo tre postille.

La prima: nel corso delle mie ricerche sui sistemi giudiziari di altri paesi sono riuscito ad avere informazioni precise sui livelli salariali, ma non in Italia. Non quando ero consigliere del Csm, e neppure successivamente facendo presentare da un parlamentare, l’On. Lehner, una dettagliata interrogazione. La cifra che ho indicato dianzi per le retribuzioni nette negli ultimi anni della carriera l’ho dedotta dalla pubblicazione nel 2008 della busta paga mensile di 7.673 euro netti del Presidente della Corte d’appello di Milano. La cifra un po più elevata da me dianzi indicata (8000 euro) tiene con molta cautela conto del fatto che dal 2008 ad oggi i magistrati hanno ottenuto 4 adeguamenti salariali.

La seconda postilla: una verifica sull’efficacia delle valutazioni sostanziali della professionalità e delle graduatorie di merito come strumento per ridurre la discrezionalità delle scelte fatte dal Csm e con essa anche il correntismo può essere fatta con riferimento ai difficili esami per le promozioni in Appello e Cassazione che si sono tenute fino al 1977, in contemporanea con le promozioni generalizzate effettuate dal Csm a partire dal 1968. Gli 80 vincitori di questi difficili concorsi che avevano sopravanzato i colleghi nella graduatoria del “ruolo della magistratura” fino ad un massimo di 2962 posizioni, hanno sempre visto soddisfatte le loro richieste di incarichi da parte del Csm e nessun ricorso è mai stato presentato contro le loro nomine, nonostante essi abbiano monopolizzato per molti anni le posizioni di vertice sia al livello distrettuale che della Corte di cassazione, cioè le posizioni direttive più ambite. Quel monopolio è caduto solo all’inizio di questo secolo (con la nomina di Nicola Marvulli alla Presidenza della Corte di Cassazione nel 2001 e di Mario delli Priscoli a Procuratore generale della Corte stessa nel 2006), e sono subito iniziati i ricorsi anche per quelle posizioni.

Terza postilla: nella sua determinazione di promuovere tutti i magistrati sino al vertice della carriera il Csm ha sistematicamente valutato positivamente anche la professionalità di magistrati che non hanno svolto funzioni giudiziarie per molti anni, a volte decenni. Con ciò stesso il Csm ha di fatto deciso che neppure l’esperienza giudiziaria è necessaria per valutare positivamente la professionalità dei nostri magistrati. Lo scrivo da molti anni, ma la cosa sembra non interessare nessuno.

Ainis: «Il caso Csm scredita ancora di più la giustizia». Errico Novi su Il Dubbio il 9 giugno 2020. «Non mi stupisce lo scarso allarme del Paese di fronte ai tribunali chiusi: la giurisdizione è come una malato grave, se muore si ha un senso di liberazione». «Non ci voleva. Il caso Palamara è uno di quei colpi che inducono rassegnazione. Se c’è poco allarme per la paralisi dei Tribunali, un po’, anzi non poco, dipende anche dalla nuova valanga di intercettazioni sul Csm». Michele Ainis è un costituzionalista e ha una sensibilità quasi pannelliana. Ha un’idea sacra delle istituzioni e nello stesso tempo spirito sufficientemente laico per additarne il declino senza perifrasi. Così, di fronte al silenzio del Paese sui tribunali ancora mezzi chiusi – silenzio rotto solo dagli appelli dell’avvocatura – il professore dell’università Roma 3 ed editorialista di Repubblica intravede il senso diffuso della liberazione da una malattia incurabile.

Cioè, professor Ainis, per gli italiani la giustizia non è curabile?

«Esiste una disillusione forte, molto forte. Lei si immagini l’effetto delle intercettazioni su Palamara, la seconda ondata come sappiamo. Arrivano in un momento in cui l’attenzione, l’attesa dei cittadini è rivolta ad altro, all’epidemia, e anche ai limiti che il sistema sanitario ha scontato per i tanti, troppi tagli, i 37 miliardi di tagli degli ultimi anni, senza i quali forse nelle fasi più acute ce la saremmo cavata meglio. Ora questa è la priorità assoluta, giusto?»

Questo è fuori discussione.

«Ebbene, sa cosa succede nella testa di una persona, di fronte alle udienze quasi del tutto abolite? Scatta la reazione rassegnata di chi sa di un parente malato da tempo che non ce l’ha fatta. Si ha quasi un senso di liberazione, dovuto alla pietà. Ebbene, anche di fronte alla giustizia paralizzata dal covid è come se l’italiano medio avesse pensato “era già ridotta male, ha avuto il colpo di grazia, forse è meglio così”».

Agghiacciante.

«Io ho l’impressione che nelle scelte del governo ci sia stato un riflesso di una simile idea. L’indignazione per l’inadeguatezza delle strutture sanitarie ha indotto la politica a cambiare strada. Di fronte al minore allarme suscitato nel Paese dai tribunali chiusi, si è pensato di poter mettere la questione da parte».

Però mancata tutela dei diritti vuol dire impossibilità di recuperare un credito per chi ne aveva urgente bisogno, o veder compromessa la condizione delle persone più vulnerabili, i minori innanzitutto.

«Certo, è evidente. Ma vede, noi siamo un popolo irriducibilmente litigioso. E la tendenza sembra essersi imposta nel pieno della fase 1 così come ancora si impone adesso. Intanto, abbiamo sopportato forti limitazioni della libertà, inevitabili, ma sarebbe stato legittimo attendersi una altrettanto forte riscoperta del valore della libertà. Piero Calamandrei diceva che la libertà è come l’aria, ti accorgi quanto è importante solo se ti manca. Nel caso dell’Italia invece sembra che i contrasti, per esempio, fra Stato centrale e Regioni siano diventati più importanti di tutto il resto. I protagonisti della scena pubblica sono rimasti assai più impigliati nelle liti che animati dall’ansia di apprezzare la ritrovata libertà. A questo aggiungerei il contributo non proprio positivo, rispetto al valore del diritto, offerto dalla legislazione complicatissima delle ultime settimane, avvitata attorno ai dpcm. Centinaia di pagine, spesso contraddittorie, e spesso contraddette dalle ordinanze regionali. Ecco, dinanzi a tutto questo, a molti italiani il diritto è apparso come uno strumento inutile se non dannoso».

La sfiducia nella giustizia dipende anche dal fatto che i magistrati piacciono solo se emettono sentenze dure? Qualche decisione “garantista”, come la sentenza sulla strage del bus precipitato dalla A16, ha reso i magistrati impopolari?

«Un’altra caratteristica italica è l’umore ondivago. Riguarda molti campi. A proposito delle regioni: si passa dal centralismo al federalismo in un niente. Durante Mani pulite eravamo giustizialisti. Ci si è spostati un po’ verso il garantismo nel ventennio berlusconiano, o almeno lo ha fatto la parte del Paese che tifava per Berlusconi. Adesso mi pare prevalga di nuovo un sentimento manettaro, e una delle cartine di tornasole più recenti è nella vicenda carceri».

Ha trovato insopportabile la rivolta contro i giudici di sorveglianza?

«Mi è sembrato non si sia vista alcuna sensibilità per la questione del sovraffollamento, che certo non è recente ma che di fronte ai rischi legati al covid avrebbe dovuto suscitare qualche preoccupazione in più. E invece ci si è indignati davanti ai 400 detenuti per reati di mafia andati ai domiciliari, senza dare alcun peso a quel dato piccolo piccolo, e cioè che su quei circa 400, i detenuti usciti dal 41 bis erano 3 in tutto. Più che fiducia nella giustizia, c’è aspettativa per una giustizia solo punitiva».

Il caso Palamara è un colpo mortale alla credibilità delle toghe?

«Sarebbe così se avessimo memoria… Non ne abbiamo molta, dimentichiamo tutto e subito, ammesso che anche solo nell’immediato qualcosa si innesti davvero nella percezione. Però, certo, la disillusione di cui ho detto all’inizio è stata aggravata dalle nuove intercettazioni».

E come si può rimettere in piedi un sistema così indebolito?

«Con una riforma radicale del Csm. Che prenda le mosse da una constatazione: di micro interventi ce ne sono stati decine, in materia, ma non è cambiato mai un tubo».

Che intende per riforma radicale?

«Anche il ricorso al sorteggio. Credo che la chiave sia la composizione del Consiglio, eevitare che sia monopolizzata dalle correnti. E sorteggio non significa portare a Palazzo dei Marescialli chiunque».

Limiterebbe il novero dei giudici e pm sorteggiabili?

«Sì, probabilmente andrebbero considerati gli standard di laboriosità, la quantità delle sentenze non tanto in termini assoluti quanto nella percentuale di decisioni ribaltate in appello. Lo so, si tratta di una strada impegnativa, ma cito innanzitutto Voltaire, secondo il quale prima di fare nuove leggi bisogna bruciare quelle che già ci sono. D’altra parte, i francesi sono il popolo delle rivoluzioni».

Proprio le correnti chiedono di riabilitare il criterio dell’anzianità nelle nomine, il meno arbitrario di tutti.

«Pensare di sbarazzarsi delle valutazioni è una pia illusione, sia quando si tratta di studenti sia se dobbiamo scegliere chi nominare presidente di un Tribunale o capo di una Procura. Non è che possiamo affidarci a un criterio fisso, se no tanto vale dire che gli incarichi vanno solo ai pm biondi e alle magistrate con una determinata acconciatura… Deve continuare a esserci una discrezionalità nelle scelte del Consiglio superiore. Discrezionalità, non arbitrio del sovrano, ovvio. Ma stavolta ci soccorre Montesquieu: con il sorteggio, diceva, tutti acquisiscono il diritto di servire la patria. Credo sia giusto dare a tutti il diritto potenziale di diventare componenti del Csm. Il sorteggio è la garanzia della massima eguaglianza».

Perché ci vuole la riforma del Csm: 60mila pagine di chat e la scoperta dell’acqua calda. Piero Tony su Il Riformista il 4 Giugno 2020. Mai avrebbe pensato il consigliere Palamara di poter avere il telefono sotto controllo, è chiaro che si sarebbe cautelato invece di parlare e far parlare in libertà. Né tanto meno avrebbe pensato che potessero sparare al passerotto con un missile a testata nucleare anziché con la solita fionda. Perché tale è la differenza tra l’iperpervasivo trojan, pardon captatore informatico, che documenta spezzoni di vita – ideato e prodotto solo per ragioni militari e di intelligence – ed il tradizionale impianto di intercettazione presso le procure (art. 268 cpp ). La conferma? 60mila pagine di chat. Credo che le comunicazioni intercettate su misfatti di correntismo e politica nell’ambito del procedimento contro Palamara per corruzione semplice e corruzione in atti giudiziari (delitti che per loro titolo consentirono l’utilizzo del captatore, si dice che la corruzione in atti giudiziari sia stata poi archiviata) ed altri reati minori, pubblicate da alcuni giornali, siano niente più di un frame di una lunga storia sempre uguale che andiamo denunciando da decenni, la scoperta dell’acqua calda per intenderci. E credo che queste comunicazioni palesemente non abbiano alcun rilievo penale. E che pertanto, appena depositate, almeno in buona parte, avrebbero dovuto essere eliminate dal giudice, per la loro irrilevanza investigativa, nell’apposita “udienza stralcio” prevista dal Codice di procedura penale. Cosa non avvenuta, chissà per quale ragione. Come, chissà per quale ragione, per quanto si legge, pare che le intercettazioni presentino vuoti in circostanze topiche ed unidirezionali. Per tutti questi motivi credo che la loro pubblicazione su alcuni giornali sia avvenuta in violazione quantomeno del codice deontologico di autoregolamentazione. Stando così le cose, possiamo ora occuparcene? In caso di risposta affermativa, è libertà di stampa, diritto/dovere di cronaca o solo, come spesso ha celiato il Foglio, libertà di sputtanamento? E va distinto tra liceità di pubblicazione e liceità di scriverne e discuterne una volta che la pubblicazione sia ormai e comunque avvenuta? C’è poco da fare, come dal letame notoriamente può spuntare un fiore così dal trogolo di queste intercettazioni su commistione tra politici e magistrati può nascere un interrogativo etico: inutilizzabilità all’americana tamquam non esset, oppure utilizzabilità all’italiana visto che con l’avvenuta pubblicazione ormai i buoi sono scappati dalla stalla e, soprattutto, il danno diretto si è già verificato? Mi parrebbe grottesco ignorare il diritto di cronaca su qualcosa che è già avvenuto. Per di più maggiore informazione non può che essere di pubblico interesse ed utilità. Tutto quello che è emerso è la scoperta dell’acqua calda, si diceva, con la non piccola differenza che ora l’imperante malcostume giudiziario è comprovato al di là di ogni ragionevole dubbio, una sorta di ineffabile ed incontestabile documentario. Erano anni che andavamo denunciando lo strapotere dei pm sia al Csm che al ministero. Le logiche solo correntizie che governano il sistema giustizia; le tante indagini espletate secondo il vento politico; le nomine di dirigenti perfino distrettuali, senza la minima esperienza dirigenziale, decise sulla sola base del loro peso correntizio; i privilegi carrieristici concessi ai più maneggioni di corridoio a discapito dei magistrati più composti e più professionali. Palamara non è un mostro ma uno dei tanti nel sistema associativo. Sta scontando la presente vicenda vuoi per maggiore disponibilità (quasi da zelante attendente militare di una volta: organizzazione di cene carbonare, di inghippi per promozioni e nomine ma anche procacciamento di biglietti allo stadio… o aiuto per trovare casa… o presentazione a qualche vip) vuoi perché all’esito di codeste gare carrieristiche ci sono sempre vincitori che giubilano e vinti che sovente covano rancore ritenendo a torto o ragione di aver subito soprusi. Sarà pure solo un mediatore, come va dicendo. Non sarà il solo mostro, come ritengo. Ma di certo ha parlato e straparlato dicendo cose terrificanti. Ma andiamo con ordine. Quella della magistratura è una delle funzioni più importanti e per questo più protette dallo Stato. I magistrati la esercitano in nome del popolo, sono soggetti soltanto alla legge (art.101 Cost.), fanno parte di un ordine autonomo ed indipendente (art. 104 Cost.), sono inamovibili e si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni (art.107 Cost.). Come non bastasse, grazie alla legge Breganza della fine degli anni 60 il loro trattamento economico progredisce pressoché automaticamente… «basta che continuino a respirare» ironizzano i malintenzionati, e tutto ciò è sacrosanto perché – lo ha spiegato ripetutamente la Corte Costituzionale – l’automatismo corrisponde alla «peculiare ratio di attuare il precetto costituzionale dell’indipendenza e di evitare che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri». Per questo giustamente sono stati eliminati i concorsi interni, si progredisce a ruoli aperti e le qualifiche cui è legata la progressione economica sono state sganciate dalle funzioni effettivamente svolte. Ne consegue che ad un magistrato non occorra molto coraggio per essere e restare tranquillamente autonomo ed indipendente nel suo operare, per mandare a quel paese chi possa osare di turbare la sua imparzialità con grilli da politicastro. Malgrado ciò il correntismo imperversa e si continua a fingere di non capire che politica e terzietà sono tra loro incompatibili. Malgrado tutto ciò imperversano carrierismo e lotte all’ultimo sangue quali quelle di cui si scrive. Da sempre. Ma soprattutto da quando nel 2006 (D.Lvo n.106/2006) le Procure sono state pesantemente gerarchizzate ed il procuratore della Repubblica è divenuto «titolare esclusivo dell’azione penale» e siccome comandare è meglio che far l’amore, come dicono… e siccome il criterio di anzianità da che era primo è diventato ultimo e dunque la discrezionalità è alta… tutto si spiega, compresi gli estemporanei lacchezzi intercettati, gli occhi dolci ai Palamara di turno e la dignità sotto i piedi. Perché appaiono terrificanti – come prima si diceva – le parole del consigliere Palamara? Perché disvelano uno scenario quasi irrealistico che non può non riverberarsi anche attorno a vicende trascorse. È terrificante il dialogo tra due magistrati che in quanto tali dovrebbero essere – così almeno usano autocertificarsi nelle correnti più di sinistra – “sentinelle della legalità”: il primo esprime stupore per un’incriminazione del ministro dell’Interno, in relazione alla nave Diciotti, in quanto a torto o ragione la ritiene abnorme, tanto che conclude con un «siamo indifendibili» e si sente rispondere da Palamara apertamente, ovvero senza arzigogoli, «hai ragione ma ora bisogna attaccarlo». Ed il primo – un procuratore della Repubblica, credo di aver letto da qualche parte – non ribatte insultando ferocemente, come sarebbe stato giusto, o almeno esclamando ma che cavolo dici. Ma il discorso finisce lì per i due magistrati, che dovrebbero essere per dettato costituzionale autonomi terzi imparziali indipendenti. Nel paradosso che i magistrati per legge non possono essere iscritti a partiti politici ma, iscritti a correnti iperpoliticizzate ad essi contigue, possono invece organizzare un’allegra fronda politica al ministro dell’ interno. Analisi delle frasi: «siamo indifendibili» vuol dire che il ministro è indagato per un reato che non sussiste o comunque non ha commesso; «hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo» vuol dire che, sì d’accordo, è innocente ma il particolare è di nessuna importanza visto che per contingenti ragioni politiche bisogna continuare a tenerlo sotto processo. Argomentazioni che forse sanno di usurpazione. È terrificante perché siamo la patria di un procedimento scarsamente garantito dove magistrati di codesta risma potrebbero fare e disfare a loro piacimento. La patria dove, come scrisse Enzo Tortora alla sua Francesca, può accadere di tutto a tutti. La patria – come diceva Giovanni Falcone – di giudice e pm parenti tra di loro, del concorso esterno in concorso interno, dell’applicazione retroattiva della legge Severino, del rito accusatorio che più inquisitorio non si può visto l’assoluto predominio di indagini preliminari svolte alle spalle della difesa, delle azioni penali obbligatorie ma chiuse nei cassetti fino al loro spirare, dei non pochi massacri mediatici, delle inchieste senza fine che durano decenni quanto agli esecutori ed altri decenni quanto ai mandanti e delle sentenze definitive che non arrivano mai in tempo utile, etc etc etc.  Terrificante perché, in un contesto così barbaro, il paradigmatico invito «hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo» da parte di chi – come le mitologiche tre Parche – quale potente big correntizio ed ex componente del Csm presiede i destini professionali dei magistrati potrebbe far ripensare al passato; in particolare potrebbe evocare e rendere comprensibili sia alcune sgangherate stagioni di guerra giudiziaria finite quasi tutte nel nulla, tipo quelle di Carnevale Berlusconi con Ruby, Mannino, Mori, Mafiacapitale sia la sorridente e fino ad oggi incomprensibile commiserazione per chi allora avesse temerariamente mostrato di dubitare sulla fondatezza delle impostazioni accusatorie. Per l’avvenuta conferma delle loro denunce, i cd garantisti dovrebbero finalmente gioire. Nulla di tutto ciò, lo scandalo non può che preoccupare ben sapendo come sia vitale ed insostituibile – per l’accettazione di qualsiasi giudizio – la funzione giurisdizionale esercitata con dignità e cultura, in modo autorevole credibile e terzo in nome del popolo (art.101 Cost.) con un giusto processo (art.111 Cost.). Ma si dice che non è mai troppo tardi. Dopo decenni di troppo paziente immobilismo urge uno scossone radicale, che faccia dimenticare le miserie messe in luce dal trojan e recuperare immagine ed efficienza mediante una trasformazione strutturale di tutto il sistema. Partendo dalla riforma del Csm mediante sistema misto tra sorteggio ed elezione, unico modo per evitare giri e promesse elettorali, aspettative e pretese, logiche di appartenenza. Dimenticando la riformetta Bonafede che bolle in pentola, a quel che pare ingenuamente incentrata su di un gattopardesco doppio turno con ballottaggio. E poi continuando con tutto quello che, al fine di armonizzare l’ordinamento giudiziario al codice di rito 1989, come ritornello si invoca inutilmente da sempre: separazione delle carriere, abolizione dell’impugnabilità da parte del pm delle sentenze assolutorie, abolizione del divieto della reformatio in peius, depenalizzazione degli ancora troppi illeciti bagatellari, “rianimazione” della fase dibattimentale, della difesa, del contraddittorio etc etc etc . Tanto per cominciare. 

Cresce il potere della magistratura. Così l’accusa si è impossessata del processo. Giorgio Spangher su Il Riformista l'8 Maggio 2020. Il “fall out” (visto che l’inglese va di moda) della scarcerazione di alcuni soggetti detenuti al regime di 41 bis, suggerisce alcune riflessioni che superano la portata dell’episodio, perché lo stesso si colloca in un quadro generale più ampio. A prescindere o meno dalla correttezza della decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari (che molti non avranno neppure letto e che personalmente ritengo assolutamente corretta) quello che lascia stupefatti è la virulenza dell’aggressione verbale ai giudici che, collegialmente, con la presenza di esperti (sulla base di atti processuali, tecnici, giudici, amministrativi) hanno assunto quel provvedimento, peraltro, impugnabile. Avevo sentito e approvato a più riprese da consigliere del Csm la “famosa” nota del presidente Ciampi che ribadiva la legittimità delle critiche se queste non determinavano la delegittimazione dei magistrati. Quante pratiche a tutela sono state aperte negli anni 2002–2006, e successivamente. Spero che lo si faccia anche per la magistratura sassarese, anche se questa volta le censure vengono dall’interno dello stesso Consiglio. Prescindo anche dai risvolti più strettamente politici connessi alla nomina del nuovo Capo del Dap, alle dimissioni del suo precedente direttore, all’integrazione della struttura con la nomina di un vicedirettore, se non per sottolineare che si tratta di pubblici ministeri, tutti pubblici ministeri e tutti in qualche modo pubblici ministeri antimafia, a vari livelli nella struttura delle procure. L’episodio supera la riferita questione che, peraltro, ripropone il tema della collocazione fuori ruolo dei magistrati nei gangli dell’apparato amministrativo inserito nel potere esecutivo, di cui si amplifica il significato. Tutto ciò, senza considerare – ancora una volta, a distanza di alcuni mesi – lo sfondo della lotta di potere, che sta travolgendo la magistratura, della quale si aspetta la riforma e l’autoriforma. Come era (forse) prevedibile, la distribuzione degli equilibri dentro il processo penale del 1988 ha innestato alcune dinamiche che la ridistribuzione degli stessi nel tempo ha accentuato. L’affinamento dei ruoli e delle professionalità ha inciso fortemente sulla collocazione delle procure dentro la magistratura e nel contesto dell’attività giudiziaria. Con la “complicità” dello spostamento del baricentro del processo nella fase delle indagini e del recupero del precedente investigativo a dibattimento, il potere processuale del pubblico ministero si è esponenzialmente rafforzato, integrato dalla “visibilità” dell’azione svolta dagli uffici della pubblica accusa in sinergia con l’attività della polizia giudiziaria, di cui dispone. Questi elementi sono alla base della configurazione di un magistrato che metabolizza il proprio ruolo, ritaglia gli sviluppi professionali e di carriera sui poteri che gli son conferiti, così da incardinare una figura non suscettibile di alternative: si diventa e si vuole restare il magistrato dell’accusa. Del resto, il sempre maggior tecnicismo nello svolgimento delle indagini (criminalità organizzata, economica, internazionale) richiede la presenza di un soggetto metodologicamente e culturalmente attrezzato. Il reato plasma il soggetto e la funzione svolta. L’originaria struttura del codice, imperniata sulla centralità del dibattimento, governato da un giudice “forte” teso a controllare la rappresentazione del fatto non richiedeva la presenza nella fase precedente di un altro ufficio giudicante, egualmente “forte”: era del tutto inopportuno, del resto, contrapporre con funzione di merito a contrappeso di un pubblico ministero originariamente teso alla mera ricostruzione del fatto. Si trattava, cioè, di una figura processuale – si diceva – né forte, né debole, ma autorevole, in quanto capace pur nella precarietà di poteri probatori, deliberare e delibare, non decidere, avendo quali parametri di raffronto le garanzie costituzionali e le previsioni processuali. Non può non segnalarsi che, a fronte del consapevole e voluto gigantismo dell’accusa, il giudice delle indagini non si è attrezzato – difettandogli spesso gli strumenti processuali – per costituire un adeguato ribilanciamento dei ruoli e delle funzioni. L’ufficio dell’accusa è di fatto fuori da un vero controllo processuale ed ancor di più lo è la procura nazionale antimafia, senza pensare cosa sarà del futuro pubblico ministero europeo. Si potrebbe dire che ormai il discorso della cosiddetta separazione delle carriere e/o delle funzioni si sia realizzato nei fatti, nella strutturazione soggettiva e istituzionale dei procuratori e degli uffici delle procure. Questa distribuzione del potere processuale fa male al processo, alla sua funzione, anche perché la debolezza del giudice lo attrae inevitabilmente nella stessa logica del potere più consolidato e strutturato, in qualche modo ulteriormente legittimandone le funzioni e le attività. Le dinamiche del potere e dei poteri sono insuperabili, anche quando se ne sia consapevoli. Bisogna ripensare questi elementi, ridefinendo ruoli e funzioni, nella complessità del modello. Pur nella piena consapevolezza di quanto detto, sia da parte dei giudici più attenti, sia da parte degli operatori di giustizia, sia da parte della dottrina, la prospettiva è considerata remota. Non è facile e non sarà agevole, anche perché chi ha il potere non è disposto a cederlo, se non a ragione dei propri errori ovvero per un eccesso di arroganza o di presunzione. Qualcosa c’è, ma non basta ancora.

Il Paese affonda e i magistrati litigano, che pena. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'8 Maggio 2020. È abbastanza penoso che durante questa devastazione civile ed economica la ribalta sia occupata dalle star del potere giudiziario, capibastone che si sbudellano nella guerra all’ultimo sangue per l’occupazione delle piazze di spaccio del verbo forcaiolo.  Perché c’è qualcosa di profondamente antisociale, un brutto segno di evidentissimo scollamento democratico, nelle beghe tra fazioni di una cerchia potente e privilegiata elevate a questioni prioritarie dell’agenda nazionale. In faccia al Paese, ovviamente, questa rissa è inscenata sul palco dei valori nobili della lotta al crimine e nella retorica degli eroismi concorrenti a sconfiggerlo, ma sotto la superficie declamatoria degli slogan battaglieri lavorano il tornaconto dell’affermazione personale e la più soda ambizione di carriera: cose che andrebbero anche bene, nel senso che sarebbero umanamente comprensibili, se non pretendessero di camuffarsi nell’intransigenza ieratica del moralizzatore che vive solo di pane con la cicoria dell’antimafia. Un lavoro certamente difficile, a volte pericoloso, è giustamente ben pagato (magari non sarebbe male se il cittadino sapesse quanto guadagna chi lo accusa e lo giudica, ma questo è un altro discorso); ed è perfettamente legittimo aspettarsi che il proprio merito trovi riscontro in allocazioni di prestigio (magari non sarebbe male se la valutazione del merito non fosse perlopiù conventicolare, ma anche questo è un altro discorso). E tuttavia si tratta di questioni corporative, che non dovrebbero essere rimesse all’opinione pubblica nella versione contraffattoria delle vicende che interessano le sorti del Paese. Anzi, semmai esistesse un’informazione decente si spiegherebbe che le esigenze di giustizia non coincidono affatto con le impostazioni di potere della magistratura televisiva, né tanto meno con la furibonda lotta per le investiture in cui essa si impegna se c’è caso che all’assolutezza del suo sovranismo si frapponga il fastidioso ostacolo della democrazia rappresentativa. È già sufficientemente inaccettabile che la giustizia sia governata da una specie di mandarinato che fa il bello e il cattivo tempo non solo sulle proprie questioni interne ma a tutto tondo, reclamando autonomia trasmutata nella pretesa di fare stato sui poteri altrui e sulla testa di una società che fino a prova contraria ha incaricato i magistrati di fare processi, non di costituirsi in una centrale di indirizzo del Paese. Ma è davvero troppo che tutto questo avvenga con lo stipendio d’oro e la catapulta gerarchica gabellati a presidio delle legalità repubblicane mentre il Paese a Costituzione sospesa vive di seicento euro e cassa integrazione che non arrivano.

Io giudice vi svelo le vergogne della casta. Il codice non scritto prevede "vivi e lascia vivere". Decisivi gli appoggi politici al Csm. Il Giornale Sabato 02/03/2013. Quando entri in magistratura, è come dischiudere uno scrigno segreto e misterioso. Hai l'impressione d'essere stato ammesso in un regno proibito. Con le sue leggi, i suoi codici di comportamento. Rigorosamente non scritti, prima regola. Nulla di ufficiale. Quello che è ufficiale è demandato a Note, Circolari, Protocolli, utili per giustificare l'esistenza di un grande apparato. Quando entri in magistratura, resti allibito; poi, lentamente, ne assorbi il clima, le consuetudini. Ti arriva subito forte e chiaro un messaggio: vivi e lascia vivere, camperai cent'anni. Il tuo ego cresce a dismisura, tanto quanto il peso della toga. Scopri come sia importante la difesa dei tuoi privilegi: questione di sopravvivenza. Non muovere le acque, non rompere gli equilibri, non discutere le tradizioni: ne puoi trarre vantaggio al pari degli altri. E, dunque, perché agitarsi? Non sei d'accordo? Finirai a smaltire l'arretrato dei colleghi lavativi. Sarai tollerato come un diverso, insidioso e pericoloso. Alla prima occasione, fuori. Quando il tribunale si svuota, il collega del Sud che se ne va, vedendomi ancora chino sul lavoro, mi canzona ridendo: «Tanto, lo stipendio è sempre uguale...». In effetti non esistono orari d'ufficio. A che ora vengo a lavorare? Quando tieni udienza. Quando tengo udienza? Lo decidi tu. Perché non si lavora al pomeriggio? Perché manca il personale. Perché convochiamo testi, sapendo che l'udienza va rinviata? Il teste ha l'obbligo di comparire. Perché la stanza del mio collega è sempre vuota? Lavora da casa, s'è portato via i fascicoli, stende le sentenze nel tinello, dove può concentrarsi di più. Perché a Natale, a Ferragosto, a Pasqua i tribunali sono vuoti? Non ci sono attività istituzionali. Perché il collega è assente? È indisposto. Ha mandato il certificato medico, almeno? No, lo porterà al rientro. Perché il procuratore viene al lavoro con l'auto blindata partendo da casa sua, che dista decine di chilometri dall'ufficio? È stato autorizzato. E ancora. Perché esiste la sospensione dei termini feriali e quindi non possiamo fissare udienze dal 31 luglio al 15 settembre? Perché gli avvocati vogliono andare in ferie. Perché non decidi subito sull'istanza di scarcerazione? Il codice mi assegna cinque giorni, dunque me li prendo tutti, così posso passare il fine settimana in famiglia. Perché non scrivi subito la sentenza? Devo farla decantare, ho fissato un termine di sei mesi, come il codice mi consente. Vorrei fare domanda di trasferimento: devo andare al Csm a parlare con il consigliere che ho votato. Devo progredire in carriera: devo andare al Csm a parlare con il consigliere che ho votato. Ho un procedimento disciplinare in corso: devo andare al Csm a parlare con il consigliere che ho votato. Vado: «Sta' tranquillo, ho già parlato con gli altri colleghi della commissione disciplinare, andrà tutto per il meglio, nessuna sanzione». Il Consiglio superiore della magistratura salva i magistrati. È lì apposta. Ma perché ho in ballo un procedimento disciplinare? Trattasi di atto dovuto: ho messo in galera una persona per errore. E che sarà mai! Al Csm entri nella guardiola esibendo il famoso tesserino verde, quello che ti frutta il rispetto sociale, i favoritismi, la visibilità sui mass media. Il clima è ovattato, esoterico. Cammini su tappeti rossi. Fai anticamera. Svolazzano di qua e di là tante impiegate, altrettante fanno capannello alla macchinetta del caffè. Commessi impettiti che potresti scambiare per presidenti di qualche tribunale. Il cortile sembra una concessionaria della Lancia, vi sono schierate decine di auto minacciosamente blu, appena uscite dall'autolavaggio. Quando finalmente entri nella stanza del «tuo» consigliere, ti accorgi che gli hai interrotto una serie interminabile di telefonate e vedi dalle pile di fascicoli sulla sua scrivania, tutti blasonati col logo ministeriale o del Csm, che in quella stanza si discutono incarichi direttivi o semidirettivi in Procure e ministeri. Sei una nullità, con quella tua banale richiesta di poterti trasferire nella località di residenza dei tuoi genitori. In realtà, in quella stanza si decide chi sarà il procuratore generale della Cassazione o di Torino o di Palermo; chi dirigerà il tribunale di Roma o di Milano. Una specie di gioco a scacchi in cui le pedine si muovono in base a degli scambi. Per ogni posto importante vi è già tutta la filiera degli aventi diritto, concordati e spartiti fra le correnti. Come la «dinastia sabauda», così viene definita la cordata dei giudici piemontesi. Te ne vai via dal Csm quasi subito con una bella stretta di mano rivestita dall'accento palermitano o napoletano. Riprendi il tuo trenino per il Nord. Hai vissuto una grande giornata, sei entrato anche tu, con tanto di tesserino spillato sulla giacca, nel Palazzo che decide il destino dei grandi magistrati, quelli potenti. Per la cui nomina si scomoda persino il capo dello Stato. Per te non si scomoderà nessuno. Anzi, devi stare attento alle prossime elezioni, il Csm si rinnova. Bisogna capire in fretta a quale corrente conviene aderire.

Agostino Viviani, l’avvocato che sfidò le toghe. E perse…Davide Varì il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Fu avvocato, partigiano e deputato socialista. Propose la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ma la pressione delle toghe indusse Bettino Craxi a non ricandidarlo. È la storia del nonno di Elly Schlein: il padre del garantismo italiano. «Bettino Craxi, che non sottovalutava la questione della responsabilità civile dei giudici, né il pericolo dello strapotere di una parte della magistratura, fu probabilmente condizionato in alcune sue scelte e sottoposto a pressioni che lo indussero a scegliere una linea morbida sul tema della responsabilizzazione dei magistrati…». Finì così la carriera politica di Agostino Viviani, con un blocco del potere giudiziario ( l’Anm di allora) che persuase l’allora leader socialista a ” liberarsi” di quell’avvocato scomodo e preparatissimo perché Viviani era prima di tutto un avvocato – per evitare una guerra contro le toghe che sarebbe potuta finire male, molto male. Chissà se Craxi, anni dopo, pensò a quella resa dal suo esilio di Hammamet. Chissà se rimuginò di aver sbagliato a non resistere a quelle pressioni. Ma questa è un’altra storia. Quella che oggi ci interessa è la vita di quell’avvocato: la notevole, affascinante e singolare vita di Agostino Viviani, l’uomo che da solo provò a scardinare il potere inviolabile dei giudici. Una battaglia che perse, naturalmente, ma che ha lasciato una traccia profonda nella storia del garantismo di questo paese. Il nome di Agostino Viviani è riemerso tra il mainstream di questi giorni per il fatto di essere il nonno di Elly Schlein: prima delle elette in Emilia Romagna e nuova speranza della sinistra. Viviani fu partigiano, parlamentare, consigliere laico del Csm. Ma sopra ogni cosa fu avvocato. Perché fu da quella prospettiva, da quelle vesti che mosse tutte le altre attività. E quando fu eletto parlamentare col Psi, l’avvocato Viviani mise anima e corpo nella battaglia per le garanzie e i diritti. «Le vittime dell’ingiustizia sono sempre di più – spiegava nei suoi appassionati scritti – C’è bisogno di ricordarlo? Ed è tutta colpa delle indagini preliminari. L’accusa ha una sua ipotesi, niente affatto dimostrata e non sa fare altro che arrestare l’indagato e costringerlo a confessare» . Da onorevole divenne presidente della Commissione Giustizia del Senato e fu lì che iniziò la sua battaglia per limitare il potere dei giudici. Primo e unico firmatario della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, Viviani spiegava che «se accettato da tutti il principio che chi per dolo o per colpa produce un danno ingiusto è tenuto a risarcirlo ( art. 2043 c. c.) – stabilite le distinzioni tra colpa e dolo ( che sono limitate per i pubblici dipendenti e per alcune professioni al solo dolo o colpa grave) – la regola vale per tutti». E allora si domandava: «È concepibile che per il magistrato si faccia una eccezione e così mostruosa, da liberarlo dalla responsabilità civile in ogni caso, e cioè quando egli arrechi danno ingiusto per dolo o colpa grave?». L’unico risultato che ottenne fu quello di non essere ricandidato in Parlamento. Così tornò alle sudate carte e alla sua toga da avvocato. Ma dal suo studio continuò a cercare e denunciare le falle e i soprusi che si consumavano nelle aule di giustizia. Memorabile l’intervista che rilasciò a Radio radicale nel febbraio dell’ 89, quando oramai la rottura col Psi era consumata e i giudici del pool milanese si preparavano a spazzare via la prima Repubblica. Ma la prima svolta autoritaria della magistratura, secondo Viviani, arriva con l’emergenza terrorismo: «E’ lì – spiegava – che il codice penale ha subito un ulteriore imbarbarimento. C’è chi ha abusato dell’emergenza per rendere meno liberale il già ultrarepressivo Codice Rocco». Viviani era invece convinto che anche l’emergenza terrorismo o, successivamente, l’emergenza mafiosa doveva necessariamente risolversi entro i limiti della Costituzione. Così non fu e in breve tempo l’emergenza divenne prassi consolidata: «La legge ce la facciamo noi – dicevano i magistrati – ed è inutile che invocate diritti e garanzie». TE proprio sulla scia dell’emergenza si consolidò la vecchia abitudine dei pm di interrogare gli “imputati” in qualità di testimoni. Abitudine sopravvissuta fino ai giorni nostri. Una furbata – spiegava il vecchio avvocato Viviani – che consentiva ai pm di avere a disposizione l’imputato senza la presenza dell’avvocato, spogliandolo così dei diritti più elementari: «Perché se non c’è l’avvocato si può minacciare di ingabbiarlo». E quando, di fronte a questo arbitrio, Viviani e altri avvocati provarono a protestare, secca fu la risposta dell’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il quale spiegò che non c’era nulla di male e che lui stesso, in quindici e passa anni di onorata carriera da pm, lo aveva fatto più volte. E di fronte a questo abuso rivendicato senza pudore, a Viviani non restava altro che alzare le mani: «Quando si arriva all’esaltazione della violazione della legge da parte di un pm, io mi chiedo: che ce ne facciamo dell’indipendenza della magistratura se questa indipendenza precipita nell’arbitrio?». Poi la confessione della resa: «Nell’assistere a questi abusi nelle aule dove si cerca giustizia, io credevo di dover morire presto a causa del fegato ingrossato e dei dispiaceri nel veder quanta ingiustizia ci sia nel nostro paese. E invece sono ancora vivo e vegeto – e a dire il vero Viviani, che morì nel 2009, vivo lo sarà ancora a lungo – e allora mi sto lentamente convincendo che pur sicuro di perdere la nostra battaglia, essa può rappresentare una spinta, una speranza per incidere una traccia nel futuro». Insomma – concluse Viviani – «si fa per i nostri figli, per i nostri nipoti». E una nipote che ha raccolto il suo testimone forse esiste. Si chiama Elly Schlein, una giovane donna che va dicendo in giro che vuol combattere ingiustizie, autoritarismi e abusi. Parole che sarebbero piaciute parecchio a suo nonno, l’avvocato Agostino Viviani.

Anno giudiziario, i pm: la Giustizia siamo noi. Anno 2020, al via "dittatura" della magistratura: fuori avvocati e diritti dei cittadini. Piero Sansonetti il 31 Gennaio 2020 su Il Riformista. Oggi apre l’anno giudiziario, a Roma. Domani in tutte e 26 le Corti d’Appello. Apre sotto pessimi auspici. Il timore è che il 2020 sia l’anno “nero” della Giustizia. La magistratura, che negli anni scorsi aveva vissuto momenti di divisione, di discussione – persino di pensiero critico – sembra essersi ricompattata. È tornata a testuggine. Ora vuole avanzare con le ruspe. La discussione sulla prescrizione non l’ha vissuta come un momento di confronto, o magari di scontro – politico e di idee – ma come una battaglia per la difesa del proprio potere. Battaglia mortale. Fine della prescrizione come consacrazione dell’idea che un imputato vada consegnato al suo Pm, e il suo Pm (e poi i giudici, e poi i successivi Pm) possa avere su di lui un potere totale, incontrollato e perenne. L’obiettivo è quello, ed è molto chiaro: rendere evidente e incontestabile la sottomissione dell’imputato al giudice, e in particolare al Pm. E poi qualcosa di più: fine della prescrizione come inizio di una riforma del processo che porti a una sensibile riduzione dei diritti della difesa, e poi all’abolizione dell’appello e alla riduzione da tre a due dei gradi di giudizio (dei quali uno solo di merito). Il ragionamento è semplice: abbiamo cancellato la prescrizione e dunque ora dobbiamo abbreviare i tempi del processo. C’è un solo modo per ridurre i tempi del processo, senza investimenti e senza intaccare il potere della magistratura: ridurre gli spazi della difesa e i diritti del cittadino. Questa linea, che all’inizio sembrava la bandiera di un settore minoritario della magistratura, ha finito per essere l’unica linea visibile. Ha trovato opposizione solo nelle Camere penali e tra i giuristi. Nei partiti – con l’eccezione di Forza Italia, che oggi però ha una forza molto limitata in Parlamento – nell’intellettualità, in parte larghissima del giornalismo, e soprattutto tra i magistrati, ha vinto il silenzio e l’ossequio ai Pm d’assalto, all’Anm, al ministro e al loro gruppo parlamentare a 5 Stelle. Ora siamo alla vigilia dei discorsi. E le cerimonie si annunciano avvelenate. Gli avvocati penalisti di Milano hanno dato battaglia perché il Csm ha deciso di voler portare a casa il loro scalpo. Non si può leggere in nessun altro modo la decisione di mandare a Milano, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario milanese, l’ex capo dell’Anm Piercamillo Davigo, poco noto come giurista ma notissimo come personaggio della Tv. Gli avvocati milanesi non hanno mica sostenuto che bisogna levare a Davigo il diritto di parola, solo perché la sua idea di giustizia prevede, più o meno, l’abolizione della difesa (anche perché lui è sempre stato convinto che tra avvocato e imputato esista comunque un rapporto di complicità, molto disdicevole). Gli avvocati riconoscono a Davigo, come a chiunque, il diritto di sostenere ogni opinione, anche le più scombiccherate, e non pretendono che le opinioni siano necessariamente in linea con la Costituzione. Non capiscono però per quale ragione il Csm debba considerare Davigo, e dunque il pensiero di Davigo, come specchio dell’identità della magistratura. Se davvero il Csm ritiene che la giurisdizione debba funzionare secondo i criteri di Davigo, è ovvio che l’avvocatura scompare. Diventa una specie di accessorio, quasi burocratico, e comunque del tutto subordinato alla magistratura. Possibile che il Csm voglia seguire questa linea, entrando in contrasto con il codice di procedura penale e con la Costituzione Italiana? E se non è così, allora, perché mandare Davigo? L’unica risposta è una risposta politica, e non c’entrano niente i principi né il pluralismo: il Csm, probabilmente pressato dalle correnti battagliere dell’Anm, ha deciso una provocazione, consapevole, per sfidare gli avvocati e ogni forza o flebile voce o pensiero liberale e garantista. Ha voluto usare un suo esponente, il più noto in Tv, anche forse spinto dalle campagne giornalistiche del Fatto, a occupare il territorio. A segnarlo, come fanno certi animali: questa è terra nostra, i difensori se ne vadano con gli imputati. Del resto il portavoce più importante della magistratura, che è il direttore del giornale – cioè del Fatto – Marco Travaglio, ieri nel suo editoriale si è posto provocatoriamente la domanda: e cosa c’entrano gli avvocati con l’anno giudiziario? È tutta qui l’operazione politica del variegato e composito partito dei Pm. Dichiarare che la giustizia è quella cosa che spetta alla magistratura orientare e amministrare. Alla magistratura, alla magistratura e solo alla magistratura. Fuori gli avvocati. Fuori il legislatore. Fuori la politica. Tra oggi e domani ascolteremo molti discorsi. Potremo valutare se dentro la magistratura ci sono ancora forze in grado di opporsi alla deriva autoritaria del davighismo. Speriamo di avere buone notizie. Una cosa è certa: si apre un anno feroce, nel quale può succedere di tutto. E la posta in gioco è gigantesca. È lo Stato di diritto. Quello che non sarà presente, domani, alla cerimonia di Milano. 

Avvocati non vogliono Davigo, il Csm se ne frega: Travaglio, ma quale bavaglio? Giovanni Altoprati il 30 Gennaio 2020 su Il Riformista. Piercamillo Davigo è persona non gradita al tribunale di Milano. Il “daspo” è stato disposto dalla Camera penale del capoluogo lombardo. L’ex pm di Mani pulite era stato designato nei giorni scorsi da Palazzo dei Marescialli come suo rappresentante nel distretto di Milano alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario che si terrà sabato prossimo. Fra i motivi alla base dell’inopportunità della presenza di Davigo, le sue continue esternazioni sul ruolo dell’avvocato e sul diritto di difesa. Il casus belli, in particolare, è stata l’ultima intervista al Fatto Quotidiano. Al giornale di riferimento dei grillini, fra una fake news e l’altra, Davigo si era lanciato in alcune bizzarre proposte come quella di «rendere responsabile in solido l’avvocato» in caso di ricorso. Secondo il “Davigo pensiero”, l’avvocato dovrebbe depositare all’atto della presentazione del ricorso «fino a 6mila euro e poi, in caso di inammissibilità (disposta dai colleghi di Davigo, ndr) del ricorso, verserà lui la somma al posto del cliente». Proposte che avevano già scatenato l’ira di diversi Ordini forensi, come quello di Torino che aveva deciso di denunciarlo. Per chiedere la designazione di un “sostituto”, l’avvocato Andrea Soliani, presidente dallo scorso anno della Camera penale di Milano, ha scritto al capo dello Stato, al vice presidente del Csm David Ermini e a tutti i componenti, ai due capi di Corte, Giovanni Mammone e Riccardo Fuzio. La risposta del Csm, che solo il giorno prima aveva cacciato il pg Otello Lupacchini da Catanzaro, degradandolo a semplice sostituto a Torino, per aver “commentato” le modalità di gestione della maxi retata di Nicola Gratteri, è stata durissima. «Stupisce che venga proprio da una associazione di avvocati la richiesta – irricevibile e irrispettosa – di censurare la libera manifestazione del pensiero», si legge nella nota di risposta del Csm.  I primi a difendere Davigo erano stati i suoi adepti di Autonomia&Indipendenza, la corrente da lui fondata che, grazie al “ribaltone” estivo del caso Palamara, dettano ora la linea a piazza Indipendenza. Questo il testo del loro comunicato. «Non vogliono, gli avvocati milanesi un Magistrato (sì, proprio con la M maiuscola) che ha servito lo Stato con competenza e professionalità elevatissime e abnegazione eccezionale. Gli avvocati della Camera penale non vogliono confrontarsi con lealtà e correttezza sulle spinose difficoltà che impediscono il funzionamento della giustizia; non hanno alcuna volontà di concorrere a rendere la giustizia italiana più efficiente e più giusta trovando assai più comodo giocare il ruolo degli offesi. Abbiamo sempre pensato che l’Avvocatura dovesse rendersi interprete del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Oggi abbiamo capito che, nella realtà, non è così. Ma noi Magistrati non ci perdiamo d’animo e continueremo nella nostra incessante opera di tutela dei principi fondanti della giurisdizione. Insieme con Piercamillo Davigo, e orgogliosamente al suo fianco, traendo dal suo fulgido percorso professionale e dalla sua incessante difesa della Costituzione la forza di essere magistrati della Repubblica italiana». In soccorso di Davigo anche le toghe progressiste di Area: «Non ci ritroviamo in diverse sue posizioni, e anzi in più occasioni le abbiamo confutate pubblicamente. Tuttavia, riteniamo inaccettabile e contrario alle regole fondamentali del vivere democratico discriminare chiunque in base alle opinioni espresse, e ancor di più tentare di privarlo del diritto di parola. Le idee non condivise si contrastano con argomenti nell’ambito del confronto e del dibattito. Tutto il resto è frutto della degenerazione culturale che il nostro Paese sta vivendo, e gli avvocati italiani dovrebbero esserne ben consapevoli». Più soft, invece, il comunicato dell’Anm milanese, dispiaciuta per quanto accaduto e per la «mancanza di rispetto verso l’Ordine giudiziario ed il Csm». A fare da scudo umano sabato prossimo a Davigo ci sarà il ministro della Giustizia in persona. Bonafede, invece di recarsi in distretti “problematici”, come ad esempio Catanzaro, dove sono stati rimossi, oltre al procuratore generale, il procuratore di Castrovillari ed il procuratore aggiunto, e dove ci sono decine di magistrati indagati per reati gravissimi o sottoposti a misure cautelari, come il presidente della Corte d’Assise, accusato di taroccare le sentenze, ha deciso di accompagnare Davigo nella passerella milanese. La “battaglia” sulla presenza di Davigo, comunque, ha anche un’altra lettura. Più importante.  E cioè la sua permanenza in servizio. A ottobre il magistrato compirà settant’anni e dovrà andare in pensione. Senza Davigo, un certo modo di vedere la giustizia è destinato a sciogliersi come neve al sole. E questo il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e i grillini lo sanno molto bene. Come lo sanno molto bene anche al Fatto Quotidiano.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 30 gennaio 2020. La prima guerra è sotto gli occhi di tutti. Tre camionette dell'esercito sono piazzate davanti all'ingresso della Procura di Catanzaro. I nuovi Suv corazzati scortano il procuratore Nicola Gratteri dentro al palazzo. Al primo piano si può salire solo con gli agenti della vigilanza. La direzione distrettuale antimafia è blindata, hanno appena sostituito i vetri delle finestre per renderle a prova di esplosione. Nuove regole anche per il centralino: «Nessuna chiamata diretta alla segreteria del procuratore, l' unico modo è scrivere una mail». La prima guerra è quella di un magistrato contro la 'ndrangheta, che quel magistrato vuole morto. Nicola Gratteri vive sotto scorta da più di trent' anni. Il suo nome ritorna nelle intercettazioni delle cosche. I mafiosi parlano così: «Quattro anni fa hanno fallito. Stava andando a Crotone e per lui avevano trovato pure i cosi.». «È un figlio di puttana». «È un morto che cammina». «Falcone come è stato? Quando ha superato il limite se lo sono cacciato!». Queste erano minacce già note. Ma il 14 gennaio è stato convocato un comitato provinciale per l' ordine e la sicurezza e la decisione è stata presa con la massima urgenza. Ecco l' esercito, le auto corazzate, i vetri antiproiettile, l' indicazione di ridurre al minimo le apparizioni in luoghi pubblici. Il livello di protezione è stato aumentato ulteriormente. Non si conoscono le nuove frasi intercettate, perché fanno parte di un' inchiesta ancora coperta dal segreto. Ma si sa che 'ndranghetisti di cosche diverse stanno cercando di allearsi per ottenere lo stesso risultato: vogliono trovare armi da guerra per uccidere il procuratore capo. La prima guerra è dichiarata. Ma c' è un' altra guerra che è stata combattuta intorno alla procura di Catanzaro. Una guerra fatta di allusioni, discredito, potere. «Una guerra qui dentro?», dice Gratteri. «Non mi piace questa definizione». Eppure è difficile trovarne una diversa per spiegare quello che è successo con l' ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. La scontro è diventato pubblico quando i due magistrati si sono trovati davanti alla prima commissione del Csm.

Come erano arrivati lì? Il procuratore generale aveva scritto una nota di rimprovero al procuratore antimafia: lo accusava di scorrettezze formali, soprattutto di non averlo avvisato di alcune indagini. Le frasi pronunciate davanti al Consiglio superiore della magistratura, svelate dal Fatto Quotidiano, spiegano meglio il clima all' interno del palazzo di giustizia. Lupacchini: «Non sto qui a ricordare l' atteggiamento ostile manifestatomi sin dal momento della mia presa di possesso a Catanzaro, solo lui era il verbo, non solo nel distretto, ma probabilmente in tutta Italia, nell' universo e forse anche in altri siti. Tutti sono farabutti all' infuori di lui, nessuno capisce nulla, perché il verbo giuridico è lui a possederlo». Gratteri: «Mi si dice che io furbescamente non abbia trasmesso gli atti a Salerno. Di me accetto tutte le critiche del mondo, che sono ignorante eccetera, ma sull' onestà no. Ogni settimana c' è un' intercettazione ambientale dove si discute su come mi devono ammazzare. Non ho tempo per parlare del sesso degli angeli o andare a baciare l' anello a nessuno».

Per almeno tre volte Lupacchini ha attaccato pubblicamente il lavoro di Gratteri.

La prima è stata durante l' inaugurazione dell' anno giudiziario del 2019, quando fece riferimento al record di scarcerazioni per ingiusta detenzione nel distretto di Catanzaro.

La seconda fu nel giorno dell' insediamento del presidente della sezione penale del tribunale di Vibo Valentia, dove commentò un' inchiesta condotta proprio da Gratteri: «Magistrati che si presentano in qualsiasi circostanza a elogiare loro stessi, laddove poi le vicende dei processi non raggiungono risultati utili».

La terza è storia recente. Dicembre 2019. Operazione «Rinascita» con 330 persone arrestate, colletti bianchi, politici, avvocati, massoni: un intero sistema di potere mafioso. Ma in un' intervista a TgCom24 Lupacchini, lamentando il fatto di essere stato tenuto all' oscuro del blitz, disse: «Il problema non è smontare la Calabria come un Lego, ma ricostruirla». I rapporti fra i due erano pessimi.

Dopo una prima archiviazione, lunedì la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha accolto le richieste avanzate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal procuratore della Cassazione Giovanni Salvi e ha disposto il trasferimento d' ufficio di Lupacchini. Non è più il Procuratore generale di Catanzaro, ma sostituto procuratore generale a Torino: trasferito d' urgenza «con perdita di funzione». Il difensore del magistrato, Ivano Lai, dice: «Questo provvedimento è un atto politico. Il ministro Bonafede risponda pubblicamente sugli esiti delle denunce invitategli dal procuratore generale Lupacchini e, immediatamente dopo, si dimetta da un ufficio per ricoprire il quale occorrono, oltre che imparzialità e trasparenza, misura e buon senso. Nei confronti di Lupacchini si continua a infierire in violazione delle più elementari norme di civiltà giuridica». Amareggiato, l'avvocato Lai aggiunge: «È tutto sbagliato. Questo non era il confronto fra un eroe e una persona che voleva contrastare l'eroe. Il problema degli eroi è che diventano intoccabili. Ma tutti noi siamo soggetti a richiami. Nessuno è infallibile». Da una stanza blindata al primo piano della procura di Catanzaro, il procuratore Gratteri non commenta. Fuori c' è una targa in memoria di Giovanni Falcone. I militari fanno il cambio turno. Nella fontana restano i volantini della manifestazione del 18 gennaio, quando 2 mila persone sfilarono qui davanti in solidarietà con il procuratore antimafia.

Pubblico ministero, un super poliziotto che non risponde di quel che fa. Giuseppe Di Federico il 31 Gennaio 2020 su Il Riformista. In una recente intervista, Sabino Cassese ha detto di aver saputo da fonte attendibile che circa i due terzi delle persone sottoposte a giudizio risultano poi innocenti nel corso dei tre gradi di giudizio. I dati esatti non li conosciamo e proprio ieri i Radicali hanno chiesto, con una lettera aperta al Ministro Bonafede pubblicata da Il Dubbio, di fornirli. Nell’attesa sappiamo comunque che le percentuali sono molto elevate e certamente tali da imporre una riflessione sul perché di un fenomeno tanto diffuso e tanto pernicioso per il cittadino. Chiedono di riflettere, in particolare, sulle modalità con cui operano i guardiani dei cancelli dell’iniziativa penale, cioè i nostri pubblici ministeri (Pm). Si può certamente dire che l’assetto del nostro Pm è fortemente deviante rispetto a quello degli altri Paesi a consolidata democrazia. Lo è sotto diversi profili. Poiché ho solo poco spazio a mia disposizione concentrerò la mia attenzione sugli aspetti di maggiore devianza, cioè quelli che più di altri contraddicono momenti rilevanti della funzionalità di uno stato democratico sia per quanto riguarda il controllo delle politiche criminali che la protezione dei diritti civili nell’ambito del processo penale. Lo farò tenendo ovviamente conto che i nostri pubblici ministeri operano in un contesto in cui vige il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale sconosciuto in altri Paesi, principio che è al contempo irrealizzabile e ciononostante gravido di implicazioni sul piano operativo. Farò inizialmente riferimento al peculiare ruolo del nostro Pm nella fase investigativa. Una fase che è cruciale per la protezione dei diritti civili non solo perché di fatto vi è in questo settore dell’attività del Pm molta discrezionalità, ma anche perché quella discrezionalità è priva di reali, efficaci controlli. Il nostro Pm non solo è pienamente indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato, ma lo è in larga misura anche all’interno del suo ufficio. Ha anche il pieno ed esclusivo controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle indagini (ce lo ha ricordato di recente anche la nostra Corte costituzionale). La polizia deve cioè operare seguendo esclusivamente le istruzioni del Pm. Quindi il Pm nella fase delle indagini è sostanzialmente un vero e proprio poliziotto pienamente indipendente, che certamente non è meno poliziotto per il solo fatto di chiamarsi Pm. Non esiste nessun paese a consolidata democrazia in cui il Pm sia pienamente indipendente ed abbia poteri di polizia tanto ampi ed incontrollati. Sul piano operativo significa, tra l’altro, che di sua iniziativa il nostro Pm può svolgere, se lo vuole, indagini su ciascuno di noi con tutti i gravi ed irreparabili danni che questo comporta per il cittadino che poi risulti innocente. Si tratta di danni irreparabili sul piano sociale, economico, politico, familiare e della stessa salute come viene ricorrentemente documentato dalle cronache giudiziarie. Danni la cui angosciosa, drammatica, gravità ci è stata ricordata giorni fa anche dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza, in un suo articolo dal significativo titolo: “L’assordante silenzio degli innocenti”. Se molti anni dopo il giudice di appello o cassazione riconosce che i motivi dell’azione penale o erano inconsistenti o non rilevanti sotto il profilo penale, nessuna responsabilità può comunque essere imputata, né è mai stata imputata ad un Pm, né sul piano disciplinare e neppure sul piano della valutazione della professionalità.  Nei casi in cui si sono invocati quei tipi di responsabilità, esse sono state escluse con riferimento all’indipendenza del Pm e/o al fatto che in presenza della convinzione che vi fossero seri indizi di reato, il Pm era obbligato ad agire per non violare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, un principio costituzionale che quindi trasforma qualsiasi comportamento discrezionale e ingiustificato del Pm in un atto dovuto per legge. Robert Jackson, quando era ancora Attorney General degli Usa (procuratore generale degli Stati Uniti, capo del Dipartimento della Giustizia n.d.r.), in un suo discorso del 1940 ai procuratori federali che da lui dipendevano, li avvertiva che nel ruolo del Pm è insito un pericolo, e cioè che potendo scegliere i casi, i Pm possono anche scegliere la persona ed indirizzare la polizia alla ricerca di possibili reati da lui commessi. È un fenomeno che riguarda tutti i Paesi ove i reati sono molto più numerosi di quelli che possono essere perseguiti, e quindi di fatto anche nel nostro, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale. La cosa che rende quel fenomeno più pericoloso nel nostro Paese è che i Pm degli altri paesi democratici sanno che i comportamenti scorretti vengono in vario modo sanzionati, mentre i nostri Pm sanno che i loro comportamenti non sono comunque soggetti a censure di nessun tipo. Vengo ora al ruolo del Pm nella promozione dell’azione penale. È ormai un fatto pienamente riconosciuto anche in Italia che non tutti i reati possano essere perseguiti così come erroneamente creduto dal nostro Costituente e come previso all’art. 112 della nostra Costituzione. Il compito di scegliere quali reati perseguire viene di fatto lasciato alla libera ed indipendente valutazione dei nostri Pm, che in tal modo definiscono di fatto a livello operativo, senza trasparenza e senza responsabilità alcuna, gran parte delle politiche pubbliche del nostro Paese nel settore criminale. Anche questo non avviene in nessun paese a consolidata tradizione democratica (Inghilterra, Germania, Francia, Olanda, Austria, Stati Uniti, e così via) perché sarebbe ritenuto incompatibile con il principio che le politiche pubbliche debbono essere decise nell’ambito del processo democratico. Vale a riguardo ricordare quanto lapidariamente affermato dalla Commissione presidenziale francese a cui, nel 1997, il presidente Chirac aveva, tra l’altro, affidato il compito di esplorare la possibilità di sottrarre il pubblico ministero al controllo gerarchico del ministro della giustizia. La Commissione liquidò la questione in poche parole ricordando che nessun paese era mai riuscito, né sarebbe mai potuto riuscire a perseguire tutti i reati. Che quindi sottraendo il Pm al controllo del Ministro si sarebbe anche demandato al Pm il compito di effettuare le scelte di priorità. Cioè scelte di politica criminale. Concludeva ricordando che in un paese democratico le politiche pubbliche in tutti i settori, e quindi anche nel settore criminale, devono essere definite da organi che ne rispondano politicamente. Un orientamento riaffermato anche di recente (2017) dal Conseil constitutionnel francese, in un giudizio promosso dal Syndicat de la Magistrature che da molto tempo vorrebbe che il Pm francese avesse gli stessi poteri del Pm italiano. Ho citato questo caso perché illustra la principale ragione per cui in tutti i paesi a consolidata democrazia l’organizzazione del Pm è gerarchica, unitaria e vede al suo vertice un soggetto politicamente responsabile del settore (di regola il ministro della giustizia, ma anche un altro soggetto come avviene in Spagna e Portogallo ove il capo dello Stato nomina un procuratore generale pro tempore su indicazione del governo). Non posso qui trattenermi sulle misure che vari Paesi democratici adottano per evitare che un assetto più controllato dell’attività del Pm possa portare ad un uso distorto dei suoi poteri soprattutto per iniziativa del potere politico. È tema di grande importanza risolto in maniera differente da Paese a Paese e che non può certo essere trattato nell’economia di questo breve articolo. Da ultimo, solo due riflessioni sui progetti di riforma costituzionale attualmente pendenti in Parlamento e volti a regolare le attività del Pm: uno predisposto dall’Unione delle camere penali e l’altro presentato dal senatore Vitali. La prima riflessione è che questi progetti di riforma prevedono la fissazione di priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte del Parlamento senza indicare chi dovrebbe controllare il pieno rispetto di quelle priorità e come dovrebbero essere sanzionati i trasgressori. Ed è a dir poco difficile immaginare come questo possa avvenire in un regime di piena indipendenza esterna ed interna del Pm quale esso è attualmente e che non viene modificato in nessuno dei due progetti di riforma. La seconda riflessione. Nelle relazioni delle due proposte di legge si riconosce che esiste un’incontrollata discrezionalità del nostro Pm nella fase delle indagini, ed era difficile non farlo visto che entrambe le relazioni hanno ampiamente copiato, pur senza dirlo, i miei scritti. Tuttavia nell’articolato non prevedono nessuna norma volta a rimuovere o attenuare i pericoli che al cittadino derivano dalla esistenza nel nostro Paese di un Pm che nella fase delle indagini è di fatto un poliziotto che può agire in piena indipendenza senza portarne responsabilità alcuna. Le ricorrenti tensioni che questo ha prodotto nel governo del nostro Paese e i danni che ha causato a moltissimi cittadini innocenti sono certamente ancor più gravi di quelli che possono derivare dalla assenza di priorità nell’azione penare che le norme di quei due progetti di legge costituzionale cercano di regolare.

1992 Ritorno al futuro, partito dei Pm all’assalto. Piero Sansonetti il 5 Novembre 2019 su Il Riformista. È in corso un attacco senza precedenti alla politica italiana da parte della magistratura. Anzi, un precedente c’è: 1992. Cioè l’anno della grande inchiesta “Mani Pulite”, quella che portò all’annientamento di una intera generazione politica, e precisamente della generazione che forse è stata la migliore degli ultimi 150 anni. Quella che ha reso grandi i partiti (soprattutto la Dc, il Psi e il Pci) e ha portato l’Italia a diventare la quarta potenza industriale del mondo e uno dei paesi dove più si riducevano, progressivamente, le disuguaglianze sociali. L’attacco di ieri si è verificato attraverso tre o quattro bocche di fuoco. Principalmente quelle controllate da tre magistrati molto noti: Giuseppe Pignatone, Nino Di Matteo e Nicola Gratteri. Ciascuno per conto suo ha sistemato i cannoni ad alzo zero e ha iniziato il bombardamento. Pignatone ha contestato la sentenza della Cassazione, recentissima, che esclude la presenza della mafia nella vicenda “Mondo di Mezzo”. (La Cassazione aveva spiegato che corruzione e mafia non sono necessariamente la stessa cosa). Di Matteo, che è un ex Pm e un membro del Csm (recentemente escluso da un gruppo di lavoro della superprocura Antimafia perché troppo ciarliero coi giornalisti) ha usato la Tv per entrare nella contesa politica e mettere in moto una valanga di fango contro Berlusconi. Gratteri – che dei tre è il più concreto – senza tanto rumore ha fatto capire al Pd e al centrodestra calabrese che i candidati alla Presidenza della regione è meglio che li scelga lui. E ha deciso che né il governatore uscente – candidato naturale del centrosinistra – né il sindaco di Cosenza – candidato naturale del centrodestra – sono adatti all’incarico. Siccome il governatore e il sindaco sono di gran lunga i candidati favoriti, in vista delle elezioni di gennaio, Gratteri ha ottenuto già un buon risultato: probabilmente centrodestra e Pd piegheranno il capo e presenteranno un candidato gradito a Gratteri, e così, ovviamente, faranno anche i 5 stelle. In questo modo il risultato delle regionali è abbastanza sicuro: vincerà un gratteriano. Non so se qualcuno ricorda quella favola di Esopo del Leone e del topolino, rielaborata nella versione di Trilussa, che finisce con quei versi memorabili in dialetto: “Tenente, la promozzione è certa, e te lo dico perché me so magniato er capitano”. Ecco, il lavoro di Gratteri si ispira un po’ al poeta romanesco. Di Trilussa gli manca solo l’ironia. Aggiungiamo a questi attacchi diretti anche l’attacco indiretto che viene in seguito all’arresto a Palermo di un ex detenuto e militante radicale. Il quale è accusato di avere avuto rapporti coi boss e di avere utilizzato per questi rapporti la possibilità di visitare i carcerati a seguito dei parlamentari. Quel che colpisce è la foga con la quale da molte parti (non dalla Procura di Palermo, proprio per confermare che una cosa è la magistratura e una cosa diversa e non coincidente è il partito dei Pm) si è chiesto di cogliere al balzo questa notizia di cronaca per limitare le visite in carcere e per rendere le prigioni un luogo ancora più inaccessibile e dove i diritti sempre di più diventino una opzione discrezionale. Nel titolo di questo articolo, ricordiamo il 1992. Perché? Non solo perché la virulenza dell’attacco dei magistrati fa ricordare la grandiosità di Mani Pulite. Ma per altre due ragioni. La prima riguarda la situazione politica, la seconda riguarda le istituzioni. La situazione politica oggi è molto simile a quella del 1992. La politica è debolissima, allo sbando, e non sembra in grado di controllare i movimenti di chiunque abbia intenzione di ferirla. Il governo è sorretto da partiti che nel Paese sono minoranza. L’opposizione è sostenuta invece da una maggioranza abbastanza forte, nell’opinione pubblica, e tuttavia – specialmente per le recenti esperienze governative della Lega – dà la sensazione di non avere né idee né competenze sufficienti per governare la crisi. I partiti sono allo sbando. I due partiti che negli ultimi 30 anni si sono alternati al vertice del potere politico, e cioè Forza Italia e il Pd, sono ridotti ai minimi termini e sono martoriati dalle scissioni successive. L’intellettualità è in ritirata, impaurita, spaesata, incapace di esprimere giudizi e tantomeno di indicare prospettive. La pancia del Paese è in grande agitazione, travolta dalla cultura del “vaffa” ma senza più aver fiducia neppure in chi quella cultura ha creato. Tutto ricorda i tempi drammatici del ‘92-’93, quando i partiti di governo persero in pochi mesi più della metà dei consensi che avevano, mentre l’ex Pci sbandava e poi si accodava ai magistrati. E i giornali, in gran parte subalterni al potere economico – anche lui intimidito dall’offensiva della magistratura – decisero di schierarsi a testuggine a difesa delle Procure. La seconda ragione per la quale vediamo una somiglianza tra l’offensiva di oggi e quella del ‘92 è la larghezza dell’attacco. Che non si limita a colpire i partiti e a pretendere (Gratteri) il diritto a surrogarli, ma giunge fino a mettere in discussione l’intero assetto democratico. Compreso, in parte, il potere giudiziario. L’attacco di un gruppo di magistrati guidati da Marco Travaglio alla Corte Costituzionale, e ora l’attacco di Giuseppe Pignatone alla Corte di Cassazione, spiegano benissimo la natura di questa offensiva. Il partito dei Pm non solo spara a palle incatenate contro i partiti, ma intende mettere in discussione anche i meccanismi fondamentali del garantismo che funzionano all’interno dell’Ordine giudiziario. L’obiettivo è grandioso e semplice: mettere in mora lo Stato di Diritto. In tutte le sue articolazioni. Queste righe che ho scritto sono di semplice analisi politica. Non vi nascondo che il sentimento che questa analisi produce, in me, è di paura. Siccome sono, di formazione, un vecchio comunista, ricordo Antonio Gramsci e la sua analisi sulla sovversione delle classi dirigenti. Mi pare attualissima. Oggi la sovversione avviene da parte del partito di Pm. P.S. Lo ripeto per l’ennesima volta, e non come precisazione formale. Partito dei Pm e magistratura non coincidono. E in buona parte sono in conflitto tra loro. Però il partito dei Pm, oggi, è fortissimo, e sta fagocitando la magistratura.

·         “Li Camburristi”. La devono vincere loro: l’accanimento giudiziario.

Procura di Bergamo, presunte intimidazioni a un praticante avvocato: 2 esposti al Csm. Valentina Stella su il Dubbio il 14 novembre 2020. La vicenda risale al dicembre 2017: un sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo e un Tenente colonnello della Guardia di Finanza avrebbero convocato con un pretesto un giovane praticante di un noto studio legale milanese e lo avrebbero intimidito per estorcergli informazioni su un importante cliente. Se la storia che vi stiamo per raccontare fosse vera sarebbe di una gravità inaudita. Il condizionale è d’obbligo perché sono in corso degli accertamenti da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. La vicenda è molto complessa ma proviamo a riassumerla così: un sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo, il dottor Emanuele Marchisio, e un Tenente colonnello della Guardia di Finanza, Salvatore La Bella, nel 2017 avrebbero convocato con un pretesto un giovane praticante di un noto studio legale milanese, lo avrebbero chiuso in una stanzetta, intimidito con urla e minacce, obbligato a spegnere il cellulare, gli avrebbero negato il diritto di appellarsi al segreto professionale e lo avrebbero torchiato per tre ore e mezza per estorcergli informazioni su un importante cliente dello studio che aveva concluso la procedura di voluntary disclosure per un rimpatrio di capitali dall’estero. Tutto questo è descritto in due esposti dei dominus del praticante inviati alla sezione disciplinare del Csm che abbiamo avuto da una fonte anonima. Entriamo nel dettaglio dei fatti: lo studio legale Stufano Gigantino Cavallaro di Milano assume nel 2015 la difesa di Gianfranco Cerea in diversi procedimenti tributari. L’uomo è un noto manager e finanziere, tra i protagonisti di operazioni bancarie su Credito Bergamasco, Banca Popolare di Crema, Banca Popolare di Cremona e in Svizzera è stato advisor per Ubi nella vendita della Banca di Deposito e di gestione di Losanna. Cerea in quell’anno aderisce alla procedura di voluntary disclosure o collaborazione volontaria regolarizzando una trentina di milioni di euro fra cui centinaia di opere d’arte detenute all’estero. Nell’ottobre 2016 l’Agenzia delle entrate emette gli atti conclusivi della procedura, qualificando Cerea come collezionista d’arte. Invece, secondo la Procura di Bergamo esisterebbero a carico di Cerea gravi indizi di esibizioni di atti falsi: per loro non sarebbe un collezionista ma un vero mercante d’arte. E cosa avrebbe fatto la Procura per saperne di più? Tra i vari atti di indagine, sottopone a intercettazione dall’ottobre 2017 l’auto del praticante e la sua utenza telefonica “al fine di poter conoscere eventuali – probabili – comunicazioni tra lui e i titolari dello studio Cavallaro concernenti la delicata posizione del Cerea” come si legge nella richiesta di autorizzazione a operazioni di intercettazione. Inoltre il 5 dicembre dello stesso anno, come leggiamo dall’esposto a firma dell’avvocato Sebastiano Stufano, “il giovane praticante avvocato ( con problemi di salute importanti nonostante la giovane età) è stato convocato presso una caserma della Guardia di Finanza per essere interrogato da cinque persone, ed è stato intimidito per diverse ore da un Sostituto Procuratore della Repubblica e da un ufficiale superiore della Guardia di Finanza che gli hanno intimato più volte in modo minaccioso di rispondere alle loro domande. L’assunzione di sommarie informazioni è durata quasi quattro ore, come emerge dal verbale, ma sono state verbalizzate soltanto poche domande. Questo quadro dà una chiara rappresentazione del modus procedendi del Dott. Marchisio e del Ten. Col. La Bella; non è dato infatti sapere, se non dalle spiegazioni rese dal praticante, cosa sia successo in quasi quattro ore di interrogatorio. Il racconto del praticante rivela un uso, da parte dei pubblici ufficiali presenti, di una forte violenza psicologica e l’adozione di comportamenti coercitivi volti a condizionare in modo non consentito la libera autodeterminazione del testimone, in violazione di quanto disposto dall’art. 188 c. p. p.”. Il praticante ha risposto a diverse domande relative alla posizione di Gianfranco Cerea, cliente dello studio, apprese nell’esercizio della sua professione e nello svolgimento del mandato professionale, nonostante il suo dominus gli avesse detto prima dell’incontro di rispettare il segreto professionale. Il giovane non sarebbe riuscito a sopportare le pressioni che a suo dire gli avrebbero fatto in quella stanza: “L’atteggiamento arrogante, prevaricatorio e minaccioso del dottor Marchisio è andato crescendo nel corso dell’interrogatorio quando lo stesso ha ricordato al praticante di non tacere nulla di quanto a sua conoscenza, «anche perché lei è giovane, è ancora praticante e non è nel suo interesse dire il falso o fare omissioni. Quindi, visto che conosce bene il dottor Cerea, ci dica tutto». Di fronte alle risposte del praticante in merito alla veridicità della procedura di voluntary disclosure, la contrarietà di tutti gli astanti è emersa in tutta la sua violenza. A titolo esemplificativo, il Ten. Col. La Bella ha cominciato a urlare sbattendo i pugni sul tavolo”. Così ha raccontato il ragazzo al suo dominus e così leggiamo nell’esposto del 2018 in cui l’avvocato Stufano chiede al Csm di indagare sull’accaduto e di prendere eventuali provvedimenti. Si chiede contestualmente anche di acquisire le conversazioni telefoniche avute col dominus a dimostrazione del fatto che al praticante era stato detto di mantenere il segreto professionale e quelle intercorse tra lo stesso praticante con i familiari il 5 e 6 dicembre per acclarare il suo stato d’animo. Inizia l’istruttoria del Csm. Vengono richiesti pareri e noi abbiamo modo di leggere quello del Sostituto Procuratore Marchisio che si difende da tutte le accuse: “non corrisponde al vero che il teste sia stato ammonito prima ancora di potersi sedere e in assenza di presentazione del sottoscritto; non corrisponde al vero che il sottoscritto abbia tenuto un atteggiamento arrogante, prevaricatorio e minaccioso; parimenti è falsa l’allegazione che il F. ( praticante, ndr) sia stato posto in condizioni tali da potersi sentire fisicamente coartato; né il Ten. Col. La Bella, né alcun altro dei presenti ha mai alzato i toni o tenuto atteggiamenti scomposti; con riferimento al profilo relativo al segreto professionale, il dottor F. decideva autonomamente di non avvalersi del segreto, né sussiste alcun obbligo in capo all’A. G. di sollecitare il teste all’esercizio di tale facoltà”. Ci sarebbe un problema però ed è qui che nasce l’esposto dell’avvocato Vincenzo José Cavallaro del 2 novembre scorso: “la documentazione che dovrebbe essere stata ricevuta nel settembre 2018 dal Csm risulta inspiegabilmente priva delle chiamate intercettate sull’utenza telefonica in uso al dottor F. il cui contenuto è particolarmente importante ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare in oggetto”. Infatti uscendo dall’interrogatorio del 5 dicembre il giovane ha chiamato la madre e una collega avvocato raccontando in lacrime il trattamento a cui era stato sottoposto. Noi abbiamo ascoltato quelle registrazioni ed effettivamente il ragazzo è disperato, piange al telefono, è in uno stato di profonda agitazione. La parte in cui descrive “la metodologia di interrogatorio a cui è stato sottoposto che rappresenta la prova regina del clima minaccioso e violento subito” è in omissis. “Altro elemento che lascia impietriti – scrive Cavallaro nell’esposto – è quanto si legge nel decreto d’urgenza di intercettazione e localizzazione di conversazioni e comunicazioni, dell’ 1.12.2017, a firma del dottor Emanuele Marchisio, che per potermi intercettare direttamente mi definisce ’ commercialista’” invece che avvocato. Come vi avevamo premesso ci troviamo dinanzi ad una matassa alquanto complicata: non spetta a noi giudicare ma solo raccontare quello che leggiamo nelle carte sui cui sarà il Csm a doversi esprimere.

Incongruenze del sistema giudiziario. Perché i Pm possono accanirsi anche dopo l’assoluzione? Alberto Cisterna su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Si è conclusa mercoledì – con il fioco clamore mediatico che in questo sfortunato Paese viene tributato alle assoluzioni degli ingiustamente accusati – la vicenda di un ufficiale di alto rango dell’Arma dei Carabinieri. Il nome poco importa – lo ha fatto ieri Il Riformista – e anche il suo processo sarebbe da considerare di scarso rilievo. Una falsa testimonianza in un processo di ‘ndrangheta. Non una corruzione o una collusione mafiosa, né un depistaggio o peggio ancora un pestaggio. Nulla di particolarmente grave nella colonna infame dei reati che di tanto in tanto vengono contestati a fedeli servitori dello Stato e per i quali, a distanza di tempo, fioccano inevitabili archiviazioni o assoluzioni. La Cassazione ieri ha respinto il ricorso che la procura d’appello aveva proposto contro l’assoluzione che era stata pronunciata dai giudici di secondo grado, cancellando una prima condanna. Ancora una volta nulla di particolarmente grave, sono cose a cui la gente è abituata purtroppo, e quando capita che il velo dell’omertà mediatica sia squarciato e la notizia si spanda in mille rivoli minori, non sono pochi quelli che pensano che un colpevole l’abbia passata liscia e che debba ringraziare il cielo di aver scampato le manette, piuttosto che lamentarsi della lapidazione investigativa. È un problema di civiltà. Una nazione abbrutita da fughe di notizie, da arresti presentati come condanne, da conferenze stampa percepite come verdetti inappellabili, ha completamente smarrito quali sia il rigore anche etico imposto dalla presunzione di innocenza e non esercita più alcun controllo sulle notizie che provengono dagli apparati della repressione penale i quali, da anni, agiscono in perfetta simbiosi con ben collaudati e servizievoli consorzi mediatici. Ma ancora una volta nulla di particolarmente grave. Sono cose note da tempo. Per quale motivo strapparsi le vesti questa volta, cosa ci potrebbe essere di diverso da altri casi, finiti in silenzio e sopiti nell’indifferenza di tutti. Qualche tempo or sono – in tempi di leggi ad personam sfacciatamente presentate come tali (anche oggi, invero, i casi non mancano, ma tutto è più felpato e consociato) – si era pensato di inibire al pubblico ministero la possibilità di proporre appello contro le sentenze di assoluzione. La tesi dell’one shot. Il processo penale si svolge nel pieno contraddittorio, l’accusa porta le proprie prove e se il giudice le ritiene inadeguate o insufficienti l’imputato deve essere lasciato in pace. Regola semplice, forse anche ragionevole, che tuttavia è incespicata nei rilievi censori della Corte costituzionale e per ragioni che – all’epoca e tenuto conto del contesto politico della riforma – potrebbero anche comprendersi. Questo non avrebbe impedito al legislatore di por mano alla questione per altra via, imponendo a esempio rigorosi filtri gerarchici per l’impugnazione del pubblico ministero e, soprattutto, monitorando l’esito dei processi ai fini della ricostruzione delle carriere, di quelle carriere che sono esibite nei tornei correntizi come folgoranti e per le quali nessuno sa effettivamente come una retata di manette si sia conclusa o come un’indagine eccellente abbia avuto il proprio epilogo. I curricula (che la riforma Bonafede vorrebbe rendere ostensibili e pubblici) tacciono su questo profilo, certo non marginale della questione, e sono pieni piuttosto di numeri riguardanti indagini – anzi (come le si chiama ora con linguaggio inappropriato per un magistrato anche se dell’accusa) “operazioni” – e mai di riferimenti alla loro conclusione e ai verdetti definitivi. Non che questo snodo cruciale della vicenda fosse sfuggito all’attenzione delle menti più raffinate del Parlamento italiano e che non si fosse prevista una norma in proposito. Ma il 18 dicembre 2004, il presidente Ciampi rinviò alle Camere, rifiutandone la promulgazione, il testo della legge di delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, definitivamente approvata dalla Camera il 1 dicembre 2004, e svolse svariati rilievi, uno dei quali concernente proprio questo monitoraggio dell’esito dei procedimenti. Rilevò la Presidenza della Repubblica che la prevista «istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali» fosse in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione. E ancora «il monitoraggio dell’esito dei procedimenti – fase per fase, grado per grado – affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla ‘’organizzazione” e dal ‘’funzionamento dei servizi relativi alla giustizia’’, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro». Quindi, il nocciolo della questione: «inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza ‘’della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione». Un punto invalicabile che, con grande onestà intellettuale, il messaggio di Ciampi enunciava senza alcun infingimento e dietro il quale si scorgeva anche il peso delle preoccupazioni provenienti dalla corporazione. Aleggiava il pericolo che il controllo sull’esito dei processi, operato dal Ministro della giustizia, potesse condizionare l’esercizio della giurisdizione. Non si può negare che sia vero. Il problema è, però, comprendere se esista un punto di equilibrio tra l’assenza di efficaci controlli (il Csm è, almeno formalmente, in grado di poter verificare questo aspetto quando cura la valutazione dei singoli magistrati) per lasciare tranquillo e sereno il manovratore giudiziario, e l’esigenza dei cittadini e dello Stato di prevenire il ripetersi di errori seriali da parte della stessa toga, se non dello stesso cluster di toghe non poche volte avvinte dalle medesime indagini e messe a guardia degli stessi imputati. Si badi bene, non si tratta di discutere né dei fondi per l’ingiusta detenzione da manette facili (sono i casi più gravi, ovviamente) né degli indennizzi per la irragionevole durata del processo (messi in bilancio 2020 per 180 milioni di euro), ma della necessità di scovare quelli che, in sanità, vengono definiti gli «eventi avversi» ossia i casi in cui la macchina sistematicamente si inceppa e nessuno riesce a porvi rimedio in modo celere e definitivo. Così consentire al pubblico ministero, che ha visto miseramente naufragare la propria ipotesi investigativa. di rimandare l’imputato assolto innanzi alla corte d’appello e, se ben ammanicato, anche al cospetto della Cassazione, è un danno che il sistema non può sopportare. L’obiezione è nota: le impugnazioni dei pm contro le assoluzioni sono infrequenti e non sono quelle a intasare le aule dei gradi superiori. Ma la risposta è parimenti chiara: l’impugnazione non può essere il sistema per impedire all’imputato, già proclamato innocente, di uscire per sempre dal processo e, soprattutto, per impedire un redde rationem sulle indagini.

“Causa che pende, causa che rende” proclamavano un tempo i vecchi avvocati; ma parlavano d’altro. Quando è in gioco la libertà e la dignità delle persona ogni causa che pende è una causa che rende un pessimo servizio allo Stato e alla collettività, oltre che al singolo. La riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dal Ministro della giustizia dovrebbe fare un passo in avanti e tentare – nel percorso tracciato dal presidente Ciampi- di costruire una costante verifica sui processi per confrontarne l’esito con le indagini. Una, due, dieci, trenta assoluzioni sono fisiologiche, un nugolo non lo è più: mettere insieme ottimi e scadenti pubblici ministeri non è una buona idea, soprattutto quando sono i secondi i più assetati di notorietà e di carriera.

Francesco Bellomo per “Libero quotidiano” il 2 ottobre 2020. Domani a Catania si apre l' udienza preliminare che vede Salvini imputato per il caso della nave Gregoretti. Ancorché da tutti ricondotto al tema dei rapporti tra politica e magistratura, questo processo presenta un significativo elemento di diversità. Per comprenderlo occorre muovere da una classificazione della tipologia di reati che il politico, come ogni persona, può commettere: reati tecnici (corruzione, abuso d' ufficio, falso, riciclaggio, ecc.) e reati naturalistici (omicidio, furto, rapina, violenza sessuale, ecc.). I primi sono di gran lunga i più diffusi tra i politici, poiché presuppongono la titolarità o il contatto con cariche pubbliche e sono mossi da finalità di arricchimento. Per loro natura sono figure di delitto abbastanza elastiche, quindi una certa sproporzione tra numero di processi e numero di condanne è fisiologica. I reati naturalistici, in cui la componente materiale è predominante, sono governati da leggi scientifiche, dunque meno esposti alla discrezionalità dell' interprete. Non sempre, però, la pratica corrisponde alla teoria, specialmente quando la materia è culturalmente sensibile: in tali casi accade di frequente che l' ipotesi accusatoria sia costruita convertendo un (personale) giudizio di disvalore etico o sociale in un reato. L' accusa mossa a Salvini è un singolare ibrido tra queste due categorie: un reato naturalistico (sequestro di persona) contestato sulla base dell' esercizio di un potere tecnico-giuridico (quello derivante dalla carica di Ministro dell' interno). In questa anomalia si compendia un problema che va ben al di là della dialettica tra politica e magistratura ed assume una valenza quasi epistemologica: possono le decisioni di un giudice (e, ancor prima, le indagini di un pubblico ministero) essere influenzate da fattori estranei alle leggi che è chiamato ad applicare? Per chi abbia sufficiente conoscenza della materia la risposta è pacifica: sì. Il tema dei condizionamenti al giudizio normativo - passioni, emozioni, pregiudizi, ideologie, interessi - è vasto come la letteratura che se ne occupa. Provo a spiegarlo citando nuovamente l' aneddoto raccontato da Corrado Carnevale, a lungo presidente della I sezione penale della Corte di cassazione e destinato a diventarne primo presidente, fino a quando fu travolto dall' ondata mediatico-giudiziaria, per la sua fama di "ammazzasentenze" nei processi di mafia: «Il pubblico ministero si era limitato a chiedere la condanna precisando l' importo della multa, la difesa non aveva affrontato nessun argomento. Quando fummo in camera di consiglio, i componenti del collegio s' impegnarono in una dotta dissertazione sul trattamento pensionistico dei magistrati europei. Dopo che furono arrivati alla conclusione che, naturalmente, il peggiore trattamento pensionistico era quello dei magistrati italiani, il presidente si rivolse al collega cui spettava di redigere la motivazione della sentenza e chiese: Quantu ci damu? (la discussione si svolgeva in dialetto siciliano, cosa che non mi dispiaceva affatto). Che pena gli diamo? Scusate un momento, obiettai io: la derubata non ha riconosciuto l' accusato, testimoni non ce ne sono, la somma sottratta non si è trovata nella sua disponibilità. In base a quali elementi questo signore dovrebbe essere condannato? La domanda mi pareva legittima. Ma il presidente mi rispose: "Tu sei un sofista". Sarò pure un sofista, ma almeno spiegatemi, perché vorrei capire. E lui: "Ma tu lo sai chi è l' imputato? È un barbiere. E lo sai quand' è avvenuto il furto? Era un lunedì". Allora capii dove volessero andare a parare. E soltanto perché era barbiere, quel poveretto si beccò sei mesi di reclusione. Da allora mi sono sempre trovato a disagio nell' ambiente». Quotidianamente, nelle aule di giustizia, vengono fatti ragionamenti di questo tipo (magari un po' più raffinati), che inevitabilmente conducono al più grave dei difetti possibili per una decisione giudiziaria: l' inversione logica. La decisione precede l' argomentazione. Fortunatamente, per quanto diffuso, questo modo di operare raramente porta a danni reali, perché i procedimenti intuitivi (che a volte sarebbe più corretto chiamare istintivi) spesso conducono allo stesso risultato che si sarebbe ottenuto ragionando in termini formali. E va pur detto che, tra tutti i corpi dello Stato, la magistratura è quello mediamente più preparato, aduso sin dai primi studi a sviluppare le doti della conoscenza e della tecnica. Ma la neutralità, l' immunità da pregiudizi morali, la capacità di orientarsi in base alla logica e non ai sentimenti, sono uno stato dell' intelletto difficile da raggiungere. Né giova a tale obiettivo l' incessante pressione mediatica sui casi giudiziari di maggiore rilievo, spesso alimentata proprio dalla politica, che, a sinistra come a destra, cavalca il desiderio di sangue della piazza, immolando lo Stato di diritto (e, prima di esso, la Ragione) sull' altare del consenso. L'uso della retorica e l'appello all'emotività sono il contrario della giustizia. Anche Salvini dovrebbe rammentarlo. Ma in questo caso, forse, gli si può concedere una giustificazione: legittima difesa.

·         L’accusa conta più della difesa.

La singolare sentenza. La Cassazione ha deciso: l’accusa conta più della difesa. Giuseppe Fornari su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. “Il consulente tecnico dell’Accusa è più attendibile di quello della Difesa”, potrebbe essere riassunta così la singolare sentenza della Cassazione Penale, Sez. III, 29 maggio 2020 (ud. 18 febbraio 2020), n. 16458, che mette nero su bianco ciò che nessuno aveva osato dire o, quantomeno, scrivere. In questa pronuncia, tanto assurda quanto pericolosa, si legge infatti, letteralmente, che «le conclusioni tratte dal consulente del PM (…) pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa». Non solo: al fine di chiarire definitivamente il concetto, palesando un inaccettabile pregiudizio nei confronti della Difesa, la Corte aggiunge che «gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 c.p.p., rivestono (…) una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio». Si tratta di un colpo durissimo, l’ennesimo, inferto al principio della parità delle parti processuali, al rito accusatorio, al giusto processo. Ciascuna delle parti, infatti, compreso il Pubblico Ministero (che è parte del processo, vale la pena ribadirlo), deve potersi avvalere del contributo tecnico-scientifico di esperti, ai fini dell’accertamento di fatti e circostanze di rilevanza penale, in condizioni di parità con le altre parti processuali. Detta possibilità deriva da una duplice consapevolezza: la prima, relativa alla necessità di integrare le limitate conoscenze delle parti con specifiche competenze tecniche; la seconda, relativa alla possibilità di poter fornire, in ipotesi, una spiegazione alternativa di un medesimo accadimento mediante l’applicazione di metodi e regole tecnico-scientifiche differenti, che meritano tutte, ugualmente, di essere prese in considerazione. La prova scientifica dovrà essere poi sottoposta, infatti, alla valutazione del giudice che sarà chiamato a valutarla sulla base del proprio libero convincimento, secondo gli ordinari meccanismi conoscitivi del processo penale. Egli sarà tenuto a motivare la ritenuta attendibilità della prova, anche quella di tipo scientifico, e a spiegare le ragioni per cui ritiene non attendibili le prove contrarie. Quest’onere di motivazione deriva dal valore del contraddittorio che, nel sistema accusatorio, deve essere inteso come metodo di conoscenza: ad un tempo solo, sia diritto dell’imputato che via maestra per l’accertamento. Sacrificare il principio di parità delle parti significa tradire questo valore del contraddittorio, che si trasforma così in una sorta di diritto a difendersi “se e quando possibile” anziché “come possibile”. Mi auguro che la Suprema Corte possa ravvedersi presto e affermare, così, che questa pronuncia rappresenta l’incauta espressione di un pensiero isolato, che non può e non deve trovare accoglimento nell’alveo del giusto processo.

Shock in Cassazione: "I periti dell'accusa devono avere priorità". La sentenza sancisce una "disuguaglianza" fra i pm e la difesa. Ed esplode la polemica. Massimo Malpica, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. Accusa e difesa sono pari davanti al giudice, ma a dirla tutta l'accusa è un po' più pari. La conclusione paradossale, e uno schiaffo in più al principio della parità delle parti processuali, arriva con la sentenza 16458 della terza sezione della Corte di Cassazione penale che ha respinto il ricorso di una signora barese condannata per aver demolito un rudere in zona con vincolo paesaggistico ricostruendo poi un nuovo fabbricato. Solo che la donna, nel ricorso, lamentava come la corte d'Appello che l'ha condannata avesse ignorato la sua consulenza di parte (che definiva l'intervento come ristrutturazione) aderendo invece in pieno alla perizia disposta dal pm. Ed eccoci al punto. Perché la Cassazione, nella sentenza, rimarca proprio come non sia censurabile la sentenza di condanna oggetto del ricorso per essersi allineata alle conclusioni del perito del pubblico ministero, e mette nero su bianco che «pur costituendo anch'esse il prodotto di un'indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa». Chiaro? Il consulente tecnico incaricato dal pm gode dunque di una maggiore attendibilità, stando alla pronuncia della Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso. E ha affermato un precedente inquietante che fa a cazzotti, appunto, con il principio della parità delle parti. La sentenza, peraltro, insiste sul punto, definendo più avanti gli accertamenti del consulente del pm portatori di «una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio». Il tutto proprio perché il pm, argomenta la Terza sezione della Cassazione, sarebbe super partes, avendo «per proprio obiettivo quello della ricerca della verità», un obiettivo discutibile, nella pratica che secondo la Suprema corte è «concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità», e al quale prosegue la sentenza, dovrebbe allinearsi anche il lavoro del consulente nominato dal pm, «dovendosi necessariamente ritenere che () operi in sintonia con tali indicazioni». Insomma, i giudici salentini che hanno condannato la donna, per la Cassazione, bene hanno fatto a fidarsi della perizia del consulente del pm senza verificare gli abusi denunciati con un ulteriore accertamento peritale, «del tutto inutile per l'accertamento dei fatti e per la speditezza del processo». Peccato che il pm «super partes» dovrebbe in realtà rimanere una parte del processo, e che l'obbligo di acquisire elementi anche a favore dell'indagato da parte del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari è, nella pratica, piuttosto trascurata. Tanto che questa pronuncia apre una pericolosa breccia nel già fragile principio che vorrebbe il contraddittorio tra le parti nel processo svolgersi in condizioni di parità. Mentre si parla tanto di riforme nel campo della giustizia, sarebbe cosa buona che i giudici della Suprema corte non certificassero come dato assodato - oltre che condivisibile, a leggere la sentenza - lo squilibrio nel processo tra accusa e difesa.

Per la Cassazione valgono più i consulenti dell’accusa che della difesa? Caiazza: «Finalmente lo ammettono». Il Dubbio il 10 ottobre 2020. «Peccato che la parità delle parti (Pm e imputato) davanti al giudice terzo è il comando costituzionale». «Detto in parole povere, secondo la terza sezione penale della Corte di Cassazione, il parere tecnico del Consulente del Pubblico Ministero è in sé più attendibile di quello del Consulente della Difesa. Ciò deriverebbe dal fatto che il Pm è un organo pubblico, il cui compito è quello di accertare la Verità, mentre il compito del difensore è solo quello di affermare e sostenere la verità utile per la salvezza del proprio assistito». Così su Facebook il presidente dell’Unione delle camere penali italiane Gian Domenico Caiazza, commenta la sentenza della Corte di Cassazione con cui si stabilisce che il parere tecnico di un consulente della Difesa ha meno attendibilità di quello di un consulente del pm. «Naturalmente, colpisce di questa sentenza null’altro che la brutale ed esplicita chiarezza. Nessuno di noi può dirsi sorpreso da una simile affermazione, visto che noi avvocati ne scontiamo quotidianamente la ferrea vigenza nei processi che si celebrano nelle aule di giustizia. Dirò di più: se questa rivendicazione, in termini di principi generali, della superiorità degli elementi di prova raccolti dal Pm ci aiuterà a svergognare in via definitiva la storiella del processo ad armi pari davanti ad un giudice terzo ed imparziale, ben venga questa sentenza. Così almeno la piantiamo di raccontare favole», prosegue Caiazza.

C’è un piccolo particolare, però, segnalo il capo dei penalisti italiani: «La parità delle parti (Pm e imputato) davanti al giudice terzo è il comando inequivoco dettato dall’art. 111 della Costituzione. E questa sentenza, ed il principio che essa afferma, letteralmente si fa beffe, ed anzi sovverte, quanto preteso senza equivoci dalla nostra Costituzione». È  vero, segnala Caiazza, che il codice di rito imporrebbe «al Pubblico Ministero di ricercare le prove anche favorevoli all’imputato: ma si tratta, come è a tutti noto, di una delle norme -forse la norma- più inapplicabile e infatti più disapplicata del nostro codice di procedura penale. Ed è giusto che sia così: il Pubblico Ministero onesto, equilibrato e sereno può e deve prendere atto della prova che demolisce il proprio teorema accusatorio, se in essa si imbatte; ma pretendere che ne vada alla ricerca è pura accademia, figlia peraltro della idea inquisitoria del processo che non distingue accusatore e giudice», insiste il presidente dell’Ucpi. Nella realtà, poi, secondo Caiazza, il principio affermato dalla Cassazione viene sistematicamente smentito. «Non si comprende d’altronde per quale misterioso motivo il parere dell’esperto balistico o chimico o tanatologico nominato dal PM dovrebbe avere valore ed attendibilità scientifiche superiori a quelle dei suoi colleghi nominati dalla difesa. Al contrario, nel proprio sforzo confutativo della tesi accusatoria è assai frequente che l’imputato, soprattutto se è in grado di sostenerne le spese, nomini consulenti più qualificati, e spesso di gran lunga più qualificati, di quelli nominati dall’ufficio di Procura», rimarca Caiazza. «La valutazione del Giudice, dunque, non può che essere di merito: assegnare questo odioso ed ingiustificabile vantaggio all’accusa, e dunque questo pesante handicap alla difesa, la dice lunga sulla idea che i giudici nutrono, nel nostro Paese, del processo accusatorio. La magistratura italiana è, davvero con rarissime eccezioni, irrimediabilmente ostile al sistema processuale accusatorio, all’idea del processo delle parti, alla formazione della prova in dibattimento in un contraddittorio paritario», argomenta il capo dei penalisti.

Poi l’arringa finale: «Il sistema accusatorio, infatti, diffida della prova raccolta da PM e polizia giudiziaria in solitudine, interrogando testi nel chiuso di uno stanzino di una caserma, e nominando consulenti il cui lavoro – e la cui conferma in successivi incarichi – è fortemente condizionato dalla inclinazione a compiacere e supportare la tesi dell’Accusa. Tutto questo materiale, nel processo accusatorio, vale tutt’al più ai fini di rinviarti a giudizio; poi è carta straccia o poco più, perché la prova andrà formata alla luce del sole, in dibattimento, davanti ad un giudice terzo. Un sistema indigeribile per la magistratura italiana, che sin dal primo giorno del nuovo codice ha infatti provveduto a mutilarne i connotati distintivi, e da allora non ha mai smesso. Quest’ultima è solo una piccola ciliegina su una torta sontuosamente imbandita nel corso degli anni; in barba a Giuliano Vassalli, all’art. 111 della Costituzione, ed alle fastidiose pretese paritarie del difensore, che con la ricostruzione della verità ha poco o niente a che fare. Quello è il lavoro dei Pubblici Ministeri, perbacco!», conclude Caiazza.

“Consulenti del pm più attendibili”: l’assurdo della Suprema corte dimostra quanto sia urgente la riforma dell’avvocato in Costituzione. Alessandro Parrotta, Avvocato, direttore Ispeg – Istituto per gli studi politici, economici e giuridici, su Il Dubbio il 18 ottobre 2020. Secondo la Cassazione “la consulenza dell’Ufficio di Procura” è “assistita da una sostanziale priorità” rispetto alla consulenza della difesa, “anche se costituisce il prodotto di un’indagine di parte”. È la dimostrazione che la battaglia del 1999 per la modifica dell’articolo 111 è una vittoria di Pirro. E che le incrostazioni retrograde della nostra giustizia impongono una nuova, storica sterzata. Nella sentenza della terza sezione penale della Suprema corte si legge che la consulenza dell’Ufficio di Procura è “assistita da una sostanziale priorità” rispetto alla consulenza della difesa, “anche se costituisce il prodotto di un’indagine di parte”. L’affermazione della Cassazione ha immediatamente spinto la mente dei giuristi a recuperare il testo della legge costituzionale 23 novembre 1999, numero 2, relativa all’inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione, e con questa i lavori preparatori in seno a quella che fu la Tredicesima Legislatura. A distanza di poco tempo dalla stesura della prima bozza di proposta relativa all’inserimento della figura dell’avvocato nella Carta costituzionale, l’arresto giurisprudenziale appena ricordato ingenera non poche perplessità e lascia basiti proprio gli avvocati, se non fosse che proprio il presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio fu uno dei primi magistrati a unirsi all’iniziativa del Cnf sull’inserimento in Costituzione della figura dell’avvocato, per mettere in evidenza l’esigenza di modificare la Carta Fondamentale. Come brillantemente illustrava il Presidente, la necessità di una riforma in tal senso è ricollegabile al principio dell’autonomia e dell’indipendenza della difesa, tassello irrinunciabile della professione forense. E allora, rileggendo i resoconti stenografici d’aula del Senato della Repubblica della seduta numero 549 del 18 febbraio 1999 di esame al nuovo articolo 111 della Costituzione, si coglie tutta la forza e tutta la volontà di rinvenire un equilibrio tra Accusa e Difesa, quali parti processuali aventi pari dignità. La parità tra accusa e difesa è un minimo necessario, dovuto anche se non esplicitamente riconosciuto, almeno implicitamente ricavabile: uguaglianza significa uguali davanti alla legge, uguali nella possibilità di difendersi attraverso un contraddittorio tra le parti che si svolga in condizioni di parità, in ossequio al sacrosanto principio della presunzione di innocenza e della trasparenza dei processi. Mutuando ancora il pensiero filosofico, ricordo che per Locke, il grande ispiratore della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del liberalismo, l’eguaglianza era l’eguale godimento della libertà: il problema però è un altro, “il vero dibattito sul giusto processo si svolge, in realtà, al di fuori di quest’aula”, così annotava il senatore Gasperini nel corso di quell’esame parlamentare, lasciando intendere che il terreno sul quale si gioca la parità dei ruoli è quello del processo, nelle aule di giustizia. Sottomettere un principio fondamentale, riconosciuto in tutti i Paesi civili del mondo, a finalità applicative contingenti non è coerente né con l’esigenza di chiudere velocemente alcuni capitoli processuali pendenti, né con la parità tra le parti, né tantomeno con la terzietà del giudice che —preferendo una parte piuttosto che un’altra — tanto terzo non pare. “Diritto alla difesa e parità con l’accusa non sono forse già sanciti come princìpi e ampiamente condivisi dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo? Dobbiamo tornare a far battaglia per una giustizia che sia degna di tale nome?”. Così chiudeva il suo intervento il già citato senatore Gasperini. Pare anacronistico dover tornare sul “giusto processo” a distanza di ormai 20 anni, quando il principio è ormai più che maggiorenne. Appare straordinario dover ripetere qui concetti che sono ormai nella coscienza di ogni tecnico del diritto, recepiti anche nell’ambito dell’esperienza di ogni giorno: le parti devono essere poste su un piano di parità tra loro; il giudice deve essere terzo; la prova si acquisisce in dibattimento, dove si valuta la sua attendibilità, sia che provenga dall’una sia che provenga dall’altra parte, e con questi mezzi si può raggiungere il fine del processo, che è l’accertamento della verità. E allora torniamo alle parole del presidente Canzio che appaiono ancora più condivisibili e trovano la loro ragione nel meccanismo di inserire in coda al secondo comma dell’articolo 111 la seguente affermazione: “Salvo i casi espressamente previsti dalla legge, nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati, i quali, al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, esercitano l’attività professionale in condizione di libertà e indipendenza”. Poche righe ma che portano il peso specifico del profilo dell’avvocato, figura divisa tra il dovere di osservare la Legge e quello di difendere – da qualsiasi accusa – l’assistito, e per questo sinonimo di libertà. E la parità si apprezza ancor più nel momento di formazione della prova, determinante in quanto funzionalmente idonea a contrastare, neutralizzandola, quella mentalità retrograda, ma ancora oggi assai dura a morire, secondo cui l’istruttoria dibattimentale rappresenti non già il momento e la sede di formazione della prova sui fatti di causa addotti a carico dell’imputato, bensì “una sorta di ultima spiaggia della difesa, in cui le viene garantita la possibilità di confutare la prova del fatto-reato già formatasi e perfezionatasi nel corso delle indagini”, come annotava anche il senatore Mungari, sempre nei corposi lavori preparatori. E come se non bastasse a svilire il ruolo dell’avvocato, come qui già detto, arriva la riforma penale che annichilisce ogni speranza di equilibrio giuridico che si coglieva nel lontano 1999, quando il Parlamento lavorava alla parità delle armi tra Accusa e Difesa. Serve maggior confronto, serve ascolto, dell’avvocato, soprattutto.

Magistrati corrotti? Per Gratteri la colpa è degli avvocati. Davide Varì su Il Dubbio l'1 ottobre 2020. Per il procuratore Gratteri l’ordine degli avvocati e le camere penali dovrebbero vigilare sui colleghi che corrompono i poveri magistrati. Di chi è la colpa della deriva morale della magistratura? Ma degli avvocati naturalmente. La singolare teoria arriva dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri il quale riconosce che sì: nella magistratura italiana «c’è anche un problema corruzione», ma la responsabilità è degli avvocati che non denunciano: «Noi magistrati guadagniamo bene, io sono contento dello stipendio che ho – riconosce Gratteri – quindi il resto si chiama ingordigia, e allora bisogna essere feroci nei confronti di questi magistrati che commettono reati ricevendo soldi e regalie. Ben vengano, dunque, queste indagini per scoprire un problema che c’è ed esiste, che molti avvocati sanno che esiste, quindi mi auguro che ci siano avvocati che denuncino queste corruzioni, che non sopportino che i loro colleghi più spregiudicati riescano a vincere una causa o ad avere un’assoluzione perché riescono a trovare il canale per pagare». Per Gratteri, «ci vorrebbe, dunque, maggiore attenzione anche da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati e delle Camere penali, non solo del Csm, Ufficio ispettivo perché gli avvocati sono i primi a sapere quello che accade nei tribunali, nelle cancellerie e dietro le quinte di un processo». Dopo la lezione sulla reale missione degli avvocati, il procuratore Gratteri è poi passato ai suoi cavalli di battaglia, al repertorio classico. A cominciare dalle presunte scarcerazioni dei boss in tempi di Covid:«La verità è che si è cavalcata la tigre, e sono usciti minimo 8mila detenuti. Fra questi anche gente detenuta al 41bis. E stato un pessimo segnale anche perché è avvenuto un mese dopo le rivolte nelle carceri». E il fatto che lo stesso ministro della giustizia abbia spiegato più e più volte – non ultimo ieri – che il numero degli scarcerati dell’alta sorveglianza non ha mai superato le «223 unità», il procuratore Gratteri, e con lui la solita schiera di indignati – continua a raccontare una storia diversa e non suffragata da fatti e prove. Senza contare che ognuna di quelle scarcerazioni è stata decisa da un magistrato di sorveglianza che, giustamente, ha seguito le nostre leggi e la nostra Costituzione. Ma questo, per qualcuno, evidentemente è un dettaglio.

La ramanzina di Di Matteo: «Avvocati, state dalla parte sbagliata». Errico Novi su Il Dubbio il 19 settembre 2020. A un convegno di penalisti il pm Di Matteo parla degli avvocati come se si trattasse dei repubblichini a Salò. “Dalla parte sbagliata si muore”. Solo che la canzone di Francesco De Gregori, “Il cuoco di Salò”, parla di fascisti, di repubblichini. Adesso che Nino Di Matteo ritenga la parte opposta alla sua sbagliata quanto le brigate nere dopo l’ 8 settembre, è francamente esagerato. Sorprende che Di Matteo espliciti, come ha fatto ieri a un convegno organizzato dalla Camera penale di Palermo, un’idea finora apparsa solo sottintesa, tra le righe di sue precedenti dichiarazioni. L’idea cioè che l’avvocatura sia, generalmente, un nemico, addirittura un «ariete» schierato appunto «dalla parte sbagliata», contro quelli da lui definiti «i magistrati liberi e intelligenti». Tra l’altro ne parla a proposito delle toghe, come quelle coinvolte nel caso Procure, intente a tramare con «parti importanti delle istituzioni» per «sbarrare la strada a chi veniva considerato cane sciolto», cioè «quei magistrati considerati non controllabili». A parte il fatto che non è chiaro né a quali trame ci si riferisca né cosa c’entri la classe forense. Ma il togato Di Matteo si è accorto o no che quando gip come il povero Vinicio Cantarini di Rimini sono stati quasi linciati per aver osato firmare ordinanze cautelari in dissenso dalla curva forcaiola, i soli a difenderli sono stati gli avvocati ( e il loro giornale, ossia il Dubbio)? E sempre il consigliere Di Matteo ha dato uno sguardo alle parole pronunciate nell’ultimo lustro, innanzitutto dal presidente Andrea Mascherin, a ogni inaugurazione dell’ano giudiziario del Cnf, riguardo la riforma dell’avvocato in Costituzione, proposta come scudo da assicurare ai magistrati contro i tentativi della politica di insidiarne l’indipendenza? Vogliamo per caso ricordare, consigliere Di Matteo, che a disegnare l’ordinamento della giustizia italiana per come lo conosciamo ( organo di governo autonomo a maggioranza togata, indipendenza assoluta del pubblico ministero) è stato un avvocato, Piero Calamandrei? Ma comunque sarebbe ingiusto replicare a Di Matteo senza ricordare che, come spesso gli capita, anche al convegno dei penalisti palermitani di ieri ne ha avute per tutti, non solo per gli avvocati. Il primo della lista in fondo resta Alfonso Bonafede. Di Matteo ha di nuovo silurato la riforma del Csm, che secondo lui ha «più ombre che luci». Non ha risparmiato i colleghi, soprattutto chi ha assunto la stessa carica da lui oggi ricoperta di consigliere superiore: «Ho già detto che il metodo dell’appartenenza, privilegiato nelle scelte sulla carriera di un magistrato, è un metodo, nelle logiche, dell’agire mafioso: lo dico e lo confermo». Poi però ci piacerebbe rilevare che sempre da lui, il pm antimafia, il titolare dell’indagine sulla trattativa, si è ascoltata ieri una delle più lucide analisi sulla crisi della magistratura: «Temo che stia cambiando il dna dei giovani magistrati: prima noi ci accapigliavamo per avere l’assegnazione del processo ritenuto più interessante o potenzialmente più rischioso, oggi la gerarchizzazione degli uffici ha favorito quella ricerca delle cosiddette medagliette, degli incarichi che servono a poter dire, quando si aspira a un direttivo, “ho già coordinato un gruppo” o “ho collaborato con il dirigente dell’ufficio”. Così si crea figura di un magistrato che piuttosto che fare giustizia vuole ottenere la gratitudine del proprio dirigente». Ecco, con magistrati liberi e intelligenti come Di Matteo si potrà essere in disaccordo su molte cose, ma mai schierarsi «contro» come in una guerra.

Scoppia la polemica. Il grillino Nicola Morra contro gli avvocati: “La giustizia non funziona per colpa vostra”. Angela Stella su Il Riformista il 23 Settembre 2020. L’avvocatura è chiaramente sotto attacco e da più fronti. Ormai è prassi che gli avvocati vengano aggrediti verbalmente e ricevano anche minacce di morte da quel “Tribunale del Popolo” che non accetta che difendano anche il peggiore dei criminali; ieri però è arrivato anche un duro attacco da un esponente di spicco del Movimento Cinque Stelle, Nicola Morra, Presidente della Commissione Antimafia, che in un post su Facebook ha scritto: «Nel 1996 in Italia avevamo 87mila quasi iscritti all’albo degli avvocati. Nel 2019 erano 245mila, quasi tre volte quelli di 23 anni prima. Con una popolazione italiana che è aumentata nel frattempo di poco più del 5%. Facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione della giustizia». Quindi, mentre il Ministro Bonafede qualche tempo fa diceva «guardo all’avvocato in Costituzione con particolare favore», Morra sembra ignorare i reali problemi che stanno attanagliando la giustizia e incolpa gli avvocati. Parole definite «inaccettabili, offensive e fuori luogo» dall’Aiga, l’Associazione italiana giovani avvocati che chiede anche «con forza una presa di posizione» da parte del responsabile di via Arenula. Ma qualche giorno fa è stato il consigliere del Csm Nino Di Matteo, in un convegno organizzato dalla Camera Penale di Palermo, a lanciare delle pesanti accuse nei confronti dell’avvocatura: evidenziando come negli ultimi 20-30 anni non vi sia stata una guerra tra magistratura e politica, ma «un’offensiva unilaterale, e organizzata molto bene, da un sistema malato e alimentato da una parte consistente e trasversale della politica e da una parte della stessa magistratura», ha aggiunto che bisogna prendere atto che anche l’avvocatura «con i suoi organismi rappresentativi si è schierata dalla parte sbagliata, da quella del potere di coloro che attaccavano i magistrati liberi, coraggiosi e indipendenti, attaccando chi partecipava ai dibattiti organizzati da un partito politico, o accusato di politicizzazione coloro che hanno osato alzare il livello e l’asticella delle indagini, anche nei confronti di esponenti di governo o dell’opposizione. Non ha avuto la forza e l’intelligenza per attaccare quei rapporti, quelli sì di vero collateralismo politico tra una parte dei magistrati e il potere politico». Dallo stesso convegno però è arrivata la risposta esemplare di Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane: «Noi contestiamo la premessa del suo ragionamento, consigliere Di Matteo. Noi ci occupiamo come professionisti nella nostra vita e come associazione politica del tema del rispetto delle regole processuali. Noi non abbiamo da schierarci per la corruzione o contro la corruzione, per la buona politica o contro la cattiva politica. Noi dobbiamo essere sicuri che il giudice chiamato a giudicare – non di un fenomeno di corruzione politica – ma delle responsabilità di Tizio o di Caio o di Sempronio, che hanno un nome e un cognome, ragioni su Tizio, su Caio e su Sempronio. Questo è preteso dal nostro sistema costituzionale prima e processuale dopo. Qual è la degenerazione che noi abbiamo visto negli ultimi, diciamo, 25 anni di amministrazione della giustizia in questo Paese in modo chiaro? È che ci si è sempre più allontanati da questa urgenza inderogabile: che il processo penale non divenisse un luogo dove si risolvono le questioni sociali e politiche, ma è il luogo dove si giudica la responsabilità individuale». Ieri Caiazza ha aggiunto un commento al nostro giornale: «Se il confronto con Nino Di Matteo è stato franco, leale e segnato dal rispetto reciproco, a Morra non è nemmeno possibile replicare, dato il livello desolante dei suoi poveri ragionamenti. Posso tutt’al più parafrasarlo. Dunque dirò: ascoltiamo Morra e facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione del Paese».

Morra versione Erdogan: “Troppi avvocati, ecco il problema della Giustizia”. Il Dubbio il 21 settembre 2020. “Il problema della giustizia italiana? La crescita esponenziale del numero di avvocati”. Parola di Nicola Morra. Quel Nicola Morra, il grillino presidente della Commissione Antimafia che ha trasformato la stessa commissione in una succursale di una procura.

Fatto. “Il problema della giustizia italiana? La crescita esponenziale del numero di avvocati”. Parola di Nicola Morra. Quel Nicola Morra, il grillino presidente della Commissione Antimafia che ha trasformato la stessa commissione in una succursale di una procura. Fatto sta che secondo Morra gli avvocati italiani sono tanti, anzi: troppi. Un’idea che deve aver mutuato dal presidente turco Erdogan il quale sta risolvendo l’eccessiva presenza di avvocato a modo suo.

Ma vale la pena leggere il testo integrale i Morra:

“Osservate questa tabella, per quanto non sufficientemente nitida. Nel 1996 in Italia avevamo 87mila quasi iscritti all’albo degli avvocati. Nel 2019 erano 245mila, quasi tre volte quelli di 23 anni prima. Con una popolazione italiana che è aumentata nel frattempo di poco più del 5%. Facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione della giustizia”.

La polemica. Dopo Davigo e Di Matteo, l’Antimafia attacca gli avvocati: “Sono troppi”. La replica: “Come Erdogan”. Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2020. “Nel 1996 in Italia avevano 87mila avvocati, nel 2019 245mila, quasi il triplo in 23 anni. Facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione della giustizia”. Hanno fatto infuriare il mondo forense le parole di Nicola Morra, senatore e presidente della Commissione Antimafia. Dichiarazioni che arrivano a mesi di distanza da quelle già pronunciate dai magistrati Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo. Parole definite “inaccettabili, offensive e fuori luogo” dall’Aiga, l’associazione italiana giovani avvocati. “In diversi Stati del mondo (non da ultima la Turchia)  – si legge in una nota – gli avvocati vengono perseguitati, condannanti, portati alla morte, perché rei di esercitare il loro mandato difensivo nell’interesse della Giustizia”. “Una violazione assoluta dei diritti di libertà, difesa e di tutti i valori umani più elementari. Aiga critica aspramente le parole di Morra, che ricopre un ruolo apicale nelle nostre Istituzioni ma che, forse, ne dimentica l’importanza sminuendo la figura dell’Avvocato ed il diritto di difesa che ne rappresenta la più alta estrinsecazione” prosegue la nota. “In un paese come l’Italia, che ha visto anche gli Avvocati cadere per mano mafiosa (è di poche ore la motivazione della Corte di Assise di Palermo che, con oltre 600 pagine ha spiegato come l’omicidio di Enzo Fragalà sia stato un omicidio contro l’Avvocato nell’esercizio della sua funzione) – dichiara il Presidente Nazionale Aiga Antonio De Angelis – è insostenibile che gli Avvocati si debbano difendere anche e soprattutto dallo Stato”. La nota si conclude con una appello a Bonafede, ministro della Giustizia, a cui Aiga “chiede con forza una presa di posizione” ed “auspica che, al di là di questa triste vicenda, permanga nelle istituzioni un rispetto imprescindibile e doveroso verso la nostra categoria”. Dura anche la posizione del Movimento Forense che, in una nota del presidente Massimiliano Cesali, ritiene “le affermazioni del Sen. Morra infondate oltre che gravissime, soprattutto perché provengono da chi si occupa di lotta alla criminalità e difesa dei diritti del cittadino, attuata proprio mediante gli Avvocati. Dopo Davigo e Di Matteo anche Morra ritiene che gli avvocati, come per Erdogan, siano un intralcio alla Giustizia. Auspichiamo che il Ministro di Giustizia Bonafede, il Consiglio Nazionale Forense e l’Organismo Congressuale Forense prendano una posizione circa tali affermazioni stigmatizzandole, in primis rammentando al Senatore Morra l’importanza della funzione dell’avvocato e, comunque, evidenziando che gli avvocati non hanno alcuna possibilità di incidere nel funzionamento del sistema giustizia completamente in mano agli amministrativi ed ai Magistrati. Da ultimo, MF chiede anche agli avvocati che siedono sugli scranni del Parlamento, di prendere le distanze dalle gravi affermazioni del Presidente della Commissione Antimafia”.

La soluzione turca di Morra: troppi avvocati, tagliamoli. Davide Varì su Il Dubbio il 23 settembre 2020. Morra ha le idee molto chiare ed è convinto che per eliminare i problemi della nostra malandata giustizia sia sufficiente dare una sforbiciata al numero di avvocati e, visto che ci siamo, agli inutili “lacci e lacciuoli” rappresentati dai diritti e dalle garanzie. “Il problema della giustizia italiana? Il numero eccessivo di avvocati». Non è un fuori onda del dottor Piercamillo Davigo – neanche lui ha mai osato tanto – né un messaggio a reti unificate del presidente turco Erdogan che considera gli avvocati al pari di criminali incalliti per il solo fatto di svolgere il proprio dovere e assicurare il diritto di difesa. No, stavolta Erdogan non c’entra nulla. La frase è del presidente della commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra. Il quale Morra ha le idee molto chiare ed è convinto che per eliminare i problemi della nostra malandata giustizia sia sufficiente dare una sforbiciata al numero di avvocati e, visto che ci siamo, agli inutili “lacci e lacciuoli” rappresentati dai diritti e dalle garanzie. I giovani avvocati dell’Aiga sono stati tra i primi a reagire e hanno ricordato al presidente Morra quanto segue. Primo: «In diversi Stati del mondo (non da ultima la Turchia) gli avvocati vengono perseguitati, condannati, portati alla morte, perché rei di esercitare il loro mandato difensivo nell’interesse della Giustizia». Secondo: «In un paese come l’Italia, che ha visto anche gli avvocati cadere per mano mafiosa, è insostenibile che si debbano difendere anche e soprattutto dallo Stato». Terzo: «Aiga – per voce del presidente Antonio De Angelis chiede con forza una presa di posizione del ministro Alfonso Bonafede nei suoi confronti». Degne di nota le parole del presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, pentastellato e avvocato di professione: «La giustizia italiana è un sistema malato da anni e anni, soprattutto di inefficienza», dice Perantoni, «per questo stiamo realizzando un’azione riformatrice che ne aumenta le risorse umane e finanziarie. Il presidente Morra, dunque, non coglie nel segno: puntare il dito contro l’Avvocatura, così come contro ogni altra categoria, è conseguenza di analisi semplicistiche». Il presidente della commissione Giustizia ricorda che «con la sua funzione insostituibile l’Avvocatura garantisce appieno l’amministrazione della giustizia. Ma si tratta di incomprensioni che non influenzeranno il nostro comune lavoro per le riforme», conclude Perantoni. Ma l’isolamento di Morra nel Movimento diventa plastico qualche ora dopo, quando arriva un comunicato a firma dei deputati del Movimento 5 Stelle in Commissione giustizia della Camera: «Gli avvocati sono una risorsa fondamentale per il Paese, oltre che una delle pietre angolari del sistema della giustizia». A dire il vero Morra non è nuovo a queste intemerate. E rimasta negli annali, e per fortuna solo lì, la sua idea di creare un “bollino blu” – proprio così disse: bollino blu – per avvocati e professionisti in modo da verificare e validare la loro tenuta morale ed etica: «Nel contrasto alla criminalità organizzata – spiegò entusiasta Morra – si partirà anche da quella parte dell’economia sana che rischia di essere inquinata: uno strumento potrebbe essere l’istituzione di un “bollino blu” per gli iscritti ai vari Ordini professionali. Penso a una sorta di controllo di filiera etica che possa rappresentare una certificazione di moralità». L’altra passione del presidente Morra sono le “black-list”: le famigerate liste di candidati impresentabili che egli presenta a ogni elezione. A dire il vero Morra all’inizio era molto, molto rigido e nella lista nera finivano persone anche soltanto indagate. Ma poi è accaduto che anche qualche collega grillino è finito nei guai con la giustizia e così il nostro ha preferito limitarsi ai soli condannati. In ogni caso Morra sembra aver trasformato la commissione antimafia in una sorta di succursale delle procure. Ma un consiglio vogliamo darglielo: il presidente dell’Antimafia potrebbe cercare tra gli archivi di palazzo san Macuto la relazione di minoranza con cui, nel 1976, Pio La Torre e Cesare Terranova spiegarono il motivo per cui rifiutarono di consegnare alla stampa i nomi dei politici “chiacchierati”: «Il nostro compito è quello di fornire al governo e al Parlamento uno spaccato della situazione, una serie precisa di indicazioni per realizzare le riforme economiche, sociali e politiche in senso non mafioso». E ancora: «Siamo contrari all’equivoco che si è ingenerato: che cioè la commissione parlamentare fosse una specie di “giustiziere del Re”, una sorta di comitato di salute pubblica destinato a far cadere testa su testa». Ah, quasi dimenticavamo : Pio La Torre e Cesare Terranova furono ammazzati dalla Mafia.

L’Aiga a Morra: “Parole gravissime, sminuisce il diritto di difesa, intervenga Bonafede”. Il Dubbio il 22 settembre 2020. “Le dichiarazioni rilasciate dal Presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, secondo cui“Il problema della Giustizia? E’ la crescita esponenziale del numero di avvocati.”, sono inaccettabili, offensive e fuori luogo, a maggior ragione in un momento delicato come quello che stiamo vivendo”. “Le dichiarazioni rilasciate poche ore fa dal Presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, secondo cui“Il problema della Giustizia? E’ la crescita esponenziale del numero di avvocati.”, sono inaccettabili, offensive e fuori luogo, a maggior ragione in un momento delicato come quello che stiamo vivendo”.  E’ la dura presa di posizione dei giovani avvocati dell’Aiga che replicano in questo modo alle parole del presidente dell’Antimafia, il grillino Nicola Morra. Morra si era lasciando andare a considerazioni decisamente ardite  sul numero di avvocati presenti in Italia: “Nel 1996 – ha infatti scritto Morra – in Italia avevamo 87mila quasi iscritti all’albo degli avvocati. Nel 2019 erano 245mila, quasi tre volte quelli di 23 anni prima. Con una popolazione italiana che è aumentata nel frattempo di poco più del 5%. Facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione della giustizia”. Ma gli avvocati dell’Aiga spiegano a Morra: “In diversi Stati del mondo (non da ultima la Turchia) gli avvocati vengono perseguitati, condannanti, portati alla morte, perché rei di esercitare il loro mandato difensivo nell’interesse della Giustizia.Una violazione assoluta dei diritti di libertà, difesa e di tutti i valori umani più elementari. Aiga critica aspramente le parole di Morra, che ricopre un ruolo apicale nelle nostre Istituzioni ma che, forse, ne dimentica l’importanza sminuendo la figura dell’Avvocato ed il diritto di difesa che ne rappresenta la più alta estrinsecazione. In un paese come l’Italia, che ha visto anche gli Avvocati cadere per mano mafiosa (è di poche ore la motivazione della Corte di Assise di Palermo che, con oltre 600 pagine ha spiegato come l’omicidio di Enzo Fragalà sia stato un omicidio contro l’Avvocato nell’esercizio della sua funzione) – dichiara il Presidente Nazionale Aiga Antonio De Angelis – è insostenibile che gli Avvocati si debbano difendere anche e soprattutto dallo Stato.In considerazione della gravità delle dichiarazioni di Morra, altamente lesive della reputazione dell’intera classe forense, Aiga chiede con forza una presa di posizione del Ministro Alfonso Bonafede nei suoi confronti ed auspica che, al di là di questa triste vicenda, permanga nelle istituzioni un rispetto imprescindibile e doveroso verso la nostra categoria”.

Morra vuole gli avvocati col “bollino etico”. Zanettin: no a schedature. La proposta shock del nuovo presidente della Commissione antimafia. Errico Novi su Il Dubbio il 30 novembre 2018. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha sicuramente un’interlocuzione intensa con gli avvocati. Scossa da qualche caso diplomatico – su tutti la frase scappata via in una dichiarazione che qualificava i difensori dei «ricchi» come «azzeccagarbugli» – ma comunque corretta, come ha riconosciuto anche il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza alla manifestazione di venerdì scorso. Come si possa conciliare un simile costruttivo atteggiamento con l’idea di «un bollino blu» per certificare la moralità dei professionisti è però quesito a cui è difficile rispondere. Tanto più che ad avanzare la proposta non è un parlamentare qualsiasi ma il presidente dell’Antimafia Nicola Morra; e che il massimo vertice di Palazzo San Macuto proviene dalla stessa forza politica di Bonafede, il Movimento cinquestelle. Morra ha accennato a quell’ipotesi in una conversazione con l’Ansa di alcuni giorni fa. Vi ha squadernato le priorità della nuova commissione parlamentare Antimafia. Ci sono propositi interessanti e ambiziosi come l’eliminazione del segreto di Stato, altri controversi come la commissione d’inchiesta sulla “Trattativa Stato- Mafia” e altri ancora enunciati in continuità con la presidenza Bindi, come il «comitato sulla massoneria». Posizioni che si possono discutere e non condividere, ma politicamente più che legittime. C’è però poi quell’altro, singolare passaggio della conversazione di Morra con l’Ansa: «Nel contrasto alla criminalità organizzata si partirà anche da quella parte dell’economia sana che rischia di essere inquinata: uno strumento potrebbe essere l’istituzione di un "bollino blu" per gli iscritti ai vari Ordini professionali. Penso a una sorta di controllo di filiera etica che possa rappresentare una certificazione di moralità». Andiamo con ordine, è il caso di dire. Prima di tutto il concetto di “filiera”. Dà l’idea di un giudizio che deve essere espresso da una catena informale, magari animata anche da sospetti, validata da fonti non istituzionali, non autorevoli ( in senso formale), potenzialmente inclina anche alla mera delazione. Possibile? L’impressione che Morra non alluda all’ordinaria cornice dei procedimenti disciplinari è suggerita soprattutto da quella certificazione di «moralità». Concetto che, per un professionista, a cominciare dagli avvocati, o produce fatti di rilievo disciplinare o anche penale, oppure è irrilevante. Gli illeciti tipizzati sono già sottoposti all’accertamento e all’eventuale sanzione interna da parte – per esempio e sempre per restare agli avvocati – dei Consigli di disciplina degli Ordini forensi e successivamente del Consiglio nazionale forense. Non a caso ieri un avvocato che siede in Parlamento, l’azzurro Pierantonio Zanettin, ha avanzato anche l’ ipotesi che Morra, semplicemente, non si riferisse alla professione legale. «Immagino che non pensi ad un "bollino blu" per gli avvocati», ha dichiarato. Ma poi ha aggiunto: «Ricordo al presidente Morra che gli avvocati hanno già un preciso codice deontologico e che sono soggetti dall’ordinamento professionale a un rigoroso controllo disciplinare». Appunto: i Consigli di disciplina degli Ordini e il Cnf, che è anche organo giurisdizionale. Il parlamentare di Forza Italia, che è stato anche laico al Csm nell’ultima consiliatura, aggiunge di essere pronto ad opporsi «con ogni energia a qualsiasi ipotesi di controllo politico sul libero esercizio della professione forense». Contattato da Dubbio, il presidente Morra spiega di «non voler alimentare polemiche» e che, per questo, preferisce non replicare. Il tema però adesso è sul tavolo. E andrà affrontato. Anche perché, come detto, finora l’interlocuzione tra governo, Parlamento e professione forense è stato tanto aspro nel dissenso sul merito di alcune proposte – stop alla prescrizione, legittima difesa – quanto reciprocamente rispettoso. Basti pensare che alcuni giorni fa il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone ha i riunito i rappresentanti di tutte le professioni vigilate da via Arenula per discutere di un rafforzamento delle norme sull’equo compenso, senza escludere l’ipotesi di estenderne i princìpi ai rapporti con tutti i clienti privati. Un incontro al quale è intervenuto anche il Cnf, rappresentato dalla consigliera segretaria Rosa Capria, e al termine del quale Morrone ha assicurato di valor valorizzare «l’attività dei professionisti, che hanno un ruolo di primo piano nella società», in modo da «risolvere, nel più breve tempo possibile, i principali problemi, comuni a tutti gli Ordini, per troppo tempo sottostimati». E soprattutto, andrebbe considerata la disponibilità mostrata dal ministro vigilante, il guardasigilli Bonafede, su una proposta, di segno opposto a quella di una certificazione extraordinistica, avanzata proprio dagli avvocati. Al Congresso forense dello scorso ottobre, Bonafede ha detto di voler studiare il modo per introdurre «l’avvocato in Costituzione», ossia il riconoscimento della libertà e indipendenza della professione messo a punto dal Cnf. In quella proposta di legge costituzionale si richiama anche «la funzione giurisdizionale sugli illeciti disciplinari dell’avvocato» da parte dell’ «organo esponenziale della categoria forense, eletto nelle forme e nei modi previsti dalla legge». Quindi, Bonafede ha espresso – e lo ha fatto ripetutamente – la propria condivisone complessiva su una ipotesi di modifica costituzionale che implicherebbe proprio il riconoscimento della funzione giurisdizionale esercitata dal massimo organo dell’avvocatura. Eppure su tale funzione e sull’efficacia con cui viene svolta, il presidente della commissione Antimafia ha evidentemente delle riserve. Il fatto che Bonafede e Morra siano entrambi autorevoli esponenti del Movimento cinquestelle lascia credere che sul punto non sarà difficile arrivare a un chiarimento con l’avvocatura. Anche in modo da rafforzare, proprio attraverso il riconoscimento costituzionale, una funzione di controllo su illeciti che in una percentuale infinitesima di casi possono essere ascritti all’ambito della criminalità mafiosa.

Aiello smentisce Morra: «Nessun bollino etico per gli avvocati…». 5Stelle contro 5Stelle in commissione antimafia. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 2 dicembre 2018. Le “linee guida” del neo presidente della Commissione antimafia Nicola Morra hanno suscitato, come era facilmente prevedibile, una ridda di polemiche. In particolare, l’idea di istituire il ‘ bollino blu’ per gli iscritti ai vari Ordini professionali, specie per gli avvocati. Scopo del "bollino blu", secondo Morra, sarebbe quello di agevolare il riconoscimento dei professionisti che durante la propria attività non hanno subito contaminazioni da parte della criminalità organizzata, garantendo così “un controllo di filiera etica che possa rappresentare una certificazione di moralità”. L’idea del marchio di qualità per le professioni ( ma anche l’istituzione di una Commissione ad hoc sulla Trattativa Stato- mafia o sulla massoneria, ndr) era stata lanciata l’altro giorno da Morra durante una conversazione con l’Ansa. Nulla di ufficiale, quindi. Tesi, quella della non ufficialità, che è stata confermata dall’onorevole pentastellato Davide Aiello, componente della Commissione antimafia. Aiello, in un colloquio ieri con il Dubbio, ha affermato «che il tema del ‘ bollino blu’ non è stato oggetto di discussione in Commissione». «La Commissione antimafia, ad oggi, si è riunita una sola volta e non si è mai fatto cenno a questo bollino», ha precisato Aiello, smorzando quindi sul nascere le polemiche. Archiviato il “bollino blu” si è però subito aperto un nuovo fronte. «Siamo tutti sospettati e attenzionati, a partire dal sottoscritto», ha affermato Morra ad un giornalista del Foglio che gli chiedeva ieri delucidazioni su una sua dichiarazione a proposito di Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella e componente della Commissione antimafia, che a causa delle sue vicissitudini giudiziarie ( da cui è stata assolta, ndr) avrebbe dato adito a sospetti preventivi. Ad intervenire è stato nuovamente l’onorevole forzista Pierantonio Zanettin, avvocato, che per primo si era espresso a proposito del “bollino”. «Non voglio fare polemiche dirette con il presidente Morra – ha dichiarato il parlamentare azzurro – ma in tutta coscienza non vedo motivo per essere “attenzionato”, né “sospettato”, per il solo fatto di essere componente della Commissione antimafia». «Faccio politica con la massima trasparenza. Dal 1986 al 1993, anni difficili, come tutti possono immaginare, sono stato consigliere di Amministrazione delle più importanti aziende municipalizzate della mia città, Vicenza, senza essere mai sfiorato da una inchiesta penale», ha aggiunto Zanettin. «Sono stato componente del Csm, gestendo, in qualità di relatore, credo con competenza e professionalità questioni assai delicate. Non vedo di cosa potrei ora essere ‘ sospettato’. Mi pare che questa Commissione antimafia sia partita davvero male» .

I Pm, sempre chiacchieroni, sulla giustizia ingiusta stanno zitti…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Settembre 2020. Nel Paese in cui i magistrati, come si dice, parlano solo con le sentenze, il problema non c’è. Nel Paese in cui parlano dappertutto e su tutto, come succede qui da noi, il problema c’è ed è grande come una casa. Qual è? È questo: che nella serrata militanza pubblica della magistratura non c’è mai posto non si dice per una denuncia, ma neppure per una perplessità sui tanti casi di evidentissima ingiustizia di origine giudiziaria. In un ordinamento rispettoso i magistrati farebbero il gran piacere di stare zitti e non interverrebbero su qualunque argomento spiegando ai politici come devono legiferare (cioè scrivendo le leggi che piacciono alle procure), ai giornalisti cosa scrivere (cioè che i magistrati sono bravi e i politici mascalzoni) e ai cittadini come vivere per essere considerati perbene (cioè facendo gli spioni e tenendo in tasca il santino della star togata). Ma siccome quell’ordinamento rispettoso non è il nostro, e appunto qui da noi i magistrati rivendicano ed esercitano a piene mani il diritto di illustrarci quanto è ingiusta la società che essi eroicamente si impegnano a migliorare, allora è legittimo domandarsi perché non trovino il tempo per un accenno ai malati e ai morti di carcere, per una parola sui bambini che crescono dietro le sbarre, per un dubbio davanti alla giustizia che sbatte in galera una donna perché non rinuncia a pensar male del Tav e a frequentare gente che la pensa allo stesso modo (non è uno scherzo, ne ha scritto ieri Piero Sansonetti, e le motivazioni che portano e tengono in prigione Dana Lauriola, manifestante anti-Tav, sono esattamente quelle: non può andare ai domiciliari perché continua a comportarsi “dando prova della sua incrollabile fede negli ideali politici” che l’hanno indotta a delinquere e perché risiede in un posto dove potrebbe incontrare altri “soggetti coinvolti in tale ideologia”). Evidentemente non c’è un magistrato al quale tutta questa bella roba dispiaccia almeno un pochetto, visto che non c’è caso che nei loro editoriali (rarissimi, d’accordo), nelle loro interviste (pochissime, per carità) o nelle loro esibizioni televisive (anche più rare, lo sappiamo), questi signori ritengano di far sapere che tra le tante cose che non vanno un granché bene in questo caro Paese può esserci forse, magari, per ipotesi, almeno qualche volta, la giustizia che tratta ingiustamente le persone. Ma figurarsi. Eppure ce lo ricordiamo il manipolo di giustizieri che convoca le televisioni per far mostra della propria coscienza in ribellione (usarono esattamente quella parola: “coscienza”) davanti al decreto che limitava la pratica della galera preventiva, cioè lo strumento per estorcere confessioni. Ma quando si tratta dell’ingiustizia commessa in nome della giustizia quella loro coscienza è impassibile.

·         «I magistrati onorari? Dipendenti».

Storica sentenza della Corte di Giustizia Europea: le toghe onorarie vanno equiparate ai magistrati. Redazione su Il Riformista il 17 Luglio 2020. «La Corte di Giustizia dell’Unione europea con la storica sentenza del 16 luglio 2020 ha equiparato lo stato giuridico ed economico dei giudici di pace e dell’intera magistratura onoraria a quello della magistratura professionale, accogliendo integralmente i quesiti pregiudiziali del giudice di pace di Bologna, giudice del rinvio pregiudiziale con l’ordinanza dell’ottobre 2018». Lo si legge in una nota diffusa dall’Unione nazionale dei giudici di pace (Unagipa), nella quale si sottolinea che «la Corte di Lussemburgo conferma le eccellenti impressioni emerse all’esito della discussione della causa davanti al collegio a cinque della seconda sezione all’udienza del 28 novembre 2020, in cui la giudice di pace ricorrente Cristina Piazza è stata difesa dagli avvocati Gabriella Guida, Francesco Paolo Sisto, Francesco Visco e Vincenzo De Michele e la fondatezza delle questioni poste dal giudice di pace di Bologna sono state sostenute dalla stessa Commissione europea, che ora aprirà la procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, per obbligare il legislatore nazionale ad adeguarsi immediatamente alla decisione europea».

Giudice di pace “sfruttati”? La Corte Ue decide. Simona Musco su Il Dubbio il 15 luglio 2020. Secondo l’Italia e i suoi organi giurisdizionali di grado superiore, i giudici di pace ricoprono solo una carica onoraria, per la quale ricevono un rimborso spese parametrato all’attività svolta, con un tetto massimo annuo di 72.000 euro. La Corte di Giustizia dell’Unione europea con sede a Lussemburgo depositerà un’attesa sentenza in tema di magistratura onoraria. In particolare si stabilirà se i giudici di pace italiani vanno considerati al pari di “lavoratori subordinati”. Secondo l’Italia e i suoi organi giurisdizionali di grado superiore, i giudici di pace ricoprono solo una carica onoraria, per la quale ricevono un rimborso spese parametrato all’attività svolta, con un tetto massimo annuo di 72.000 euro. Ma per entrare più nel dettaglio della vicenda, ci facciamo aiutare dall’avvocato e giuslavorista Sergio Galleano che fa parte di un collegio difensivo dei giudici onorari insieme ai colleghi Bruno Caruso, Giorgio Fontana, Stefano Giubboni, Vincenzo De Michele e Gabriella Guida. «Il procedimento incardinato presso la Corte di Giustizia – ci spiega Galleano – nasce quando un giudice di pace di Bologna solleva una questione pregiudiziale a seguito di un ricorso di una nostra assistita, un’altra giudice di pace che, avendo trattato in un anno 1.800 procedimenti e svolto due udienze alla settimana, ha ritenuto di essere una lavoratrice e di chiedere quindi le ferie retribuite al ministero di Giustizia». La domanda alla quale i giudici europei dovranno rispondere è la seguente: «I giudici di pace italiani sono lavoratori e hanno pertanto diritto alle ferie retribuite?». Gli avvocati non hanno chiesto l’equiparazione tra magistrati onorari e togati, perché questi ultimi hanno un diverso percorso di carriera, ma una parificazione a livello di trattamento: ossia anche i giudici di pace dovrebbero essere inquadrati all’interno di un rapporto di lavoro subordinato e di conseguenza avere diritto ad una retribuzione adeguata, alla malattia e alle ferie. «Si tratta di una decisione molto importante e attesa – dice al Dubbio il direttivo di Asso. Got – in quanto se la Corte accoglierà le conclusioni già espresse dell’avvocato generale ( cosa che avviene nel 95% dei casi) lo Stato italiano dovrà adeguarsi riconoscendo molti dei diritti che finora ha negato ai giudici di pace e ai magistrati onorari di tribunale, Got e Vpo».

Cosa accadrebbe se la Corte desse ragione alla ricorrente?

«Tutti i magistrati onorari in servizio, circa 5.000 – ci spiega sempre Galleano – potrebbero fare ricorso e chiedere l’adeguamento retributivo per tutti gli anni passati.

Ovviamente non c’è un automatismo per cui, qualora la sentenza fosse a noi favorevole, immediatamente tutti i magistrati onorari riceverebbero un contratto di subordinazione. Spetterebbe al governo recepire nella maniera più fedele possibile la decisione della Corte».

Secondo un calcolo molto approssimativo, una decisione favorevole alla magistratura onoraria comporterebbe un maggior costo per lo Stato nell’ordine delle centinaia di milioni di euro, forse non lontano dal miliardo. Già nel 2015 la Commissione europea ha aperto una procedura di pre- infrazione contro l’Italia. L’accusa era di aver violato la direttiva Ue 99/ 70, giacché si continuava a rinnovare i contratti a termine di Got e Vpo senza prevedere maggiori tutele e remunerazioni. Roma era riuscita a fermare la procedura, promettendo di intervenire per risolvere la questione, ma sia la riforma Orlando che quella solo annunciata di Bonafede non sono state ancora dirimenti.

Penalisti in protesta, got avvocati non sono ospiti. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Luglio 2020. Gli uffici giudiziari come «piccoli granducati in cui ognuno fissa i criteri del proprio funzionamento», la giurisdizione come «un pianeta con proprie autonome regole delle quali non si risponde a nessuno e fra le quali vi è la convinzione di avere diritto a una posizione privilegiata rispetto a un problema che riguarda l’intera collettività sociale, avvocati compresi» e una costante: «Considerare gli avvocati come degli ospiti fastidiosi e petulanti, come se andassero a casa di un dirigente o di un presidente di tribunale a ora di pranzo». Il presidente dell’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi) Gian Domenico Caiazza interviene al dibattito sulla paralisi della giustizia che si è svolto all’hotel Britannique su iniziativa dei presidenti delle Camere penali del distretto della Corte di Appello di Napoli. “Non siamo ospiti” non è soltanto l’hashtag dell’evento, ma è anche la sintesi del sentimento provato dall’avvocatura nei vari Palazzi di giustizia. Gli avvocati rivendicano il loro ruolo all’interno dei tribunali, protestando contro decisioni di capi degli uffici e dirigenti amministrativi che impediscono o limitano l’accesso nelle aule e nelle cancellerie. «Non dobbiamo chiedere il permesso di entrare e non lo possiamo ricevere dalla dirigente della cancelleria», precisa Caiazza. «I presidenti dei tribunali sono terrorizzati, nella loro veste di datori di lavoro, dalle possibili iniziative di un dipendente che dovesse infettarsi. Ma questo problema va affrontato con i sindacati del pubblico contratto – aggiunge Caiazza – Io vorrei capire come mai un cancelliere o un segretario non si infetta se va dal parrucchiere, in palestra o ad un aperitivo con gli amici ma rischia di infettarsi se un avvocato chiede di poter ritirare una copia del fascicolo». «I dipendenti del comparto giustizia – aggiunge – devono capire che l’avvocatura è al loro fianco nella richiesta di dotare i tribunale di tutti gli strumenti possibili per la tutela della salute collettiva, ma non possiamo accettare risposte di chi dice che non dobbiamo disturbare e definisce le nostre assurde pretese». File, porte chiuse, rinvii comunicati talvolta il giorno prima della celebrazione dell’udienza, e avessi nei tribunali solo su prenotazione: gli avvocati denunciano «una paralisi della giustizia» e «il fallimento dello smart working» per il personale amministrativo. «A settembre – sperano – vogliamo una ripresa senza equivoci, ambiguità e sacche di privilegio».

 «I magistrati onorari? Dipendenti». La sentenza che apre il caso giustizia. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Una sentenza del tribunale dà torto al ministero della Giustizia che nega lo status di lavoratori subordinati ai magistrati onorari. In Tribunale a Sassari una sentenza del giudice del lavoro dà torto al ministero della Giustizia che nega lo status di lavoratori subordinati ai magistrati onorari, e a Milano un sindacato del personale di cancellerie ricorre invece al giudice del lavoro contro l’applicazione di volontari con cui la Corte d’Appello cerca disperatamente di tamponare vuoti d’organico per mantenere i propri standard europei: la giustizia del lavoro come surreale frontiera di maxiquestioni ormai incancrenite. Il primo fronte riguarda quei «precari» del diritto (per lo più avvocati) che da tantissimi anni fanno i magistrati onorari (5.500, di cui quasi 1.800 vpo-viceprocuratori), cioè per funzioni ma non per carriera, reclutati per titoli anziché per concorso, in teoria a tempo ma di fatto continuamente prorogati, pagati a cottimo (98 euro lordi per 5 ore di udienza, compreso tutto il lavoro di studio delle decine di processi di una udienza), e soprattutto senza malattia-pensione-ferie, ma ormai divenuti insostituibili. Rappresentano, infatti, la pubblica accusa in udienza nella quasi totalità dei procedimenti per reati di competenza del giudice monocratico e dei giudici di pace. Stanchi di essere trattati come co.co.co. del diritto, e storditi dal susseguirsi di progetti di riforma, ieri per i vpo arriva dalla giudice del lavoro sassarese Maria Angioni una sentenza che «accerta e dichiara la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto» tra il ministero della Giustizia e un vpo (patrocinato dagli avvocati Claudio e Ilaria Tani, e Maurizio Serra). E lo fa «dalla data di immissione nelle funzioni di vpo» e «con ogni effetto conseguente per legge»: che, nel potenziale impatto generale per il ministero (in risarcimenti per il passato e adempimenti per il futuro) sarà stimabile dopo le motivazioni. A un giudice del lavoro, ma a Milano, ricorre anche un sindacato del personale amministrativo contro il ministero per una condotta della presidenza della Corte d’Appello: la quale, pur continuando a fare i processi in metà della durata media italiana e in linea con quella europea, fatica però a farlo con una media del 29,6% in meno di cancellieri nel distretto (40% a Busto o Monza), e con aggravi di competenze (tipo la gestione edilizia): «Su 15 promessi ingegneri, architetti e geometri, ne è arrivato uno», dice la presidente Marina Tavassi, mentre ad esempio Napoli può contare su una apposita Direzione Generale con 30 persone. Inoltre il rapporto tra cancellieri e magistrato è «di circa 2 a 1 a Milano, 5 a 1 a Roma, 4 a 1 a Napoli». Prima il ministro Orlando e poi ora Bonafede (che sabato sarà a Milano per l’anno giudiziario) dopo 20 anni hanno meritoriamente ripreso ad assumere migliaia di cancellieri, che però pareggiano appena quelli che vanno in pensione, e sono contesi dai vari uffici giudiziari in una lotta tra poveri attorno a una coperta corta per tutti. Tavassi ha allora cercato di tenere a galla il settore penale applicando su base volontaria (come le norme consentono 6 mesi più 6 mesi per straordinarie necessità) personale dell’Unep, cioè dell’ufficio di 80 persone che notificava atti oggi invece telematici. Così 16 lavoratori, divenuti fondamentali per la funzionalità delle cancellerie, hanno confermato la propria disponibilità, ma il sindacato Uilpa ha depositato un ricorso al giudice del lavoro per il danno formale al contratto nazionale che firmò anni fa e che verrebbe violato da quelle applicazioni. Senza le quali i presidenti delle varie sezioni penali hanno scritto al coordinatore Giuseppe Ondei che le cancellerie rischierebbero di collassare, con la prospettiva di dover fare solo i processi con detenuti. Non è certo quello che vogliamo, hanno subito compreso i sindacalisti nella prima udienza, e il giudice del lavoro ha allora rinviato a marzo per consentire una intesa in extremis che scongiuri il «collasso» da nessuno voluto.

·         Il Codice Vassalli.

Trent’anni dal varo del codice Vassalli, ecco i nuovi confini della giustizia. La riflessione del procuratore generale emerito. «Si impone un approccio realistico sulla prescrizione: è solo un sintomo. Il problema è il decadimento impietoso del livello di qualità del sistema». Riccardo Fuzio il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Pubblichiamo – ringraziandolo per l’attenzione – il testo inviatoci dal Procuratore generale emerito della Corte di Cassazione per il trentesimo anniversario dell’entrata in vigore del Codice Vassalli. 1. Il 22 ottobre 2019 cade il trentesimo anno di vigenza del codice di procedura penale promulgato con la firma del ministro di ( grazia e) giustizia Vassalli. Un codice che, approvato il 22 settembre 1988 e pubblicato un mese dopo, è stato sottoposto, in attesa della sua entrata in vigore, ad una attenta preventiva opera di preparazione dell’organizzazione giudiziaria e di formazione degli operatori del diritto di cui va dato merito alla classe forense ed alla magistratura e per essa al Consiglio superiore della magistratura per l’ampia e diffusa attività svolta per adeguare anche il nuovo ruolo che i protagonisti del processo andavano ad assumere passando da un sistema inquisitorio ad uno accusatorio. La sua effettiva entrata in vigore, il 22 ottobre del 1989, determinò un forte impegno di tutti per studiare ed applicare le nuove regole del processo delineate secondo i rispettivi ruoli. Il pubblico ministero nella funzione di titolare delle indagini sulle notizie di reato ( anche nell’interesse dell’indagato) le cui conclusioni vanno sottoposte al giudice terzo, interlocutore e “custode” della legalità del corso delle indagini, al quale è attribuita la decisione sulla richiesta di archiviazione ovvero di rinvio a giudizio da esaminarsi in una udienza in camera di consiglio, che ha funzione di snodo e filtro, per l’eventuale prosecuzione del procedimento in un processo pubblico. La previsione di una disciplina dei mezzi di ricerca della prova funzionali, insieme alle indagini difensive dell’avvocato ( invero introdotte 10 anni dopo con la l. n. 397 del 2000), a rendere possibile ad entrambe le parti di essere nelle condizioni di “ formare” la prova nel successivo dibattimento pubblico dinanzi al giudice terzo ed imparziale. L’introduzione di riti alternativi al dibattimento. Un modello processuale che, come sappiamo, è stato poi più volte ritoccato ( secondo alcune stime un centinaio di interventi), già agli inizi degli anni ’ 90 dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e dalle modifiche normative intervenute per la necessità di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa ( così interrompendo la fase di metabolizzazione del nuovo sistema processuale) e che in contemporanea con l’esecuzione delle stragi ( ancora oggi non del tutto chiarite nei suoi completi risvolti) condusse all’istituzione della DNA e delle DDA. E’ seguito, tra il 1999 ed il 2001, un percorso legislativo che ha rimodellato l’organizzazione giudiziaria e il processo penale con la disciplina del giudice unico di prima istanza ( d. lgs. n. 51 del 1998 ), le incisive modifiche processuali della l. n. 479 del 1999, l’attribuzione della competenza penale al giudice di pace ( d. lgs n. 274 del 2000), la già indicata disciplina delle investigazioni difensive ( l. n. 397 del 2000) e, infine, con il recepimento, a livello costituzionale, dei principi del giusto processo e del diritto ad un giudizio in tempo «ragionevole» ( l. c. n. 2 del 1999). Nell’ultimo ventennio il processo penale italiano si è “confrontato” con l’impatto che la normativa sovranazionale e la giurisprudenza delle corti della UE e di Strasburgo hanno determinato sulla nostra giurisprudenza e legislazione penale e che, di volta in volta, ha imposto ulteriori modifiche normative ed il recepimento di accordi, direttive, regolamenti e decisioni quadro. Si pensi alla contumacia ( l. 28 aprile 2014, n. 67), all’applicazione diretta del diritto della UE e all’interpretazione conforme al diritto convenzionale che hanno inciso su molte materie. 2. Negli ultimi anni l’attenzione si è rivolta all’esigenza di adeguare il processo penale ai tempi di durata ragionevole e si sono registrati interventi su diversi temi: a) rivalutazione ed incremento delle categorie di reato per i quali, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, si deve assicurare “priorità assoluta” ( art. 132 bis c. p. p.); b) numero elevato di estinzione dei reati per prescrizione cui si è cercato di porre rimedio mediante l’elevazione della pena per allungare i tempi della prescrizione; c) termini di durata delle indagini preliminari con la nuova previsione della avocazione “collaborativa” del Procuratore generale in caso di inerzia del pubblico ministero; d) obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità di tipo organizzatorio all’interno degli uffici del Pubblico ministero; e) la circolare del CSM sul Pubblico ministero; f) i criteri di orientamento adottati dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione in tema di avocazione collaborativa. 3. Non è la sede per approfondire il discorso ma l’assetto organizzativo del pubblico ministero in Italia non può prescindere dai principi generali previsti in Costituzione che nel 1948, con lo sguardo anche al passato, delineava una forte garanzia di autonomia ed indipendenza per la magistratura vista come un unico “ordine” cui è attribuita la giurisdizione ed un solo Consiglio superiore della magistratura. Le giuste preoccupazioni dell’epoca costituente sono state ribadite con l’espresso richiamo alla figura del Pubblico ministero all’art. 107, norma che impone una differenza tra i magistrati solo per “funzioni” e prevede che quella requirente deve ottenere espresse “garanzie” dalle norme di ordinamento giudiziario. Cioè da norme di legge che presuppongono e richiedono il mantenimento della autonomia ed indipendenza dei magistrati del Pubblico ministero. Questo assetto costituzionale si fonda sull’architrave del bilanciamento dei poteri che innerva la nostra legge fondamentale. Qualunque proposta di modifica non può essere avversata a priori ma deve essere calata nel contesto della complessiva architettura della nostra Repubblica. Ciò richiede capacità politica e progettuale che, sinora, si è sempre dimostrata carente nelle varie occasioni di riforma costituzionale. E’ fondamentale credere nella “forza del nostro Stato- istituzione” e non unicamente nelle rispettive posizioni contrapposte e, per tornare al tema del processo penale, penso sia utile investire nella reciproca legittimazione del ruolo dei protagonisti del processo: il pubblico ministero, l’avvocato difensore dell’indagato/ imputato ed il giudice. La storia della magistratura italiana, pubblici ministeri e giudici, ci racconta – prima e dopo l’attuale codice Vassalli – di “risultati” giudiziari eccellenti e sono convinto che l’esito delle indagini e delle sentenze non può essere ascritto solo a merito dei magistrati; ogni processo si svolge con l’avvocato e conosciamo il tributo che l’avvocatura ha fornito anche in termini di vita. Nel pensare a mutare l’assetto del processo penale, e della giustizia in generale, non possiamo pensare solo ai grandi processi ma l’attenzione deve andare alla “ordinaria e quotidiana attività di amministrazione della giustizia”. In essa è importante e fondamentale il contraddittorio tra le parti e il ruolo che la nostra Costituzione assegna alla difesa tecnica ( art. 24) e alle regole del giusto processo che richiedono sempre “condizioni di parità”. Se così è, e ne sono pienamente convinto, allora è indispensabile investire sulla cultura di ciascuno degli operatori di giustizia, sul valore della tempestività delle indagini e delle sue conclusioni, sul rispetto delle prerogative dell’indagato/ imputato e, quindi, del suo difensore e del suo ruolo nel processo ( per legge professionale “l’avvocato svolge una funzione sociale volta a garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti per i fini della giustizia e secondo i princìpi del nostro ordinamento”), sul contributo che tutte le parti devono offrire alla imparzialità del giudice e al rispetto delle sue decisioni autonome ed indipendenti, sui doveri professionali di aggiornamento e lealtà processuale, sull’osservanza dei codici disciplinari e di quelli deontologici. Nella legislatura precedente, non a caso, si era insistito per soluzioni soft in grado di attuare forme di vigilanza e controllo di tipo organizzativo sui termini di durata delle indagini e sull’ampliamento dell’avocazione. Era parso evidente che, al di là dell’inserimento di forme di chiusura a monte dell’accesso al processo ( vedi la irrilevanza o tenuità del fatto) l’esercizio di una azione penale tempestiva e l’adeguata preparazione di tutte le notizie di reato con le conseguenti determinazioni non deriva da considerazioni di opportunità ma da un limite oggettivo alla capacità di smaltimento del carico giudiziario. E’ un dato oggettivo e su questo va compiuta una riflessione. Il moltiplicarsi delle fattispecie penali e l’evoluzione legislativa che amplia gli ambiti di della tutela della persona umana come conseguenza della maggiore complessità della società, già solo sotto il profilo quantitativo, rappresenta – come acutamente messo in rilievo in dottrina un’evidente smentita della teoria delle cosiddette “costanti criminologiche”. Il carico di lavoro eccessivo impone una forte accelerazione sull’uso delle tecnologie e sui riti alternativi, due fronti sui quali è necessaria e fondamentale la figura dell’avvocato ( Corte cost. 29 maggio 2019 n. 131 secondo cui la richiesta di riti alternativi “costituisce una modalità tra le più qualificanti di esercizio del diritto di difesa”). Ma un vero contributo per alleviare gli uffici di Procura può venire solo da un mutamento culturale – interpretativo ovvero normativo che conduca il PM ed il GIP ad una applicazione delle norme processuali, in tema di regola dell’archiviazione e regola di giudizio per l’udienza preliminare, nell’ottica di un effettivo bilanciamento tra l’interesse alla persecuzione penale e quello all’efficienza giudiziaria secondo le linee esposte nei vari documenti della Associazione tra gli studiosi del processo penale e in alcuni dei principi esposti nel Manifesto approvato dalla Unione delle camere penali. In tal modo si potranno concentrare risorse materiali e personali verso quei reati che mettono a rischio la stessa convivenza civile: criminalità organizzata, economia illegale ( dal riciclaggio alla evasione fiscale alla corruzione), tutela del territorio e dell’ambiente. Occorre superare la strategia solo emergenziale che si limita ad ampliare le categorie di reati del 132 bis o le competenze delle DDA rischiando di indebolirne le loro funzioni specifiche. Si impone, poi, un approccio realistico al tema della prescrizione, partendo dal superamento dell’equivoco della prescrizione come istituto di diritto sostanziale o processuale, nonostante l’ultima pronuncia della Corte costituzionale che sembra abbia voluto consacrare la copertura costituzionale della prescrizione di natura sostanziale. E che si superi lo sterile dibattito sulle cause e sulla responsabilità della prescrizione: è la prescrizione che allunga i processi o la lunghezza dei processi che determina la prescrizione; ed ancora la responsabilità grava sulle “cavillosità avvocatesche”, sul PM, sul Gip o sul giudice. La verità è che la prescrizione è solo un sintomo della malattia del sistema; ovvero, come si è espresso un giovane e bravo magistrato, siamo in presenza di un impietoso decadimento del livello di qualità del sistema, di cui la prescrizione è un impietoso “marcatore”. Occorre concentrarsi sui principi costituzionali a base del nostro sistema penale. La funzione del diritto penale, il principio di legalità, la presunzione di innocenza, la funzione della pena, la tutela del contraddittorio, la parità tra le parti, il rispetto dei principi sovranazionali. Quale la attuale identità del codice processuale Vassalli? Il confronto con questi principi si impone con uno sguardo proiettato al futuro immediato ed alla prossima Procura europea. In questo quadro generale si inseriscono anche le proposte sulla separazione delle carriere e sull’inserimento dell’avvocato in Costituzione che provengono dai vertici istituzionali ed associativi dell’avvocatura. Posso solo augurare che i 30 anni del codice Vassalli e della vita del nostro Paese non siano trascorsi invano e che, sulle esperienze che ci sono alle spalle, si possa costruire insieme un percorso di rinnovamento del nostro complessivo sistema giudiziario. Premessa indispensabile è il confronto fecondo e non armato. 

·         Lo "Stato" della Giustizia.

Ogni edizione racconta la storia di penalisti e magistrati. Jacopo Pensa, l’avvocato poeta che le canta in versi ai Pm. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Novembre 2020. È come un cioccolatino ricoperto di stagnola colorata, una dichiarazione d’amore per i diciott’anni di un tempo, l’antico profumo di mughetto, la storia di una vita, il superfluo cui non si può rinunciare. È tutto questo e molto di più, il libretto di poesie che quest’anno l’avvocato Jacopo Pensa ha finalmente messo insieme e che ogni anno, una per volta, aveva vergato e poi donato a colleghi e amici per Natale. Un paio di volte anche per le vacanze. Con un garbo sottile, satira e ironia insieme, in queste centocinquanta pagine (Nel paese del diritto c’è talvolta buio fitto, edizioni Le Lucerne, sedici euro) racconta un po’ di storia sotto la toga, quella del penalista e anche del piemme e pure del ministro e del Presidente. E persino le edizioni rimembrano quel Bartolo da Sassoferrato che fu il massimo “lucerna juris”. I versi vengono presentati da due Gran Signori. Pippo Baudo, che si annuncia come amico e quasi parente. E Tullio Padovani, avvocato e professore che manifesta una rara competenza su endecasillabo, settenario e ottonario e la loro relazione con i tempi della musica. Se non è poeta, questo Jacopo (di cui lui stesso ricorda esser nato lo stesso giorno mese e anno di Torquato Tasso, 11 marzo ’44), butta lì Padovani, «dovremmo trovargli un’altra qualifica denotativa. Ma quale?». Un avvocato milanese, solide tradizioni, medie dai salesiani (come Berlusconi, Confalonieri, Albertini e tanti altri), liceo Berchet, quello di sinistra ma che fu anche dominato da don Giussani, frequentato da Giorello, Pisapia, Pillitteri e tanti altri, tra cui la sottoscritta. Poi la Statale, facoltà di giurisprudenza. È la storia di una certa Milano, che poi si ritroverà unita nei versi dell’avvocato Pensa ma anche in un percorso politico (a favore o contro) che va da Craxi a Berlusconi e negli anni di Tangentopoli e in quel Palazzo di giustizia che diventerà una sorta di caput mundi. Tutto comincia nel 1982, in modo un po’ casuale e con un vezzo di famiglia. Pochi versi: «Buon natale agli avvocati:/agli illustri, ai titolati,/ai seriosi, ai sorridenti,/agli ahimè nullatenenti…». Il foglietto è inviato a tutto il Foro di Milano. I più sono entusiasti, ma anche gli snob che sempre arricciano il naso e spesso invidiano, presero ad aspettare i versi di Jacopo Pensa ogni anno, ogni Natale. Guizzano fuori dalle pagine ogni anno i personaggi della nostra storia. Il 1985, in cui: «I Signori Magistrati/ sono proprio preoccupati/ han finito per sapere/ quanto logora il potere». Ne hanno ben d’onde, avendo a che fare non solo con il Presidente del consiglio Bettino Craxi, ma anche e soprattutto con l’inquilino del Quirinale Francesco Cossiga, quello che un bel giorno mandò addirittura i carabinieri al Consiglio superiore della magistratura. C’è un buco, a un certo punto: si passa dal 1991, l’anno in cui molti magistrati a Milano affissero cartelli sui loro uffici perché non volevano essere molestati («avvocato pussa via/questa stanza è tutta mia»), al 1994, quando il grosso della bufera è ormai passato. Quando non c’è più la prima repubblica e il nostro Jacopo, troppo indaffarato come tanti avvocati milanesi nei due anni precedenti, ci offre il suo «Giro giro tondo/ qui si indaga tutto il mondo/ molto a destra, poco a manca,/ di indagar non ci si stanca», e poi «son venuti gli ispettori/ a indagar gli indagatori». E per chi ha memoria (e anche l’età), paiono sfilare i piemme e gli indagati più o meno eccellenti, e il procuratore Borrelli e il ministro Mancuso che osò toccare gli intoccabili. E poi, con qualche salto, possiamo arrivare al 2007, alle inchieste di de Magistris e alle dimissioni di Mastella da ministro di giustizia: «un Piemme calabrese/ che ha avanzato le pretese/ di inserire quel Ministro/ nel fatidico registro». Il gomitolo si scioglie piano piano su tutte le vicende giudiziarie, ma anche imprenditoriali e calcistiche di Silvio Berlusconi, per arrivare al 2018 e 2019 con le strane vicende politiche dei governi gialloverde e giallorosso. Fino al nostro disgraziato 2020 con la sua pandemia. Non c’è tragedia, come non c’è stata neppure nei versi dei fatti più pesanti, neppure nella lunga filastrocca dei giorni nostri, quando «Nel palazzo di giustizia/ solo entrare fa notizia» e il processo quasi non esiste più, la presenza degli avvocati è considerata un intralcio e, quando aspetti insieme al tuo assistito con il cuore in gola la sentenza, non puoi neanche più spiare dalla faccia del cancelliere o del giudice come è andata: «Or ti mandano una pec/ con linguaggio molto sec/ la condanna è di trent’anni…». Quando un appuntamento è un assembramento e tutto va veloce, tutto sotto traccia, e nessuno riesce a difendersi, persino tra le alte sfere di quelli che indossano la “toga giusta”, quella di chi accusa: «Hanno accolto al Ciesseemme/ le richieste del Piemme/ Palamara ha esagerato/ e deve essere radiato./ L’han cacciato via dal tempio./ Al momento di lasciare,/ l’han sentito pronunciare/ una frase lì per lì:/ ah tu quoque fili mi!». Tra le Odi agli amici, che chiudono le lettere natalizie agli avvocati, mi piace quella leopardiana, in cui si alternano endecasillabi e settenari, “A Silvio”. È scritta nel 1980, parla di un imprenditore capace e ”tostarello” e della sua carta vincente dell’epoca, “il nero Ruud”. Il grande Gullit.

La dura vita nei tribunali nell’era post lockdown. Simona Musco su Il Dubbio il 16 ottobre 2020. Cancellerie ingolfate, tecnologia sottoutilizzata, lunghe file e caos assembramenti: la ripresa vista dagli avvocati. File interminabili. Strumenti telematici che non funzionano o che non sono in grado di risolvere i problemi. Cancellerie non operative al 100% e regole incerte. La fase di ripresa post lockdown nei tribunali è un rompicapo. Con una situazione certamente migliore rispetto al periodo di blocco imposto dall’emergenza Covid, ma tale da non consentire un’effettiva ripartenza della macchina della Giustizia. I tribunali di Milano, Roma e Napoli ne sono un esempio: la difficoltà principale, a sentire i presidenti dei rispettivi Coa, hanno a che fare proprio con l’attività di cancelleria, che necessariamente blocca e condiziona tutto il lavoro degli avvocati. E anche se «la situazione è quasi normale», come spiega Giuseppe Belcastro, responsabile dell’Osservatorio dati Ucpi, «i ritmi non sono quelli di prima». Le udienze, bene o male, sono riprese. Ma alle cancellerie «si accede ancora tramite e- mail – spiega Belcastro, che sta raccogliendo le segnalazioni dalle Camere penali di tutta Italia -. Il nostro lavoro non è sempre programmabile: a volte devi controllare un fascicolo e scappare a fare altro, cose che attualmente sono una chimera. Per farlo, ora, bisogna mandare una pec, prendere un appuntamento, o fare la fila sperando che ci sia il tempo per arrivare in udienza. C’è una distanza tra fascicolo e avvocato che prima non c’era». A Roma c’è ancora il punto unico deposito atti, che genera un’unica lunga fila, in barba alle norme di distanziamento e anche se le udienze sono scaglionate, l’emergenza comporta l’impossibilità di stare tutti insieme contemporaneamente in aula. E quindi l’assembramento si sposta semplicemente nei corridoi, dove le distanze sono quasi annullate. Una situazione, sostiene Belcastro, sostanzialmente conforme sul territorio. Le possibilità di migliorare ci sono, ricorrendo, ad esempio, al telematico per materie semplici, come il deposito atti o i fascicoli online, che consentirebbero di evitare inutili file in cancelleria. Cose attualmente impossibili, mentre il rischio di ripristinare il processo penale da remoto continua a “minacciare” i sogni degli avvocati. «Ma il processo penale non è un orpello», contesta Belcastro. A Roma, spiega il presidente del Coa Antonino Galletti, il problema principale è la carente copertura telematica dei servizi. E così nonostante il covid e nonostante si possa fare ormai praticamente tutto da casa con un click, «gli avvocati sono costretti ad andare in cancelleria per fare la stragrande maggioranza degli adempimenti», spiega Galletti. Secondo cui il primo problema è la mancata fornitura, da parte del ministero, di tutti i dispositivi necessari alle cancellerie per lavorare da remoto, cosa fatta solo in maniera molto parziale. Il secondo problema riguarda la delega ai capi degli uffici giudiziari a disporre le misure organizzative, che soprattutto in tribunali e corti d’appello complessi come quelli di Roma «ha determinato un moltiplicarsi di centri decisionali, rendendo veramente complicato il lavoro degli avvocati e soprattutto la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini». Così le regole da seguire per una sezione non sono uguali a quelle di un’altra e la collaborazione tra uffici e avvocati varia a seconda della sensibilità del singolo capo. Se nei settori in cui il processo telematico funziona i numeri delle udienze sono in netto miglioramento, spiega Galletti, laddove il telematico non è ancora utilizzato a dovere «siamo all’anno zero: se il magistrato non prende materialmente il fascicolo cartaceo non può studiarlo, così come se l’avvocato non deposita la memoria materialmente non può farlo altrimenti». E ciò nonostante la tecnologia non manchi: «Al Tar e al Consiglio di Stato già da due anni il processo amministrativo è telematico. Se un modello funziona, perché non lo si utilizza?». Anche a Milano, spiega il presidente Vinicio Nardo, il problema principale è rappresentato dalle cancellerie. Alcune con poco personale, altre costrette a chiudere per quarantene familiari, il tutto in assenza di linee guida. «I rimedi che sono stati assunti in precedenza non ci sono più sottolinea – e chi non ha abbastanza buon senso si adagia sulla cortina burocratica della procedura». Le udienze, invece, registrano ancora problemi di assembramento, risolti, anche in questo caso, sulla base di accordi affidati alla buona volontà del singolo magistrato. «Abbiamo ottenuto, grazie alla disponibilità di alcuni giudici, di avere il giorno prima un elenco delle udienze scaglionate in base all’orario di chiamata – spiega Nardo -. Ma ci sono situazioni incresciose, come processi celebrati con gli avvocati addirittura fuori dalle aule». Il numero di processi, anche qui, è molto diminuito e mancano sistemi di contraddittorio alternativo, come la videoconferenza e il processo cartolare. «C’è, da un lato, la paura che si possa approfittare del processo da remoto, ma c’è anche la volontà, data la difficoltà a stare in tribunale, a celebrare con metodi alternative tutte quelle udienze che non presuppongono una partecipazione attiva. È questa una fase di normalità delle norme in una situazione di anormalità. Non rimpiangiamo il proliferare di linee guida – conclude Nardo -, però ci manca un punto di riferimento. Ed è tutto molto indecoroso, perché il ministero continua a dire: “arrangiatevi”». L’ascia di guerra tra cancellieri e avvocati, a Napoli, non è del tutto sotterrata, ma la situazione è di certo migliorata, spiega il presidente Antonio Tafuri. E se con il civile la trattazione scritta ha consentito lo svuotamento del tribunale, nel penale le udienze stanno andando avanti con una certa regolarità, seppure generalmente a porte chiuse. Proprio ieri, però, tutte le regole anticovid sono saltate nel corso del processo “Concorsopoli”, che conta più di 150 imputati, con maxi assembramento nei corridoi. «Il giudice non ha adottato nessuna misura organizzativa particolare – sottolinea Tafuri -. quindi si è creato un grosso caos». Le cancellerie funzionano ancora soltanto su prenotazione obbligatoria, «anche se il clima di collaborazione con il personale è stato recuperato». Le udienze sono state organizzate suddividendole in fasce orarie e «questo consente di evitare che si affollino tutte le chiamate contemporaneamente. Talvolta questo non succede, ma dipende dal singolo magistrato o dalla singola cancelleria. Il sistema – conclude – ci sta consentendo di fare i processi sia civili che penali. È chiaro, però, che sul civile non aspettiamo altro che la fine di questa trattazione scritta: ci sono dei momenti in cui le nostre possibilità difensive sono mortificate – conclude -. Tiriamo avanti, in attesa di tornare quanto prima alla normalità» .

Da ilmessaggero.it il 3 ottobre 2020. Ferita da una lastra di marmo staccatasi da una parete, l'avvocato Bongiorno ha lascia il tribunale in sedia a rotelle.  «Voglio raccontare una nota a margine davvero surreale: l'avvocato Bongiorno è entrata in Tribunale sulla sue gambe ed è uscita sulla sedia a rotelle perché in attesa che il giudice uscisse dalla camera di consiglio una lastra di marmo di 50 kg si è staccata dalla parete piombando sulla caviglia di Giulia Bongiorno, arrivata a metà tra la caviglia e il tendine. Ditemi voi se è normale». Lo ha detto Matteo Salvini durante la conferenza stampa a Catania. «Ovviamente la responsabilità non la do al Presidente del Tribunale - dice - chiedo al ministro Bonafede se è normale che in un tribunale si stacchino lastre di marmo sulle gambe degli avvocati presenti. Penso che si chiuderà un processo e se ne aprirà un altro». «L'immagine che diamo dell'Italia nel mondo è quantomeno particolare», ha detto.

Ecco i tribunali che cadono a pezzi e Giulia Bongiorno è solo l’ultimo caso. Il Dubbio il 4 ottobre 2020. Solai fatiscenti, strutture inagibili, impianti idraulici rotti: ecco la mappa dell’orrore dei nostri tribunali da Nord a Sud del belpaese. «Ma lei l’ha vista quella lastra? E’ enorme. Ci sono volute tre persone per sollevarla. E’ caduta all’improvviso, mi ha travolto e io sono finita a terra. Salvini, con cui stavo parlando in quel momento, non ce l’ha fatta ad alzarla da solo e ha dovuto chiedere aiuto a dei carabinieri. Poi è arrivato il pubblico ministero, il mio collega-avvocato e un carabiniere: in tre sono riusciti a sfilare la gamba». L’avvocata Giulia Bongiorno parla dopo aver  lasciato con una sedia a rotelle del 118 il tribunale di Catania, dove si trovava per l’udienza preliminare del procedimento a carico dell’ex ministro dell’Interno legato al caso della nave Gregoretti. La senatrice della Lega è rimasta ferita all’altezza della caviglia da un pesante lastrone di marmo di circa un metro quadrato durante la camera di consiglio del gup. «Qualche centimetro più in là e poteva recidermi i legamenti. Per ora non voglio nemmeno provare ad appoggiare il piede. Stasera (ieri, ndr), rientrata a Roma, farò degli accertamenti. Poi vedremo». Intanto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha disposto accertamenti per verificare le condizioni dell’aula in cui si è verificato l’incidente. L’area è stata messa in sicurezza e sono subito iniziate le verifiche su tutte le altre stanze del palazzo di Giustizia. Lunedì sarà consegnata una relazione completa. «Bonafede ha disposto accertamenti? Veramente a me hanno detto che già gli avevano segnalato una serie di problematiche – aggiunge l’ex ministra -. Di sicuro mi muoverò in sede legale e in sede parlamentare con una interrogazione».

Edilizia giudiziaria e quei tribunali che cadono a pezzi. Nel 2018 fu l’Anm a lanciare l’allarme sull’edilizia giudiziaria. Un grido d’allarme inascoltato e ancora drammaticamente attuale. Ecco la “lista nera” dei tribunali individuata dai magistrati.

Lesioni strutturali vengono segnalate nelle sedi di Siena (nel palazzo situato in via Franci) e Messina (con riguardo agli uffici ubicati nella sede di via Malvizzi), mentre sovraccarico delle strutture portanti nella sede del Tribunale di Napoli ed in particolare negli uffici della sezione Gip-Gup;

Solai e soffitti fatiscenti e pericolanti vengono segnalati nelle sedi di: Vercelli (ove, nella struttura del Castello Visconteo in cui sono allocate le sezioni penali e civili del Tribunale e la sede dell’UNEP, nell’anno 2015 a causa di crolli è stato dichiarato inagibile parte del secondo piano sede dell’ufficio Gip e delle sue cancellerie; nel 2016 è crollata una parte del muro di cinta esterno); Monza (l’ala est dell’edificio di Piazza Garibaldi, risalente al 1700, è inutilizzabile dal 2016 per forti ammaloramenti, ad eccezione di poche stanze individuate dal Provveditorato Regionale Opere Pubbliche per un uso precario e temporaneo: i lavori di ristrutturazione risultano appaltati ma non ancora avviati; il plesso di via Vittorio Emanuele presenta avvallamenti nella pavimentazione del secondo piano;

entrambi gli edifici necessitano di verifiche di tenuta/staticità);

Arezzo (che necessita del rifacimento delle guaine di protezione di terrazze e lastrico solare); Livorno (nel palazzo di via De Larderel è parzialmente crollata la volta di copertura dell’accesso carrabile); Pisa; Perugia (presso l’immobile ove ha sede il Tribunale penale); Messina (nell’immobile di via Malvizzi); Catania (ove nel plesso centrale di Piazza Verga sono stati realizzati solo lavori di somma urgenza dell’importo di 30.000,00 euro a fronte di un progetto definitivo di straordinaria manutenzione della copertura del tetto dell’importo di 320.000,00 euro, mentre nel plesso di via F. Crispi è stata inviata al Provveditorato richiesta di verifiche tecniche);Infiltrazioni piovane vengono segnalati nelle sedi di: Firenze (al quarto piano dell’edificio);

Arezzo (a causa del deterioramento sia della copertura del tetto, che degli infissi in legno, piove in diverse parti del Palazzo di giustizia, si allaga il locale ove si trovano server e centralina telefonica); Livorno (in entrambi i plessi di via De Larderel e di via Falcone Borsellino); Siena (nella sede di via Franci); Pistoia; Pisa (nei locali archivio di Tribunale e Procura, nei locali della sezione lavoro siti al piano terra, in numerose stanze di magistrati e cancellieri);

Prato; Perugia; Nola; Torre Annunziata (nell’edificio più risalente il tetto è danneggiato ma è in fase di completamento la procedura d’appalto per la riparazione); Savona; Lecce (nel garage del palazzo di via De Pietro); Messina (nell’immobile sito in via Malvizzi e negli uffici di Palazzo Piacentini);

Catania (sia nel plesso di Piazza Verga che in quello di via F. Crispi –le fotografie e i filmati dello scorso mese di ottobre dell’acqua scrosciante dentro gli uffici e dei colleghi che si riparano con l’ombrello hanno fatto il giro di tutta Italia e sono facilmente rinvenibili sul web- e nel locale archivio di San Francesco La Rena);

Distacco di mattonelle, cornicioni, calcinacci e presenza di crepe vengono segnalati nelle sedi di: Firenze (nonostante l’edifico sia nuovo); Arezzo (anche nell’ala nuova del Palazzo denominata Nuova Espansione); Livorno; Grosseto (ove a rischio è la controsoffittatura di doghe metalliche all’interno dell’edificio della Procura della Repubblica); Pisa; Prato; Perugia (ove sono caduti pannelli di cartongesso dal soffitto del Tribunale Penale); Torre Annunziata (in tutti e tre gli edifici giudiziari, due dei quali di nuova costruzione, gli infissi delle finestre sono ‘pericolanti’ probabilmente per errori di montaggio); Lecce (nel palazzo di via De Pietro); Patti; Messina (nell’immobile sito in via Malvizzi e negli uffici di Palazzo Piacentini); Trapani;

carenza degli impianti antincendio e delle vie di fuga sono stati parimenti segnalati nelle sedi di: Monza (con riguardo al palazzo di Piazza Garibaldi sono stati richiesti interventi adeguati dalla Conferenza Permanente e dal Presidente del Tribunale per la realizzazione di vie di fuga e di uscite di emergenza e per la eliminazione di una pericolosa vetrata interna posta dinanzi l’ingresso principale e la sua sostituzione con porta con maniglia antipanico; con riguardo alla sede di via Vittorio Emanuele nel percorso di esodo è stata segnalata la presenza di porte vetrate che determinano un fattore di rischio alto); Siena (ove manca l’agibilità per la sede di via Franci perché non è mai stato effettuato il collaudo); Pisa (nell’edificio del Giudice di Pace); Prato; Avellino (risultano stanziate dal Ministero somme per l’adeguamento dell’edificio di Piazza d’Armi e di via Colombo n. 10, ma i lavori non sono mai iniziati);

Nola (dove si attende dal Comune la documentazione inerente il rilascio del certificato di agibilità per la sede sita in via On. Napolitano); Torre Annunziata (non essendo stato effettuato il collaudo dei due edifici di nuova costruzione manca l’agibilità); Savona (il cui plesso necessita anche della realizzazione di scale); Genova; Roma (limitatamente agli uffici della Procura Generale); Lecce; Taranto (ove le vie di fuga sono lontane); Ragusa (sia il palazzo ex INA Assicurazioni che il palazzo di via Natalelli, che attendono che il progetto originariamente approvato dal comune di Ragusa per realizzare una scala antincendio all’esterno del palazzo sia finanziato dal Ministero e quest’ultimo destinatario anche di disposizioni che contingentano il numero di udienze giornaliere poiché la struttura non sopporta la presenza contemporanea di più di trecento persone;

per quanto riguarda il palazzo ex INA, risulta dalla dichiarazione del Dirigente del Settore V del Comune di Ragusa dell’aprile 2017, che lo stesso non è soggetto alla disciplina del DM 22/2/2006 -Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio di edifici o locali destinati ad uffici- in quanto i locali esistenti erano già adibiti ad ufficio ed alla disciplina del DPR 151/11 sui controlli di prevenzione incendi, essendo le presenze giornaliere inferiori a 300); Catania (il palazzo centrale di piazza Verga non gode ancora del certificato prevenzione incendi in quanto necessitano alcuni lavori per ottemperare alle prescrizioni impartite dal Comando dei Vigili del Fuoco, opere che però non hanno ancora ricevuto i correlativi stanziamenti ministeriali);

il mancato rispetto della normativa di sicurezza viene segnalato nelle sedi di: Arezzo (ove è stata segnalata la presenza di pavimentazione in marmo lucido scivolosa e pericolosa, specie in considerazione dei frequenti allagamenti dovuti ad infiltrazioni di acqua piovana); Taranto (ove la pavimentazione è obsoleta e pericolosa); Catania (nella sede di via Guardia della Carvana ove insistono le sezioni specializzate del Tribunale lavoro e della Corte lavoro mancano maniglioni antipanico nel portone di ingresso/uscita e strisce antiscivolo sulle scale che collegano i diversi piani e ciò a causa del contenzioso insorto col condominio in cui sono allocati tali uffici);il mancato rispetto della normativa antisismica viene segnalato ad Avellino (il palazzo di Piazza d’Armi costruito prima del 1980 non ha agibilità e necessita di adeguamento alla più recente normativa sismica per il quale risultano stanziate somme) e a Ragusa (ove la costruzione del palazzo di giustizia di via Natalelli risale agli anni Settanta, prima dell’entrata in vigore della normativa sulle costruzioni antisismiche; di recente, con determinazione n. 21 del 22/3/2018 del Settore Pianificazione Urbanistica e Centri Storici della Città di Ragusa, nell’ambito di un progetto di valutazione dello stato di sicurezza nei confronti dell’azione sismica degli edifici pubblici strategici, è stato approvato “un piano di indagini finalizzato all’individuazione delle caratteristiche dei materiali e della geometria degli elementi strutturali dell’edificio in questione e delle indagini geognostiche e prove di laboratorio per la caratterizzazione litostratigrafica e geotecnica del terreno sul quale insiste lo stesso” ed è stata avviata la procedura di affidamento per l’esecuzione del piano);l’inadeguatezza degli impianti elettrici è segnalata nelle sedi di: Monza (sia nell’edificio di Piazza Garibaldi, ove sono stati descritti quadri elettrici in posizione soggetta a frequenti allagamenti, numerosi episodi di black out, sia nel palazzo di via Vittorio Emanuele);

Arezzo (ove la cabina elettrica non è stata revisionata); Avellino (l’edificio di Piazza d’Armi attende l’adeguamento e la certificazione dell’impianto, la sostituzione o il ripristino del gruppo elettrogeno); Nola (ove è necessaria la sostituzione della centralina elettrica nella sede della Reggia Orsini); Savona; Lecce (ove in alcune aule penali sono presenti cavi elettrici a cielo aperto); Taranto; Messina; Catania (ove proprio in questi primi giorni di dicembre è finalmente avvenuto il collaudo della nuova cabina elettrica del plesso di via Crispi che da anni non funzionava e che aveva determinato problemi al funzionamento degli ascensori e agli impianti di riscaldamento e condizionamento, inducendo il Presidente del Tribunale a sospendere le udienze nei mesi estivi);il malfunzionamento e l’inadeguatezza degli ascensori sono segnalati nelle sedi di: Monza (nell’ufficio di via Vittorio Emanuele); Arezzo (i vani ascensori sovente si allagano); Prato (per diversi mesi tutti e quattro gli ascensori sono stati rotti e allo stato ne risultano funzionanti solo due); Napoli (ove sono frequentissimi guasti non immediatamente riparabili); Roma (ove pare che sia stata accolta dal Ministero la richiesta di sostituzione di tutti gli ascensori degli uffici di Piazzale Clodio, viale Giulio Cesare e via Lepanto);

Messina (negli immobili di via Malvizzi e di Palazzo Piacentini); Trapani; Catania (con riguardo al plesso di via F.Crispi); l’inadeguatezza e la fatiscenza degli impianti idraulici sono segnalati a Monza, Firenze, Avellino (l’edificio di Piazza d’Armi attende l’adeguamento e la certificazione dell’impianto idrico), Taranto, Messina (nella sede di via Malvizzi) e degli impianti igienici a Pisa, Avellino, Savona, Genova, Roma, Taranto, Catania; il malfunzionamento e l’inadeguatezza degli impianti di riscaldamento/condizionamento al concreto fabbisogno vengono segnalati nelle sedi di: Monza (negli uffici di Piazza Garibaldi manca la denuncia di attività per la messa in opera dell’impianto termico ed in quelli di via Vittorio Emanuele le tubature e la centrale termica non sono conformi alle norme di sicurezza e antincendio); Firenze (nella quale è segnalato l’eccessivo rumore ai limiti della tollerabilità); Siena (nel palazzo di via Franci per la vetustà dello stesso); Prato; Avellino (con riguardo al plesso sito in via Colombo n. 10); Nola; Savona; Lecce; Taranto;

Messina (nell’immobile di via Malvizzi); Trapani; la mancanza di impianti di riscaldamento/condizionamento sono segnalate nelle sedi di Vercelli (nelle aule di udienza sia penali che civili del Tribunale e nel locale adibito ad audizioni protette) e Genova; la scarsa salubrità degli ambienti è segnalata nelle sedi di: Monza (ove la coibentazione di alcune tubature nei locali sotterranei è caratterizzata dalla presenza di amianto, che seppure risultato non aerodispersibile, necessita comunque di periodici controlli ed ove i locali archivio interrati sono privi di areazione, caratterizzati da ammaloramento delle superfici murarie e con sospetta presenza di radon); Firenze (nei locali destinati ad archivio e corpi di reato ci sono problemi di staticità ed areazione e nelle copertura è presente la fibra di vetro);

Pisa (ove una centralina elettrica situata in aderenza agli uffici genera onde elettromagnetiche); Prato (ove è copiosa la presenza di umidità); Perugia; Napoli Nord (sussistono problemi di areazione nei corridoi del secondo piano); Torre Annunziata (nell’edificio più risalente è ancora presente moquette maleodorante); Messina (negli uffici di Palazzo Piacentini ed in particolare in quelli GIP-GUP e Procura siti al piano cantinato e nell’aula del Tribunale del riesame); Catania (negli archivi di San Giuseppe La Rena);l’insufficienza di aule di udienza è segnalata sia per il settore civile (che determina nei Tribunali di Napoli Nord, Taranto, Messina, Patti, Catania, che le udienze si tengano quasi esclusivamente in stanze originariamente deputate a costituire ufficio del Giudice con conseguente sovraffollamento delle stesse e concreti problemi di sicurezza) che per quello penale (ciò a Massa, Catania) e la mancanza di stanze per tutti i magistrati e la consequenziale condivisione delle stesse è emersa nelle sedi di Vercelli, Taranto, Messina, Patti, Catania;

la mancanza di aule per gli esami protetti e per le ricognizioni di persona è segnalata a Catania, mentre l’insufficienza delle dotazioni per le videoconferenze a Napoli Nord (i cui Giudici spesso devono ricorrere alle aule site nei Tribunali di Napoli e di Santa Maria Capua Vetere) e Catania (spesso occorre spostarsi nel carcere di Bicocca che dista diversi chilometri con dispersione di energie e tempo);archivi insufficienti fatiscenti sono stati segnalati a Prato, Napoli, Genova, Patti, Messina, Catania; la presenza non occasionale di ratti e blatte è stata segnalata rispettivamente, per i primi, nelle sedi di Prato e Messina (negli uffici di Palazzo Piacentini: cfr. fotografie allegate) e, per le seconde, nelle sedi di Torre Annunziata e Messina (negli uffici di Palazzo Piacentini);problemi di insufficienza di aree parcheggio –che ridondano sulla tematica della sicurezza- ricorrono nelle sedi di Napoli, Napoli Nord (ove sussistono anche avvallamenti della pavimentazione, si verificano allagamenti frequenti, si registra la presenza di alberi ad alto fusto non manutenuti) e Catania.

Intrieri: «Sparite le pagine della sentenza, che giustizia è mai questa?» Valentina Stella su Il Dubbio il 15 settembre 2020. La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Milano alla cosiddetta “infermiera killer”. Mancano 13 pagine nelle motivazioni. Venerdì sera la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Milano che aveva inflitto 30 anni all’infermiera Laura Taroni, nota alle cronache come l’infermiera killer. La donna è stata condannata in relazione all’omicidio del marito Massimo Guerra e della madre Maria Rita Clerici tramite la somministrazione di dosi eccessive di farmaci: a iniettare i farmaci sarebbe stato il medico Leonardo Cazzaniga, con cui aveva una relazione, e che è stato condannato all’ergastolo in primo grado. Lui ora è ai domiciliari, la donna in carcere. Alla base della decisione degli ermellini ci potrebbe essere l’errore materiale che aveva viziato la sentenza di secondo grado, dal momento che mancavano 13 pagine nelle motivazioni con cui lo scorso 30 novembre la Corte di Appello aveva confermato la condanna a 30 anni inflitta alla Taroni dal gup di Busto Arsizio con rito abbreviato nel 2018. Ne parliamo con l’avvocato Cataldo Intrieri, che assiste la donna insieme alla collega Monica Alberti.

Avvocato Intrieri ci può spiegare bene cosa è successo?

«A gennaio di quest’anno i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano ci hanno notificato un’udienza nella quale si sarebbe dovuto riparare – a loro dire – ad un errore materiale contenuto all’interno delle motivazioni con cui avevano condannato la nostra assistita. Attraverso la procedura detta di “correzione dell’errore materiale” avrebbero voluto sanare la questione. Ci hanno riferito che quelle tredici pagine erano state scritte su un altro computer – mi chiedo dunque se dalla stessa persona – e non copiate e incollate nella sentenza. Ma non si trattava affatto di un errore materiale, come l’aver sbagliato a scrivere un nome o una data di nascita dell’imputato. Pensare di poter rimediare così è goffo ma soprattutto sconcertante. Dunque ci siamo rifiutati di aderire alla procedura perché mancava un importante pezzo di motivazione che riguardava due punti rilevanti sollevati dalla difesa"».

E cioè?

«Il dispositivo era privo della parte riguardante la perizia psichiatrica della signora Taroni e quella relativa alle dichiarazioni di alcuni consulenti in merito alla letalità dei farmaci utilizzati da Cazzaniga. Ricordo che sul corpo del marito della Taroni non è stato possibile effettuare l’autopsia perché è stato cremato e non per volontà della moglie. Quindi siamo dinanzi ad un vero processo indiziario. Aggiungo che la nostra assistita è in carcere mentre il signor Cazzaniga, pur essendo stato condannato all’ergastolo, è ai domiciliari».

Tornando a quelle 13 pagine cosa è poi accaduto?

«Alla fine io e la collega l’abbiamo avuta vinta e la Corte di Appello ha ammesso che non si poteva procedere in quel modo. Arriviamo dunque in Cassazione e inseriamo tra i rilievi posti all’attenzione dei supremi giudici anche questo fatto. Ora attendiamo le motivazioni della Cassazione per capire bene i motivi dell’annullamento».

Se sarà davvero così, sarebbe davvero grave.

«È la prima volta in circa 40 anni di carriera che mi succede una cosa simile. Si mette a repentaglio l’esito di un processo con accuse pesanti. Ma la cosa ancora più grave è che i giudici di appello avevano fissato l’incidente di esecuzione quando i termini di impugnazione stavano per scadere. Cosa avremmo dovuto scrivere nei motivi di ricorso in Cassazione se non erano a nostra disposizione ben 13 pagine della sentenza di appello? La giustizia non può essere amministrata con tanta sciatteria».

Le parti civili hanno rilasciato una dichiarazione al Giorno dove si dicono certi che il prossimo processo di appello confermerà le responsabilità della Taroni.

«L’annullamento riguarda tutti i capi della sentenza. E sicuramente la Corte di Cassazione, avendo rifiutato il ricorso per altri due imputati del processo, e avendo accolto quello della Taroni e di altri due è sicuramente entrata nel merito dei ricorsi stessi. Quindi la collega Alberti ed io confidiamo che l’annullamento riguardi anche altri parti della sentenza, che troviamo carente altresì sotto il profilo della valutazione degli indizi per le condanne più gravi. A parer mio non è stato analizzato adeguatamente il rapporto di coppia tra i due imputati: non si è cercato di capire fino in fondo se la donne fosse una succube di Cazzaniga».

Rapporto Ambrosetti, De Notaristefani: «La Giustizia? È iniqua». Simona Musco Il Dubbio il 10 Settembre 2020. Il presidente dell’Unione nazionale camere civili smonta la teoria secondo la quale sarebbero gli avvocati a rallentare i processi per trarne vantaggio. Se la giustizia è lenta la colpa è dell’avvocatura. Parola di The European House Ambrosetti, che nel proprio rapporto sulla Giustizia se la “prende” con i cittadini che decidono di non accettare le sentenze di primo grado, impugnando le sentenze sfavorevoli e facendo ricorso in Appello e per Cassazione. Un “cattivo” comportamento, sebbene consentito dalla legge e garantito come diritto, del quale gli avvocati, in qualche modo, sarebbero complici. Tant’è che a pagina 18 del rapporto gli esperti lo dicono chiaramente: per risolvere il problema dei tempi elefantiaci dei processi «è necessario limitare ulteriormente fenomeni di ricorso opportunistico alla giustizia da parte del privato teso a un “tentato guadagno” per il tramite del sistema giudiziario, fenomeno che a volte può anche godere di una spinta da parte del sistema di avvocatura che può trovare utile non disincentivare tale atteggiamento». Un po’ quanto già sosteneva il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, allorquando teorizzava che a rallentare i processi fossero le tecniche dilatorie degli avvocati, intenzionati a raggiungere la prescrizione. Una teoria strampalata, che non rispecchia quanto accade nel mondo reale. E a spiegarlo sono proprio gli avvocati. Che a dispetto di quanto si legge nel report, non hanno i vantaggi descritti nel rallentare i processi. L’equivoco di fondo, secondo Antonio De Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale camere civili, è che gli avvocati non hanno il dovere né il diritto di scoraggiare i cittadini dal fare causa. «Abbiamo il dovere di farlo solo per le cause inappropriate. Ma si sta introducendo di soppiatto il concetto che chi fa causa è un nemico della società, perché intasa la Giustizia. Non è così: chi fa causa fa valere un diritto che è riconosciuto dalla Costituzione, per esercitare il quale paga le tasse. Quindi è un diritto non solo in astratto, ma anche in concreto, perché ne sopporta i costi attraverso la contribuzione fiscale», spiega De Notaristefani. Dal rapporto, però, l’idea emerge chiaramente: se una sentenza di primo grado è sfavorevole, fare appello è un tentativo di perdere tempo e intasare la Giustizia. Un’idea che non convince il presidente dell’Uncc per un semplice motivo: non esistono più i clienti che pagano a prescindere, si paga in base al risultato. «Se non c’è risultato, non c’è pagamento. Forse è questa la grossa pecca del rapporto: si registra un fenomeno sulla base dei dati forniti dal ministero, stando ai quali circa il 50 per cento degli appelli o dei ricorsi per Cassazione vengono respinti. Intanto i due fenomeni non dovrebbero essere equiparati spiega -, in quanto la maggior parte dei ricorsi per Cassazione vengono respinti per ragioni di carattere formale, non sostanziale. Quindi non c’entra la ragione, ma il modo in cui i ricorsi vengono scritti». In quanto al numero eccessivo di appelli, afferma, il dato avrebbe meritato una maggiore riflessione: oggi, infatti, con la liberalizzazione dei compensi, i grandi committenti fanno appello a costo quasi zero. Quindi, più che atteggiamenti opportunistici – al netto delle “pecore nere” – il vero problema è che «in Italia la Giustizia costa troppo poco per i ricchi e troppo per i poveri. Per fare un giudizio in appello, oggi, un impiegato spende 30mila euro. Ovvero un anno di stipendio. Quindi probabilmente sarà costretto ad accettare una sentenza magari ingiusta perché non può permettersi di fare appello – continue De Notaristefani -. Per quella stessa causa, se la controparte è una grande banca o una grande compagnia di assicurazione, spende magari mille euro. Quindi può appellare tutte le sentenze: in ogni caso avrà vantaggi». Il problema, dunque, è una Giustizia iniqua ed è questa la vera differenza con gli altri Paesi europei: il costo di accesso alla stessa. «Volete ridurre il numero delle cause? Perfetto, rendete vincolanti le tariffe professionali e consentite la deroga soltanto per i consumatori oppure per chi ha un Isee inferiore ad un certo valore», insiste De Notaristefani. Il vero problema, dunque, non è il numero di appelli respinti, ma se l’accesso al giudizio di secondo grado è garantito in maniera equo per tutti. «È pericolosissima, ad esempio, la proposta avanzata anche da Carlo Cottarelli di restringere l’accesso al giudizio di impugnazione sulla base del censo. È una cosa incivile, che non dovrebbe mai essere consentita», conclude.

Magistratopoli, parla il giudice Raimondi: “Sistema giudiziario italiano sotto standard dei paesi moderni”. Angela Stella su Il Riformista il 17 Luglio 2020. Guido Raimondi attualmente è Presidente di sezione della Corte di Cassazione ma per nove anni è stato giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, di cui è stato anche Presidente dal 2015 al 2019. In questa lunga intervista abbiamo affrontato tutti i temi che sono al centro del dibattito sulla giustizia in questi giorni.

È ormai evidente che la magistratura sta attraversando una profonda crisi.  Qual è il suo parere in merito?

«Certamente le rivelazioni sulle modalità con le quali si è proceduto al CSM in molti casi –  dalla selezione dei magistrati da avviare a posizioni direttive alla decisione della Corte di Cassazione del 2013 sulla questione dei diritti televisivi, hanno destato profondo sconcerto, dentro e fuori la magistratura.  Il rischio della strumentalizzazione di queste notizie è alto, ma questo non deve farci velo nel prendere atto che il tema della autorevolezza e della credibilità della magistratura è oggi, giustamente, al centro dell’attenzione, per quanto questo possa, comprensibilmente, dispiacere ai magistrati. È perciò opportuno che vi sia un dibattito il più possibile aperto, per permettere all’opinione pubblica di farsi un’idea chiara e consapevole. Non c’è miglior disinfettante, diceva il giudice Brandeis, della luce del sole».

Cesare Mirabelli ci ha detto che in realtà non è solo un problema della magistratura, ma del sistema giustizia a partire dalla lunghezza dei processi.

«Sarebbe sbagliato, credo, pensare che il discredito che indubbiamente è piovuto sui giudici sia un problema della sola magistratura.  Una giustizia autorevole, autonoma e indipendente è condizione dell’esistenza di una moderna democrazia liberale, che è la forma di governo stabilita dalla nostra Costituzione e nella quale, fino a prova contraria, vogliamo vivere.  Non si tratta di un valore esclusivamente nazionale. Al contrario, sessant’anni di giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le cui sentenze si indirizzano a 47 Stati europei, dimostrano che il progetto europeo è costruito a partire dal valore della democrazia liberale, condizione essenziale della quale è una giustizia autonoma, indipendente e credibile. Conferma eloquente di ciò vi è nell’appropriazione di questa giurisprudenza da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea, come si è visto con la serie di sentenze, relative alle recenti riforme del sistema giudiziario polacco, con le quali i giudici di Lussemburgo hanno ribadito l’imprescindibilità, per la costruzione europea, di una giustizia della qualità che ho indicato. Se una vera democrazia non può prescindere da una giustizia autonoma, indipendente e credibile, essa non può neanche fare a meno di un’avvocatura libera. Quindi il problema è di noi tutti come cittadini e non può preoccupare i soli magistrati. Giustamente la sua domanda, accanto al tema del discredito sollevato dalle recenti vicende, evoca quello della lunghezza dei processi.  Non si può dire che le autorità italiane siano state inerti rispetto a questo endemico problema, ma è sotto gli occhi di tutti che, nonostante le riforme realizzate, il sistema giudiziario italiano non raggiunge gli standard di efficienza che sarebbe legittimo attendersi da un moderno Paese europeo, con evidenti ricadute negative in vari contesti, tra i quali sempre di più emerge con forza quello economico, essendo evidente come una giustizia non efficiente costituisca un freno potente agli investimenti. In questo contesto forse dobbiamo guardare alla presente crisi epidemiologica come a un’opportunità. Se risorse straordinarie sono attese, non sarebbe forse sbagliato individuare, come terreno privilegiato per il loro uso, proprio la giustizia, la cui rinnovata efficienza sarebbe sicuramente motore di sviluppo».

A proposito di lentezza dei processi, secondo le recenti statistiche della Cedu dal 1959 al 2019 l’Italia è stata interessata da 2410 procedimenti (peggio di noi Russia e Turchia) di cui 1843 hanno riscontrato una violazione. Di questi 1197 hanno riguardato la lunghezza dei processi e 287 il diritto ad un giusto processo.

«Sì, come dicevo il problema resta vivo a livello europeo, sebbene l’Italia abbia avviato delle riforme e si sia dotata di un meccanismo interno, la legge Pinto, per dare soddisfazione già in patria a chi abbia subito un processo troppo lungo, meccanismo, tra l’altro, costosissimo per l’Erario.  Il problema non è solo italiano, ma bisogna riconoscere che per noi esso si presenta con una particolare gravità e, come dicevo, credo sia meritevole di un’azione prioritaria. Come violazione dei diritti umani certo la lunghezza eccessiva dei processi non è paragonabile alla tortura o alla riduzione in schiavitù, ma non va banalizzata. Se la giustizia non è efficiente, oltre che autonoma, indipendente e credibile, vuol dire che lo Stato di diritto non funziona bene. Da questo punto di vista devo registrare, ed è un rilievo positivo, una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica, che comincia a rendersi conto di come questo problema non possa semplicisticamente essere ricondotto ad una pretesa – e totalmente indimostrata – neghittosità dei magistrati, ma sia il frutto di molteplici fattori, che richiedono interventi complessi ed articolati e un serio impegno da parte dei decisori politici».

Le correnti della magistratura sono espressione della libertà di associazione ma è chiaro che hanno ricoperto un ruolo anomalo nel pretendere posti di rilievo per gli appartenenti ad esse, tagliando fuori molto spesso coloro che non ne fanno parte. È d’accordo con questa sintesi? E come porre rimedio?

«La sintesi è dolorosa da ascoltare, ma sembra difficilmente contestabile. Le correnti hanno rappresentato e rappresentano un potente mezzo di dialogo e di crescita culturale della magistratura. Personalmente ho partecipato a diversi convegni su vari temi organizzati da Unità per la Costituzione, Magistratura Indipendente e Magistratura Democratica, e devo dire che in queste occasioni ho sempre apprezzato il rigore metodologico, l’apertura mentale e l’assenza di spirito settario degli organizzatori. È triste che oggi si presentino le correnti come fenomeni quasi criminali».

Come è potuto succedere?

«È duro da accettare, ma quello che mi pare sia mancato è una cosa molto semplice, che dovrebbe essere intuitiva per chi ha scelto di abbracciare la carriera di magistrato, e cioè la necessità di comportarsi sempre ed esclusivamente al servizio dell’istituzione cui si appartiene – che sia un ufficio giudiziario o il CSM – e quindi dell’interesse superiore al cui presidio la stessa istituzione è posta. La Costituzione lo dice con parole non difficili da capire all’art. 54, molto citato in questi giorni, secondo cui “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.  C’è stato un corto circuito.  Che le correnti animino, all’interno dell’ANM, dinamiche paragonabili a quelle politiche o sindacali non è cosa che possa scandalizzare. Che le elezioni interne all’Associazione riflettano sensibilità, anche politiche, diverse, mi sembra assolutamente normale. È giusto che gli organi direttivi dell’ANM siano lo specchio di queste diverse sensibilità perché si trovi una sintesi da far valere, appunto, sul piano dell’azione dell’ANM. Mi sembra pure fisiologico che i magistrati eleggano al CSM colleghi con i quali avvertono una sintonia sul modo di concepire il lavoro del magistrato e, perché no, anche valoriale. Non mi scandalizza, in questo contesto, il ruolo elettorale delle correnti. Qui, però, la normalità finisce».

E cosa inizia invece?

«Una volta eletto al CSM, un magistrato non può comportarsi come il componente di un organo politico o sindacale, le cui scelte e prese di posizione non possono prescindere, senza conseguenze, dalle determinazioni della centrale politica o sindacale di riferimento.  Il CSM è un organo di garanzia, posto a presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, il che vuol dire che i suoi componenti hanno il dovere, non diversamente dai giudici della Corte costituzionale, di non richiedere e di non accettare istruzioni da alcuno. Un componente del CSM “eterodiretto” è una bestemmia istituzionale. È dovere di ciascun membro del CSM di seguire nelle sue determinazioni null’altro che scienza e coscienza, al servizio dell’interesse superiore a presidio del quale l’istituzione è posta».

E la riconoscenza verso coloro che hanno facilitato l’elezione?

«Vi è il “dovere d’ingratitudine” che è proprio dei componenti degli organi di garanzia, anche qui, proprio come i giudici della Corte costituzionale, i quali sono tenuti ad essere “ingrati”, cioè ad  essere indipendenti, rispetto alle autorità che li hanno eletti o nominati.  Non si può pensare che se il meccanismo di nomina in organo di garanzia è elettivo l’attività dell’organo diventi politica. Questo è il corto circuito cui ho fatto riferimento. Anche i giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono eletti (dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa), ma nessuno di loro si sognerebbe di orientare le proprie determinazioni tenendo conto delle preferenze dei loro elettori. Come dicevo, sono concetti di una semplicità estrema, ed è desolante che il loro senso si sia smarrito».

I rimedi?

«Mi piacerebbe poter rispondere con un attestato di fiducia nella capacità della magistratura di ripudiare queste pratiche degenerative con un soprassalto di dignità e con un’adesione spontanea e convinta all’invito accorato che è stato rivolto a tutti noi dalla cattedra più alta del nostro Paese, quella del Presidente della Repubblica.  Forse però questo non è sufficiente, se il costume che è emerso dalle vicende che stiamo commentando ha potuto affermarsi, e persino acquisire caratteri di apparente normalità, pur in presenza di un codice etico, adottato dall’ANM, che in modo piuttosto chiaro prevede all’art. 1 che “Nello svolgimento delle sue funzioni, nell’esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità.”»

E un intervento legislativo potrebbe essere risolutivo?

«Sarei molto cauto quanto a un possibile intervento legislativo. Troppo forte sarebbe la tentazione di utilizzare l’occasione per limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.  A mio sommesso giudizio occorre che l’ANM prenda una posizione chiara nello stigmatizzare come assolutamente impropri e censurabili tutti i comportamenti – da chiunque posti in essere – volti a condizionare l’autonomia dei membri del CSM, i quali nell’esercizio delle loro importanti funzioni debbono rispondere solo alla Costituzione, alla legge e alla loro coscienza. La dimensione etica va forse poi curata un po’ meglio nella fase del tirocinio dei nuovi magistrati. Occorre avere la consapevolezza che la legittimazione della magistratura, e quindi la sua credibilità, riposa su due pilastri, che sono da una parte la preparazione tecnico-giuridica, accertata in modo obiettivo, e, dall’altra, l’assoluta integrità personale di ciascun appartenente all’ordine giudiziario. L’una senza l’altra non è assolutamente sufficiente».

Non c’è altra via che il rigore dei comportamenti dunque?

«Ciascun magistrato deve avere ben presente che l’autonomia e l’indipendenza che la Costituzione gli accorda non solo non sono un privilegio personale, ma implicano il dovere di un’assoluta severità con sé stessi. Gli utenti della giustizia hanno il diritto di pretendere che chi è chiamato a decidere le loro controversie sia assolutamente libero di farlo secondo scienza e coscienza. La libertà e l’indipendenza del magistrato vanno dunque vissute come un dovere. Sono concetti la cui appartenenza al patrimonio morale di tutti coloro che entrano in magistratura non può essere presunta, e che vanno quindi illustrati ai giovani magistrati in modo sistematico».

Non Le sembra che il dott. Palamara sia divenuto un facile capro espiatorio dei mali endemici che attraversano la magistratura italiana?

«La prego di scusarmi, ma preferisco non esprimermi sulla vicenda specifica del dott. Palamara, anche perché la Corte di cassazione, alla quale appartengo, potrebbe essere chiamata ad occuparsene. Ho già detto, affrontando la questione nei suoi termini generali, che purtroppo non siamo di fronte ad episodi isolati. Ne viene di conseguenza la necessità di una presa di coscienza e di una riflessione a largo raggio, che coinvolga tutti i magistrati, nessuno escluso».

Il CSM ha bisogno di essere riformato?

«Come dicevo, sarei cauto nell’auspicare un intervento legislativo. Il problema deve essere risolto sul piano del costume e dei comportamenti. Non vorrei indulgere alla retorica della “maggioranza sana” del corpo dei magistrati, ma è un fatto che mediamente si può contare sull’integrità di chi è chiamato a svolgere funzioni giudiziarie. Credo che si possa essere moderatamente ottimisti quanto alle possibilità di successo di un’azione di richiamo ai valori etici della professione, purché vi sia fermezza, a partire dall’ANM e nell’agire quotidiano di tutti i magistrati, nello stigmatizzare comportamenti impropri, e nel dissipare ogni dubbio sull’inaccettabilità di ogni tentativo di condizionamento – comunque motivato – di chi sia chiamato a prendere decisioni sulla carriera dei colleghi, specie nel CSM, decisioni nelle quali l’appartenenza di chi le prende –  o di chi ne è destinatario – a questa o a quella corrente non dovrebbe avere alcun peso. Il solo sospetto che le decisioni sui magistrati vengano prese per ragioni diverse dal merito toglie evidentemente credibilità e autorevolezza all’istituzione. Detto questo, quanto alle possibili riforme bisogna essere rispettosi delle prerogative del Parlamento che, nei limiti fissati dalla Costituzione, si determinerà secondo le proprie valutazioni».

Volendo entrare più nel merito delle possibili proposte in campo per riformare il Csm?

«Personalmente non credo siano auspicabili modifiche quanto al rapporto numerico tra membri togati e laici del CSM o ai procedimenti disciplinari. Quanto ai meccanismi elettivi della componente togata, mi pare difficile garantire la libertà degli eletti modificando il sistema elettorale. La soluzione è nell’affermazione, prima di tutto nelle coscienze degli eletti e degli elettori, dell’idea, cui accennavo un istante fa, del “dovere d’ingratitudine” che grava sugli eletti, un’idea che forse non è stata fino ad oggi veramente recepita, ma che è essenziale per il buon funzionamento delle istituzioni di garanzia».

In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un quarto potere, ormai indipendente dalla magistratura. È d’accordo?

«Le opinioni del Prof. Cassese sono sempre autorevoli. Non si può negare che il corpo dei pubblici ministeri, nettamente minoritario all’interno della magistratura, abbia per forza di cose una più netta visibilità rispetto alla componente giudicante. Nemmeno ci si può nascondere che questa maggiore visibilità abbia costituito in qualche caso una potente tentazione per qualche magistrato attirato dalle sirene della politica. Detto questo, per quella che è la mia esperienza, mi sono fatto l’idea che la stragrande maggioranza dei pubblici ministeri italiani condivide pienamente la cultura della giurisdizione che è propria dell’intera magistratura, e che quindi ci si possa attendere da loro comportamenti equilibrati e garantistici rispetto ai diritti individuali non diversi da quelli dei giudici».

A fine luglio l’Aula della Camera discuterà di separazione delle carriere tra pm e giudici. Lei sarebbe d’accordo su questa riforma?

«La mia opinione vale ciò che vale, cioè nulla, ma da quanto dicevo prima è evidente che la mia preferenza è nel senso della conservazione della tradizione italiana di unicità della carriera dei magistrati, che siano giudicanti o del pubblico ministero, proprio perché un pubblico ministero che partecipi pienamente della cultura della giurisdizione garantisce meglio a mio sommesso giudizio i diritti individuali».

L’Unione delle Camere Penali non sarebbe d’accordo.

«So che i penalisti italiani non sono d’accordo. L’argomento principale che viene portato a sostegno di questa idea, e cioè che la comunanza di carriera renda più “pesante” agli occhi del giudice l’opinione del pubblico ministero rispetto a quella del difensore mi pare che provi troppo. Da una parte ci sono i tanti casi di assoluzioni pronunziate dai giudici in presenza di richieste di condanna del pubblico ministero. Dall’altra, a portare l’argomento alle estreme conseguenze, occorrerebbe allora provvedere a tante separate carriere di magistrati per quanti sono i gradi di giudizio, per evitare che il giudice superiore sia sempre portato a confermare, per la comunanza di carriera, la decisione di quello del grado precedente».

Il nostro giornale ha reso nota la trascrizione di una conversazione tra Silvio Berlusconi e il dott. Amedeo Franco. Che idea si è fatto sulla vicenda?

«Anche questa è una vicenda sconcertante, che come dicevo mi pare debba essere ancora chiarita nei suoi precisi contorni. Un aspetto delicato è costituito dal fatto che il giudice Franco non è più tra noi e quindi non può replicare a quanto si dice di lui. Detto questo, credo non si possa non essere d’accordo con quanto osservato dall’ex Primo Presidente della Corte di cassazione, Ernesto Lupo, il quale ha fatto notare come, al di là degli aspetti penali, il comportamento di un giudice che violi il segreto della camera di consiglio sia sempre disdicevole».

Qualche giorno fa abbiamo ospitato un intervento del professor Andrea Pugiotto sull’ergastolo ostativo. Qual è il Suo giudizio sul tema?

«Avendo partecipato alla decisione della Cedu, nel caso Marcello Viola c. Italia, mi limito a dire che, come emerge dal testo della sentenza, alla quale è annessa una sola opinione dissenziente, e che è stata adottata a maggioranza con sei voti contro uno, ero tra i giudici della maggioranza. Come vede, a differenza di quanto avviene nel diritto processuale italiano, per le sentenze della Corte di Strasburgo si può legittimamente sapere se una decisione è stata presa a maggioranza e quale fosse la posizione dei singoli giudici. Detto questo, devo fermarmi, non essendo opportuni commenti da parte mia su una decisione giudiziaria alla quale ho preso parte. In termini generali, è vero che a partire dal caso Vinter c. Regno Unito la Corte di Strasburgo ha teorizzato il c.d. “diritto alla speranza”. Questo però non significa che la pena della reclusione perpetua sia in sé contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ciò che la Corte dice è che una detenzione che si prolunghi oltre la sua necessità penologica, quando cioè non vi siano più ragioni per trattenere il condannato in carcere, entra in contrasto con l’art. 3 della Convenzione, che vieta la tortura e le pene e trattamenti disumani o degradanti».

Durante l’emergenza covid alcuni magistrati di sorveglianza hanno concesso la detenzione domiciliare ad alcuni detenuti dell’alta sicurezza e del 41bis. Molte le polemiche che hanno portato anche all’intervento del Ministro Bonafede con un decreto ad hoc. Crede che le polemiche siano state strumentali e nate nelle sedi sbagliate, ossia i salotti televisivi?

«In tema di giustizia, specialmente quando si tratta di temi securitari altamente sensibili politicamente, il rischio di strumentalizzazioni è sempre elevato, così come quello di un’interessata distorsione dell’informazione. Detto questo, non sarò io a dirmi in favore di una compressione della libertà d’informazione, ossigeno della democrazia».

Nel suo ultimo speech annuale quale Presidente della Cedu ha detto che gli uomini e le donne della sua generazione “hanno avuto per molto tempo la consapevolezza che la democrazia, una volta stabilita, non può essere annullata. Ma, come alcuni studiosi hanno osservato, stiamo assistendo a un fenomeno di disillusione sociale, che potrebbe portare alla deconsolidazione democratica”. Possiamo approfondire?

«Ho voluto semplicemente dire che il sistema europeo di protezione dei diritti umani, messo in piedi con la Convenzione firmata a Roma nel 1950, è una efficace polizza di assicurazione contro possibili derive autoritarie, e che quindi è un bene prezioso da preservare. Ciò anche perché non è più possibile dare per scontato il perpetuarsi della democrazia, come invece la mia generazione aveva forse ingenuamente creduto.Tentativi di erosione delle basi della democrazia sono sotto gli occhi di tutti. Ho ricordato le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea a difesa dell’autonomia della magistratura come condizione essenziale della democrazia liberale, precondizione della partecipazione all’Unione, in risposta a riforme chiaramente ispirate a idee diverse».

A cosa si riferisce?

«Si è potuto parlare di “democrazia illiberale” o anche di legittima “dittatura della maggioranza”. Sono idee del tutto incompatibili con il concetto di democrazia pluralistica teorizzata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e che è patrimonio comune dei 47 Stati che, con la Convenzione del 1950, hanno voluto mettere in piedi la garanzia collettiva dei diritti fondamentali della persona umana. La crisi economica, aggravata dal Covid-19, la percezione del fenomeno migratorio dei nostri tempi come minaccia d’invasione e altre difficoltà, come la sensazione d’insicurezza prodotta dal dilagare della criminalità, possono condurre al ripiegamento degli Stati su sé stessi, alla violenza e anche a derive autoritarie, quando ad alcuni, se non a molti, appaia conveniente barattare quote di libertà con quote di sicurezza. È una tentazione a mio giudizio pericolosa, perché l’autoritarismo conduce alla guerra e ad altri disastri. Siamo quindi grati alla lungimiranza dei padri della Convenzione europea, e lavoriamo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo continui a guidare i giudici – e anche i legislatori – nazionali nell’efficace tutela dei diritti umani preservando la democrazia pluralistica, e quindi nel quadro dello Stato di diritto e nel rispetto delle minoranze e delle opinioni contrarie a quelle di chi detiene il potere».

Da oltre 60 anni la Corte contribuisce all’armonizzazione delle norme europee in materia di diritti e libertà. A che punto siamo?

«Con la Convenzione, settant’anni fa, e con la Corte, che come lei ricorda ha cominciato a lavorare più di sessant’anni fa, gli Stati europei hanno messo in piedi un cantiere che non dovrà necessariamente vedere la fine, giacché l’opera rimarrà incompiuta per definizione, dato che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è chiamata a confrontarsi con una società in continua evoluzione, che richiede quindi una lettura dei diritti convenzionali sempre al passo con i tempi. Parlo della dottrina dello “strumento vivente” che la Corte ha introdotto nel 1978, non senza contrasti, con la sentenza Tyrer c. Regno Unito. Detto questo, i progressi in materia di tutela di diritti umani compiuti grazie alla giurisprudenza della Corte sono immani. Il dovere degli Stati contraenti di riformare i loro ordinamenti giuridici nei casi in cui le sentenze della Corte ne rivelino la tensione con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ha condotto ad innumerevoli cambiamenti nella legislazione degli stessi Stati. Sarebbe impossibile anche tentare un elenco in questa risposta. Consiglierei a tutti coloro che siano curiosi di saperne di più di consultare il sito del Dipartimento del Consiglio d’Europa per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo».

Per quanto riguarda il nostro Paese?

«Per quanto riguarda l’Italia mi limiterei a ricordare tre casi: Torreggiani, del 2013, che ha dato luogo, tra l’altro, all’introduzione nel sistema italiano di ricorsi posti a disposizione di detenuti vittime di fenomeni di sovraffollamento carcerario, Cestaro, del 2015, relativo alle violenze poliziesche perpetrate durante il G8 di Genova del 2001, in seguito al quale il Parlamento italiano ha adottato, dopo una lunga attesa, la legge contro la tortura del quale il nostro Paese era sprovvisto e Oliari, sempre del 2015, sulle coppie omosessuali, che ha indotto il nostro Paese a dotarsi, finalmente, di un quadro giuridico per le unioni civili, la legge Cirinnà. Gli esempi potrebbero essere moltissimi, e dimostrano la vitalità del sistema e come gli Stati finiscano nella stragrande maggioranza dei casi per seguire le indicazioni della Corte, così realizzando un progresso effettivo nella tutela dei diritti umani».

Ma qualcuno non gradisce il lavoro della Corte.

«So bene che in certi ambienti europei vi è insofferenza verso quello che viene considerato “l’attivismo” della Corte di Strasburgo. Tentativi di limitare il raggio di azione della Corte vi sono stati in passato, finora senza successo, e non si può escludere che ve ne possano essere in futuro.  Dal mio punto di vista un ridimensionamento del sistema europeo di tutela dei diritti umani sarebbe pernicioso per il nostro continente. Sono, ancora una volta, ottimista. Il mio atteggiamento positivo deriva da una constatazione, quella della penetrazione dei valori convenzionali nella giurisprudenza dei giudici nazionali – veri protagonisti dell’applicazione della Convenzione – che li hanno ormai interiorizzati nelle loro coscienze, anche in Italia.  Certo, difficoltà di coordinamento e contrasti non mancano, ma resta irreversibile, credo, la scelta di far vivere la Convenzione negli ordinamenti interni, a tutela e garanzia dei diritti fondamentali di tutti noi».

Tempi lunghissimi e scarsa fiducia nei magistrati: la fotografia Ue della Giustizia italiana. Simona Musco su Il Dubbio il 12 luglio 2020. Nel 2018 ci sono voluti più di 1200 giorni per concludere un processo in via definitiva. Crolla la fiducia nelle toghe: il 55% ha un parere negativo. Cala la fiducia della cittadinanza nei confronti della magistratura, avvertita come sempre meno indipendente, mentre rimane alto il numero di giorni necessari per risolvere le controversie. È il quadro dipinto dalla Commissione europea nella valutazione della Giustizia per il 2020, che mette a confronto l’efficienza, la qualità e l’indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell’Ue. Se, da un lato, si registra un costante miglioramento dell’efficienza dei sistemi giudiziari in molti Stati membri, dall’altro secondo i risultati di un’indagine Eurobarometro, i cittadini hanno sempre meno fiducia nell’operato della magistratura, avvertita come sempre meno indipendente. «È incoraggiante constatare che in molti Stati membri i sistemi giudiziari funzionano meglio e che i cittadini europei possono chiedere efficacemente giustizia – ha sottolineato Věra Jourová, Vicepresidente per i Valori e la trasparenza -. Ciò che però mi preoccupa è il fatto che, in alcuni paesi, il livello d’indipendenza della magistratura percepito è molto basso e viene principalmente ricondotto alla pressione politica».

Il caso Italia. Stando ai dati pubblicati nel rapporto, il tempo necessario per la risoluzione dei casi civili e commerciali vede l’Italia al secondo posto, dopo la Grecia, per lunghezza delle controversie, con un notevole miglioramento rispetto al 2012, ma non quanto basta per rimanere negli standard previsti dall’Europa. Per arrivare ad una sentenza di primo grado servono, dunque, 525 giorni in media, con un miglioramento di circa 80 giorni rispetto al 2012, quando ne occorrevano circa 600. Una cifra pazzesca se si considera che il Paese più veloce, la Lituania, ci mette poco più di 50 giorni per una sentenza di primo grado. In Francia sono necessari circa 400 giorni, mentre in Germania poco più di 200.«Un sistema giudiziario efficiente gestisce il suo carico di lavoro e il suo arretrato di casi e formula giudizi senza indebito ritardo – si legge nel rapporto -. Guardando i dati disponibili dal 2012 in casi civili, commerciali e amministrativi, l’efficienza è migliorata o è rimasta stabile in 11 Stati membri, mentre è diminuita, sebbene spesso solo marginalmente, in 8 Stati membri. Si possono osservare sviluppi positivi nella maggior parte degli Stati membri che sono stati identificati nel contesto del semestre europeo per far fronte a sfide specifiche».

Ma l’Italia balza al primo posto quando si tratta di far arrivare i processi in Cassazione: per ottenere una sentenza definitiva, nel 2018, è stato necessario attendere anche 1200 giorni, ovvero tre anni e quasi quattro mesi, mentre ci sono voluti, invece, quasi mille giorni per una sentenza di secondo grado. Il paragone con la Francia è impietoso: oltralpe per concludere un processo in via definitiva ci vogliono meno di 350 giorni. Tale lentezza è dovuta, soprattutto, al numero di cause pendenti: in Italia se ne conta una ogni cento abitanti.

I costi della Giustizia. In Italia, la spesa della Giustizia è composta, in larghissima parte, da salari e stipendi di giudici e personale giudiziario, compresi i contributi sociali: si tratta di oltre il 60% della spesa. L’altra grossa fetta (circa il 25%) riguarda costi operativi per beni e servizi consumati dai tribunali, come affitto di immobili, uffici, materiali di consumo, energia e assistenza legale. Le spese fisse, come edifici e software per tribunali e altre spese, costituiscono circa il 5% della spesa. Secondo il rapporto, «risorse adeguate e personale qualificato sono necessari per il buon funzionamento del sistema giudiziario».

Indipendenza dei magistrati. In termini di percezione dell’indipendenza dei giudici, in Italia la situazione è disastrosa, con un netto calo, nel 2018, rispetto al 2017: solo poco più del 30% ha una grado di considerazione che va da abbastanza a molto alto, oltre il 40% ha un parere abbastanza negativo, il 15% molto negativo e il restante 15% non ha un’opinione in merito. L’Italia si trova così al terzultimo posto in termini di fiducia: peggio di noi solo la Slovacchia e la Croazia. Prima, invece, la Danimarca, sesta la Germania e undicesima la Francia. «L’indipendenza giudiziaria, che è parte integrante del compito decisionale giudiziario, è un requisito derivante dal principio di effettiva tutela giurisdizionale di cui all’articolo 19 Tue e dal diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un organo giurisdizionale sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (articolo 47) – si legge nel documento -. Il quadro di valutazione Ue 2020 della Giustizia mostra indicatori aggiornati in relazione all’indipendenza percepita di tribunali e giudici, le garanzie legali sui procedimenti disciplinari riguardanti giudici, istruzioni ai pubblici ministeri in singoli casi e nomina dei membri dei consigli di magistratura e due nuove rassegne sui procedimenti disciplinari riguardanti i pubblici ministeri». Tra le principali ragioni di tale sfiducia, in Italia, spicca la pressione subita dalla politica (40% circa), quasi alla pari con pressioni economiche e altri interessi specifici, mentre poco sopra il 25% si piazzano lo status e la posizione dei giudici.

Troppi processi, pochi giudici, indipendenza toghe poco percepita. Il Corriere del Giorno. Presentato il rapporto sullo stato dei sistemi giudiziari Ue. La giustizia italiana demolita dall’Ue. Al nostro Paese il commissario Reynders riserva speciali raccomandazioni: “Oggi più che mai abbiamo bisogno di buone riforme”. Secondo le stime della Commissione Ue sono pochissime le persone che ritengono che l’indipendenza della magistratura italiana sia molto elevata. Una larga percentuale di cittadini italiani mostra scetticismo e diffidenza. In Italia ci sono troppe cause civili e commerciali pendenti, pochi giudici in proporzione agli abitanti. Una percezione dell’indipendenza della magistratura migliore solo di quella di Croazia e Slovenia. La giustizia italiana vista dalle stanze della Commissione europea, si presenta con qualche miglioramento rispetto agli anni scorsi, ma ancora tante cose da cambiare. “Abbiamo proposto al Consiglio di mandare delle particolari raccomandazioni a sette Paesi”, ha detto Didier Reynders, il commissario europeo alla Giustizia, presentando il rapporto annuale sullo stato dei sistemi giudiziari Ue. E tra questi Stati, forse non bocciati ma sicuramente rimandati, c’è l’Italia. “Rispetto al 2012 ci sono stati dei miglioramenti, ma i procedimenti restano ancora molto lunghi”, ha aggiunto Reynders. Infatti osservando i grafici presenti nelle 63 pagine del rapporto sulla giustizia, le sue affermazioni vengono confermati dai dati. Ed i numeri hanno sempre ragione. . Si stima, infatti, che per arrivare a una sentenza – in materia civile o commerciale – di primo grado ci vogliano poco più di 500 giorni. Un po’ meglio rispetto al 2012, quando si sfioravano i 600 giorni, ma comunque un tempo troppo lungo, specialmente se paragonato a quello degli altri Stati. Se poi si vuole arrivare in Cassazione, allora i tempi diventano biblici. Nessuno fa attendere un cittadino o un’impresa per una sentenza definitiva quanto l’Italia . Nel 2018 è stato sfondato il tetto dei 1200 giorni: 3 anni e quasi 4 mesi. Lecito chiedersi: perché tutta questa lentezza, questi ritardi ? Una delle cause è proprio nei numeri: i casi da risolvere sono troppi. Circa 4 ogni 100 abitanti. Meglio del 2012, quando erano quasi 6. Ma in ogni caso tanti, troppi soprattutto se si pensa che la Finlandia – che dalle tabelle sembra essere il Paese meno litigioso dell’Ue – rasenta lo zero e la Francia, che pure non è propriamente ai primi posti, non arriva a due. Se i processi sono troppi, i giudici sono pochi. Secondo i dati diffusi dal Consiglio Superiore della Magistratura, i magistrati italiani al 7 marzo 2017 erano 9408. Un numero non troppo differente da quella attuale. Ma troppo bassa secondo la Commissione Ue . Per prendere come termini di paragone dei Paesi vicini, l’Italia fa un po’ meglio di Francia e Spagna ma molto peggio della Germania, . Un numero ristretto di toghe, in proporzione agli abitanti, non aiuterà a velocizzare la giustizia civile, già travolta dai troppi fascicoli arretrati. Ma, secondo l’esecutivo della Comunità Europea, è arrivato il momento di un cambiamento necessario. Ma come si possono risolvere questi problemi? Il commissario europeo alla Giustizia Reynders non ha alcun dubbio in proposito: è necessario cambiare le leggi, e si raccomanda “Oggi più che mai abbiamo bisogno di buone riforme della giustizia. Servono ai cittadini e alle imprese, ma sono importanti anche per l’Unione europea”. C’è poi un altro aspetto rilevante e riguarda il modo in cui i cittadini giudicano la magistratura. Il potere giudiziario italiano, reduce dagli scandali nati dall’inchiesta di Perugia sul mercato delle nomine nelle procure, se la passa piuttosto male. Riesce a fare meglio solo di Slovenia e Croazia.  Secondo le stime della Commissione Ue sono pochissime le persone che ritengono che l’indipendenza della magistratura italiana sia molto elevata. Una larga percentuale di cittadini italiani mostra scetticismo e diffidenza. Infatti secondo i dati dell’Eurobarometro, molti cittadini credono che i giudici subiscano pressioni dal Governo o, comunque, dalla politica. Altri, ritengono invece che le interferenze provengono dal mondo dell’economia e dell’industria. 

Se per rendere più veloci i processi il ruolo più importante dovrà giocarlo il legislatore, ai magistrati spetterà di dimostrare nella nuova fase annunciata e promessa dopo gli scandali del 2019 e il loro lunghissimo strascico che continua ancora, che la percezione dei cittadini non corrisponde al vero. 

Lenta, diseguale e obsoleta. Ecco la giustizia italiana secondo il Cnr. Il Dubbio il 4 giugno 2020. I costi per la giustizia penale variano da un minimo di 290 euro a un massimo di circa 2.000. E un procedimento civile dura in media 250 giorni nel tribunale più veloce e 2.200 giorni circa nel più lento. L’efficienza e l’efficacia della giustizia sono due sfide che il Paese da anni deve affrontare per rimuovere i fattori che ostacolano lo sviluppo economico e il perseguimento della giustizia sociale. Nei prossimi mesi, a causa della pandemia da Covid-19, le criticità sociali ed economiche si acuiranno, incrementando il contenzioso in materia commerciale, di lavoro e di famiglia. Allo stesso tempo, è difficile ritenere che le risorse per la giustizia possano aumentare, per cui si dovranno individuare altri approcci per migliorare efficacia ed efficienza. Una ricerca svolta dall’Istituto di informatica giuridica e sistemi giudiziari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-Igsg) ha stimato per tutti i tribunali italiani il costo medio per procedimento civile e penale (efficienza) e lo ha rapportato ai tempi di definizione delle cause (efficacia), dimostrando che “ci sono significative disparità e ampi margini di miglioramento”, in entrambi i termini. Si tratta del primo studio di questo tipo condotto nel nostro paese e rappresenta un nuovo punto di partenza per capire come utilizzare al meglio le risorse a disposizione. I dati sono stati pubblicati su “Questione giustizia”, affiancati a un cruscotto interattivo che permette a tutti i lettori di visualizzare e comparare costi e tempi medi di definizione per ciascun ufficio italiano. “Dalla ricerca emerge un quadro estremamente disomogeneo, con costi medi per causa definita che variano, a seconda del tribunale, da un minimo di 290 euro ad un massimo di circa 2.000 euro per i procedimenti penali, e dai 180 ai 620 euro per i procedimenti civili. Anche i tempi medi di definizione, come noto, presentano una grande variabilità: un procedimento civile dura in media 250 giorni nel tribunale più veloce e 2.200 giorni circa nel più lento, mentre un procedimento penale dura in media dai 120 ai 1.500 giorni. È quindi evidente che i livelli di efficienza ed efficacia sono molto diversi, differenziando sostanzialmente il servizio offerto a seconda del territorio”, dice Francesco Contini, ricercatore del CNR-Igsg e coautore dello studio. I dati mostrano da un lato un problema di allocazione delle risorse, ma dall’altro ampi margini di miglioramento che potrebbero rendere il sistema piu’ economico ed equo. “Sia sull’efficienza sia sull’efficacia, alcuni tribunali ottengono performance che, se fossero raggiunte da un maggior numero di uffici, permetterebbero una radicale riduzione dei tempi della giustizia nella definizione delle cause a parità di spesa, con una maggiore omogeneità a livello nazionale”, prosegue Contini. “Queste differenze possono essere in parte spiegate dalla diversa complessità delle cause da trattare, ma vi sono differenze tra tribunali di dimensioni analoghe e posti in territori simili che sottolineano l’importanza della diversa organizzazione degli uffici”. Aggiunge Federica Viapiana, coautrice dello studio: “Gli strumenti per affrontare queste differenze non mancano. Un primo passo dovrebbe essere il superamento della logica delle piante organiche, obsoleta, poco trasparente, poco flessibile e inadeguata a rispondere prontamente a situazioni impreviste ed emergenziali, come nel caso della recente pandemia. A questo proposito, diversi paesi europei adottano sistemi di finanziamento dei tribunali basati sui costi standard che permettono un’allocazione più equa delle risorse a disposizione – ogni ufficio viene finanziato considerando il tipo e il numero di cause che deve definire – e che quindi incentivano tutti gli operatori a rendere piu’ efficiente ed efficace la trattazione delle cause”.

Il processo penale non può essere strumento di controllo sociale. Vincenzo Comi, Antonio Mazzone de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. Distinzione tra estinzione del reato ed estinzione del processo penale, introduzione dei termini di fase che ne impediscano l’irragionevole durata, previsione di cause di sospensione dei termini di fase sul modello di quanto previsto per i termini di custodia cautelare: questa la soluzione più equilibrata e costituzionalmente più adeguata che da anni viene prospettata. Il dibattito che si sta sviluppando su tale tema richiede, però, che ci si intenda sulla funzione del processo penale. In uno Stato di diritto e sociale il processo penale non può essere strumento di controllo sociale. Ciò vale anche con riferimento alle misure cautelari, laddove l’eventuale abbassamento del quantum probatorio richiesto per la loro emissione inevitabilmente comporterebbe un’estensione della loro applicazione, con conseguente aumento del numero delle persone sottoposte a restrizioni. Una tale scelta, però, contrasterebbe non soltanto con esigenze di garanzia e di rispetto della persona, ma anche con esigenze di efficacia, non essendo interesse della collettività ed essendo del tutto disfunzionale che sia sottoposto a misure cautelari chi non è responsabile di un reato (magari al posto di chi lo sia effettivamente). È, quindi, interesse della collettività che, nel momento in cui una misura cautelare venga emessa, le probabilità che sia stata emessa nella giusta direzione siano alte. In uno Stato di diritto e sociale il processo penale non può assumere caratterizzazione politica, non può essere strumento politico. Il processo deve avere soltanto il fine dell’accertamento della verità nel rispetto dei diritti della persona: questa, e soltanto questa, deve essere l’ideologia che motiva le riforme dello stesso. Da ciò deriva che il dibattito sulle riforme del processo penale deve riguardare soltanto scelte tecniche e non politiche. Nel momento in cui su tale tema si prospetti la possibilità di crisi politiche ciò starebbe a significare che il processo penale ha assunto una non condivisibile funzione politica. Che sarebbe conseguenza della trasformazione del ruolo del diritto penale negli ultimi trent’anni. Fino al 1990 il diritto penale ha riguardato, soprattutto, fasce socialmente deboli; ha riguardato, in particolare, condotte devianti espressione di una tipologia d’autore propria di settori socialmente ed economicamente svantaggiati. Dai primi anni 90 i settori che hanno acquisito maggiore rilevanza all’interno del diritto penale sono divenuti quelli del diritto penale della pubblica amministrazione e del diritto penale dell’economia, attinenti, rispettivamente, alla criminalità amministrativa e a quella economica. Cosicché il baricentro del diritto penale si è spostato sulle fasce sociali ed economiche dirigenti e sui settori amministrativi ed economici. Il processo penale, che è lo strumento di attuazione del diritto penale, andando a riguardare l’accertamento di stravolgimenti funzionali di attività amministrative e di quelle economiche attinenti a settori di vertice della società inevitabilmente è esposto al rischio di assumere una connotazione politica. L’impegno, oggi, deve essere quello di ricercare soluzioni tecniche che consentano al processo di svolgere efficacemente la sua funzione anche in relazione alla criminalità amministrativa ed a quella economica, eliminando, però, ogni rischio di una sua possibile caratterizzazione politica. In termini più incisivi può dirsi che la tutela dell’assetto costituzionale passa, anche, dal respingere ogni ipotesi di riforma del processo penale che possa consentire una sua illegittima utilizzazione come strumento per il conseguimento di finalità incompatibili con quelle di uno Stato di diritto e sociale.

La furia di Salvi contro il “mercimonio” operato da alcuni magistrati. Il Pg di Cassazione contro le toghe coinvolte nello scandalo nomine. Il Dubbio il 31 gennaio 2020. “Il danno che il mercimonio della funzione determina all’amministrazione della giustizia è incalcolabile”. Sono le parole del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, nel suo intervento all’anno giudiziario. “Abbiamo dovuto assistere, anche in questi giorni, a farti di particolare gravità che hanno portato all’adozione, nel processo penale, delle più rigorose misure cautelari nei confronti di magistrati – ha sottolineato -. Queste condotte devono trovare adeguata sanzione anche disciplinare”.

RISPETTARE LE SENTENZE. “Grandi progressi sono stati fatti in direzione della tutela delle vittime. Questa tutela non può però legittimare aggressioni verbali, quando non anche fisiche, nei confronti dei giudici, allorché questi emettono decisioni che non si approvano. Tutti, anche le vittime e i loro familiari, hanno il dovere di rispettare le decisioni del giudice e i magistrati che le emettono. La critica, anche severa, non deve mai trascendere nel dileggio, nella delegittimazione e nell’insulto”. Ha detto il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi . “Purtroppo la diffusione di questo pessimo costume, cui siamo costretti ad assistere ogni giorno dai nostri schermi televisivi, è frutto anche del mancato rispetto delle decisioni dei giudici da parte proprio di coloro che dovrebbero dare l’esempio, per il ruolo istituzionale rivestito” ha aggiunto.

Anche la Cassazione silura la riforma "grillina" sulla prescrizione. Il Corriere del Giorno il 31 Gennaio 2020. Forte anche il richiamo all’autonomia e alla indipendenza della magistratura, nelle parole importanti pronunciate dal Vicepresidente del CSM Ermini, impegnato a ridare quella piena credibilità all’organo di autogoverno. Secondo il Primo Presidente della Cassazione c’è il rischio di un “significativo incremento del carico penale (vicino sostanzialmente al 50%) che difficilmente potrebbe essere trattato a causa del venir meno delle prescrizioni che maturano in appello, circa 20-25mila processi l’anno. L’ “allarme prescrizione” è arrivato oggi inaspettatamente dal Primo Presidente della Cassazione Giovanni Mammone che ha spiegato che  senza correttivi si rischia un vero e proprio caos giudiziario,  in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario  svoltosi nell’Aula magna del “Palazzaccio”, alla presenza del  Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del presidente del Senato Elisabetta Casellati e del premier Giuseppe Conte e delle più alte cariche dello Stato. Secondo il Primo Presidente della Cassazione c’è il rischio di un “significativo incremento del carico penale (vicino sostanzialmente al 50%) che difficilmente potrebbe essere trattato a causa del venir meno delle prescrizioni che maturano in appello, circa 20-25mila processi l’anno. Ne deriverebbe un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato” aggiungendo che “risulta pertanto necessario porre allo studio e attuare le più opportune soluzioni normative, strutturali e organizzative tali da scongiurare la prevedibile crisi”. Il Presidente della Cassazione Mammone ha spiegato che  “è necessario che le concrete misure acceleratorie vengano adottate non solo nella parte del processo successiva al primo grado, ora non più coperta dalla prescrizione, ma anche in quella anteriore, soprattutto nelle fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi e la maturazione della prescrizione“, concludendo che “Il blocco della prescrizione prolungherà la durata dei processi; le vittime del reato vedrebbero prolungarsi i tempi di risposta della giustizia e del risarcimento del danno patito: è dunque auspicabile che intervengano concrete misure legislative  per accelerare il processo, la cui stessa conformazione dilata oltremodo i tempi“. Nella relazione di Mammone messo in evidenza il valzer delle cifre del pianeta giustizia, sempre in sofferenza nel nostro Paese, in cui pendono oltre 3 milioni e 312mila cause civili pendenti, con durata dei processi non adeguata ai parametri della Corte europea ed “alle attese del mondo economico”. Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi nel corso del suo intervento ha detto che “L’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata una importante occasione per ribadire alcune emergenze, a partire dalla necessità di un impegno senza quartiere per contrastare corruzione, mafie e la loro penetrazione nell’economia legale” .  L’allarme del procuratore generale della Corte di Cassazione sulle politiche dell’immigrazione è chiaro e diretto: “Mentre da anni sono chiusi i canali di ingresso legali e ormai non viene nemmeno più redatto nei tempi prescritti il decreto flussi, la cessazione dell’accoglienza e delle politiche di inserimento creeranno tra breve un’ulteriore massa di persone poste ai margini della società, rese cioè clandestine. Ciò deve essere evitato per molte ragioni, ma per una sopra ogni altra: rendere il nostro Paese ancora più sicuro”. “Affidare esclusivamente al diritto penale i valori della società reca rischi preoccupanti”, ha aggiunto Salvi: dalle sentenze si esigerebbe  che “veicolino contenuti ritenuti “giusti”» perché ricavati dalla discussione mediatica e si rischia di  spostare le politiche» ai “soli risvolti punitivi”. «La tentazione del governo della paura ha riflessi anche sul pm, e dal desiderio di  rassicurazione sociale  a  proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, il passo non è poi troppo lungo“. Sul problema della prescrizione che  da settimane divide e contrappone persino gli stessi partiti della maggioranza, il procuratore generale Salvi ha ricordato che si tratta di “un istituto di garanzia correlato all’inerzia dei pubblici poteri e alle loro inefficienze, a presidio del diritto all’oblio, che tuttavia non è assoluto e non è senza bilanciamenti”. Bisogna quindi “operare per respingere gli effetti negativi di una prescrizione che giunge mentre è intenso lo sforzo di accertamento della responsabilità, preservando al contempo il valore di garanzia dell’istituto”. Sui doveri del magistrato, di cui il Procuratore Generale della Cassazione è una sentinella in quanto titolare  insieme al ministro della Giustizia dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe, la relazione di Salvi ha affrontato un altro argomento di grande attualità: la comunicazione dell’attività giudiziaria da parte dei capi degli uffici, e in particolare dei procuratori. I quali danno notizia di arresti e indagini in una fase preliminare del procedimento, cioè “quando ancora il contraddittorio non è pieno e un ruolo dominante è svolto necessariamente dal pubblico ministero” . Un’informazione inevitabilmente di parte, un tema che anche di recente ha suscitato dibattiti e polemiche, e Salvi non si sottrae richiamando i pm al principio secondo cui “l’informazione non è resa nell’interesse del magistrato o della Procura; è un dovere di ufficio e il pm deve attenersi ai doveri di riservatezza e correttezza, come manifestazione e riflesso della imparzialità e della indipendenza“. Ne consegue  che l’utilizzo di  “toni enfatici, tali da generare nell’opinione pubblica la convinzione della definitività dell’accertamento, sono professionalmente inadeguati e lesivi dei diritti degli indagati. La semplificazione della comunicazione rischia di generare il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. E questo sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero”. L’intervento del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi non ha risparmiato la crisi che l’estate scorsa ha travolto il Consiglio Superiore della Magistratura , con il “caso Palamara” che ha portato alla sostituzione del Pg della Cassazione, di cui lui ha preso il posto, ed alle   dimissioni di cinque consiglieri . Salvi ha ricordato le azioni disciplinari avviate, ma sostiene che “limitare la risposta istituzionale alle sole sanzioni amministrative, sarebbe un segno di incomprensione  di quanto avvenuto” . “Il controllo disciplinare dell’attività dei magistrati, sia nell’ambito del loro lavoro che fuori, è fondamentale per contribuire Allo svolgimento corretto della funzione giudiziaria” ha aggiunto il procuratore generale “Ma va esercitato con grande attenzione, perché in moltissimi casi le denunce disciplinari arrivano da privati che hanno il solo scopo di «punire il magistrato sgradito e magari liberarsene“. Si spiega così il dato statistico per cui  a fronte di 1.898 notizie di interesse disciplinare arrivate in Cassazione, che sono in costante aumento negli ultimi anni, sono stati 156 i procedimenti aperti nel 2019 , anche questi in aumento rispetto agli anni precedenti. La metà delle incolpazioni (per la precisione il 50,8 per cento) riguarda le violazioni del dovere di correttezza, il 37, 4 per cento della diligenza e l’11,8 per cento comportamenti al di fuori dell’attività giudiziaria. Forte anche il richiamo all’autonomia e alla indipendenza della magistratura, nelle parole importanti pronunciate dal Vicepresidente del CSM David Ermini, impegnato a ridare quella piena credibilità all’organo di autogoverno minata dalle vicende opache emerse qualche mese fa e da un deteriore correntismo, che impone anche nuovi meccanismi di elezione dei membri togati. “Serve prudenza  e sobrietà anche nell’uso dei social da parte delle toghe”, ha sostenuto Ermini che dopo la bufera dell’inchiesta di Perugia  ha chiesto loro “un comportamento esemplare e irreprensibile anche nella vita privata”. La relazione del Primo Presidente Mammone e l’intervento del Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Mascherin, hanno riproposto, tra l’altro, l’urgenza di una riforma del processo penale che garantisca davvero tempi certi e rapidi ai processi. Ma hanno chiaramente fatto emergere anche tutti i rischi insiti nella riforma Bonafede sulla prescrizione, che non è affatto quel fattore di civiltà di cui ha parlato il Ministro. “Per questo, per il Pd, è necessario al più presto portare in Consiglio dei Ministri la riforma del processo penale e insieme giungere come maggioranza  ad una modifica vera della legge sulla prescrizione, per giungere ad una sintesi che tenga conto delle ragioni serie di tutte le componenti” ha commentato il deputato Walter Verini, responsabile giustizia del Pd, presente oggi all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Suprema Corte di Cassazione. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione  ha detto : “È noto a tutti che esistono divergenze, soprattutto per quanto concerne il nuovo regime della prescrizione entrato in vigore dal primo gennaio che io considero, personalmente, una conquista di civiltà. Ciò premesso, è in atto un confronto serrato all’interno della maggioranza per superare le divergenze e consegnare ai cittadini un processo idoneo a rispondere alle loro istanze di giustizia, garantendo tempi certi ed eliminando ogni spazio di impunità” aggiungendo “Contemporaneamente ci stiamo confrontando su un progetto di riforma ordinamentale della magistratura che mira a rafforzarne l’autonomia e l’indipendenza incidendo, da un lato sulla recisione di ogni possibile commistione con la politica; dall’altro lato sulla necessaria eliminazione delle cosiddette degenerazioni del correntismo“.

L’allarme del Pg della Cassazione sui decreti sicurezza: «Attenti agli effetti criminogeni». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. L’allarme del procuratore generale della Corte di cassazione sulle politiche dell’immigrazione è chiaro e diretto: «Mentre da anni sono chiusi i canali di ingresso legali e ormai non viene nemmeno più redatto nei tempi prescritti il decreto flussi, la cessazione dell’accoglienza e delle politiche di inserimento creeranno tra breve un’ulteriore massa di persone poste ai margini della società, rese cioè clandestine. Ciò deve essere evitato per molte ragioni, ma per una sopra ogni altra: rendere il nostro Paese ancora più sicuro». Secondo Giovanni Salvi, che nella nuova veste di capo della magistratura inquirente partecipa per la prima volta con la sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario, «se di sicurezza si parla, è bene che sia valutato l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale nel Paese e per l’inserimento sociale pieno di coloro che vi si trovano». Il riferimento è ai cosiddetti «decreti sicurezza» varati dal precedente governo quando ministro dell’Interno era Matteo Salvini, al quale il pg della Cassazione dedica alcune considerazioni solo sul piano tecnico. «Le scelte sulle politiche migratorie e di ingresso nel territorio dello Stato competono al legislatore e al governo», precisa infatti Salvi, che subito dopo però precisa: «Purché nel quadro di compatibilità con le norme costituzionali e pattizie, prima fra tutte l’obbligo che il nostro Paese ha assunto per la protezione internazionale di coloro che ne hanno potenzialmente diritto». È un richiamo analogo a quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando firmò i provvedimenti, e che il nuovo governo ha ripetutamente annunciato di voler rispettare modificando alcune parte dei decreti Salvini. Finora però non s’è vista alcuna riforma, e ora le parole dell’alto magistrato rendono più urgenti le indicazioni giunte del Quirinale. Sul problema della prescrizione che da settimane divide i partiti della maggioranza, Salvi ricorda che si tratta di «un istituto di garanzia correlato all’inerzia dei pubblici poteri e alle loro inefficienze, a presidio del diritto all’oblio», che tuttavia «non è assoluto e non è senza bilanciamenti». Bisogna dunque «operare per respingere gli effetti negativi di una prescrizione che giunge mentre è intenso lo sforzo di accertamento della responsabilità, preservando al contempo il valore di garanzia dell’istituto». L’altro magistrato non entra nel merito della cosiddetta «riforma Bonafede», ma sembra spezzare una lancia a favore del «lodo Conte» quando dice che c’è «un punto critico» nella «parificazione della sentenza di condanna a quella di assoluzione». I partiti di governo stanno lavorando a una distinzione tra le due situazioni (prescrizione che s’ interrompe solo dopo il verdetto di colpevolezza), ferma restando, «a parere della Procura generale, la necessità di individuare comunque un punto finale, cui consegua la statuizione definitiva sulla prescrizione». No al processo senza fine, insomma, «e ciò anche a tutela della persona offesa». Sul tema è intervenuto anche il primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone: «Si prospetta un incremento del carico di lavoro della Corte di cassazione di circa 20.000-25.000 processi per anno. Ne deriverebbe un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato». E ancora: «Il blocco della prescrizione prolungherà la durata dei processi; le vittime del reato vedrebbero prolungarsi i tempi di risposta della giustizia e del risarcimento del danno patito: è dunque auspicabile che intervengano concrete misure legislative» per «accelerare il processo», la cui stessa conformazione «dilata oltremodo i tempi». Una migliore e più corretta analisi dei dati statistici consente al pg della Cassazione di smentire l’affermazione secondo cui la gran parte delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari; nella realtà l’imbuto nel quale evaporano molti reati è nella fase d’attesa tra la chiusura delle indagini e la fissazione delle udienze per i processi di primo grado, a inchiesta ampiamente conclusa. Un altro dato che non corrisponde al vero, sebbene sia diventato quasi un luogo comune nel dibattito politico e intorno ai temi della giustizia, è che la metà dei processi avviati finisce con sentenze di assoluzione. Ne discende un giudizio severo sull’attività delle Procure, che la relazione di Salvi smentisce interpretando meglio i numeri. Nel 50 per cento di «assoluzioni» vengono infatti incluse le dichiarazioni di prescrizione, le remissioni di querela, le depenalizzazioni del reato, le morti del reo, la minima rilevanza del fatto e altri esiti «che non possono essere considerati smentite dell’ipotesi accusatoria, e dunque non sono il risultato di un cattivo esercizio dell’azione penale». Sottratte queste cause di «non doversi procedere», le assoluzioni nel merito si riducono a circa il 21 per cento, quota che può considerarsi fisiologica. Stesso discorso per le sentenze riformate in appello: oltre il 70 per cento non si tramutano in assoluzioni, bensì in estinzione del reato per prescrizione o altre cause. Le statistiche sull’andamento della criminalità, sottolinea Salvi, «indicano una tendenza molto positiva, e rafforzano la discrasia tra la sicurezza effettiva, almeno per ciò che concerne i profili derivanti dalla criminalità, e quella percepita. Tuttavia, anche la insicurezza solo percepita non è da trascurare o da guardare con spocchia». Nell’analisi del pg, «la discrasia è frutto di molti padri, innanzitutto la convinzione che il ‘mercato della paura’ sia un buon affare politico. Ma vi sono anche aspetti reali, che non si devono sottovalutare: dalla sostanziale carenza di effettività della risposta alla domanda di giustizia quotidiana, alla inesistenza di politiche di integrazione dello straniero, la cui mancanza è particolarmente avvertita nelle aree degradate». In ogni caso il numero degli omicidi è «drasticamente calato», attestandosi a 297 nel 2019 (furono 1.916 nel 1991), con un rapporto rispetto alla popolazione «inferiore alla media europea e tra i più bassi al mondo». In questo quadro, però, «è ancora più drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur se anch’essi in diminuzione, gli omicidi in danno di donne, consumati nel contesto di relazioni affettive o domestiche, i cosiddetti “femminicidi”. Le donne uccise sono state 131 nel 2017, 135 nel 2018 e 103 nel 2019. Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi in danno di uomini, in maniera davvero impressionante; le violenze in danno di donne e di minori diminuiscono in numero, ma restano una emergenza nazionale». La diminuzione dei delitti e del crimine violento è dovuta al «contrasto efficace» delle forze di polizia e degli inquirenti, che ha dato i suoi effetti anche rispetto al fenomeno mafioso. Se infatti le organizzazioni criminali hanno scelto la strategia della «sommersione», evitando per quanto possibile omicidi e reati eclatanti, ciò è dovuto alla risposta «vincente» fornita da investigatori e magistratura, «e più in generale della risposta ferma della società civile». Sempre in tema di contrasto alla mafia, che «dunque non è invincibile», Salvi ricorda l’importanza della sentenza della Corte costituzionale sul cosiddetto «ergastolo ostativo». Sgombrando definitivamente il campo dagli allarmi abbastanza ingiustificati che s’erano levati all’indomani della pronuncia, il pg ricorda che la Consulta «ha riportato a sistematicità e coerenza costituzionale un istituto che in origine non era volto a punire più gravemente, e nella fase esecutiva, ma a prevenire ulteriori condotte illecite». Sui doveri del magistrato, di cui il pg della Cassazione è una sentinella in quanto titolare (insieme al ministro della Giustizia) dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe, la relazione di Salvi affronta un altro punto di grande attualità: la comunicazione dell’attività giudiziaria da parte dei capi degli uffici, e in particolare dei procuratori. I quali danno notizia di arresti e indagini in una fase preliminare del procedimento, «quando ancora il contraddittorio non è pieno e un ruolo dominante è svolto necessariamente dal pubblico ministero». Informazione inevitabilmente di parte, quindi. È un tema che anche di recente ha suscitato dibattiti e polemiche, e Salvi non si sottrae richiamando i pm al principio secondo cui «l’informazione non è resa nell’interesse del magistrato o della Procura; è un dovere di ufficio e il pm deve attenersi ai doveri di riservatezza e correttezza, come manifestazione e riflesso della imparzialità e della indipendenza». Ne consegue – e in questo passaggio si possono leggere riferimenti a casi recenti – che «toni enfatici, tali da generare nell’opinione pubblica la convinzione della definitività dell’accertamento, sono professionalmente inadeguati e lesivi dei diritti degli indagati. La semplificazione della comunicazione rischia di generare il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. E questo sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero». L’intervento di Salvi non risparmia la crisi che ha investito il Consiglio superiore della magistratura l’estate scorsa, che con il «caso Palamara» ha portato alle dimissioni di cinque consiglieri e alla sostituzione del pg della Cassazione, di cui lui ha preso il posto. Ricorda le azioni disciplinari avviate, ma sostiene che «sarebbe segno di incomprensione» di quanto avvenuto limitare la risposta istituzionale alle sole sanzioni amministrative. Tuttavia proprio il controllo disciplinare dell’attività dei magistrati, sia nell’ambito del loro lavoro che fuori, è «fondamentale per contribuire Allo svolgimento corretto della funzione giudiziaria». Ma va esercitato con grande attenzione, perché in moltissimi casi le denunce disciplinari arrivano da privati che hanno il solo scopo di «punire il magistrato sgradito e magari liberarsene». Ecco così spiegato il dato statistico per cui nel 2019, a fronte di 1.898 notizie di interesse disciplinare arrivate in Cassazione (in costante aumento negli ultimi anni), i procedimenti aperti sono stati solo 156 (anche questi in aumento rispetto agli anni precedenti). La metà delle incolpazioni (50,8 per cento) riguarda le violazioni del dovere di correttezza, il 37, 4 per cento della diligenza e l’11,8 per cento comportamenti al di fuori dell’attività giudiziaria.

Prescrizione e giustizia show sono “una boiata pazzesca”: due magistrati contro il partito dei Pm. Piero Sansonetti il 1 Febbraio 2020 su Il Riformista. I l primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, diciamo pure il capo della magistratura, nel suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario ha spiegato che la riforma della prescrizione – per usare un linguaggio caro a Paolo Villaggio – è una boiata pazzesca. Danneggerà il funzionamento della giustizia al solo scopo di ledere i diritti degli imputati e di incattivire i rapporti tra magistratura e avvocatura. Capolavoro. Chi l’ha pensato questo capolavoro? Chi intende ancora difenderlo? Il Procuratore generale della Cassazione, invece, cioè Giovanni Salvi, ha demolito la giustizia spettacolo, la subalternità degli inquirenti alle pressioni mediatiche, i decreti sicurezza del governo, la politica xenofoba sull’immigrazione, il panpenalismo, i magistrati che fanno retorica “eroista” e narcisista, la paura come strumento di governo, l’idea che la punizione sia la salvezza di una società… e anche altre cose. Diciamo che mettendo insieme i due discorsi si può giungere a questa conclusione (stavolta sostituendo Paolo Villaggio con Gino Bartali): l’è tutto da rifare. Forse è sbagliato scherzare. Senza forse. L’apertura dell’anno giudiziario, dopo le polemiche molto aspre dei giorni scorsi, soprattutto tra avvocati e partito dei Pm, ha portato delle novità importanti e spinge ad alcune riflessioni. La novità fondamentale è questa: esiste una parte della magistratura capace di discutere di giustizia e di giurisdizione senza immaginare che la giustizia e la giurisdizione possano essere identificate con la magistratura stessa, con le sue aspirazioni etiche, con i suoi interessi materiali. È importante che esista questa anima democratica della magistratura, che ieri si è espressa a una notevole altezza culturale. In netto ed evidentissimo contrasto con la modestia culturale che nei giorni scorsi aveva caratterizzato le polemiche del partito dei Pm e del suo giornale. Ed è anche molto importante che questa parte della magistratura abbia rappresentanti ai vertici. Il Presidente della Cassazione e il Procuratore generale sono persone di grande prestigio e hanno un ruolo di enorme peso sulla vita della giustizia. Poi però c’è l’altra faccia della medaglia. La riflessione numero due: come è possibile che queste preoccupazioni così forti da parte dei vertici della magistratura non abbiano nei giorni scorsi trovato nessuna espressione, a nessun livello, nel corpo grande e vasto della stessa magistratura? Come si può immaginare che la magistratura italiana abbia dei vertici molto illuminati, ma poi si raccolga tutta compatta, senza dissensi, senza fiati di critica, attorno al partito dei Pm, che è controllato in modo quasi militare dalle correnti, dai loro equilibri, e dal carisma di magistrati come Gratteri, o Davigo, o dai vertici dell’Anm, o anche da personaggi esterni, ma molto potenti, come per esempio il ministro Bonafede o il capo dei 5Stelle e cioè Marco Travaglio? Non è una domanda “politologica”. È politica. Riguarda i rapporti di forza tra i sostenitori dello Stato di diritto e il partito dei populisti e dei Pm. È paradossale che il governo – guidato dai 5 Stelle – imponga al Parlamento la fine della prescrizione e la proclamazione del processo eterno (e del diritto dei magistrati di dominare gli imputati senza limiti di tempo) per fare piacere ai magistrati, e che poi, alla prima cerimonia ufficiale, i vertici della magistratura spieghino che quella riforma è una vera e propria stupidaggine che creerà danni seri alla giustizia e limiterà i diritti costituzionali degli imputati. C’è qualcosa che non funziona, no? Scusate se lo dico in modo così brutale: secondo me quello che non funziona è la negazione di un fatto innegabilmente avvenuto in questi anni: un settore eversivo e autoritario della magistratura, di ispirazione fortissimamente reazionaria e giustizialista, è riuscito a creare una struttura politica – parallela ma al tempo stessa interna al Parlamento e alla stessa magistratura – capace di esprimere un potere formidabile, di condizionare i partiti, le leggi, le norme, le politiche, e anche le reti di potere nell’Ordine giudiziario. È una struttura vera e propria, che naturalmente passa dentro l’Anm e i partiti politici, si esprime attraverso i gruppi parlamentari dei 5 Stelle, trova una forza immensa nelle ampie capacità di controllo sulla stampa e sulla Tv, controllo che avviene attraverso lo strumento intimidatorio del Fatto Quotidiano ma che va molto oltre Il Fatto Quotidiano, e che comunque non trova nessun ostacolo serio, tranne alcuni piccoli quotidiani ( noi, il Foglio, Il Dubbio e quasi nient’altro) e qualche piccola stazione radio (Radio Radicale e basta). Sapete quando si parla, a vanvera, di P2, di P3, di P4 eccetera eccetera? Stupidaggini. Qui invece siamo effettivamente di fronte a una vera e propria struttura parallela e potentissima, in grado di condizionare e sottomettere il potere legittimo della democrazia. Raccontare queste cose vuol dire violare la correttezza politica? O l’omertà dovuta alla propria categoria? Vuol dire rompere i confini e i limiti della buona educazione? Non lo so. Forse. Però le cose stanno esattamente così. I discorsi di Mammone e di Salvi hanno riscaldato il cuore a quelli di noi, non molti, che credono allo Stato di diritto, e considerano il garantismo un gran valore della civiltà occidentale. Però sappiamo che non cambieranno molto le cose. Che il partito dei Pm comunque resta il partito politico più forte nel nostro Paese. e che sta assumendo connotati sempre di più reazionari ed estremisti. Ha un disegno di fondo, che è quello dell’accumulo del maggior potere possibile. E nella sua strategia di potere c’è la riduzione dei diritti della difesa, l’indebolimento del ruolo degli avvocati (che sono gli unici che si oppongono), il congelamento degli aspetti più moderni dello Stato di diritto. Il disegno di una società autoritaria costruita tutta attorno al valore del giudizio, della repressione e della pena. Grazie a Salvi, certo, e grazie a Mammone. E poi? O la politica si mette in moto e abbandona la sua tradizionale codardia, e organizza la resistenza, o i discorsi di Salvi e Mammone varranno un po’ meno di un’avemaria.

Prescrizione, la Cassazione boccia Bonafede: “25mila processi in più, andremo in crisi”. Redazione de Il Riformista il  31 Gennaio 2020. La riforma della prescrizione potrebbe creare “un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere trattato“. A lanciare l’allarme è il presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Secondo la suprema Corte “si prospetta un incremento del carico di lavoro della Cassazione di circa 20.000-25.000 processi per anno, corrispondente al quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado“. Un peso lavorativo che secondo Mammone avrà vari effetti, ancora di difficile definizione, con “le vittime del reato che vedrebbero inoltre prolungarsi i tempi della risposta di giustizia e del risarcimento del danno patito“. Pertanto, insiste il presidente, “risulta necessario porre allo studio e attuare le più opportune soluzioni normative, strutturali e organizzative tali da scongiurare la prevedibile crisi che ne deriverebbe al giudizio di legittimità” auspicando “che intervengano concrete misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi processuali”. LA RICHIESTA DI ‘CONTRAPPESI’ – Un giudizio che se non stronca la riforma, ne richiede con forza dei contrappesi, per evitare un collasso del sistema giustizia. Anche il procuratore generale del Palazzaccio, Giovanni Salvi, sottolinea: “Finché la prescrizione sarà, non un evento eccezionale causato dall’inerzia della giurisdizione, ma un obbiettivo da perseguire, nessun rito alternativo sarà appetibile“. Il Pg della Cassazione ribadisce che “la prescrizione è un istituto di garanzia correlato all’inerzia dei pubblici poteri e alle loro inefficienze, a presidio del diritto all’oblio. Questo diritto non è assoluto e non è senza bilanciamenti“. Dunque è “necessario operare per respingere gli effetti negativi di una prescrizione che giunge mentre è intenso lo sforzo di accertamento della responsabilità, preservando al contempo il valore di garanzia dell’istituto“.

BONAFEDE TIRA DRITTO – Nonostante gli alert lanciati dalla Corte il guardasigilli Alfonso Bonafede tira dritto: “È noto a tutti che esistono divergenze, soprattutto per quanto concerne il nuovo regime della Prescrizione entrato in vigore dal 1 gennaio 2020, che io considero, personalmente, una conquista di civiltà“. Sulla riforma, il ministro però non nega “un confronto serrato all’interno della maggioranza per superare le divergenze“, ma nello stesso tempo conferma la volontà e l’impegno affinché si arrivi a una efficiente riforma del processo penale che consegni “ai cittadini un processo idoneo a rispondere alle loro istanze di giustizia, garantendo tempi certi ed eliminando ogni spazio di impunità“.

LE REAZIONI POLITICHE – Una posizione che acuisce ancora di più le divergenze nel governo giallorosso con Andrea Marcucci (Pd) che invita Bonafede a riflettere “sull’allarme del presidente della Cassazione Mammone. Il blocco della Prescrizione potrebbe mandare in crisi intero sistema della giustizia. Occorre intervenire presto e bene“. “La riforma Bonafede è un obbrobrio giuridico che trasforma i cittadini in ostaggi a vita dei pubblici ministeri” tuona Mara Carfagna che annuncia: “Se non sarà il Parlamento ad abolirla, Voce Libera raccoglierà le firme per promuovere il referendum e cancellarla così una volta per tutte“. A farle eco Enrico Costa, collega di Forza Italia, che accusa il guardasigilli: “Ha sbandierato lo stop alla Prescrizione come una ‘conquista di civiltà”. Dichiarazioni che suonano come un pugno in faccia a quella parte della maggioranza che a quella riforma si è opposta ed ha chiesto che non entrasse in vigore o che venisse cambiata.

·         La "scena del crimine".

"Vi dico cosa succede (davvero) sulla "scena del crimine"". Chi arriva per primo sul luogo di un omicidio? E come si procede nelle indagini? Il racconto di un agente di pubblica sicurezza: "La realtà non è quella che si vede nei film". Francesca Bernasconi, Sabato 24/10/2020 su Il Giornale. Il nastro rosso e bianco recinta la stanza, mentre a terra i cartellini gialli numerati segnalano i reperti più interessanti ai fini delle indagini. Sul luogo, intanto, arrivano agenti della scientifica, medico legale e funzionari in borghese. È quello che siamo abituati a vedere sulla scena del crimine dei film. Ma nella realtà è davvero così? Chi interviene quando ci si trova di fronte a un caso di omicidio? A rispondere al Giornale.it è un agente di pubblica sicurezza - che preferisce mantenere l'anonimato - intervenuto spesso sulle scene del crimine e che rivela: "Non è come nei film".

Chi arriva per primo sulla scena di un crimine?

«I primi ad arrivare sul posto sono gli agenti di polizia della volante, la pattuglia che viene avvisata dalla centrale operativa dopo la chiamata di qualche cittadino che ha segnalato un crimine. Io ho lavorato sulle volanti per un periodo e sono intervenuto su diverse scene del crimine. Funziona così: se un cittadino sente o vede qualcosa di sospetto, come urla, boati o sangue, chiama il 113 descrivendo la situazione e la centrale invia la volante sul luogo.

Come procede la volante che arriva sul posto?

«Dipende dalla situazione. Se si deve intervenire in una casa e la porta è chiusa, può essere necessario anche l'intervento dei vigili del fuoco, che vengono avvisati direttamente dalla centrale e arrivano insieme a noi sul posto. Se invece si riesce a entrare sulla scena del crimine o se si tratta di un luogo all'aperto, non è necessario contattarli e gli agenti possono procedere alla bonifica, controllando che non siano presenti altre persone, oltre alle vittime».

Prendiamo il caso di un omicidio. Cosa fanno gli agenti?

«Una volta entrati, fanno una prima valutazione, per capire se la persona che si trovano di fronte è morta. In caso affermativo, bloccano eventuali soccorsi avvisati precedentemente, evitando di farli accedere alla scena del crimine. Bisogna anche cercare di capire se si tratta di un omicidio: per farlo vengono presi in considerazioni diversi elementi, come la posizione del corpo, la presenza di colpi da arma da fuoco o un'arma da taglio (se questa è conficcata nella schiena della vittima, difficilmente si esclude l'omicidio). Una volta appurato che c'è stato un omicidio, gli agenti "congelano" la scena, cinturando la zona per impedire l'accesso a tutti gli estranei: è fondamentale, infatti, inquinare il meno possibile la scena del crimine, per permettere alla scientifica di fare tutti i rilievi del caso. A quel punto, iniziamo a raccogliere più informazioni possibili, facendo da apripista ai colleghi della scientifica».

In che senso?

«Essendo i primi ad arrivare sul posto, gli agenti di pattuglia devono raccogliere tutte le informazioni possibili: per farlo, spesso ci si aiuta con i dispositivi elettronici, che permettono di riprendere la scena del crimine. Se ci si trova all'aperto, alcune tracce potrebbero anche svanire, soprattutto in caso di pioggia: per questo è molto importante riuscire a riprendere tutto, per fornire eventuale supporto alla scientifica. Solitamente, prima di entrare sulla scena di un crimine, gli agenti indossano calzari e guanti ma, in caso non sia stato possibile, la pattuglia descrive alla scientifica il percorso fatto in precedenza e, per evitare che le impronte vengano confuse con quelle dei possibili sospetti, quelle degli agenti possono venire registrate. Non lasciare ulteriori tracce è fondamentale per non inquinare la scena. Ti faccio un esempio: una volta, quando svolgevo servizio sulle volanti, un nostro informatore ci aveva segnalato la presenza di un cadavere in un capannone. Quando siamo arrivati sul posto, abbiamo indossato i calzari per non lasciare impronte e abbiamo fatto la bonifica, controllando che non ci fosse nessun altro oltre la vittima. Poi abbiamo "congelato" la scena senza toccare niente. La scientifica ci ha fatto i complimenti, perché eravamo stati molto attenti a non lasciare le nostre tracce e non abbiamo inquinato nulla».

Chi altro interviene sulla scena di un omicidio?

«Una volta arrivati sul posto, gli agenti della volante avvisano subito la centrale opertativa, che invia la volante coordinatrice, sulla quale lavora un sottoufficiale, l'unico che può autorizzare determinati atti. I due agenti aggiuntivi, inoltre, servono da supporto alla prima pattuglia intervenuta, sia per la cinturazione che per l'identificazione di eventuali testimoni e per la raccolta di sommarie informazioni. In seguito arrivano la scientifica e la squadra mobile perché, se l'individuazione del reo non è lampante, tutti i casi di omicidio passano sotto la gestione della sezione specifica della squadra mobile. Intanto la prima volante arrivata sulla scena del crimine chiama il magistrato di turno, a cui vengono riferite le prime sensazioni e valutazioni degli agenti: in quel momento, siamo i suoi occhi e quelli del nostro funzionario di turno, che interviene sul posto solamente se lo ritiene opportuno. L'arrivo del medico legale, avvisato dalla centrale operativa, è atteso da tutti, per avere subito qualche informazione in più sul posto (tempo del decesso, modalità...). È lui infatti che fa le prime valutazioni sul posto, constatando con certezza la morte della persona, in base alla temperatura corporea e ad altri elementi. Una volta effettuate le prime constatazioni sul corpo, viene autorizzata la rimozione del cadavere, che viene portato in obitorio. Lì viene successivamente svolta l'autopsia che, in caso di esami irripetibili, può richiedere la presenza della sezione omicidi. Solitamente si hanno i risultati in un paio di giorni, mentre la documentazione completa dell'esame può arrivare anche a distanza di 60 giorni. Nel frattempo a indagare è la squadra mobile: gli agenti delle volanti sono presenti solamente sulla scena del crimine, ma poi tutto passa nelle mani della squadra omicidi. Dopo il congelamento, però, la pattuglia arrivata sul luogo per prima, può svolgere azioni di supporto alla squadra mobile».

Per esempio?

«Per prima cosa, la squadra mobile rintraccia e sequestra tutti i dispositivi elettronici presenti sulla scena del crimine. Questi, infatti, possono contenere diverse informazioni, ricavate grazie al lavoro della scientifica, che provvederà a sbloccare i dispositivi su disposizione del magistrato e a verificarne i contenuti. Queste attività di sequestro possono essere svolte anche dagli agenti di pattuglia. Un altro compito della volante è controllare se siano presenti telecamere nella zona, che possono aver ripreso qualcosa di utile: se sono pubbliche ci si rivolge al Comune per avere i filmati, altrimenti ai privati».

A cosa bisogna fare particolare attenzione?

«Gli agenti che arrivano sul posto per primi devono prestare attenzione a tutto quello che vedono, per questo spesso si fanno aiutare anche dai dispositivi elettronici per registrare. Ma non solo. Fondamentale è anche cogliere gli odori e i profumi particolari. Una volta, per esempio, arrivati sulla luogo di un omicidio abbiamo sentito un odore molto forte di un dopobarba particolare, che ci ha permesso successivamente di collegare il figlio della vittima alla scena del crimine. È possibile anche che sulla scena del crimine si sentano odori di solventi (che indicano la volontà del reo di ripulire il luogo), gas o principi di incendi: spesso per permettere di lavorare in sicurezza, viene arieggiata la stanza e questi odori svaniscono. Per questo è molto importante prestarvi attenzione e annotarli. È fondamentale riportare in modo dettagliato tutto ciò che si osserva e che si sente: gli agenti di pattuglia, infatti, al termine del loro servizio, relazionano tutto nell'annotazione, che deve essere il più minuziosa e dettagliata possibile, per quanto riguarda le osservazioni relative all'intervento. I dettagli sono importanti. Una volta, per esempio, siamo intervenuti per un'aggressione: un uomo si era accasciato in strada, sanguinante. Al nostro arrivo abbiamo notato un potente odore di olio da frittura. In base ad altre informazioni forniteci dalla vittima siamo riusciti a risalire a un appartamento: all'interno il pavimento era ricoperto proprio di olio. Così siamo riusciti a scoprire che il proprietario dell'appartamento, oltre ad aver accoltellato l'uomo, gli aveva anche gettato addosso dell'olio bollente, vera causa della morte: l'olio aveva provocato l'ustione interna di tutte le vie aeree».

Spesso in televisione rappresentano il vostro lavoro. È davvero come siamo abituati a vedere nei film?

«In televisione si vede sempre il funzionario in borghese che arriva sul posto e risolve il caso, ma non è così: raramente va fisicamente sulla scena del crimine. Il primo lavoro viene svolto dagli agenti di pattuglia, poi intervengono gli altri colleghi, che svolgono le indagini. La realtà è lontana dai film».

·         Diritto e Giustizia. I tanti gradi di Giudizio e l’Istituto dell’Insabbiamento.

Promemoria:

Mod 21 Registro contenente notizia di Reato a persone note ...

Mod 21 Bis, IDEM ma presso il giudice di Pace...

Mod 44 Registro Denunce contro Ignoti...

Mod 45 Registro NON contenente notizia di Reato...

Mod 46 Registro Denuncia Anonima...

Indovinate: quale modello va per la maggiore?

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

"In Italia ci sono milioni di vittime della male giustizia". Silvio Berlusconi non poteva evitare di ricordarlo durante l’incontro con il club lombardo di Forza Silvio, riunito a Milano. "Siamo arrivati ad avere magistrati che con troppa leggerezza arrivano a togliere libertà a cittadini italiani - dice Berlusconi - e per questo nella riforma della giustizia che vogliamo realizzare dopo aver vinto le elezioni inseriremo anche l’istituto della cauzione, come accade in America, che sarà graduata a seconda delle possibilità economiche del singolo cittadino. In carcere si dovrebbe andare solo per reati di sangue". Sempre in tema di giustizia, il Cavaliere ha anticipato qualcosa dell’instant book che ha scritto in questi giorni e che verrà distribuito a tutti i club Forza Silvio d'Italia. "Nel libro - ha detto l’ex premier - spiego la magistratura con cui abbiamo a che fare. Che è incontrollata e incontrollabile. Non paga mai anche quando sbaglia. Sono impuniti, godono di un privilegio medioevale. Se ci sono 100 imputati in un processo di solito 50 sono giudicati colpevoli. Ma qual è il risultato se l'imputato è un giudice? la percentuale scende al 4-5%. Ci troviamo in una situazione molto lontana da quella di libertà in cui dovremmo vivere. Nessun italiano può essere sicuro, in queste condizioni dei propri diritti".

Giustizia penale. La notizia di reato tra qualificazione, iscrizione e controlli.  Rosa Volpe – Agostino De Caro.

Il titolo II del libro V del codice di procedura penale vigente è rubricato notizia di reato. Nel medesimo codice di rito della notizia di reato si legge in più articoli: 55, 330, 335, 347, 408. Anche nelle norme di attuazione (d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271), in più casi, ad essa si fa puntuale riferimento: artt. 108–bis, 109, 110–bis, 125. Tuttavia, nessuno degli articoli citati ne fornisce una definizione. Uno dei maggiori autori, Franco Cordero, definisce la notizia del reato “l’embrione dell’ipotetica domanda”. Non si è rinvenuta definizione più appropriata. La notizia di reato, infatti, non è altro che una informazione il cui scopo è quello di promuovere un accertamento giurisdizionale di carattere penale. Ciò è possibile ed avviene nel caso di commissione, anche ipotetica, di un fatto costituente reato. La premessa svolta consente di pervenire ad una nozione di notizia di reato semplice e nello stesso tempo ovvia: trattasi dell’informazione che perviene all’attenzione dell’organo giurisdizionale deputato all’esercizio dell’azione penale (pubblico ministero) di un fatto i cui connotati esteriori consentono di sussumerlo in una norma incriminatrice. In altri termini, quando il pubblico ministero riceve la comunicazione di un fatto che individua un comportamento in possibile violazione del codice penale o di altra norma penale, capace di dar luogo ad una imputazione, ossia alla contestazione di una ipotesi di reato, si è in presenza di una notizia di reato. Non è necessario che ne sia indicato l’autore (potendo la notizia riguardare autore ignoto), né, nel caso in cui lo stesso sia individuato, ciò è indice della sua automatica fondatezza: lo stabiliranno le indagini preliminari, il cui prodromo è costituito proprio dalla notizia di reato. La ricerca compiuta dei requisiti strutturali del reato spetta alle indagini preliminari. La nozione fornita del sintagma notizia di reato reclama qualche precisazione. È necessario, infatti, che sia individuata la fonte della notizia criminis. Anche un esposto anonimo pervenuto alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero potrebbe, in astratto, contenere la descrizione di un fatto perfettamente riconducibile alla violazione di una norma penale sostanziale, capace, pertanto, di far elevare una imputazione. In tal caso, tuttavia, non esiste notizia di reato: la denuncia o delazione anonima non è tale, poiché non è attribuibile ad alcuno, sicchè vi è incertezza della fonte della notizia di reato, manca la paternità. In tal senso il codice di rito, all’art. 333, comma 3, statuisce che delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso. Ciò è pienamente in linea con i principi costituzionali in tema di giurisdizione. L’art. 111 Cost., infatti, dispone che il processo è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova, ed esclude che la colpevolezza dell’imputato possa provarsi sulla scorta di dichiarazioni di chi, per libera scelta, si sottrae all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore: l’anonimo è per eccellenza colui che per libera scelta mostra di volersi sottrarre al contraddittorio. È, pertanto, notizia di reato quella che proviene da fonte qualificata: non è tale quella proveniente da fonte anonima o confidenziale (art. 203 c.p.p.).

2. Acquisita la notizia di reato, il pubblico ministero (il procuratore della Repubblica) deve provvedere alla sua iscrizione. L’art. 335, comma 1, c.p.p., infatti, fa obbligo al pubblico ministero di iscrivere immediatamente, nell’apposito registro, ogni notizia di reato che perviene alla sua cognizione, provvedendo contestualmente, o dal momento in cui risulta, ad iscrivere il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito. Una prima osservazione. La norma in questione implicitamente individua due registri delle notizie di reato: quello a carico di soggetti noti, identificati, a cui viene ricondotto già all’atto dell’iscrizione il fatto reato (cd. modello 21) e quello a carico di soggetti ignoti (cd. modello 44), cui si ricorre nella ipotesi in cui vi è notizia di reato ma non sono acquisiti elementi (almeno nella fase di acquisizione e ricezione della notizia) per ricondurla ad un ben individuato soggetto. Correlato all’art. 335, comma 1, cit., è l’art. 109, disp. att., c.p.p., che prescrive alla segreteria della procura della Repubblica di annotare sugli atti che possono contenere notizie di reato la data e l’ora in cui sono pervenuti in ufficio e li sottopone immediatamente al procuratore della Repubblica per l’eventuale iscrizione nel registro delle notizie di reato. La norma in questione parrebbe di mera sussidiarietà all’art. 335 cit. e limitata a dettagliare gli adempimenti richiesti alla segreteria della procura della Repubblica che si riceve un atto che può contenere notizia di reato. Ciò non è. La norma implica ben più ampie problematiche. Da essa si coglie, infatti, che spetta al procuratore della Repubblica verificare se un fatto che seppure qualificato, come può accadere, dalla polizia giudiziaria o altro soggetto trasmittente, quale notizia di reato, sia da ritenersi tale e, dunque, se ne debba operare la iscrizione nel registro di cui all’art. 335, comma 1, c.p.p. Non vi è, pertanto, alcun automatismo tra la ricezione di un atto denominato notizia di reato e iscrizione di esso nel registro delle notizie di reato. È evidente che la norma non si riferisce a quelle ipotesi in cui è facile ricondurre un determinato fatto giunto alla cognizione del pubblico ministero ad una norma incriminatrice: nella fisiologia del sistema il procuratore della Repubblica immediatamente ne ordinerà l’iscrizione nel registro delle notizie di reato. L’art. 109 disp. att. cit., laddove usa l’aggettivo “eventuale”, implica che vi siano degli atti, che potrebbero anche essere denominati notizie di reato ma che il procuratore della Repubblica può valutare di non iscrivere nel registro delle notizie di reato in quanto, a suo giudizio, non costituiscono notitia criminis. La questione è di estrema delicatezza ed è molto dibattuta in dottrina e giurisprudenza. Essa attiene alla tenuta del registro cd. modello 45, istituito presso tutte le procure della Repubblica, che non è disciplinato dal codice. La sua istituzione è avvenuta con d.m. 30 settembre 1989 (relativo alla istituzione dei registri in materia penale), ma il suo fondamento normativo e codicistico si rinviene proprio nell’art. 109 disp. att. cit. Secondo la circolare del Ministero della Giustizia (cd. circolare Vassalli) del 18 ottobre 1989, il registro modello 45 è destinato a contenere la registrazione di quegli atti “privi di rilevanza penale”. Una successiva circolare del Ministero della Giustizia del 20 luglio 1990 ha disposto che le informative non costituenti notizia di reato debbano essere iscritte nel registro mod. 45, in quanto atti privi di rilevanza penale, non suscettibili, pertanto, di dare corso alle indagini preliminari, ed aggiunge che tali modelli (cd. 45) non vanno trasmessi al giudice per le indagini preliminari per l’archiviazione, ma inviati direttamente all’archivio del pubblico ministero. Aggiunge la circolare che nel caso in cui il pubblico ministero ritenga che per la notizia iscritta a mod. 45 debba compiere atti di indagine, prima di disporne l’esecuzione deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato. Siffatta procedura in realtà non sempre viene osservata; del resto essa appare contraddittoria con le scelte inizialmente operate dal pubblico ministero con l’iscrizione del fatto a modello 45. Ed invero, tralasciando le notizie di chiara irrilevanza penale per le quali la iscrizione nel registro degli atti non costituenti notizia di reato avviene agevolmente, vi è una zona grigia, che spesso impone valutazioni non semplici. Qualche esempio. Capita sovente di esposti o denunce, anche di privati, ma non solo, che lamentano torti subiti da apparati che agiscono per la pubblica amministrazione. Talvolta si indica anche nominativamente il soggetto nei cui confronti le doglianze sono prospettate e, tuttavia, dall’atto non si colgono gli elementi, sia pure in via meramente astratta, per ritenere configurabile una ipotesi di reato e, dunque, poter apprezzare l’acquisizione di una notizia di reato. In tali casi il procuratore della Repubblica provvederà ad iscrivere la notizia a mod. 45. Tuttavia, il pubblico ministero sente il dovere di verificare la fondatezza delle doglianze e, soprattutto, se a fronte della non chiara esposizione dei fatti (magari avvenuta ad opera di privato privo di nozioni giuridiche e tecniche o da una polizia giudiziaria a cui, parimenti, non può essere richiesta una non facile preparazione in tema di astruse normative che regolano il funzionamento della pubblica amministrazione o materie similari) possano esservi elementi capaci di darne connotazione penalistica. Per la circolare ministeriale del 1990 prima citata, il pubblico ministero, in tali casi, prima di ogni iniziativa, dovrebbe operare una iscrizione a mod. 21 o mod. 44. Si richiede, pertanto, al p.m. di inventarsi una ipotesi di reato e, peraltro, di proporre al suo procuratore della Repubblica una iscrizione diversa da quella che quest’ultimo ha disposto qualche giorno prima. Tale procedura non è condivisibile. Se l’art. 330 del codice di rito conferisce al pubblico ministero il potere di prendere notizia di reato di propria iniziativa, appare corretto assumere che uno dei veicoli tramite i quali il p.m. può prendere notizia di reato è proprio attraverso indagini disposte nell’ambito di un fascicolo modello 45. È evidente che trattasi di attività preprocedimentali e, pertanto, il pubblico ministero non potrà dare corso ad atti invasivi, ma certamente potrà assumere quelle iniziative limitate alla verifica della sussistenza ed acquisizione di una notizia di reato (potrà, ad es., sentire l’esponente/denunciante, potrà acquisire atti). Solo nel momento in cui, operata tale verifica, verrà alla sua attenzione una notizia di reato (ossia la dinamica di un fatto in astratto sussumibile in una norma incriminatrice) scatterà l’obbligo della iscrizione secondo il dettato dell’art. 335 c.p.p.

3. Il tema in trattazione si ricollega a quello della mancata tempestiva iscrizione della notizia di reato. Sebbene privo di una effettiva sanzione in termini di nullità o inutilizzabilità degli atti compiuti in carenza della doverosa iscrizione, rientra nei doveri giuridici (oltre che deontologici) del pubblico ministero procedere alla pronta iscrizione della notizia di reato e del soggetto a cui viene ascritta, in ossequio al disposto, oltre che dell’art. 335 c.p.p., anche dell’art. 124 c.p.p., che prescrive l’obbligo dell’osservanza delle norme del codice di procedura anche quando “l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale”. La problematica di maggiore interesse che si pone nell’affrontare il tema è soprattutto quella della mancata o tardiva iscrizione del nome dell’indagato nell’apposito registro. Le ipotesi che si possono profilare sono le seguenti:

a) notizia di reato iscritta a mod. 44 (ignoti), con identificazione del soggetto cui la notizia va ascritta;

b) notizia di reato acquisita nell’ambito di indagini svolte nel modello 45, con individuazione del soggetto cui va ascritta.

In entrambe le ipotesi può accadere che il pubblico ministero, pur avendo acquisito oltre alla notizia di reato il nome dell’indagato, prosegua nelle indagini senza operare il passaggio del fascicolo al cd. modello 21 o vi proceda tardivamente. La terza ipotesi che si può delineare è la seguente: in presenza di un procedimento a modello 21, ossia iscritto ab initio a carico di soggetti noti, sebbene nel corso delle indagini vengano individuati altri soggetti raggiunti da notizia di reato e, pertanto, soggetti ad iscrizione o, ancora, che le indagini abbiano condotto alla individuazione di altre ipotesi di reato a carico dei soggetti indagati ed iscritti, non vengano operate le relative ulteriori iscrizioni o esse vengano operate tardivamente. Tali evenienze ed omissioni da parte del pubblico ministero rivestono particolare significato nel sistema procedurale vigente. Infatti, il pubblico ministero ha limiti temporali ben cadenzati entro i quali deve svolgere la sua attività successiva alla acquisizione della notizia di reato, ovvero le indagini preliminari, all’esito delle quali esercitare, se del caso, l’azione penale. Il termine imposto è quello indicato nell’art. 405 c.p.p., per le notizie di reato iscritte a carico di soggetti noti, e dall’art. 415 c.p.p., per quelle ascritte a soggetti ignoti. Tale termine è prorogabile ad opera del giudice ai sensi degli artt. 406 e 415 c.p.p. La mancata tempestiva iscrizione della notizia di reato e, in particolare, del nome del soggetto cui il reato è attribuito altera il meccanismo di durata dei termini per le indagini preliminari. Soprattutto ritarda — nei casi in cui è consentito — la possibilità per l’indagato di avere conoscenza della esistenza di indagini a suo carico e di far ricorso alle facoltà accordategli dalla legge.

4. La tematica da ultimo sollevata induce ad affrontarne altra, pure strettamente collegata: quella della qualificazione della notizia di reato. Sembra ovvio ricordare che iscrivere una notizia di reato significa disporre l’annotazione nel registro disciplinato dall’art. 335 c.p.p., che un determinato soggetto (se noto) o persona ignota (se non individuata), ad una certa data ed in un determinato luogo, ha violato una specifica disposizione di legge penale. Può apparire elementare chiarire che occorre si indichi la norma penale sostanziale violata e, ove ricorrenti, le circostanze aggravanti che caratterizzano l’azione. La corretta e completa qualificazione della notizia di reato è di sicuro rilievo. Se è vero, infatti, che nel corso delle indagini preliminari la qualificazione giuridica del fatto può mutare, come può emergere che lo stesso risulti diversamente circostanziato, e che il pubblico ministero in tali casi, a norma dell’art. 335, comma 2, c.p.p., ne opera l’aggiornamento, è tuttavia di innegabile importanza che sin dall’inizio, avuto riguardo a quanto offrono gli atti a corredo della notizia di reato, se ne operi una corretta e compiuta qualificazione. La questione rileva, in particolare per le attività cui è preposto il pubblico ministero, sotto vari profili che meglio si coglieranno con qualche semplice esemplificazione. L’iscrizione di una ipotesi delittuosa come aggravata dall’art. 7, legge 203/91, importa che il fatto venga devoluto alla competenza della procura distrettuale antimafia. La conseguenza, sul piano procedurale, non è limitata al cambio di competenza, ma si riverbera sul regime delle indagini preliminari e degli strumenti investigativi cui può far ricorso il pubblico ministero. Difatti, le indagini riferite all’ipotesi delittuose così circostanziate si giovano di:

a) un diverso termine di durata per lo svolgimento delle indagini preliminari (termine iniziale pari ad un anno, ex art. 405, comma 2, c.p.p.; termine di durata massima di due anni, ex art. 407, comma 2, c.p.p.);

b) un diverso regime in tema di richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari (con mancata partecipazione all’indagato), con prosieguo di esse in riservatezza;

c) un diverso e più agevole regime di ricerca della prova tra cui, in particolare, la possibilità di accedere alle attività di intercettazioni con regole facilitate in tema di presupposti per l’effettuazione delle operazioni (richiesta di “sufficienti indizi” invece che “gravi indizi”) e sotto il profilo della durata delle operazioni di ascolto (ex art. 13, d.l. 13 maggio 1991, n. 152).

L’aver individuato sin dall’inizio, sia pure in via astratta, la sussistenza dell’aggravante cd. mafiosa, prima citata, comporterà che il pubblico ministero potrà percorrere canali investigativi maggiormente efficienti ed efficaci per l’accertamento dei fatti e meglio potrà soddisfare ai principi di completezza e tempestività delle indagini preliminari. Altro esempio. Nel caso di atti sessuali con minorenne, accompagnati da dazioni o promesse di dazioni al minore da parte dell’agente, la qualificazione corretta di essi quale violazione dell’art. 600–bis c.p.p., comporterà che l’ipotesi, di cui all’art. 609–quater c.p.p., diventi procedibile di ufficio e, nel contempo, la competenza a procedere verrà individuata ex art. 51, comma 3–quater, c.p.p. In definitiva, il nostro ordinamento procedurale assegna al pubblico ministero il compito di vagliare se una determinata notizia costituisca reato e, pertanto, debba essere iscritta; gli impone di iscriverla tempestivamente quando ne ha operato valutazione positiva; gli prescrive di iscrivere, quando noto, anche il soggetto cui va ascritta, sia pure in via astratta, la notizia di reato. Ciò in quanto spetta al pubblico ministero, peraltro per dettato costituzionale, l’esercizio dell’azione penale.

5. Appare necessario a questo punto verificare se e quali controlli appresta il sistema sull’operato del pubblico ministero nella fase di gestione della notizia di reato. Tale tema involge quello dei rapporti tra il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari. Pur fondandosi l’attuale sistema processuale sul principio del necessario controllo da parte del giudice su tutti gli atti, non sempre è consentito al g.i.p. di intervenire sulle scelte operate dal pubblico ministero. In particolare, nessuna norma vigente e neppure ricavabile dal sistema consente al giudice per le indagini preliminari di esercitare un sindacato sul momento della iscrizione della notizia di reato e del nome dell’indagato. L’assenza di siffatta norma di controllo trova la sua ratio, oltre che nell’autonomia riservata al pubblico ministero, anche nella esigenza di evitare una pericolosa sovrapposizione di valutazioni rispetto al momento genetico ed embrionale del procedimento penale. In merito la giurisprudenza di legittimità è stata costante nel tempo nel ritenere che il p.m. ha un potere discrezionale insindacabile circa l’an e il quando effettuare l’iscrizione per cui il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato, iscrizione rilevante ai fini della decorrenza del termine per le indagini preliminari, non può essere censurato in sede processuale, fatta salva ovviamente la responsabilità disciplinare ed eventualmente penale del p.m. ricorrendone i presupposti (cfr. Cassazione, Sezioni Unite n. 16 del 21–30 giugno 2000, Tammaro). Tale orientamento è stato di recente nuovamente ribadito dalle Sezioni Unite della Cassazione (cfr. sentenza 24 settembre 2009, n. 40538) che hanno assunto nuovamente che l’iscrizione della notitia criminis rientra nella “valutazione discrezionale” del pubblico ministero e non può affidarsi a postume congetture. Ancora una volta la Suprema Corte ha osservato che l’eventuale tardiva iscrizione costituisce mera irregolarità per la quale il pubblico ministero è censurabile sul piano disciplinare e/o penale senza che però tale irregolarità si riverberi sul piano processuale. Gran parte della dottrina non condivide tale impostazione, valutata come dettata unicamente da esigenze di politica giudiziaria. La censura non è condivisibile. Nel codice di rito l’assunzione della veste di indagato segue alla iscrizione del nominativo nel registro degli indagati: solo con tale iscrizione si diventa titolari delle correlate posizioni giuridiche tutelate. Per converso, in assenza della iscrizione, il pubblico ministero non ha strumenti per dare corso ad attività investigative invasive o che prescrivono la partecipazione dell’indagato e, ove vi dovesse incautamente dare corso, queste ultime non sarebbero certamente utilizzabili nei confronti di chi non è stato regolarmente iscritto. Il codice, pertanto, dispone di meccanismi interni capaci di evitare che atti di indagine compiuti in violazione delle norme che attribuiscono diritti e garanzie al soggetto interessato dalle indagini possano essere efficacemente utilizzati a suo carico. Il tema dell’assenza del controllo del giudice sulla mancata iscrizione nel registro di cui all’art. 335 diventa, però, particolarmente delicato con riferimento alle iscrizioni a mod. 45 di cui si è detto sopra. Si ricorda che chi scrive è dell’opinione che il pubblico ministero non ha sempre un potere di cd. cestinazione ma, diversamente, ha il dovere di effettuare una attenta verifica di quelle comunicazioni iscritte a mod. 45 che, tuttavia, necessitano, per quanto detto sopra, di primi accertamenti (cd. attività preprocedimentali) onde valutare, all’esito, se possa ritenersi acquisita e sussistente una notizia di reato. Trattasi di situazioni per lo più poco chiare e di difficile qualificazione. In tali casi, dopo l’iniziale iscrizione a modello 45, il pubblico ministero, avvalendosi anche dei poteri conferitigli dall’art. 330 c.p.p., è opportuno dia corso ad indagini anche minime ma capaci di consentire all’esito la preliminare compiuta valutazione del contenuto effettivo della notizia ricevuta. Compiuti tali preliminari accertamenti, il pubblico ministero ha due opzioni: o disporre la iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., o diversamente, ove reputi non acquisita alcuna notitia criminis, avvalersi del potere di archiviazione interna o cd. potere di cestinazione. Ebbene, se è vero che in molti uffici requirenti anche il potere cd. di archiviazione interna viene esercitato, comunque, secondo regole di massima trasparenza, dal momento che il provvedimento che dispone in tal senso è motivato e sottoposto al visto del procuratore della Repubblica, ciò non toglie che tale procedura possa consentire la sottrazione di attività di indagine al controllo del giudice. Ragioni di trasparenza massima che devono presidiare ogni Procura della Repubblica, imporrebbero, ogni qualvolta si proceda allo svolgimento di indagini, sia pure minimali, nell’ambito del fascicolo cd. mod. 45, la formulazione di richiesta di archiviazione al giudice in quanto organo deputato alla effettuazione del controllo ad ogni esito delle indagini preliminari svolte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria. In tal senso, peraltro, è l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione (cfr. sent. 22 novembre 2000–15 gennaio 2001, n. 34). In sede di controllo, di esame degli atti e della richiesta di archiviazione, il giudice potrebbe, in analogia con quanto accade nella ipotesi di cui all’art. 415, comma 2, c.p.p., ordinare al p.m. l’iscrizione a registro degli eventuali indagati. Nella fase delle indagini preliminari il g.i.p. possiede sicuramente un potere di controllo sulla qualificazione giuridica del fatto. Esso può esplicarsi ogni qualvolta venga interessato con istanze del pubblico ministero a seguito delle quali è chiamato ad esaminare e valutare la regiudicanda sia pure con i limiti della fase. Così accade nel caso in cui il pubblico ministero chiede di ottenere l’autorizzazione a dar corso a specifici mezzi di ricerca della prova, per i quali è prevista l’autorizzazione del giudice (ad esempio intercettazioni), nonché nel momento in cui il pubblico ministero formula richiesta di proroga delle indagini. Nel primo caso è evidente che il giudice, investito di una richiesta di autorizzazione alle operazioni di intercettazione, dovendone valutare i presupposti di ammissibilità, disciplinati dall’art. 266 c.p.p., deve operare il controllo della qualificazione giuridica del fatto reato per il quale il pubblico ministero chiede l’autorizzazione al mezzo di ricerca della prova. Parimenti, questo accade anche allorchè il fatto viene qualificato, sia pure solo in relazione alle circostanze ritenute, come rientrante tra quelli cd. di criminalità organizzata, sottoposti ad un regime di indagine più agevole ed efficace (cd. doppio binario): nel caso in cui il pubblico ministero abbia chiesto al giudice per le indagini preliminari di essere autorizzato a svolgere intercettazioni telefoniche o ambientali per fatto — reato per il quale è stata iscritta anche l’aggravante di cui all’art. 7, l. 203/91, il giudice prima di accedere ed autorizzare tale ampio (e spesso anche molto invasivo) strumento di ricerca della prova ha il potere — dovere di effettuare il controllo anche sulla sussistenza dei requisiti minimi della ipotizzata aggravante. Il giudice per le indagini preliminari analoghi controlli può esercitare anche in sede di proroga delle indagini preliminari. Ad esempio, ove non dovesse ritenere sussistenti gli embrionali elementi caratterizzanti la configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 7, l. 203/91, in relazione ad una determinata condotta criminosa, nulla gli impedisce che possa disporre che si applichi il regime cd. ordinario di procedura partecipata della proroga delle indagini preliminari. A conclusione possono, pertanto, rassegnarsi le seguenti osservazioni. L’art. 335 c.p.p. e la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione individuano nel Procuratore della Repubblica il soggetto a cui spetta, in via esclusiva, il potere di iscrizione ed individuazione della notizia di reato. La valutazione circa la natura degli atti spetta al pubblico ministero in quanto titolare dell’esercizio dell’azione penale. Al giudice per le indagini preliminari non è riconosciuto alcun sindacato sul momento della iscrizione e neppure sulle modalità di iscrizione. Il pubblico ministero in relazione a tali decisioni è soggetto eventualmente a responsabilità disciplinari e penali che, tuttavia, non ripercuotono i loro effetti sul piano processuale. Rispetto a tale potere esercitato in via esclusiva sono apprestati dei rimedi, taluni esplicitamente previsti dal codice di rito ed altri ricavabili implicitamente e frutto della elaborazione giurisprudenziale della Suprema Corte. Tali rimedi, tuttavia, ancora una volta non riguardano il momento genetico della iscrizione della notitia criminis: essi intervengono nel momento in cui il pubblico ministero formula richieste al giudice per le indagini preliminari, nel corso delle stesse o al termine di esse, ed hanno l’unico scopo di controllare, nei casi in cui è previsto, che le indagini preliminari si svolgano nel rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti e che esse siano state complete e ciò in quanto il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Tali concetti sono ben definiti anche nella pronuncia delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione del 31 maggio–17 giugno 2005, n. 22909, resa in materia di archiviazione e poteri conferiti al g.i.p. In essa si chiarisce che i poteri conferiti al giudice per le indagini preliminari sono “correlati soprattutto al controllo del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Richiamando la giurisprudenza costituzionale, la Suprema Corte ha, infatti, osservato che: i confini tracciati dal legislatore sui poteri dei due organi che si occupano delle indagini preliminari sono ben definiti e conformi ai principi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale e della sua titolarità in capo all’organo requirente (art. 112 Cost.), riservando al giudice delle indagini la funzione di controllo e di impulso.

Rosa Volpe Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Salerno

 * * *

La puntuale definizione del concetto di notizia di reato ha, come è intuibile, significative implicazioni in più ambiti. È utile per fissare, senza margini di dubbio, il momento nel quale la stessa sorge e quello in cui deve essere iscritta nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p., perché formalmente acquisita; di conseguenza, consente l’individuazione certa del dies a quo dal quale partire per computare il termine di durata delle indagini. In una prospettiva analoga — anche se non sovrapponibile — rileva, poi, la sua corretta perimetrazione giuridica, capace di influire su segmenti procedurali ai quali afferiscono diritti e garanzie rilevanti. Il profilo ha una dimensione problematica, dal momento che, nell’attuale sistema normativo, manca una definizione puntuale di “notizia di reato”. La locuzione è, infatti, genericamente indicata dal legislatore senza alcuna specificazione utile a delinearne il significato. Questo indiscutibile limite, non consente di avere nitida contezza degli argini entro i quali si muovono i connessi (ampi) poteri del pubblico ministero. È sentita, infatti, l’esigenza di un intervento normativo per fare chiarezza in un settore estremamente delicato. La commissione ministeriale di riforma del codice di procedura penale, presieduta dal Prof. Riccio, istituita nella scorsa legislatura, prendendo atto di questa oggettiva necessità, ha considerato opportuna la definizione normativa di notizia di reato individuandola nella direttiva n. 55/1 della bozza di legge delega come rappresentazione non manifestamente inverosimile di uno specifico accadimento storico, attribuito o meno a soggetti determinati, dalla quale emerga la possibile violazione di una disposizione incriminatrice contenuta nel codice penale o in leggi speciali. La scelta è stata determinata dalla “esigenza, largamente condivisa nell’ambito della Commissione, di fornire una definizione normativa della notizia di reato“, per “delimitare e dare concretezza all’obbligo di iscrivere la notitia criminis nell’apposito registro, chiarendo definitivamente che cosa deve essere iscritto in tale registro e superando le ben note incertezze manifestatesi nell’utilizzo del cd. mod. 45 da parte degli uffici di procura” (Relazione di accompagnamento alla bozza di legge delega, Commissione Riccio). La individuazione degli elementi caratteristici della notizia di reato, peraltro, ricalca la nozione generalmente condivisa in dottrina e giurisprudenza. Trattasi della esistenza di una rappresentazione del fatto, la sua non manifesta inverosimiglianza (intendendosi per rappresentazione manifestamente inverosimile quella contraria a elementari leggi logiche o scientifiche oppure inconciliabile con fatti notori), il carattere specifico del fatto rappresentato, l’impossibilità di effettuare una diagnosi sicura e immediata di irrilevanza penale del medesimo. La prospettiva delineata ha, naturalmente, un ulteriore approdo: è stata stabilita la inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine previsto o prorogato e, soprattutto, il potere del giudice, su istanza dell’interessato di verificare la correttezza dell’iscrizione retrodatando, ove necessario, la iscrizione medesima al momento nel quale doveva essere effettuata (Relazione, cit.). La lacuna normativa della legislazione vigente, pur richiedendo uno sforzo interpretativo maggiore, non autorizza atteggiamenti di “rassegnato immobilismo” ermeneutico, sottraendo al giudice doverosi spazi di valutazione. Peraltro, la definizione fatta propria dalla Commissione Riccio corrisponde al buon senso ed all’orientamento prevalente; si può, anche in mancanza di chiarezza normativa, considerarla un punto di riferimento per l’interprete. Dopo il chiarimento preliminare, si deve affrontare il fondamentale tema della durata delle indagini preliminari ed in particolare il profilo della effettività dei tempi previsti per la fase investigativa, al quale segue (naturalmente) quello del controllo giurisdizionale sul momento iniziale (l’iscrizione nel registro delle notizie di reato) dal quale decorre il termine legale. È un tema ignoto al previgente sistema processuale, che compare all’indomani del varo del codice di rito del 1988, ove, per la prima volta, sono state perimetrate temporalmente le indagini. La previsione normativa fissa, come è noto, un termine (prorogabile) di durata della fase (sei mesi o un anno), stabilendo, contemporaneamente, la inutilizzabilità delle attività investigative effettuate dopo la scadenza del tempo massimo a disposizione del pubblico ministero. La disposizione, dunque, pone un iniziale (e centrale) problema interpretativo: la durata contingentata dei tempi massimi dell’investigazione rivela un corrispondente diritto dell’indagato (connesso alla tempistica in sé e/o relativo al più generale diritto di difesa) o integra una mera previsione di tipo organizzativo priva di valore nella prospettiva delle garanzie procedurali? La questione è di estremo interesse pratico perché l’individuazione del dies a quo (l’iscrizione della notizia e del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro ex art. 335 c.p.p.) fissa uno degli estremi dell’alveo entro il quale si sviluppa la scansione temporale dell’attività investigativa ordinaria e oltre il quale la medesima non trova legittimazione. La complessità del problema nasce, invece, dalla prassi (possibile se si ritenesse mancante un doveroso controllo giurisdizionale) di iscrivere con ritardo le notizie nel registro e di lucrare un tempo investigativo maggiore e proietta la verifica sull’esistenza di un dovere del giudice di controllare la correttezza del momento nel quale viene iscritta la notizia (e il nome della persona) e sull’individuazione delle conseguenze per le attività investigative compiute fuori dal termine correttamente computato. Il profilo è stato oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale con l’ordinanza n. 307 del 22 luglio 2005. Il giudice delle leggi ha puntualmente affermato: che se, peraltro, l’iscrizione nel registro ha una valenza meramente ricognitiva, e non già costitutiva dello status di persona sottoposta alle indagini, è di tutta evidenza come le garanzie difensive che la legge accorda a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione: con la conseguenza che il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa sotto il profilo indicato dal giudice rimettente; che risulta quindi insussistente anche la ventilata disparità di trattamento tra “indagati” tempestivamente iscritti e “indagati” tardivamente iscritti; che nell’ipotesi, infatti, in cui il pubblico ministero procrastini indebitamente l’iscrizione del registro, il problema che può porsi attiene unicamente all’artificiosa dilazione del termine di durata massima delle indagini preliminari: vale a dire alla possibile elusione della sanzione di inutilizzabilità che colpirebbe, ai sensi dell’art. 407, comma 3, c.p.p., gli atti di indagine collocati temporalmente “a valle” della scadenza del predetto termine, computato a partire dal momento in cui l’iscrizione avrebbe dovuto essere effettuata. In questa pronunzia, la Consulta, rivendicando il valore meramente ricognitivo e non già costitutivo dello status di persona sottoposta alle indagini e richiamando il principio secondo il quale le “garanzie difensive che la legge accorda a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione”, ha stabilito che “il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa”. L’interpretazione riconosce, in modo evidente, come il diritto alla durata contingentata delle indagini non possa essere conculcato dall’artificiosa dilazione del termine che si verifica tutte le volte che il pubblico ministero procrastini, indebitamente, l’iscrizione della notizia e del nome della persona nel registro delle notizie di reato. In sintesi, l’iscrizione è meramente ricognitiva di un diritto che si costituisce nel momento in cui lo status di persona sottoposta alle indagini sorge, sicchè la decorrenza dei termini investigativi nasce esattamente nel momento in cui sorge il diritto e non successivamente, quando il pubblico ministero provvede alla iscrizione. In un ambito fisiologico, i due segmenti temporali coincidono (o si differenziano in misura impercettibile), mentre possono divergere anche sensibilmente, in situazioni patologiche. In questi casi, succede che il pubblico ministero, attraverso una dilazione anomala dell’iscrizione, finisce per utilizzare un tempo maggiore per espletare le indagini preliminari, compiendo attività investigative che, se avesse adempiuto all’obbligo di iscrizione tempestiva, non avrebbe potuto effettuare, pena la inutilizzabilità delle medesime. È un profilo dal quale emerge una prospettiva patologica che non può essere lasciata senza rimedio. Nella prospettiva evidenziata, devono essere valorizzati tre profili indiscutibili: innanzitutto, il diritto alla iscrizione tempestiva nel registro delle notizie di reato; poi, di fronte alla possibilità concreta che il diritto possa essere completamente disatteso da comportamenti illegittimi, il potere giurisdizionale, diretto alla tutela del diritto, di controllare la tempistica; infine, la rimozione degli effetti del comportamento che viola le disposizioni procedurali attraverso l’applicazione della sanzione. L’inutilizzabilità prevista dal legislatore, quale conseguenza della violazione del tempo massimo consentito all’inquirente, non avrebbe un senso concreto se si consentisse di aggirare agevolmente la previsione procedurale, qualificando il comportamento (illegittimo) come una semplice omissione improduttiva di effetti processuali. Se il pubblico ministero ha, in sostanza, l’obbligo di iscrivere la notizia al momento in cui perviene, al giudice per le indagini preliminari — deputato al controllo sulla effettiva durata delle indagini — spetta il compito di valutare la tempestività dell’iscrizione, computare i corretti termini utilizzati per investigare, partendo dal momento in cui la notizia e il nome andavano iscritti effettivamente, e dichiarare l’inutilizzabilità delle attività poste al di fuori del perimetro temporale giudicato sulla scorta della rilevazione esatta del momento in cui correttamente doveva avvenire l’iscrizione e di quello finale. La decisione della Corte costituzionale richiamata, ribalta i tradizionali orientamenti della giurisprudenza che, invece, confinavano le iscrizioni intempestive nel limbo delle mere irregolarità, al più produttive di violazioni disciplinari. Si deve riconoscere, invece, applicando le coordinate normative derivanti dal sistema processuale nel suo complesso, un vero e proprio potere del giudice di controllare la tempestività dell’iscrizione, intervenendo sulle “artificiose dilazioni”. Il principio espresso fonda sulla ritenuta natura meramente ricognitiva e non costitutiva dello status necessario per l’obbligatoria iscrizione. Se il diritto si costituisce a prescindere dall’attività materiale, il giudice non può essere lo spettatore della marchiana violazione della garanzia. Questo profilo, risponde, d’altronde, pienamente alla ratio dell’istituto. Se esiste un obbligo di iscrizione e se dall’iscrizione nascono una serie di termini fondamentali per la legittimazione del potere del pubblico ministero, è innegabile l’incoerenza rispetto alla vocazione legale tipica dell’ordinamento della (ritenuta) mancanza di un potere di controllo affidato al giudice, vista, soprattutto, la conseguenza sanzionatoria prevista per il mancato rispetto del termine: l’inutilizzabilità. Si tratta solo di ampliare le coordinate in base alle quali giudicare esistente la violazione del termine di durata delle indagini: sarebbe oltremodo incomprensibile un sistema che prevedesse l’inutilizzabilità delle investigazioni compiute dopo la scadenza del termine decorrente dalla formale iscrizione e escludesse le violazioni del termine compiute mediante l’artifizio della ritardata iscrizione. Se prima della richiamata decisione della Corte costituzionale, le diverse opinioni potevano essere censurate sul piano del disciplina codicistica, oggi la severa censura si aggancia ad una valutazione puntuale della giudice delle leggi. Bisogna naturalmente considerare anche la recente decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sent. 24 settembre 2009) che ha ribadito la natura di mera irregolarità della mancata tempestiva iscrizione, produttiva solo di conseguenze disciplinari ed eventualmente penali per il pubblico ministero inadempiente, senza alcun effetto sul piano processuale. Ancora una volta, l’interpretazione delle Sezioni Unite è orientata da prevalenti esigenze di politica giudiziaria. La comprensibile preoccupazione di evitare (con precisione chirurgica) di assumere decisioni che possano avere ripercussioni sul sistema processuale penale non giustifica, però, la fuga dai principi e l’utilizzazione di soluzioni eccentriche rispetto alla legalità processuale. Quest’ultima, infatti, impone di ricercare all’interno del tessuto normativo e, soprattutto, nel sistema sanzionatorio finalizzato a rendere effettiva la legalità processuale — i rimedi alle violazioni che annullano in concreto la valenza di diritti essenziali, collegati al giusto processo. Richiamare solo i potenziali profili disciplinari e penali connessi alla tardiva iscrizione è veramente un modo per rifugiarsi al di fuori del paradigma della legalità processuale, pur prendendo inesorabilmente atto (ed è questo il dato che desta maggiore perplessità) che essa è stata irrimediabilmente violata. La stessa Cassazione a Sezioni Unite, nella decisione richiamata (sent. 24 settembre 2009), ha, peraltro, stabilito che: l’unico tassello normativo per il tramite del quale è forse possibile configurare un potere di apprezzamento da parte del giudice, circa la tempestività dell’iscrizione, è offerto, a ben guardare, soltanto dalla disciplina che regola il regime delle proroghe del termine per le indagini preliminari (art. 498 c.p.p.), non apparendo estranea a quel sistema l’idea di un giudice che, in presenza di iscrizioni tardive, calibri la concessione o il diniego della proroga in funzione, anche, della durata delle indagini eventualmente espletate prima della tardiva iscrizione. Al di fuori di questo segmento normativo mancherebbe qualsiasi riferimento normativo capace di legittimare, in via generale, la sindacabilità degli atti del pubblico ministero o la funzione di garanzia del giudice per le indagini preliminari. La Corte, in verità, concentrando la sua attenzione sul g.i.p. e sui poteri ad esso attribuiti (nell’ambito dei quali giustamente rintraccia un segmento utile a sindacare la tardiva iscrizione), sembra lasciare sullo sfondo il problema dell’inutilizzabilità degli atti (probatoriamente rilevanti) compiuti fuori dal termine investigativo correttamente computato. Il giudice della decisione (anche il g.i.p. in fase cautelare; o comunque quello di merito e di legittimità) non può sottrarsi al compito di valutare l’utilizzabilità degli atti ogni qual volta le parti propongano una questione che abbia a che vedere con tale profilo. E se un atto è stato compiuto dopo la scadenza del termine investigativo, correttamente computato, è irrimediabilmente inutilizzabile e, di conseguenza, sono inutilizzabili le prove che da tale atto derivano. È questo un principio generale non valorizzato dalle Sezioni Unite, che invece costituisce il versante attraverso il quale analizzare l’annoso problema interpretativo. Anche il giudice per le indagini preliminari, in fondo, intanto si pone il problema della corretta iscrizione in quanto deve risolvere un problema di utilizzabilità dei risultati di indagini compiute fuori dal perimetro temporale, attività che ogni giudice può essere chiamato a ripetere nelle diverse fasi nelle quali si pone un problema analogo. Vi è, quindi, una sostanziale sovrapposizione tra la valutazione sulla corretta iscrizione, legittimamente riservata al g.i.p. in sede di proroga dei termini, e quella relativa alla inutilizzabilità di atti che può essere invocata in altri (successivi) segmenti procedurali La situazione normativa attuale, in verità, non agevola la soluzione proposta. La poca chiarezza normativa di alcuni concetti, amplificando interpretazioni soggettive rende, infatti, difficile l’instaurazione di prassi virtuose e amplia le maglie di un efficace controllo giurisdizionale. Mi riferisco, ancora una volta, al problema della definizione di notizia di reato, la cui acquisizione rende obbligatoria la tempestiva iscrizione. Ciò che per alcuni la integra, per altri la sfiora o addirittura non la coinvolge affatto. Sarebbe fortemente auspicabile, in questa prospettiva di chiarezza, coniare una definizione normativa capace di rappresentare un punto fermo nella definizione del momento nel quale sorge l’obbligo di iscrizione. La lacuna, però, non mette in crisi la soluzione interpretativa suggerita, peraltro congeniale ad un sistema fondato sul principio di legalità, ove la ragionevole durata del processo ha una proiezione anche nella fase investigativa, realmente partecipe del meccanismo celere voluto dalla Costituzione. Sarebbe, infatti, eccentrico rispetto al principio delineato dall’art. 111, comma 1, Cost. un sistema che consentisse di dilazionare, senza alcun controllo, l’iscrizione e con essa l’inizio della vicenda alla quale la garanzia si applica in via generale. Il principio ha una valenza costituzionale che vincola il legislatore e l’interprete, ognuno nelle rispettive competenze, ad adeguarsi creando o leggendo ed applicando le norme e il sistema in una dimensione prossima a quella prospettata come fondamentale. Volendo riassumere, dunque, si può affermare come nel sistema vigente, se si riconosce l’esistenza del diritto ad indagini predeterminate temporalmente, espressione del più generale diritto al rispetto delle regole procedurali e quindi della legalità processuale, il dovere del pubblico ministero di “iscrivere” immediatamente (nel momento in cui perviene al suo ufficio) la notizia di reato non può tradursi in una mera irregolarità priva di sanzione, né sembra possibile rifugiarsi in profili deontologici e disciplinari: questi profili eventualmente si aggiungono, ma non sostituiscono i rimedi legali interni all’ordinamento. La sanzione necessariamente conseguente è quella che il sistema ricollega, in via generale, ai casi di indagini effettuate oltre i termini: l’inutilizzabilità. La nettezza della posizione interpretativa non può, però, sottovalutare la non sempre agevole individuazione del momento nel quale sorge l’obbligo di iscrizione. È — giova ribadirlo — auspicabile un intervento normativo per dissolvere le ambiguità che oggi ritroviamo nella definizione di un concetto in sé problematico, ma la mancanza di chiarezza non deve può lasciare nelle mani del pubblico ministero un potere sottratto ad ogni forma di controllo. Un secondo profilo ugualmente problematico riguarda la qualificazione giuridica della notizia di reato, con tutti i corollari che ne derivano. L’iscrizione di un fatto aggravato dalla finalità o dal metodo mafioso comporta, ad esempio, una serie di conseguenze di rilievo, che vanno dalla attribuzione “investigativa” della Direzione Distrettuale Antimafia, alla maggiore durata del termine delle indagini (un anno in luogo di sei mesi), alla diversità del procedimento di proroga (senza alcuna forma di partecipazione della difesa), fino alla possibilità di ottenere più facilmente intercettazioni telefoniche ed ambientali (sufficienti indizi in luogo di gravi indizi di reato) o, addirittura, all’individuazione (anomala) del g.u.p. competente per l’udienza preliminare e per gli eventuali riti premiali. Gli effetti (imponenti) di una particolare qualificazione giuridica — penso, in particolare, alla possibile violazione dei principi di naturalità e precostituzione del giudice in relazione alla competenza del g.u.p. distrettuale — impongono l’individuazione di meccanismi di controllo giurisdizionale capaci di verificarne la correttezza. In verità, la risposta mi sembra semplice, posta l’esistenza di un generale principio che affida alla giurisdizione il potere di qualificare giuridicamente il fatto. Nello specifico, tutte le volte in cui il giudice ha un contatto con la regiudicanda, infatti, ha il dovere di controllare i parametri giuridici utilizzati per delineare ed orientare il meccanismo procedurale, intervenendo allorquando si profila un vizio che riguarda non il fatto ma la sua qualificazione in termini di corretta applicazione del diritto. Insomma, se i profili fattuali dell’imputazione e di tutti i meccanismi provvisori utilizzati per dare impulso alla vicenda procedimentale non tollerano un intervento giurisdizionale, i profili giuridici lo impongono. Questo potere di controllo è, peraltro, coerente con le dinamiche del giusto processo e con il principio di legalità. Riafferma, invero, la supremazia del giudice nell’applicazione del diritto e orienta una serie di segmenti procedurali verso la meta indicata. Corrisponde, cioè, ad una radicata convinzione l’idea di riconoscere al giudice questa supremazia ed al pubblico ministero (alla stregua delle altre parti) il dovere di adeguarsi: nel momento della iscrizione della notizia di reato, così come nella fase de libertate o in quella del controllo sull’azione. Avv. Prof. Agostino De Caro Ordinario di Procedura penale Università degli studi del Molise

VALLO DELLA LUCANIA,FASCICOLI DIMENTICATI AL TRIBUNALE RIMASTI SENZA ASSEGNAZIONE. Agropolinews.it agosto 2017. Oltre 80 fascicoli di processi, dal 2009 ad oggi, mai assegnati ad alcun magistrato, riguardanti inchieste su persone note e meno note del Cilento, e non solo. Erano finiti nel dimenticatoio, alcuni addirittura nella spazzatura, ed oggi recuperati e rimessi in ordine cronologico per capire cosa sia successo, come mai queste pratiche si sono fermate. Un giallo, o se vogliamo un scandalo, che ha investito la Procura della Repubblica di Vallo della Lucania, finita sotto la lente d’ingrandimento degli ispettori ministeriali, che hanno scoperto i fascicoli dimenticati durante un’ispezione. Il procuratore capo facente funzioni, Paolo Itri, che da pochi mesi ha sostituito il collega Giancarlo Grippo, andato in pensione dopo otto anni (arrivò nel 2008), ha avviato accertamenti interni, commentando così la vicenda: “Si tratta di un vero mistero, ma non abbiamo elementi per ipotizzare che qualcuno abbia voluto insabbiare indagini o processi”. A destare sospetto, però, è che la maggior parte dei faldoni rinvenuti riguardano inchieste condotte dalla procura vallese tra il 2012 e il 2013, tutti ben ricostruiti ed ordinati da chi, le carte, le ha maneggiate prima che ‘scomparissero’. E centrerebbe poco l’atavica carenza d’organico che caratterizza, da tempo, sia la procura che il tribunale vallese, dove la situazione non è migliore dal punto di vista organizzativo e numerico. Intanto, ci sarebbero ritardi anche da parte della Commissione del Csm per la valutazione delle domande presentate per ricoprire il ruolo di procuratore capo di Vallo della Lucania: nell’ultima riunione, infatti, la nomina non è stata discussa.

«Decido io a chi assegnare il fascicolo». Condannato il cancelliere «infedele». Sei anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari: chiedeva soldi in cambio di favori. Giovanni Falconieri su torino.corriere.it il 19 gennaio 2018. «Voglio capire a chi viene assegnato» il fascicolo, «perché qui ci sono quattro sezioni e ogni sezione c’ha un presidente, in base ai presidenti poi chiamo la signora qui che l’ufficio lo dirigo io, l’ufficio iscrizioni, dico questo assegnalo a questo…». Così si esprimeva un cancelliere della Corte d’Appello di Torino quando ancora occupava il proprio ufficio al quinto piano del Palazzo di Giustizia. Si chiama Angelo Moscato e dalla sua scrivania si preoccupava di «curare», in cambio di denaro, le vicende giudiziarie di amici e conoscenti. Un imprenditore di un comune della provincia, tanto per fare un esempio, versava tutti i mesi 1500 euro per fare in modo che i propri fascicoli venissero insabbiati e i reati cadessero in prescrizione. Moscato (assistito dall’avvocato Romano Console) è stato condannato a 6 anni di reclusione dal collegio di giudici presieduto da Silvia Bersano Begey: era accusato di corruzione in atti giudiziari e il pm Gianfranco Colace aveva chiesto 8 anni di carcere. È stato invece assolto Francesco Quaranta, l’ex poliziotto della Procura accusato di aver chiesto un favore a Moscato (occultare un fascicolo che lo riguardava) e di aver effettuato una serie di accessi abusivi ai sistemi informatici del Palagiustizia: era assistito dall’avvocato Stefano Castrale e nel 2015 era finito anche agli arresti domiciliari per 18 giorni. Erano state le intercettazioni ambientali e telefoniche a tradire il cancelliere «infedele»: «Lo teniamo fino alla prescrizione, il fascicolo è messo lì che mi vuole guardare in faccia… io sono molto attento alla tua persona, quando io ti parlo e ti dico non sei solo, significa che qualcuno da dietro sta guardando bene le cose, ma non facendo le cazzate…il problema è che questo collega tra un anno e mezzo va in pensione…». L’ufficio di Moscato era a pochi metri da quello di Raffaele Guariniello, l’ex procuratore aggiunto di Torino. E Moscato era terrorizzato da Guariniello: «Se la signora mi avesse detto: dottore, lei intervenga, perché io tanto fra sei mesi me ne vado, andavo a spada tratta… ma non solo, le facevo anche fare una richiesta di malattia professionale e poi qualcuno andava un po’ nei guai, perché nasce il procedimento penale e quattro porte più avanti c’è Guariniello… quindi… se noi andiamo a segnalare… poi lui non vede l’ora insomma…». Non manca naturalmente il «colore» nelle conversazioni catturate dalle cimici dei carabinieri. Come quella volta in cui si parlò, addirittura, di arancini: «La dottoressa è una carissima amica, anche se è la persona più isterica del mondo: l’altro giorno abbiamo mangiato gli arancini insieme». Il sospetto degli inquirenti è che la «dottoressa» fosse una dirigente dell’ufficio e che Moscato potesse contare su appoggi di una o più persone che lavoravano tutti i giorni con lui nella cancelleria al quinto piano del Palagiustizia. Anche perché, a un certo punto, il cancelliere fa riferimento a un «collega» che «ogni tanto» gli chiede «un fisso». Ma i sospetti della Procura sono rimasti tali.

Il Csm riduce la sanzione a Robledo che gridò: “Il re è nudo”. Frank Cimini il 31 maggio 2016 su giustiziami.it. Alfredo Robledo si vede confermare dal Csm il trasferimento a Torino ma recupera la funzione di procuratore aggiunto oltre alla perdita di sei mesi di anzianità. Insomma sanzione ridotta ma resta il fatto che Robledo è l’unico a pagare dazio per lo scontro interno alla procura di Milano con l’allora capo Edmondo Bruti Liberati, una vicenda con la quale la magistratura è riuscita a farsi male da sola e in misura superiore a qualsiasi “delegittimazione” compresa quella operata dall’imputato eccellente per antonomasia. Robledo con il suo esposto in pratica aveva gridato: “Il re è nudo”.  Aveva fatto emergere alla luce del sole che i magistrati fanno valutazioni politiche. Questo tra l’altro mise nero su bianco, rimproverando Bruti pur assolvendolo dall’abuso d’ufficio, la procura di Brescia. Bruti però non ha pagato dazio dal momento che il Csm annunciò il procedimento disciplinare solo quattro giorni dopo il comunicato con cui l’allora procuratore disse che di lì a poco sarebbe andato in pensione. Sul fascicolo Sea, insabbiato da Bruti e consegnato a Robledo con sei mesi di ritardo quando in pratica non si poteva più indagare non sapremo mai cosa accadde veramente. Francesco Greco che supportò Bruti è stato addirittura premiato come successore al vertice dell’ufficio nonostante una decina di  indagini per frode fiscale avocate dalla procura generale e finite con la condanna degli imputati dopo le richieste di archiviazione rigettate dal gip. Paga solo l’anello debole della catena. Così ha voluto Giorgio Napolitano al Quirinale all’epoca di fatti e misfatti e regista nemmeno tanto occulto dell’operazione, con quel suo richiamo ai poteri pressoché incontrollabili dei capi degli uffici. Il re era nudo per davvero. Ma la verità non interessava non interessa a nessuno. Basta scorrere le cronache con cui i giornaloni hanno incensato la nomina di Greco, da destra a sinistra passando per il centro. Almeno la smettessero di blaterare di indipendenza e autonomia, di obbligatorietà dell’azione penale a ogni piè sospinto. La smettessero di prendere per i fondelli. Non lo faranno. Impunità garantita per legge. Dal Csm che dovrebbe controllare. Il condizionale è più che mai d’obbligo. (frank cimini)

Il Csm dell’omertà nomina Francesco Greco Procuratore. Frank Cimini il 30 maggio 2016 su giustiziami.it. Ci sono voluti sette mesi per formalizzare, ma in realtà era tutto scritto, a cominciare dalla manfrina di sentire i candidati uno per uno. Una messa in scena, una ammuina, per fingere una gara vera. Almeno questo spettacolo potevano evitarlo prima di comunicarci che Francesco Greco va a capo della procura di Milano in sostituzione di Edmondo Bruti Liberati, in pensione dal 16 novembre scorso. Così è pienamente assicurata la continuità con la gestione di Bruti, soprattutto con la moratoria delle indagini su Expo che tra l’altro ha consentito la candidatura di Beppe Sala a sindaco di Milano, passando per un proscioglimento senza nemmeno il disturbo di un interrogatorio e con una motivazione tragicomica. Il giudice che su input della procura l’aveva firmata era lo stesso che per i fondi Expo giustizia aveva contribuito a non indire gare pubbliche ricorrendo alle solite aziende in strettissimi rapporti con l’amministrazione. Più o meno come si era comportato Sala nel settore ristorazione con Oscar Farinetti. Un altro giudice che contribuì a evitare le gare pubbliche, andato in pensione, ora siede comodo in due importanti consigli di amministrazione. Se Expo è stata una grande abbuffata, senza esercizio obbligatorio di quell’azione penale con cui a parole ci ammorbano da sempre, a tavola era presente anche la magistratura. I giornaloni illustrando il curriculum del nuovo signore del quarto piano elencano le tante inchieste fatte omettendo però di ricordare che Francesco Greco aveva sollecitato l’archiviazione in una dozzina di procedimenti per frode fiscale, con avocazioni da parte della procura generale che poi otteneva la citazione diretta a giudizio e anche la condanna degli imputati. Il Csm, informato per prassi della questione, ha fatto finta di niente. Del resto parliamo del cosiddetto organo di autogoverno che aveva coperto fino in fondo le responsabilità di Bruti Liberati in relazione al famoso fascicolo “scomparso” del caso Sea. L’iter disciplinare veniva annunciato solo dopo il comunicato con cui l’allora procuratore affermava che di lì a poco sarebbe andato in pensione. Sea è la storia di un insabbiamento. I pm di Brescia nell’archiviare l’abuso d’ufficio a carico di Bruti scrivevano che il procuratore aveva agito in base a valutazioni politiche, ma pure in questo caso il Csm se n’è fregato. Il fascicolo ricompariva magicamente solo quando le indagini in pratica non si potevano più fare per finire con sei mesi di ritardo sul tavolo dell’allora aggiunto Alfredo Robledo, l’altro protagonista con Bruti della guerra interna all’ufficio. Decisa su diretto intervento del Quirinale, gestione Napolitano. Robledo cacciato e trasferito a Torino. E per giunta processato dal Csm nello stesso giorno in cui diventa procuratore Francesco Greco componente del cerchio magico di Bruti. Il procuratore della Cassazione addirittura ha chiesto per lui la perdita di un anno di anzianità e il trasferimento ad altra sede e funzione. Lo metteranno a togliere la polvere ai fascicoli?   La continuità intanto è pienamente assicurata. E’ arduo dare la palma del peggiore tra controllati e molto presunti controllori (frank cimini)

·         Testimoni pre-istruiti dal pm.

Testimoni pre-istruiti dal pm, sentenze scritte prima dell’udienza: avvocati, diciamo basta! Alessandro Parrotta, avvocato, direttore dell’Ispeg, Istituto per gli studi politici, economici e giuridici, su Il Dubbio il 26 luglio 2020. Il caso di Padova, dove un ufficiale di polizia giudiziaria è stato sorpreso dai difensori col foglietto delle domande preparatogli dalla Procura, e il presidente del Tribunale non ha ancora ordinato l’inutilizzabilità della deposizione. O la vicenda delle sentenze scritte prima dell’udienza a Venezia. Come dice il presidente dell’Ucpi Caiazza, i magistrati devono rispettare le leggi, non inventarle E al ceto forense ora tocca ribellarsi con tutta la potenza di cui dispone. Il sistema giudiziario italiano nell’ultimo periodo non sembra trovare pace. Dopo i noti casi di Palamara e delle nomine riguardanti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un’altra notizia, con meno rilevanza mediatica ma che porta con sé altrettante preoccupazioni suscita nuove polemiche, questa volta in ordine al controverso principio di uguaglianza e di parità dei poteri tra le parti (pubblico ministero da una parte e imputato con il proprio difensore dall’altra) in seno al procedimento penale. La problematica in questo caso trae origine proprio da un’aula giudiziaria ed è legata alla svolgimento di un’udienza dibattimentale: in particolare, dinanzi al Tribunale di Padova, durante l’esame di un testimone della pubblica accusa (un testimone, peraltro, qualificato trattandosi di ufficiale di polizia giudiziaria), veniva notato tra le mani dello stesso una minuta contenente alcune domande scritte direttamente dal pubblico ministero. I difensori degli imputati hanno immediatamente chiesto l’esclusione della testimonianza, e il Tribunale, negando l’eccezione, si è limitato a dire che l’avrebbe valutata. Il caso può sembrare di scarsa importanza, ma occorre rilevare che una procedura del genere innanzitutto lede le principali disposizioni in tema di formazione della prova, finanche di rango costituzionale, e in secondo luogo, se proseguisse priva di censure e ulteriori valutazioni, metterebbe in luce un’evidente disparità di trattamento tra la pubblica accusa e l’imputato, medesimi ingranaggi – di pari importanza – dello stesso procedimento penale. Come detto, le disposizioni violate sono molteplici, a partire dall’articolo 111 della Carta Costituzionale, che in maniera chiara garantisce che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. La ratio sottesa ad una simile norma è proprio quella di evitare situazioni del genere: la scelta operata in ordine al tipo di procedimento penale da instaurare nel nostro Paese aveva come base fondamentale la valutazione per cui la prova si avvicina tanto più alla realtà storica quanto più emerge da un esame multiplo delle parti che ne fa scaturire tutti i punti mancanti e lacunosi. È proprio per queste ragioni che in dibattimento, la sede naturale dove si forma la prova – tra l’esame e il controesame delle parti – il testimone deve giungere privo di alterazioni e senza aver dialogato con alcuna delle parti: diversamente, risulta evidente come il meccanismo di formazione della prova subisca un cortocircuito irreparabile. E infatti, in tema l’articolo 149 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale dispone proprio come sopra indicato. La sanzione prevista nel caso di un testimone che ha avuto pregressi contatti con una delle parti (e nel caso giudiziario è evidente come non solo pubblico ministero e ufficiale di polizia giudiziaria si fossero incontrati ma, anzi, è stata anche stilata una lista di domande che gli sarebbero state sottoposte) è disciplinata nell’art. 191 c.p.p., che in tema di prove illegittimamente acquisite, sancisce come le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possano essere utilizzate. Sembrerebbe, dunque, naturale che nel caso di specie, acclarata la violazione dell’articolo 149 disp. Att. C.p.p. ma anche dell’articolo 111 Costituzione in materia di contraddittorio, una simile prova venga dichiarata inutilizzabile e venga fatta uscire dal processo penale. Invece, ad oggi, il Tribunale si è limitato a riservare di valutarla. Un simile caso di cronaca non soltanto offre spunti di riflessione meramente tecnici in materia di formazione della prova e utilizzabilità della stessa ma rimette in luce l’annosa questione in ordine al supposto principio di uguaglianza tra le parti dinanzi al procedimento penale. Gli avvocati penalisti da anni pongono l’attenzione sul rispetto dei principi costituzionali che regolano il processo penale e sull’importanza del ruolo svolto dalla Difesa privata, che dovrebbe rappresentare una parte fondamentale dello stesso processo, al pari della Pubblica Accusa (sulla scorta di queste valutazioni nell’ultimo periodo è stato chiesto l’inserimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, quale parte necessaria del procedimento penale e come garante del rispetto del principio del contraddittorio tra le parti). Tuttavia, questo caso rappresenta ancora una volta come, purtroppo, il ruolo dell’avvocato penalista sia ormai il più delle volte quello di un co-protagonista che assiste – disarmato – alle mosse della pubblica accusa e dell’organo giudicante. E se fosse stato il Difensore della parte privata a munir di foglietto il proprio testimone? Quali conseguenze? Anche quella disciplinare ai sensi del Codice Deontologico Forense, oltre alla pessima figura in aula. Il presidente dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, si è di recente espresso sull’automatismo che si è ormai raggiunto nelle aule giudiziarie, che rende – per l’appunto – il ruolo dell’avvocato penalista pressoché svuotato di ogni contenuto. Lo spunto è stato, anche in quel caso un’analoga vicenda di cronaca: alcuni giorni prima che l’udienza ad hoc venisse celebrata, alcuni avvocati patroni delle Parti hanno ricevuto dalla Corte di Appello di Venezia le motivazioni delle sentenze con le quali i loro atti di impugnazione erano stati giudicati infondati. Le sentenze sono, dunque, state decise e scritte prima del processo, ma il dottor Carlo Citterio, presidente della seconda sezione penale della Corte, ha assicurato che se la successiva discussione del difensore e la conseguente Camera di Consiglio lo persuaderanno della infondatezza della tesi già scritta in motivazione, il relatore sarà ben lieto di riscriverla sostenendo l’esatto contrario. Riscrivere una sentenza? O meglio, una sentenza emessa in assenza del contraddittorio? Anche in questo caso sono state violate le più basilari norme in tema di equo processo e non si possono che condividere le parole del presidente Caiazza: “La sovranità legislativa è del Parlamento, la Magistratura si limiti a rispettare e ad applicare le leggi, anche quelle che non le piacciono e che non condivide”. Forse è il momento che tutti gli avvocati riacquistino, in attesa delle conferme in Costituzione, con tutta la potenza della categoria (di una professione tanto necessaria quanto indispensabile) la consapevolezza di essere l’ultimo baluardo della Giustizia.

·         Le Sentenze “Copia e Incolla”.

Giu.Sca per “il Messaggero” l'11 novembre 2020. Non c' era alcun dubbio la condanna era giusta, le motivazioni, però, erano di un altro imputato. Quattro mesi di carcere per resistenza a pubblico ufficiale. Ma un po' di tempo dopo, quando i giudici hanno consegnato il documento dove spiegavano il perché e il percome avevano deciso di dichiarare la sua colpevolezza, è arrivata la sorpresa: l' incartamento riguardava un' altra persona, un' altra vicenda, un altro reato. È stato un pasticcio quello combinato in chissà quale ufficio della Corte d' appello di Torino nel 2019, su cui ha dovuto metter mano la Cassazione. Ora il signor F., 50 anni, sardo trapiantato nell' Alessandrino, potrebbe farla franca: la sentenza è stata annullata, e ci sarà un nuovo passaggio davanti ai giudici subalpini che probabilmente si rivelerà inutile, dato che lo stesso pg ha fatto presente che ormai il caso è prescritto. Quello che può essere successo, secondo la Cassazione, è «un errore nella allegazione della motivazione al frontespizio della decisione». In sostanza, qualcuno ha scambiato le motivazioni. Cosicché la condanna di M.F. è stata sovrapposta a fatti che riguardavano un certo signor T., imputato di resistenza e lesioni. Non è la prima volta che i giudici, in Italia, compiono errori simili. Più grave del caso di Torino è stato quello che ha riguardato la Corte d' appello di Venezia. Il 6 luglio scorso un avvocato aveva ricevuto via pec le motivazioni di una sentenza relativa a un processo che il legale avrebbe dovuto discutere lo stesso giorno. Motivazione che, tra l' altro, erano il copia incolla di un altro verdetto dei magistrati del 2016. Tornando, invece, alla corte D' Appello del capoluogo piemontese già in passato gli Ermellini, ne avevano contestato l' operato: nel 2018 cassarono un provvedimento che aveva negato a un pusher la riduzione della pena dopo avere scoperto che era scritto su «un modello prestampato». Nel 2019 sgridarono la Corte perché aveva avuto troppa fretta: il processo a un quarantottenne di Domodossola per hashish era stato fissato alle ore 11, ma i giudici lo cominciarono alle 10:21 e lessero il dispositivo venti minuti dopo. Quando l' avvocato difensore arrivò in aula, alle 11 spaccate, si sentì dire che era tutto finito. Il 2019 fu anche l' anno in cui un giovane commesso, Stefano Leo, fu ucciso sul Lungo Po da uno sconosciuto che, dopo l' arresto, dichiarò di averlo scelto a caso come vittima sacrificale: l' uomo era stato condannato mesi prima per maltrattamenti in famiglia ma non era andato in carcere perché la Corte non aveva trasmesso le carte all' autorità competente. Il presidente, Edoardo Barelli Innocenti, si scusò pubblicamente.

Salerno, il capo d’imputazione? «Copiato dalla memoria difensiva». Simona Musco su Il Dubbio il 25 luglio 2020. La denuncia di due avvocati: «accuse non controllate e fatti non verificati». Dopo la richiesta di rinvio a giudizio il pm ha chiesto la restituzione degli atti, salvo poi fare marcia indietro giovedì. Ma il Gup ha rispedito tutto il fascicolo in procura. Un capo d’accusa totalmente copiato dalla memoria della parte civile e contenente un fatto «non corrispondente al vero» ma mai verificato. A denunciarlo sono gli avvocati Ivan Pacifico e Antonio Nobile, protagonisti di quella che venerdì scorso, a Salerno, è apparsa a tutti come un’udienza preliminare a dir poco surreale, iniziata con la richiesta di rinvio a giudizio degli imputati e terminata anzitempo con la richiesta di restituzione degli atti per tre dei sei capi d’accusa. L’inchiesta vede otto persone imputate a vario titolo, tra le altre cose, per diffamazione a mezzo stampa in concorso, concussione ed estorsione. E soprattutto quest’ultima accusa, secondo Pacifico e Nobile, sarebbe totalmente campata in aria: l’imputata, infatti, si è vista riconoscere per ben cinque gradi di giudizio, in sede civile, il diritto ad essere reintegrata nella cooperativa dalla quale era stata estromessa anni prima e a vedersi versare circa 160mila euro per spettanze non retribuite e altro. «La vicenda nasce dunque anche da pretese economiche che l’imputata ha nei confronti della presunta persona offesa, che per evitare di pagare quello che è dovuto ha imbastito una serie di azioni legali civili – spiega Pacifico al Dubbio -. Ci sono stati cinque giudizi: un arbitrato, un appello sull’arbitrato, una Cassazione, un giudizio di primo grado e uno di Corte d’Appello, tutti conclusi con sentenze favorevoli alla persona oggi imputata. I giudici nell’ultima, risalente al 29 giugno scorso, proprio perché stanchi di questa querelle, hanno condannato la presunta persona offesa, in via punitiva, al pagamento del doppio del contributo unificato. Ma secondo il capo d’imputazione, tali sentenze sarebbero state sfavorevoli alla donna, che nonostante ciò avrebbe continuato a prendere il pagamento di tali somme». Da qui l’accusa di estorsione, attraverso «la minaccia inequivoca di riuscire ad ottenere (per la cooperativa, ndr) ulteriori ispezioni e verifiche con cui procurare non solo ingenti danni e consistenti esborsi per spese legali ma addirittura concreti rischi di perdita dell’accreditamento (al servizio sanitario nazionale, ndr) e dunque di chiusura della cooperativa». Tale capo d’accusa, il numero 3, «è perfettamente identico a quanto contenuto nella memoria del difensore di parte civile, che ha quindi indicato il capo d’imputazione ideale, che il pm ha letteralmente copiato e trasposto nell’avviso di conclusione delle indagini». Quel pm, nel frattempo, è stato promosso e trasferito altrove e il fascicolo assegnato ad un nuovo sostituto. «Per quanto mi consta, per il Csm copiare la sentenza di un altro giudice costituisce un illecito disciplinare. In questo caso sono stati copiati e incollati addirittura atti provenienti dalla persona offesa. Colui che ha ereditato il fascicolo – ha spiegato Pacifico – non ha letto le carte, chiedendo comunque il rinvio a giudizio». Ma come si è arrivati alla richiesta di restituzione degli atti? «Come avvocati, per una questione di cortesia personale e per evitare che apprendesse tali fatti dai giornali, abbiamo inviato la memoria in cui spieghiamo tutte le stranezze di questa vicenda, sentenze favorevoli incluse, non solo al giudice d’udienza ma anche al procuratore di Salerno, Giuseppe Borrelli, che essendo nuovo non poteva conoscere tutti i dettagli – ha aggiunto Pacifico -. Durante l’udienza abbiamo visto fasi concitate, fino a quando il pm ha interrotto il giudice, che stava leggendo un’ordinanza, chiedendo la restituzione degli atti per tre dei sei capi d’imputazione, con la scusa di dover verificare chi siano effettivamente le persone offese». Insomma, un modo per prendere tempo e chiarire la questione, secondo i difensori. Giovedì scorso il nuovo colpo di scena: la Procura è tornata sui suoi passi, chiedendo non più la restituzione degli atti ma solo l’integrazione del contraddittorio. Ma dopo un’ora e mezza di udienza e due di camera di consiglio, il Giudice ha rispedito l’intero fascicolo in Procura, ovvero tutte e 18mila le pagine agli atti e non solo le circa 12mila richieste inizialmente dal pm. «Quello che ci sorprende – ha concluso Pacifico, che contesta in toto l’indagine, lamentando anche la fusione di due vicende distinte – non è tanto che gli avvocati scrivano ciò che viene rappresentato dai propri clienti, ma che il magistrato abbia preso tutto per buono, senza fare alcuna verifica».

Gianluca Amadori per “il Gazzettino” il 14 luglio 2020. Corte d' appello di Venezia nell' occhio del ciclone. L' Unione delle Camere penali del Veneto e i 7 presidenti delle Camere penali della regione, informata l' Unione nazionale delle Camere penali, hanno sollecitato il ministero della Giustizia a disporre un' ispezione urgente per quelle che ritengono essere bozze di alcune sentenze già scritte, con tanto di condanna e indicazione dei termini di deposito delle motivazioni, prima ancora che l' udienza venisse discussa. Un fatto di «enorme gravità», ha denunciato il direttivo della Camera penale veneziana in una lettera inviata ieri a tutti gli avvocati per informarli di quanto accaduto e auspicare che venga restituita al più presto «chiarezza ai rapporti processuali ed al giudizio d' appello nella nostra Corte». «Nessuna sentenza già scritta, ma una semplice bozza di ipotesi di decisione, predisposta dal giudice relatore sulla base di uno schema predisposto dal Csm e come consentito dalla Cassazione», replica la presidente della Corte d' appello lagunare, Ines Marini. Tutto ha preso il via a seguito della segnalazione pervenuta da due legali veneziani in relazione all' udienza dello scorso 6 luglio di fronte alla prima sezione penale della Corte, presieduta dalla trevigiana Luisa Napolitano (già componente del Consiglio superiore della magistratura, fino al 2010), giudice relatore Giulio Borella, a latere Michele Medici. Un avvocato comunica alla Camera penale di aver ricevuto a mezzo pec, con tre giorni di anticipo rispetto all' udienza di discussione, «le motivazioni della sentenza di rigetto ricavate attraverso quello che appare essere il copia e incolla di altra sentenza redatta nell' ottobre del 2016». Quindi, il giorno dell' udienza, un' avvocatessa segnala che alle difese, prima che iniziasse la discussione, era stato consegnato «l' ordito motivazionale della sentenza, comprensivo del dispositivo, che disattende le tesi degli appellanti». In aula chiede informazioni anche il sostituto procuratore generale, Alessandro Severi, e i casi vengono rinviati al 2021. Si trattava di procedimenti che, dopo la sentenza di prima grado, si erano prescritti per il troppo tempo trascorso, ma la decisione era in ogni caso attesa per la presenza di parti civili che reclamano un risarcimento per i danni sofferti. E, nel caso di condanna, poi prescritta in appello, il risarcimento è comunque dovuto. La Camera penale veneziana a sua volta protesta nei giorni successivi scrivendo una dura lettera sia alla presidente della Corte d' appello, che al procuratore generale, Antonello Mura. Ines Marini si attiva immediatamente chiedendo una relazione alla presidente del collegio giudicante, Luisa Napolitano e al coordinatore delle sezioni penali, Carlo Citterio, per poi dare riscontro alla richiesta di spiegazioni degli avvocati, trasmettendo loro i documenti richiesti. Le «copie autentiche dei verbali delle udienze e di ben 7 pronunce complete di motivazione e di dispositivo», precisa la Camera penale veneziana, presieduta da Renzo Fogliata. «Uno sconcertante quadro documentale che rischia di legittimare l' ipotesi che esista una sorta di prassi di precostituzione del giudizio non solo rispetto alla camera di consiglio, ma anche alla discussione delle parti», denuncia il direttivo dell' associazione che riunisce i penalisti della provincia di Venezia. In sostanza gli avvocati ritengono che le sentenze siano state scritte prima della discussione del processo, e dunque senza neppure ascoltare pubblico ministero e difensori. «Quegli schemi, del tutto legittimi, sono stati trasmessi per errore agli avvocati, gettando ombre su decisioni che vengono sempre prese in camera di Consiglio, dopo aver ascoltato tutte le parti - precisa Ines Marini - Sono sorpresa della decisione della Camera penale di rivolgersi al Ministero: non appena ho ricevuto la loro segnalazione mi sono immediatamente attivata per assumere i provvedimenti necessari, a garanzia della massima trasparenza e dunque trasmettendo tutti gli atti richiesti. Comprendo che gli avvocati possano avere frainteso, ma sono amareggiata. Le decisioni non erano state prese, lo ribadisco». La presidente della Corte ricorda gli enormi sforzi compiuti in questi anni dalla Corte veneziana per cercare di gestire gli enormi arretrati con una cronica carenza di personale: «Abbiamo introdotto la relazione introduttiva scritta, anticipata agli avvocati invece che letta in aula, per cercare di accelerare i processi e per poterne trattare un numero superiore. Insomma, per offrire un servizio migliore. Spiace che si vogliano gettare ombre su un' attività svolta sempre nell' ambito dei confini costituzionali».

Venezia, sentenze copia e incolla scritte prima delle udienze: i penalisti chiedono un’ispezione. Simona Musco su Il Dubbio il 15 luglio 2020. Caos in Corte d’Appello, la presidente: «Nessuna sentenza, erano bozze di valutazione». Ma il capo dei penalisti insorge: «Prassi che sviliscono il principio del contraddittorio». Sentenze copia e incolla, scritte prima ancora della discussione di pm e avvocati. È questa la grave accusa mossa dalla Camera penale di Venezia, che ha chiesto al ministero della Giustizia l’invio degli ispettori presso la Corte d’Appello, «al fine di restituire chiarezza ai rapporti processuali e al giudizio di appello nella nostra Corte». Il fatto risale al 6 luglio, quando un avvocato ha denunciato, nel corso di un’udienza davanti alla I Sezione penale, di aver ricevuto già tre giorni prima, via pec, la sentenza relativa al caso trattato. Un errore d’invio, spiega al Dubbio il presidente della Camera penale Renzo Fogliata, perché la mail, in realtà, avrebbe dovuto contenere la relazione scritta. Ma in allegato gli avvocati si sono ritrovati «l’ordito motivazionale della sentenza, comprensivo del dispositivo, che disattende le tesi degli appellanti». E, si legge ancora nella nota inviata a via Arenula, le motivazioni della sentenza di rigetto sarebbero state ricavate «attraverso quello che appare essere il copia e incolla di altra sentenza redatta nell’ottobre del 2016».

La “svista” della Corte d’Appello. La “svista”, spiega Fogliata, nasce da un malvezzo di base: «in Corte d’Appello a Venezia vige questa cattiva abitudine, l’aver sostituito la relazione orale con la relazione scritta, probabilmente perché è comoda come bozza di sentenza, dal punto di vista dei fatti. Ma in questo caso è stata inviata direttamente la decisione». Il fatto è stato identico per un’altra avvocatessa, che aprendo il fascicolo, al posto della relazione, ha trovato il dispositivo, «naturalmente sfavorevole». Si tratta di casi in cui bisognava decidere se applicare la prescrizione o accogliere i motivi d’appello e, quindi, assolvere l’imputato. «Ma agli atti, prima ancora che le parti si esprimessero, c’era il respingimento dei motivi d’appello», aggiunge il presidente dei penalisti. Da qui la richiesta di chiarimenti, da parte di tutte le Camere penali del Veneto (sette in totale), che hanno sottoscritto la nota inviata al ministro Alfonso Bonafede e la richiesta di chiarimenti inviata alla presidenza della Corte d’appello di Venezia e alla Procura Generale, con la quale veniva chiesta copia delle sentenze «già scritte» in questione, ovvero sette. «Alcune erano incomplete, ma almeno un paio – spiega ancora Fogliata – erano complete, dall’intestazione fino al dispositivo. Ed erano già nel fascicolo, prima della discussione delle parti. La situazione si commenta da sé». Il dubbio, spiega ancora il penalista, «è che si tratti di una prassi. Non possiamo affermarlo con certezza – aggiunge – ma il sospetto c’è». Dal canto suo, la presidente della Corte d’Appello, Ines Marini, dopo aver trasmesso copie autentiche dei verbali delle udienze e le sette pronunce «complete di motivazione e di dispositivo», ha provato a spiegare la vicenda respingendo le accuse. «Nessuna sentenza già scritta – ha spiegato a Il Gazzettino -, ma una semplice bozza di ipotesi di decisione, predisposta dal giudice relatore sulla base di uno schema predisposto dal Csm e come consentito dalla Cassazione. Le decisioni – ha aggiunto – vengono prese in camera di consiglio, dopo aver ascoltato tutte le parti. Sono sorpresa della decisione di rivolgersi al ministero. Comprendo che gli avvocati possano avere frainteso, ma sono amareggiata». La relazione, dunque, verrebbe «anticipata agli avvocati invece che letta in aula, per cercare di accelerare i processi e poterne trattare un numero superiore». Ma la risposta non ha convinto i penalisti veneziani, secondo cui si tratta di «uno sconcertante quadro documentale che rischia di legittimare l’ipotesi che esista una sorta di prassi di precostituzione del giudizio non solo rispetto alla camera di consiglio ma anche alla discussione delle parti. Una prassi che mortificherebbe il nostro ruolo, renderebbe vuoto il contraddittorio e finendo con il delegittimare l’intera Corte di appello e i tanti giudici che praticano con convinzione il giudizio dialettico».

Chiesta l’apertura di una pratica al Csm. Le udienze, nell’imbarazzo generale, sono state rinviate al 2021. «E loro stessi hanno parlato di “una sorta di anticipazione della valutazione”, ammettendo per primi, dunque, che si tratta proprio di questo. Per me è incomprensibile parlare di bozze di valutazione consentite dal Csm: intanto si offende l’intelligenza di tutta l’avvocatura – continua Fogliata -, perché dovremmo essere degli sprovveduti per confonderle con una sentenza. E mai il Csm potrebbe autorizzare una prassi di questo tipo, perché sarebbe contra legem, in modo brutale». L’indignazione è stata condivisa, in aula, dal sostituto procuratore generale, Alessandro Severi, che ha chiesto chiarimenti sull’accaduto. Ora si attendono le verifiche del ministero, ma intanto i laici del Csm Stefano Cavanna (Lega) e Alberto Maria Benedetti (M5S) hanno chiesto al Comitato di presidenza di aprire una pratica per «effettuare un’approfondita istruttoria» e «conseguentemente, accertare l’eventuale sussistenza di fatti e/o condotte rilevanti nell’ambito delle competenze del Consiglio, nonché al fine di adottare le iniziative meglio ritenute». E nel caso in cui venisse fuori che altre sentenze, in passato, siano state scritte in anticipo, spiega il capo dei penalisti, le conseguenze potrebbero essere molteplici, «a partire dalla nullità del processo. Quel che è certo – conclude – è che questo episodio è la spia di uno squilibrio: se anche volessimo, violentando la realtà delle cose, definire quegli atti delle bozze, allora va detto che le stesse sono gravemente irrispettose del ruolo delle parti e del ruolo del processo, ma anche del ruolo stesso del giudicante, che così è svilito e mortificato. Chi giudica senza celebrare un processo non è più un giudice, ma un funzionario amministrativo, come un Prefetto, e non c’entra più la giurisdizione. Esistono giudici che credono nella funzione della dialettica e del contraddittorio, che ascoltano le parti davvero e fanno il loro lavoro tutti i giorni. Ma accanto a loro esiste un filone di magistrati che, molto spesso, vive la difesa come un fastidio o un ostacolo. Non possiamo negarlo».

·         Il Male minore. Condanna, spesso, senza colpa. Gli effetti del Patteggiamento.

Coimputati per lo stesso reato: uno è assolto e l’altro condannato. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 7 luglio 2020. Coimputati dello stesso reato: uno assolto e l’altro condannato. Sono gli “effetti” collaterali del patteggiamento; “l’applicazione della pena su richiesta delle parti”. Coimputati dello stesso reato: uno assolto e l’altro condannato. Sono gli “effetti” collaterali del patteggiamento, “l’applicazione della pena su richiesta delle parti” come recita il codice di procedura penale, di fatto una condanna a scatola chiusa di cui poi ci si pente senza, però, la possibilità di tornare indietro. Questi i fatti. O. E. è un sindacalista milanese. Coinvolto in una maxi indagine su infiltrazioni mafiose, condotta dalla Dda del capoluogo lombardo, negli appalti per i servizi di facility, decide di patteggiare nel 2018 una pena a tre anni e tre mesi di reclusione per i reati di associazione a delinquere e traffico di influenze illecite. Provato da diversi mesi di carcerazione preventiva in regime di isolamento, O. E. pensa che il patteggiamento sia il male minore per uscire dal gorgo giudiziario in cui è precipitato. Una scelta, quella di O. E., comune a molti nella sua posizione: davanti alla prospettiva di rimanere anni con la spada di Damocle di un carico pendente, il patteggiamento sembra essere la via d’uscita apparentemente più indolore. Presentata istanza di patteggiamento, si spalancano le porte del carcere. I coimputati di O. E., invece, sono di diverso avviso e decidono per il rito ordinario, affrontando il processo in custodia cautelare. Al termine del dibattimento, la sorpresa: il collegio li assolve da questa imputazione per “insussistenza del fatto”. La difesa di O. E., lette le motivazione dell’assoluzione, dato che la vicenda in cui erano coinvolti era identica, decide allora di presentare istanza di revisione della sentenza di patteggiamento a tre anni e tre mesi, nel frattempo già scontati fra detenzione domiciliare ed affidamento ai servizi sociali. La decisione dei legali di O. E si fonda su una accurata ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio dove “erano stati trovati mancanti di un uno degli elementi costitutivi del reato”. “Sussiste un conflitto di giudicati basato sull’incompatibilità dei fatti storici su cui si fondano le sentenze”, proseguono i difensori del sindacalista milanese. Gli avvocati, ricostruito il fatto storico, chiedevano allora di assolvere l’imputato da tutte le imputazioni per insussistenza del fatto. La doccia fredda della Corte d’Appello di Brescia, competente per la revisione delle sentenze di condanna emesse dai colleghi di Milano. è arrivata la scorsa settimana: l’istanza è stata dichiarata inammissibile. Tutto in punto di diritto è il ragionamento dei giudici bresciani.“ La giurisprudenza prevalente con riferimento al contrasto di giudicati che coinvolgono una sentenza di applicazione pena, esclude che la semplice assoluzione del coimputato che abbia optato per un rito diverso valga a configurare contrasto di giudicati”, esordiscono i togati. “Diverso – aggiungono – è il criterio di valutazione proprio dei due riti di per se tale da condurre fisiologicamente ad esiti opposti”. Ma non solo. “La revisione cesserebbe di essere un mezzo di impugnazione straordinario e diventerebbe strumento a disposizione del patteggiante per revocare in dubbio una decisione da lui stessa richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e della responsabilità”. Non nuove prove, come sarebbe necessario per la revisione della sentenza, allora, “ma semplice valutazione in termini di insufficiente probatorio degli elementi d’accusa già presenti”. In conclusione, si può essere dichiarati colpevoli di un reato che non si è mai commesso. E per questo reato mai commesso si possono anche scontare anni di reclusione. E non finisce qui. Infatti, oltre alla beffa scatta anche il danno. E già, perchè i giudici bresciani, oltre a dichiarare inammissibile l’istanza di revisione delle sentenza da parte di O. E., lo hanno anche condannato al pagamento di mille euro di spese. La difesa di O. E. ha già annunciato che presenterà ricorso in Cassazione. Con la speranza, però, di un esito più favorevole.

·         Il lusso di difendersi.

Ma quanto cazzo costano sti avvocati…televisivi?

Raffaele Sollecito ancora nei guai: “In carcere da innocente, adesso sono sul lastrico”. Marco Preve su La Repubblica il 10 ottobre 2020. Assolto per l’omicidio di Meredith Kercher ha chiesto i danni allo Stato, ma ha perso. Deve ancora 660 mila euro ai difensori Bongiorno e Maori. Dopo 4 anni di carcere, una serie infinita di processi e trasmissioni tv, Raffaele Sollecito venne assolto definitivamente dalla Cassazione nel 2015 per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, sgozzata a Perugia il primo novembre 2007. Ma l'innocenza non cura la depressione, non cancella dalla mente delle persone il pregiudizio e soprattutto non si trasforma in un bancomat quando devi ancora pagare - oltre ai 400 mila già anticipati da tuo padre - 300 m...

 La Franzoni non paga. E Taormina pignora la villa di Cogne. Via libera da parte del Tribunale di Aosta al pignoramento. La Franzoni, condannata per l’omicidio del figlio Samuele, doveva ancora pagare all'avvocato 450mila euro. Valentina Dardari, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. L’avvocato Carlo Taormina ha avuto il via libera dal Tribunale di Aosta: potrà infatti proseguire le pratiche per il pignoramento della villetta di Cogne. Il ricorso presentato da Annamaria Franzoni e dal marito Stefano Lorenzi, con la richiesta di sospendere l’esecuzione immobiliare, è stato respinto dal giudice Paolo De Paola. Il legale Taormina aveva infatti difeso la mamma del piccolo Samuele Lorenzi, accusata dell’omicidio del figlio avvenuto nel gennaio 2002. La donna era stata poi condannata a 16 anni di carcere, ridotti poi a 11 anni di reclusione.

L'avvocato Taormina non era stato pagato. L’avvocato però non era mai stato pagato e per questo motivo aveva deciso di rivolgersi alla magistratura. Il contenzioso nasce dalla sentenza civile passata in giudicato a Bologna dove la Franzoni, condannata per l’omicidio del bambino, avvenuto proprio nella casa di Montroz, frazione di Cogne, a gennaio 2002 e per cui era stata condannata a 16 anni, non ha ancora pagato gli onorari difensivi al suo ex legale, Carlo Taormina. Si tratta di oltre 275mila euro, diventati poi circa 450mila nell’atto di pignoramento.

Franzoni condannata: dovrà risarcire l'avvocato Taormina. Negli scorsi mesi, assistito dal figlio Giorgio, Taormina aveva pignorato la metà della casa dove la Franzoni, che adesso si è trasferita sull’Appennino bolognese, era ritornata per poco tempo dopo che aveva scontato la sua condanna penale, ridotta a 11 anni per indulto e benefici.

Franzoni e Lorenzi avevano fatto ricorso. Quando la donna e il marito si erano opposti al pignoramento dell’abitazione, assistiti dagli avvocati Maria Rindinella e Lorenza Parenti, avevano sostenuto che la casa non fosse pignorabile in quanto all’interno di un fondo patrimoniale, fatto nel maggio del 2009. Il giudice ha però respinto il ricorso. La costituzione del fondo, che era stata fatta all’epoca da Lorenzi, allora tutore della moglie, interdetta a seguito della condanna penale, è ricollegabile all’iter processuale della Franzoni che, proprio per il suo stato, non poteva occuparsi dei bisogni materiali e morali della famiglia. Anche il debito contratto con Taormina per l'attività difensiva, in quanto atto a dare la possibilità alla donna di ritornare il prima possibile ai suoi affetti, risulta legato ai bisogni della famiglia. E se il debito ha queste caratteristiche, il fondo non può essere motivo di opposizione al pignoramento. La villetta potrà quindi essere messa in vendita, nonostante penda un giudizio nel merito, sempre ad Aosta, che il giudice ha invitato a fissare entro il prossimo venerdì 30 ottobre.

L'avvocato Taormina e la villa di Cogne pignorata: "Troppo dolore in quella storia. Dimentichiamola". Pubblicato sabato, 19 settembre 2020 da Sarah Martinenghi su La Repubblica.it. "Questa è una storia che mi ha causato troppi dolori, troppi dispiaceri. Per questo non mi piace parlarne, non fatemi aggiungere altro". L'avvocato Carlo Taormina vorrebbe considerare un capitolo chiuso la vicenda  che da anni lo lega ad Annamaria Franzoni, in un rapporto che l'ha visto passare dall'essere al suo fianco, come avvocato difensore quando lei fu accusata di aver ucciso il figlioletto Samuele, a controparte nelle aule di giustizia per le parcelle non pagate. Ieri una nuova puntata della querelle che si trascina da più di dieci anni, gli ha visto assegnare dal giudice una vittoria parziale: andrà all'asta, proprio per ripagarlo, la villa di Cogne dove nel 2002 era stato ucciso il piccolo Samuele. Il giudice di Aosta non ha infatti accolto la richiesta dei coniugi Lorenzi (assistiti dagli avvocati Maria Rindinella e Lorenza Parenti) di bloccare la procedura di esecuzione immobiliare, dando l'ok al pignoramento da parte di Taormina. "Non avrei nemmeno voluto che uscisse la notizia - dice con sconforto l'avvocato - preferirei che non se ne parlasse proprio più: non mi interessa nemmeno, per questo non la commento in alcun modo". Sono lontani i tempi in cui Taormina proclamava a gran voce l'innocenza della sua ex-assistita. Lei aveva inteso che lui l'avrebbe patrocinata a titolo gratuito. E certo non si aspettava di vedersi recapitare una richiesta di pagamento per averla difesa fino a parte del secondo grado, che sfiorasse quasi il milione di euro. Una cifra esorbitante che era stata ritenuta, in effetti, troppo alta anche dal giudice che l'aveva rimodulata in 275 mila euro. Saliti però ora a 450 mila, tra interessi e rivalutazione, nell'atto di pignoramento. A quella casa in frazione Montroz che gli italiani hanno imparato a conoscere bene per la quantità di accertamenti e sopralluoghi fatti durante le indagini e il processo, Annamaria Franzoni è sempre rimasta molto legata. Tanto da esserci tornata più volte: brevi visite, il tempo di fare qualche lavoretto per sistemare il giardino o ridare il colore alle pareti, dopo la ritrovata libertà una volta scontata la sua condanna a 16 anni di carcere. Ma né lei né il marito hanno mai pensato di venderla. Anzi, nel 2009, intorno a lei hanno costituito un fondo patrimoniale e sulla base di ciò hanno chiesto al giudice di bloccare il pignoramento della loro casa da parte dell'avvocato. Ma il giudice di Aosta ha fatto un ragionamento in cui ha cucito l'intento del fondo con quello dell'assistenza legale ricevuta al tempo da Taormina per dimostrare che entrambi avessero lo stesso scopo, legato ai "bisogni della famiglia". La costituzione del fondo, fatta da Stefano Lorenzi in qualità, all'epoca, di tutore della moglie che era interdetta a seguito della condanna penale, è ricollegabile alla vicenda processuale di Franzoni che, per il suo stato, non poteva occuparsi dei bisogni materiali e morali della famiglia. Ma legato ai bisogni della famiglia, secondo il giudice, è anche il debito contratto da Annamaria Franzoni con Taormina per l'attività difensiva, in quanto funzionale a ottenere la possibilità, per lei, di ritornare il prima possibile ai suoi affetti. E se il debito ha queste caratteristiche, il fondo non può essere motivo di opposizione. A questo punto potrà essere disposta la vendita dell'immobile, anche se pende un giudizio nel merito, sempre ad Aosta, che il giudice ha invitato a fissare entro il 30 ottobre. "La casa può andare all'asta perché la procedura con questa decisione non è stata sospesa - ha commentato Giorgio Taormina, che assiste il padre nel procedimento - ma se la controparte intende procedere ancora nel merito la causa potrà certamente andare ancora avanti, anche fino in Cassazione".

Giusi Fasano per il ''Corriere della Sera'' il 7 novembre 2020. L'abbiamo vista tutti. Ci siamo entrati anche senza esserci mai stati. Fotografie fronte/retro/lato/interno, dettagli ingranditi, il plastico sul tavolo di Porta a Porta... Stiamo parlando della villetta di Cogne. Che poi: la sola espressione - «villetta di Cogne» - porta immediatamente lì, alla casa di Annamaria Franzoni e del suo bambino, Samuele, che fra quelle mura fu ucciso la mattina del 30 gennaio 2002. Porta lì, appunto. Nella villa della frazione di Montroz, come se a Cogne non ci fossero altre villette. Potenza della cronaca. Di una storia iper-raccontata che ancora adesso, dopo tutti questi anni, si trascina nelle aule giudiziarie e rievoca le tante immagini-chiave che l'hanno narrata negli anni. La villetta prima fra tutte. Il tribunale di Aosta ha appena disposto la vendita della casa alla quale Annamaria Franzoni e suo marito Stefano Lorenzi si sono inutilmente opposti. Niente da fare: la villa si vende perché è il solo bene dal quale può arrivare la cifra per pagare la parcella mai onorata dell'ex avvocato di Annamaria, Carlo Taormina, che ha chiesto e ottenuto il pignoramento. Base d'asta: 800 mila euro, data della vendita ancora da fissare. Il professor Taormina aveva difeso la mamma di Samuele nel primo e in parte del secondo grado. Si dice che lei e suo marito sulle prime avessero anche creduto che quell'impegno fosse gratuito. Errore. La parcella è arrivata eccome: quasi un milione di euro che il giudice ha ritenuto improponibile e ha rivisto al ribasso, cioè 275 mila euro, diventati adesso 470 con interessi, rivalutazione, Iva... Annamaria Franzoni oggi vive sull'Appennino bolognese e ha pagato il debito con la giustizia (16 anni di condanna). Qualche volta è tornata a Montroz e chi la conosce sostiene che mai avrebbe voluto disfarsi di quella casa. Ma adesso la domanda è: chi si farà avanti per comprarla? Per quanto in ripresa, è difficile credere che il mercato immobiliare possa piazzare facilmente una villa - per altro disabitata dal 2002 - a una cifra così alta. E poi c'è il fattore psicologico. Che conta, pur facendo appello a tutta la razionalità possibile. Quale famiglia (magari con bambini) vorrà abitare fra quelle mura? Chi vorrà dormire nella stanza dell'omicidio? Chi potrà pensare di sopportare che per anni e anni a venire qualcuno passi davanti e si fermi a indicare o commentare: quella, proprio quella, è la casa del delitto di Cogne! I luoghi delle grandi storie di cronaca sono spazi difficili da vivere. A meno che non li scelgano le stesse famiglie che ci abitavano prima dei fatti, com' è successo a Garlasco, per esempio, dove Alberto Stasi ha ucciso Chiara Poggi, oppure a Novi Ligure, dove Erika e Omar hanno massacrato la madre e il fratellino di lei. Spesso le aste vanno a vuoto, le vendite finiscono per essere svendite o la questione si chiude con l'affido del posto a qualche associazione. Il prezzo di certi ricordi è sempre troppo alto.

Vince le cause per il Comune ma non la paga nessuno… nemmeno i commissari prefettizi. Simona Musco su Il Dubbio il 25 Settembre 2020. L’assurda vicenda di un avvocata calabrese: porte in faccia anche da chi rappresenta la legalità. Un lavoro ben svolto, fino alla fine. Un Comune che incassa ma non paga. E il mestiere di avvocato, ancora una volta, vituperato dallo Stato. Non una, ma ben due volte. Protagonista della vicenda è l’avvocato Giuseppina Tuscano, chiamata a rappresentare il Comune di Palizzi, frangia estrema della Locride, in provincia di Reggio Calabria, contro tre consiglieri di minoranza, intenzionati ad ottenere una dichiarazione di incandidabilità dell’allora sindaco Arturo Walter Scerbo. Tuscano vince due volte, ma quando è il momento di farsi pagare dal Comune arriva solo il silenzio. E ciò nonostante al posto del sindaco ci sia, ormai, una Commissione nominata direttamente dal Presidente della Repubblica, che ha certificato l’infiltrazione mafiosa dell’ente. Così, dopo una serie di richieste rimaste per lo più senza risposta, Tuscano si trova costretta a rivolgersi alla procura, semplicemente per chiedere quanto dovuto. La vicenda inizia nel 2015, quando l’avvocato si presenta, su richiesta del Comune, davanti al Tribunale di Locri e vince: il primo cittadino è legittimato a rimanere in carica. Tocca, allora, ai tre consiglieri pagare le spese di lite, che in primo grado ammontano a circa 3.800 euro. Somme che non vengono versate spontaneamente dai tre rendendo necessario, dunque, un recupero coattivo. Tuscano invia la fattura al Comune, che recupera le somme ma non paga. E così inizia il lungo carteggio, quasi totalmente a senso unico, lungo tre anni, dal 2016, anno della sentenza, al 2019, con il quale l’avvocato chiede di vedersi riconosciuto il lavoro svolto. Anni in cui al Comune arrivano, intanto, anche la Commissione di accesso agli atti e quella straordinaria, nominata dopo lo scioglimento dell’amministrazione comunale. Ma nulla da fare: dal Comune, sia prima sia dopo l’azzeramento degli organi amministrativi, tutto tace. Così, a marzo scorso, il legale ribadisce la richiesta, comprensiva, questa volta, degli interessi. La risposta, però, è sempre la stessa: il silenzio. Ma il debito del Comune è destinato a crescere. I tre consiglieri di minoranza, infatti, non si danno per vinti e propongono ricorso in appello. E il Comune, nonostante il debito nei confronti di Tuscano, le riconferma il ruolo di difensore. L’avvocato vince nuovamente, ma ancora una volta, per recuperare le somme, si procede a pignoramento. Il copione si ripete uguale: Tuscano invia tre solleciti al Comune, poi la fattura, che viene contestata perché incompleta. Fino a quando nella vicenda entra in gioco un altro avvocato: il nuovo legale dell’Ente. Che chiede gli atti necessari per verificare la veridicità del credito, atti, di fatto, necessariamente in possesso del Comune, come delibere e relativi impegni di spesa. Tuscano, dopo l’iniziale sbigottimento, invia quanto richiesto, domandando, contestualmente, lumi sulle somme dovute. Ma niente: ancora una volta il Comune si trincera dietro il silenzio. Da qui il ricorso al Tribunale e l’ottenimento di un decreto ingiuntivo, con la speranza, finalmente, di ottenere quanto dovuto, così come stabilito dal Tribunale di Reggio Calabria: 14.487,54 euro più interessi. L’atto viene notificato il 20 luglio scorso e Tuscano, questa, volta, è speranzosa: si tratta, in fondo, di soldi che il Comune ha incassato e che spettano di diritto all’avvocato che ha consentito all’Ente di vincere la causa. Ma l’ennesimo colpo di scena non si fa attendere: il 31 luglio la Commissione straordinaria dichiara il dissesto. E così ogni possibilità di recuperare quelle somme sembra sfumare. Del dissesto finanziario, si legge nell’esposto presentato dall’avvocato Tuscano in procura, la stessa viene informata dal nuovo legale dell’ente, con una lettera, datata 24 agosto, nella quale il credito viene contestato «integralmente quanto all’esistenza, alla certezza, liquidità ed esigibilità». Insomma, una nuova beffa. Eppure, ricorda Tuscano, si tratta semplicemente «di somme delle quali il Comune si è appropriato ingiustamente ed illegittimamente, in quanto spettanti integralmente ed esclusivamente all’avvocato a titolo di spese legali». Da qui l’accusa di appropriazione indebita mossa nei confronti del Comune. Ma non solo: le fatture emesse dall’avvocato hanno comportato anche un esborso per il pagamento dell’Iva e delle tasse ed «avendo già da tempo avviato la procedura per la dichiarazione di dissesto – continua l’esposto – si è deliberatamente proceduto ad una distrazione delle somme». Il rammarico dell’avvocato è enorme: a non pagare, infatti, è stata proprio quella Commissione spedita da Roma per risanare le criticità di un ente considerato “infetto”, gente che, dunque, dovrebbe rappresentare una garanzia di legalità. «Quanto accaduto in danno della scrivente conclude Tuscano – ha avuto luogo nel mentre, dentro il Comune, operavano rispettivamente una Commissione d’accesso antimafia ( con funzioni accertative) prima e una Commissione straordinaria nominata direttamente con decreto del Capo dello Stato ( con funzioni di gestione) dopo, indiscussi presidi di legalità, cui va il “merito” di non aver gestito come avrebbero dovuto le somme riscosse a titolo di spese legali».

Destra, sinistra e il menefreghismo per la libertà dei poveri. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 31 Luglio 2020. C’è un’emergenza doppia nella giustizia italiana. E sta nel fatto che essa violenta le libertà individuali mentre a patirne sono perlopiù i poveri. Non soltanto, ovviamente: ma di fatto è lì, dove c’è povertà, dove c’è emarginazione, dove c’è arretratezza culturale, è lì che più fortemente si scarica l’ingiustizia dell’ordinamento. E l’emergenza di questa doppia ingiustizia non è senza causa: ne ha una molto precisa e risiede nella speciale concezione dei diritti di libertà a destra e a sinistra, una concezione diversa ma che nei due casi conduce identicamente al sacrificio dei diritti dei più bisognosi, dei più deboli. Se non c’è né a destra né a sinistra sufficiente attenzione per i diritti di libertà è perché a destra essi sono concepiti come accessori garantiti dal censo mentre a sinistra sono considerati sostanzialmente irrilevanti o in ogni caso recessivi in favore di acquisizioni diverse (uguaglianza, progressione sociale tramite assistenza pubblica e via di questo passo). Il risultato ai danni della vittima principale, e cioè la povera gente, è tuttavia lo stesso: essa non trova protezione a destra perché lì il fervore garantista si eccita a patto che in gioco sia la libertà dei galantuomini, che vuol dire i ricchi; e non trova protezione a sinistra perché lì quel fervore non si eccita proprio. E nei due casi, appunto, a rimetterci sono i poveracci. La connotazione sociale, classista e dopotutto antidemocratica del maltrattamento delle libertà, di cui soffrono innanzitutto i ranghi bassi della società, non impensierisce il garantismo discriminatorio della destra né l’equanimità illiberale della sinistra: e il risultato identico è quello lì, con i poveri che identicamente sono estromessi dal godimento pieno dei diritti di libertà perché essi sono alternativamente un lusso da garantire a pochi (destra) o una cosa senza importanza da non garantire a nessuno (sinistra). Le carceri sono piene di poveri. E a riempirle di poveri è la combinazione condannatoria dell’apartheid liberale di destra con il sostanziale indifferentismo della controparte.

Il lusso di difendersi: fino a 30mila euro di atti e consulenze. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Giugno 2020. Trecento euro per avere copia di un video su dvd, dai 400 ai mille o duemila euro per avere copia di tutti gli atti allegati al fascicolo di indagini. Ci sono stati maxi-processi con decine di imputati e migliaia di intercettazioni in cui per avere pieno accesso al fascicolo integrale si è arrivati a spendere anche di più. Costa caro il solo conoscere le accuse di cui viene sospettati. Se poi si decide di impostare una difesa a tutto tondo, avvalendosi oltre che di un buon avvocato anche di consulenti per la trascrizione di intercettazioni o per perizie medico-legali, si deve essere disposti a spendere anche fino a 20-30mila euro. E se alla fine del processo si viene assolti, si torna a casa solo più sereni. Perché lo Stato non rimborsa nulla delle spese sostenute. “La legge è uguale per tutti”, recita la Costituzione, quella stessa Costituzione invocata e violata, citata per far valere diritti che in alcuni casi esistono sulla carta ma non nella realtà. “La legge è uguale per tutti”, ma non è per tutti la possibilità di difendersi. Spesso è un diritto che riesce a esercitare fino in fondo solo chi può permettersi di affrontare spese per migliaia di euro. Se si considera che in quasi tutte le inchieste le accuse si basano su intercettazioni, va da sé che per difendersi occorre come minimo fare una copia di tutti gli atti allegati al fascicolo del pm e se occorre la trascrizione integrale delle intercettazioni contenute nelle bobine, per valutare anche eventuali conversazioni che i pm non hanno ritenuto rilevanti ma i difensori sì, si arriva a cifre da capogiro. «È noto – spiega il penalista Alfredo Sorge, componente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli – che una delle principali caratteristiche negative del processo penale è la sua durata: perché si giunga a una sentenza definitiva, soprattutto con l’allungamento dei termini di prescrizione, occorre attendere molti anni. È meno noto, ma rappresenta un dato ugualmente preoccupante, che il processo penale ha costi elevatissimi per le parti private (imputati e persone offese). Soprattutto a causa della eccessiva durata delle indagini preliminari, l’immane accumulo degli atti processuali di cui le parti devono chiedere copia (molte centinaia di faldoni) fa sì che, anche se chiesti su supporto informatico, i costi delle copie sono molto elevati a causa degli onerosi diritti che lo Stato impone». «Spesso – aggiunge – ho assistito alla corresponsione di diverse migliaia di euro per avere a disposizione gli atti processuali, soprattutto quando occorrono in fretta per poter adeguatamente affrontare procedure di Riesame avverso le purtroppo sempre troppo frequenti misure cautelari. Il diritto di difesa – conclude l’avvocato Sorge – è dunque diventato sempre più una sorta di lusso, per tutti o quasi, inaccessibile in violazione della nostra Costituzione che l’assicura invece a tutti a prescindere dal reddito». L’avvocato Sergio Pisani ha lanciato sui social una proposta e l’ha spiegata al Riformista. «L’indagato, che per la nostra Costituzione è innocente fino a quando non viene condannato con sentenza definitiva, dovrebbe avere diritto ad accedere a tutti gli atti in maniera gratuita così come l’accusa, salvo poi pagare le spese processuali in caso di condanna. Quello che invece accade nel nostro sistema, dove lo Stato accusa e si fa pagare per quell’accusa, è una cosa davvero antidemocratica – aggiunge Pisani – Considerato che il 60 per cento dei processi si conclude in assoluzione, se si facesse una causa per ottenere il rimborso delle spese legali sostenute da innocenti lo Stato fallirebbe. Serve una riforma».

La legge non è uguale per tutti: Pm senza limiti di spesa, inquisiti costretti a pagare migliaia di euro. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 12 Giugno 2020. La pubblicazione del bilancio sociale della Procura della Repubblica di Napoli induce ad alcune riflessioni sulle ragioni della lentezza e inefficienza della macchina giudiziaria. Premesso che è stata fatta un’apprezzabile operazione di trasparenza, con la quale il più grande ufficio inquirente d’Italia ha comunicato gli esiti dell’attività svolta, va innanzitutto evidenziato l’enorme sproporzione tra le risorse assegnate per le attività d’indagine e quelle destinate agli altri uffici giudiziari. Indagare è un obbligo, ma anche giudicare in tempi ragionevoli e con mezzi adeguati lo è. Tale dovere e onere, però, non preoccupa affatto il Ministero che fornisce alle Procure strumenti tecnologici all’avanguardia per penetrare nella vita privata degli indagati, mentre nei Palazzi di Giustizia mancano il personale e i mezzi per svolgere, in maniera dignitosa e con le dovute garanzie, i processi. Con un esempio, che non sembri blasfemo, ma che può rendere l’idea di quanto in concreto avviene, si potrebbe paragonare il Ministro della Giustizia a un imprenditore che investe il capitale e gran parte delle risorse a reperire le materie prime per iniziare la lavorazione del prodotto, ma non si preoccupa affatto di vedere il manufatto finito o, comunque, se pur finito, non si interessa della sua qualità. Indagini complesse, tanto lunghe quanto costose, producono fascicoli di migliaia di pagine e, ove ci sono intercettazioni, migliaia di file audio. La chiusura delle indagini rappresenta il momento in cui l’avvocato può prendere visione degli atti, attività che va esaurita in venti giorni, a fronte di investigazioni durate diversi anni. Tale evidente sproporzione di tempo a disposizione tra l’”accusa” e la “difesa” – che si riduce maggiormente (soli dieci giorni) se si deve impugnare un’ordinanza di misura cautelare – ha un’aggravante non indifferente, cioè la copia degli atti. Attività per la quale è necessario altro tempo e il pagamento dei diritti di cancelleria. Spesa questa, affatto irrisoria, che va sostenuta dall’indagato/imputato che, pur se assolto, non verrà rimborsato di alcunché. Ove condannato, invece, dovrà pagare le cosiddette “spese di giustizia” in cui sono comprese, tra le altre, quelle sostenute dalla Procura. Il cosiddetto “patrocinio a spese dello Stato” copre una fascia del tutto esigua di popolazione, quella con un reddito annuo imponibile non superiore a 11.493,82 euro e consente di rivolgersi non a tutti gli avvocati, ma solo a legali iscritti nell’apposito albo. Più aumentano le spese delle indagini, dunque, più sarà onerosa la difesa. L’attuale emergenza sanitaria ha evidenziato le croniche deficienze del sistema Giustizia, ancorato a procedure medioevali. Per fare un esempio, ma ce ne sarebbero tantissimi, le cancellerie inviano al difensore, a mezzo pec, l’avviso di deposito di un atto e non l’atto stesso. Per averlo sarà necessario recarsi in cancelleria, depositare istanza, pagare i diritti e, dopo alcuni giorni, tornare per ottenere la copia. In un mondo online, quello penale è da tempo fermo e il flusso di risorse va in un’unica direzione, l’unica che interessa davvero, per la falsa immagine di una giustizia efficiente. Nella “riservatezza” di uno studio televisivo è importante che le intercettazioni – atti che dovrebbero essere coperti da segreto istruttorio – siano di qualità, poco importa se poi non ci saranno le risorse per celebrare il giusto processo, perché manca ovvero non funziona la strumentazione necessaria nelle aule. Il tempo della notizia è quello delle indagini; l’altro, quello del processo, non interessa. Ancora meno se vi sarà una sentenza di assoluzione. Nel mondo giudiziario, dunque, esiste un gigante, con rilevanti risorse, a cui deve essere assegnato uno spazio proprio, che non interferisca con le altri componenti dell’ordinamento. Solo separandolo dal resto ne verrà individuato il reale potere che sarà circoscritto alle sue funzioni e non invaderà altri spazi, come le cronache di questi giorni – e non solo – hanno dimostrato.

·         Il Processo telematico.

Gli esperimenti di Giovanni Falcone sulle nuove tecnologie nei processi. Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Ho seguito con attenzione la proteste degli avvocati sulle attuali modalità d’uso delle tecnologie video nel processo penale e mi sono sentito chiamato in causa, e un po’ anche colpevole, perché sono stato io ad aver proposto, nel 1989, l’utilizzazione delle tecnologie video nell’ambito del processo penale e ad aver anche coordinato per circa tre anni, in base ad un accordo tra Cnr e Ministero della giustizia, gli esperimenti di utilizzazione di quelle tecnologie in cinque tribunali e in una procura. Esperimenti allora autorizzati dal Ministro della Giustizia, Claudio Martelli e attivamente promossi dal direttore generale degli affari penali, Giovanni Falcone. Condivido con gli avvocati l’avversione all’uso di collegamenti video per celebrare i processi ma so anche bene che l’avversione all’uso delle tecnologie video era diffusa tra gli avvocati penalisti anche in passato. È un orientamento negativo dovuto anche al fatto che le tecnologie video non sono state finora utilizzate con le finalità per cui erano state inizialmente da me proposte e che avevano governato le sperimentazione negli uffici giudiziari per promuovere un processo più efficace e garantista, sia nella fase dibattimentale che in quella della indagini preliminari. È un orientamento negativo comprensibile ma a mio avviso errato perché un corretto uso delle tecnologie video, diverso da quello che se ne fa oggi, sarebbe di grande utilità non solo ai fini di un giusto processo ma anche del potenziamento dei diritti della difesa. Ricordo che coll’avvento del codice di procedura penale di stampo accusatorio del 1988, uno dei più difficili problemi da risolvere a livello operativo era la corretta e fedele verbalizzazione del processo divenuto (formalmente) orale. Svolsi allora una ricerca sulle molteplici modalità e le varie tecnologie con cui tale compito veniva assolto nei paesi che avevano sempre avuto un processo accusatorio. A Louisville, nel Kentucky ebbi modo di assistere (ed era allora una novità anche negli Usa) all’utilizzo di riprese video che, nel corso dell’udienza, si posizionavano automaticamente sui soggetti che di volta in volta parlavano, dando in tal modo una fedele rappresentazione visiva non solo delle cose dette in udienza ma anche delle modalità con cui venivano dette (atteggiamenti, comportamenti, esitazioni, cioè tutte le comunicazioni non verbali). Intervistai magistrati e avvocati che la utilizzavano con soddisfazione sia in primo grado che in appello e acquisii informazioni dettagliate sulle tecnologie utilizzate che, tra l’altro, consentivano anche all’avvocato di avere copia della videoverbalizzazione al termine di ogni udienza. A testimonianza del rilievo probatorio che le comunicazioni non verbali assumono nel processo penale mi è utile ricordare quanto scritto su questo giornale alcuni giorni fa (il 21/4/20209) dal Presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. Oltre a censurare l’uso delle telecamere per la celebrazione delle udienze da remoto, Caiazza indica anche le ragioni per cui con esso si viene a minare l’essenza stessa del “diritto di difesa” che egli, in maniera sommaria ma efficace, così ci descrive: «Il controllo fisico, percettivo, emotivo della formazione della prova, della attenzione del giudice, della reazione delle altre parti nell’aula, la comunicazione non verbale con il teste, con il giudice, con il nostro stesso assistito, fatta di sguardi, di tesaurizzazione di una incertezza, di un silenzio improvviso, di un cambio del tono della voce. Percezione che alimenta le intuizioni, le scelte, le accelerazioni o le rinunzie del percorso difensivo». Certamente le attuali, claudicanti, modalità di verbalizzazione dei processi non sono in grado di fornire una rappresentazione di quelle “comunicazioni non verbali” che l’avvocato Caiazza considera, giustamente, cruciali per il “diritto di difesa”. Attualmente esse vengono conservate solo nella memoria, caduca, selettiva, e a volte distratta dei partecipanti al processo ed in caso di divergenze non vi è modo di effettuare verifiche. Una difficoltà sempre presente ma che caratterizza in particolare i processi lunghi e complessi che vedono la presenza di molti imputati ed avvocati. Con il sistema della videoverbalizzazione anche le comunicazioni non verbali possono essere invece richiamate, riviste e valutate, in caso di dubbio o contestazione, sia nel corso del dibattimento che al momento della decisione, sia in primo grado che in appello. Acquistano cioè un valore probatorio che altrimenti non avrebbero. Non mi soffermo a descrivere le garanzie per la difesa e per la protezione dei diritti civili nell’ambito processuale che deriverebbero dall’uso della videoverbalizzazione nelle indagini preliminari. Mi basti ricordare le risposte dei 4265 avvocati delle camere penali, da noi intervistati a varie riprese tra il 1992 e il 2012. Alla domanda se i pubblici ministeri nel corso delle indagini utilizzassero i loro poteri e la loro influenza per ottenere dai testimoni dichiarazioni conformi alle loro tesi accusatorie, circa il 50% degli avvocati ha detto che il fenomeno avviene di frequente, più del 40% ha detto che avviene ma non di frequente e meno del 10% di non aver avuto esperienza di quel fenomeno. Con la videoverbalizzazione delle indagini preliminari si creerebbe certamente una maggiore trasparenza in un settore che ora ne ha poca e si introdurrebbero strumenti di responsabilizzazione in un’area dove attualmente non ve ne sono. Potrebbe cioè essere un buon antidoto per curare o alleviare quella malattia che sembra essere diffusa, non solo in Italia, tra coloro che hanno la responsabilità di condurre le indagini (da noi il pubblico ministero), una malattia cui uno studioso inglese ha dato il suggestivo nome di “sindrome del cacciatore”. Alla fine dell’attuate periodo di emergenza che riguarda anche il processo penale, sarebbe, quindi, opportuno analizzare a tutto campo i molteplici usi delle tecnologie video nell’ambito del processo penale, individuando quelle che sono con esso incompatibili (come certamente lo è udienza da remoto) e promuovendo invece quelle che sono utili per la promozione del giusto processo (come certamente lo è la videoverbalizzazione). Auspicherei che gli avvocati, fossero, senza pregiudizi, promotori e protagonisti di questa iniziativa con l’obiettivo, proprio della loro funzione, di assicurare che le innovazioni anche in questo settore servano a potenziare i diritti della difesa per meglio garantire quelli dei cittadini. Una postilla. Le sperimentazioni della videoverbalizzazione da noi effettuate vennero considerate positive dal Ministero della Giustizia che provvide quindi ad acquistare le attrezzature per gli uffici giudiziari, attrezzature che però non vennero mai utilizzate per la videoverbalizzazione del processo, anche perché al termine della sperimentazione Claudio Martelli non era più Ministro e Giovanni Falcone era stato assassinato dalla mafia. Aggiungo che valutazioni molto positive sulla videoverbalizzazione vennero espresse anche in lettere ufficiali scritte dai presidenti dei collegi giudicanti che avevano partecipato alla sperimentazione. Tra esse mi piace ricordarne una, perché più di altre si collega alle cose dianzi dette, quella di un presidente di Corte d’assise il quale testimonia come la possibilità di rivedere alcune testimonianze e gli aspetti non verbali con cui erano state rese fosse stata molto utile a lui ed ai giudici popolari in fase di giudizio. Attualmente le tecnologie disponibili sono molto più avanzate e la adozione della videoverbalizzazione sarebbe meno costosa e molto più agevole da gestire. Per quel che oggi può valere, le complesse sperimentazioni da noi allora compiute e la copiosa documentazione ad essa relativa sono state pubblicate dal Cnr nel 1993 in un ampio volume scritto da me e dai miei collaboratori dell’Istituto di Ricerca sui Sistemi giudiziari.

Cristina Bassi per “il Giornale” il 28 aprile 2020. Il processo da remoto, anche detto «smaterializzato» o «cancellato dall' Amuchina», è il futuro della giustizia oppure spazza via una serie di diritti sanciti dalla Costituzione? Con la conversione in legge del decreto Cura Italia le udienze via webcam, almeno per i casi «urgenti», sono una realtà. Una strada alternativa al dibattimento in carne e ossa che è stata messa nero su bianco e che spaventa molti. Il timore è che possa essere battuta anche dopo l' 11 maggio, giorno fino a cui le udienze in aula sono ferme per l' emergenza Coronavirus. Sui fronti opposti stanno, a grandi linee, i magistrati (ma non solo) e gli avvocati. Al Csm la corrente che fa capo a Piercamillo Davigo, Autonomia e Indipendenza, ha proposto che le novità «telematiche» diventino la regola, anche dopo la fine del lockdown. Nicola Gratteri ha argomentato a Otto e mezzo: «Se il potere politico avesse dato ascolto alla mia commissione del 2014, quando parlavo di processo a distanza, e quindi di convalida degli arresti con il detenuto in carcere, il giudice nel suo ufficio, il pubblico ministero nel suo e l' avvocato da casa, oggi saremmo arrivati preparati e avremmo risparmiato non milioni ma bilioni di euro». Pure Piero Grasso ha definito una «opportunità» la possibilità di effettuare le udienze penali da remoto. Si è detto «favorevole» all' opera di «ammodernamento della macchina giustizia anche mediante la digitalizzazione». A Italpress ha dichiarato: «Lo sostengo da anni». Non solo: «Non si capisce questo clima di scontro e barricate» da parte degli avvocati «verso strumenti che non saranno mai obbligatori ma condizionati» alle circostanze. Da parte sua l' Anm spiega che il processo da remoto «è l' unica risposta adeguata» alla situazione. Risposta che «consentirà una parziale ma significativa ripresa delle attività nel rispetto delle norme sul distanziamento sociale e delle ulteriori cautele che dovranno accompagnare le nostre vite nelle prossime settimane. Non si tratta di derogare ai principi e alle garanzie proprie del modello costituzionale di processo». Questa disciplina, assicura l' Associazione nazionale magistrati, durerà solo fino al superamento dell' emergenza. Tuttavia non è razionale «rimettere alla sola volontà delle parti la scelta della modalità da remoto». Sottolinea il presidente Luca Poniz (Rai Radio1): «Nessuno immagini scenari orwelliani». Le polemiche sono «senza fondamento» per una soluzione «strettamente legata a questa fase». Comunque, nella fase della ripresa «bisognerà continuare con i processi a distanza» nell' attesa di riaprire le aule «a macchia di leopardo». I presidenti delle Camere civili e delle Camere penali, Antonio De Notaristefani e Gian Domenico Caiazza, si ribellano all'«intervento a gamba tesa» dell' Anm e alle «spinte giustizialiste» del governo. Il processo da remoto, si legge in una nota, ha «devastanti implicazioni» ed è incompatibile «con i principi costituzionali». Ancora: «Le dichiarazioni di alcuni (soliti) magistrati adusi ai proclami mediatici svelano poi il disegno di rendere tali misure, che oggi si intendono sperimentare, stabili nel nostro ordinamento». Aggiunge Caiazza: «Non c' è nulla di più fisico della discussione in aula». Così gli avvocati milanesi Eugenio Losco e Mauro Straini sul blog Giustiziami: «Il processo è innanzitutto un diritto dell' imputato», fin qui basato su «tre fondamentali pilastri: oralità, immediatezza, contraddittorio». Un rito oggi compresso nelle due dimensioni di uno schermo, spazzato via «con un colpo di Amuchina» che rende «impossibile» esercitare la difesa.

Udienze online? Roba da regime, così i populisti hanno abolito il diritto. Vincenzo Maiello de Il Riformista il 16 Aprile 2020. Al peggio non c’è mai fine. E tuttavia, quando il peggio investe lo stadio avanzato della decomposizione vitale delle garanzie costituzionali, che cancella i sedimenti della progressione identitaria della nostra civiltà, l’inesorabilità del vecchio adagio non può indurre alcuna forma di rassegnazione. Pensavamo che l’impasto di cinismo demagogico e arcaico retribuzionismo punitivo, responsabile delle ipocrite soluzioni di facciata all’immane problema carcerario, costituisse la frontiera estrema della curvatura giustizialista sotto la quale si è sviluppata la produzione normativa della legislatura in corso. Ci sbagliavamo. Quel limite è stato superato senza alcun ritegno dall’inedito monstrum del processo penale telematico. Strumentalizzando in chiave retorico/opportunistica la drammatica emergenza in atto, l’ultima e più preziosa perla della politica giudiziaria nazionale ha deciso di contendere alla pandemia il connotato di vicenda biblica, interrompendo d’emblée le “magnifiche sorti e progressive” dell’emancipazione del diritto e delle sue forme da logiche ed assetti di disciplina autoritari. Col piglio interventista caratteristico di scelte percorse da arroganza corriva e per certi versi sfrontata, il governo in carica ha inteso, così, buttare alle ortiche l’ontologica dimensione del funzionamento conformativo del più delicato e gravoso fra i congegni secolarizzati di teologia politica e istituzionale: quello che ambisce a ricostruire – in nome del popolo e in conformità a criteri di giudizio predicabili di condivisione assiologica e razionale – la verità dei fatti e delle condizioni per i quali un individuo può essere privato di libertà e patrimonio, con effetti stigmatizzanti e inabilitativi che spesso si proiettano nella cerchia dei familiari e finanche di terzi, “colpevoli” di condividere col condannato affari ed interessi economici. Com’è noto, infatti, il governo intende sospendere fino alla data del 30 giugno, termine che tuttavia rischia di essere spostato in avanti a causa della non pronosticabile evoluzione della pandemia – le condizioni di agibilità del giusto processo penale di matrice costituzionale. D’un colpo, questo viene a perdere le sembianze di luogo fisico di una comunicazione dialettica contestuale, smarrendo, con esse, la funzione di liturgia alla quale la democrazia costituzionale dei diritti affida il compito di celebrare – anche sul piano simbolico – il primato della “ragione discorsiva”. In altri termini, la materialità e la separatezza topografica dell’udienza è la metafora della sacertà laica dell’amministrazione della giustizia che, come nei “misteri” delle religioni ellenistiche ha bisogno di impedire confusioni contaminanti con l’ambiente profano (Cordero).

In pratica, a svanire è la conformazione materiale del giudizio e con essa, perciò, non solo la dimensione che ne ha fatto un paradigma epicentro di svariati registri narrativi, bensì – soprattutto – quel clima d’aula che integra la pre-condizione delle potenzialità performative della contesa dialettica. Costruire un processo nel quale ciascuno dei protagonisti partecipa “da remoto” significa virtualizzare un contesto comunicativo che proprio alla simultanea presenza fisica degli attori del contraddittorio deve la sua specifica capacità epistemica di strumento privilegiato ai fini di un’affidabile ricostruzione dei fatti e di un proficuo confronto di tesi antagoniste. I rituali del contraddittorio nella formazione della prova – spina dorsale del processo accusatorio – hanno bisogno del “teatro” dell’aula di udienza, perché, come ha scritto Franco Cordero, essi “esigono acustica e ottica perfette”: da un lato, per consentire che l’esaminato sieda nel posto dove sia agevolmente visibile dalle parti e dal giudice; dall’altro, ma affinché venga garantita ai soggetti che vi prendono parte (testimoni, imputati, accusatore, difensore e giudice) di osservare e valutare le circostanze extralinguistiche che danno corpo alle forme non verbali della comunicazione. Il tono della voce, l’espressione del volto, il disagio o l’imbarazzo nella (e della) risposta costituiscono, di norma, formidabili indici di apprezzamento della genuinità della fonte, cosi come una sequenza incalzante di domande accompagnata dagli occhi puntati sul testimone può accrescere il carisma del contro-esaminatore e indurre un maggiore coefficiente di veridicità della risposta. Si tratta, dunque, di aspetti niente affatto marginali, relegabili fra gli orpelli estetico-simbolici dell’agire giudiziario, ma, anzi, di configurazioni che intrecciano questioni di fondo del giudizio penale. Siamo, in sostanza, innanzi a una rottura della legalità costituzionale, traumatica poiché ne ribalta il significato di punto di arrivo della lunga tradizione che, a partire dal congedo della mentalità e delle istituzioni inquisitorie, ha traghettato il processo sulla scena pubblica, facendone punto di confluenza tra la dimensione antropologica di “mistero” e l’esposizione a pratiche di controllo dell’opinione pubblica. Una rottura che segna il passaggio ad un ordinamento processuale dell’eccezione priva di base legale, dal momento che la sua disciplina risulta consegnata al potere regolamentare di un organo (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) interno al Ministero della giustizia. L’opposto, pertanto, di quanto prescrive l’art. 111 Cost. che assoggetta alla sola legge la conformazione normativa del processo. Un simile scempio ci pare sia stato denunciato con forza dalla sola voce dell’avvocatura, questa volta anche istituzionale, e, da ultimo, dagli studiosi del processo penale. Amareggia che all’appello manchi – con l’eccezione della corrente di Magistratura democratica – una presa di posizione della magistratura associata cui sarebbe stato doverosa l’intransigente rivendicazione del carattere intangibile (dei fondamenti) del modello di processo di cui è anzitutto essa custode. Peccato! L’abbandono del nomos della modernità ai marosi delle pulsioni populistiche e di malintese esigenze di efficienza burocratico-aziendaliste delle pratiche di giustizia, che le frustrazioni dell’emergenza e del suo governo rischiano di rendere ancor più aggressive, potrebbe far divenire inesorabile il declino della civiltà occidentale se a prevalere dovessero essere l’indifferenza etica e il silenzio connivente.

Abolizione della difesa. Il processo online è un golpe, al potere forze eversive. Vincenzo Maiello de Il Riformista il 25 Aprile 2020. La definitiva approvazione della disciplina che – sia pure col paradossale alibi della limitata vigenza – tiene a battesimo il dispositivo del processo penale telematico, meglio del processo che dematerializza l’aula di udienza e affida al circuito dei cristalli liquidi la partecipazione dei suoi protagonisti, permette di definire in tutta la sua sconcertante carica eversiva una decisione politica che reca i tratti della ribellione ai vincoli delle prescrizioni costituzionali e dei fatti – perciò, della verità. E si sa che quando ciò accade, quando, cioè, un potere agisce nel disprezzo delle regole e dei principi costituzionali e dei fatti, assume connotazioni che lo proiettano nello spirito delle culture totalitarie. Dietro questa inusitata fuga in avanti, non sta solo l’archiviazione della tradizione e dell’ontologia del processo – e, dunque, il congedo dalla loro traduzione normativa nelle Carte costituzionali e nel diritto europeo dei diritti umani – bensì qualcosa di assai più grave e preoccupante per la tenuta di una democrazia fondata sui diritti, vale a dire la rottura del rapporto tra potere e verità. Si tratta di un punto a mio avviso cruciale per comprendere la gravità di quanto accaduto. Il nesso tra esercizio politico della normatività e verità resta quello scolpito con straordinaria lucidità da Hannah Arendt, che nella verità individuò un elemento di durezza odiato dai tiranni i quali vi intravedono «la concorrenza di una forza coercitiva che non possono monopolizzare». Nella ricostruzione arendtiana la verità coincide con “i fatti” e col rispettivo carattere di “esasperante ostinatezza”, la cui non modificabilità li rende limite invalicabile di ogni potere. Allorché quest’ultimo aggira i fatti o promuova una loro conoscenza menzognera, oppure deliberi “contro i fatti”, acquisisce il volto del totalitarismo. A fianco ai “fatti” di Hannah Arendt – o, se si vuole, dentro ad essi – l’epistemologia dei moderni Stati costituzionali di diritto annovera i diritti fondamentali, vale a dire le situazioni di valore individuale che concorrono a definire le basi di legittimazione del potere. Questa digressione permette di svelare l’inquietante connotazione del monstrum del giudizio penale smaterializzato, vuoi perché clamorosamente distante dal paradigma costituzionale di giusto processo, vuoi in quanto si assume a fondamento della sua giustificazione asserti non veritieri poiché contrari a “fatti”. Della violazione delle norme costituzionali si è abbondantemente disquisito in questi giorni: in evidenza è venuta, in buona sostanza, l’ampia e diversificata gamma di diritti e facoltà processuali che fanno capo alla presenza fisica innanzi al giudice e ai testimoni dell’imputato e del suo difensore, ma anche – e in maniera niente affatto marginale – l’esigenza del giudice di disporre del contatto diretto con le fonti di prova al fine di arricchire il patrimonio della conoscenza funzionale ad una pronuncia che salvaguardi l’in dubio pro reo. Sul punto, è appena il caso di osservare come una responsabile opera di sensibilizzazione pubblica ai valori costituzionali non dovrebbe mancare di sottolineare che nel processo penale il conflitto tra esigenze repressive (motivate storicamente anche da bisogni di punizione solo simbolici, come dimostra l’esperienza del capro espiatorio) e protezione della libertà dell’accusato non va risolto – assecondando il crucifige populista – in favore delle prime, ma nella direzione opposta (ricordando che per assolvere è sufficiente un dubbio ragionevole e che per condannare occorre la certezza della responsabilità). Ma è soprattutto sul terreno dei fatti e della contrarietà ad essi che la decisione legislativa sul processo penale dematerializzato (e, perciò, devitalizzato) sembra accampare una giustificazione che le conferisce una epistemologia dispotica. Invero, deve con risolutezza affermarsi come sia contrario ai fatti – quindi falso nei presupposti – l’assunto secondo cui dopo l’11 maggio, quando sarà cessata la paralisi normativa dell’attività giudiziaria, non sarebbe possibile celebrare i processi negli spazi fisici delle aule di udienza. La natura arbitraria della tesi non è stata dimostrata solo dall’articolata proposta dell’avvocatura penale che ha convincentemente argomentato come possano trovare adeguato contemperamento la sicurezza delle parti e dei giudici e l’esigenza di trattazione dei processi, ma si ricava dalle molte altre attività il cui svolgimento è consentito ed in pratica avviene (basti pensare al lavoro nelle sedi parlamentari, ma anche all’esperienza dei tribunali tedeschi che continuano ad operare nelle aule con forme di opportuno distanziamento). Parimenti contraria ai fatti è la decisione di prevedere che il giudice – che voglia ricorrere alla modalità di trattazione telematica – si assicuri che venga rispettato il contraddittorio, dal momento che ciò non è possibile stante l’irriducibilità del contraddittorio nella formazione della prova – fosse anche limitato all’esame del consulente, del perito o dell’ufficiale di p.g. – a forme di interazione diversa da quella fisica contestuale che si instaura tra l’interrogante e la fonte di prova escussa. Siamo, dunque, in presenza di una normativa ipotecata da una concezione potestativa del potere, insofferente ai vincoli del diritto ed alle pretese di una ragione che trae fondamento e conformazione dai fatti. Una normativa affetta, perciò, da un deficit di cultura democratico/parlamentare, plasticamente testimoniata dalle modalità ancora una volta scelte per l’introduzione di un congegno tanto dirompente e traumatico per l’equilibrio del sistema, quanto fortemente polemogeno. Anziché seguire la via maestra del decreto-legge (o del d.d.l.), la maggioranza politica ha optato – come era già accaduto in occasione della riforma della prescrizione – per il ricorso all’emendamento successivamente blindato col voto di fiducia. È avvenuto, così, che il commiato da un archetipo di giustizia penale pensato e strutturato per servire la causa delle ragioni dell’uomo (l’accusato, ma anche il giudice investito della più audace delle prerogative che la comunità politica si attribuisce), faccia il suo ingresso di sbieco nell’ordinamento dello Stato costituzionale di diritto, con modalità legittime ma oblique sul piano della responsabilità politico/istituzionale, che calpestano le prerogative di ampiezza e centralità del confronto parlamentare, mortificandone le potenzialità dialettiche e riducendo la democrazia rappresentativa a penosa parodia. Certo, l’esautoramento del Parlamento non è vicenda dell’oggi. Dell’oggi è, invece, la sfrontata pervasività della pratica di strumentalizzare il fenomeno per varare riforme eversive della Costituzione e, perciò, deficitarie di ragioni spendibili nel circuito del confronto intersoggettivo delle idee. Del resto, di ciò sembrava si fosse resa conto la maggioranza della Commissione giustizia quando, qualche giorno fa, in un risveglio di coscienza critica e di orgogliosa resipiscenza identitaria votò la proposta di condizionare l’approvazione del Cura Italia allo stralcio della disciplina sul processo telematico. Purtroppo, sembra che le logiche di bassa Realpolitik abbiano miseramente prevalso e, con esse, le nubi dell’oscurantismo hanno spento barlumi di civiltà.

Fine dell’oralità e sacrificio del linguaggio del corpo: così aumenteranno gli errori giudiziari. Simona Musco su Il Dubbio il 24 aprile 2020. Nel documento della Camera penale di Roma tutte la falle del processo da remoto che uccide garanzie e diritti. «Nello spazio telematico si sacrifica scientificamente il 70/80% delle informazioni normalmente percepite dall’individuo attraverso il linguaggio del corpo; basterebbe già solo questo per affermare che il cambiamento che si prospetta all’orizzonte sarà una svolta infelice». La frase tra virgolette rappresenta solo un passaggio di un lungo documento pubblicato dalla Commissione linguistica giudiziaria della Camera penale di Roma, che ha “smontato” il processo penale da remoto – pensato per superare l’emergenza coronavirus -, evidenziandone tutti i limiti linguistici. Un’analisi semiotica che va ben oltre l’efficacia ovvia del linguaggio – centrale in un processo orale – per addentrarsi in quella che, agli occhi dell’avvocatura, appare come una vera e propria decostruzione del diritto alla difesa. Il processo da remoto, insomma, sfronda l’intervento del difensore di momenti vitali per la difesa stessa: prosodia, prossemica e cinesica, che gonfiano le arringhe e tutti gli altri interventi degli avvocati di sensi ed efficacia. A danno di coloro che rappresentano e, dunque, di un diritto sancito dalla Costituzione. Il nuovo modello processuale, si legge nel documento, incide così necessariamente «sul corretto accertamento del fatto», attorno a cui ruota l’intero dibattimento. Partendo da un ridimensionamento della discussione orale, che rappresenta «un determinato modo di organizzare tutta la struttura del processo». Che è soprattutto – e non anche – dialogo, aspetto da cui deriva l’esigenza di abbreviare le distanze tra i protagonisti dello stesso. L’efficacia del metodo dialettico consiste proprio nella formazione delle prove dinanzi al giudice «consentendo a quest’ultimo di averne una diretta percezione e di istituire un più genuino collegamento tra l’istruttoria e il giudizio finale». L’oralità è il punto di contatto tra il giudice e la fonte di prova, «così da poter percepire direttamente egli stesso elementi irripetibili e non riproducibili in un verbale o in una trascrizione e che non potranno essere colti tramite un collegamento via etere da remoto, quali il tono della voce, il contegno tenuto, le eventuali incertezze o esitazioni, tutti elementi necessari e imprescindibili per vagliare la credibilità del dichiarante e, quindi, per accertare correttamente il fatto e giungere ad un equo giudizio», scrive la Commissione. E non si tratta di un principio astratto: anche la Corte di Strasburgo riconosce e garantisce il principio di oralità e immediatezza «in quanto espressione del diritto dell’equo processo», affermando che «coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza degli accusati devono in linea di principio essere in grado di sentire i testimoni e di valutare la loro attendibilità in prima persona. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che di solito non può essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni». Insomma: la compresenza nel medesimo luogo fisico, per la Cedu, è fondamentale affinché possa parlarsi di giusto processo. Ma con le udienze da remoto viene meno anche un altro principio: la pubblicità del processo. Un processo il cui attore principale – l’imputato – rimane oltretutto relegato a figura di sfondo. «La pubblicità – scrive la Commissione – deve garantire la trasparenza e la presenza del pubblico funge da deterrente, anche per i comportamenti “inconsueti ed autoritari del giudicante”». Ed ecco, dunque, che un dibattimento a distanza rischia di eliminare le garanzie processuali, con il rischio concreto «di un aumento degli errori giudiziari, una piaga del nostro sistema, spesso taciuta e silenziata». Ed è ancora una volta la Corte europea a sottolineare che la pubblicità del dibattimento «è principio volto a tutelare i singoli da una giustizia che sfugge al controllo del pubblico e rappresenta così uno degli strumenti per contribuire al mantenimento della fiducia nei tribunali». Il monitor aumenta le distanze tra chi parla e chi ascolta, mettendo al centro la sola immagine di chi, in quel momento, ha la parola. E ciò impedisce «di percepire adeguatamente i soggetti ascoltatori, di verificarne lo stato dell’attenzione, nell’oblio del costante insegnamento della linguistica», problemi ingigantiti dalle possibili interferenze di natura tecnologica. L’uso di una piattaforma informatica, inoltre, «riduce l’immediatezza, il ritmo, la velocità e la spontaneità dello scambio comunicativo», minacciato anche dalla durata dell’attenzione – naturalmente ridotta – davanti al monitor, trasformando chi ascolta in un soggetto «ricettivo-passivo». E a ciò si aggiunge la mancanza di elementi paralinguistici, che si tradurrà in un linguaggio più conciso, con una semplificazione del linguaggio che potrebbe tramutarsi «in un impoverimento dell’atto comunicativo». E non si tratta di semplici scelte stilistiche, bensì dell’esigenza «di dare forza comunicativa al discorso, il quale nel processo penale è di tipo persuasivo e argomentativo, del tutto opposto a un modello plasmato su una elencazione meccanica di dati». Ma c’è anche la questione dello spazio, l’aula, all’interno della quale il giudice rappresenta l’arbitro delle interazioni, il regista, colui che ha in mano la gestione del turno di parola, da sempre attività di negoziazione. «Con la remotizzazione del processo vi è un rischio evidente – continua il documento -: la gestione del contraddittorio potrà avvenire mediante meccanismi meno graduali, meno negoziabili e più immediati». E il ruolo di regista si limiterà ad una concessione o meno della loro stessa voce agli interlocutori. «In definitiva, il processo penale determinerà un inaridimento della complessità comunicativa tra i soggetti partecipanti al processo, con evidenti conseguenze sul piano dell’effettività del diritto di difesa», si legge ancora. D’altronde, anche l’articolo 146 bis del codice di procedura penale «chiarisce l’importanza fondamentale della dimensione non verbale della comunicazione in aula, disciplinando quale debba essere la collocazione all’interno dell’aula della persona sottoposta a esame», ovvero in modo da «consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti». Garanzia che con l’udienza da remoto viene meno. Lo spazio tra le parti e il giudice “consente loro di osservarsi reciprocamente e di verificare che la partecipazione al contraddittorio avvenga secondo modalità corrette». Effetti negativi ancora più gravi nei casi in cui a testimoniare sono soggetti deboli, per i quali la comunicazione non verbale non è affatto secondaria, «ma costituisce un canale che spesso sostituisce quello verbale. I soggetti socialmente più svantaggiati – continua la relazione – rischiano di non essere adeguatamente compresi e ascoltati nel corso di un’udienza a distanza, ampliandosi così il loro svantaggio sociale». Infine, a risentirne sarà la difesa d’ufficio: il processo da remoto amplificherà la distanza genetica tra un indagato e un difensore che non ha un mandato fiduciario. «Nel processo da remoto verrebbe meno la stessa dimensione empatica della comunicazione tra avvocato e assistito», così come non sarà possibile garantire ad un imputato alloglotta un contatto continuativo con l’interprete e il difensore, «relegando l’effettività della difesa a mera dichiarazione di principio e rendendo i diritti illusori» e riducendo «il contraddittorio a mera parvenza virtuale».

Processo telematico, i penalisti: «Vìola privacy e Costituzione». Simona Musco su Il Dubbio il 15 aprile 2020. L’Unione delle Camere penali alza il tiro. E per denunciare le possibili violazioni dei diritti connessa alla smaterializzazione del processo penale – radicalmente «censurata in ragione della evidente compromissione dei principi costituzionali che lo regolano» – scrive all’autorità. L’Unione delle Camere penali alza il tiro. E per denunciare le possibili violazioni dei diritti connessa alla smaterializzazione del processo penale – radicalmente «censurata in ragione della evidente compromissione dei principi costituzionali che lo regolano» – scrive all’autorità garante per la protezione dei dati personali, ponendo 21 domande cruciali per disambiguare i termini che regolano il processo da remoto. Termini, secondo i penalisti, forieri di molteplici violazioni e che rischierebbero di mettere in circolo tutta una serie di dati delicatissimi con un effetto bomba ai danni della sicurezza del processo stesso. Il sistema utilizzato attualmente per le udienze penali non ha nulla, infatti, a che vedere con quello che, da qualche anno, viene impiegato per il processo civile telematico. Un sistema messo a punto non senza fatica e che consiste non in un vero e proprio dibattimento telematico, ma in una piattaforma asincrona di deposito di atti e di documenti inerenti l’avvio e le fasi del processo civile. Una piattaforma che appartiene all’Amministrazione della Giustizia e, dunque, non ha necessità di appoggiarsi a programmi commerciali esterni alla stessa. Tutto ciò, invece, nella giustizia penale non esiste. E per far fronte all’oggettiva emergenza, che ha reso necessario svuotare i tribunali per evitare il diffondersi del virus, si è optato per strumenti esterni e, dunque, potenzialmente pericolosi. Si tratta di due programmi commerciali di una società estera, individuati dalla Direzione generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia, ovvero Skype for Business e Teams, della società Microsoft Corporation. Ma dopo un mese di udienze da casa, denunciano i penalisti, non è dato sapere se l’utilizzo di tali piattaforme «consenta di rispettare le garanzie minime di sicurezza, riservatezza e protezione dei dati personali richieste dalla normativa nazionale e sovranazionale». Senza dimenticare che, trattandosi di una società statunitense, la stessa è soggetta al Cloud Act, «che consente la discovery dei dati contenuti nei suoi server, anche se localizzati al di fuori del territorio Usa, su semplice richiesta dell’autorità governativa». Domande non di poco conto, considerato che la legge di conversione intende ampliare ulteriormente le ipotesi di udienze virtuali «estendendole persino agli atti di indagine e alle camere di consiglio ( segrete), nel corso delle quali i giudici possono costituire la camera di consiglio da remoto, collegandosi ad una stanza virtuale ognuno da un suo terminale». Ma non solo: il collegamento da remoto avviene attraverso la rete internet pubblica e non attraverso la Rete unica Giustizia, rendendo i dati, dunque, facilmente intercettabili. Da qui le questioni poste all’ufficio del garante Antonello Soro, a partire dalle misure di sicurezza previste nei termini di servizio intercorrenti tra Microsoft Corporation e il ministero della Giustizia e i livelli di licenza, chiedendo se le modalità di attuazione sono conformi alle norme del decreto legislativo 51/ 2018, relativo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati. I penalisti, dunque, voglio sapere se la norma che introduce il processo da remoto prevede una valutazione dell’impatto di tale meccanismo sulla protezione dei dati personali, ponendo, poi, tutta una serie di interrogativi sugli applicativi per i sistemi di partecipazione a distanza e sulla conformità dell’informativa privacy di tali programmi al loro utilizzo nei processi penali, non essendo stati pensati per tale scopo. C’è, poi, tutta una questione relativa alla fine che faranno i dati raccolti e archiviati durante le udienze: è stato valutato – si chiede l’Ucpi – l’impatto di tale raccolta? Chi viene considerato responsabile del trattamento di tali, per quanto tempo e secondo quali regole? Esistono vpn – ovvero protocolli di trasmissioni – dedicati e una cifratura con cifratura end- to- end? Ma non solo. I dubbi riguardano anche la possibilità di profilazione dei dati e la raccolta, dunque, dei metadati, che potrebbero essere utilizzati dalla società proprietaria dei programmi per finalità estranee al processo stesso, ovvero commerciali. Senza contare le questioni – mai chiarite – relative alla custodia di tali informazioni, dell’accesso alle stesse e della loro permanenza. A preoccupare gli avvocati è anche la possibilità che nel corso delle udienze virtuali e delle segrete camere di consiglio ci sia la possibilità di registrare in autonomia l’intera sessione o parte di essa, con la possibilità, poi, di renderla pubblica. Da qui la necessità di comprendere se è possibile escludere con certezza la presenza di “ospiti silenti”. Questioni che si riassumono tutte nell’ultima domanda contenuta nel documento firmato dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza e dal segretario Eriberto Rosso: «sono state adottate dal ministero della Giustizia tutte le disposizioni regolamentari e operative per tutelare la cosiddetta “Cyber Security”?». Domanda per la quale i penalisti, da giorni in riunione permanente per discutere l’alternativa alla smaterializzazione del processo, attendono risposta, a tutela dei diritti e delle garanzie costituzionali.

Se il processo telematico imita Totò contro Peppino. Giuseppe Guida su Il Dubbio il 15 aprile 2020. Una raffigurazione farsesca della celebrazione del processo smaterializzato ( ormai prossimo al suo definitivo varo e purtroppo nemmeno tanto avversato da una quota sommessa di avvocati). Ma forse utile alla percezione e alla comprensione della catastrofe che si sta abbattendo sul processo penale…Per comprendere il significato di ciò che sta per accadere nel sistema giustizia italia- 19 e non volendo tediare il lettore, scomodando la cultura giuridica secolare, i principi costituzionali e fondativi del processo penale, la funzione sociale del difensore, quale tutore dei diritti, l’oralità, l’immediatezza, la ragionevolezza e la pubblicità, canoni evangelici del processo accusatorio e valori irrinunziabili del giusto processo, ho provato a raffigurarmi la celebrazione del processo smaterializzato ( ormai prossimo al suo definitivo varo e purtroppo nemmeno tanto avversato da una quota sommessa di avvocati) in maniera, forse troppo ironica, magari farsesca. Ma credo e spero, utile alla percezione ed alla comprensione della catastrofe che si sta abbattendo sul processo penale ( e credo francamente anche su quello civile).

Sveglia comoda a mattina inoltrata, caffè, abluzioni varie, scambio di saluti e programmi coniugali.

( Lei/ lui)…. Stamattina che fai ? ( avvocato) ….. Ho udienza da remoto alle 10,30 ( lei/ lui)… allora vestiti che sono le nove e mezza passate ( avvocato)… caspita allora mi preparo: blazer blu, camicia bianca, cravatta, scusa cara dove hai messo il pantalone della tuta grigio che si adatta meglio al Blu?

( lei/ lui).. vedi che è tra i vestiti appena stirati ( avvocato)… a grazie trovati! Pantofole pantofole pantofole, ecco qua quelle nere che si adattano meglio

( lei/ lui fuori campo) …….. vedi che ci sono anche quelle con topolino ( avvocato)…… no non è il caso sono in udienza. Allora, eccoci qua, accendiamo il computer, attiviamo la conferenza, “beee, deng, bing, uooo”, Presidente Buongiorno mi sente, mi sente Pree.. si.. dente, mi sente?

( Presidente)… si avvocato ma la sentiamo male, ci sono rumori di fondo, ecco adesso la se… no adesso non la sentiamo più, la linea è disturbata. Ah ecco qua la sentiamo ma non la vediamo, ma fa nulla andiamo avanti l’importante che lei ci sente e ci vede.

( avvocato)……… Presidente io la vedo ma non la sento!

( Presidente)….. fa nulla avvocato lei ci vede noi la sentiamo il contraddittorio è perfetto!

. Procediamo alla costituzione delle parti ( parte civile)….. la parte civile si riporta all’atto di costituzione depositato a mezzo mail ( Presidente) … il PM?

( PM)… nulla osserva!

( Presidente)… la difesa?

( avvocato)… Per la verità presidente l’atto di costituzione non l’ho visto!

( Presidente)… cancelliere ha trasmesso l’atto al difensore?

( cancelliere) ….. Sì Presidente ! ( avvocato) …. Mi spiace Presidente, ma nella mail e nella pec non rinvengo alcun atto di costituzione!

( Presidente)….. Va bene avvocato, andiamo avanti, allora dispongo che la parte civile trasmetta l’atto di costituzione a mezzo whats’app al difensore! Ricevuto avvocato?

( avvocato)…. Si presidente ma non si legge bene, non leggo le autentica della firma in calce ( Presidente)… avvocato la prego evitiamo questioni speciose e tattiche dilatorie mi raccomando !!! quindi per il verbale la difesa nulla osserva!

( avvocato) …. come nulla osserva.. Press…… io.. volev….

( presidente) … Avvocato la sentiamo a tratti, non si capisce quello che dice, quindi Procediamo! Ci sono allora questioni preliminari?

( avvocato)…… Sì presidente, io vorrei eccepire la om… ss.. indicaz beeee nel cap. beee ( rumori metallici di fondo)…….

( Presidente)… la omessa indicazione nel…? avvocato la sentiamo a tratti e disturbato, sono già le 10,45 ed alle 11,00 ho un altro processo da remoto, andiamo avanti, quindi, per il verbale, non ci sono questioni preliminari. Apriamo il collegamento con il primo teste, lei è?…….. bene legga la formula di impegno… ( Teste)… Consapevole della responsabilitàààààààààà… rale e g… dica che ass… beeee, … ( avvocato)… Presidente non ho sentito nulla ( Presidente)… noi Sì avvocato, andiamo avanti la prego! Prego PM proceda con l’esame…, ( voce sotto e fuori campo) «Antonio per favore puoi spegnare il fuoco? Altrimenti si brucia il sugo…».

( avvocato)… Presidente non ho capito la domanda chi è Antonio? E che ruolo ha nel processo?

( Presidente)… no avvocato ero io che mi rivolgevo a mio marito, ( avvocato)… mi scusi Presidente e che c’entra suo marito che tra l’altro mi risulta presieda la VII?

( Presidente)……… infatti avvocato sta celebrando la camera di consiglio nel soggiorno ed più vicino alla cucina!

( avvocato)… Ah, adesso mi è chiaro.

( Presidente)… Allora procediamo, il Pm ha concluso, la parte civile non ha domande, prego la difesa!

( avvocato)… Signora lei conosce il sig…? … ci può dire ( teste)… avvocato non ho capito non la sento!

( Presidente)… Signora la prego vada avanti io la sento e la vedo…… ( avvocato)… Presidente mi scusi ma la teste sta rispondendo ad una domanda che non ho ancora formulato!

( Presidente)… sta rispondendo la prego andiamo avanti.

( avvocato)… presidente mi scu- si ma la teste sta ripetendo in maniera speculare le dichiarazioni rese in querela, con virgole e punti, io contesto a questo punto la genuinità della testimonianza!!!

( Presidente)… avvocato la prego, cosa vuole dire che sta leggendo?

( avvocato)… Presidente sto dicendo che più che una testimonianza sto ascoltando una lettura e poiché vedo solo il riquadro del volto non comprendo se stia leggendo o meno!

( Presidente)… avvocato questa è una sua illazione, le garanzie del processo da remoto sono queste e mi paiono ampiamente rispettate! Andiamo avanti, prego avvocato, domande?

( avvocato)… nessuna domanda presidente mi rassegno!!

( Presidente) … infatti avvocato, il processo è questo se ne faccia una ragione! Altri testi?

( PM)… si ma sono solo i verbalizzanti che hanno raccolto la notizia di reato quindi posso rinunciare. ( presidente)… bene il PM rinuncia, la parte civile?

( parte civile)… si associa, ( presidente)… la difesa?

( avvocato)… si arrende!

( Presidente)… A questo punto dichiariamo chiusa l’istruttoria dibattimentale e diamo alle parti la parola per le conclusioni.

( PM)… si riporta alla requisitoria scritta inviata sulla chat della conference e chiede la condanna alla pena di anni 4 di reclusione.

( parte civile)… La parte civile, fa proprie le conclusioni del PM e si riporta alla nota e alle conclusioni depositata sulla chat.

( Presidente)… La difesa, prego avvocato, ha 5 minuti perché il collegamento sta per terminare.

( avvocato)… Come 5 minuti?

( Presidente)… Si avvocato il collegamento termina, mi spiace, ha la disponibilità della chat dove rassegnare le sue conclusioni.

( avvocato)… signor Presidente, ma questa è una palese violazione del Diritto di Difesa!

( Presidente)… no avvocato questo è il processo da remoto!!!!

( avvocato)… allora io procedo alla discussione : …. Sig. Presidente.. “prendo la parola in difesa” ( cit.) beeee ( rumori di fondo metallici), l’str…. non ha….. risc ….. beee.

( presidente)… avvocato non la sentiamo, avvocato la vediamo ma non la sentiamo, avvocato, avvocato….. l’abbiamo persa… sta parlando da solo..

( voce fuoricampo)…. Presidente il collegamento sta per cadere, non possiamo andare oltre… ( presidente)… va bene assistente, stacchi il collegamento e mi ritiro in camera consiglio per la sentenza.

( avvocato)… Presidente mi scusi, Presidente non vedo e non sento più nessuno, Presidente, pronto mi sente? Bah! E mò che è sto what’app?

Gentile avvocato, Le comunico che il collegamento in remoto è cessato, il Giudice si è ritirato in camera di consiglio per la decisione, riceverà il dispositivo a mezzo pec. Grazie, il cancelliere.

·         Giustizia stravagante.

Rom prese a schiaffi leghista? Per i magistrati è "meno grave". Maria Teresa Tomasini, residente nel campo nomadi di via Erbosa (Bologna), assalì l'allora consigliere comunale, prendendola a calci e a schiaffi. Dopo un processo durato anni, la condanna a 20 giorni di reclusione, poi le attenuanti. Federico Garau, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale.  Aveva aggredito Lucia Borgonzoni prendendola a schiaffi e calci nel campo rom di via Erbosa (Bologna), dove la rappresentante della Lega si era recata per un sopralluogo, eppure, dopo una battaglia legale durata anni, la donna di etnia sinti ha praticamente ricevuto l'assoluzione. Era il 3 novembre 2014 quando la Borgonzoni, all'epoca consigliere comunale, aveva raggiunto l'insediamento insieme al collega Alan Fabbri (oggi sindaco di Ferrara) e ad alcuni giornalisti per ispezionare la zona occupata abusivamente. Furiosa per la presenza dei politici all'interno del campo, la 54enne Maria Teresa Tomasini si scagliò contro il gruppo. Borgonzoni fu insultata e poi presa a calci e schiaffi, come è stato immortalato anche in un video.

Rifilò uno schiaffo alla leghista. La sinti condannata a 20 giorni. Accusata di violenza privata ed ingiurie, la donna sinti ha rischiato ben poco, dato che sono presto arrivate le prime giustificazioni. Il suo avvocato, ad esempio, aveva da subito chiesto addirittura l'assoluzione per legittima difesa, dal momento che la comitiva formata da politici e giornalisti aveva violato il diritto alla riservatezza della 54enne. Non solo. A finire nel mirino anche il blitz della Borgonzoni, non adeguatamente comunicato. Condannata a soli 20 giorni di reclusione dopo un processo di primo grado durato anni, in realtà la sinti non sconterà alcuna pena, dato che questa è stata di fatto sospesa proprio grazie alle attenuanti. Non è stata fatta menzione neppure di un risarcimento. Persino la presenza di fotografi e giornalisti, che avevano raggiunto il campo nomadi per documentare quanto stava accadendo, ha giocato a favore di Maria Teresa Tomasini. Secondo il giudice Danilo Mastrocinque, infatti, la loro presenza" deve ritenersi priva di giustificazione", come riferito da "LiberoQuotidiano", ed è "con buona probabilità scaturita non tanto da esigenze di informazione ma da finalità di tipo propagandistico". Inutile spiegare che la stampa si trovava all'interno del campo per fare il proprio lavoro, non certo perché chiamata da Lucia Borgonzoni. Il giudice ha chiaramente parlato di "una pratica giornalistica piuttosto diffusa volta a spettacolarizzare e strumentalizzare per scopi politici o comunque avulsi da esigenze istituzionali, circostanze che con la politica poco hanno a che vedere". Oltre alla presenza dei giornalisti, che pure si trovavano in una zona pubblica, anche lo stato d'ira in cui versava l'imputata sarebbe servito in qualche modo a giustificare le sue azioni ed a far scattare le attenuanti. "Io da consigliere comunale sono andata in uno spazio in cui i consiglieri possono entrare ero addirittura con la Digos. Stavo uscendo in quel momento e una persona è arrivata, mi ha schiaffeggiato, mi ha preso a calci e mi ha riempito di insulti. Non mi sembrava spaventata", aveva raccontato la Borgonzoni, come riferito dal "Corriere della Sera". "Non ci può essere un’area dove chi rappresenta i cittadini e il pubblico non può entrare".

 

Nigeriano si masturba sul bus, assolto: “Era domenica”. Martino Grassi il 20/02/2020 su Notizie.it. Un nigeriano sorpreso a masturbarsi su un bus a Trento è stato assolto poiché i fatti erano accaduti di domenica. Il 16 marzo 2018, un uomo di 38 anni proveniente dalla Nigeria, fu sorpreso e ripreso con uno smartphone mentre si masturbava su un autobus, dell’azienda Trentino Trasporti, partito da Trento con destinazione Canazei. In poco tempo, il video divenne virale su internet, e la notizia giunse anche a tutti i quotidiani, facendo nascere un vero e proprio caso, tanto che la parlamentare leghista Stefania Segnana , chiese al leader del suo partito, Matteo Salvini, di intervenire. Secondo quanto emerso dalle indagini, sembrerebbe che il nigeriano avesse ricevuto delle immagini pornografiche sul proprio cellulare e dunque avrebbe iniziato a masturbarsi senza considerare che si trovava su un mezzo pubblico. L’uomo aveva ammesso le sue responsabilità, ed era anche risultato recidivo. fin da subito sono scattati i domiciliari, in seguito sono stato disposti anche tre mesi di reclusione in primo grado. A due anni di distanza dai fatti, il nigeriano, che ha problemi psichici, è stato assolto dalla Corte di Appello dopo che la corte ha accolto le tesi della difesa. Secondo l’avvocato della difesa, il reato è punibile sono in determinate circostanze e nello specifico se il fatto avviene “all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano”. Durante l’avvenimento dei fatti, l’uomo di 38 anni, si trovava su bus di domenica alle 7:45, e dunque l’avvocato ha fatto notare che in quell’orario e di domenica non ci era alcun bambino o minore sul bus che potesse assistere alla scena, dal momento che solitamente si trovano sempre a letto.

·         Giustizia lumaca.

La legge da riformare. La giustizia italiana bocciata dall’Europa: Processi-lumaca in una giungla di norme. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Agosto 2020. Anche l’Europa bacchetta l’Italia per i risultati del suo sistema giudiziario. Il tema dei processi troppo numerosi e troppo lunghi è un argomento che ha una doppia rilevanza, non solo locale ma anche europea. Il nostro Paese è al ventiduesimo posto nell’Unione europea per numero di giudici ogni 100mila abitanti ed è anche tra i Paesi con il maggior numero di avvocati (se ne contano quattro ogni mille abitanti). Tanti giudici, tanti avvocati, quindi. Ma anche tante norme, circa 13mila tra i settori della giustizia penale, civile, amministrativa e tributaria. Una selva normativa, un surplus di leggi e regolamenti e decreti e normative nati troppo spesso più sull’onda dell’emergenza del momento che in un’ottica di sistema. Ed ecco che negli ultimi tempi è diventata attuale e diffusa l’esigenza di una inversione di rotta, di una riforma organica della giustizia, di un approccio diverso. Lo dice anche l’Europa. Nel più recente quadro di valutazione Ue della giustizia, l’Italia non esce bene dal confronto con gli altri Stati membri sui temi della efficienza, della qualità e dell’indipendenza dei sistemi giudiziari. Eppure l’Italia è la patria del diritto, terra di cultura e tradizioni. Ma non basta più. Secondo l’Europa, il nostro Paese deve migliorare l’efficienza della giustizia e il funzionamento della pubblica amministrazione. Troppe leggi, troppi processi, procedure troppo lunghe, una scarsa capacità amministrativa e un basso livello di digitalizzazione: eccoli, secondo il quadro di valutazione Ue della giustizia 2020, i motivi delle inefficienze del nostro sistema giudiziario. Ed ecco, di riflesso, i motivi per cui in Italia, e in particolare nel Mezzogiorno, si fa fatica a rilanciare l’economia e a sostenere progetti imprenditoriali. È la stessa Commissione europea a sottolineare, nel report che dal 2013 è uno degli strumenti con cui si monitorano Stato di diritto e riforme degli Stati membri, come un sistema giudiziario efficiente sia alla base di una economia capace di attirare imprenditori e investimenti. Anche il Riformista lo ha più volte ribadito raccontando la cronaca dei fatti e raccogliendo le riflessioni di autorevoli giuristi ed esponenti del mondo accademico. L’incertezza e la varietà delle decisioni giurisprudenziali, unite ai lunghi tempi dei processi, impediscono la crescita dimensionale delle imprese e rendono più difficili le condizioni di finanziamento per tutti, consumatori e imprese, incidendo negativamente anche sulle opere pubbliche. In Europa l’Italia è 18esima per numero di cause in generale, e 19esima per durata stimata dei procedimenti collocandosi tra i Paesi con i tempi più lunghi. Questo dato si incrocia con quello dei processi pendenti, che è altissimo e dà la misura di quanti casi sono ancora sospesi in attesa di una risposta da parte della giustizia. Tutto questo incide anche in termini di costi. In Italia la giustizia costa nonostante il nostro sia un Paese con una forma di gratuito patrocinio che copre le spese legali, ma solo per le persone con un reddito che supera di poco più del 10 per cento la soglia di povertà. La recente emergenza-Covid, inoltre, ha fatto scoprire a ciascun tribunale italiano l’importanza della digitalizzazione ma i risultati come le dotazioni informatiche del nostro sistema giustizia sono ancora lontani dagli standard europei e i nostri tribunali sono solo 15esimi in Europa. Di qui l’esigenza di investire di più nella giustizia: l’Italia è all’11esimo posto nell’Unione europea per risorse finanziarie destinate al comparto giustizia.

La giustizia da riformare. Bancarotta fantasma, l’appello del pm: “Si vedono reati ovunque, depenalizzare”. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Agosto 2020. «Quello che in gergo si chiama panpenalismo è un problema italiano che da dieci o venti anni è ormai cresciuto. C’è la tendenza legislativa a vedere tutto in chiave di violazione penale, una visione assolutamente distorta e patologica della vita e dell’azione dei cittadini in un’ottica moralizzatrice in base alla quale il reato è peccato. È la tendenza a trasformare qualunque condotta che comporti la violazione di una norma in violazione di una norma penale», afferma Luigi Bobbio, magistrato presso il Tribunale di Nocera Inferiore, ex pm dell’Antimafia napoletana con un passato da senatore. La sua è spesso una voce fuori dal coro nel contesto della magistratura. «Il panpenalismo ha anche alimentato lo strapotere dei pubblici ministeri sulla vita dei cittadini in tutte le sue possibili declinazioni, economia e mercato compresi», spiega Bobbio, sottolineando come «si sia trasformato un approccio sano al diritto e alle regole in un approccio malato perché – ragiona il magistrato – se tutto viene considerato reato vuol dire che qualcosa non va». Come spezzare questo circolo vizioso? Come riportare la giustizia nei limiti di un diritto più efficace e meno sovrabbondante? «Le azioni sono duplici – risponde – Innanzitutto è necessaria una depenalizzazione ampia. Occorre depenalizzare quanto più è possibile e per questo serve una politica forte, che si sottragga al ricatto e al gioco di sponda che Procura e una certa informazione fanno una a favore dell’altra. E poi serve che si smetta di vedere qualunque condotta in chiave di reato». Depenalizzare, quindi, ma anche potenziare la leva amministrativa. «Parallelamente è necessario che il Legislatore abbia la capacità di rafforzare le risposte di altro tipo, come riportare al centro della scena le sanzioni amministrative. Sarebbe un enorme passo in avanti», spiega Bobbio. La sua esperienza professionale spazia dalla politica al diritto. «Oggi la giustizia penale è sovraccaricata da una miriade di reati». A voler ipotizzare sfere di depenalizzazione, Bobbio pensa, tra gli altri, ai reati di borsa e a quelli fallimentari. «Ci sono imprenditori che vengono distrutti per accuse di bancarotta inesistenti o che sono condannati in nome di una assoluta discrezionalità interpretativa e creativa della giurisprudenza – dice Bobbio – Il sistema Giustizia non dà quasi più garanzie. Ci sono reati fiscali puniti con sanzioni penali che finiscono per essere vuote di contenuto perché, all’esito del giudizio penale, la sentenza definitiva non è mai tale da portare in carcere l’imputato. Per cui spesso tutto si riduce alla sola custodia cautelare. E quanti imprenditori hanno scontato solo una distruttiva custodia cautelare salvo poi essere assolti o condannati senza esecuzione della pena». I nodi della giustizia, però, non sono tutti nel penale. Ci sono altri settori critici. «Diventa non più rinviabile il tema della riforma profonda della giustizia contabile e della giustizia amministrativa – precisa Luigi Bobbio, spiegando il perché – A proposito di giustizia contabile, se si fa uno screening delle sentenze della Corte dei Conti, della loro qualità giuridica e della valutazione in termini di rigorosa considerazione di elementi di accusa si nota una tendenza dei giudici a condannare per recuperare denaro all’Erario con il rischio che da una funzione giurisdizionale si passi a una funzione di esattori, di gabellieri». Critica, secondo il magistrato, anche la situazione della giustizia amministrativa: «Peggio che andar di notte – sostiene – I tempi sono biblici e le pronunce talvolta fantasiose. È un sistema che va rivisto». Perché tutte queste criticità? «Perché troppi giudici, sia nel settore della giustizia amministrativa sia in quella contabile, hanno il permesso di ricevere un numero indefinito di incarichi estranei alla loro funzione, quindi incarichi retribuiti, e questo significa sottrarre tempo al loro lavoro. Una sottrazione di risorse di lavoro c’è anche nella giustizia tributaria». Per cui, a voler tirar le somme, il sistema Giustizia così com’è non funziona. «Fa acqua da tutte le parti – conclude Bobbio – Partendo da una indispensabile depenalizzazione, la riforma della giustizia non può non passare quindi per la rivisitazione completa di tutti i settori».

Storie di 4 imprenditori rovinati dalla legge: “I Pm ci hanno distrutto la vita”. Viviana Lanza  su Il Riformista il 16 Agosto 2020. Edilizia, urbanistica, ma anche reati di borsa e reati tributari. Intervistando giuristi, magistrati, avvocati e docenti universitari il Riformista ha tracciato una sorta di mappa dei reati che potrebbero essere puniti con sanzioni amministrative o, comunque, perseguiti seguendo un iter diverso da quello penale. In una parola, depenalizzazione. È tra le soluzioni indicate come possibili rimedi all’eccessivo carico della giustizia, all’ingolfamento dei tribunali, all’aumento di reati e di faldoni che poi finiscono per risolversi, nel 60 per cento dei casi, in un nulla di fatto perché i processi non arrivano a sentenza, perché non arrivano a sentenza di condanna o perché, quando pure c’è condanna, si prevede una pena sospesa, che non porta in carcere. E allora perché continuare a seguire, per reati cosiddetti bagatellari e comunque non gravissimi, un doppio binario giudiziario, quello penale e quello amministrativo? Perché non usare la sola leva amministrativa per far valere la legge, lasciando che le aule di tribunale siano affollate solo da imputati accusati di reati gravi per cui non si può rinunciare a un’inchiesta penale e al dibattimento che ne è la diretta conseguenza in presenza di validi indizi? Gli interrogativi sono destinati a rimanere con il punto di domanda in attesa che la politica prenda coraggio per una riforma ampia. E intanto aumentano le storie di imputati, soprattutto fra gli imprenditori, che finiscono nelle maglie della giustizia penale per reati tributari o edilizi, che subiscono sequestri preventivi e talvolta anche danni. Perché, si sa, i tempi della giustizia possono essere anche molto, molto lunghi. Il Riformista ha raccolto quattro storie di imprenditori che, a Napoli e nel resto della Campania, sono l’esempio di come una giustizia lenta e una legislazione sovrabbondante possano condizionare l’economia, ostacolando o addirittura fermando, la crescita di un’impresa.

Falso ideologico: Prima condanna, poi assoluzione. Ha affrontato anni di processo per arrivare in appello a una sentenza di assoluzione che ha completamente ribaltato la tesi dell’accusa. I fatti riguardano un imprenditore di Roccagloriosa, nel Cilento, e la sentenza risale ad alcuni mesi fa e ha occupato le pagine delle cronache locali. La storia è una delle tante storie di imprenditori che hanno dovuto affrontare un lungo processo, con tutte le possibili ricadute sulla propria attività, prima di arrivare a una sentenza che smonta il castello accusatorio e definisce l’intera vicenda giudiziaria con un verdetto di assoluzione. In primo grado l’imprenditore era stato condannato a sei mesi di reclusione. L’accusa riguardava il presunto reato di falso ideologico in atto pubblico per false dichiarazioni in un’istanza protocollata al Comune per avere prestazioni sociali agevolate. In appello, invece, è arrivata l’assoluzione.

I Pm: “Locale abusivo”, ma il proprietario è il Comune. È una storia singolare, particolare, che sembra addirittura surreale. È una storia che da circa un anno e mezzo pende dinanzi alla giustizia sia penale sia civile. È la storia di un imprenditore che decide di investire in una attività di ristorazione in uno dei luoghi più belli e suggestivi di Napoli, a Marechiaro. Acquista la licenza e avvia i lavori di ristrutturazione. Ma proprio in quel momento comincia per lui un incubo giudiziario. Viene indagato per reati di abusi edilizi perché secondo l’accusa l’immobile è abusivo. Eppure è un immobile che risulta appartenere al Comune di Napoli, tanto che l’amministrazione comunale richiede il canone di affitto. Succede, quindi, che l’imprenditore finisce anche sotto processo civile per gli affitti rivendicati dal Comune. E da un anno e mezzo attende una risposta dalla giustizia.

Sotto inchiesta per le normative contraddittorie. Una pedana all’esterno del locale e una normativa che, come spesso accade, si presta a più interpretazioni. Parte da qui la storia di un imprenditore costretto a subire lo stop di un mese per la sua attività di bar e ristorazione nel cuore di Napoli e affrontare un procedimento per occupazione di suolo pubblico, salvo poi ottenere il dissequestro con la pronuncia di un giudice che ha ritenuto illegittimo il dissequestro. Tutto accade all’indomani dell’avvio della fase 2, a maggio. Dopo il lockdown legato alla pandemia, l’imprenditore prova a rimettere in moto l’attività. C’è un decreto emergenziale che consente l’occupazione di suolo per allestire tavoli e sedie all’aperto. Ma c’è anche una normativa a livello locale e nazionale che crea confusione sulla necessità o meno del parere della Sovrintendenza per l’installazione di una pedana. Tanto basta per far azionare la pesante macchina della giustizia penale.

Versa l’Iva in ritardo: 600mila euro sequestrati. Seicentomila euro di Iva non versata nei tempi previsti dalla legge e per un imprenditore di Maddaloni, impegnato nel settore dei trasporti e con cento dipendenti, scatta la segnalazione dell’Agenzia delle Entrate. Inizia quindi l’iter previsto per questi casi e l’imprenditore definisce la sua posizione con un piano di rateizzazione che prevede il pagamento del debito in tranche da 125mila euro. Ma siccome questa è una delle tante storie in cui la giustizia penale si accavalla a quella tributaria, accade che, nonostante il piano di raitezzazione che portando all’estinzione del debito dovrebbe portare anche all’estinzione del reato, l’imprenditore finisce al centro di un’inchiesta penale subendo così il sequestro per equivalente di 600mila euro. Un duro colpo per una piccola impresa che aveva già avviato il pagamento del debito. E per il Riesame bisognerà attendere la ripresa dell’attività dei giudici dopo lo stop feriale.

Dieci magistrati per un reato urbanistico: basta, depenalizziamoli. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 6 Agosto 2020. Una giustizia obesa, che si muove lentamente, rappresenta un peso non più sopportabile per il nostro Paese. Ma il Legislatore, nonostante tale evidente menomazione, continua a ingrassare di nuove fattispecie un diritto penale ormai in agonia. Vi è una spasmodica ricerca di punizione, irrazionale, inutile e dannosa, che mira a un consenso popolare che cavalca l’onda della momentanea emotività. Occorrerebbe, invece, una drastica “cura dimagrante”, che privi di rilevanza penale tutte quelle condotte che possono essere valutate senza la necessità di indagini particolari. Un’ampia depenalizzazione è invocata, da tempo, dall’Unione delle Camere Penali Italiane che, anche su questo tema, ha dimostrato lucidità di pensiero, nonostante sia evidente che l’avvocatura, per un proprio interesse corporativo, dovrebbe augurarsi l’aumento delle condotte penalmente rilevanti. La diminuzione dei reati consentirebbe di ottenere il massimo rendimento delle risorse umane e degli spazi deputati alla celebrazione del processo penale, permettendo di attuare i principi del giusto processo, dettati dall’articolo 111 della Costituzione, secondo i quali lo stesso deve avere una durata ragionevole, garantire il contraddittorio e i diritti della difesa. Oggi, invece, la durata non solo è “irragionevole”, ma ignobilmente lunga, mentre il cittadino – imputato o persona offesa – ne paga le conseguenze e l’Italia viene additata, a livello internazionale, come inaffidabile. Le condotte depenalizzate potranno trovare una sanzione amministrativa che, con maggiore efficacia, saranno da deterrente per nuove azioni illecite. Se è vero che gli illeciti penali devono confrontarsi costantemente con il momento storico e, in particolare, con il grado di civiltà di un Paese, con il cambiamento e l’evoluzione degli usi e costumi di una società, è altrettanto importante che si promuova immediatamente una corretta informazione sullo stato comatoso della nostra giustizia e si affidino all’accertamento penale le sole condotte che abbiano effettivamente una rilevanza particolare e che necessitano di indagini, non eseguibili in altre sedi. Si potrebbero fare molti esempi di delitti e contravvenzioni da abrogare, ma probabilmente quello più eclatante riguarda i reati urbanistici che, pur considerati giustamente gravi per l’impatto devastante sul territorio, potrebbero essere disciplinati in maniera diversa. È del tutto irrazionale che il verbale per una costruzione ritenuta abusiva debba far nascere due procedimenti: uno penale, l’altro amministrativo. In entrambe le sedi si dovrà accertare se quanto contestato sia effettivamente illecito e disporre, eventualmente, la giusta sanzione, con tempi biblici in tutti e due i casi. Basterebbe, invece, la sola procedura amministrativa, in quanto l’indagine da svolgere è esclusivamente oggettiva, riguarda un luogo, un manufatto e l’esistenza o meno di titoli autorizzativi. Nulla di più. L’illecito potrà essere punito in tempi rapidi, anche con la confisca o l’abbattimento. Si recupererebbero nel penale enormi risorse. Esistono in molte Procure della Repubblica, sezioni specializzate per i reati urbanistici, che gestiscono migliaia di procedimenti destinati al dibattimento, che a sua volta viene sommerso dai relativi fascicoli, la maggior parte dei quali, dopo anni, giungeranno in Corte di Appello e poi in Cassazione. Per l’accertamento di una violazione urbanistica, in ambito penale, saranno dunque coinvolti un sostituto procuratore e probabilmente nove giudici e tre procuratori di udienza, oltre al personale delle varie segreterie e cancellerie e sperperate risorse economiche preziose. L’occhio vigile di un imprenditore comprenderebbe immediatamente l’inutilità di tali farraginose procedure, ma alla politica interessa solo una giustizia penale non in salute, ma “grassa” dei suoi innumerevoli reati.

«Non ci fu stupro»: la sentenza arriva dopo 19 anni, ma due imputati sono già morti. Il Dubbio il 29 Giugno 2020. Assolto un artigiano campano, mentre gli altri due sono morti prima della fine di un processo durato 19 anni. Diciannove anni di processo per stabilire la loro innocenza. Anzi, l’innocenza di uno di loro, perché nel frattempo gli altri due imputati sono morti. La storia arriva da San Giovanni a Piro, in Campania, dove risiedevano i tre uomini – un artigiano, unico superstite, un imprenditore e un pescatore. La sentenza è arrivata giovedì scorso, pronunciata dai giudici  del tribunale di Vallo della Lucania: lo stupro non ci fu mai. A denunciare i tre uomini era stata una donna russa, che nel 2001 aveva puntato il dito contro di loro, come racconta “Il Mattino”. Le accuse mosse dalla donna provocarono problemi diplomatici con le Autorità di Mosca. Le indagini aperte a Scario portarono a scoprire un traffico di prostituzione proveniente dall’Est Europa, organizzato da tale Luba, anch’essa russa, che, assieme ad un uomo della Piana del Sele, avrebbe indirizzato la donna russa e il marito a Scario, dove la stessa sera del loro arrivo avevano condiviso un cena, innaffiata da molto vino e poi superalcolici, con un pescatore del posto. Da quella cena le accuse mosse nei confronti dei tre uomini.

Giustizia lumaca, 18 anni per la prima udienza. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Giugno 2020. Diciotto anni di attesa per la prima udienza istruttoria davanti al giudice di pace. Un record? Forse. Di certo un esempio di giustizia non efficiente e di tempi ragionevoli del processo, garanzie e diritti tutt’altro che tempestivamente tutelati. Il caso è quello di un Giampiero S., napoletano, che da ben diciotto anni attende di veder celebrata l’udienza del giudizio intentato contro Poste Italiane per un pacco mai recapito e distrutto. In quel pacco c’erano giocattoli per i suoi bambini, lettere e fotografie per la sua amata, ricordi e oggetti che avevano un valore soprattutto affettivo. Giampiero li aveva spediti dal carcere di Secondigliano dove all’epoca, parliamo di vent’anni fa, era recluso. Erano il suo messaggio di amore nei confronti dei propri cari ma quegli oggetti non arrivarono mai alla destinataria e nessuno seppe, se non anni dopo, che se quel pacco con i regali per i figli e le lettere per la moglie non arrivò non fu per disinteresse o dimenticanza. Sta di fatto che la situazione ebbe delle ripercussioni sui rapporti del detenuto con la sua famiglia, «provocando seri danni e disagi nonché indiscutibili complicazioni al rapporto familiare del mio cliente» come scrisse l’avvocato Angelo Pisani a Poste Italiane per avere il rimborso delle spese sostenute per la spedizione e il risarcimento dei danni per il mancato recapito del plico. Emerse solo dopo che il pacco era stato mandato in un apposito reparto delle Poste dove finiscono tutti i pacchi destinati alla distruzione perché non ci sono gli estremi o le condizioni per farli recapitare ai destinatari. Di qui la causa civile e un’attesa di ben 18 anni per veder celebrata un’udienza utile del processo. Si è arrivati così a ieri. «Sono emozionato, non ci posso credere. Dopo oltre 18 anni, nonostante i blocchi Covid, oggi finalmente dinanzi a un nuovo giudice di pace si è tenuta la prima udienza istruttoria della causa intentata da un utente contro Poste Italiane per il risarcimento dei danni subiti dalla mancata consegna e distruzione di un pacco spedito nel lontano 2002», è la gioia di Giampiero. «E il colmo – afferma l’avvocato Pisani – è che, visti i tempi, ora saranno maggiori i danni dovuti dallo Stato, in base alla legge Pinto, per il ritardo della giustizia». Sì, perché è evidente che i tempi ragionevoli del processo non sono stati rispettati. Diciotto anni per un’udienza che incardini l’istruttoria sono davvero tanti, troppi. Come è potuto accadere? La risposta è in una serie di singolari eventi, la fatalità c’entra solo in minima parte, poi ci sono gli effetti di una giustizia che generalmente affannando annaspa e annaspando perde efficacia e credibilità. Al danno si è aggiunta la beffa in questo caso. Perché Giampiero, che si era rivolto alla giustizia per un pacco andato disperso e poi distrutto, ha dovuto assistere alle lungaggini di un procedimento che non prendeva il via, una volta per la lentezza di un primo giudice di pace, un’altra volta perché il fascicolo processuale è andato smarrito. Le varie istanze inoltrate alla cancelleria dall’avvocato Pisani solo nel 2017 hanno avuto un riscontro concreto con la fissazione di un’udienza, poi rinviata al 2018 e, dopo che il nuovo giudice a cui il processo era stato assegnato è andato in pensione, al 19 giugno 2020. Da ieri ha preso il via la prima udienza istruttoria e si spera che questa sia la volta buona per celebrare e definire il processo. Si torna in aula a settembre.

·         Diffamazione: sì o no?

Giampaolo Scacchi per blitzquotidiano.it 21 dicembre 2020. Ingiuria abolita anche in Inghilterra. Ma ancora una volta all’estero lo hanno fatto meglio di noi. La Corte d’Appello britannica ha sentenziato che la libertà di parola include anche il diritto a offendere. In Italia l’ingiuria non è più un reato penale ma solo una offesa civile. Mentre a Londra il reato o il danno di ingiuria non ci sono più, da noi non c’è più il carcere ma…Ma ci può essere sempre un cospicuo risarcimento. Con multa anche salatissima. L’abolizione del delitto di ingiuria fu decisa dal Parlamento, per difendere alcuni deputati e senatori dalla lingua sciolta, come Maurizio Gasparri e Vittorio Sgarbi. Da noi sopravvive il reato di vilipendio, che portò alla condanna di Umberto Bossi, Aveva definito “terrone” l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Fu poi Sergio Mattarella a graziare Bossi, anni dopo la sentenza. Da noi soprattutto persiste il reato di diffamazione a mezzo stampa e per i direttori quello di omesso controllo. Avanzo della legge sabauda e poi fascista, quando i giornali erano di 4 pagine. E la libertà di stampa non era certo nella Costituzione. L’Italia costituisce forse un unico caso al mondo. Insieme con un ordine dei giornalisti parto della mente del giornalista Benito Mussolini, che in questo non fu superato nemmeno da Stalin. Sotto pressione dell’Europa, da anni il Parlamento italiano cerca di varare una legge che abolisca il reato di diffamazione. Però invece di una legge con un solo articolo che lo stabilisca, così, semplicemente, l’odio dei politici verso i giornalisti ha provocato la elaborazione di testi più pericolosi e liberticidi del carcere. In ogni caso, mentre per la legge italiana l’ingiuria non è più reato penale. Ma resta illecito civile, con multa da 100 a 12 mila euro. E risarcimento danni, i giudici britannici l’hanno proprio cancellata dal quadro giudiziario, riconoscendo all’insulto pieno diritto di cittadinanza nella società di oggi. Riferisce il Daily Mail che quella inglese è una sentenza storica. In seguito alle offese di una femminista che aveva definito una donna transgender un “maiale con la parrucca” e un “uomo”, i giudici hanno sottolineato che la libertà di parola include il “diritto di offendere”. I giudici Lord Bean e Warby, decidendo il caso in Corte d’appello, hanno affermato: “Non vale la pena di avere la libertà di parola se è soltanto utilizzata in modo inoffensivo”. Hanno aggiunto che “la libertà di parola comprende il diritto di offendere e, anzi, di abusare di un altro”. Quindi diritto di ingiuria. Il giudizio di due alti membri della magistratura costituirà un precedente per i futuri casi riguardanti la libertà di parola. La sentenza è a favore di Kate Scottow, di Hitchin nell’Hertfordshire, madre di due figli, dopo che all’inizio dell’anno era stata dichiarata colpevole ai sensi del Communications Act del 2003. Scottow ha dichiarato al Daily Telegraph: “Era necessario sancire uno dei diritti fondamentali di qualsiasi persona in una società democratica. Il diritto alla libertà di parola che attualmente viene regolarmente attaccato”. Ma la “vittima” Hayden ha replicato: ”Questo è un calcio sui denti per l’intera comunità LGBT”. Nel 2018, Scottow era stata arrestata, strappata ai figli e messa in stato di fermo dopo aver definito la transgender Stefanie Hayden un uomo, un “razzista” e un “maiale con la parrucca”. Hayden, 47 anni, aveva denunciato le offese online alla polizia. Scottow era stata arrestata da tre agenti nella sua abitazione davanti alla figlia di 10 anni e il figlio di 20 mesi. Boris Johnson in seguito lo definì un abuso di potere. Nel febbraio di quest’anno, Scottow, 40enne femminista radicale, ha ricevuto la sospensione condizionale della pena di due anni e le è stato ordinato di pagare un risarcimento di 1.000 sterline. Il giudice distrettuale Margaret Dodds le aveva detto: “I suoi commenti non hanno affatto contribuito a un dibattito. “Insegniamo ai bambini a essere gentili gli uni con gli altri e a non chiamarsi con altri nomi nel parco giochi”. Ma, ribaltando la decisione, il giudice Warby ha spiegato che le parti rilevanti della legge sulle comunicazioni “dal Parlamento non erano intese a criminalizzare le forme di espressione”. Warby ha inoltre indicato che l’accusa era stata una “ingiustificata interferenza dello Stato con la libertà di parola”. Lord Bean ha affermato che l’appello ha confermato la necessità, per i responsabili delle decisioni nel sistema giudiziario penale, di tenere conto della libertà di parola. A febbraio, Scottow è stata dichiarata colpevole di fare uso costantemente, tra settembre 2018 e maggio scorso, di un network pubblico mirando a causare fastidio, disagio e ansia a Stephanie Hayden. La “femminista radicale” era stata accusata di aver deliberatamente “offeso” Hayden riferendosi a lei come un “lui” o “lui” durante un periodo di “notevole abuso online”. Nel corso del processo i sostenitori di Scottow avevano manifestato davanti alla Magistrates’ Court St Alban per protestare con il verdetto, cantando “maiale con la parrucca” e “è un uomo, continuate a incriminarmi”.

Estratto dell’articolo di Maria Elena Gualandris per “La Prealpina” pubblicato da “la Verità” il 9 ottobre 2020.  Un «vaffa...» ai poliziotti non è reato. Un marocchino di 32 anni, accusato di oltraggio e minaccia a pubblico ufficiale, è stato assolto a Varese perché il fatto non sussiste. Nel 2018 l'imputato, all'esterno di un locale, aveva ingiuriato una pattuglia della Volante. Gli agenti lo avevano portato in questura per identificarlo e lì il marocchino aveva reiterato le proteste. Al processo, il pm ha chiesto la condanna a sei mesi. Ma il giudice ha preferito la tesi dell'avvocato difensore il quale, ricordando in aula la canzone di Marco Masini e il V Day di Beppe Grillo, ha ritenuto che «l'espressione fosse in quel contesto al più maleducata e volgare» e non costituiva oltraggio perché i poliziotti non stavano compiendo un atto d'ufficio.

Michela Allegri per ilmessaggero.it il 3 aprile 2020. Un insulto in videochat, alla presenza - virtuale - di più persone, non è reato. L’ha stabilito la Cassazione, che nei giorni scorsi ha accolto il ricorso di un uomo di Milano, che era stato condannato in primo grado e in appello per diffamazione per avere offeso una persona in videoconferenza e poi anche su Facebook in una chat di gruppo. Il giudice aveva stabilito che dovesse pagare una multa da 600 euro. Ma ora la Cassazione ha rimescolato le carte in tavola. Secondo gli ermellini, infatti, si tratta di ingiuria: un reato che è stato depenalizzato. Quindi, la sentenza è stata annullata. Gli insulti sono stati rivolti alla vittima attraverso la piattaforma "Google Hangouts”, una delle più utilizzate ai tempi della quarantena forzata a causa del coronavirus. Per la suprema corte, però, non si tratta di un reato. Per un motivo preciso: c’è una netta differenza tra la diffamazione e l’ingiuria, che non sarebbe stata colta dal Tribunale e dai giudici di secondo grado. «E' stato accertato che le espressioni offensive sono state pronunciate dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa e alla presenza di altre persone “invitate” nella chat vocale», si legge nella sentenza. A questo punto, la Cassazione sottolinea che «l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore». Tradotto: in caso di diffamazione la parte lesa non ha la possibilità di difendersi direttamente e in tempo reale. Il fatto che ci fossero testimoni presenti, collegati in videoconferenza, non ha importanza. E non ha importanza nemmeno il fatto che il video della chat fosse stato poi pubblicato su YouTube. Quindi il reato, in questo caso, deve essere riqualificato in ingiuria aggravata dalla presenza di più persone. Reato che è stato depenalizzato. Quindi la sentenza è stata «annullata senza rinvio, perché il fatto, così riqualificato, non è più previsto dalla legge come reato», concludono gli ermellini.

·         La Vittimologia.

Lo Stato aiuta l’assassino anziché le sue vittime. Paola Carella il 27 Settembre 2020 su culturaidentita.it. 30 agosto 2015 – 29 settembre 2020: cinque anni e un mese che Vincenzo e Mercedes Solano sono stati assassinati dall’ivoriano Mamadou Kamara (sgozzò il marito e poi lanciò sua moglie dal balcone della loro abitazione, uccidendola sul colpo, n.d.r.), riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo dal Tribunale di Catania, nel processo di primo grado. Ma la giustizia italiana, si sa, è tra gli ultimi posti: secondo la Commissione Europea dalle indagini preliminari alla sentenza di Cassazione un processo penale nei tre gradi di giudizio ha una durata di circa 1600 giorni, metà dei quali passano di fronte alla Corte d’Appello. “Un calvario ancora più tremendo per le vittime dei reati violenti e dei loro familiari” – dice Rosita Solano, una delle figlie della coppia trucidata nella loro casa di Palagonia, comune del catanese – “purtroppo questa volta non potrò assistere all’udienza (la quarta nel processo d’appello – ndr) causa Covid, dati i miei problemi di salute e per il costo eccessivo dei voli per arrivare in Sicilia”. Rosita Solano è una guerriera, fin dal primo momento ha urlato il suo sdegno alle istituzioni per l’indifferenza e il mancato sostegno: “Spero almeno nella riconferma della sentenza di primo grado – continua – anche se l’avvocato della difesa  si è appellato a delle sciocchezze, ci sono decine e decine di video che provano la colpevolezza dell’ivoriano e che lo incastrano inconfutabilmente, è stato provato che sono sue le tracce di DNA sul corpo oltraggiato e violato di mia madre e di mio padre, eppure la difesa si appiglia a degli escamotage che non servono ad altro se non ad allungare i tempi della sentenza. Sono arrabbiata perché per noi vittime non c’è  rispetto: la nostra perdita, il nostro dolore, non sono considerati. Per noi figli e familiari nessun sostegno, abbiamo messo energie e risorse economiche, al contrario di chi invece è colpevole ed ha il sostegno legale, psicologico ed economico. Ed oltre il danno la beffa, perché dobbiamo anche sopportare una certa ostilità per il semplice fatto che pretendiamo giustizia”. Rosita Solano oggi è nel direttivo di UNAVI Unione Nazionale Vittime, l’associazione che combatte per i diritti delle vittime dei reati violenti chiedendo ai governi e a tutte le forze politiche di rivedere la normativa sugli indennizzi alle vittime e il riconoscimento del trauma da parte del SSN: “In questi anni con l’associazione abbiamo iniziato un percorso di psicoterapia – sottolinea –  che ci ha aiutato molto più di quanto sia stato fatto dalle istituzioni, perché non ci si può affidare a semplici psicologi, bisogna essere esperti di vittimologia, è necessario che si formino specialisti della materia”. Non è facile alleviare la sofferenza di chi ha perso un familiare in modo atroce, è l’ergastolo per chi resta: ”A chi mi chiede se ho perdonato rispondo di no perché il Kamara  aveva premeditato tutto. E’ uscito dal CARA ( a Mineo – ndr) con l’obiettivo malvagio di entrare a casa dei miei genitori. Ho scritto anche al Papa, ma ho ricevuto una risposta di routine, senza sentimento, probabilmente dalla sua segreteria. Non posso credere che un uomo così generoso con tutti non abbia avuto una parola veramente solidale nei nostri confronti. Io comunque aspetto di mettere la parola fine”.

La beffa delle spese processuali a carico della vittima: da Pribke a oggi nulla è cambiato. Valter Vecellio su Il Riformista il 27 Settembre 2020. Temo sia rimasta lettera morta la denuncia raccolta da Giovanni Pisano e pubblicata su Il Riformista: “Ucciso da un proiettile vagante a Capodanno, ora la famiglia deve pagare le spese di giudizio”. Vale la pena (è, a leggerla, una vera pena) riproporre la vicenda: «Era uscito fuori al balcone di casa per richiamare il fratellino che era sceso in cortile durante i festeggiamenti di Capodanno a Napoli ed è morto dopo essere stato raggiunto da un proiettile vagante a un occhio. È la storia di Nicola Sarpa, pizzaiolo di 24 anni, ucciso nei primi minuti del 2009 da un colpo partito dalla pistola impugnata da Emanuela Terracciano (all’epoca 23enne), figlia di Salvatore ‘o nirone, uno dei boss dei Quartieri Spagnoli. Undici anni dopo per la sua famiglia, costituitasi parte civile nel processo che ha portato alla condanna a circa 10 anni per omicidio volontario ma con dolo eventuale, arriva l’ulteriore beffa: una cartella esattoriale con richiesta perentoria di 18.600,89 euro». Come riassume l’avvocato Pisani, «La Terracciano è stata condannata in via definitiva. L’Agenzia delle Entrate ha intimato oggi ai familiari della vittima di rimborsare le spese di tasse e sanzioni della causa perché la condannata risulta nullatenente: non ha risarcito i danni e nemmeno le spese legali, che ora lo Stato, che non ha saputo garantire sicurezza e la vita del giovane sparato a morte mentre era sul balcone, pretende anche i soldi dalla mamma e fratelli della vittima». Anche a me è accaduta una simile, kafkiana vicenda, per fortuna mia, meno dolorosa. Nel 1996 il criminale nazista Erich Priebke (uno di quelli che hanno ucciso alle Fosse Ardeatine), mi querela. Con l’allora presidente della comunità ebraica Riccardo Pacifici avrei, nientemeno, organizzato il suo sequestro. Vinco tutti e tre i gradi di giudizio. Non chiedo un centesimo di risarcimento, il denaro di Priebke mi avrebbe procurato disgusto. Pago di tasca mia l’onorario dell’avvocato. Ebbene: dopo 23 anni dopo l’Agenzia delle Entrate mi notifica di pagare le spese processuali: 291 euro e 21 centesimi entro sessanta giorni dalla notifica. Specificatamente: «277.02 controllo tasse e imposte indirette anno 2007; 8.31 oneri di riscossione spettanti a Agenzia delle entrate-Riscossione; 5,88 diritti di notifica spettanti a Agenzia delle entrate-Riscossione». Mi sono rivolto trenta volte al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiedendo se riteneva giusto quello che accadeva: silenzio per trenta volte. Stessa domanda al presidente del Senato e della Camera. Stessi silenzi. A tutti (dico tutti) i leader di partito rappresentati in Parlamento: silenzio. Un avvocato amico, protagonista di tante buone battaglie per il diritto e il diritto al diritto, bonariamente mi dice: «Di cosa ti stupisci? Accade tutti i giorni». Mi ha lasciato sgomento: perfino lui trovava “normale” la cosa. Mi sono allora rivolto a famosi rubrichisti e commentatori. Silenzio. Alla fine, mi sono arreso. Ho preso atto che sono un suddito, non un cittadino. Ho pagato, con vergogna e disgusto. La ricevuta del pagamento è incorniciata, appesa sopra il water di casa.

La denuncia. Ucciso da proiettile vagante a Capodanno, lo Stato presenta il conto: “Figlia boss nullatenente, pagate 18mila euro”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 21 Settembre 2020. Era uscito fuori al balcone di casa per richiamare il fratellino che era sceso in cortile durante i festeggiamenti di Capodanno a Napoli ed è morto dopo essere stato raggiunto da un proiettile vagante a un occhio. E’ la storia di Nicola Sarpa, pizzaiolo di 24 anni, ucciso nei primi minuti del 2009 da un colpo partito dalla pistola impugnata da Emanuela Terracciano (all’epoca 23enne), figlia di Salvatore ‘o nirone, un dei boss dei Quartieri Spagnoli. Undici anni dopo per la sua famiglia, costituitasi parte civile nel processo che ha portato alla condanna a circa 10 anni per omicidio volontario ma con dolo eventuale, arriva l’ulteriore beffa: una cartella esattoriale con richiesta perentoria di 18.600,89 euro. È quanto pretende l’Agenzia delle Entrate dai genitori di Nicola. La “colpa” di questa famiglia, difesa dagli avvocati Angelo e Sergio Pisani, è di essersi costituita parte civile nel processo contro Emanuela Tarracciano, condannata al risarcimento ma di fatto nullatenente. “Per la giustizia italiana – precisa Pisani – a pagare spese e tasse processuali deve essere questa sfortunata famiglia della vittima innocente uccisa dalla criminalità”. Pisani spera in un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e in una revisione della normativa anche fiscale che non sia sempre un ostacolo e una beffa per le vittime. “Il ragazzo – ricorda Pisani – fu ucciso da un colpo di pistola, la mamma e la sorella chiesero giustizia e dopo anni di causa arriva la condanna in sede penale e civile dell’autore della responsabile dell’omicidio, una donna della famiglia Terraciano ai Quartieri Spagnoli, ma ora l’Agenzia delle Entrate addebita e imputa ai familiari della vittima innocente euro 18.819,25 per spese/tasse della causa vinta risultando l’assassina nullatenente”. “La cifra imposta senza pietà dallo Stato alle vittime – denuncia Pisani – ammonta a 18.819,25 euro. L’assassina, condannata in via definitiva dalla Cassazione ad 8 anni di reclusione ed anche a risarcire i danni, risulta nullatenente e non pagherà, ma ai familiari della vittima oltre al danno irreparabile della morte del figlio anche la beffa di dover pagare spese e tasse di registrazione con il pericolo di perdere ogni altro bene a seguito espropriazioni esattoriali. La notifica è stata recapitata ai malcapitati e poveri familiari della vittima innocente, che per dieci anni si sono difesi con grandi sacrifici e dignità grazie al gratuito patrocinio dello Stato, per il recupero delle tasse e sanzioni delle cause intentate per la punizione dell’assassino della giovane vittima innocente”. “La Terracciano è stata condannata in via definitiva. L’Agenzia delle Entrate ha intimato oggi ai familiari della vittima di rimborsare le spese di tasse e sanzioni della causa perché la condannata risulta nullatenente: non ha risarcito i danni e nemmeno le spese legali, che ora lo Stato, che non ha saputo garantire sicurezza e la vita del giovane sparato a morte mentre era sul balcone, pretende anche i soldi dalla mamma e fratelli della vittima”. “L’Agenzia delle Entrate – conclude Pisani – annulli in autotutela una crudele condanna beffa in danno di chi già ha sofferto e non avrà alcun risarcimento”.

L'Agenzia delle Entrate chiede 20mila euro alla famiglia della vittima. “Mio fratello ucciso da nullatenenti, mi chiedono di pagare spese legali per gli assassini”, la beffa di Valentina. Rossella Grasso su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Nicola Sarpa aveva solo 24 anni quando un proiettile vagante lo uccise durante la notte di Capodanno del 2009. Il colpo era partito dalla pistola impugnata da Emanuela Terracciano, allora 23enne, figlia di Salvatore ‘o nirone, uno dei boss dei Quartieri Spagnoli. Il processo fu celebrato e Terracciano condannata in via definitiva. Undici anni dopo arriva la beffa: alla famiglia di Nicola Sarpa l’Agenzia delle Entrate consegna la cartella esattoriale. La famiglia deve pagare le spese processuali perché chi ha ucciso Nicola risulta nullatenente. “Non vedo perché io debba pagare la parte di chi ha ammazzato mio fratello. Mi sembra una cosa ingiusta, inaudita, non so quale aggettivo usare”, dice Valentina, sorella di Nicola, che non trova pace. L’Agenzia delle Entrate chiede perentoriamente alla famiglia Sarpa il pagamento di 18.600,89 euro. La “colpa” di questa famiglia, difesa dagli avvocati Angelo e Sergio Pisani, è di essersi costituita parte civile nel processo contro Emanuela Tarracciano, condannata al risarcimento ma di fatto nullatenente. L’avviso di pagamento è arrivato durante il lockdown. “Subito chiesi informazioni all’Agenzia delle Entrate ma mi dissero che stavano lavorando in smart working e quindi non potevano fare nulla per me – racconta Valentina – Noi questi soldi non li abbiamo. Questa cartella da ventimila euro non posso e non voglio pagarla. Lo Stato dovrebbe tutelarci non darci la caccia. Siamo vittime non carnefici”. “Per la giustizia italiana – precisa l’avvocato Pisani – a pagare spese e tasse processuali deve essere questa sfortunata famiglia della vittima innocente uccisa dalla criminalità. Ma ai familiari della vittima oltre al danno irreparabile della morte del figlio anche la beffa di dover pagare spese e tasse di registrazione con il pericolo di perdere ogni altro bene a seguito espropriazioni esattoriali”. La famiglia Sarpa per dieci anni ha combattuto con grandi sacrifici e dignità grazie al gratuito patrocinio dello Stato, per il recupero delle tasse e sanzioni delle cause intentate per la punizione dell’assassino della giovane vittima innocente. Emanuela Terracciano, condannata in via definitiva dalla Cassazione ad 8 anni di reclusione ed anche a risarcire i danni, ha scontato la sua pena ma risulta nullatenente. “Nemmeno il risarcimento vedremo mai”, si sfoga Valentina. Valentina chiede che la cartella sia annullata. “Non parlo solo per me ma per tutte le famiglie di vittime innocenti – continua – Chi più si costituirà parte civile sapendo che lo Stato poi ti recapita il conto a casa? Se le spese devono ricadere sui familiari delle vittime nessuno più cercherà di avere giustizia”. E lancia un appello al Presidente della repubblica Sergio Mattarella affinchè venga eliminata la cartella. “Non abbiamo mai chiesto nulla – dice – però non vogliamo nemmeno dare soldi che non dobbiamo pagare noi. Ci sentiamo in diritto di non pagare questi 20mila euro che lo Stato ci chiede”. La famiglia Sarpa non ha mai ricevuto scuse da nessuno, gli resta solo un grande dolore e il vuoto della perdita del loro caro Nicola. E a breve potrebbe partire il pignoramento della loro casa. “Non so come andrà a finire: forse io, mia mamma e i miei figli andremo a dormire nella sede dell’Agenzia delle Entrate”.

Dopo il danno la beffa: “Ho vinto processo contro il nazi Priebke ma devo pagare le spese”. Valter Vecellio de Il Riformista il 3 Marzo 2020. In piena facoltà, Signor Presidente, parafrasando Boris Vian – che pure si riferiva a vicende ben più tragica e terribili – le scrivo la presente, che spero leggerà. Anch’io ho ricevuto una cartolina, che “terra terra” mi dice che non sono un cittadino di questo Stato, come per svariate decine d’anni ho creduto d’essere; sono piuttosto un suddito di un’entità che mi considera solo per i doveri, e non mi riconosce diritto. È una storia non breve, Signor Presidente. Una storia che comincia nel lontano 1996. Si tratta di spese sostenute per una vicenda cominciata nel 1996. Quel giorno Erich Priebke, uno dei responsabili dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, viene assolto da un tribunale militare; dopo la guerra si è rifugiato in Argentina. Il Centro Wiesenthal, specializzato nella caccia ai nazisti, lo rintraccia a San Carlos de Bariloche; un giornalista dell’americana “ABC”, messo sull’avviso, lo intervista. Scoppia il caso: Priebke viene espulso, estradato in Italia. Processato per il massacro alle Ardeatine, un tribunale militare lo assolve. Mezza città di Roma si ribella. Il tribunale per tutta la notte è come cinto d’assedio, fino a quando non interviene il ministro della Giustizia di allora, Giovanni Maria Flick; trova un marchingegno giuridico che consente di riprocessare Pribke; che alla fine di un lungo iter giudiziario è riconosciuto colpevole, condannato all’ergastolo (data l’età, lo sconta ai domiciliari). Per ragioni imperscrutabili Priebke ritiene chi scrive e l’allora capo della comunità ebraica Riccardo Pacifici, responsabili di quello che definisce un sequestro di persona. Siamo assolti in primo, secondo, terzo grado. Per quello che mi riguarda, la storia finisce. Pago di tasca mia l’avvocato, non chiedo un centesimo di risarcimento: ne avrei avuto ribrezzo. Qui subentra il teatro dell’assurdo. Anni dopo i fatti si fa via l’Agenzia delle Entrate: bisogna pagare le spese processuali. Ho vinto, perché devo pagare? La risposta: “Priebke risulta nullatenente”. E allora? “Allora lo Stato non può rimetterci: paga chi vince”. Danno e beffa: “Se crede però si può rivalere nei confronti di Priebke”. Per farla breve: lo Stato non riesce a farsi pagare, si rivale sull’innocente; poi l’innocente se la veda lui con il colpevole. Ecco, Signor Presidente: da questa risposta, “Lo Stato non può rimetterci”, ho cominciato a prendere coscienza che io – sia pure in parte infinitesima, non faccio parte dello Stato, non ne sono un piccolissimo membro. Io devo pagare, lo Stato, il “mio” Stato, non può rimetterci. Mi ribello; mi rivolgo a quelle istituzioni in cui ancora credevo; sollevo il caso mediaticamente. Qualcuno allora s’inventa un escamotage: un anonimo benefattore paga per noi. Non è vero: non c’è nessun anonimo benefattore. E’ una bugia, raccontata per metterci a tacere. Quest’anno arriva una nuova ingiunzione; c’è anche da pagare una mora. Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa Beppe Giulietti si schiera al mio fianco; mi rivolgo ai presidenti di Senato e Camera, al ministro della Giustizia, ai leader di partito presenti in Parlamento; chiedo: è giusto quello che accade? Devo davvero pagare? Silenzio. Indifferenza. Nel frattempo arriva la terza ingiunzione. A questo punto, mi arrendo. Vergognandomi come un ladro, pago. Sono stato accusato per qualcosa che non ho fatto; sono stato riconosciuto innocente; devo pagare al posto del colpevole: un criminale nazista condannato all’ergastolo per le Ardeatine. Mi brucia, non lo nascondo; ma più di tutto il silenzio, l’indifferenza di chi avrei voluto trovare al mio fianco e invece mi ha voltato le spalle. Ecco perché mi “dimetto” da cittadino, mi considero parte della folta legione dei sudditi di questo disgraziato Paese. Colgo l’occasione per ringraziare Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma: volevano pagare loro al mio posto. Preferisco che quella somma sia dirottata verso qualche ente che assiste i membri più bisognosi della comunità. Ringrazio i colleghi che mi sono stati vicini. Assicuro che ricordo bene quanti hanno taciuto, voltato la testa senza muovere un dito. È un ricordo che porterò sempre con me. L’ultimo gesto è rivolgermi a Lei, Signor Presidente, che finora non mi sono sognato di scomodare, sapendola impegnata in cose molto più urgenti, necessarie, importanti. La mia vuol essere solo una notifica. Da oggi nel mio studio campeggia, incorniciato, il modulo dell’“Agenzia delle entrate” che intima, pena il sequestro, di pagare 302 euro e 23 centesimi per le spese processuali sostenute. Ora non chiedo più nulla. Non mi sento più cittadino con doveri che osserva (il pagare, per esempio le tasse al centesimo; credere che votare non sia solo una facoltà, ma anche un atto di rispetto verso le istituzioni); da oggi mi considero un suddito oppresso da una entità nemica. Vinto e preda di radicale amarezza; vittima di quello che ritiene essere un sopruso consumato in nome del popolo italiano. Mi scusi per il tempo che le ho sottratto. Le auguro buon lavoro e buona giornata.

La “dittatura della vittima” e il medioevo del diritto nel “processo penale totale”. Davide Varì su Il Dubbio il 23 febbraio 2020. Il libro di Sgubbi: duro, tagliente e senza sconti. “La vittima è l’eroe moderno, ormai santificato. L’abuso del paradigma vittimario frutto del diritto penale emozionale e compassionevole, ha fatto si che lo stato di vittima sia diventato desiderabile nello stato di oggi”. E’ solo uno dei passaggi, e forse neanche il più duro e diretto, del libro di Filippo Sgubbi: “Il diritto penale totale”, edizioni Il Mulino. Un testo che non fa alcuno sconto, che mira dritto al cuore del problema senza timori né riguardi. E la chiave di volta del testo di Sgubbi, avvocato e professore nelle università di Cagliari, Bologna e Roma, è proprio quel termine: “totale”. “Totale perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua”.  Totale, inoltre, perché da anni, decenni, la politica e la società civile sono convinte che ingiustizie e mali sociali possano trovare una soluzione solo ed esclusivamente nel diritto penale. Ed è questo il motivo per cui la giustizia è diventata il centro della vita politica e l’epicentro delle scosse che di volta in volta minano la tenuta di governi e maggioranze: vedi il recente scontro sulla prescrizione e sulla riforma del processo penale. E così Filippo Sgubbi ci aiuta a mettere a fuoco il vero nodo, quel groviglio tra politica e giustizia che è più di un’osmosi: non un confronto dialettico tra pari, quanto una sottomissione della prima nei confronti della seconda. Perché quel grido “vogliamo giustizia”, (e torniamo alla teoria del “paradigma vittimario) urlato nelle aule dei nostri tribunali e usato come arma contundente contro quei giudici che si permettono di assolvere o non infliggere “pene esemplari”, riecheggia nelle stanze dei palazzi della politica e diventa centro, manifesto e proclama di gran parte dei partiti. E così accade che il processo “sia chiamato a cercare colpe prim’ancora che cause”.

Nasce in questo modo “una nuova forma di ricerca processuale del capro espiatorio e nel contempo un nuovo tipo di processo politico dovuto alle pressioni politico-sociali”. Non solo, “la voce intimidatoria delle vittime, adeguatamente amplificate dai media, – spiega Sgubbi – trascende l’ambito risarcitorio e vorrebbe poter determinare la sanzione, chiedendo pene più severe. E trascende perfino l’ambito del processo con la richiesta anche di sanzioni penali sociali extrapenali”. E, seguendo Sgubbi, possiamo senz’altro dire che la “dittatura” del “paradigma vittimario” arriva a giustificare anche le minacce a quegli avvocati che “osano” difendere i diritti degli imputati. Se nelle visione distorta di media e pubblica opinione il processo non è più ricerca di cause e responsabilità ma mero dispensatore di pene esemplari, allora l’avvocato difensore diventa necessariamente “complice” insieme al giudice che non punisce in modo “adeguato”.  Con buona pace del diritto, delle garanzie e della democrazia stessa, la quale, spiega Sgubbi, “è travolta dagli stessi inconvenienti caratteristici dei processi politici di ogni tempo”. Ma la dittatura del “paradigma vittimario” è solo uno degli argomenti sezionati da Sgubbi. Con la stessa efficacia e durezza Sgubbi ci parla di “tipicità postuma”, di “reati percepiti”, fino al binomio “puro/impuro” che ha sostituito quello di “innocente/colpevole”. “La responsabilità penale si può allora spiegare anche con le categorie puro/impuro, come nella visione selvaggia del peccato”. Secondo Sgubbi il reato e la colpa sono uno “stato” che precede la commissione di un fatto. Una sorta di peccato originale che macchia fin dall’origine alcune “caste”, quella politica su tutte. Ma questa degenerazione del diritto colpisce tutti, anche chi si è ritrovato a urlare “giustizia” chiedendo pene esemplari. Perché “nel diritto penale totale il cittadino si presenta solitamente inerme e con scarso potere difensivo”. Immerso in un medioevo che ha contribuito a generare.

·         A proposito di Garantismo.

Prescrizione abolita, e adesso cancelleranno l’appello. Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione Camere Penali, il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Per il Ministro Bonafede (a differenza dei suoi ben più smaliziati suggeritori e sostenitori) la prescrizione è solo una battaglia mediatica. Postulata la equazione “prescrizione = impunità dei potenti”, deve poter dire: abbiamo sconfitto l’impunità dei potenti. Né più né meno che la “sconfitta della povertà” con il reddito di cittadinanza. Infatti lo dice, e rivendica -iddio lo perdoni- un Paese divenuto più civile dal 1 gennaio 2020. Ma è intanto cresciuta nella opinione pubblica e nel Parlamento, in questi lunghi mesi di battaglia politica, la consapevolezza o almeno il sospetto che quella equazione sia una truffa. Infatti lo è. La prescrizione per il suo 75% libera le già collassate scrivanie di PP.MM. e Giudici da centinaia di migliaia di fascicoli per reati minori, sotto il cui peso altrimenti il nostro sistema giudiziario affonderebbe definitivamente. Una volta si otteneva questo indispensabile repulisti in modo più limpido e democratico, cioè con ricorrenti provvedimenti di amnistia dei quali almeno ci si assumeva la responsabilità politica; oggi, riformato irresponsabilmente l’istituto dell’amnistia, ci pensa la prescrizione, arbitrariamente gestita dalle Procure della Repubblica. Non c’è un solo magistrato italiano che sarebbe disposto a vedersi privato di questa manna dal cielo, una vera e propria bombola di ossigeno per l’enfisematoso sistema giudiziario nostrano. Provate a chiederlo al Presidente dell’Anm Luca Poniz, inflessibile sostenitore di questa riforma sciagurata, e vediamo cosa vi risponde. Se la eliminazione della prescrizione è imposta da superiori esigenze di giustizia, dal rispetto delle vittime del reato, dalla lotta contro ogni impunità, come mai di quel 75% del fenomeno ce ne fottiamo tutti bellamente, i magistrati per primi? Le vittime dei furti d’auto, reati in ordine ai quali addirittura si attrezzano istruttorie simulate, sono meno vittime, chessò, di quelle di un fumoso traffico di influenze? Per le prime non sanguina il cuore a nessuno, dott. Poniz? Invece, la prescrizione diventa farina del diavolo appena pronunciata una sentenza di primo grado. Il P.M. decide, letteralmente, quali procedimenti far silenziosamente abortire per prescrizione, liberandosi la scrivania a propria discrezione (con tanti saluti alle vittime di quei reati), e quali far proseguire fino ad un primo giudizio di merito. Se poi, per arrivarci, si tiene in sospeso la vita dell’imputato (e con lui le persone offese) 5 o 7 o 10 anni, per sovrappiù -secondo questi illuminati uomini di giustizia e di diritto- egli deve rimanere imputato senza più un limite di tempo. Vita natural durante, se necessario, in nome della Giustizia che deve fare il suo corso, costi (all’imputato, s’intende) quel che costi. Qualunque persona di buon senso, debitamente informata, comprende che un sentimento elementare di giustizia imporrebbe l’esatto opposto. Se non ti sei fatto bastare un decennio o un quindicennio per pronunciarti definitivamente sulla mia imputazione, hai addirittura il dovere, etico e giuridico, di rinunziare alla tua potestà punitiva. La prescrizione opera solo se sono trascorsi questi tempi indecorosi senza una pronuncia definitiva. Ecco perché in Europa il problema non esiste: perché i processi durano quattro o cinque volte di meno, non certo perché in quei Paesi viga questo indecente principio pentastellato dell’imputato a vita! Ed infatti i registi del giustizialismo nostrano hanno ben altro in mente. Sanno perfettamente che questa sciagurata riforma sarà ulteriormente paralizzante, ma pensano: meglio così. Ci spiegheranno – già lo stanno facendo – che occorre ora sottrarre agli imputati il diritto di impugnazione, riducendolo ad ipotesi eccezionali, e con esso una serie di garanzie processuali, vissute come irritanti ed inutili rallentamenti del processo. Fino a ieri ci hanno raccontato che gli imputati senza il miraggio della prescrizione non faranno più appello. Quando anche questa grottesca e stupida falsità sarà disvelata (cioè subito), diranno -già lo dicono- che bisogna proprio toglierglielo, all’imputato, il vizio di impugnare le sentenze. Che si facciano bastare le sentenze di primo grado, già fin troppo generose (poi con calma si lavorerà pure a quelle). Il mondo che costoro sognano è quello nel quale Enzo Tortora avrebbe chiuso la sua vita da camorrista spacciatore di morte. Non è il nostro, e non deve diventare -non diventerà- quello in cui dovranno vivere i nostri figli. Questa è la vera partita che siamo chiamati tutti a giocare, la prescrizione è solo un cavallo di Troia. Ecco perché oggi il Partito democratico, che ancora nicchia e traccheggia, confuso ed intimorito, è chiamato ad una scelta netta contro questa assurda ossessione paranoide fattasi legge. Perché la partita sulla prescrizione è in realtà la partita tra chi vuole chiudere i conti con il processo accusatorio del 1988, e chi vuole difenderlo ed anzi rafforzarlo in nome dell’art. 111 della Costituzione. La Riforma Bonafede della prescrizione deve essere abrogata, non c’è più tempo per l’incertezza. Gian Domenico Caiazza

Il libro di Eligio Resta. La violenza giusta, la giusta ingiustizia: un pensiero sul garantismo. Alberto Abruzzese il 28 Dicembre 2019 su Il Riformista. Così Eligio Resta nel suo La violenza (e i suoi inganni): «Il primo grande processo “mediatico” che ci racconta di una pena di morte è quello che Atene intenta a Socrate: il processo si conclude con una pena capitale in cui la morte del corpo si ribalta nella salvezza dell’anima, l’ingiustizia subita nella giustizia della città: il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice, appunto pharmakòs. Non si esce dall’ambivalenza se non “ingannando” la violenza; mi è capitato molte volte di ripeterlo, si tratta di un gioco serio quello dell’inganno della violenza. Chi non prende sul serio l’inganno vedrà ritornare la violenza. Il diritto che interdice la morte condensa anche questa difficile scommessa per ingannare la propria violenza. Per questo non dobbiamo stupirci della violenza». Devo a Eligio Resta l’ispirazione a destinare questo mio articolo a Il Riformista. Spero di essere convincente nel contesto di questo giornale, unico nel genere per la sua specifica vocazione garantista. Le ordinarie prese di posizione del garantismo impongono a mio avviso una urgente domanda: c’è qualcosa di nuovo e diverso che si muove nella sua tradizionale vocazione a preservare la vita umana dalle ingiurie della Legge, dei suoi processi e delle pene affettive e corporali che infligge? Di continuo la violenza sui singoli non cessa e dunque non cessa mai la semplicità – semplicità sempre più apparente e dunque sempre più ultimativa – dei discorsi garantisti. Viviamo nell’allentarsi dei dispositivi di “verità” più elementari di una democrazia sotto attacco e più ancora sfibrata dalle proprie contraddizioni storiche, originarie, e insieme dalla sua immersione in una globalizzazione finanziaria decisa a infrangere i suoi stessi presupposti etici e politici. Sembra anzi che la contrapposizione tra una giustizia giusta e una giustizia ingiusta (dunque in sintesi una ingiustizia giusta) incappi nel non-senso. In una sorta di nichilismo. Forse, ad evitarne gli effetti di logoramento, è necessario spostare in avanti e indietro l’ottica del garantismo per arrivare non soltanto alla denuncia di un potere penale incapace e iniquo – un potere che produce sofferenza senza altra utilità che non sia la sua necessità di sopravvivenza – ma arrivare anche all’analisi dei i fattori socio-antropologici che ne sono complici, involontariamente e cioè automaticamente. Potremmo dire “per distrazione”. Azzardo una domanda diretta a me stesso e a chi sta leggendo questa pagina, quale egli sia e quale voglia essere nel suo ruolo, nella la propria professione di fede nella società civile (attenzione!). La domanda riguarda, innanzi tutto, quale sia, nel parlare abitudinario di “società civile”, il significato che le attribuiamo: positivo o negativo? E cioè, nell’usare questo classico termine della tradizione moderna, aderiamo al suo significato letterale oppure lo assumiamo in quanto falsificazione (falsa coscienza) di ciò che essa in realtà è, dunque “società incivile”? Ma il punto cruciale da affrontare riguarda direttamente, intimamente, la nostra coscienza personale: sappiamo frenare le seduzioni culturali alle quali apparteniamo – per alcuni il libro, altri lo spettacolo, altri la rete, altri il metodo e la teoria, altri la politica, altri la religione, altri la più minuta vita quotidiana – per guardare direttamente dentro la condizione umana di una sofferenza di cui siamo complici in quanto comunque afflitti dalla necessità di sopravvivenza e dalle violenze che essa ci spinge a compiere su noi stessi e sugli altri da noi? Eligio Resta ci può aiutare a rispondere a questa domanda leggendo l’appassionato rilancio che l’autore ci offre del suo lungo lavoro di filosofo del diritto. La figura di intellettuale che gli si può accostare è certamente Stefano Rodotà, e infatti Resta rivolge un sentito omaggio alla sua memoria, ma queste poche dense pagine pubblicate ora da Sossella Editore nella collana Collassi, dimostrano una inquietudine ben diversa e in tutto particolare: il coraggio di trattare il tema della violenza senza temere di entrare in contraddizione con se stesso ma scegliendo di fare proprio di essa la sua vocazione. Dunque di farne lo strumento per dividere – invece che saldare in una sola prigione – la persona umana dalla propria professione, dal ruolo di competente nel campo delle infinite tecnicalità che compongono e scompongono i dispositivi (scritti, interpretati e applicati) del Diritto Penale: là dove è in gioco la morte della carne e più si “mostra” – viene mostruosamente messo in scena – il circolo vizioso tra pena e violenza. Tale è, per Resta, questo rapporto: un legame vizioso, dunque una abitudine “cattiva” (che imprigiona). Inclinazione, deriva, che impone di continuo la necessità di un pensiero in grado di resisterle, rivelarla (nel giusto senso di una scrittura apocalittica). Il nodo su cui l’autore insiste in ogni pagina è espresso nella paradossale intercambiabilità tra la massima, appunto apparentemente legittima, che sentenzia “la violenza crea il diritto” e, di contro, la massima, all’opposto perturbante, “il diritto crea la violenza”. Nessuna dialettica è qui possibile: tesi e antitesi sono l’una il rovescio dell’altra. E non può esservi sintesi possibile. Può esserci soltanto la consapevolezza di tale impossibilità. I due antagonisti del classicismo moderno da Resta più citati sono non a caso Nietzsche (sulla morte e sulla volontà di potenza della natura umana) e Benjamin (per il quale la violenza che crea il diritto è la stessa che lo conserva). La conseguenza di questo approccio è sentirsi umanamente responsabili di ciò che diversamente specializza la sfera del diritto e la sfera della politica (anche della guerra che ne è la soluzione estrema, finale). E infine la sfera amministrativa (in cui l’esercizio della violenza e delle pene si fa più diffuso e mascherato ma non meno ambivalente). Per questo Resta ci avvisa sul dovere di frenare la produzione sociale di morte e dolore (ad opera appunto del diritto, della politica, delle istituzioni) investendo quanto più possibile sulla legittimità della violenza e sempre meno sul “pharmakon della violenza”. Dunque non su una visione illusoria, ideologica, riformista della violenza, ma su una visione di essa “realistica”, senza “falsa coscienza”. Tragica. La violenza è sempre “anche” e quindi “comunque” illegittima, e l’idea di cura per mezzo della violenza non fa altro che perpetuare la violenza stessa, confermarne il carattere originario, da un lato, e utilitaristico dall’altro. Ha ragione Benjamin nell’avere posto questo dilemma – alla vigilia della furia novecentesca – direttamente al centro della critica della violenza e non al di fuori, nel campo delle illusioni umaniste e dei principi speranza della civiltà occidentale. Non vi è da avere cura soltanto della violenza del potere e dello Stato moderni, ma, se essa – in base alle leggi di natura del potere e della politica – resta comunque il solo mezzo per raggiungere fini, bisogna allora affrontare l’accadere di una violenza giusta. «E la violenza, giustificata per una volta, dovrà esserlo sempre». Un “giudizio” quello di Resta per nulla ricompositivo, pacificatorio e salvifico, ma tragico. E tuttavia proprio l’inganno della violenza è l’esile margine che resta alla natura umana per distinguersi dalle leggi di natura del mondo vivente, della la sua cecità e carenza di linguaggio. Unica garanzia, seppure incerta, di avere “giusta coscienza” di se stessa.

·         A proposito di Prescrizione.

Prescrizione. Manlio Cerroni e la malafede dei giornalisti.

Un indagato/imputato prescritto non è un colpevole salvato, ma un soggetto, forse innocente, NON GIUDICABILE, quindi, NON GIUDICATO!!!

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. C'è del marcio nei palazzi di giustizia. Si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", ma sono la prova che il sistema è al collasso, fin nelle fondamenta, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Quello che mi fa ribollire il sangue è che si ostinano a chiamarli "errori giudiziari", a presentarli come casi isolati da inserire nel naturale corso della dialettica processuale. E invece sono la prova provata di un sistema giudiziario marcio fin nelle fondamenta. Aprite i giornali e ogni giorno troverete uno di questi "errori". Facciamo insieme due passi nelle cronache recentissime e ripercorriamole a ritroso.

Eppure i figli di…Travaglio divulgano certi messaggi fuorvianti atti ad influenzare gli ignoranti cittadini, che poi votano ignoranti rappresentanti politici e parlamentari.

A tal proposito viene in aiuto l’esempio lampante di come un tema scottante ed attuale venga trattato dai media arlecchini, servi di più padroni.

Assolti? C’è sempre un però. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo.

TG1: ROMA PROCESSO MALAGROTTA, ASSOLTO CERRONI. Andato in onda il 06/11/2018. "Il processo sulla discarica di Malagrotta e la gestione dei rifiuti a Roma. Assolto l'ex patron dello stabilimento, Manlio Cerroni, dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti". Flavia Lorenzoni.

Nel servizio si fa cenno al fatto che il processo è durato 4 anni. E meno male che l’abbia detto. Ma lì si è fermato. Però, di seguito, il TG1 ha mandato in onda il servizio sulla strage di Viareggio e sugli affetti che la prescrizione avrebbe avuto su di esso.

Nel servizio al TG5 di questo tempo processuale di Cerroni nemmeno se ne fa cenno.

A cercare su tutta la restante stampa e sugli altri tg non si trova altro che cenni all’assoluzione, tacendo i tempi per il suo ottenimento, ma insistendo ad infangare ed inficiare la reputazione dell’ultra novantenne Cerroni.

Solo il detuperato e vituperato giornale di Pero Sansonetti mi apre gli occhi: "Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere", scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". "Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto".

14 anni sotto la scure della giustizia. Ma in tema di campagna contro la prescrizione meglio tacciare quest'aspetto della notizia, sia mai si ledano i favori dei potenti di turno.

Una censura o un’omertà assordante, nonostante: "In 30 anni ho finanziato tutta la politica. Tutta no, i Radicali non me l'hanno mai chiesto". Manlio Cerroni, intervistato da Myrta Merlino su La 7 il 6 settembre 2017.

Lo scandalo non sta nel fatto che scatta la prescrizione, dopo anni dal presunto reato e anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati anni alla magistratura per concludere l’iter processuale.

La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento.

Nonostante la verità si appalesa, certi politici, continuano a cavalcare barbare battaglie di inciviltà giuridica e sociale.

Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti. La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.

Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.

Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.

Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino.

Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti.

Il Giustizialista Giacobino è colui che una la differenziazione della giustizia. Ciò ha un che di antiquato, di classista, distinguere ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa.

Il Giustizialista Giacobino è colui che invoca una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Sì, però, va detto che la giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti.

La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro.

Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara (Lucca, 18 settembre 1805 - Lucca, 15 gennaio 1888), abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».

Tuttavia la veemenza con cui, negli ultimi anni, opinione pubblica e rappresentanti politici e della magistratura ritengono una ferita alla civiltà giuridica un istituto che, dai tempi del diritto romano, ne è stato invece baluardo, ha origini mediocri.

Ma se è mediocre la veemenza, è antica la genesi dell’istituto della Prescrizione.

E' indubbio che l'istituto della prescrizione - nato come istituto di natura processuale (la longi temporis praescriptio del diritto romano) che estingue l'azione (civile o penale) e come tale disciplinato nel diritto penale risponde in primo luogo all'esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, esigenza cui è evidentemente interessato soprattutto l'imputato. Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.

“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (Milano 15 marzo 1738 - Milano 28 novembre 1794). CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto.

 

Giustizia lumaca, condanna anche per gli innocenti. Alfredo Sorge su Il Riformista il 29 Maggio 2020. La recente conclusione di un processo penale che ha riguardato fatti di oltre vent’anni addietro suggerisce alcune riflessioni. È inaccettabile essere sottoposti a un giudizio per così tanto tempo perché si possa giungere a sentenza, peraltro di primo grado, tenendo presente che passeranno altri anni perché la decisione diventi definitiva. Che gli imputati vengano giudicati colpevoli oppure assolti, che le persone offese vedano o meno soddisfatte le loro istanze, una dimensione temporale così lunga rappresenta una condanna per tutti che spesso finisce con il travolgere la vita di persone, famiglie e aziende. Giudicare una persona per fatti commessi una vita indietro è in ogni caso un errore perché si sta valutando un soggetto che il tempo ha certamente cambiato non soltanto anagraficamente ma anche sul piano sociale e lavorativo. L’esperienza mi permette di affermare che il problema ha più cause. La prima è l’eccessiva durata del termine di prescrizione. Perché parlo di prescrizione? Perché se il termine entro il quale arrivare alla conclusione del processo fosse ragionevolmente più breve, non assisteremmo mai a sentenze che intervengono a decine di anni dai fatti: l’intero apparato giudiziario sarebbe costretto a funzionare meglio e ad assicurare la conclusione dei giudizi in tempi ragionevoli. Negli ultimi tempi si è a lungo dibattuto sull’argomento, con la contrapposizione tra l’avvocatura e il ministro Bonafede, sordo con il suo governo nel non ascoltare le istanze provenienti da tutti gli operatori del diritto e nell’approvare una scellerata riforma che, abrogando la prescrizione dopo il primo grado, allungherà ancor di più la durata dei processi. Poiché l’istituto della prescrizione, correlato al principio costituzionale della durata ragionevole, è la principale la valvola di sicurezza per assicurare i tempi del processo penale, o si mette mano all’immediata riforma di quanto il pessimo legislatore degli ultimi due anni ha varato oppure assisteremo a processi la cui durata sarà sempre maggiore, potenzialmente eterna. Le ultime erronee scelte legislative, inoltre, hanno ancor più disincentivato il ricorso ai riti alternativi, oramai spesso inaccessibili anche per titolo di reato: ciò determinerà l’ulteriore ingolfamento del carico processuale del dibattimento. La seconda ragione che individuo è la durata delle indagini preliminari: spesso i processi arrivano a dibattimento a distanza di anni rispetto ai fatti da verificare, rendendo difficoltoso l’accertamento giudiziario e chiedendo al giudice accelerazioni che mal si conciliano con la serenità che deve contraddistinguere quello stesso accertamento dibattimentale. Ciò ha una causa ancora una volta legislativa: le indagini preliminari sono di fatto prive di sanzionate regole temporali nel senso che, se la legge formalmente limita la durata delle indagini da sei fino a un massimo di 18 mesi, in realtà il pubblico ministero (con la polizia giudiziaria che opera sotto la sua direzione) può indagare su fatti e persone per tutto il tempo che vuole (spesso molti anni, con la tecnica degli “stralci”) non temendo alcuna sanzione processuale. Evidente che indagini più brevi avrebbero riflessi positivi sulla durata complessiva del giudizio. Vi sono poi le carenze organizzative degli uffici giudiziari. Ciò è dovuto in primo luogo all’atavica carenza di risorse economiche che lo Stato destina al settore giustizia (meno dell’uno per cento del bilancio), come se chiedere giustizia fosse un dessert da preferire o meno al termine di un pranzo e non invece il fulcro su cui ruota lo stato di diritto. La domanda di giustizia, alla stregua della tutela della salute, rappresenta il perno indispensabile in un sistema democratico. Qui voglio accennare anche a quelle strutture giudiziarie, spesso fatiscenti, che purtroppo sono presenti soprattutto al Sud, e al settore civile dove la durata delle cause è argomento che danneggia tutti i cittadini e i loro avvocati, costretti insieme a non vedere i risultati dei propri diritti e del proprio lavoro in tempi ragionevoli. Siamo poi di fronte ad aspetti organizzativi delle attività di cancelleria dove prevale l’irrazionalità, dove la parola ammodernamento nei mezzi è un miraggio e dove esiste invece un personale insufficiente per numero e per esperienza nell’informatica che è la strada migliore per velocizzare il sistema giustizia. A questo punto si deve toccare un tasto particolarmente dolente soprattutto in questi giorni in cui gli avvocati vorrebbero riprendere la quotidiana attività giudiziaria ma ciò non viene loro consentito per la penuria del personale giudiziario e anche a causa di provvedimenti altalenanti tra i vari uffici che di fatto hanno confinato l’attività giudiziaria a un esercizio per pochi eletti. Va stigmatizzata un’altra decisione poco saggia di questo governo ovvero quella di delegare ai singoli capi degli uffici la facoltà di stabilire regole processuali e di individuare i processi da celebrare. E così, mentre il Paese riparte pur con tutte le cautele del caso, i tribunali restano deserte cattedrali dove gli uffici funzionano pochissimo e male, dove agli avvocati neppure è concesso di entrare e dove si assiste a situazioni mortificanti della dignità della funzione difensiva. Il triste risultato è davanti agli occhi di tutti: aule deserte e processi penali che vengono rinviati, con un certo ulteriore ingolfamento della già gravata macchina giudiziaria. E allora l’unica via è quella della ripresa effettiva e piena di tutte le attività giudiziarie alla stregua di quanto avviene per tutte le attività del Paese che registri finalmente una riorganizzazione della macchina giudiziaria dal profondo che restituisca la centralità del processo nel sistema democratico. Facendo tesoro ancora una volta della storia che insegna che soltanto un giudizio che si celebra in tempi ragionevoli consente il reale accertamento della verità, come avvenne nella occasione emblematica del compianto Enzo Tortora che, dopo un ingiusto arresto e un ingiusto verdetto di colpevolezza in primo grado, seppe resistere al male che insorgeva per quanto aveva patito, per avere la forza di chiedere ai giudici dell’appello – cosa possibile per il non eccessivo tempo trascorso tra primo e secondo grado – di riesaminare i soggetti addotti come prove a suo carico così che i secondi giudici potessero convincersi che le carte processuali gridavano la sua innocenza.

Mi chiamo Sara e con la prescrizione infinita sono diventata un’imputata a vita. Redazione de Il Riformista il  26 Febbraio 2020. Nel febbraio del 2020 avevo diciotto anni. Adesso ne ho trentatré, lavoro e stamattina ho ricevuto il mio primo avviso di garanzia. Sono finita in un’inchiesta di droga. Potrei rischiare 20 anni di carcere per un’intercettazione di 15 anni fa in cui un mio ex compagno di classe diceva ad un altro che io avevo “tutto quello che gli serviva“. Io? Forse si riferiva alle versioni di greco. Dov’ero quel giorno? Chi ho visto? Per quanti anni durerà il processo? Su Internet gira già il mio nome. Mi licenzieranno? La banca mi toglierà il mutuo? E chi lo dice a mamma? Ho paura. So di essere innocente, ma non mi sento garantita.

Cinque modi per manipolare la prescrizione. Alessandro Sallusti, Mercoledì 05/02/2020 su Il Giornale. Su La Repubblica di ieri la collega Ilaria Venturi ha scritto un interessante articolo sulle false generalizzazioni che stanno minando il pensiero critico. È una tecnica di comunicazione distorta molto cara ai politici, ma non solo. Difendersi da queste fake news non è facile, alcuni ricercatori stanno studiando il fenomeno e hanno individuato i cinque trucchi più usati dai manipolatori del pensiero per convincere l'opinione pubblica della bontà della propria tesi. Ne stanno facendo uso a piene mani, per esempio, i giustizialisti sostenitori dell'abolizione della prescrizione nei loro scritti e quando appaiono nei dibattiti in tv. Ecco di seguito i cinque trucchi (in corsivo come li utilizzano gli ultrà giustizialisti alla Davigo).

1) Argomentum ad ignorantiam: si giustifica la tesi in quanto sono assenti prove a sostegno della tesi opposta. Un imputato assolto per prescrizione è per forza di cose un colpevole che l'ha fatta franca perché non c'è una sentenza che lo dichiara innocente.

2) Argomentum ad populum: si argomenta appellandosi ai sentimenti delle masse piuttosto che alla ragione o ai fatti. Con la prescrizione un mascalzone potrebbe farla franca, senza prescrizione lo stesso magistrato diventa automaticamente più veloce, affidabile e quindi infallibile.

3) Post hoc, ergo propter hoc: false correlazioni tra certi eventi o fenomeni solo perché accaduti prima. Tutti i processi prescritti avevano imputati con bravi avvocati quindi tutti i bravi avvocati puntano a fare prescrivere i processi.

4) Generalizzazione indebita: da uno o pochi elementi generalizzo a una regola universale. Tizio ha corrotto, il processo a Tizio è stato prescritto, tutti i corrotti vengono prescritti.

5) Argomentazione a catena: quando la conclusione del ragionamento poggia su una supposta reazione a catena tra fatti o fenomeni. Il crimine è in aumento, la prescrizione favorisce il criminale, togliendo la prescrizione diminuisce il crimine. Ovviamente, queste tesi non hanno alcun fondamento. Anzi, sono smentite dalla scienza giuridica. Ma se ben esposte possono fare breccia in lettori e ascoltatori distratti o ignoranti in materia perché apparentemente, ma solo apparentemente, logiche. Stiamo in campana. La falsa informazione non l'hanno inventata i social, è vecchia quanto il mondo. «La menzogna sulla bocca di un comunista - scrisse Lenin - è una verità rivoluzionaria».

Dagospia il 4 febbraio 2020. Da Circo Massimo - Radio Capital. “Se un paese che non ha la prescrizione è barbaro e incivile allora tutta l’Europa, con l’eccezione della Grecia, è barbara e incivile. Bisogna pensare a quello che si dice perché questa cosa non riesco proprio a capirla”. Piercamillo Davigo, magistrato di Cassazione e membro del Csm, commenta così a Circo Massimo su Radio Capital gli attacchi che arrivano dal fronte politico, Italia Viva in particolare, allo stop alla prescrizione. “Si protesta contro una legge già in vigore – aggiunge Davigo - anche se il nuovo regime si applica solo ai reati commessi dal primo gennaio e i primi effetti si vedranno dopo la metà del 2027. La corsa all’allarme mi sembra spropositata perché ci sono 7 anni per far fronte e difetti e difficoltà”.  Secondo il magistrato “una delle cause della durata dei processi è proprio la prescrizione perché incentiva comportamenti dilatori. Quando è entrato in vigore il nuovo codice circa 30 anni fa avevamo segnalato il problema della durata dei processi e che quel codice avrebbe aggravato i problemi. Si diceva che con il patteggiamento ci sarebbero stati pochi dibattimenti. E non è successo. Anche perché ci sono state tre tra amnistie e indulti nel frattempo. Ora si torna a parlare di amnistia mentre la prescrizione è diventata ciò che prima era l’amnistia. E’ una cosa priva di senso. Un conto è non fare i processi dall’inizio, un conto è farli e buttarli via. E’ una cosa dissennata”. A chi propone una moratoria sullo stop alla prescrizione in attesa che si facciano le norme per accelerare i processi Davigo risponde che “la moratoria c’è già, come ho detto prima, ed è di 7 anni e mezzo. Poi c’è il mantra della destinazione delle risorse e soldi non ci sono e non ci saranno per anni, visto il nostro debito pubblico. Si parla dell’aumento del numero dei magistrati ma intanto è difficile reclutarli. Non riusciamo a coprire i posti messi a concorso, nonostante ci siano molti candidati, perché i laureati non hanno spesso il livello adeguato. E poi ripeto che c’è il debito pubblico spaventoso. Il problema dei processi troppo lunghi non è solo un problema di risorse ma di procedure. Faccio un esempio. Nel rito ordinario per acquisire gli atti del Pubblico Ministero e farli vedere al giudice ci vuole, a parte gli atti irripetibili, il consenso delle parti e il consenso del difensore e dell’imputato non c’è mai. Facciamo il caso di un libretto di assegni rubati. Se gli assegni sono stati usati in città diverse devi essere chiamato a testimoniare in tutte quelle città perché non si può acquisire la denuncia senza il consenso del difensore, che non dà, e questo non c’entra niente con le garanzie. E’ solo una tattica dilatoria”. Commentando le prese di posizione degli avvocati che hanno chiesto di non far parlare Davigo all’inaugurazione dell’anno giudiziario il magistrato spiega che “invece di rispondere alle cose che dico mi attribuiscono cose mai dette. Io ero lì in rappresentanza del Csm e non dicevo quello che pensavo io ma esprimevo le linee guida del Csm. Ho letto le dichiarazioni del Presidente della Repubblica e mi hanno contestato mentre lo facevo”. Secondo Davigo dire che “gli avvocati mi contestano è un’affermazione ardita. Erano una quarantina e non sono certo rappresentativi dell’avvocatura di Milano dove sono in tutto 19 mila”.  “Non li ho mai definiti una corporazione – aggiunge - ho solo detto che gli avvocati c’entrano eccome con la durata dei processi. Poi loro sono liberissimi di raccontarla come gli pare ma dà fastidio che li smentisca”. “Io come Robespierre? Dove li vede tutti questi giustiziati – chiede Davigo – anzi ho scritto un libro dal titolo ‘violare la legge conviene’, abbiamo una popolazione carceraria in media con l’Ue e in maggioranza i detenuti sono stranieri. Salvo reati molto gravi sono persone che sono state arrestate in flagranza. Chi commette reati gravissimi che danneggiano la collettività, come quelli commessi dai colletti bianchi, in carcere non ci va mai”. Infine Davigo torna a parlare delle recenti polemiche per un vecchio video in cui teorizzava, che invece di divorziare conveniva uccidere la moglie, un paradosso espresso per dimostrare la scarsa severità nei confronti di compie un omicidio. “La tragedia – spiega Davigo - è che è davvero così. Le femministe non sanno di cosa parlano se dicono che è istigazione al femminicidio. Il mio ragionamento vale anche per la moglie che uccide il marito. Il problema è che c’è incertezza della pena, il sistema penale è stato scardinato. Dopo tutte le polemiche con quelli che dicevano che in realtà non era mai successo ho fatto una ricerca e ho trovato che una quindicina di anni fa un giudice dell’udienza preliminare di Trieste, anche in base all’attenuante della seminfermità di mente, ha condannato uno che ha ucciso la moglie a 3 anni, quindi zero giorni di carcere. Quelli che fanno queste gazzarre sono quelli che lavorano per le forche e appoggiano la giustizia faidate della nuova legittima difesa”.

Prescrizione, come funziona negli altri stati europei. Giovanni Altoprati si Il Riformista il 5 Febbraio 2020. Prosegue, senza soluzione di continuità, l’opera di disinformazione portata avanti dal Fatto Quotidiano sul tema della prescrizione. Ieri, per dare ossigeno alla comatosa riforma del ministro Alfonso Bonafede, il giornale diretto da Marco Travaglio si è lanciato in uno “studio comparativo” della prescrizione in alcuni Paesi europei. Operazione quanto mai spregiudicata visto che il confronto sull’applicazione della prescrizione è stato fatto senza tenere minimamente conto dei diversi sistemi processuali dei Paesi in questione. Travaglio, infatti, si è guardato bene dal ricordare che in Italia vige l’obbligatorietà dell’azione penale ed il Pm è un magistrato autonomo ed indipendente da qualsiasi altro potere. Nel Regno Unito, uno dei Paesi portati come esempio da Travaglio per ribadire la bontà della riforma Bonafede, l’azione penale è discrezionale ed il Pm è un avvocato nominato dal governo. Non è una differenza di poco conto. Anzi. Poi ci sono molte altre omissioni nell’inchiesta del Fatto. Per ingiusta imputazione, per esempio, che è cosa diversa dall’ingiusta detenzione, è previsto un risarcimento per le spese legali sostenute.  Tralasciando queste amnesie, vediamo cosa realmente accade nei Paesi, secondo il giornale di Travaglio, da prendere a modello per porre fine allo scandalo tutto italiano della prescrizione che impedirebbe a chi ha commesso un reato di marcire in galera. Iniziamo dalla Francia. L’istituto della prescrizione esiste anche lì, dove i termini di prescrizione del reato variano in base alla qualificazione giuridica dell’illecito. Con la legge del 27 febbraio 2017 sono stati modificati i termini di prescrizione, calibrati ora secondo la gravità del reato. Un anno per le contraventions, reati per i quali la pena prevista è una multa. Sei anni per i délits, reati per i quali la pena prevista è inferiore a dieci anni di reclusione. Venti anni per le crimes, reati per i quali la pena prevista è superiore a dieci anni di reclusione. Tali termini sono contenuti nel codice di procedura penale. La legge stabilisce gli atti interruttivi della prescrizione. Il temine di prescrizione, come in Italia, decorre dalla data di commissione del fatto. Maturato il termine massimo previsto dalla legge in assenza di atti interruttivi, si estingue l’azione pubblica. Sono imprescrittibili i reati contro l’umanità e i genocidi. La particolarità: i reati commessi a mezzo stampa si prescrivono addirittura in soli tre mesi. In Spagna la disciplina della prescrizione è simile a quella del codice italiano prima della riforma ex Cirielli del 2005 ed è contenuta nel codice penale. Venti anni, quando la pena massima prevista dalla legge è di quindici o più anni. Quindici anni quando la pena massima prevista dalla legge è la reclusione da dieci a quindici anni. Dieci anni quando la pena prevista dalla legge è la reclusione da cinque a dieci anni. Cinque anni negli altri casi. I delitti di ingiuria e calunnia si prescrivono in un anno. Le contravvenzioni si prescrivono in soli sei mesi. Sono imprescrittibili i delitti contro l’umanità, il genocidio, quelli di matrice terroristica. I termini di prescrizione si computano, come Italia ed in Francia, a partire dal giorno in cui è stato commesso il reato. Anche in Spagna sono previsti atti interruttivi della prescrizione. Nel Regno unito non esiste la prescrizione. E su questo ha ragione Travaglio, ma sono previsti dei precisi limiti temporali entro i quali possono essere perseguiti i reati. Tali limiti rispondono all’esigenza processuale di assicurare, entro un tempo ragionevole, l’acquisizione delle prove e di garantire all’accusato un giusto processo che si svolga in un lasso di tempo circoscritto rispetto ai fatti che l’hanno determinato. I limiti temporali così intesi si articolano diversamente a seconda della categoria di reato dei correlati criteri di competenza processuale. Nel caso dei reati minori, puniti con la pena fino a sei mesi di reclusione, l’azione penale deve essere avviata entro sei mesi dalla consumazione del reato. L’analisi comparativa in questione è stata fatta nel dicembre del 2018 dal Consiglio superiore della magistratura alla vigilia dell’entrata in vigore della Spazzacorrotti, al cui interno era previsto il blocco della prescrizione. Il Csm effettuò un lungo ed articolato studio che mi sono limitato in questa sede a copiare.

La giustizia come un randello. Carlo Fusi l'8 febbraio su Il Dubbio. Sulla prescrizione si è scelta la strada della contrapposizione politica sacrificando l’interesse generale: il risultato è un braccio di ferro nutrito di umori di sapore ideologico. Il “servizio giustizia” è la metafora dell’Italia. Lo specchio dove si riflettono tutte le contraddizioni di un Paese che fatica ad individuare e a perseguire l’interesse generale – che in questo caso è quello di garantire il rispetto della legalità salvaguardando i diritti di ciascuno – preferendo inalberare vessilli ideologici oppure impugnando singoli aspetti del Codice e usandoli come randello verso gli avversari. È accaduto in passato e il copione si ripete oggi. L’obiettivo strategico di assicurare tempi certi e ragionevoli dei processi – e vedremo lunedì (o fra dieci giorni?) la riforma che il Guardasigilli porterà in Consiglio dei ministri – è stato per mesi sacrificato sull’altare della cancellazione della prescrizione che è diventato il Moloch attorno al quale hanno danzato in molti, quasi mai animati dalla voglia di trovare soluzioni costituzionalmente praticabili e politicamente condivise. Per riuscirci, sarebbe stato utile riunire attorno ad un tavolo i protagonisti della giurisdizione e individuare misure e compromessi adeguati, come aveva per tempo suggerito, pure dalle colonne di questo giornale, il presidente del Cnf, Andrea Mascherin. È stata scelta al contrario la strada della contrapposizione politica soffiando sulle braci delle differenze per far divampare quell’incendio polemico che alimenta i sentimenti degli ultrà variamente dislocati. Ne è scaturito un braccio di ferro nutrito di umori di sapore ideologico che hanno prodotto un dialogo tra sordi. La strumentalità ha soppiantato la ragionevolezza, riproponendo un canovaccio che è identitario del confronto politico nel nostro Paese. Vale per la giustizia come per l’immigrazione, la sicurezza, il welfare e così via. Adesso sulla prescrizione c’è chi vaticina la possibile crisi di governo. Difficile. Certo è che a questo punto qualunque soluzione – ultima quella individuata nel vertice di giovedì notte – non è politicamente indolore o a costo zero. Al contrario produce uno strappo nella maggioranza che non solo è destinato ad allargarsi nei prossimi mesi ma che soprattutto minaccia di vanificare “ripartenze”, “Fase 2”, “rilancio” e così via dell’azione di governo. Il risultato è che il pianeta giustizia diventa sempre più eccentrico rispetto ai bisogni dei cittadini. Vittime di una giustizia tanto strumentalizzata quanto inefficace.

Nicola Gratteri: "L'accordo sulla prescrizione è una mediazione al ribasso". HuffPost il 09/02/2020. Il procuratore di Catanzaro a Mezz'ora in Più. “La Storia ci insegna che le cose dirompenti si fanno nei primi sei mesi di legislatura, poi con il tempo si perde potere e si fanno mediazioni al ribasso”. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a Mezz’ora in più su Rai Tre. Per questo motivo l’accordo raggiunto dal Movimento 5 Stelle e Partito Democratico sulla riforma Bonafede della prescrizione è una “mediazione al ribasso”, ha detto Gratteri. Il magistrato osserva intanto che nella mediazione di governo c’è “una disparità di trattamento” tra chi è assolto e chi è condannato in primo grado. Inoltre, osserva Gratteri, “la prescrizione serviva per costringere il legislatore, i politici a interessarsi a fare le modifiche per velocizzare il processo senza diminuire i diritti, questa è la madre di tutte le riforme”. Quanto alla sua scelta come ministro della Giustizia da parte di Matteo Renzi nel 2014 e al tanto discusso rifiuto opposto dall’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, “pare che Napolitano abbia detto che sono un pm troppo caratterizzato, è ancora vivo, qualche giornalista può andare a chiedergli cosa voleva dire”.  Se avesse fatto il ministro? “Di certo poi non sarei tornato a fare il magistrato. Magari avrei fatto l’agricoltore”. “In questo Consiglio superiore della magistratura vedo una forte etica, vedo gente che si indigna. E’ un Csm che mi piace, è molto serio, molto duro”, ha aggiunto Gratteri.

Innocenti in prigione? La soluzione fisiologica di Gratteri. Daniele Zaccaria il 5 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Ospite de LA7 il procuratore capo di Catanzaro ritiene del tutto normali le mille ingiuste detenzioni che avvengono ogni anno in Italia. E chi lo critica è «una mela marcia». Ospite (come spesso accade) del programma Di Martedì condotto da Giovanni Floris, il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri ha fatto sapere agli italiani che gli oltre mille innocenti che ogni anno finiscono in prigione sono una cifra «fisiologica».  E le vite distrutte, e i risarcimenti milionari che lo Stato deve pagare alle vittime della malagiustizia? Sono il prezzo da pagare se si vogliono avere dei giudici in grado di contrastare la dilagante  «impunità di chi comanda». Il pensiero di Gratteri, che gode di un grande sostegno dell’opinione pubblica, è a suo modo cristallino: meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà. E quando il conduttore gli ha chiesto se non ci fosse il rischio di scivolare nel giustizialismo il procuratore ha risposto che per lui in Italia «non c’è alcun giustizialismo, ma solo l’applicazione rigorosa delle sentenze». E le critiche all’inchiesta “Rinascita Scott” (oltre 300 arresti in tutta Italia) che provengono anche da parte di diversi esponenti della magistratura? «Dimostrano che ho ragione e che stiamo lavorando bene».  A quel punto la giornalista Ilaria D’Amico in collegamento da Milano ha ironizzato: «Una specie di molti nemici molto onore signor procuratore». Con il senso dell’ironia che lo contraddistingue Gratteri ha chiosato: «Sono le mele marce che tentano di ostacolare il mio lavoro».  Insomma i colleghi che in futuro avessero la tentazione di criticare il procuratore capo di Catanzaro sono avvertiti.

“Enzo Tortora sarebbe morto da colpevole con questa riforma della prescrizione”. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Parla Francesca Scopelliti, la compagna del presentatore tv che ha passato mesi in carcere da innocente: “Fermate questa legge”. “Enzo Tortora  fu condannato a dieci anni di galera a settembre dell’85, e poi è morto a maggio dell’88: se ci fosse stata l’applicazione della legge per cui, dopo la condanna in primo grado, si cancella la prescrizione, Enzo sarebbe morto da colpevole”. Sono le drammatiche parole di Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora,  che ha parlato a un convegno organizzato dal gruppo Italia Viva in Consiglio regionale della Toscana sulla riforma della prescrizione, che “non deve passare”. “Un innocente, una persona perbene – ha continuato Francesca Scopelliti – una persona di grande dignità e moralità, sarebbe morto con la macchia della colpevolezza”. Scopelliti ha annunciato di voler intraprendere una campagna per intitolare a Tortora la giornata del 17 giugno, giorno del suo arresto nel 1983.“Una giornata di ricordo di Enzo Tortora non solo come vittima della giustizia – ha detto – ma anche come uomo che a dispetto di chi lo voleva colpevole a tutti i costi si è fatto portatore sano di una grande battaglia per la giustizia giusta. Spero che Iv con Matteo Renzi si faccia carico di questa campagna”.

Vittorio Sgarbi contro Piercamillo Davigo a Quarta Repubblica: "Non è certamente innocente, fa politica". Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. La Giustizia tiene ancora banco. Nelle ore più concitate per il governo, quelle che vedono il Conte bis diviso in due: da una parte Pd e M5s a sostegno dello stop alla prescrizione, dall'altra Italia Viva e l'opposizione contrari, il tema riecheggia nei talk politici. A Quarta Repubblica è Vittorio Sgarbi a pronunciarsi: "Certamente innocente non è Davigo, perchè uno che dice che vuole rivoltare l'Italia come un calzino, fa attività politica. I magistrati fanno politica. Io sto con Tortora. Dal '92 lo Stato ha dato 700 milioni a 27.000 innocenti". Il riferimento del critico d'arte nello studio di Nicola Porro è il botta e risposta sulla riforma Bonafede avvenuto tra Gaia Tortora e Marco Travaglio. La prima, dal passato tristemente noto, non ha potuto fare a meno nei giorni scorsi di rimproverare il direttore del Fatto, reo di desiderare il carcere anche per i presunti innocenti. Una tesi sposata in pieno da Piercamillo Davigo, magistrato manettaro per eccellenza.

Antonio Di Pietro contro Piercamillo Davigo: "Non basta essere innocente per essere assolto". Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. Se anche Antonio Di Pietro si schiera contro Piercamillo Davigo e la riforma ultra-manettara della prescrizione voluta da M5s, Alfonso Bonafede e Fatto Quotidiano. L'ex pm di Mani Pulite dice la sua ospite ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento politico de La7. Parlando della prescrizione, Di Pietro sottolinea che "deve cominciare da quando scopri il reato e non quando è commesso". Questa, in sintesi, la sua proposta. Poi l'affondo diretto contro Davigo: "Non ho la certezza di Davigo che l'innocente non deve temere la giustizia. Non basta essere innocente per sapere di essere assolto", sottolinea. Chissà se Davigo, almeno quando parla Di Pietro - uno che con le manette non ha mai fatto sconti - ascolterà...

Prescrizione, le contraddizioni cerchiobottiste senza che nessuno si preoccupi dei veri effetti. Francesco Damato il 9 febbraio 2020 su Il Dubbio. Ha ragione il Pd Zanda: alla ricerca continua del consenso il Parlamento non è più capace di legiferare. La meticolosa descrizione che ha fatto ai lettori del Dubbio Enrico Novi della situazione interna al sindacato delle toghe dimostra come meglio non si poteva come l’Associazione Nazionale dei Magistrati – questo è il suo aulico nome – faccia ormai concorrenza, per come si sono messe le cose in vista delle elezioni sociali di aprile, all’ormai caotico, turbolento e imprevedibile Movimento 5 Stelle. Le cui tensioni condizionano il governo e la maggioranza obbligando l’uno e l’altra a viaggiare a vista, tra vertici interlocutori e rischi continui di deragliamento di un treno pur a bassa velocità, non certamente paragonabile alla Frecciarossa di sfortunata attualità in questi giorni. Per numeri e intrecci dell’una e dell’altro – Associazione dei magistrati e Movimento grillino tornano alla mente, almeno per i più anziani o meno giovani lettori, le vicende interne della Dc, e anche del Psi, dei tempi peggiori, quando ci volevano le carte di navigazione e le macchine utili a decrittare i messaggi per capire, o cercare di capire, come andassero le cose al loro interno, spesso preparando nuove crisi di governo già all’indomani della soluzione dell’ultima. Ora è chiaro, condizionato com’è dai rapporti fra le correnti o aree del sindacato, ma soprattutto dal peso cresciuto dell’urticante Piercamillo Davigo anche all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, perché il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Luca Poniz quando parla della prescrizione, come ha appena fatto in una intervista al Corriere della Sera, cade in continua contraddizione. «Tutti sappiamo – ha detto, per esempio, Poniz convenendo con la posizione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede prima che questi aprisse a una soluzione più lunga, di due condanne esecutive necessarie per non conteggiare più i tempi di scadenza dei reati- che non c’è l’apocalisse alle porte perché la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado vale solo per i reati commessi dal 1° gennaio 2020, per cui la nuova disciplina non avrà effetti concreti prima di qualche anno. C’è urgenza di intervenire ma anche tempo a disposizione». Sarebbero quindi “strepiti” inutili e isolati, come li ha definiti Il Fatto Quotidiano, gli allarmi lanciati da Matteo Renzi e la richiesta di sospendere la nuova disciplina della materia, entrata nel codice con la cosiddetta legge spazzacorrotti approvata dalla precedente maggioranza gialloverde, per contestualizzarla davvero con la riforma del processo penale. Questo della contestualizzazione era, del resto, il progetto concordato fra grillini e leghisti, compromesso dagli stessi leghisti provocando la crisi di governo nella scorsa estate. Eppure nella medesima intervista Poniz si è trovato d’accordo con «la gran parte dei procuratori generali e dei presidenti di Corte intervenuti alle inaugurazioni dell’anno giudiziario, nella parte in cui non contestano la finalità ma temono l’impatto» del blocco della prescrizione con la gestione della macchina della Giustizia, cioè dei processi. Se questa non è contraddizione, non saprei francamente come altro chiamarla. L’impatto non è cosa irrilevante, da mettere tra parentesi. Quanto meno curiosa, infine, è la sostanziale diffida ripetuta al ministro della Giustizia e al Parlamento a introdurre «sanzioni disciplinari per i magistrati se non vengono rispettati i tempi contingentati dei processi» : ipotesi – ha detto testualmente Poniz – che «oltre che illusoria, è per noi irricevibile e offensiva». E come si potrebbero garantire diversamente i tempi “ragionevoli” del processo scritti nell’articolo 111 della Costituzione, una volta che non c’è più la prescrizione per tutelare non solo gli imputati, che non cessano di essere cittadini, ma una sana, direi decente amministrazione della Giustizia? Non credo che abbia torto, a questo punto, l’ex capogruppo al Senato e ora tesoriere del Pd Luigi Zanda, non lo scissionista Renzi, a dire – come ha fatto alla Stampa parlando anche della riduzione dei seggi parlamentari in via di ratifica referendaria- che «alla ricerca del consenso il Parlamento sta disimparando a legiferare: si fanno le leggi e delle conseguenze ci si lava le mani. Per inseguire i voti ha aggiunto Zanda – siamo caduti prigionieri dell’analfabetismo giuridico- parlamentare”. 

Prescrizione e impunità non sono la stessa cosa, anche i fascisti lo capirono ma Bonafede no…Catello Vitiello de Il Riformista il 9 Febbraio 2020. Il tema sembra impopolare, ma difendere la prescrizione non significa difendere l’impunità: in un sistema liberale che voglia tutelare il patto sociale tra l’individuo, la comunità e lo Stato, le tutele all’interno del processo penale non sono mai troppe, come confermato dallo straordinario lavoro dei Padri costituenti. Per sostenere la cancellazione della prescrizione alcuni commentatori – anche illustri – indebitamente si riferiscono a un argomento squisitamente territoriale, dimenticando che l’Italia è l’unico Paese al mondo che fonda – ancora oggi – il proprio sistema penale su un codice pre-repubblicano, voluto nel 1930 dal regime fascista, un codice penale Stato-centrico, che parte infatti dalla difesa della personalità dello Stato e che tutela il bene “vita” dopo oltre 300 articoli. Nonostante le numerose modifiche additive e modificative che hanno garantito la sopravvivenza di questo codice, restano le sue specificità stridenti rispetto all’attuale ordinamento costituzionale e agli odierni orientamenti di politica criminale. Pur tuttavia, la prescrizione fu inserita già nel codice fascista perché sin da allora si comprese la necessità di bilanciare la pretesa punitiva dello Stato e l’effettività dell’allarme sociale causato dal fatto di reato. La prescrizione è dunque una garanzia indefettibile per una società democratica e per uno Stato di diritto, scolpita fra i capisaldi della nostra Costituzione. Andando con ordine e partendo dalla fine: la prescrizione è servente alla funzione pubblica ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione. Cancellarla in ragione di una – solo presunta – maggiore efficienza dei processi penali comporterà un innegabile “prolasso” processuale in netta antitesi rispetto alle coordinate volute dal legislatore costituzionale del 1999, allorquando ha elevato a principi inderogabili di rango costituzionale sia il giusto processo, fondato sull’effettiva capacità dimostrativa della pretesa accusatoria del pm, sia la ragionevole durata, senza la quale si allenterà la tensione sociale sul disvalore penale della condotta. La prescrizione è, poi, servente all’individuo, stanti il secondo e il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Mentre dalla considerazione di non colpevolezza discendono numerosissimi corollari relativi al rapporto verità storica/verità processuale, al rapporto pm/giudice e al “sacrificio del giudicare” (come lo definì Leonardo Sciascia), così implicando l’illegittimità di congelare sine die la prescrizione e, di conseguenza, di mantenere un presunto innocente “eternamente giudicabile”; dal principio di rieducazione della pena discende la necessità costituzionale che la sanzione penale punti al recupero e alla risocializzazione del condannato: è tipico di uno Stato illiberale punire una persona dopo tanti anni dalla commissione del fatto di reato. È giusto che la potestà punitiva dello Stato abbia un tempo, un limite, eccettuati i casi di crimini gravissimi per i quali si prevede un tempo più ampio o, addirittura, la imprescrittibilità, in modo che siano perseguibili in ogni tempo. Uno Stato liberale punisce i colpevoli per risocializzarli e non per vendetta. Il diritto di difesa previsto dall’articolo 24 della Costituzione rappresenta, inoltre, l’architrave del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza perché, vista la sua inviolabilità, prelude il rispetto di tutte le garanzie e destina il doveroso equilibrio in quel patto sociale fra individuo e collettività messo in crisi dal processo penale. E, per questo, una difesa che possa dirsi efficace ed effettiva se, da un lato, non può essere compressa dal tempo, dall’altro deve esplicarsi in modo da verificare il rispetto dell’onere della prova e fronteggiare le distorsioni di un sistema che, gestito dagli uomini e non da superuomini o esseri superiori, è fallibile. E allora, non esistono “cavilli” tirati fuori da un cilindro come fossero conigli, bensì eccezioni che, se fondate, possono comportare sì una dilatazione dei tempi del processo, ma a causa di errori commessi da chi ha l’esclusiva dell’azione penale o della verifica della stessa. Se a tanto si aggiunge, poi, che ogni rinvio delle udienze, richiesto per impedimenti riconducibili agli imputati o ai difensori, comporta per legge la sospensione del termine prescrizionale, si comprenderà agevolmente come gli avvocati non abbiano alcuna possibilità di procrastinare i processi per arrivare alla prescrizione e come i magistrati debbano essere diligenti e non commettere errori, rispettando le regole processuali poste a base dello Stato di diritto. Del resto, il 60% delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari, laddove il difensore non ha poteri di sorta e i tempi dipendono solo ed esclusivamente dai magistrati del pubblico ministero. In questa disamina di principi costituzionali, l’inviolabilità della libertà personale di cui all’articolo 13 della Costituzione assegna un peso specifico all’individuo, la cui libertà non può essere violata se non in forza di una doppia riserva, di legge e di giurisdizione. La prescrizione avvalora questa inviolabilità rappresentando, in concreto, la cifra della deroga prevista: in tanto potrà violarsi la libertà di un uomo, in quanto la giustizia faccia il suo corso in tempi certi! Infine, l’articolo 3 sempre della Carta consente di comprendere in che modo può definirsi incostituzionale sia l’assimilazione fra condannati e assolti sia l’esclusione dei soli assolti proposta dal presidente del Consiglio. Mentre la sospensione sine die (recte, cancellazione) della prescrizione dopo la sentenza di primo grado – di assoluzione o di condanna che sia – vìola il principio di uguaglianza formale di cui al primo comma dell’art. 3, perché assolti e condannati non rappresentano un medesimo punto di partenza. Al contempo, l’abolizione della prescrizione per il solo condannato vìola l’uguaglianza sostanziale indicata dal suo secondo comma, dal momento che in situazioni diverse lo Stato deve predisporre le medesime garanzie per ottenere eguali risultati (in pratica, dinanzi a diversi punti di partenza, occorrono mezzi e strumenti per raggiungere gli stessi obiettivi). In definitiva, pur salvando l’assolto resta l’incostituzionalità per il condannato ed è, quindi, certamente illegittima una prescrizione a due velocità, per la mancanza di equità nella differenziata sorte processuale (con termini certi per il primo e senza alcun termine per il secondo), in assenza di un fondamento giustificativo della disparità di trattamento. In realtà, o non si conosce il problema o non si vogliono vedere le soluzioni, visto che in un sistema accusatorio: si dovrebbe, innanzitutto, fare i conti con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, posto che un potere di selezione dei fascicoli cui dare priorità già esiste e determina un peso specifico nella statistica delle prescrizioni; in secondo luogo, sarebbe opportuno modificare il regime delle notificazioni e responsabilizzare, così, di più il ruolo dell’avvocato difensore; ancora, sarebbe necessario rivisitare la pianta organica dei tribunali, affinché il rinvio di un processo non superi un tempo compatibile con i principi di oralità e immediatezza della prova; infine, bisognerebbe iniziare a discutere seriamente di separazione delle carriere e di responsabilità dei magistrati prima ancora di immaginare una responsabilità in solido dei difensori in caso di ricorsi inammissibili. Occorre, infatti, ridisegnare i confini del potere giudiziario come non è stato fatto nel 1988, prima dell’entrata in vigore del nuovo codice, ristabilendo un equilibrio fra indagini e processo, fra magistratura requirente e giudicante, e ricostituendo un sistema processuale democratico che sia presidio dello Stato di diritto senza dimenticare una verità ineludibile: la giustizia è gestita dagli uomini e la sua fallacia sta nella sua necessaria umanità. Proprio per questo il giudizio degli uomini deve essere legato a regole ferree e stringenti, perché non diventi giudizio morale, giudizio etico, giudizio politico o, più semplicemente, pregiudizio!

Dj Fofò, all’anagrafe Bonafede Alfonso, non grida più “Su le mani” ma si è appassionato di manette. Aldo Torchiaro de Il Rifomista il 6 Febbraio 2020. «Su le mani!», urlava. E tutti, davanti a lui, a ballare. Erano anni spensierati, quelli in cui Dj Fofò ammaliava i suoi fans, accalcati sulla pista della discoteca Extasy, nella sua Mazara del Vallo. Pochi anni dopo sarà lui stesso a scendere in pista, vincendo quel Gratta e Vinci della vita che per molti è stato il M5S e diventando addirittura Ministro della Giustizia nel primo e nel secondo governo Conte. Dj Fofò, all’anagrafe Bonafede Alfonso, non grida più «Su le mani». O almeno non in discoteca. Adesso si è appassionato di manette. E ha sposato il mantra di Travaglio e Davigo, provocando la più lunga e clamorosa ondata di proteste forensi che la storia giuridica italiana ricordi. Se Italia Viva e il Pd hanno iniziato a concertare una linea, chiedendo al Presidente del Consiglio di mediare, è segno che i nodi stanno arrivando al pettine. E sono nodi togati. Il ministero di via Arenula non è riuscito a fornire i dati richiesti a gran voce, per vie ufficiali, dall’avvocatura italiana: nessuno sa dire su quali e quanti reati, su quali e quanti procedimenti la riforma Bonafede potrà avere effetto. L’esperienza di animatore notturno deve avergli conferito sicurezza nell’agire al buio: ieri ha rivelato di avere pronto anche l’intero pacchetto di riforma complessiva del processo penale. «La prescrizione andrà avanti ed entro dieci giorni sul tavolo del Consiglio dei ministri arriverà il testo di riforma del processo penale», ha detto Bonafede tutto d’un fiato. Quanto a Italia Viva, che non esclude di votare insieme al centrodestra la proposta che abroga la riforma Bonafede, il ministro replica: «C’è chi si comporta come se fosse all’opposizione. A volte ho il dubbio che i testi glieli scriva Salvini o Berlusconi. Lavorare vuol dire sedersi a un tavolo e scrivere le norme, non vuol dire urlare dalla mattina alla sera, abusando della pazienza dei cittadini, sfiorando spesso il tono della minaccia. Lo voglio chiarire: qualcuno si dovrebbe rendere conto del fatto che siamo in maggioranza. Invece, vedo toni che mi sembrano di chi è all’opposizione». Il Pd non abbandona la speranza di un rinvio. «Se si fa siamo i più contenti del mondo, perché un rinvio ci darebbe modo di affrontare con più calma la riforma del processo penale», sottolinea il vicesegretario Andrea Orlando. Sul fronte opposto, infine, la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini parte dal tema della giustizia per lanciare l’ennesimo attacco all’esecutivo: «sulla prescrizione qualsiasi compromesso, si tratti di un rinvio o dello spostamento della riforma al grado di appello, porterà qualcuno a perdere comunque la faccia», osserva. Ma la fretta di Bonafede non convince. Il Guardasigilli che tira dritto senza ascoltare i giuristi mette a nudo la velleità di un metodo più orientato all’effetto che alla effettività. Ieri la Giunta delle Camere penali ha parlato di «Un tempo livido di populismo penale borioso e violento», confermando l’impegno a lottare «contro la sciagurata riformetta Bonafede». Toni inusitati ed eloquenti. Chi ha frequentato i corridoi di via Arenula ricorda quando l’allora ministro Andrea Orlando (al dicastero con Renzi prima e con Gentiloni poi) andava a portare il suo saluto al Consiglio nazionale forense, riunito nella sua aula al piano terra: era interrotto da lunghi applausi. Ma quello che Luigi Bisignani additava come “il capo di una potente lobby interna” non sarebbe poi così gradito ai suoi. È stato indicato come Capo delegazione dei Cinque Stelle, è vero. Ma i maligni sussurrano sia stato voluto più dagli uffici di Palazzo Chigi che dai suoi. La liaison è nota, Bonafede era stato “assistente gratuito” del Professor Giuseppe Conte all’Università di Firenze. E d’altronde ieri, a margine dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario presso il Consiglio di Stato, il capo delegazione del Pd, Dario Franceschini, ha preso da parte Vito Crimi, reggente del Movimento, ed è con lui che si è fermato a colloquio per alcuni minuti. «Una fitta conversazione», riferisce Alexander Jakhnagiev, Agenzia Vista. La sensazione che ha chiunque osservi da vicino le vicende dei Cinque Stelle, è che in quel partito sia avviato il redde rationem. Un sondaggio di Nicola Piepoli oggi stima il M5S al 14%: spogliati dunque del sessanta per cento del consenso elettorale. Di più: se Gianluigi Paragone e Alessandro Di Battista presentassero un loro Movimento, una Sesta stella sovranista, strapperebbero subito il 5% dei voti. Di Battista però al momento è in Iran, da dove ieri ha rassicurato i suoi, che lo invocavano preoccupati: «Ho quasi finito, torno». Manca poco più di un mese agli Stati generali e sembra che Bonafede voglia arrivarci come candidato alla successione di Di Maio. Prescrizione abolita, nuovo processo penale: va bene tutto purché sia fatto in fretta e ben comunicabile sui social. «Prova a fare Mandrake», celia il deputato azzurro Francesco Paolo Sisto. «La maggioranza sta giocando a rimpiattino: si discute solo per garantire la sopravvivenza del governo. In tutto questo, Bonafede prova a fare “Mandrake” annunciando a giorni la riforma del processo penale: illusione preoccupante e non poco, visto il ridicolo in cui ormai versa il Ministero della Giustizia». Sarebbe stato proprio Bonafede a convincere il Movimento ad annunciare di scendere in piazza sabato 15 febbraio, per un “ritorno alle origini”. Chissà se prenderà il microfono per incitare tutti a ballare.

Alfonso Bonafede, Filippo Facci: "Una persona pericolosa, lui e la sua riforma vanno fermati". Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. La nottata non passa e si affacciano gli incubi. Ci rigiriamo nel letto e, morale, in data 8 febbraio c' è ancora una blocca-prescrizione che rischia di bloccare il Paese (molti l' hanno capito: solo capito) ma ora tutto è drammaticamente peggiorato: perché il nome e cognome del disastro, l' ometto Alfonso Bonafede, non solo è ancora lì, imbelle, ma intanto è diventato capo-delegazione dei Cinque Stelle e lunedì avanzerà delle proposte per modificare la sua stessa legge, che è come se per spegnere l' incendio fosse incaricato il piromane. A parte la poca dignità (nessuno la pretende, da Bonafede: è assodato che la sua legge sarà comunque stravolta, ma lui ingoia tutto) si procede come se una riforma tecnica e strutturale potesse scaturire da una qualsiasi mediazione politica, cioè da un tavolo in cui ogni dilettante spara la sua - il primo è sempre Giuseppe Conte, naturalmente - e quindi come se il Partito democratico, Liberi e Uguali e i Cinque Stelle avessero seriamente potuto trovare un «accordo» su un tema del genere. Come se in base a un «accordo» si decidesse, per dire, come si deve pilotare un aereo, coi piloti ad attendere le istruzioni di una persona intelligente e competente come Alfonso Bonafede, e, nondimeno, attendere la benedizione di quello steward di bordo che fa di nome Giuseppe Conte, uno che è riuscito a dire di non essere «giustizialista, ma neanche garantista» come se quest' ultima fosse una posizione ideologica, e non un banalissimo e costituzionale rispetto delle garanzie. Insomma, tanto tuonò che non piovve, con Matteo Renzi che paventa tuoni e fulmini anche se almeno non voterà «l' accordo» nel senso del pastrocchio. Che, ufficialmente, è questo: lunedì consiglio dei ministri con «riforma del processo penale» per garantire certezza e brevità del processo ed «eliminazione di ogni isola di impunità» (c' erano in giro delle isole di impunità) e contemporaneamente approvazione di un decreto legge per aggiustare la blocca-prescrizione, ossia il «lodo Conte bis» consistente - lasciamo la parola a Bonafede, ne vale la pena - nel «sospendere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, in caso di condanna, e all' esito del giudizio di appello, in caso di assoluzione: la persona che era stata condannata in primo grado recupera i tempi di prescrizione, dopodiché anche la nuova legge garantirà comunque che ci sarà il tempo necessario per fare il grado di giudizio successivo».

PASSO AVANTI? Suono di sirene? No, voce di Nicola Zingaretti che parla di «enorme passo avanti», e gran trambusto di Matteo Renzi che ieri ha parlato di «populismo nella giustizia» prima di chiarire che «noi non ce ne andiamo: ma se ci vogliono cacciare, ce lo dicano». Il che significa solo che non se ne vanno, e che Italia Viva resta lì. Significa solo, non fosse chiaro, che noi tutti ci terremo la blocca-prescrizione per almeno un anno e mezzo di tormentato percorso parlamentare, con annesso ergastolo processuale per il famoso «cittadino» evocato da Alfonso Bonafede: il quale, nella sua apparente insignificanza, resta tuttavia il vero, emblematico, tragico e soprattutto pericoloso simbolo di una fase politica in cui nulla si fa, ma tutto si distrugge.

I DEM SUBISCONO. Guardiamo in faccia la realtà: perché ha la faccia di Alfonso Bonafede. Il Partito democratico aveva detto che la blocca-prescrizione era incostituzionale e illiberale, voleva sopprimerla: ora la subisce, così come sarebbe disposto a subire ogni cosa - è la sola spiegazione - pur di non rompere il governo. La legge alternativa proposta da Gentiloni e Orlando non è passata, punto. Il Pd non è riuscito a capitalizzare neanche il voto in Emilia Romagna, dove ha vinto, e i Cinque Stelle si sono vaporizzati. Tra questo Paese e la scomparsa dei Cinque Stelle, il peggior cancro politico che abbiamo mai avuto, c' è quindi solo una crisi di governo e le prossime Politiche: ma il Partito democratico vuole farci agognare questo momento il più possibile. Può anche essere che la vera caratura di questo governo Conte sia il tirare a campare, l' inconcludenza, il non fare e il sempre rinviare come dice Salvini: sarebbe il minore dei mali - pur restando un male - perché ancor più pericolosi potrebbero essere i colpi di coda dei morituri, il commiato di chi sa che tornerà alla sua dimensione naturale assai presto - piccoli mestieri e deliri social - ma intanto è al governo per la prima e ultima volta, e a modo suo vorrà rendersi memorabile. Filippo Facci

Dall'anticasta alla "casta" sfrenata: l'evoluzione del ministro Bonafede. Giuseppe De Lorenzo il 7 Febbraio 2020 su Il Giornale. Non tutti i ministri della Giustizia hanno goduto di questo privilegio (Orlando, per dire, è rimasto nella dimora privata) e Mastella rinunciò pure al costoso progetto per la tutela personale. E poi, non doveva essere la gente la scorta dei pentastellati? Palazzina di S. Paolo alla Regola, a due passi dal Ministero di Giustizia. Si trova qui “l’ alloggio riservato” ad Alfonso Bonafede, Guardasigilli e capo delegazione di quel Movimento che aveva fatto della lotta alla casta il proprio grido di battaglia. Un locale in pieno centro a Roma, in una bella struttura storica e arredato appositamente per il ministro grillino. La sistemazione emerge da sei atti firmati dal capo di Gabinetto Fulvio Baldi. A giugno 2018, il capo della Segreteria di Bonafede invia una richiesta per “l’ allestimento dell’ alloggio riservato al ministro con arredi idonei a consentire il pernottamento e l’ utilizzo nell’ arco completo della giornata”. L’ importo per il solo mobilio è di 4.390,40 euro più iva per un letto matrimoniale, un comò, un paio di comodini, due lampade, un divano e un tavolo con quattro sedie. Poco tempo dopo la “cameretta” ministeriale viene completata con l’ aggiunta di piccoli elettrodomestici: un fornello a induzione (85 euro), un forno a microonde (120 euro) e un bollitore (78,50 euro). Diverso, invece, il discorso per 4 televisori: il costo complessivo a bilancio risulta di 2.315 euro oltre iva, ma comprende anche due apparecchi per le segreterie dei sottosegretari. Storia simile per due frigobar da ufficio, pagati 923,29 euro ed assegnati uno al capo dell’ Ufficio legislativo e l’ altro all’ alloggio del ministro. A completare l’ arredamento, infine, le tende oscuranti da 2.370 euro e la biancheria da bagno, da letto e da tavola per 811,40 euro. Totale degli acquisti: 11.093,59 euro. Più iva. Dopo il “caso Trenta” e le ristrutturazioni di Conte a Palazzo Chigi, un nuovo appartamento rischia così di creare imbarazzo al M5S proprio nel bel mezzo dello scontro sulla prescrizione. Se l’ abitazione di servizio non è di per sé uno scandalo, resta da capire se sia in linea con l’ ideale pauperista del Movimento. Lo staff di Bonafede fa sapere che il locale di circa 40 mq era stato ristrutturato in passato e già “destinato a uso foresteria esclusivo del ministro“. Lui ha solo aggiunto alcuni arredi per utilizzarlo come “punto di appoggio” a Roma, visto che normalmente fa il pendolare da Firenze. Una decisione che sarebbe dettata da motivi di “maggior sicurezza” ma anche di “economicità” perché il soggiorno in albergo, causa l’ impiego di 15 agenti, comportava “grandi spese per la garanzia della sicurezza”. Bene. Eppure va detto che non tutti i ministri della Giustizia hanno goduto di questo privilegio (Orlando, per dire, è rimasto nella dimora privata) e Mastella rinunciò pure al costoso progetto per la tutela personale. E poi, non doveva essere la gente la scorta dei pentastellati ? Ma non è solo questo il punto. Ogni mese, infatti, dei rimborsi che gli spettano da parlamentare, Bonafede trattiene 3mila euro forfettari che, regolamento M5S alla mano, servono per “le spese generali e di diaria“ incluse quelle di soggiorno, vitto, trasporti e telefoniche. Chi abita a Roma e provincia, però, dovrebbe conservarne solo 2mila. Fa così, per esempio, Paola Taverna che abita nella Capitale. La domanda è: una volta ottenuto l’ alloggio di servizio, il Guardasigilli non avrebbe forse dovuto rinunciare ad altri mille euro al mese? “Lui risiede a Firenze e ha restituito 309.591,62 euro“, taglia corto lo staff. Bonafede, a quanto pare, è convinto di poter dormire sonni tranquilli. Magari tra i due comodi guanciali dell’ alloggio riservato. (Ha collaborato Elena Barlozzari)

Clemente Mastella contro Alfonso Bonafede: "Moralista dei mie stivali, ho atteso 10 anni per venire assolto". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 11 Febbraio 2020. «Io mo' me ne fotto e sto qua, fermo, come al solito». Come un personaggio biblico, Clemente Mastella da Ceppaloni, l' immortale, ha consumato le sue molte vite ad attendere sulla riva del fiume (stando ben attento a non scivolarci dentro) i cadaveri dei molti nemici. Stavolta, per esempio, ha dato le sue dimissioni da sindaco di Benevento e soltanto l' idea dell' ombra di una sua candidatura che s' allunghi sulle Regionali sta creando convulsioni sia a destra che a sinistra.

Mastella, ci risiamo. Lei s' è da poco insediato a Benevento è già ci sono casini. Che è successo?

«Non vorrei parlare di questo, sennò mi fotto la conferenza stampa».

Mastella, mi scusi, ma se non parliamo di questo di che parliamo? Della piscina a forma di cozza? Su di lei si sa tutto...

«Vabbuò. Diciamo che non c' erano più le condizioni per amministrare insieme in Comune: terrizioni, minacce, gruppi e gruppetti, crisi di coscienza ogni volta che si parlava di bilancio. Poi c' era la Lega che mi votava sempre contro. Direi di fermarci qui».

E perché mai la Lega ce l' avrebbe con lei, a prescindere? Mancato rispetto di accordi politici? Semplice antipatia? L' idea che lei rappresenti la vecchia Dc, che a Salvini fa venire l' orticaria?

«Ma che ne so. C' era questa consigliera comunale che era nella mia lista, il cui marito peraltro, presidente del Consiglio Comunale, votava sempre per me (fatto curioso). Questa s' è messa sistematicamente a schierarsi con la sinistra, con l' opposizione. Perfino quando sono stato male a dicembre, quella è uscita dal Consiglio con la sinistra. È proprio fissata. Però non è questione di vecchio o nuovo; non è che gli eletti della Lega qui siano nuovissimi. Vengono dall' area fascista di Alemanno che poi è diventato leghista. Però, la prego, parliamo d' altro».

Ma certo, parliamo d' altro. Ma adesso però che succede? Salta la giunta di centrodestra? Non è bello alla vigilia elettorale regionale.

«Uff Non so che farò, non lo so proprio. Mo' aspetto; ho venti giorni di tempo per statuto, forse mi prendo quelli di Forza Italia e la lista mia, e mi ripresento in Comune, e mi tolgo questi qui dalle scatole».

La prospettiva terrificante per molti (avversari e alleati) è che lei, invece, provi a candidarsi alle Regionali. I sondaggi -non l' avrei mai detto- la danno sempre sul 42%. Corrisponde al vero?

«Ma se quella, la Lega, già non mi vuole a Benevento, figuriamoci in Regione. Eppure io, nei sondaggi, vado davvero forte. Ho pure chiesto di fare le primarie di centrodestra, non m' hanno ascoltato. Ma qua fanno i conti senza l' oste, la Campania può essere come l' Emilia dove i sondaggi davano quasi per scontato la vittoria del centrodestra. Qua, al sud, se ne fregano delle direttive di partito, valgono i candidati, i giochi di liste. Tenga conto che in Calabria la Lega è passata dal 20% all' 11%. Significherà qualcosa».

Quindi per il centrodestra la vede dura? Vuol dire che non è detto che passi Caldoro?

«Guardi, io sto alla finestra, mica mi filano. Io non lo so come va a finire, io mi faccio i fatti miei. Tanto a me non mi fanno partecipare a nulla, sono un paria. Pure la Carfagna sta con Caldoro. Registro che la solita Forza Italia è in emorragia e che la Meloni sta conquistando consensi anche internazionali. E quindi». E quindi, cosa? «Quindi. Punto. Non mi faccia dire che già c' ho 'sta cavolo di Lega che mi vota sempre contro. Sempre. Ma secondo lei, Salvini lo sa che qui la Lega mi vota sempre contro?».

Non ne ho idea, chiami Salvini. Non ne faccia un' ossessione. Ma, parlando di Regione: ci sarà un' alleanza Pd/M5S ? Come viene visto Enzo De Luca ancora candidato?

«Detto fra me e lei, De Luca non ha mal governato, anzi. E la gente lo sa. E poi qui, come in Emilia, c' è il voto disgiunto. E c' è la crisi del grillismo, gli attivisti duri e puri della Campania, al 90%, hanno bocciato l' alleanza col Pd, mentre i dirigenti del M5S, Fico in testa, quell' alleanza la vorrebbero. Però dubito che i pentastellati accettino De Luca presidente, e dubito che il Pd non lo ricandidi"».

Il M5S sta toccando il suo nadir. È un tantino balcanizzato, ha perso mille attivisti in 7 giorni e con quasi metà dei parlamentari che non versa il contribuito volontario e correnti interne che nemmeno la sua Dc ai bei tempi. Che peso avrà sulle prossime tornate elettorali?

«I movimenti accendono sempre il fuoco, bruciano tutto in olocausto, come nei roghi del Medioevo. Poi, però, col tempo, il fuoco si spegne e rimane la cenere. I 5 Stelle sono ora alla cenere. Sono entrati in un processo di erosione irreversibile, e purtroppo non ne usciranno più qualunque cosa facciano, li vedo come L' Uomo Qualunque di Giannini. La soluzione? È, in effetti, quella predicata da Grillo: portare il movimento nel Pd nella categoria politica che gli è più congeniale da quando -ricorda?- voleva fare il segretario dei Dem. Che poi è il progetto di Fico, il vero ideologo del partito».

E Di Maio, il campano dei consensi record, in tutto questo che ruolo avrà? E gli altri aspiranti leader? E Di Battista?

«Di Maio è lo zitello di Salvini che l' ha tradito, ora protesta contro il governo di cui fa parte. Ma, mettiamo che la protesta ci possa pure stare: ma chi sei tu, Di Maio, semplice ministro, per invitare i militanti a scendere in piazza? Non doveva farlo Crimi? Resta fermo il fatto che, se dovesse esserci un ritorno di fiamma Di Maio/Salvini si va dritti al voto con i 5 Stelle spaccati in tre o quattro tronconi: Conte, Di Maio, Fico e forse Di Battista che non è un vero leader. Non lo era Che Guevara che almeno combatteva nella foresta, tra le montagne; figuriamoci lui che se ne sta sempre in villeggiatura».

Il governo può spaccarsi sulla riforma della prescrizione? Conte, per mediare tra Renzi che non la vuole e Bonafede che l' ha fatta ha proposto un "lodo", cioè si applica o meno in primo grado a seconda che la sentenza sia di assoluzione o di condanna...

«La prescrizione, così, è incostituzionale, viola l' art. 111 della Carta. Mica lo dice Mastella, lo dicono tutti i procuratori generali e presidenti di Cassazione e di Consulta che si vedono in giro. Tutti. Tutti concordano che con la cosa di Bonafede si entra in un tunnel processuale senza uscita; è terribile, una cosa che non augurerei a nessuno».

Lei con la giustizia ha un cattivo rapporto, sia come ex ministro sia come ex imputato assolto "per non aver commesso il fatto". Non è che il suo è un risentimento personale?

«Il mio processo in primo grado durò dieci anni. Dieci per l' assoluzione. Venni accusato con mia moglie delle peggiori nefandezze. Il mio partito era stato indicato dalla Procura come "un' associazione a delinquere", una cosa enorme, mai avvenuta neanche ai tempi di Tangentopoli, la Procura di Milano lì, almeno, si fermò. Alcuni dei procuratori che volevano condannarmi ora hanno fatto carriera, vedi a Potenza. Come nel caso Tortora. S' immagina cosa sarebbe successo se ci fosse stata, allora, la norma Bonafede?».

Bonafede dice che la sua riforma è ispirata soprattutto a principi morali e di umanità, di giustizia per chi non riesce ad ottenerla...

«Moralisti dei miei stivali. Bonafede si è fatto ristrutturare, a spese del Ministero, quindi a spese dei cittadini italiani, l' alloggio di servizio con tutto quel che ne consegue e dove si è trasferito a vivere. Quand' ero io ministro rinunciai all' alloggio di servizio (come Orlando), e pure a misure protettive per casa mia a Ceppaloni dal costo di 400 mila euro. Mia moglie, su 'sta cosa, ci fa un' interrogazione parlamentare. Ecchecazzo».

Dicono che Renzi con questa sua lotta, minacciando di votare con la destra, sia in cerca di visibilità. È vero? E, comunque, le ripeto: come può uscirne il governo?

«Se Renzi cerca visibilità che ci sta di male? La verità è che la materia è delicatissima, bisogna farla uscire dall' alveo delle ideologie. Bisogna fare come Aldo Moro ai tempi del divorzio: andò davanti al Parlamento e disse: questo è un problema di libertà individuale, decidete voi secondo coscienza. La Dc perse ma non fu un dramma, non cadde il governo. Se uno facesse così finalmente il Parlamento avrebbe recuperato la sua centralità».

Intanto, si sta consumando il dramma dei vitalizi di voi ex parlamentari.

«Non guardi me. Io, sui vitalizi, li ho fottuti. Siccome avevano sbagliato i conti e avevo pagato, nella mia lunga carriera, molti più contributi del dovuto, ora me li stanno restituendo loro. Lo prendo come un piccolo risarcimento».

Francesco Specchia

“Io, vero comunista dico: il blocca prescrizione è barbarie”. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'11 febbraio 2020. Intervista a Marco Rizzo: “Una persona non può portare sulla testa una spada di Damocle per 10, 15 o 20 anni di processo”. Non solo centrosinistra, centrodestra e M5S. Alle elezioni suppletive per il collegio di Roma centro, rimasto vacante dopo le dimissioni di Paolo Gentiloni, ci sarà anche Marco Rizzo, segretario del Partito comunista. «Le modalità con cui è stato messo da parte Gianni Cuperlo, persona perbene, per far entrare sulla scena Roberto Gualtieri, arrivato al governo con tanto di endorsement di Christine Lagarde, mi ha fatto sentire in dovere di presentarmi. Gualtieri è l’emblema di tutto ciò che combatto».

La sua però è una sfida simbolica?

«È giusto non prendere in giro le persone. Non sono paragonabili le forze in campo, è Davide contro Golia. Gualtieri imperversa su tutti i giornali e le Tv».

Crede che approfitti della sua visibilità ministeriale per “sbaragliare” la concorrenza?

«Giustamente si criticava Salvini quando approfittava del suo ruolo al Viminale per fare propaganda. Ma quello almeno non era un ministero di spesa, quello di Gualtieri sì. Non sarebbe stato più elegante, almeno la campagna elettorale, consegnare le deleghe al presidente del Consiglio? E poi perché uno ministro vuole fare pure il deputato? Sarà sempre assente, sempre in missione, sempre giustificato».

Questo lo valuteranno i romani. Lei cosa propone agli elettori del suo collegio?

«È vero che siamo in centro, ma è vero anche che parte della popolazione di queste zone è soggetta a una progressiva proletarizzazione. Penso ai commercianti e agli artigiani, costretti a pagare il 50 o 60 per cento di tasse, mentre Amazon paga il 3 per cento. Io propongo di parificare la tassazione. Così come penso che i grandi centri commerciali debbano stare fuori il raccordo anulare».

Ma sommando il risultato delle tre liste anticapitaliste presenti alle Regionali emiliane non si arriva all’1 per cento…

«In passato si costruivano partiti per andare alle elezioni, noi andiamo alle elezioni per costruire il partito. Poi in Emilia ci siamo presentati in sei province su nove. Ma siamo anche convinti che la logica del “voto utile” non potrà ripetersi all’infinito».

Avrà anche pesato il ruolo delle Sardine, schierate al fianco di Bonaccini?

«Pochi giorni fa ho fatto un post su Facebook dal titolo “Sardine e Salvini united colors of Benetton”. Perché sono due facce della stessa medaglia: Salvini nel 2008 vota il cosiddetto “Salva Benetton” sulle concessioni autostradali e le Sardine pochi giorni dopo le elezioni vanno da Benetton a risollevare le sorti di un brand in caduta libera».

Sull’immigrazione ha posizioni molto più simili a quelle di Salvini che alla sinistra tradizionale. Come nasce il cortocircuito?

«Ho una posizione diversa rispetto a quella della sinistra radical, direi. Credo sia un errore non analizzare il tema dell’immigrazione nei termini di rapporti di forza e di classe. Fino a quando si fanno le guerra e si produce uno sviluppo diseguale, l’emigrazione di queste persone è destinata ad aumentare. Ma su porti aperti e chiusi credo facciano propaganda gli uni e gli altri. Perché poi su guerre e sviluppo economico sono schierati tutti allo stesso modo, sia la destra che la sinistra. L’unico modo per sconfiggere il razzismo non è il buonismo ma i diritti sociali, il lavoro».

Se fosse in Parlamento voterebbe per la processabilità di Salvini?

«Certo, come voterei per quella di Conte e Di Maio. Non ci possono essere due pesi e due misure».

Cosa pensa della riforma della prescrizione?

«Una persona non può portare sulla testa una spada di Damocle per 10, 15 o 20 anni di processo. È una cosa incivile. E non me ne frega un cavolo se la mia posizione verrà giudicata di destra o di sinistra».

Perché uno dei Parioli dovrebbe votare falce e martello?

«Perché non mi camuffo come fanno gli altri. Non mi vergogno di dire quello che sono: io sono Marco Rizzo!» 

La memoria “prescritta” di Salvini, che votò con Bonafede e ora lo attacca. Davide Varì il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La Lega appoggiò la riforma voluta dai 5Stelle, ma ora fa finta di niente…«Ho incontrato una delegazione di avvocati che mi ha chiesto di sbloccare questa pseudo-riformiccha che solo Bonafede può ritenere utile». Parole e musica di Matteo Salvini il quale, dopo appena sei mesi di opposizione, ha scoperto quanto il blocca prescrizione sia un pasticcio in grado di far collassare il già fragile edificio della giustizia italiana (copyright di Giovanni Mammone, primo presidente della Corte di Cassazione). Insomma, le critiche di Salvini sarebbero del tutto legittime, se non fosse per un piccolo particolare: il blocca prescrizione è passato con i voti di tutti i leghisti. Salvini incluso. Qualcuno avvertì l’allora ministro dell’Interno del rischio di quella riforma, paragonata a una “bomba a orologeria” piazzata tra le impalcature della giustizia italiana (stavolta il copyrigh è di Giulia Bongiorno). Ma lui tirò dritto. Salvini disinnescò le polemiche strappando all’amico Di Maio la promessa che la deflagrazione del blocca precrizione sarebbe stata attenutata da una riforma profonda del processo penale. Chiacchiere, promesse che la crisi di governo e la fine del governo gialloverde spazzò via. E ora, a distanza di pochi mesi, ci ritroviamo Salvini tra i maggiori critici della prescrizione targata Bonafede. Quando a essere prescritta è la memoria.

L’ultima grana per Bonafede: «Le toghe chiedono un limite ai fascicoli». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'11 febbraio 2020. I pm chiedono di determinare il numero di procedimenti che può essere trattato dal singolo giudice in un anno. I tempi previsti nella riforma della giustizia voluta da Alfonso Bonafede, “un processo completo in quattro anni”, sono destinati a rimanere nel libro dei sogni di via Arenula. E con essi lo spauracchio delle sanzioni disciplinari per le toghe che non abbiano rispettato tale cronoprogramma.Un aggettivo, “esigibile”, incombe sugli ambiziosi progetti del ministro pentastellato. La richiesta di determinare il carico esigibile, cioè il numero di procedimenti che può essere trattato dal singolo giudice in un anno, sta rimbalzando in questi giorni con sempre maggiore insistenza nei congressi dei gruppi della magistratura associata in vista delle elezioni, previste fra un mese, per il rinnovo del Comitato direttivo centrale dell’Anm. A favore del carico esigibile si è schierata anche Unicost, la corrente di centro delle toghe. Nel suo congresso straordinario, in cui sono state rinnovate le cariche, presidente Mariano Sciacca, segretario Francesco Cananzi, la fissazione di carichi esigibili è stata inserita nella risoluzione finale. Il tema, va ricordato, non è nuovo essendo da anni fra i cavalli di battaglia di Magistratura indipendente, il gruppo moderato. Mi, criticata in passato dagli altri gruppi per la sua visione “burocratica” dell’attività del magistrato, è ora però in buona compagnia: sembra che pure i davighiani di  Autonomia&indipendenza non siano pregiudizialmente contrari alla proposta. L’unica incognita riguarda chi dovrà determinare il numero di fascicoli per singolo magistrato: il Csm o il Ministero della giustizia. Se dovesse andare in porto la proposta dei carichi esigibili, diventerebbe dunque irrealizzabile il rispetto delle tempistiche volute da Bonafede: come conciliare i tempi certi per i processi sei i magistrati  ne possono trattare solo un numero prefissato? Che fine faranno  quelli che “splafonano” tale numero? I fautori dei carichi esigibili affermano che sono indispensabili per garantire un prodotto finale di qualità: un giudice non può scrivere più di tante sentenze in un anno.  La proposta, che sta creando qualche imbarazzo agli attuali vertici dell’Anm dopo il loro endorsement al blocco della prescrizione, ha raccolto invece il consenso della stragrande maggioranza dei neo magistrati. A differenza dei colleghi anziani, le giovani toghe sono molto sensibili ai temi delle condizioni di lavoro. Alle elezioni di marzo saranno oltre mille i magistrati che voteranno per la prima volta: un voto che è destinato a modificare i futuri equilibri nell’Anm.

Arretrato civile e penale, ecco i dati dalle Corti d’Appello. Giulia Merlo il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Maglia nera per Bolzano, la cui Corte d’Appello nel 2019 ha aumentato le pendenze sia civili che penali. L’apertura dell’anno giudiziario è sempre occasione di bilanci e il ministero della Giustizia ha pubblicato i nuovi dati sull’arretrato civile e penale delle Corti d’Appello italiane. I numeri, registrati nel terzo trimestre del 2019, fotografano la situazione nei 26 distretti (più le tre sedi distaccate di Bolzano, Sassari e Taranto) e la variazione rispetto a fine 2016.

Settore civile. A sorpresa, la maglia nera è di Bolzano: insieme a Trento sono le uniche due Corti d’Appello in cui il trend dell’arretrato invece che diminuire aumenta. Tutte le altre Corti d’Appello italiane, invece, in poco meno di tre anni hanno diminuito il numero di carichi pendenti sull’Ufficio. Le Corti d’Appello più virtuose sono quelle di Perugia, Torino e Milano.

Settore penale. Decisamente peggiore è  la situazione dell’arretrato penale. Le due Corti d’Appello con il maggior contenzioso, Napoli e Roma, hanno entrambe peggiorato i loro valori rispetto a quelli del 2016 con un aumento rispettivo del 22,7% e del 5,3% delle pendenze. La maglia nera, tuttavia, spetta alla Corte d’Appello di Sassari, che in tre anni ha aumentato il carico pendente quasi dell’80%, passando dalle 916 del 2016 alle 1.646 del 2019. I dati, infine, mostrano come 17 Corti d’Appello su 29 abbiano aumentato le pendenze penali in tre anni e solo 12 siano invece riuscite a migliorare la situazione. La più virtuosa è la Corte d’Appello di Messina, che è passata da 5.392 cause pendenti nel 2016 a 2.165 nel 2019, abbattendo il numero del 59,8%.

Prescrizione, Colombo bacchetta Davigo: “Problema è durata processi, soluzione è depenalizzazione”. Redazione su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. “Secondo me il problema dei problemi è la durata dei processi, non la prescrizione”. L’ex magistrato del pool di Mani Pulite Gherardo Colombo interviene sul tema della giustizia che fa litigare il governo, grillini e renziani in primisi, in particolare sulla prescrizione presente nella riforma Bonafede che prevede uno stop dopo la sentenza di primo grado. Intervenendo ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” su Radio Cusano Campus, l’ex collega di Piercamillo Davigo, quest’ultimo grande sponsor assieme a Marco Travaglio della legge sulla prescrizione in vigore dallo scorso primo gennaio, fornisce una soluzione ‘alternativa’ per risolvere la grana della durata dei processi. “La domanda che dobbiamo farci è come riuscire a ridurre i tempi – spiega Colombo -. Io credo che la prescrizione non c’entri con questo. Bisognerebbe procedere ad una depenalizzazione molto estesa. In Italia quasi ogni trasgressione costituisce reato. Sembra che ormai il processo sia diventato un procedimento in cui conta forse soltanto l’efficienza piuttosto che gli aspetti di garanzia”. Per l’ex magistrato “bisognerebbe prima di tutto cominciare ad investire sull’educazione, i cittadini italiani trasgrediscono un po’ troppo. Se si riducesse il numero dei reati, la giustizia funzionerebbe meglio. Cercare di risolvere la situazione attraverso uno strumento inappropriato significa semplificare e la semplificazione non produce grandi risultati. L’ideale sarebbe riuscire a realizzare la Costituzione, la democrazia non può essere basata sulla paura”. Infine una stoccata alla domanda sugli italiani popolo di giustizialisti. “Gli italiani generalmente inneggiano alla legalità altrui”, precisa infatti Colombo.

Tutte le balle di Marco Travaglio: tante cazzate in poche righe. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2020.

LA POLEMICHINA 1 – Marco Travaglio, nel suo editoriale del lunedì, mi prende in giro perché dice che io credo nell’esistenza di un capo della magistratura, mentre invece non esiste. E ne deduce che io non ne sappia niente di diritto e giurisprudenza. Non ha torto, ne so poco. Parecchio, parecchio più di lui: ma comunque poco. Il problema però è che io non ho scritto, come riportato da lui, “Il capo della magistratura ha detto che l’abolizione della prescrizione è una stupidaggine”. Io ho scritto: “Il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, diciamo pure il capo della magistratura”. Devo spiegare cosa intendevo dire? Il più importante gerarchicamente di tutti i magistrati italiani. Perché, Travaglio, per polemizzare, ha forzato la mia frase? Credo per una ragione semplicissima: lui crede che il capo della magistratura esista eccome, ed è convinto di essere lui. E se qualcuno mette in dubbio questo dogma diventa una bestia… (“Specchio della mie brame, chi è il più….”)

P.S. Comunque, tanto per dare qualche informazione, il capo della magistratura esiste, ed è il Presidente della Repubblica.

LA POLEMICHINA 2 – Marco Travaglio ha scritto che la deputata Enza Bruno Bossio voleva parlare all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Catanzaro. Sebbene sia imputata e con tante indagini quanti capelli in testa. L’onorevole Bruno Bossio non è imputata, è indagata in una sola indagine, non ha chiesto di parlare. Ma come si fa a scrivere tante cazzate in così poche righe?

TRAVAGLIO PADANO. Dagospia il 18 giugno 2020. Da ilazzaro.altervista.org/ - articolo del 6 aprile 2013. Googolando tre le pagine della rete, ho scoperto, oggi, qualcosa che mi ha stupito ma fino ad un certo punto.  Ovvero un passato da giornalista della Padania per il vice direttore del Fatto Quotidiano: Marco Travaglio. La notizia fu rivelata, un paio di anni fa, dal quotidiano il Giornale che cosi racconta il passato "verde di Travaglio: Correva l'anno 1997 e Marco Travaglio scriveva sulla Padania. Lui, quello che ora sulla Lega e dintorni di riti padani spara bordate dalla prima pagina del Fatto quotidiano, all'epoca troneggiava sulla prima pagina dell'organo di partito leghi.. Dal primo numero. Pardon. Dal numero zero.

Lo avevano chiamato II Nord, lo distribuirono il 15 settembre 1996 sul Po, edizione speciale per un'occasione storia: la nascita della Padania. Un progetto affidato a Daniele Vimercati, grande giornalista che tra i primi comprese la portata del fenomeno Lega «Daniele studiò quel progetto per un quotidiano d'area - racconta Gianluca Marchi, primo direttore della Padania Raccolse finanziamenti da 4 imprenditori, con mezzo miliardo l'uno, ma servivano più soldi. Il Nord non si fece più, nacque il giornale di partito, che Daniele rifiutò perché non voleva incarichi di partito». (Il Giornale).

Ed ancora: Marco Travaglio può dire senz'altro: io c'ero. Per la precisione alle pagine 4 e 5 Chissà se ha giurato, lui pure. A giudicare dall'entusiasmo di quella doppia pagina, forse sì. Titolone della parte superiore: «L'Umberto è un mitomane», con dentro tutte le dichiarazioni dei detrattori della neonata patria padana. Nella parte sotto, l'altra metà del titolo: «Ma una volta era un mito», con carrellata di tutti coloro che, negli anni precedenti, avevano lodato il Senatùr. Uno spaccato divertente, rivisto col senno di poi. Giorgio Bocca per esempio diceva: «Odiare la Lega è da cretini, la fobia per la Lega è cretina», e poi ribadiva: «La Lega non ha creato il cambiamento, la Lega è il cambiamento». Massimo D'Alema, ormai si sa: «Dobbiamo allearci con Bossi nel nome di Prodi, la Lega è una nostra costola». Prodi concordava: «Possiamo fare un accordo forte e trasparente». Opti in ordine sparso: Santoro che dice a Demattè che «senza Lega lei non sarebbe qui e nemmeno noi», Franco Zeffirelli per il quale «i leghisti sono le sole persone pulite che esistono oggi», Gianni Agnelli secondo cui «chi ha votato Lega è persona ragionevole e attenta al nuovo». (Il Giornale)

Poi il ricordo della partecipazione al quotidiano: Dopo quel tributo sul numero zero, l'attuale vicedirettore del Fatto aveva preso a collaborare con il neonato quotidiano La Padania. Il primo numero è datato 8 gennaio 1997. «Era uno dei nostri collaboratori, gratis, col nome di Calandrino» ricorda Marchi. Travaglio compare già il 12-13 gennaio, edizione unica per la domenica e il lunedì, e va avanti per almeno un paio di mesi, con un articolo ogni due-tre giorni. Non una firma qualsiasi lo sua. «Calandrino» si era meritato una rubrica, anzi due: «il punto» e «il personaggio». Scriveva in modo meno sferzante di oggi e ancora non si dilettava a storpiare nomi e inventare soprannomi approfittando dei difetti fisici delle persone. Ma il giustizialismo era già nelle sue corde, se il primo articolo lo ha dedicato a «L'idea di Flick: salvare i ricchi dal rischio cella». L'antiberlusconismo era già una fissa, «Lo statista di Milanello» lo demoliva il 18 gennaio. E la dissacrazione era già il suo sport preferito da Francesco Storace definito «simpatico refuso di An noto per l'eloquio forbito e il ragionamento sottile» a Ripa di Meana, «uomo per tutte le poltrone» che «privo di cadreghino addirittura da un mese, ha trovato pace: è il nuovo segretario di Italia nostra». Fino a Buttiglione e Casini «piccioncini della Sacra Famiglia Unita», l'uno «di qua con la colf Formigoni», l'altro «di là con la portinaia Mastella». E poi i ritratti, da Franco Carrara «il nuovo che è avanzato» a donna Letizia (Moratti) «detta Lottizia dopo memorabili imprese Rai». (Il Giornale)

Marco Travaglio: l’ Ometto Furioso. Gian Domenico Caiazza su Il Corriere del Giorno il 2 Febbraio 2020. La replica del presidente dell’ Unione delle Camere Penali italiane, al giornalista Marco Travaglio: “L’ometto dirige un giornale ogni giorno di più per pochi intimi (e tutti gravemente segnati da ossessione paranoide per manette, arresti, verbali di Polizia Giudiziaria, veline dei Servizi, roba così), il cui titolo suona, se confrontato alla sua persona, come un ossimoro. Per lui, le Camere Penali sono “penose”; motivo cioè di sofferenza, di pena, di cruccio. Lo credo bene.  Gli stiamo togliendo il giocattolo dalle mani, perciò strepita, frigna e pesta i piedi. L’ometto dirige un giornale ogni giorno di più per pochi intimi (e tutti gravemente segnati da ossessione paranoide per manette, arresti, verbali di Polizia Giudiziaria, veline dei Servizi, roba così), il cui titolo suona, se confrontato alla sua persona, come un ossimoro. Il nostro, si sa, con i fatti ha un rapporto idiosincratico; per lui sono un optional, ma in genere è meglio prescinderne.  Si sgola da mesi nel dire che la prescrizione è il privilegio di pochi potenti che se la procurano strapagando avvocati che ne sanno una più del diavolo. Non gli importa che le prescrizioni riguardino 120mila processi l’anno, di cui 80mila prima della famigerata sentenza di primo grado, quando gli avvocati non toccano palla.  Lui deve dire questa cazzata a prescindere, il microfono nei vari talk glielo offrono mansueti, nessun contraddittore, e lui si gonfia come un pavone, rosso che sembra scoppiare di libidine tanto ne gode.  Dei fatti, chissenefrega. Non so quali problemi lo abbiano accompagnato nel corso della sua crescita, periodo delicatissimo per ciascuno di noi, ma mi viene da pensare che da bambino fosse l’unico della sua scuola ad avere in camera il poster del Commissario Basettoni (“dacci oggi il tuo arresto quotidiano”, sarà stata la preghierina serale). Immagino schiumasse rabbia apprendendo ogni settimana in edicola che la Banda Bassotti era ritornata a piede libero. Se mai avrà letto “I Miserabili”, state certi che il suo cuore avrà palpitato per l’implacabile Ispettore Javert, giustamente a caccia di Jean Valejan, ladro recidivo specifico infraquinquennale, plurievaso, per di più liberato da un’amnistia: insomma un insopportabile pendaglio da forca beneficiato dal più peloso garantismo.  Al cinema, guardando “Fuga da Alcatraz”, sarà uscito dalla sala e avrà telefonato ai Carabinieri. Senonché accade che non più solo gli “avvocatoni”, ma Procuratori Generali e Presidenti di Corte di Appello da tutta Italia bocciano questa truffaldina riforma Bonafede: “irrazionale, illogica, incostituzionale” sono le parole che gli sibilano nelle orecchie da tutta Italia, e allora il nostro eroe sbrocca. Una giornataccia da incubo: vuoi vedere che me la fanno fuori davvero, questa leggina che mi è costata tanta fatica?  E giù allora insulti contro le “Camere Penose” che intervenivano e manifestavano in tutta Italia.  Giusto un accenno al Procuratore Generale di Milano, perché ha osato dirlo dallo scranno di Borrelli e addirittura in presenza di Piercamillo, e c’è un limite a tutto. Per il resto, meglio picchiare sugli avvocati e tacere al lettore quelle brutte e fastidiose notizie. Nel Paese che è riuscito a mandare al governo terrapiattisti e manettari guidati da un comico in disarmo, l’ometto è diventato il leader indiscusso del giustizialismo italiano.  È ovvio che ci fai la bocca. Sproloquia, scrive di diritto pur ignorandone le fondamenta, assolve i buoni e condanna i cattivi, spiega ed interpreta sentenze, norme, disegni di legge, tratta una informazione di garanzia alla stregua di una sentenza di condanna, e si fa assistere da avvocati che chiedono il suo proscioglimento per prescrizione rigorosamente a sua insaputa. Ora, dovete capirlo: i terrapiattisti vanno dissolvendosi come neve al sole ancor prima di quanto si potesse ragionevolmente immaginare, non ci sono più le mezze stagioni, ed ora stanno per silurargli pure la radiosa riforma della prescrizione.  Uno così, se gli togli il giocattolo, non sai più come tenerlo. Ed ecco allora che, dando fondo al meglio del suo bagaglio (anzi: Bagaglino) culturale, ti storpia il nome, rabbioso.  Le “Camere Penose”.  Penose per te, amico mio; e non hai ancora visto nulla!

Se il dottor Travaglio confonde Totò con la Costituzione e il diritto di critica. Il Dubbio il 6 febbraio 2020. L’aberrazione di identificare il difensore con l’avvocato sul presupposto che questi sia necessariamente colpevole è un’operazione demagogica e pericolosa. Caro Direttore, con riferimento all’articolo del dott. Travaglio pubblicato sul giornale Il Fatto quotidiano del 2 febbraio scorso, dal titolo, già di per sé eloquente, “Le Camere penose” ( riferito alle Camere penali), l’Ordine degli Avvocati di Napoli esprime la propria disapprovazione per gli insulti, volgari e gratuiti, pronunciati dall’autore dell’articolo. Il dott. Travaglio afferma che le proteste poste in essere in varie città italiane in occasione della Cerimonia di apertura dell’anno giudiziario «se non fossero indecenti» e addirittura «vagamente sediziose» sarebbero «irresistibilmente comiche». Per la parte che riguarda la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario nella città di Napoli ( appellata con snobistico e infondato pregiudizio come «città record in Europa per numero di reati» ) e le giuste proteste dell’Avvocatura partenopea, afferma che «per onorare la memoria di Pulcinella e di Totò, gli avvocati hanno sfilato in manette». Si decida il dott. Travaglio: se si tratta di sedizione, presenti denunzia alla competente Autorità Giudiziaria. Lasci perdere Pulcinella e Totò, citati a sproposito in quanto evidentemente non sa che sono espressione di eterna satira contro gli abusi del potere. In questi tempi difficili l’Avvocatura napoletana, unitamente a tutta l’Avvocatura italiana, denuncia a tutti i livelli che i linguaggi d’odio seminano intolleranza, razzismo, xenofobia e sfiducia verso le Istituzioni e lo stato di diritto. E il dott. Travaglio li ha usati. L’Avvocatura napoletana non è mai rimasta in silenzio, nemmeno quando un Ministro della Giustizia propose di subordinare la motivazione delle sentenze civili al pagamento di somme di danaro, ed è impegnata in prima linea nella denuncia dell’attacco allo Stato di diritto, che il dott. Travaglio conduce con l’identificazione dell’avvocato con l’accusato e per di più sul presupposto che questi debba essere necessariamente colpevole! Ma, evidentemente, l’autore ha scritto l’articolo sotto il forte turbamento determinato dalle dichiarazioni contro la riforma Buonafede rese dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano, che ha aderito alla posizione dell’Avvocatura che egli tenta, senza riuscirvi, di ridicolizzare. Non rendendosi conto che è Lui che si ridicolizza scrivendo di «orde di avvocati ( che) irromperanno nelle carceri per deplorare l’uso delle sbarre, nei pronto soccorso agitando stetoscopi contro l’abuso delle visite…» e altri esempi paradossali del genere. Il direttore Travaglio non solo non conosce l’ironia che contraddistingue la maschera di Pulcinella ed il grande Totò, ma neanche conosce i fondamenti della nostra Costituzione, a tutela della quale l’Avvocatura protesta contro la mancata attuazione del precetto costituzionale della ragionevole durata del processo e contro l’abuso delle intercettazioni. Dovrebbe sapere che la prescrizione ha la funzione di evitare l’eccessiva durata dei processi, principio garantito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dovrebbe sapere che l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, attualmente in vigore, viola anche i diritti delle persone offese e delle vittime dei reati, costrette ad una attesa sine die prima di sapere se le persone accusate di reato siano veramente colpevoli. Dovrebbe sapere, perché già protagonista in processi penali, che la prescrizione è rinunciabile mentre Lui l’ha invocata nel processo concluso con la sentenza della Suprema Corte n. 14701/ 14. Dovrebbe anche sapere, perché è un giornalista, che l’azione dell’Avvocatura in difesa dello stato di diritto tutela non solo il diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione, ma anche la libertà di espressione del pensiero e, quindi, il diritto di cronaca. E di ciò sono prova le tante iniziative intraprese in questi anni dagli Avvocati con i rappresentanti dell’Ordine dei giornalisti per denunciare la repressione attuata dai regimi illiberali nel mondo. Ma il dottor Travaglio, purtroppo, preferisce l’insulto e l’invettiva al diritto di critica. Antonio Tafuri presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli

Prescrizione, weekend di schiaffi per il partito dei Pm di Travaglio e Davigo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. La vicenda della prescrizione – cioè del blocco della prescrizione – si sta un po’ aggrovigliando. Il partito dei Pm, guidato da Travaglio e Davigo, era sicuro di aver condotto in porto l’operazione e di avere sconfitto, con la forza di fuoco dell’informazione (che largamente controlla) e con la sua rappresentanza parlamentare, le poche resistenze, quasi tutte raccolte attorno alle Camere penali. E invece il fine settimana ha complicato le cose. Si è frapposto Matteo Renzi, che è sempre una presenza fastidiosa, ma soprattutto ci si è messa di mezzo l’inaugurazione dell’anno giudiziario, che doveva essere il momento del trionfo del PPM (partito dei Pm) e invece è stato il tonfo. Il PPM in molte sedi l’ha fatta da padrone. A Palermo è riuscito addirittura a far parlare due dei suoi esponenti più prestigiosi (Scarpinato e Di Matteo). Ma ha preso due schiaffi dolorosi a Roma e a Milano, che sono città importanti, e subito dopo ha visto aprirsi la partita politica con l’impuntatura di Renzi. Di Roma vi abbiamo già riferito sul Riformista di sabato. Gli interventi di Mammone e Salvi sono stati due frustate. Il giornale del PPM (cioè Il Fatto Quotidiano), furioso, non ne ha nemmeno riferito in prima pagina. La redazione è rimasta basita di fronte a qualcosa di così imprevedibile: il Procuratore generale e il Primo Presidente della Corte di Cassazione che fanno a pezzettini piccoli tutte le teorie generali del giustizialismo, dalla non-prescrizione come soluzione dei mali della società, fino al diritto al protagonismo dei Pm, considerato dai travaglisti indispensabile a un buon controllo dell’Ordine e della Legalità. Come può succedere? Può succedere perché l’Italia è un paese tosto: non solo riesce a isolare il coronavirus prima di tanti altri paesi, ma – seppur nel dilagare del giustizialismo – tiene ferma, in alcune menti, anche molto altolocate, l’idea che lo Stato di Diritto è più importante persino di Gratteri e di Travaglio. E tuttavia la sorpresa maggiore è arrivata il giorno dopo da Milano. Doveva essere il Davigo Day. Piercamillo Davigo, cioè il numero 2 del PPM, secondo per importanza solo al generale Travaglio, era riuscito a farsi mandare dal Csm a rappresentare lo Stato all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Milano, la città di Mani Pulite, di Borrelli di Bocassini. Ed era riuscito a respingere la controffensiva dei penalisti che avevano chiesto al Csm di rinunciare alla evidente provocazione. Ed ora si preparava a un gran discorso, in toga ghingheri e piattini, nella sede più solenne possibile e immaginabile. E invece cosa succede? Prima di tutto succede che il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso prende la parola e, invece di usare giri di parole per esprimere il suo pensiero, dice chiaro chiaro: l’abolizione della prescrizione viola l’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo. E la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, con più cautele, dice qualcosa di molto simile. Capite che mazzata? E Alfonso pronuncia queste parole davanti al povero Bonafede, cioè al ministro – per capirci – che probabilmente di tutta questa storia sa pochissimo, però ci è finito in mezzo e ora non sa proprio come uscirne. E Davigo? Resta lì a bocca aperta, e quando poi gli danno la parola si accorge che mezza sala si alza in piedi, agita dei cartelli con scritti su alcuni articoli della Costituzione, volta le spalle ed esce dalla sala. Facendo anche rumore. Sono gli avvocati, che lui ha sempre considerato, sostanzialmente, imputati di serie B. E così la giornata che doveva essere del suo trionfo diventa la giornata nera nera della sua crociata. Intanto ci sono anche le novità politiche. Con Renzi che avverte che lui il processo eterno non lo avalla. E la possibilità di non avere la maggioranza in Senato. E ora? L’avanguardia del PPM, e cioè Travaglio in persona, si scatena sul Fatto. Scrive un articolo contro i penalisti e lo intitola, rabbiosissimamente, “le camere penose”. In questo articolo spiega che non c’è niente da fare, perché gli avvocati penalisti sono una lobby, e hanno un potere sterminato, e dominano in Parlamento e impongono le loro leggi.

Gliel’avrà detto Davigo? Non so. Però se volete vi elenco le nove principali richieste al Parlamento del fronte garantista (minuscolo fronte sostenuto dagli avvocati) e le sei richieste del fronte travaglista e dei magistrati (cioè: del partito dei Pm).

Avvocati. 1). Separazione delle carriere tra Pm e giudici.

2) Fine dell’obbligatorietà dell’azione penale.

3) Piena responsabilità civile per i magistrati come per gli altri professionisti.

4) Riduzione della custodia cautelare.

5) Riforma carceraria.

6) Depenalizzazione dei reati minori. 7) Riforma delle intercettazioni. 8) Abolizione o riduzione del 41 bis, cioè del carcere duro, per via della sua evidente incostituzionalità. 9) Fine del doppio binario processuale e delle varie misure di emergenza.

Di queste richieste, che giacciono da anni, ne sono state approvate zero. Numero zero.

Le richieste fondamentali dei magistrati sono solo sei.

1) Abolizione o riduzione della prescrizione.

2) Sospensione della riforma carceraria varata dal governo Gentiloni.

3) Abolizione della impossibilità di riformare in peggio le sentenze di appello.

4) Legge spazzacorrotti che equipari le tangenti agli omicidi di mafia.

5) Aumento della possibilità di usare i Trojan (cioè il meccanismo di spionaggio a casa tipo Rdt) specialmente per i politici.

6) Legge Severino per tagliare le gambe ai politici anche se condannati solo in primo grado.

Di queste sei richieste ne sono state accettate cinque. La riforma del processo di appello, con peggioramento delle garanzie per gli imputati, ancora è ferma. I magistrati sono abbastanza indignati del fatto che se chiedono sei cose ne vengano accettate sul tamburo solo cinque. E ora sono addirittura sbalorditi di fronte alla possibilità che salti o sia rinviato ancora il blocco della prescrizione. Per questo parlano di lobby degli avvocati. Con una ammirabilissima faccia di bronzo.

Nordio sulla prescrizione: "Una riforma mostruosa". L'ex magistrato critica le nuove norme: «Va contro la nostra Costituzione». Serenella Bettin, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. Abano Terme (Pd)La legge sulla prescrizione? «Una legge mostruosa. Un peccato mortale». Duro Carlo Nordio alla sesta serata della Festa dei Lettori del Giornale, che finisce oggi all'hotel Mioni Pezzato di Abano Terme. Ieri la serata conclusiva con gli inviati di guerra Fausto Biloslavo e Gian Micalessin. La festa, organizzata da Stefano Passaquindici, coordinatore dei Viaggi del Giornale, vede la partecipazione di centinaia di lettori e venerdì sera erano davvero in tanti, tutti molto attenti per ascoltare il magistrato Nordio, intervistato dall'inviato Stefano Zurlo. Un celebre procuratore aggiunto, ora in pensione, che ha seguito lo scandalo del Mose, che negli anni Ottanta fu protagonista delle indagini sulle Brigate Rosse venete e che negli anni Novanta seguì le inchieste su Tangentopoli. L'ex magistrato ha spiegato in modo chiaro la nuova prescrizione, bandiera del Movimento Cinquestelle, voluta dal ministro Alfonso Bonafede. «Quando viene commesso un reato - ha detto Nordio - dopo un certo periodo di tempo questo si estingue. E questo perché lo Stato perde interesse a punire la persona, ovviamente questo interesse cambia a seconda della gravità del reato». La riforma Bonafede, invece, mette una spada di Damocle a vita sulle persone, prevede lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, indistintamente che sia di condanna o di assoluzione. Ma soprattutto in questo modo si viola il principio sacro e inviolabile previsto nella nostra Carta costituzionale all'articolo 111 e introdotto anche nella Carta dei diritti dell'Unione Europea, adottata a Nizza nel 2000, e anche nella Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, all'articolo 6, che è quello, ha spiegato Nordio, della ragionevole durata del processo. Tutte disposizioni e tutti principi che Bonafede sostanzialmente se ne frega. «La Costituzione dice che ogni persona ha diritto a un processo che si svolga in tempi ragionevoli - ha detto Nordio - questo è un principio sacro ecco perché questa legge è un peccato mortale. Prescrizione vuol dire che dopo un certo periodo di tempo non puoi processare una persona, e la bella pensata è stata di dire che dopo la sentenza di primo grado la prescrizione si sospende». Una legge già concordata con l'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, a cui però era seguito un patto. «Questa bella pensata che tiene una persona sospesa a un filo per l'eternità - ha detto l'ex procuratore aggiunto lagunare - era stata concordata anche con Salvini quando era al governo, ma era stata fatta a patto, aveva detto Salvini, che venisse accompagnata da una legge che prevedesse la celerità dei processi. Insomma il patto governativo era questo: facciamo entrare in vigore la legge nel momento in cui entra il vigore la riforma dei processi. Cos'è accaduto invece? Che della riforma sulla durata dei processi non se n'è fatto nulla, e il ministro della Giustizia intanto ha mandato avanti quella sulla prescrizione. Una legge mostruosa che oltre a tenere una persona sospesa a un filo per sempre, tiene sospese anche le vittime. Questo porterà i processi ad avere una durata interminabile. E la cosa riprovevole è che il Governo aveva promesso una cosa, la riforma dei processi, e non l'ha fatta. Insomma hanno fatto uno strame del diritto che è una cosa vergognosa». Una prescrizione infatti che rischia di intasare il sistema, ma che Bonafede continua a chiamare «conquista di civiltà».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 2 febbraio 2020. Come cambiano in fretta gli equilibri e gli scenari, nei rapporti tra politica e giustizia. Esisteva fino a una manciata di settimane fa un asse di ferro che sembrava destinato a dettare le regole dei processi: era l' asse che collegava il Movimento 5 Stelle e il suo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ai massimi organi rappresentativi delle toghe, ovvero il Consiglio superiore della magistratura e l' Associazione nazionale magistrati. La visione manettara - per usare un temine brutale ma chiaro - della giustizia cara ai grillini, tradotta in seno al Csm da Piercamillo Davigo e dalla sua corrente, sembrava avere ridotto all' impotenza non solo le voci di dissenso più ovvie, quelle degli avvocati e dei partiti di tradizione garantista, ma anche chi all' interno della magistratura faticava a riconoscersi nell' idea che «non ci sono innocenti». E alla fine di novembre il congresso dell' Anm a Genova aveva sancito l' appiattimento del sindacato dei magistrati sulle posizioni davighiane e grilline. All' interno del Csm, la corrente di Davigo - con l' elezione di un altro magistrato icona dei 5 stelle, il palermitano Antonino Di Matteo - si preparava a occupare quasi militarmente la ribalta. Invece... La catastrofe elettorale dei grillini in Emilia Romagna e in Calabria segna il punto di svolta. Molti magistrati che si erano fatti sedurre dalle sirene dei Di Maio e dei Bonafede si rendono conto che puntare sui grillini per tutelare la categoria è stata una scelta miope. E, calcoli venali a parte, riprende voce chi dentro la magistratura è rimasto attaccato a vecchi principi quali la presunzione di innocenza. Tra venerdì e ieri le due cerimonie più importanti di inaugurazione dell' anno giudiziario, a Roma e a Milano, hanno visto andare in scena una sconfessione senza precedenti dell' operato di un governo in carica da parte dei massimi esponenti della magistratura. Ci sarebbe da ragionare sul fatto che a stroncare la «riforma Bonafede» della prescrizione, ovvero il provvedimento - feticcio dell' asse tra 5 Stelle e Davigo, siano stati due magistrati come Giovanni Mammone e Roberto Alfonso, entrambi esponenti della magistratura più moderata per non dire conservatrice. E sul fatto che a difendere una legge considerata incostituzionale da giuristi di questo livello sia invece la sinistra della magistratura, quella nata mezzo secolo fa in nome del garantismo: e che anche ieri, nell' intervento del leader dell' Anm Luca Poniz, non mostra alcuna resipiscenza nell' appoggio incondizionato a Bonafede. La sostanza è che, grazie anche all' inusitato coraggio di parte dell' avvocatura, l' asse giustizialista scricchiola. E questo dà voce anche alla parte finora più timida della politica, con il segretario Pd Nicola Zingaretti che ieri a Sky Tg24 dice che «non si può stare sotto processo a vita», che è esattamente ciò che la riforma Bonafede rende invece possibile. Da qui al 24 febbraio, quando arriverà in aula alla Camera il disegno di legge del centrodestra per azzerare la riforma Bonafede, molto può ancora succedere. E chissà che di questo mutato clima non possa restare vittima proprio Davigo, finora determinato a temersi il suo posto nel Csm anche dopo il 20 ottobre, quando, compiuti i settant' anni, dovrebbe andare in pensione.

Ora anche l’Anm si divide sulla prescrizione: «Qui comanda Davigo…». Errico Novi il 7 febbraio 2020 su Il Dubbio. Con una semplificazione temeraria, si potrebbe arrivare a dire che persino nell’Anm l’integralismo sul processo penale condiziona la vocazione garantista dei progressisti. Si potrebbe cioè insinuare che la linea di Autonomia e Indipendenza, e in particolare del suo fondatore Piercamillo Davigo, abbia condizionato la corrente progressista, Area, che oggi esprime il presidente dell’Anm, Luca Poniz. Secondo uno schema analogo a quello che, nella politica propriamente detta, viene rappresentato dal centrodestra, ma anche da Italia viva, per mettere il Pd nell’angolo: siete politicamente subalterni, in materia di giustizia, all’integralismo di Bonafede e del Movimento 5 Stelle. In realtà non è esattamente così. Ma è un dato il fatto che attorno alla polemica sulla prescrizione si consumi ormai parte dello scontro anche all’interno dell’Associazione magistrati, in vista del voto di primavera che si annuncia come una cesura forse irreversibile. Dall’idilliaca unità uscita dalle urne nel 2016, con la decisione di formare una giunta unitaria e lasciare alle quattro correnti la presidenza per un anno ciascuno, si arriverà probabilmente a una divisione addirittura bipolare. Da una parte i tre gruppi che oggi controllano la maggioranza nell’Associazione nazionale magistrati, ossia Area, Autonomia e indipendenza e Unicost. Dall’altra Magistratura indipendente, apparentemente isolata eppure impegnata a costruire un “polo moderato” insieme con alcuni magistrati usciti da Unicost e riuniti nel neonato Movimento per la Costituzione. Si tratta dell’ex segretario del gruppo centrista Enrico Infante, dell’ex vicepresidente Anm Antonio Sangermano, di Enrico Pavone, già presidente di sezione dell’Anm a Milano, e di altri. L’alleanza larga è stata già sperimentata alle ultime suppletive per il Consiglio superiore, in cui Pasquale Grasso è uscito battuto con onore dalla candidata di Area Elisabetta Chinaglia, e sono convinti di poter portare via altri voti sia da Unicost che da “AeI”. Ed è qui che l’ordinario conflitto politico della magistratura italiana si salda con il fenomeno Davigo. Nelle ore in cui la stessa “Mi” e Unicost si riuniscono a congresso ( nel primo caso da oggi al Parco dei principi di Roma, nel secondo da domani in Cassazione) circola infatti una versione finora sottovalutata sul cambio di rotta uscito, sulla prescrizione, dal congresso genovese dell’Associazione magistrati. Nella mozione finale, infatti, il presidente Luca Poniz, di Area, ha ottenuto consensi su un sostanziale via libera alla norma Bonafede, non più subordinato alla preliminare definizione di una riforma penale capace di evitare che la durata dei giudizi aumenti in modo incontrollato. Da una simile conversione si è dissociata la componente più movimentista interna ad Area, Magistratura democratica. Che nei giorni successivi ha espresso la propria perplessità anche con un intervento pubblicato sul Dubbio dal presidente Riccardo De Vito. Nelle settimane successive, dal fronte opposto, Magistratura indipendente ( che con una forzatura è assimilata al “centrodestra” dell’associazionismo giudiziario) è intervenuta con prese di posizione della presidente Mariagrazia Arena e della segretaria Paola D’Ovidio, secondo le quali l’impostazione di Bonafede rischia di favorire «una giustizia esercitata senza adeguata ponderazione» e che sacrifichi «inaccettabilmente la qualità delle decisioni e le garanzie costituzionali dei soggetti coinvolti». “Mi” chiede dunque di riportare la linea dell’Anm sulla prescrizione all’approccio pre congresso di Genova: d’accordo sullo stop ai termini di estinzione dei reati dopo la sentenza di condanna in primo grado, ma a condizione di approvare contestualmente, e non quando sarà, una riforma processuale che acceleri davvero i tempi. Possibile che Area, capace di esprimere con Eugenio Albamonte il presidente più attento nella storia dell’Anm al dialogo con l’avvocatura, abbia tradito l’impostazione garantista? Secondo gli ormai sempre più radicali avversari di “Mi”, così è perché, spiega un appartenente al gruppo moderato, «Poniz è costretto a fare i conti con l’alleanza sempre più strutturale tra Area e il gruppo di Davigo soprattutto nel Csm». E ancora: «Visto che i davighiani di Autonomia e indipendenza sono favorevoli in modo incondizionato alla riforma della prescrizione, la governance progressista dell’Anm teme che, se si allontanasse troppo da quell’integralismo, una parte dei magistrati oggi con Davigo lascerebbe il gruppo di Piercamillo per confluire nel polo moderato che noi di “Mi” andiamo a promuovere con gli amici di Movimento per la Costituzione», cioè i “fuoriusciti” da Unicost. Un’interpretazione forse estremizzata, ma che dimostra come la prescrizione abbia una sorta di potere venefico in qualunque contesto politico precipiti. Di certo, oltre al rischio di una ritorno in “Mi” di davighiani insofferenti ( molti dei quali nel 2016 avevano seguito l’ex pm di Mani pulite proprio nella scissione da Magistratura indipendente), c’è il dissenso di Magistratura democratica. Non solo di De Vito e della segretaria Mariarosaria Guglielmi, ma anche di storici leader della corrente come Edmondo Bruti Liberati. Tutti delusi dal sì senza riserve alla prescrizione di Bonafede. Una sola cosa tiene unita la magistratura: il no alle sanzioni per i giudici “lenti”, con cui il guardasigilli pensa di bilanciare la sua contestata norma. Ma è un comune denominatore che non basta a scongiurare una sfida all’ultima toga nelle imminenti elezioni per l’Anm in arrivo tra poco più di un mese.

Proteste all’apertura dell’giudiziario:  Davigo viene contestato dagli avvocati. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 da Corriere.it. Hanno esposto i cartelli con tre articoli della Costituzione e sono usciti dall’aula magna gli avvocati della camera penale, nel momento in cui ha preso la parola il consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Apertura dell’anno giudiziario con protesta sabato mattina a Milano. La silenziosa contestazione è arrivata dopo l’intervista rilasciata dal magistrato nei giorni a un quotidiano sulla riforma della prescrizione che ha suscitato diverse polemiche tra gli avvocati. In precedenza era stato il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, nella sua relazione aveva posto l’accento sia sulla riforma sia sui «nodi» della giustizia e di Milano. Il «coinvolgimento di soggetti legati alla `ndrangheta» nelle recenti inchieste milanesi sui traffici illeciti di rifiuti «prova l’estremo interesse che l’organizzazione criminale nutre per un’attività illecita che garantisce lauti guadagni, l’ampliamento della rete relazionale attraverso contatti con un’imprenditoria ingorda e spregiudicata, e un trattamento sanzionatorio `mite´». Lo ha evidenziato il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, sabato mattina nel suo intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Alfonso ha ricordato nella relazione i tanti «incendi dolosi» negli impianti «di trattamento dei rifiuti» a Milano e in Lombardia negli ultimi anni, tra cui quello a Corteolona nel gennaio 2018 e quello di via Chiasserini a Milano nell’ottobre dello stesso anno, con «effetti avvertiti in tutta l’area metropolitana». Le indagini scaturite da questi roghi hanno già portato, ha sottolineato Alfonso, a condanne per traffici illeciti di rifiuti. Altro tema caldo quello delle seconde generazioni di “nuovi” milanesi. Il fenomeno delle «bande giovanili o baby gang» ha «interessato principalmente Milano e l’area suburbana - ha aggiunto Alfonso - ossia i luoghi caratterizzati da una massiccia immigrazione, dove sono presenti tutti i ben noti elementi di degrado e di emarginazione sociale, che costituiscono l’humus dell’illegalità, rafforzati dal gap culturale che affligge gli adolescenti stranieri specialmente quelli di seconda generazione». Il pg milanese ha parlato di adolescenti «scissi tra la cultura del Paese della famiglia d’origine e quella del Paese, l’Italia, in cui hanno avuto il destino di nascere o di crescere». L’attività «di prevenzione e rieducazione resta cruciale per contrastare il fenomeno, con particolare attenzione a ciò che succede nel mondo del web». Quindi il tema al centro delle recenti polemiche. La riforma del regime della prescrizione, che la sospende dopo il primo grado: «Presenta rischi di incostituzionalità» e «viola l’art. 111 della Costituzione, con il quale confligge, quanto agli effetti, incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo», ha evidenziato Alfonso, che allo stesso tempo ha lamentato «spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare tempi lunghi del processo». E sulla prescrizione una quarantina di avvocati della Camera penale di Milano, poco prima della cerimonia, ha sfilato mostrando cartelli con gli articoli della Costituzione come forma di protesta contro la riforma. «Abbiamo indicato tre articoli della Costituzione: il 24 che è per il diritto di difesa, il 27 che è la presunzione di non colpevolezza è il 111 che è il giusto processo. Accoglieremo Davigo con questi cartelli», ha detto l’avvocato Giovanni Briola del direttivo della Camera penale.

La legge sulla prescrizione sotto attacco. A Milano gli avvocati contro Davigo. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Fuori dall’aula quando parla l’ex pm di Mani Pulite. I legali stanchi di sentirsi definire una categoria di «pagati a pie’ di lista per tutti gli atti». Appena la fanfara dei carabinieri intona per la prima volta in una inaugurazione dell’anno giudiziario milanese l’inno di Mameli, nell’Aula magna le «squadre» sembrano già in tensione pre-partita, ma di un match «telefonato» ormai da giorni di non memorabile batti e ribatti polemico, a seguito della inusuale lettera azzardata dagli avvocati penalisti finanche al presidente Mattarella (e non a caso liquidata come «irrispettosa» dal Comitato di presidenza del Csm) per chiedere di non mandare il consigliere Piercamillo Davigo a rappresentare l’istituzione. Stanchi di sentirsi definire una categoria di «pagati a pie’ di lista per tutti gli atti compiuti» nel gratuito patrocinio degli imputati non abbienti dove «compiono più atti possibile per aumentare la parcella» (schema in realtà non possibile visto che il sistema di liquidazione è per fasi), e scandalizzati dalla gag cabarettistica di Davigo sull’uxoricidio più conveniente del divorzio perché ce la si caverebbe con 4 anni (matematicamente impossibile), gli avvocati scaldano i muscoli distribuendosi i fogli con gli articoli 24, 27 e 111 della Costituzione (diritto inviolabile alla difesa, presunzione d’innocenza, giusto processo): quelli che poi sventolano, in 120 a beneficio di tv e fotografi, quando lasciano la sala appena Davigo inizia a parlare. I magistrati in platea, invece, punteggiano di prolungati applausi la presidente della Corte d’appello Marina Tavassi «lieta di accogliere» chi «per tanti anni abbiamo avuto qui protagonista», il procuratore generale Roberto Alfonso quando gli rinnova «la nostra solidale amicizia», e il presidente Anm Luca Poniz che critica «gravemente impropri» l’«ostracismo preventivo» e il «veto ad personam». «Ci siamo allontanati — rimanda al mittente Andrea Soliani, presidente della Camera penale — così come nel 2010 si allontanarono alcuni magistrati milanesi in occasione dell’intervento di un rappresentante del governo, senza che per questo fossero etichettati come antidemocratici». Davigo non c’è già più, andatosene subito dopo la pausa successiva alla proclamazione formale d’apertura, senza far cenno alla polemica ma preferendo trattare le incognite del «procuratore europeo, autorità sovranazionale che impartirà ordini alla polizia giudiziaria italiana». Il 2020 è l’anno degli avvocati minacciati nel mondo, e l’evocazione delle persecuzioni dei colleghi turchi o iraniani serve al presidente dell’Ordine degli avvocati Vinicio Nardo per aggiungere che, «accanto alle aggressioni fisiche, quelle verbali possono essere ugualmente dannose: con la narrazione degli avvocati unici responsabili delle lungaggini processuali, i cui testimonial, re incontrastati dei talk-show serali, rivestono importanti ruoli, purtroppo anche nella magistratura, impegnandone l’autorevolezza, in un quasi generalizzato silenzio». Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si tiene fuori dalla polemica, già gli basta e avanza la salva di critiche alla sua legge sulla prescrizione, a rischio incostituzionalità per Tavassi e Alfonso (non per l’Anm di Poniz, «no a contese manichee e a scenari apocalittici»): «Rispetto le opinioni divergenti — dice Bonafede — ma è evidente che, se ho proposto la legge, dal mio punto di vista non c’è alcuna incostituzionalità». E, in generale, «mi dispiace che a volte venga etichettato come “manettaro”».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 2 febbraio 2020. Di paradosso in paradosso. Ieri, durante l'inaugurazione dell' anno giudiziario di Milano, gli avvocati sono usciti dall' aula nel momento in cui il consigliere del Csm Piercamillo Davigo ha preso la parola, ritenendo inopportuna la sua presenza. Perché? Colpa dei paradossi. Gira in Rete un vecchio filmato in cui Davigo, il «dottor Sottile», afferma che le pratiche per il divorzio in Italia durano più della pena per l' omicidio del coniuge; basta applicare le attenuanti generiche. Davigo è stato tacciato di istigare al femminicidio. Ma era un paradosso. In alcune interviste, Davigo sostiene che l' imputato assolto, o che vede ridotta la richiesta di pena, deve ritenersi un colpevole fortunato. Ma è un paradosso. In altri interventi, la sua dottrina si esplica così: non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti. Oppure: non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni. Oppure: la prescrizione va abolita perché una volta che il processo comincia non si può fare una corsa contro il tempo. Infine: gli avvocati sono degli azzeccagarbugli perché rendono difficile il facile attraverso l' inutile. Paradossi, solo paradossi, sia pure pronunciati con una certa supponenza e sarcasmo. Tanto per chiarirci, in cosa consiste il paradosso davighico? Per dar contro agli altri, saremmo pronti a mettere tutti in galera.

Davigo parla e gli avvocati lasciano l’aula: “E’ la punta di diamante del partito dei pm”. Redazione de Il Riformista 1 Febbraio 2020. Al via l’anno giudiziario tra le contestazioni per la riforma della prescrizione. Da Nord a Sud gli avvocati delle Camere Penali hanno inscenato vivaci proteste contro la norma entrata in vigore dal primo gennaio. A Milano le toghe hanno mal digerito la presenza di Piercamillo Davigo in qualità di rappresentante del Csm. Per contestare l’ex pm di Mani Pulite hanno deciso di non ascoltare il suo intervento e uscire in massa dall’aula del Palazzo di Giustizia dove si stava celebrando la cerimonia. A Napoli la protesta è stata ancora più clamorosa: gli avvocati si sono presentati in aula in manette. Già nei giorni scorsi i penalisti si erano rivolti all’organo di autogoverno della magistratura per “bloccare” la partecipazione di Davigo, “colpevole” di aver attribuito la maggior parte delle responsabilità per le lungaggini dei processi proprio alle toghe, interessate a suo dire più alle parcelle che a tutelare i propri clienti. Presenza, quella di Davigo, rivendicata invece dai magistrati, che hanno censurato la protesta dei legali, accusati di “voler sanzionare la libera manifestazione del pensiero”. E mentre gli avvocati – con tanto di cartelli che riportavano gli articoli 24, 27 e e 11a della Costituzione, quelli violati dalla riforma della prescrizione – hanno organizzato un flash mob nell’atro del Palazzaccio, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, ha definito la protesta “gravemente impropria” perché si tratta di “ostracismi preventivi e veti ad personam”. Dopo essere stato costretto a interrompere il suo intervento – disturbato da alcuni magistrati che hanno gridato “vergogna” a un legale che non si era tolto il cappello – Davigo ha concluso il discorso senza fare alcun cenno allo scontro di questi giorni con gli avvocati sulla prescrizione. Tema che è stato al centro di molti interventi, tra cui quello della presidente della Corte d’Appello di Milano Marina Tavassi. La nuova norma, sottolinea, avrà “una ricaduta contenuta” nel capoluogo lombardo, in cui i processi si celebrano a tempo di record rispetto al resto della Penisola. Parole a cui hanno fatto eco anche il presidente della Anm Poniz, che ha puntato il dito contro “il mondo della politica” che pretende di impartire una “lezione di garantismo” dopo aver introdotto “le più irrazionali ed ingiuste riforme sostanziali e processuali”. “Rifiutiamo la contesa manichea – ha aggiunto – la prospettazione di scenari apocalittici e ancora peggio l’interessata strumentalizzazione politica di questa o quella posizione”. Più pesanti le considerazioni del procuratore generale Roberto Alfonso: “Non si può sottacere” che la riforma della prescrizione “viola l’articolo 111 della Costituzione – ha detto – con il quale confligge quanto agli effetti incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”. Tutte critiche a cui il ministro della Giustizia Bonafede ha voluto rispondere, assicurando che la riduzione dei tempi dei processi è una priorità della sua azione di governo e smentendo categoricamente di essere un “manettaro”. “Non ho mai detto che la prescrizione è un modo per ridurre i tempi – ha aggiunto – ho semplicemente un’impostazione differente e ritengo ingiusto che lo stato arrivi a un punto in cui, dopo aver speso soldi ed energie per portare avanti l’accertamento di alcuni fatti, a un certo punto quel lavoro debba essere gettato nel nulla a causa del tempo. La mia impostazione è che bisognerebbe lavorare sul tempo. Qualsiasi intervento sull’efficienza dei processi, qualsiasi riduzione del tempo dei processi porterà a far sì che la prescrizione diventi un problema marginale”, ha concluso Bonafede.

Protesta avvocati ad anno giudiziario contro la riforma della prescrizione. A Milano 120 penalisti escono dall'aula per protesta contro Davigo. Il Corriere del Giorno l'1 febbraio 2020. I penalisti italiani contestano la legge voluta dal guardasigilli Bonafedeche, evidenziando che rischia di trasformarsi in un “ergastolo processuale per cittadini imputati a vita”. Gli avvocati dell’ Unione delle Camere Penali in Italia hanno protestato oggi contro la riforma della prescrizione. Le toghe contestano la legge che, evidenziano, rischia di trasformarsi in un “ergastolo processuale per cittadini imputati a vita”. “Abbiamo indicato tre articoli della Costituzione: il 24 che è per il diritto di difesa, il 27 che è la presunzione di non colpevolezza è il 111 che è il giusto processo”, ha detto l’avvocato Giovanni Briola del direttivo della Camera penale di Milano. Quando Marina Tavassi presidente della Corte d’Appello di Milano nel ringraziare i principali ospiti presenti all’inaugurazione ha nominato Piercamillo Davigo dicendo “siamo lieti di accogliere e che per tanti anni abbiamo avuto protagonista nella sede giudiziaria di Milano“, ma proprio  quando ha preso la parola Davigo, gli avvocati della Camera Penale di Milano in segno di protesta hanno lasciato l’aula. Alle urla “vergogna” di uno dei presenti Davigo è stato costretto a interrompere il suo intervento. La sospensione del corso della prescrizione “non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà ‘senza limiti e presenta rischi di incostuzionalità’“. E’ stato uno dei passaggi della relazione del procuratore generale di Milano Roberto Alfonso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “La norma introdotta consente al processo di giungere all’accertamento del fatto e all’eventuale condanna dell’imputato, è ciò anche a tutela della persona offesa, ma non si può sottacere che essa viola l’articolo 111 della Costituzione, con il quale confligge, quanto agli effetti, incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo“. “A nostro modesto avviso la norma presenta rischi di incostituzionalità – ha aggiunto il Procuratore Generale nella sua relazione alla presenza del ministro della giustizia Alfonso Bonafede – essa invero appare irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema, confliggente con valori costituzionali“. A Milano la prescrizione nella fase delle indagini preliminari “incide per il 3,79 per cento“. E negli uffici giudiziari di Milano, ha ricordato Alfonso, ci sono “spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare tempi lunghi del processo“. Nel discorso del procuratore generale Alfonso si legge che per l’imputato “già solo affrontare il processo penale costituisce una ‘pena anche per il disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica esso provoca“. E, quindi “l’inefficienza dell’amministrazione non può ricadere sul cittadino, benché imputato“. Da “oltre un decennio“, ha proseguito il procuratore  Alfonso, “denunciamo gli spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare i tempi del lungo processo, ma certamente la soluzione ai ritardi, alla mancanza di risorse, al difetto di organizzazione, alla inefficienza dei servizi, dunque al mancato rispetto dell’articolo 111 Costituzione da parte dei Governanti, non può individuarsi nella sospensione del corso della prescrizione, a danno dell’imputato”. Per questo “il legislatore con urgenza e con sapienza deve adottare una soluzione che contemperi le due esigenze: la tutela della persona offesa e la garanzia per l’imputato di un processo di ragionevole durata“. “Io rispetto le divergenze dei penalisti, sono fisiologiche”, ha risposto nel suo intervento a Milano  il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, aggiungendo di essere “pronto al confronto con tutti gli attori: condivido che dobbiamo intervenire sui tempi del processo, non ho mai detto che per me la prescrizione è un modo per ridurre questi tempi, non sono manettaro”. Gli avvocati napoletani hanno sfilato in manette per protestare contro la riforma della prescrizione. La provocazione ha di fatto aperto la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario in programma al Maschio Angioino. Le toghe contestano la legge che, evidenziano, rischia di trasformarsi in un “ergastolo processuale per cittadini imputati a vita“. Quando la dottoressa Concetta Lo Curto rappresentante del ministero della Giustizia , gli avvocati si sono alzati in piedi esponendo silenziosamente cartelli di protesta con scritto “rispettate la Costituzione“. “L’Avvocatura, baluardo della democrazia e garante dei diritti, è oggi qui in questa sede, per denunziare i gravissimi attentati ai princìpi e ai valori fondamentali su cui si fonda lo Stato di diritti”, ha detto prendendo la parola il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli Antonio Tafuri. che ha parlato di “odiosa compressione dei diritti della difesa e del ruolo dell’avvocato sta purtroppo caratterizzando la politica giudiziaria anche nel nostro Paese”. Quindi per ben diciassette volte ha espresso il suo “io accuso”contro il potere esecutivo, dalle scelte sui tempi del processo penale alle politiche su processo civile, tributario e sulle carceri, fino all’”abuso delle intercettazioni”. Sulla prescrizione Tafuri ha ribadito: “Io accuso il potere esecutivo che ha abolito la prescrizione, spacciando questa misura come intervento acceleratorio e sapendo perfettamente, invece, che il processo senza prescrizione è un processo che non si concluderà mai”. Il procuratore generale Luigi Riello ha introdotto il suo intervento definendo l’anno appena trascorso come “il più difficile e lacerante per la magistratura perché è esplosa una questione morale anche al nostro Interno. Deve essere chiaro che le erbacce vanno decisamente sradicate, ma è necessario non consentire che sulla nave dei salvatori della Patria e della Giustizia salgano soggetti interessati non a spezzare ignobili collusioni ma a presentare il conto ai magistrati seri”. Gli avvocati penalisti di Catania durante il discorso del rappresentante del ministero della Giustizia alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario , si sono alzati in piedi ed hanno esibito con le mani alzate i testi del Codice Penale. I penalisti di Siracusa hanno lasciato il Palazzo di Giustizia per contestare la carenza dell’organico dei magistrati e del personale amministrativo nel Tribunale del capoluogo , sottolineando anche il disagio dell’intera classe forense nei confronti della recente riforma sulla prescrizione. Protesta anche a Messina dove gli avvocati hanno scelto di assistere alla cerimonia senza indossare la toga, come hanno spiegato in una nota “in segno di protesta e di dissenso nei confronti di chi “non ascolta la voce dell’avvocatura sulla riforma che ha inciso sul decorso del termine di prescrizione del reato”. “Oggi – prosegue la nota – il codice affida ai tempi del processo alla responsabilità della magistratura, prima inquirente e poi giudicante, ma solo un confronto reale e costruttivo con l’avvocatura avrebbe potuto consentire al Ministro di comprendere le ragioni reali della violazione delle norme sul giusto processo“. All’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto di Lecce, i penalisti di Lecce hanno disertato la cerimonia. L’ assenza è stato deliberata dalla Camera penale di Lecce “Francesco Salvi” nel corso dell’assemblea degli iscritti tenutasi ieri. Una protesta contro il governo, ma nel mirino c’è anche il Csm.  La scelta di non prendere parte alla cerimonia presso il Palazzo di giustizia di Lecce, si è basata su queste motivazioni: il “no” alla riforma della prescrizione (già alla base di numerosi scioperi e astensioni) e il poco spazio riservato all’intervento dei penalisti. Le toghe salentine con la loro astensione hanno manifestato la propria solidarietà ai colleghi della Camera penale di Milano per il “caso Davigo” . Nel motivare l’assenza delle toghe della Camera penale leccese in occasione del taglio del nastro del nuovo anno giudiziario, la giunta  esceutiva ha contestato “lo spazio limitatissimo riservato all’Avvocatura” ribadendo “la contrarietà alla legge Bonafede sullo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio e la necessità di assumere forme di protesta proporzionate alla gravità del provvedimento legislativo”. L’ avvocato Egidio Albanese presidente della Camera Penale di di Taranto ha preferito invece fare “passerella”a Lecce  in silenzio, nello stile consueto della città delle “chiacchiere e distintivo“, da sempre appiattita sullo strapotere della magistratura locale. I penalisti tarantini evidentemente preferiscono occuparsi di autobus ed autisti (vedi AMAT, CTP….) e portare a casa 3mila euro al mese ! Guai a contestare la magistratura e tutelare i clienti…

Anno giudiziario, avvocati di Napoli entrano in manette: «Prescrizione, no alla riforma». Errico Novi l'1 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La clamorosa protesta organizzata dall’Ordine forense partenopeo, i cui rappresentanti sono entrati nella sala della cerimonia inaugurale con i ferri ai polsi e la Costituzione sotto al braccio, per protestare contro la norma Bonafede. Il segnale di una insofferenza non più sostenibile, della determinazione a battersi con tutte le forze contro la riforma della prescrizione, era emersa nell’avvocatura già nei giorni e nei mesi scorsi. Ma alla cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario celebrata questa mattina a Napoli, il dissenso ha raggiunto forse la sua espressione più clamorosa: gli avvocati sono entrati nella sala in manette e con la Costituzione sotto al braccio. Una delle forme di protesta più dirompenti che si ricordino da parte della professione forense. A metterla in atto, nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino dove si tiene l’inaugurazione presso la Corte d’appello napoletana, è l’Ordine degli avvocati del capoluogo. Che ha esposto decine di cartelli con su scritto “rispettate la Costituzione”. E che dà così seguito a una mobilitazione ormai incessante da parte dell’intero ceto forense, e in particolare dei penalisti. È di martedì scorso infatti la manifestazione organizzata a Roma dall’Unione Camere penali, che hanno presidiato piazza Montecitorio proprio nel giorno in cui, alla Camera, è arrivata in aula la legge Costa, che abrogherebbe la riforma Bonafede. La norma voluta dal Movimento 5 Stelle e in particolare dal ministero della Giustizia elimina l’effetto della prescrizione una volta pronunciata la sentenza di primo grado. È in vigore, sotto tale forma, dal 1° gennaio. E anche se dispiegherà materialmente la propria efficacia quando si sarà consumato il termine di prescrizione per i reati più lievi (che si estinguono in 5 anni) tra quelli commessi dall’inizio di quest’anno, fin da subito la modifica dell’istituto ha iniziato a condizionare la prospettiva dei nuovi indagati. I quali sanno di dover fare i conti con il rischio che già un eventuale rinvio a giudizio spalanchi dinanzi a loro l’incubo del processo senza fine.

Inaugurazione anno giudiziario: pm criticano protesta avvocati, ma nel 2010 furono loro ad andarsene…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. Inaugurazione anno giudiziario 2020 a Milano: quando lui prende la parola, loro si alzano, brandiscono la Costituzione e se ne vanno.  Anno giudiziario 2010: quando lei sta per iniziare il suo discorso, loro se vanno agitando il libretto della Costituzione. Lezioncina per tutte le anime belle che nei giorni scorsi si sono stracciate le vesti perché gli avvocati (cafoni!) volevano imbavagliare il dottor Davigo rifiutandosi di confrontarsi con colui che in un’intervista sul suo organo di famiglia li aveva accusati di far solo il proprio interesse. Per tutti loro un breve ripasso su quello che era accaduto dieci anni prima, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2010. A Milano prese la parola Maria Elisabetta Casellati, sottosegretario alla giustizia del quarto governo Berlusconi, una giurista preparata e molto istituzionale, che in seguito si dichiarò semplicemente «dispiaciuta» per il comportamento di certi magistrati. Loro, un drappello piuttosto nutrito capitanato dal procuratore aggiunto Armando Spataro, lasciarono sdegnosamente l’aula agitando con foga la Costituzione neanche fosse il libretto rosso di Mao. Non volevano ascoltarla, proprio come oggi gli avvocati nei confronti di Davigo. Con una differenza sostanziale. Colui che nel pool di Mani Pulite veniva definito il “dottor sottile” ( cosa di cui oggi molti si domandano il perché) ha più volte esplicitamente affermato che la lunghezza dei processi e la conseguente inevitabilità della prescrizione dei reati è responsabilità di azzeccagarbugli astuti e interessati a tirare in lungo. Quella degli avvocati è dunque una forma di autodifesa. La protesta del 2010 era prima di tutto organizzata da un organismo sindacale, l’Anm il cui presidente si chiamava Luca Palamara, alla vigilia della campagna elettorale di primavera per il rinnovo del Csm, in cui immaginiamo il presidente molto impegnato e attivo. Inoltre era tutta politica ed esplicitamente contro il governo Berlusconi, contro il ministro guardasigilli Angelino Alfano e soprattutto contro una serie di riforme che quell’esecutivo cercava con fatica di far approvare dal Parlamento. Sembra preistoria, invece siamo sempre nello stesso pantano. Le riforme sulla giustizia vengono sempre bloccate dalla magistratura, che spesso si fa una e trina, ritenendo di poter svolgere i tre ruoli di potere legislativo esecutivo e giudiziario. Quelle riforme si chiamavano processo breve, intercettazioni, riforma dell’ordinamento giudiziario, prescrizione. Si cercava di dare tempi certi ai diversi gradi di giudizio ( al massimo sei anni e mezzo in tutto, aveva sentenziato Berlusconi) , con i limiti della prescrizione accorciati dall’ex Cirielli, la legge che fu modificata in seguito dal ministro Andrea Orlando. Scoppiò il finimondo, perché se c’è qualcosa di inaccettabile per un magistrato, è dover sottostare a regole sui tempi del proprio lavoro. Persino sulle proprie ferie, come ben sa l’ex premier Matteo Renzi, che pagò cara la battuta di irridente finta paura (“brr”) a commento delle proteste sul suo progetto di modifiche dei piani delle loro vacanze. Il magistrato non vuole vincoli né limitazioni, le sue mani devono essere sempre libere. Berlusconi fu accusato di preparare leggi ad personam invece che erga omnes, come se, una volta che viene approvata una legge, questa non valesse poi per tutti. Il problema vero alla fine è: ma è stata o no una buona riforma? E così si torna a quella di oggi sull’abolizione della prescrizione. E all’immagine di due giorni fa a Milano. A quell’aula piena di autorevolezza e di ricordi, quella sontuosa nei marmi dell’architetto Piacentini del palazzo di giustizia. La folla delle toghe rosse in ermellino pare sovrastare i due piccoli uomini in borghese, il dottor Davigo e il ministro Bonafede che ascoltano sempre più pallidi prima la presidente della corte d’appello Marina Tavassi («La nuova riforma pone inevitabili problemi in relazione ai principi costituzionali, a partite da quello della ragionevole durata del processo»), poi il procuratore generale Roberto Alfonso, che sfida apertamente i due piccoli uomini in borghese con un argomento che per loro è come se stesse passando il gesso sulla lavagna. «Non possiamo non tenere conto – dice l’anziano magistrato, che intona quasi il canto del cigno alla vigilia della pensione – che per il cittadino imputato, assistito dalla presunzione di non colpevolezza, già solo affrontare il processo penale costituisce una pena, nel senso della sofferenza, dell’afflizione, del disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica provoca conseguenze anche economiche». Di fronte a parole che raramente si sentono in bocca a un magistrato, pare diventare piccolo anche quel congedo pieno di rancore con cui in quell’aula il procuratore generale Francesco Saverio Borrelli gridò che bisognava «resistere resistere resistere» come sulla linea del Piave contro Silvio Berlusconi. E poco significativo pare lo schieramento con Davigo e Bonafede, isolati dai più alti vertici della magistratura, a Roma come a Milano, del presidente dell’Anm Luca Poniz, che pare oggi quasi identificarsi con il suo antenato Luca Palamara che organizzava le barricate mettendo il bavaglio ai rappresentanti di un governo che non era certo stato instaurato con un colpo di Stato, ma dopo legittime e democratiche elezioni.

Liana Milella per “la Repubblica” il 2 febbraio 2020. Era il 12 gennaio 2002. Le toghe sfilarono con la Costituzione in mano contro le leggi ad personam di Berlusconi. Francesco Saverio Borrelli pronunciò il suo "resistere, resistere, resistere". Gli avvocati furono con lui. L' opinione pubblica ne condivise il gesto. Il Pd anche. Diciotto anni dopo gli avvocati si ammanettano davanti ai giudici. Contestano prescrizione e governo, ma anche le toghe per via di Davigo. Un tutti contro tutti che fa dire all' ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick: «È una degenerazione generale, non ci sono più riforme organiche, ma solo interventi sporadici. Mi riconosco nelle parole assennate di Mammone e Salvi. M5S s' incaponisce sulla prescrizione che non può cambiare. Il Pd dice facciamo a metà, che è come dire "la signora è incinta, sì un poco", la verità è che l' unico obiettivo è evitare scossoni nella maggioranza». La prescrizione bloccata solo per gli assolti? «Andate a leggervi la mia sentenza sulla legge Pecorella del 2007, lì è scritto che non ci può essere differenza tra condannati e assolti». La querelle sulla prescrizione apre un baratro tra politica, toghe, avvocati. In cui rischia di precipitare la giustizia. Come sette mesi fa il Csm e la magistratura sono sprofondati nel caso Palamara. Tant' è che ora non c' è nomina del Csm che non crei sospetti e costringa il vice presidente David Ermini a dire: «Quella vicenda non ce la dobbiamo scordare mai, dev' essere superata, ma non ignorata». Due colpi in sequenza precipitano lo share dei giudici. Che restano nudi e soli quando il Guardasigilli Alfonso Bonafede vuole cambiare la legge elettorale del Csm e porre tempi rigidi ai processi con tanto di scure disciplinare. Dice Nello Rossi, direttore della rivista online di Magistratura democratica, "Questione giustizia": «Si può mai immaginare lo scenario irrealistico e grottesco di pm e giudici disposti a fare una giustizia accelerata, o peggio sommaria, per scansare le conseguenze disciplinari? I magistrati non lo farebbero mai. E comunque è davanti a questa prospettiva che gli avvocati dovrebbero rabbrividire e protestare in manette». E invece le Camere penali scelgono di scatenarsi contro la prescrizione e chi come l' Anm ne difende il taglio. È una frattura pesante che fa dire all' avvocato e giurista Vittorio Manes: «Dobbiamo contrastare una cultura anti garantista fatta a colpi di slogan che emerge dalle riforme, la dilatazione a dismisura dell' intervenuto penale, l' introduzione di pene sproporzionate, la mortificata presunzione d' innocenza, la certezza non della pena, ma del carcere come luogo di marcescenza e non di recupero». Il protagonismo degli avvocati isola i magistrati. Che hanno perso negli anni uno sponsor importante come il Pd. L' ex procuratore di Torino Armando Spataro è scettico: «Non credevo prima che ci fosse un fil rouge tra magistrati e Pd e non credo ora che ci siano i muri. Ignoro quale sia la linea dei dem, ma prevedere un' azione disciplinare legata al ritardo è inaccettabile, perché già ora quelli gravi e colpevoli sono puniti. Chiunque prevede un automatismo di questo genere sbaglia, al pari di chi tace di fronte a una tale impresentabile proposta». Il Pd non sta più coi giudici? L' attuale responsabile Giustizia dei Dem Walter Verini è netto: «Abbiamo difeso l' autonomia della magistratura quando era minacciata, ma criticato atteggiamenti che debordavano dalla sobrietà. La riforma del processo penale non sarà fatta per punire nessuno, ma per avere tempi certi in un regime di giusto processo». E la prescrizione di Bonafede? «Tutto quello che è negativo va rimosso. Come dice Zingaretti serve con un compromesso che aiuti a rasserenare il clima. Però bisogna deporre le armi». Ma una toga come Eugenio Albamonte, segretario della corrente di sinistra Area, ribatte: «In passato il Pd si confrontava con noi, con gli avvocati, con i grandi giuristi, ora non lo fa più. Idem i 5stelle». Magistratura in crollo di credibilità? È uno sfascio che non vede l' ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati: «Abbiamo una politica divisa dopo le forzature del governo gialloverde e una magistratura che ha dovuto affrontare la crisi profonda del Csm. Fa notizia lo scontro nei talk show tra alcuni magistrati e alcuni settori dell' avvocatura, ma la realtà è ben diversa. Magistrati e avvocati hanno migliorato il servizio giustizia. Passi insufficienti, ma significativi per i cittadini». E quando la giornata si chiude ecco il ramoscello d' ulivo del presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin: «Oggi c' è una situazione di disagio tra noi e i giudici dettata da una politica che privilegia il consenso elettorale, ma una forte alleanza con le toghe potrà garantire una giurisdizione di assoluta qualità ». Pg di Milano. Il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso.

Prescrizione: la verità è che non diminuiranno i processi né la loro durata, anzi non ci sarà mai fine. Alessandro Parrotta,  avvocato, direttore Ispeg Istituto per gli studi politici, economici e giuridici, il 2 Febbraio 2020 su Il Dubbio.  La notizia è nota e se ne parla ormai da qualche mese: dal primo gennaio il corso della prescrizione nel processo penale è sospeso – sine die – a seguito del primo grado di giudizio, sia esso terminato con una condanna o con un’assoluzione. Ciò che però non è stato, a parere di chi scrive, veramente analizzato – dal punto di vista tecnico giuridico – sono le ripercussioni che questa modifica avrà nel processo penale e nel sistema giudiziario italiano in generale. Il – necessario – punto di partenza per un’analisi in tal senso risiede nella circostanza per la quale i processi in questa maniera non diminuiranno assolutamente, né diminuirà la loro durata, ma, al contrario, potrebbero non finire mai, lasciando il presunto innocente in una insopportabile fase di stallo, in un limbo eterno. Questo dato è utile perché coloro che elogiano questa riforma fanno leva, per l’appunto, su un’asserita diminuzione dei processi e della loro durata. Evenienza, come detto, falsa. Ed infatti, paradossalmente la ratio della prescrizione è proprio rinvenibile nell’esigenza di rispettare il fondamentale principio della ragionevole durata del processo: la prescrizione è, invero, la sola sicurezza circa il fatto che il processo avrà una fine. Senza questo timer, senza questa clessidra, che granello dopo granello, detta i tempi ai giudici, sollecitandoli ad agire, gli stessi potranno protrarre un giudizio penale per anni. Fine pena ( peraltro non definitiva) mai, dunque. Il paradosso, come detto, risiede nella circostanza per la quale un imputato assolto in primo grado potrà rimanere sotto processo per l’intera durata della sua vita, in quanto nessuna regola imporrebbe ai magistrati di agire. Poniamo il caso, ad esempio, che il secondo grado di giudizio venga celebrato a distanza di molti anni dal deposito della sentenza di primo grado: in questa ipotesi l’applicazione di una sanzione penale diverrebbe addirittura inutile ed inopportuna in quanto la società non avrebbe più alcun interesse a punire l’imputato. Peraltro, in questo contesto perderebbe di tutto il proprio valore la funzione rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, c. 3 della Costituzione: l’imputato – assolto o condannato in primo grado – inizierebbe a scontare la pena a distanza di molto tempo dalla commissione del fatto e non trarrebbe dall’esecuzione penale alcuna rieducazione. Tuttavia, come detto in altre sedi, le strade percorribili per diminuire veramente la durata ed il numero dei processi penali ci sono e sono numerose: il problema del sistema giudiziario nostrano risiede nella mancanza di strumenti di prevenzione alla commissione di un reato. Il passo da operare dovrebbe essere quello di passare definitivamente da un concetto di repressione ad uno di prevenzione. Un ulteriore mezzo sarebbe quello di aumentare il personale operante nelle cancellerie dei magistrati, dove i pochi funzionari, privi di risorse e mezzi, non possono ottemperare a tutte le varie incombenze, accumulando, così, ritardi ed errori su tutti i fascicoli processuali.

Prescrizione è "ergastolo processuale", avvocati in manette. Procuratore ammette: “Situazione comatosa”. Redazione de Il Riformista il 1 Febbraio 2020. Avvocati in manette e con la Costituzione stretta sotto il braccio all’inaugurazione dell’Anna giudiziario a Napoli, in programma sabato mattina, 1 febbraio, nella sala dei Baroni del Maschio Angioino. L’Ordine degli Avvocati di Napoli, presieduto da Antonio Tafuri, ha deciso di protestare così contro la riforma Bonafede sulla prescrizione che viene definita ‘l’ergastolo processuale’. Presenti anche cartelli con la scritta “Rispettate la Costituzione”, esposti durante il discorso del rappresentante del Ministero della Giustizia, Concetta Lo Curto. Il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, lancia un appello per proporre una “riforma strutturale” del processo penale in Italia dopo un “confronto franco” tra avvocati e magistrati. “La Corte d’Appello di Napoli è assediata da più di 80 mila ricorsi all’anno, numeri unici al mondo”. Sulla prescrizione Riello chiude, probabilmente, tutti e due gli occhi. “E’ negativa ma condivisibile anche se da sola non basta perché calata nella comatosa situazione italiana si tradurrebbe in un ergastolo processuale, soprattutto a Napoli” questo, in sintesi, il suo pensiero, prima di ritornare sulla questione morale, già anticipata nei giorni scorsi: “E’ stato l’anno più difficile e lacerante per la magistratura italiana” perché “è esplosa una questione morale all’interno della magistratura italiana a cominciare dal suo organo di autogoverno e noi dobbiamo essere severi nel denunciare quanto accaduto: le erbacce vanno decisamente sradicate”. I NUMERI –  E’ diminuito del 7,13% il numero complessivo dei delitti commessi a Napoli e provincia, passati da 135.133 del 2018 a 125.498 nel 2019. In particolare risultano diminuiti in modo particolare le lesioni dolose, passate da 4.115 a 3.730, ma anche le violenze sessuali, i furti, le associazioni a delinquere semplici. E’ quanto emerge dalla relazione del presidente della Corte d’appello di Napoli nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, Giuseppe de Carolis. 

Prescrizione e giustizia show sono “una boiata pazzesca”: due magistrati contro il partito dei Pm. Piero Sansonetti de Il Riformista il 1 Febbraio 2020. Il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, diciamo pure il capo della magistratura, nel suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario ha spiegato che la riforma della prescrizione – per usare un linguaggio caro a Paolo Villaggio – è una boiata pazzesca. Danneggerà il funzionamento della giustizia al solo scopo di ledere i diritti degli imputati e di incattivire i rapporti tra magistratura e avvocatura. Capolavoro. Chi l’ha pensato questo capolavoro? Chi intende ancora difenderlo? Il Procuratore generale della Cassazione, invece, cioè Giovanni Salvi, ha demolito la giustizia spettacolo, la subalternità degli inquirenti alle pressioni mediatiche, i decreti sicurezza del governo, la politica xenofoba sull’immigrazione, il panpenalismo, i magistrati che fanno retorica “eroista” e narcisista, la paura come strumento di governo, l’idea che la punizione sia la salvezza di una società… e anche altre cose. Diciamo che mettendo insieme i due discorsi si può giungere a questa conclusione (stavolta sostituendo Paolo Villaggio con Gino Bartali): l’è tutto da rifare. Forse è sbagliato scherzare. Senza forse. L’apertura dell’anno giudiziario, dopo le polemiche molto aspre dei giorni scorsi, soprattutto tra avvocati e partito dei Pm, ha portato delle novità importanti e spinge ad alcune riflessioni. La novità fondamentale è questa: esiste una parte della magistratura capace di discutere di giustizia e di giurisdizione senza immaginare che la giustizia e la giurisdizione possano essere identificate con la magistratura stessa, con le sue aspirazioni etiche, con i suoi interessi materiali. È importante che esista questa anima democratica della magistratura, che ieri si è espressa a una notevole altezza culturale. In netto ed evidentissimo contrasto con la modestia culturale che nei giorni scorsi aveva caratterizzato le polemiche del partito dei Pm e del suo giornale. Ed è anche molto importante che questa parte della magistratura abbia rappresentanti ai vertici. Il Presidente della Cassazione e il Procuratore generale sono persone di grande prestigio e hanno un ruolo di enorme peso sulla vita della giustizia. Poi però c’è l’altra faccia della medaglia. La riflessione numero due: come è possibile che queste preoccupazioni così forti da parte dei vertici della magistratura non abbiano nei giorni scorsi trovato nessuna espressione, a nessun livello, nel corpo grande e vasto della stessa magistratura? Come si può immaginare che la magistratura italiana abbia dei vertici molto illuminati, ma poi si raccolga tutta compatta, senza dissensi, senza fiati di critica, attorno al partito dei Pm, che è controllato in modo quasi militare dalle correnti, dai loro equilibri, e dal carisma di magistrati come Gratteri, o Davigo, o dai vertici dell’Anm, o anche da personaggi esterni, ma molto potenti, come per esempio il ministro Bonafede o il capo dei 5Stelle e cioè Marco Travaglio? Non è una domanda “politologica”. È politica. Riguarda i rapporti di forza tra i sostenitori dello Stato di diritto e il partito dei populisti e dei Pm. È paradossale che il governo – guidato dai 5 Stelle – imponga al Parlamento la fine della prescrizione e la proclamazione del processo eterno (e del diritto dei magistrati di dominare gli imputati senza limiti di tempo) per fare piacere ai magistrati, e che poi, alla prima cerimonia ufficiale, i vertici della magistratura spieghino che quella riforma è una vera e propria stupidaggine che creerà danni seri alla giustizia e limiterà i diritti costituzionali degli imputati. C’è qualcosa che non funziona, no? Scusate se lo dico in modo così brutale: secondo me quello che non funziona è la negazione di un fatto innegabilmente avvenuto in questi anni: un settore eversivo e autoritario della magistratura, di ispirazione fortissimamente reazionaria e giustizialista, è riuscito a creare una struttura politica – parallela ma al tempo stessa interna al Parlamento e alla stessa magistratura – capace di esprimere un potere formidabile, di condizionare i partiti, le leggi, le norme, le politiche, e anche le reti di potere nell’Ordine giudiziario. È una struttura vera e propria, che naturalmente passa dentro l’Anm e i partiti politici, si esprime attraverso i gruppi parlamentari dei 5 Stelle, trova una forza immensa nelle ampie capacità di controllo sulla stampa e sulla Tv, controllo che avviene attraverso lo strumento intimidatorio del Fatto Quotidiano ma che va molto oltre Il Fatto Quotidiano, e che comunque non trova nessun ostacolo serio, tranne alcuni piccoli quotidiani ( noi, il Foglio, Il Dubbio e quasi nient’altro) e qualche piccola stazione radio (Radio Radicale e basta). Sapete quando si parla, a vanvera, di P2, di P3, di P4 eccetera eccetera? Stupidaggini. Qui invece siamo effettivamente di fronte a una vera e propria struttura parallela e potentissima, in grado di condizionare e sottomettere il potere legittimo della democrazia. Raccontare queste cose vuol dire violare la correttezza politica? O l’omertà dovuta alla propria categoria? Vuol dire rompere i confini e i limiti della buona educazione? Non lo so. Forse. Però le cose stanno esattamente così. I discorsi di Mammone e di Salvi hanno riscaldato il cuore a quelli di noi, non molti, che credono allo Stato di diritto, e considerano il garantismo un gran valore della civiltà occidentale. Però sappiamo che non cambieranno molto le cose. Che il partito dei Pm comunque resta il partito politico più forte nel nostro Paese. e che sta assumendo connotati sempre di più reazionari ed estremisti. Ha un disegno di fondo, che è quello dell’accumulo del maggior potere possibile. E nella sua strategia di potere c’è la riduzione dei diritti della difesa, l’indebolimento del ruolo degli avvocati (che sono gli unici che si oppongono), il congelamento degli aspetti più moderni dello Stato di diritto. Il disegno di una società autoritaria costruita tutta attorno al valore del giudizio, della repressione e della pena. Grazie a Salvi, certo, e grazie a Mammone. E poi? O la politica si mette in moto e abbandona la sua tradizionale codardia, e organizza la resistenza, o i discorsi di Salvi e Mammone varranno un po’ meno di un’avemaria. 

Alfonso Bonafede bocciato da tre procure, Pietro Senaldi: perché deve lasciare il ministero. Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. Se il ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, fosse in buona fede, si dimetterebbe. Le quintalate di letame che all' inaugurazione dell' anno giudiziario i più alti magistrati della Repubblica, dalle Alpi al canale di Sicilia, hanno scaricato sul suo lavoro non ammettono altre vie d' uscita. La giustizia è una nota dolente del sistema Italia da decenni e sistematicamente i presidenti delle Corti più importanti lo denunciano con toni accorati e rimproveranti. Ma mai il j' accuse è stato così violento e uniforme, quasi che intenzionalmente l' indice di tutti i tribunali e le procure del Paese puntasse sul Guardasigilli e sul governo che lo sostiene. Il procuratore di Milano, Roberto Alfonso, ha definito la riforma di Bonafede «irragionevole, incoerente e soprattutto anticostituzionale». Quello di Torino, Francesco Saluzzo, ha detto che togliere la prescrizione al sistema processuale italiano equivale a togliere il medico a un malato. La presidente della Corte d' Appello di Firenze, Margherita Cassano, ha aggiunto che l' eliminazione del termine di decadenza «allunga inevitabilmente i tempi dei giudizi e non si concilia con l' idea di giusto processo». Il giorno prima a Roma, il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Mammone, aveva pronosticato che «i provvedimenti del Guardasigilli anziché snellire il sistema, creeranno 25mila nuovi giudizi l' anno». Dalla Capitale e da Milano sono poi arrivate durissime autocritiche anche alla magistratura, accusata di «improprio collateralismo con la politica» e messa alla sbarra per lo scandalo delle trame di potere emerse in sede di designazione dei componenti del Csm.

INTOCCABILE. Se il Guardasigilli fosse sinceramente animato dall' intenzione di migliorare il funzionamento della giustizia, oggi sarebbe sotto un treno. Le critiche di quasi tutta la magistratura non potrebbero non scuoterlo e non insinuargli il sospetto che la sua riforma fa schifo, complica i problemi anziché risolverli. Avvocato siculo trapiantato a Firenze, di non chiara fama ma di buone conoscenze, Bonafede dovrebbe tenere in considerazione l' opinione di chi di diritto ne sa più di lui. Invece no, si fa forte del ruolo, sale in cattedra e replica: «Per me ho ragione io, la mia riforma non è anticostituzionale, mi spiace se mi danno del manettaro». Un po' come se uno dei tanti signor Nessuno del Milan oggi si alzasse pretendendo di spiegare il calcio a Zlatan Ibrahimovic. L' arrocco disarmante del ministro dimostra che dei problemi della giustizia, e dei cittadini che finiscono nel suo gorgo, non gli importa nulla. Altrimenti non avrebbe detto che «in Italia gli innocenti non finiscono in carcere», sebbene poi se lo sia rimangiato, provando a mettere una toppa peggio del buco: «Intendevo dire gli assolti». E ci mancherebbe Bonafede deve pagare una cambiale politica che i grillini hanno sottoscritto con i loro elettori e con gli organi di stampa che li hanno descritti come la parte migliore del Paese, mentre sono la peggiore, sia quanto a competenze sia quanto a moralità, perché oltre che incapaci, sono ipocriti e mossi solo da interessi di bottega. Il 34% che non c' è più ai cinquestelle l' hanno dato i fannulloni che ambivano al reddito di cittadinanza e i manettari con la bava alla bocca che volevano in carcere chiunque se la passasse meglio di loro. M5S ha pagato la prima tranche con il sussidio, che si sta rivelando costoso e controproducente, oltre che assegnato a capocchia, e ora salda la seconda, abolendo la prescrizione pur sapendo che è una misura ingiusta e che allunga i processi anziché accorciarli.

L'ILLUSIONISTA. Al ministro Bonafede, un illusionista dai modi affabili e gli intenti malandrini, un po' come il gatto di Pinocchio, non manca solo la buonafede. Egli difetta del senso delle istituzioni che il suo ruolo richiede. Il rispetto della funzione, e anche un po' quello di se stesso, gli imporrebbero di prestare orecchio ai lamenti del mondo della giustizia verso la sua azione distruttiva. Non lo fa e tira dritto; evidentemente gli manca l' uno e l' altro. A questo punto, visto che il Guardasigilli è sordo e non tira le somme della propria inadeguatezza, dovrebbero pensarci il premier Conte e il Pd e Italia Viva, soci del governo giallorosso, a mettere alla porta l' inquilino di via Arenula. Il grido di dolore dei magistrati, degli avvocati e degli italiani è rivolto anche a loro. Il ministro è da scartare. Se il premier e Zingaretti non provvedono, ne diventano complici. E anche Italia Viva, dopo tanto agitar di braccia, sferri almeno un calcio. Questo è di rigore. Pietro Senaldi

«Prescrizione incostituzionale!». Signori, lo dice il pg di Milano. Errico Novi l'1 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La sentenza di Roberto Alfonso all’inaugurazione dell’anno giudiziario nella Corte d’appello del capoluogo lombardo. C’è pure il ministro Bonafede: «Rispetto ma non condivido». Ma gli applausi degli avvocati sono tutti per il procuratore generale. Milano è sempre Milano, verrebbe da dire. E lì che divampa la polemica già alla vigilia, per la richiesta avanzata dalla Camera penale: Piercamillo Davigo non intervenga all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Poi però la cerimonia nella Corte d’appello del capoluogo lombardo arriva davvero. Davigo c’è. Ma c’è pure il procuratore generale Roberto Alfonso. Che pensa lui a incenerire la riforma Bonafede: «Prescrizione incostituzionale», è la sua sentenza. Il ministro si difende con il suo stile dialogante ma sempre integralista: «Rispetto ma non sono d’accordo». Eppure resterà storico, come un macigno irremovibile, il giudizio del più importante magistrato inquirente del distretto da cui tutto sempre nasce, pure Mani pulite: «Non si può sottacere» che la riforma della prescrizione «viola l’articolo 111 della Costituzione, con il quale», ricorda il pg, «confligge quanto agli effetti, incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo». Applausi in sala. Vengono dagli avvocati, naturalmente, gli avvocati del Foro in cui la mistificazione della “politica corrotta salvata dal reato prescritto” ha una sorta di sua cattedrale nera. Il procuratore generale Roberto Alfonso prosegue: «Non possiamo non tenere conto che per il cittadino imputato, assistito dalla presunzione di non colpevolezza, già solo affrontare il processo penale costituisce una pena, nel senso della sofferenza, dell’afflizione, del disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica provoca conseguenze anche economiche». Il ministro si difende, dunque. L’argomentazione però non è robusta, perché non entra nel merito del rilievo del pg. «Rispetto la sua opinione», dice il guardasigilli, «ma è evidente che se è una proposta che ho portato avanti, dal mio punto di vista non c’è nessuna incostituzionalità». Si limita, Bonafede, a evocare il contesto europeo che darebbe ragione alla sua scelta, senza però precisare che nei Paesi in cui  la prescrizione è diversa da com’era prima dell’ultima riforma, sono assai diversi pure i tempi dei processi: «Voglio ricordare che si fa sempre riferimento al contesto internazionale e che in tutta Europa vige in maniera diversa un sistema di prescrizione che è, non dico identico, ma si avvicina al modello che è stato introdotto: prendo come esempio la Germania». Finisce con alcuni avvocati della Camera penale di Milano che, quando Davigo prende la parola, lasciano la sala. E con il presidente dell’Anm Luca Poniz (erano tutti a Milano, stamattina) promette mobilitazioni delle toghe se resterà la sanzione disciplinare per i giudici lenti. Ma resta, in realtà, solo quel giudizio di uno che di mestiere fa il pm, al più alto grado: «Prescrizione incostituzionale!». Sacrosanto.

Anno giudiziario, Mammone: nuova prescrizione, rischio collasso. Errico Novi l'1 Febbraio 2020 su Il Dubbio. La relazione del primo presidente della Suprema corte all’inaugurazione dell’anno giudiziario: la riforma, dice, finirà per «prolungare la durata dei giudizi» e per produrre anche in Cassazione «una prevedibile crisi». Ma resta la fiducia nel «sereno confronto» tra avvocati e giudici. Ci si può anche dividere. Ma si resta sempre accomunati dal «comune interesse al corretto funzionamento della giustizia». Il primo presidente della Suprema corte Giovanni Mammone offre un esempio. Anche rispetto alle prospettive di riforma del processo. Inizia nel ringraziare tutti coloro, non solo i magistrati ma anche «avvocati e personale della giustizia», che garantiscono una funzione cruciale per la democrazia. Conclude la sua relazione alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario 2020 con quella convinzione che tutti gli attori del sistema siano sollecitati dal comune obiettivo a «un impegno di sereno confronto e di reciproca collaborazione». Ma ecco, se è possibile, nel giorno in cui l’aula magna della Cassazione riunisce i protagonisti della giurisdizione, affermare con serena fiducia il valore della dialettica, allora anche i rilievi del primo presidente sulla «riforma della prescrizione» che secondo molti «prolungherà la durata dei processi» e che produrrebbe una «prevedibile crisi» per il «giudizio di legittimità», anche tale critica acquisisce un significato particolare. Forse con il vertice della Suprema corte si introduce per la prima volta, nel dibattito sulla prescrizione che lacera i partiti da mesi, un elemento di ragionevolezza da cui persino la politica non potrà prescindere. Mammone è anche componente di diritto del Csm e non manca di soffermarsi sulla vicenda che lo ha scosso. Dell’organo di governo autonomo, avverte, «va salvaguardata l’immagine e l’integrità morale». Va riaffermato con forza «il ruolo fondamentale» che il Consiglio superiore «ricopre nell’assetto costituzionale». Anche «l’immagine di un tentativo strumentale di indirizzare l’attività consiliare a fini di parte ha non poco colpito l’opinione pubblica, e ha minato la fiducia che i magistrati stessi pongono nel corretto esercizio delle funzioni del loro organo di governo autonomo». Un ringraziamento, quindi, va al presidente della Repubblica Sergio Mattarella «per la saldezza e la determinazione con cui è intervenuto per ricondurre l’azione del Consiglio superiore alla normalità istituzionale» . Rispetto ai rischi che possono derivare dalle nuove norme sulla prescrizione, «è auspicabile che intervengano concrete misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi», ricorda il primo presidente. Che però non pare affatto guardare a modifiche in grado di comprimere le garanzie, visto che auspica anche «misure acceleratorie non solo nella parte del processo successiva al primo grado, ora non più coperta dalla prescrizione, ma anche nelle fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi» e, appunto, l’estinzione del reato per l’avvenuto decorso dei termini. In ogni caso si dovrà fare i conti con il rischio che la riforma prolunghi la durata dei procedimenti e procuri «ulteriore carico per la struttura giudiziaria, di modo che coloro che siano sottoposti a processo, dopo la sentenza di primo grado, potrebbero rimanere ancora per lungo tempo in questa condizione». E aggiunge che le stesse vittime del reato «vedrebbero prolungarsi i tempi della risposta di giustizia e del risarcimento del danno». Una parte consistente della relazione di Mammone riguarda l’insieme dei rilievi statistici, sia generali che relativi alla Suprema corte. Se per quest’ultima c’è ora anche il rischio di «un incremento di 20- 25mila processi l’anno», pari al numero dei giudizi che si estinguono «per prescrizione in secondo grado», c’è un altro fattore che già adesso condiziona in maniera visibile il dato sulle pendenze, in particolare nel civile: si tratta del «travaso», davanti al giudice di legittimità, delle «impugnazioni in materia di protezione internazionale». Come ricorda il vertice della Suprema corte, «a seguito del decreto 13 del 2017, che ha reso il provvedimento» sulle richieste di asilo, «ricorribile solo per Cassazione», le impugnazioni in materia «prima diluite tra le Corti di appello, sono affluite tutte nella Suprema corte, e la hanno oltremodo gravata». Le sezioni civili, nel 2019, hanno visto «un aumento del 3,7% dei ricorsi iscritti, un contenuto aumento dell’ 1,86% dei procedimenti definiti e l’aumento del 5,4% della pendenza generale». Ma rispetto al 2014, nell’anno trascorso «i procedimenti pendenti sono aumentati del 16,1%», addirittura. Tutto dipende appunto da quei ricorsi per la protezione internazionale passati da «374 unità nel 2016» a ben «10.341 nel 2019». In campo penale invece – almeno per ora – la tendenza è assai più incoraggiante. «La Corte di Cassazione», spiega il suo presidente, «con orgoglio può affermare che nell’anno 2019 i ricorsi penali sono stati decisi in un tempo medio di soli 167 giorni, 13 meno che nel 2018, e che pochissimi sono i casi di prescrizione maturati nel corso del giudizio di legittimità». Non solo c’è stato un calo delle «sopravvenienze» del 2,2% ma si è anche registrato «un positivo indice di ricambio che, anche nel 2019, si attesta sopra il 100%. Vuol dire che «per ogni 100 ricorsi iscritti in cancelleria penale, ne sono stati esauriti quasi 102». Non si può prescindere dai numeri. Ma nella parte conclusiva dell’intervento in cui sintetizza la sua ampia relazione, il primo presidente ricorda che sì, «razionalizzazione e adeguamento dei metodi di lavoro stanno dunque inserendosi nella cultura stessa del decidere». Poi però ricorda: «L’incremento del numero delle decisioni non può costituire un obiettivo assoluto», perché «per la sua funzione primaria la Corte deve emanare pronunzie convincenti, che per motivazione e autorevolezza si impongano dinanzi ai giudici di merito e agli utenti della giustizia».

Prescrizione, la Cassazione boccia Bonafede: “25mila processi in più, andremo in crisi”. Redazione de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. La riforma della prescrizione potrebbe creare “un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere trattato“. A lanciare l’allarme è il presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Secondo la suprema Corte “si prospetta un incremento del carico di lavoro della Cassazione di circa 20.000-25.000 processi per anno, corrispondente al quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado“. Un peso lavorativo che secondo Mammone avrà vari effetti, ancora di difficile definizione, con “le vittime del reato che vedrebbero inoltre prolungarsi i tempi della risposta di giustizia e del risarcimento del danno patito“. Pertanto, insiste il presidente, “risulta necessario porre allo studio e attuare le più opportune soluzioni normative, strutturali e organizzative tali da scongiurare la prevedibile crisi che ne deriverebbe al giudizio di legittimità” auspicando “che intervengano concrete misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi processuali”.

LA RICHIESTA DI ‘CONTRAPPESI’ – Un giudizio che se non stronca la riforma, ne richiede con forza dei contrappesi, per evitare un collasso del sistema giustizia. Anche il procuratore generale del Palazzaccio, Giovanni Salvi, sottolinea: “Finché la prescrizione sarà, non un evento eccezionale causato dall’inerzia della giurisdizione, ma un obbiettivo da perseguire, nessun rito alternativo sarà appetibile“. Il Pg della Cassazione ribadisce che “la prescrizione è un istituto di garanzia correlato all’inerzia dei pubblici poteri e alle loro inefficienze, a presidio del diritto all’oblio. Questo diritto non è assoluto e non è senza bilanciamenti“. Dunque è “necessario operare per respingere gli effetti negativi di una prescrizione che giunge mentre è intenso lo sforzo di accertamento della responsabilità, preservando al contempo il valore di garanzia dell’istituto“.

BONAFEDE TIRA DRITTO – Nonostante gli alert lanciati dalla Corte il guardasilli Alfonso Bonafede tira dritto: “È noto a tutti che esistono divergenze, soprattutto per quanto concerne il nuovo regime della Prescrizione entrato in vigore dal 1 gennaio 2020, che io considero, personalmente, una conquista di civiltà“. Sulla riforma, il ministro però non nega “un confronto serrato all’interno della maggioranza per superare le divergenze“, ma nello stesso tempo conferma la volontà e l’impegno affinché si arrivi a una efficente riforma del processo penale che consegni “ai cittadini un processo idoneo a rispondere alle loro istanze di giustizia, garantendo tempi certi ed eliminando ogni spazio di impunità“.

LE REAZIONI POLITICHE – Una posizione che acuisce ancora di più le divergenze nel governo giallorosso con Andrea Marcucci (Pd) che invita Bonafede a riflettere “sull’allarme del presidente della Cassazione Mammone. Il blocco della Prescrizione potrebbe mandare in crisi intero sistema della giustizia. Occorre intervenire presto e bene“. “La riforma Bonafede è un obbrobrio giuridico che trasforma i cittadini in ostaggi a vita dei pubblici ministeri” tuona Mara Carfagna che annuncia: “Se non sarà il Parlamento ad abolirla, Voce Libera raccoglierà le firme per promuovere il referendum e cancellarla così una volta per tutte“. A farle eco Enrico Costa, collega di Forza Italia, che accusa il guardasigilli: “Ha sbandierato lo stop alla Prescrizione come una ‘conquista di civilta”. Dichiarazioni che suonano come un pugno in faccia a quella parte della maggioranza che a quella riforma si è opposta ed ha chiesto che non entrasse in vigore o che venisse cambiata.

Il Presidente della Cassazione demolisce la riforma Bonafede-Travaglio: 25 mila nuovi processi all’anno. Giovanni Altoprati de Il Riformista 1 Febbraio 2020. Il Presidente della Cassazione, Giovanni Mammone ha aperto ieri l’anno giudiziario con una relazione vasta sullo stato della giustizia, e con una polemica evidentissima contro l’abolizione della prescrizione. Mammone ha demolito il provvedimento entrato in vigore il 1° gennaio. «Il blocco della prescrizione – ha detto – prolungherà la durata dei processi e procurerà ulteriore carico per la struttura giudiziaria, di modo che coloro che sono sottoposti a giudizio, dopo la sentenza di primo grado potrebbero rimanere per lungo tempo in questa condizione». E poi: «Le vittime del reato vedrebbero inoltre prolungarsi i tempi della risposta di giustizia e del risarcimento del danno patito». La riforma della prescrizione, ha aggiunto Mammone, oltre ad aggravare la già disastrata situazione del processo penale, non incide minimamente nella fase dove maturano la maggior parte delle prescrizioni. E cioè nelle fasi «dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi e la maturazione della prescrizione». Mammone, poi, elenca i futuri effetti della legge Bonafede-Travaglio sulla Cassazione: 20.000-25.000 processi in più all’anno, con incremento del carico penale vicino al 50%.

Alfonso Bonafede. Sarebbe interessante conoscere chi scrive i discorsi del ministro della Giustizia. Probabilmente Rocco Casalino. La relazione del Guardasigilli grillino, fredda e burocratica, è stata un collage di proclami autocelebrativi e propagandistici, descrivendo un mondo che esiste solo sulla piattaforma Rousseau. Bonafede ha più volte enfatizzato gli sforzi “assunzionali” – lui li chiama così, con uso incerto della lingua italiana – fatti per aumentare la pianta organica dei magistrati. Un ritornello che ripete in ogni occasione. Si tratta, va ricordato, di un aumento di organico solo tabellare, quindi teorico. Allo stato, dopo il varo delle nuove piante organiche, in concreto finiranno per aumentare solo le percentuali di scopertura degli uffici. La differenza la fanno, infatti, solo le nuove assunzioni di magistrati e non i posti tabellari e su questo piano Bonafede appare addirittura meno efficace dei suoi predecessori. I posti messi a concorso da Bonafede sono inferiori alla media degli ultimi anni. Con il concorso 2019 sono banditi solo 310 posti. L’anno scorso il concorso era stato bandito per 330 posti. Il tanto bistrattato governo Berlusconi, ad esempio, con il concorso 2009 aveva bandito 350 posti e 360 con il concorso 2010. Dopo essersi concentrato sugli sforzi “assunzionali”, Bonafede non poteva non fare un accenno alla legge Spazzacorrotti, poco prima stroncata da Mammone. Il processo eterno, per Bonafede, è una “conquista di civiltà”.

David Ermini. «L’anno appena terminato è stato caratterizzato da vicende dolorosissime per il Csm, venute alla luce nel corso di una indagine giudiziaria. Questa indagine ha disvelato un agire prepotente, arrogante e occulto tendente a orientare inchieste, influenzare le decisioni del Csm e screditare altri magistrati. Durissimo è stato il colpo al prestigio, alla credibilità e alla autorevolezza del Consiglio e dell’intero ordine giudiziario.

Gravissima la lesione della legittimazione dell’uno e dell’altro agli occhi dei cittadini». Non poteva non esordire così il vicepresidente del Csm. L’indagine giudiziaria citata da Ermini è finita nel dimenticatoio, non sono finite nel dimenticatoio le pratiche spartitorie fra le correnti dell’Anm. Da qui, la necessità di adottare «un metodo di lavoro trasparente, rispettoso delle regole e volto a corredare ogni delibera di adeguata e approfondita motivazione». Dopo il caso Palamara, «occorre che la condotta di ogni singolo consigliere, sia togato che laico, non sia inquinata, anche solo sul piano dell’apparenza, da pressioni o ingerenze correntizie o partitiche».

Csm, Ermini: «Alla giustizia serve una riforma organica». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. «Da questo ennesimo scontro politico sulla giustizia emerge ancora una volta la necessità di una riforma organica, di sistema, che riguardi il processo penale ma anche il codice penale, con la revisione dei reati; ma per farlo ci vorrebbe un clima totalmente diverso, più disteso e soprattutto di collaborazione», sostiene il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini.

Lei come pensa che andrebbe sciolto il nodo prescrizione?

«La soluzione spetta al Parlamento e al governo. Ma su questioni che incidono direttamente sulla vita e la pelle dei cittadini si dovrebbe trovare la massima condivisione possibile. Anche con l’opposizione, visto che si tratta di attuare i principi costituzionali del giusto processo, della sua ragionevole durata e delle garanzie. Invece ogni nuova coalizione cambia le regole, e non mi pare un buon modo di procedere».

Ma sul caso specifico secondo lei come bisognerebbe intervenire?

«Io sto al parere espresso dal Csm, seppure a maggioranza: eliminarla dopo la sentenza di primo grado, senza altri interventi strutturali, non risolve la criticità dell’eccessiva durata dei processi, e anzi rischia di aggravarla. A titolo personale penso sia stato un errore intervenire su questo punto senza conoscere il resto delle riforme, perché come accade nel domino quando si toglie una tessera rischiano di cadere tutte le altre».

Dunque sarebbe utile una sospensione, come chiede Renzi, o accelerare la riforma del processo, come vuole il ministro Bonafede?

«Non spetta a me scegliere una strada. Dico solo che in questa situazione gli ultimatum o la fissazione di nuove scadenze perentorie non aiutano a creare il necessario clima di collaborazione».

Pensa sia giusto che i magistrati intervengano nel dibattito sulla prescrizione, come sta avvenendo?

«Intanto il Csm, che è l’organo di governo autonoma della magistratura, è stato chiamato formalmente a esprimere un parere, come su tutte le leggi che hanno ricadute sull’organizzazione giudiziaria. Dopodiché vanno ascoltate le opinioni dei magistrati come pure dell’avvocatura e dell’Accademia, cioè tutti coloro che compongono il mondo del diritto e della giurisdizione. Sempre con l’obiettivo di ottenere il massimo consenso».

A proposito di opinioni, che pensa della protesta degli avvocati milanesi contro la presenza del consigliere Davigo all’inaugurazione dell’anno giudiziario?

«Il Csm ha subito dichiarato irricevibile la richiesta di non farlo andare, e sinceramente mi meraviglia che una platea di avvocati abbia di fatto invocato la censura di opinioni altrui. Ogni critica è legittima, ma sempre nel rispetto per le persone e le istituzioni che rappresentano».

Lei e altri avete parlato dello scandalo che ha coinvolto il Csm lo scorso anno.

«Non si poteva certo nascondere. È una situazione che va superata e la stiamo superando».

Può affermare che non c’è più il «sistema di potere» emerso dalle indagini?

«Posso affermare che c’è stata una presa di coscienza da parte di tutti i consiglieri, come si evince da votazioni e prese di posizione che non rispecchiano gli schieramenti compatti delle correnti e dei partiti che hanno eletto i consiglieri togati e laici».

Però sulle nomine fatte e da fare il Csm continua a dividersi.

«L’unanimsimo non è indispensabile; maggioranze e minoranze non sono un male in sé, l’importante è che tutto avvenga in trasparenza. Quello che non va bene sono i patti occulti e gli schieramenti precostituiti: una volta arrivati qui non ci sono più casacche di correnti o di partito, né vincoli di mandato».

Lo dice perché anche lei è stato eletto da un patto tra correnti, le stesse coinvolte nello scandalo?

«Lo dico perché lo penso. È vero che mi hanno votato quelle correnti, ma dal primo momento io ho avuto come unici riferimenti la Costituzione e il capo dello Stato, presidente del Csm. Lo dimostrano proprio le intercettazioni in cui alcuni che mi avevano sostenuto si lamentavano dei miei comportamenti».

Avvocati contro abuso intercettazioni: “Pm cercano reati e non le prove”. Viviana Lanza de Il Riformista 1 Febbraio 2020. Non solo le lungaggini dei processi, la riforma della prescrizione, i disagi degli uffici giudiziari, le limitazione ai diritti di difesa. Gli avvocati napoletani hanno denunciato anche un eccessivo ricorso allo strumento delle intercettazioni. “Accuso – ha detto il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, Antonio Tafuri, nel corso del suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario – un abuso delle intercettazioni al di là delle esigenze probatorie e al fine di operare di fatto la ricerca del reato e non la sua prova”.

I NUMERI – Solo a Napoli le utenze telefoniche messe sotto intercettazione nel 2019 su richiesta della Procura ordinaria sono state 2.079 e le intercettazioni ambientali 200, a cui devono sommarsi le 6.760 intercettazioni telefoniche e le 906 ambientali nell’ambito di indagini della Dda e le 84 intercettazioni in indagini sul terrorismo. Spiccano i numeri sulle intercettazioni disposte dalla Procura ordinaria di Santa Maria Capua Vetere 2.076 più le 246 ambientali. Mentre nel complesso, le intercettazioni disposte dalle Procure del distretto sono state nell’ultimo anno oltre 13mila. “Accuso – ha continuato Tafuri – il potere esecutivo che ha non determina i limiti certi e ragionevoli delle indagini preliminari che di fatto possono protrarsi per anni senza alcuna sanzione, e che tace sui dati oggettivi per cui il 53% delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari e il 24% nel corso del giudizio di primo grado veicolando invece la falsa idea che della lunghezza dei processi siano responsabili gli avvocati”. Dopo il discorso del presidente Tafuri, gli avvocati hanno abbandonato la sala dei Baroni. Anche l’avvocato Armando Rossi, dell’ufficio di coordinamento dell’organismo congressuale forense, ha aderito alla protesta degli avvocati: “Tutti dobbiamo essere uniti per difendere lo Stato di diritto contro il giustizialismo – ha affermato Rossi – è già toccato agli avvocati e al diritto di difesa dei cittadini, ora sta toccando ai magistrati e poi toccherà all’intero impianto della Costituzione e a quel punto da cittadini ci ritroveremo di nuovo sudditi”.

Il Fatto Quotidiano e l’ossessione per gli avvocati difensori. Beniamino Migliucci de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. A Il Fatto Quotidiano la battaglia dell’Unione camere penali contro la riforma Bonafede non va proprio giù. E così il giornale, strenuo quanto unico sostenitore di quella scriteriata legge, ha ripescato la parte di una audizione che ho tenuto quando presiedevo l’Unione, nella quale avrei affermato che la prescrizione non incide sulla ragionevole durata del processo. In merito l’estensore dell’articolo rileva che, richiamando la tesi dei professori Giostra e Padovani, avrei dichiarato che «la prescrizione è inidonea a garantire la durata ragionevole del processo», «diciamo che anzi non c’entra nulla. Diciamo, anzi, che allungare i tempi della prescrizione può portare ad un allungamento dei tempi del processo». L’intento del giornalista è evidente: dimostrare che l’Unione ha cambiato idea nel tempo, ed è dunque in contrasto con se stessa. Nulla di più infondato e immaginario. E che le cose non stiano così è evidente persino dallo stralcio riportato nell’articolo, dando per ammesso che sia stato correttamente riportato quanto affermato durante l’audizione. Basta leggere, infatti, per rendersi conto che le dichiarazioni attribuitemi sono estrapolate da un contesto più ampio e articolato nel quale l’Unione contrastava la riforma Orlando i cui sostenitori, sbagliando, ritenevano che dilatare i termini della prescrizione avrebbe consentito di rendere più spediti i processi, in ossequio al principio della ragionevole durata degli stessi. Da qui la risposta dell’Unione, che faceva rilevare esattamente il contrario di quanto strumentalmente sostiene il Fatto Quotidiano: si affermava infatti che l’allungamento dei termini di prescrizione non solo non avrebbe inciso sulla ragionevole durata del processo, rendendolo più breve, ma anzi si sarebbe ottenuto l’effetto contrario. Desidero rammentare anche, perché non vi siano altre strampalate e maliziose interpretazioni, che l’Unione si oppose energicamente all’entrata in vigore della riforma Orlando, proclamando circa quaranta giorni di astensione che costrinsero il governo a chiedere un doppio voto di fiducia su materie riguardanti la giustizia penale. Per verificare il corretto punto di vista dell’Unione sono ovviamente a disposizione, anche de Il Fatto Quotidiano, delibere di astensione, documenti e interviste dell’epoca. Il quotidiano potrà così verificare che le idee dell’Unione di ieri sono le stesse di oggi, confortate anche da tutta la migliore accademia. Ieri come oggi si sono segnalati i rischi connessi a un processo senza fine e i profili di incostituzionalità di riforme, come quella oggi in vigore, che rendono imputati e persone offese ostaggi dello Stato per un tempo indeterminato. Presunzione di innocenza, risocializzazione del reo, diritto alla vita inteso come possibilità di poter organizzare la propria esistenza senza essere sottoposti ad un ergastolo processuale, sono principi che vengono mortificati. E di certo entra in gioco anche il principio della ragionevole durata del processo, perché, abolendo la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, i processi saranno senza fine violando quel principio, consacrato anche dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, secondo il quale «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole». Su una cosa ha però ragione l’articolista: per assicurare la ragionevole durata del processo non bisogna modificare la prescrizione, ma reagire all’ipertrofia penale, rafforzare i riti alternativi e sostenere altre riforme, sostanziali e processuali, proposte, ieri come oggi, dall’Unione. Si rassicuri dunque il Fatto Quotidiano, né io né l’Unione soffriamo di una perniciosa crisi di identità o siamo in contrasto con noi stessi. Siamo, invece, coerentemente, propositivamente quanto vibratamente contrari ad una delle più dissennate riforme in materia di giustizia penale, che ha come scopo ultimo quello di cancellare il processo liberale e democratico, per tornare a quello autoritario e inquisitorio tanto caro al Dott. Davigo.

Davigo ci ricasca: giustizia lumaca? Colpa delle tecniche dilatorie degli avvocati. Il Dubbio il 4 Febbraio 2020. Secondo l’x pm del pool di mani pulite, “la prescrizione è la vera causa dei processi infiniti”. “Se un paese che non ha la prescrizione è barbaro e incivile allora tutta l’Europa, con l’eccezione della Grecia, è barbara e incivile. Bisogna pensare a quello che si dice perché questa cosa non riesco proprio a capirla”.  E chi non “capisce”, o fa finta di non capire,  è Piercamillo Davigo, il consigliere togato del Csm che oggi è tornato a parlare di uno dei suoi cavalli di battaglia: la pescrizione naturalmente. «Si protesta contro una legge già in vigore – aggiunge Davigo – anche se il nuovo regime si applica solo ai reati commessi dal primo gennaio e i primi effetti si vedranno dopo la metà del 2027. La corsa all’allarme mi sembra spropositata perché ci sono 7 anni per far fronte a difetti e difficoltà». Secondo il magistrato «una delle cause della durata dei processi è proprio la prescrizione perché incentiva comportamenti dilatori. Quando è entrato in vigore il nuovo codice circa 30 anni fa avevamo segnalato il problema della durata dei processi e che quel codice avrebbe aggravato i problemi. Si diceva che con il patteggiamento ci sarebbero stati pochi dibattimenti. E non è successo. Anche perché ci sono state tre tra amnistie e indulti nelfrattempo. Ora si torna a parlare di amnistia mentre la prescrizione è diventata ciò che prima era l’amnistia. È una cosa priva di senso. Un conto è non fare i processi dall’inizio, un conto è farli e buttarli via. È una cosa dissennata». E a chi propone una moratoria sullo stop alla prescrizione in attesa che si facciano le norme per accelerare i processi Davigo risponde che «la moratoria c’è già, come ho detto prima, ed è di 7anni e mezzo. Poi c’è il mantra della destinazione delle risorse e soldi non ci sono e non ci saranno per anni, visto il nostro debito pubblico. Si parla dell’aumento del numero dei magistrati ma intanto è difficile reclutarli. Non riusciamo a coprire i posti messi a concorso, nonostante ci siano molti candidati, perché i laureati non hanno spesso il livello adeguato. E poi ripeto che c’è il debitop ubblico spaventoso». «Il problema dei processi troppo lunghi non è solo un problema di risorse ma di procedure. Faccio un esempio. Nel rito ordinario per acquisire gli atti del Pubblico Ministero e farli vedere al giudice ci vuole, a parte gli atti irripetibili, il consenso delle parti e il consenso del difensore e dell’imputato non c’è mai. – aggiunge Davigo- Facciamo il caso di un libretto di assegni rubati. Se gli assegni sono stati usati in città diverse devi essere chiamato a testimoniare in tutte quelle città perché non si può acquisire la denuncia senza il consenso del difensore, che non dà, e questo non c’entra niente con le garanzie. È solo una tattica dilatoria».

Per il dottor Davigo l’avvocato è un imbroglioncello, un favoreggiatore dell’imputato. Gian Domenico Caiazza de Il Riformista 1 Febbraio 2020. La prima riflessione che viene da fare di fronte al precipitare delle polemiche sulla persona del dott. Piercamillo Davigo si traduce in una inconfutabile verità: chi sceglie di vivere da simbolo, deve accettare di esserlo in ogni occasione. Non puoi compiacerti di esserlo nelle tue ormai incalcolabili e sistematiche esposizioni mediatiche, e poi pretendere di proporti come uno dei tanti rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura, libero di manifestare le proprie idee in una delle tante cerimonie di inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Si spiega così, fuori da ipocrisie e protocolli istituzionali, la dura reazione dei penalisti milanesi, spintasi addirittura alla certamente irrituale richiesta rivolta al CSM di mandare alla cerimonia milanese chiunque altro fuorchè l’ormai leggendario ex P.M. di Mani Pulite. L’Associazione Nazionale Magistrati reagisce con durezza, stigmatizzando le pulsioni censorie che animerebbero i penalisti meneghini nei riguardi di legittime manifestazioni del pensiero. Ma quella protesta è rivolta ad un simbolo, e per essere più precisi a chi ha scelto di esserlo con un certosino impegno durato anni. Simbolo di tutto ciò che i penalisti italiani da sempre avversano; simbolo di tutto ciò che in definitiva costituisce la ragione fondativa dell’Unione delle camere Penali Italiane. Pier Camillo Davigo ha scelto di diventare orgogliosamente e testardamente simbolo della più esplicita idea inquisitoria del processo penale, condita da una peculiare inclinazione alla divulgazione più schiettamente -e di recente anche volgarmente – populistica di quei principi, vecchi come il mondo e che ciclicamente si sono affermati, purtroppo, nella storia della civiltà umana. Si tratta di idee che rifiutano il principio stesso di presunzione di non colpevolezza, vissuto con insofferenza e sarcasmo come una bizzarria da suffragettes. Idee – per fare un altro esempio- che valutano come irritanti ostacoli alla Giustizia tutte quelle regole che negano il valore di prova piena, direttamente utilizzabile nel giudizio, agli elementi investigativi raccolti in solitudine dal Pubblico Ministero o dalla Polizia Giudiziaria. Vi è dietro questa ultima petizione, ripetutamente sostenuta dal dott. Davigo, la radicata convinzione autoritaria di una supremazia processuale ed etica della parte pubblica, che guarda con scandalo a chi metta in dubbio che una prova raccolta da ufficiali di Polizia in una stanza di una Caserma sia assistita da una presunzione di attendibilità e di verità proprio perché raccolta da un pubblico funzionario. Davigo è il simbolo di una idea del diritto penale che guarda ad ogni attenuazione di pena, ad ogni anche solo parziale giustificazione di una condotta illecita, come ad una sconfitta dello Stato. Il video, che impazza sui social, di una sua performance obiettivamente straordinaria dal punto di vista dei tempi comici, che prospetta la possibilità che un omicidio volontario possa essere punito con poco più di quattro anni di reclusione, ne è la più lampante manifestazione. In questo mondo davighiano, l’avvocato è – ormai esplicitamente – un imbroglioncello dalle cui insidie occorre che il processo si difenda; è un soggetto eticamente inaffidabile, che orienta le sue scelte pensando solo al proprio guadagno; e, nei casi più complessi, un favoreggiatore dell’imputato che consentirà al colpevole di farla franca. Ed allora, invece di invocare protocolli e bon ton dagli avvocati che protestano, la magistratura italiana farebbe bene a fare i conti con ciò di cui il dott. Davigo è simbolo indiscusso, per interrogarsi se questo tacere sull’ormai incontenibile sua esposizione mediatica sia pavidità culturale, cinico calcolo di convenienza per gli equilibri correntizi, o infine piena condivisione di quell’universo di principi.

Quei monologhi senza contraddittorio del dottor Davigo…Il Dubbio il 6 febbraio 2020. Pubblichiamo la lettera di un lettore del Dubbio. Buongiorno, Vorrei fare qualche veloce osservazione in ordine all’articolo della dottoressa Guglielmi e lo faccio non da persona direttamente coinvolta in posizioni “ideologiche” poiché non sono un magistrato e neppure un avvocato. Vorrei ricordare infatti le pagine del Grande Inquisitore di Dostoevskij e la presunzione del vecchio Cardinale di ridurre il bene a ciò che la maggioranza degli uomini vorrebbe, che nel caso della giustizia sarebbe di scambiare la libertà con la sicurezza, rinunciando alla prima per dare alla minoranza dei potenti tutti i poteri per garantire la seconda. E per manifestare questa sua posizione “ideologica” il Cardinale si era assicurato di essere da solo di fronte a Cristo, per porter essere l’unico a parlare.Ecco, il dialogo e confronto e quindi il rispetto che la dottoressa Guglielmi auspica presuppone quanto meno che le “esternazioni” di quel magistrato siano fatte in un aperto confronto e non quando egli e’ il solo a parlare, “Di Martedì” o altrove, di fronte a qualche accondiscendente giornalista e senza che nessuno, neppure un magistrato o ex magistrato (suggerirei Carlo Nordio, ad esempio), possa contribuire a riempire il bicchiere lasciato mezzo vuoto dal suo monologo e far comprendere all’ascoltatore che le cose non sono esattamente come l’oratore le ha raccontate facendo intendere – come scrisse un suo illustre collega- che da una parte ci sono “i magistrati, bravi e dall’altra il resto del mondo, cattivo” (G. Colombo). Egli non ci racconta mai ad esempio del fallimento della funzione di controllo preprocessuale che “si è trasformata da sostanziale in meramente formale, con in pratica l’abolizione della funzione tipica degli organi di giustizia di garanzia dei diritti costituzionalmente riconosciuti alla persona” la cui vita assume “un significato assolutamente subordinato” (G. Colombo). Quanti inutili processi eviteremmo infatti se solo questa funzione fosse garantita riducendo anche il rischio che gli errori della polizia giudiziaria, “se non adeguatamente vagliati, si riverberino in gravi violazioni di legge da parte dei magistrati” (G.Canzio)? Di questo si dovrebbe occupare prima di tutto l’illustre ministro del blocco della prescrizione. Flavio Marcolin

“Noi magistrati non possiamo rassegnarci all’egemonia di pm scettici sulle garanzie”.  Di Mariarosa Guglielmi segretaria  Magistratura democratica.

Piercamillo Davigo smontato in diretta tv dall'avvocato: prescrizione, ko tecnico. Renato Farina su Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. I capi degli Orazi e dei Curiazi hanno cozzato tra loro come due pinnacoli rocciosi. Uno alla fine è stato lesionato, ha perso il cucuzzolo, e anche le fondamenta sono lesionate. È la cima, sia detto senza ironia alcuna, a nome Davigo. È accaduto giovedì sera. Da una parte c'erano Piercamillo Davigo, magistrato di Cassazione, membro del Consiglio superiore della magistratura; dall'altra Gian Domenico Caiazza, figura assai meno mediatica, ma rappresentante degli avvocati (è presidente delle Camere penali). Luogo: PiazzaPulita su La7. Tema: la prescrizione, i processi infiniti, le responsabilità delle lungaggini. Era la prima volta, dopo anni, che il giudice, forse suo malgrado idolo dei forcaioli, si trovava davanti a qualcuno del medesimo rango, per di più senza avere lui il fucile e l'altro la cerbottana. Tempi identici di microfono. Un arbitro, Corrado Formigli, che non aveva predisposto il copione usuale. Quello dove il presunto gigante, espressione della cristallina volontà di giustizia del popolo, schiaccia inesorabilmente i garantisti per lui sempre piuttosto pelosi. Anche stavolta Davigo ha messo in campo la dialettica che incanta le platee. Non argomenti in punta di diritto, così noiosi e perdenti, ma aneddoti dove i delitti e le pene sono i primi impuniti le seconde ridicole o inesistenti, e le galere vuote. Il tutto raccontato come una performance al cabaret. Qui ci permettiamo un verbale. Non risultano i toni dal testo scritto. Davigo usa parlata rapida, vezzosità da applauso, manifesta malcelata ira e fastidio. Caiazza si propone con la pacatezza di numeri e argomenti, quando può dà ragione all'interlocutore. Chiunque abbia assistito, salvo non sia infestato da virus manettaro, ammetterà che la prescrizione Bonafede è un'offesa al diritto e al buon senso.

Caiazza: La protesta dei 40 penalisti per la scelta di Davigo oratore all'inaugurazione dell'anno giudiziario a Milano? Costui aveva espresso giudizi molto gravi sulla funzione dell'avvocato, rappresentato come uno che la tira in lungo per ottenere prescrizione per lucrare. Deve accettare una critica ad affermazioni così gravi.

Davigo: Ce l'ho solo con alcuni avvocati che si comportano in quel modo. Non si può raccontare una storia del tutto diversa da quello che si vede. Il 15% dei ricorsi di Cassazione sono contro richieste di patteggiamento. Gli avvocati dicono che è tutto secondo le regole. Allora cambiamo le regole!

Caiazza: Se ci sono le regole si rispettano, sono percentuali marginalissime. Certo la lentezza della giustizia non è dovuto a questo. Si deve fare invece una riflessione sul numero di procedimenti che arrivano e dunque sull'obbligatorietà dell'azione penale. Noi ingolfiamo la macchina giudiziaria in ossequio a un principio sempre più astratto che però viene eluso. Il 60% delle prescrizioni matura prima dell' udienza preliminare, quando gli avvocati non possono determinare nulla. Che serietà c'è dietro questa campagna contro la prescrizione?

Davigo: È una storia rappresentata in modo del tutto diverso dalla realtà. La Procura di Roma ha 60mila processi pronti ma il tribunale di Roma può metterne in atto solo 12mila, rimangono in procura per questo. Contrariamente alle menzogne dette approvando il codice trent'anni fa, in Italia non c'è il 90% di patteggiamenti, ma solo il 10%, perché si punta alla prescrizione.

Caiazza: L'istituto della prescrizione è un frutto del pensiero giuridico moderno (Beccaria). È un istituto che rimedia a una patologia intollerabile. La durata dei processi è un disastro per tutti ma non lo si può far pagare a un imputato che rimane imputato a vita! È un'idea autoritaria dello Stato!

Antonio Padellaro (fondatore del Fatto quotidiano, seduto al fianco di Davigo): Non sarebbe necessario dare più tempo alla giustizia, per il bene delle vittime?

Caiazza: Si può rimanere imputati per 15 anni? La potestà punitiva dello Stato ha il dovere di fermarsi quando si è andati oltre un limite ragionevole di tempo.

Padellaro: Moretti ha rinunciato alla prescrizione.

Caiazza: E qual è il problema?

Davigo: In Italia viene proposto un numero di impugnazioni che non ha uguali. Solo il 40% delle sentenze viene appellato in Francia, in Italia il 100%. Perché? Perché in Francia non c'è il divieto di reformatio in peius. E allora si lamentano se la gente si infuria e vuole farsi giustizia da sé?

Caiazza: Il 75% delle prescrizioni matura prima delle sentenze di primo grado dove la questione delle impugnazioni è del tutto irrilevante. È un pretesto... Se la prescrizione è farina del diavolo perché non eliminarla del tutto? Non lo fanno perché le procure sarebbero travolte. La prescrizione permette di gestire un carico di processi altrimenti ingestibile e di mantenere l'ipocrisia dell'obbligatorietà dell'azione penale.

Caiazza: Lei dice che non si va in carcere, non so a che processi faccia riferimento.

Davigo: A quelli di corruzione, di evasione fiscale.

Caiazza: I processi per corruzione sono molto pochi in media. Non può dire che non si va in galera. La corruzione semplice ha dei limiti di pena, quella aggravata determina pene a cui è impossibile sottrarsi. Lei fa calcoli astratti. Renato Farina

Piazza Pulita, Davigo nonostante l’aiuto dell’arbitro Formigli perde contro Caiazza. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. La partita è decisamente impari. Da una parte una squadra di undici giocatori, dall’altra sono in ventidue. E l’arbitro è uno di quelli di cui il giorno dopo si dice: e vabbè, quando gioca la Juve… Comunque sul campo di Piazza Pulita, la trasmissione di La7 condotta da Corrado Formigli, il primo goal lo segna Giandomenico Caiazza, il presidente delle Camere penali sceso giovedì sera in campo contro la squadra favorita di Piercamillo Davigo. Favorita per il due contro uno, per l’arbitro decisamente orientato e per un pubblico pronto ad applaudire  chi sa alzare la voce. Davigo è un vero uomo di spettacolo, fa le faccine e si gira verso il pubblico per vedere l’effetto che fa, spara spot meglio di Salvini, sputa sentenze senza che nessuno, o quasi, si accorga che sono bufale. Facciamo un esempio. Quel siparietto che tutti abbiamo visto in cui lui, che sa raccontare barzellette meglio di Berlusconi, cerca di dimostrare che si fa più in fretta ad ammazzare la moglie che a divorziare perché, con vari sconti di pena, ce la si può cavare con quattro anni di carcere, è una bufala. Sì, una bufala, nessuno in Italia è mai stato condannato a quattro anni per uxoricidio. Gli viene contestato, e lui che fa? Faccina furba, poi: sono andato a controllare e ho scoperto che un caso c’è stato e ha riguardato un uomo cui è stata riconosciuta l’infermità mentale. Ah, ecco come si esce da una bufala, con un’altra bufala. Certo, davanti a uno così, più che un gentiluomo come l’avvocato Caiazza, ci sarebbe voluta una bella vajassa napoletana, di quelle che si mettono le mani sui fianchi e ti distruggono di gesti e parole. Più complicato per un giurista vero. I primi minuti della trasmissione hanno una sola star sul palco, il capitano della squadra favorita, che gode anche della simpatia dell’arbitro. Davigo viene interrogato sulla manifestazione degli avvocati milanesi che all’inaugurazione dell’anno giudiziario si sono rifiutati di ascoltare il suo discorso e hanno abbandonato l’aula. Lui dice due cose con sprezzo: erano solo quaranta su 19.000 legali milanesi, e comunque hanno dimostrato scarso senso istituzionale. Un vero autogol che viene valorizzato con facilità dall’avvocato Caiazza, prima di tutto perché i quaranta rappresentavano l’intera camera penale milanese, ma soprattutto perché dieci anni fa, proprio a Milano, furono i magistrati ad allontanarsi per non sentire l’intervento della rappresentante del governo. Chi dunque non rispetta le istituzioni? Davigo incassa, poi per tutta la sera saltella con agilità sui suoi argomenti preferiti. Nega di aver insultato gli avvocati (ma c’è la sua intervista a Il Fatto a contraddirlo) dicendo che cercano solo di tirare in lungo i processi per interesse personale, ma poi lo conferma con le sue parole. La sua ossessione sono le impugnazioni. Lui vorrebbe avere tra le mani l’imputato nudo e solo, possibilmente senza difensore e con il capo cosparso di cenere. Gli dà fastidio il fatto che l’avvocato faccia ricorso in appello e soprattutto in cassazione. E ribadisce che se il ricorso viene respinto, l’avvocato deve pagare. Ed è a questo punto che il capitano Caiazza segna il suo punto migliore, con lo stile di un Rivera dei tempi andati. Pagheremo volentieri, dice, quando pagheranno anche i magistrati che sbagliano, quelli che perdono la causa. L’applauso è prolungato e meritato. Davigo non fa neanche una faccina, o comunque non viene inquadrato. Sulla prescrizione non osa difendere la legge di cui è ispiratore, vista la valanga di critiche e osservazioni sull’incostituzionalità che gli sono piovute addosso anche da parte di colleghi magistrati, ma insiste sul fatto che in Italia si celebrano troppi processi e si ricorre poche volte al patteggiamento. Su questo punto va detto che o il “dottor sottile” non è così sottile o fa il solito giochetto di prestigio. Solo che questa volta in campo c’è un avvocato, ed è facile fargli notare che il patteggiamento è consentito per reati che comportano una pena fino a cinque anni e che comunque i dati che lui sbandiera sugli Stati Uniti, dove i processi sono pochissimi, dipendono dal fatto che nel sistema anglosassone non c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Un altro giochetto è quello sulle carceri: quando si dice che in prigione non va nessuno, si intende una cosa sola, l’unica che interessa al clan Davigo-Travaglio: i corrotti. Ma i reati contro la Pubblica amministrazione rappresentano una percentuale piccolissima rispetto agli altri delitti: possibile che a nessuno interessi più il fatto che esistono omicidi, stupri, traffico di droga e rapine? Quando qualcuno voleva «rivoltare l’Italia come un calzino», che cosa intendeva, vedere in manette Formigoni e così ripulire il Paese e veder trionfare il Bene sul Male? La parte più demagogica dell’incontro è toccata ad Antonio Padellaro, direttore editoriale de Il Fatto quotidiano e capitano della squadra d’appoggio a quella guidata da Davigo. Il suo argomento è di quelli che hanno presa sul pubblico e che sentiamo ogni giorno e ogni sera in ogni trasmissione politica in cui si parli di prescrizione: la strage di Viareggio per la quale sono stati condannati in primo grado l’amministratore delegato delle Ferrovie Mario Moretti e altri dirigenti. Il problema è che nel frattempo è rimasto in piedi solo il reato più grave, quello di disastro, mentre sono caduti in prescrizione quelli minori tra cui l’incendio colposo. Padellaro gioca la carta della colpevolizzazione: voi che difendente tanto il diritto alla prescrizione, apostrofa Caiazza, che cosa avete da dire ai perenti della vittime? Caiazza evita di ricordarlo, ma andrebbe detto una volta per tutte che i parenti delle vittime non hanno diritto a una pena per l’imputato, ma al risarcimento del danno. E’ impopolare dirlo, ma è così. Il presidente delle Camere penali se la cava comunque con un buon argomento: perché non lo chiedete al pm che ha impiegato sette anni per le indagini preliminari? Padellaro incassa ma vuol giocarsi un’ultima carta: se la legge sulla prescrizione fosse incostituzionale, il presidente della repubblica non l’avrebbe firmata. Eh già, come se fosse compito suo e come se la storia non rigurgitasse di leggi votate e controfirmate poi cancellate dalla Corte costituzionale. Davigo non fiata più: con ventidue giocatori e l’arbitro a favore porta a casa una sconfitta piccola piccola.

Carlo Nordio, "La riforma di Bonafede? Un mostro incostituzionale. Non serve la Consulta per dire no". Libero Quotidiano il 16 Gennaio 2020. La prescrizione? "Un mostro". Carlo Nordio boccia con decisione la nuova legge: "È un mostro incostituzionale". Lo fa in una intervista al Giornale in edicola giovedì 16 gennaio. Alla domanda se basterà la decisione della la Consulta per eliminarla, la risposta è: "No, basta molto meno: il buonsenso. Con le nuove norme il cittadino resta impigliato in un procedimento per un tempo indefinito, ma tendente all' infinito. E tutto questo confligge con il principio costituzionale della ragionevole durata dei processi". Ma che cosa accadrà? "Si darà la precedenza ai casi più gravi, a esempio quelli con detenuti. E gli altri, pensiamo agli incidenti stradali con vittime, slitteranno. Tanto non c' è più fretta. In ogni caso con l' obbligatorietà dell' azione penale c' è sempre un fascicolo più urgente degli altri". E sulla decisione del ministro della giustizia, Alfonso Bonafede di spaccare il tema in due. Un blocco che riguarda solo i condannati in primo grado, non gli assolti, Nordio è ancora più duro: "Un mostro nel mostro. Un obbrobrio al quadrato. Ma io non posso credere che questa norma sia destinata a rimanere"

Le bugie sulla prescrizione. Chi si ricorda del Prof. Cordero? E le promesse del Pd? Stefano Rossi il 30 gennaio 2020 su Infosannio. Ho avuto la fortuna di leggere procedura penale sul manuale del Professor Franco Cordero, già ordinario di una cattedra a La Sapienza di Roma. Il Professore nei primi anni 2000, scriveva su “la Repubblica” canzonando, a suo modo, Berlusconi e i berlusconini e le leggi, c.d., ad personam. Fu Lui a coniare il termine “ Caimano” offrendo così a Nanni Moretti l’idea del titolo di un film. Così pure “ Signor B” usato spessissimo da Marco Travaglio. E poi “ Silvius Magnus Fraudolentus”. All’epoca il Professore piaceva tanto a sinistra e lo si poteva vedere in tv nei soliti programmi propagandistici. Invito i pochi fortunati lettori a leggere qualcosa del Professore; l’eloquenza non aiuta, può apparire criptica ma è un’esperienza mistica. E pian piano piace. Ricordo che ad un esame di procedura, mentre la tensione si poteva tagliare con il coltello, si sentì il Professore rivolgersi ad uno studente, che non rispondeva, più o meno così: “ Lei mi può parlare in latino, francese, inglese, tedesco, scelga lei”. Oggi lo hanno forzatamente dimenticato per via del fatto che non serve più un galantuomo che si scagli contro Berlusconi, se non altro perché, quando serviva, i leader della sinistra pubblicavano i loro libri con Mondadori: l’opposizione la lasciavano fare ad altri. Oggi l’opposizione a Berlusconi non serve più. Oggi ci sono altri temi da dare in pasto al popolo: “antifascismo-nazismo-integrazione-immigrazione-razzismo”. Il nemico è Salvini non più Berlusconi. Il Professor Cordero non serve più. E’ strano. Quando si deve riformare un istituto giuridico è buona norma andare a vedere, prima di ogni altra cosa, l’anno di nascita di quell’istituto e poi le eventuali modifiche. Dopo di ché si può cominciare. Per la prescrizione non è stato così. Nessuno oggi ricorda come si è giunti a modificarne i tempi nel 2005. Era la legge, c.d., ex Cirielli. Si perché in questo strano Paese, una legge può chiamarsi “ ex”. Partita con buoni propositi finì per stravolgere vari istituti del diritto penale e processuale al punto che, il suo promotore, l’On. Edmondo Cirielli, sentì la necessità di ritirare la sua firma. Ed è solo l’inizio. Non entro nel merito dei meccanismi che interessano solo agli operatori del diritto ma voglio ricordare ciò che la sinistra andava dicendo allora, quando entrò in vigore quella legge. Sen. Gianpaolo Zancan, Verdi- Ulivo, avvocato con numerosi incarichi a Torino, allora vicepresidente della commissione Giustizia: “E’ la peggiore delle leggi vergogna, i cui vizi sono stati denunciati da avvocatura, magistratura e università, senza una sola voce di consenso. Un vera devastazione del diritto” (letto su “la Repubblica”). Il caso dell’asbesto a Casale Monferrato, dopo numerosissime morti, portò inevitabilmente all’annullamento delle sentenze di condanna delle corti territoriali, da parte della Cassazione. Premuti dall’opinione pubblica ecco cosa dicevano i soliti di sinistra. L’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al Tg1 annunciava: “Il Consiglio dei ministri ha già definito una nuova disciplina della prescrizione che la prossima settimana andrà in parlamento. Faremo di tutto perché l’iter sia il più veloce possibile affinché il provvedimento sia approvato”. Negli stessi giorni i presidenti di Camera e Senato, Pietro Grasso e Laura Boldrini, annunciavano che la riforma delle norme sarebbe partita dalla Camera. Grasso dichiarava: “Non ho letto la sentenza sul caso Eternit e non posso commentare, ma c’è una legge sulla prescrizione che è sbagliata e che va cambiata al più presto, sono anni che lo dico”. Matteo Renzi, oggi contrario alla riforma del M5S, annunciava: “Da premier dico processi più veloci, senza l’incubo della prescrizione. Ci sono dei dolori che non hanno tempo: mi colpiscono da cittadino, e mi fanno venire i brividi, le interviste a qualche familiare, vedove o figlie, che mostrano una dignità pazzesca, che crede nella giustizia e continua a combattere”. Cgil: “Corsia preferenziale per nuova prescrizione”. Rivendicare il processo per avere giustizia per quei morti. Così diceva Susanna Camusso, parlando a Bologna della vicenda Eternit. L’allora segretario della Cgil si definiva “esterrefatta” per la sentenza e poi incalzava il governo: “Bisogna andare oltre l’annuncio di un decreto sulla prescrizione. Un provvedimento di questo tipo sarebbe un atto di assoluta giustizia per il Paese, serve subito una corsia preferenziale”. “E’ ora che il premier Renzi, il ministro della Giustizia e tutto il Governo intervengano per fermare lo scandalo della prescrizione” così parlava  Antonio Bocuzzi, deputato Pd sopravvissuto alla ThyssenKrupp di Torino. Poi altre categorie. Bocciatura su tutta la linea da parte dell’ Associazione nazionale magistrati. “Una brutta legge. Si è cominciato non dalla testa, come sarebbe stato ovvio, ma dai piedi. Avrebbero dovuto prima pensare alla durata ragionevole dei processi e poi, semmai, agire sulla prescrizione. Invece si è fatto il contrario”. Vittorio Cogliati Dezza, Legambiente, “L’indignazione di Renzi è positiva”. Don Ciotti: “Come si può prescrivere la giustizia?” Rodolfo Sabelli, presidente dell’ Associazione nazionale magistrati: “Quella legge è assolutamente inadeguata e la riforma della materia della prescrizione è una urgenza”. Felice Casson: “E’ colpa del Parlamento. Ha bloccato le nuove norme sulla prescrizione da noi presentate in commissione Giustizia del Senato e pronte da mesi per essere approvate”. Magistratura democratica (corrente di sinistra della magistratura): “La proposta di legge n. 2055/A approvata dalla Camera dei Deputati il 16 dicembre 2004 è l’ultima tappa della realizzazione, da tempo in atto, di un “diritto diseguale”. Non ci sono, alle sue spalle, solo gli interessi contingenti di uno o più imputati eccellenti; c’è anche il progetto politico culturale (non nuovo ma qui perseguito con particolare intensità) di strutturare il sistema penale sul doppio binario dell’impunità per i colletti bianchi e della “tolleranza zero” per la devianza degli esclusi (cioè dei settori marginali o semplicemente non inseriti della società)”. Tutte queste belle parole sono del 2014!!!! Poi come si può immaginare andò a finire tutto nel dimenticatoio. Oggi, tutte queste brave persone ci vogliono convincere che la riforma appena entrata in vigore, voluta fortemente dal Movimento 5 Stelle e firmata dal Ministro Bonafede è sbagliata e che rovinerà la giustizia. Che strano! Sono proprio quelli che la invocavano! Regalo una chicca ai pochi fortunati che sono giunti fin qui. Si parla tanto delle colpe della giustizia e come sempre ci finiscono gli avvocati. Quelli che hanno interesse a far durare a lungo i processi e giocano con i tempi della prescrizione. Tutte balle! Dal 2005 al 2014, tutte le prescrizioni sono state di 1.454.926 tra reati e procedimenti. Nel 70,7 % dei casi la prescrizione è avvenuta DURANTE LE INDAGINI PRELIMINARI!!!!!! Cioè nella fase in cui gli avvocati normalmente non operano o operano senza potere di modificare tempi e modalità perché è tutto in mano al pubblico ministero e alle polizie giudiziarie (per chi vuole approfondire, Giustiziopoli Terza parte: Disfunzioni del sistema contro i singoli, ANTONIO GIANGRANDE, Italian edition).

Prescrizione, gli italiani bocciano il codice Travaglio. Redazione de Il Riformista il 22 Gennaio 2020. La riforma della prescrizione, cavallo di battaglia del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e del direttore de ‘Il Fatto Quotidiano’ Marco Travaglio, entrata in vigore all’inizio del 2020, non convince l’opinione pubblica. Un sondaggio realizzato da Ipsos di Nando Pagnoncelli per ‘DiMartedì’, su La7, vede il 40% degli intervistati contrari all’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Favorevoli invece al provvedimento presente all’interno del pacchetto “Spazzacorrotti” è il 38%, il restante 22% è indeciso. Il tema della prescrizione sta ancora spaccando l’esecutivo giallo-rosso. Ieri sera l’ennesimo vertice di maggioranza a Palazzo Chigi dove si è discusso del cosiddetto ‘lodo Conte’. La bozza del disegno di legge delega prevede la permanenza della riforma Bonafede, e quindi lo stop del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, solo in caso di condanna. Una proposta bocciata da Italia Viva. Il no di Matteo Renzi è arrivato in diretta radiofonica, mentre a Palazzo Chigi Conte, Bonafede e le delegazioni dei partiti di Governo erano ancora seduti al tavolo. “Il Lodo Conte risolve il nodo sulla prescrizione? Assolutamente no – spiegava l’ex premier – l’essere o meno colpevole non si valuta in primo grado, ma si valuta alla fine. Inserire un elemento di distinzione tra chi è assolto e chi è condannato in primo grado viola i principi costituzionali. Un processo senza fine è la fine della giustizia”, taglia corto Renzi, insistendo perché si ritorni alla legge Orlando.

Le Camere penali chiedono l’accesso agli atti sulla prescrizione. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. «In difetto di riscontro l’Unione procederà ad adire l’autorità giudiziaria per ottenere il diritto alla conoscenza dei dati». «Il ministero della Giustizia si era pubblicamente impegnato a fornire i dati sul numero dei provvedimenti che hanno dichiarato l’estinzione dei reati per intervenuta prescrizione con indicazione e suddivisione per titolo di reato». Ma «non avendo ricevuto i dati richiesti», l’Unione camere penali ha provveduto nei giorni scorsi a depositare un’istanza formale di accesso agli atti. A renderlo noto e la stessa Unione delle Camere Penale. Inoltre, ricordano i penalisti, «il vice capo di Gabinetto del ministero della Giustizia, il 19.12.2019, ad una simile richiesta in tal senso avanzata da alcuni deputati componenti della commissione Giustizia della Camera, aveva risposto, in modo surreale, che la richiesta “per i tempi ristretti non ha ancora permesso la ricognizione e il reperimento di un simile dato”». Il ministero della Giustizia, dunque, denunciano le Camere penali «non ha consultato i dati sulla prescrizione prima di proporre la controriforma della prescrizione. In difetto di riscontro, nei termini di legge, all’istanza di accesso agli atti, l’Unione – conclude la notaprocederà ad adire l’autorità giudiziaria per ottenere il diritto alla conoscenza di dati che dovrebbero essere già di pubblico dominio». Intenzione delle Camere penali è di avviare una sorta di “operazione verità” sulle vere ragioni della prescrizione.

Sanzioni ai magistrati, rivolta delle toghe contro Bonafede: “Non siamo pigri”. Giovanni Altoprati su Il Riformista il 24 Gennaio 2020. Solo noi possiamo decidere i tempi dei processi. Nessuno può permettersi di dirci quanto deve durare un dibattimento. Neppure il legislatore. In estrema sintesi, è questa la risposta delle toghe italiane alla proposta della maggioranza di prevedere delle “sanzioni” per i giudici pigri. Una risposta prevedibile e scontata. L’Italia, infatti, pur essendo continuamente sanzionata dalla Cedu per l’eccessiva durata dei processi, non ha mai posto in essere serie misure strutturali – ad esempio facendo lavorare di più e meglio i magistrati – per evitare che i cittadini trascorrano gran parte della loro esistenza in Tribunale prima di avere una sentenza definitiva. Leggendo l’ultima relazione della Corte di Strasburgo, sono stati oltre 1200 i ricorsi per “l’irragionevole durata del processo” e “la mancata applicazione della legge Pinto”. Un record che ci ha permesso, nel 2018, di superare la Turchia, paese dove vige uno dei sistemi giudiziari peggiori del pianeta. Era stato il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini, in un intervento pubblicato la scorsa settimana su Il Riformista, ad annunciare la possibilità di rafforzare l’illecito disciplinare per «ritardi immotivati nello svolgimento del procedimento». La norma è stata poi inserita nel testo sul “processo breve” voluto da Alfonso Bonafede per diluire gli effetti del blocco della prescrizione sulla durata dei processi e presentato mercoledì agli alleati di governo. Per i magistrati pigri è previsto un procedimento disciplinare più “efficace” davanti al Csm, normalmente di manica larga per le toghe lumaca: Palazzo dei Marescialli lo scorso anno, prosciolse un giudice fiorentino che aveva impiegato oltre cinque anni per depositare una sentenza. La reazione delle toghe è stata durissima. «Una soluzione demagogica e di propaganda», hanno affermato in coro i magistrati. Il tema, va detto, è di quelli che ricompattano la categoria. Le tensioni fra le correnti del dopo “Palamara” sono subito sfumate come per prodigio. Dalla sinistra giudiziaria di Area-Md alla destra di Magistratura indipendente è immediatamente partito il fuoco di sbarramento per impallinare nella culla la proposta del governo. «Esprimiamo – scrivono i magistrati progressisti – la ferma ed assoluta contrarietà a qualsiasi riforma che ipotizzi di garantire la durata ragionevole dei processi penali minacciando ipotesi di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati qualora i tempi imposti per legge non vengano rispettati». Ciò «non può certamente passare attraverso riforme che impongano ai magistrati italiani, pena l’individuazione di loro responsabilità di ordine patrimoniale o professionale, termini perentori di definizione dei processi». I magistrati, dicono, farebbero già miracoli nell’attuale contesto. «La magistratura italiana rappresenta un esempio di produttività nel panorama comparato dei sistemi giudiziari europei e non accetta di diventare, in ragione di una mediazione politica che non dovrebbe mai andare disgiunta dalla ricognizione dei problemi reali, il capro espiatorio di inefficienze e malfunzionamenti che fanno torto all’abnegazione e all’impegno profusi dalla larga maggioranza dei suoi esponenti», scrivono le toghe di destra. «La lentezza dei processi non è certo determinata dalla pigrizia dei magistrati; all’opposto, nel quadro normativo attuale, deve a loro essere riconosciuto il merito della residua, per quanto insufficiente, funzionalità della giustizia penale», fanno eco i giudici di sinistra. Cosa fare? “Risorse” ed “investimenti”, la soluzione togata. Sul fronte risorse, comunque, l’anno scorso il governo ha già aumentato il numero dei magistrati, portandone l’organico a 10.600. Uno dei più alti in Europa se sommato anche alle migliaia di giudici onorari. Su un punto, però, le toghe hanno ragione. E cioè quando reclamano una seria depenalizzazione. Una rivoluzione dopo anni di panpenalismo spinto che ha portato a reati fumosi ed evanescenti come il traffico di influenze o l’abuso d’ufficio. Se Bonafede dovesse insistere nel suo progetto, i magistrati si sono comunque già dichiarati pronti alla “mobilitazione generale”. Ministro avvisato, ministro salvato.

Prescrizione, per la riforma Bonafede killer e ladro sono la stessa cosa. Alberto Cisterna il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Fugit irreparabile tempus» ricordava Virgilio nelle Georgiche. A meno che. A meno che qualcuno particolarmente fortunato non si trovi tra le mani la boccetta con dentro l’elisir di lunga vita, la pozione tanto ricercata dagli alchimisti di ogni tempo. Qualcosa di simile all’ambrosia che pasceva gli immortali dei dell’Olimpo è stata trovata e dal primo gennaio nutre i reati commessi in Italia i quali – benchè appena nati alle soglie di questo nuovo decennio – grazie alla riforma della prescrizione hanno in dote il gene dell’immortalità. O, quanto meno, della potenziale immortalità, visto che devono avere la possibilità di arrivare alla sentenza di primo grado, dopo di ché nulla potrà scalfirne la vita e per sempre. Per sempre si badi bene. Ognuno dei reati appartenente a questa magica super razza geneticamente modificata potrà contemplare, con “olimpico” distacco è il caso di dire, le vicende degli uomini e dei processi. Potranno cambiare giudici e cancellieri, avvocati e pubblici ministeri, ma il novello Dorian Gray manterrà intatta la propria fresca giovinezza. Mentre a invecchiare sarà inevitabilmente il suo sfortunato ritratto, ossia l’imputato costretto a fare i conti (anche economici) con un fardello immutabile e imperturbabile. E insieme a lui la parte offesa e lo Stato pure loro costretti a convivere anni con cittadini la cui innocenza o colpevolezza non è accertata in tempi ragionevoli.  Ridotto all’osso è questo quel che accade quando il legislatore immagina di poter somministrare – in una macchina giudiziaria ai limiti del collasso – la pozione dell’eterna gioventù all’oggetto del processo, rendendone potenzialmente perpetuo il fine che è quello di accertare le responsabilità personali. Sia chiaro nulla di trascendentale, accade già così per il processo civile (iniziato il quale, nulla lo arresta) di cui però è leggendaria nel mondo l’epocale durata e che distrugge una parte consistente del Pil nazionale e degli investimenti privati. Solo che mentre il processo civile può, molte volte, restare compatibile con la sua tendenziale voracità temporale senza snaturarsi oltre misura, il nuovo modello penale divora i suoi figli in modo totale e senza scampo e, alla fine, vive per se stesso. Da Teodosio II – che nel 424 regolò la prescrizione e “l’usucapio libertatis” (lemma straordinario) – sino a Beccaria e oltre, tutti sono consapevoli che il fuggire del tempo affievolisce i diritti, quelli civili e quelli penali.  Se così non fosse il costituzionalismo moderno non avrebbe dovuto coniare la categoria dei diritti fondamentali e di quelli inviolabili, ossia coesistenti a ogni persona umana e, come tale, imprescrittibili. Ci sarebbe da chiedersi se possa la pretesa dello Stato di punire i colpevoli assurgere a questa dignità assoluta e comprimere ogni altro diritto inviolabile (la presunzione di innocenza) o principio costituzionale e convenzionale (la ragionevole durata del processo). Sembra questa, al di là delle convenienze dei singoli o delle corporazioni in gioco, la vera partita che si sta disputando nei lunghi tempi supplementari che la riforma Bonafede, malgrado ogni scomposta polemica, ancora garantisce alla politica prima che il nuovo regime produca i propri effetti. Il ché rende il dibattito meno urgente, e come ha autorevolmente chiarito il professor Giorgio Spangher sulle pagine di questo giornale, consente di provvedere a quel reset della discussione che è indispensabile per affrontarla in modo serio. Ci sarà un’altra occasione per discutere delle ragioni per cui i reati si prescrivono e su chi ne tragga vantaggio, ma ora è il momento di riportare i punti di vista nell’alveo dei principi generali per attuare quella ragionevole ponderazione degli interessi che la Consulta indica come imprescindibile faro e dovere dell’azione legislativa. Come in tutte le partite serie occorre evitare il doping e non pensare di vincere somministrando al reato pozioni magiche e frettolosi elisir che gli consentano di correre più a lungo e di vivere, se occorre, in eterno. In Italia gli unici reati imprescrittibili sono quelli puniti con l’ergastolo, e la sentenza di primo grado non appare una fatto processuale idoneo per equipararvi la costruzione abusiva di un balcone.

Vittorio Feltri: "Prescrizione, i processi dureranno all'infinito. Era meglio abolire i giudici fannulloni". Libero Quotidiano il 17 Gennaio 2020. Vittorio Feltri, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter, attacca sulla riforma della giustizia voluta dal Movimento 5 stelle e firmata Alfonso Bonafede: "La prescrizione non c'è più ma i processi dureranno all'infinito", scrive il direttore di Libero. Che si chiede: "Non era meglio abolire i giudici fannulloni?". Una riforma che non piace alle opposizioni ma anche molto criticata dagli "addetti ai lavori". "La riforma della prescrizione è un intervento di settore inutile e sostanzialmente dannoso. È come se un cittadino prendesse un treno che sa quando parte ma non sa quando arriverà a destinazione", ha detto il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin intervenendo a Studio 24, su Rainews 24.

Vittorio Feltri: "Non va sospesa la prescrizione, ma certe toghe. E la chiamano giustizia". Libero Quotidiano il 18 Gennaio 2020. Divampa la polemica sulla abolizione della prescrizione, che in pratica vuol dire una cosa sola: i processi non si estinguono mai, vanno avanti finché non arriva una sentenza, cosicché le vittime di un reato saranno almeno moralmente risarcite. A prima vista sembra una saggia decisione in favore di chi abbia subito un danno di qualsiasi tipo. Molti magistrati sono favorevoli alla non cancellazione dei procedimenti, e credo di conoscerne il motivo. Essi infatti sono protagonisti, non sempre per colpa loro, della lentezza del sistema giudiziario. Dicono che le toghe siano poche (e non è vero se paragonate a quelle di Paesi più veloci nel disbrigo delle pratiche) e che nei tribunali manchino cancellieri nonché altro personale ausiliario. Forse hanno ragione di lamentarsi, tuttavia resta il fatto indubitabile che la giustizia italiana sia la più indolente del globo terraqueo. Credo dunque sia consentito sospettare che il potere giudiziario sia un po' troppo pigro nella propria amministrazione. Sorge spontaneo un dubbio. Questo: se i procedimenti non si concludono mai e durano a volte decenni, è lecito ritenere che la responsabilità dei ritardi sia attribuibile alla furbizia degli imputati, i quali se davvero fossero tanto astuti non sarebbero alla sbarra ma l'avrebbero fatta franca? Più probabile che, se per addivenire alle conclusioni un processo si richiede lo scorrere di lustri, non sia estranea la oziosità dei pm e dei giudici. Cosicché una persona accusata di aver combinato qualcosa di sbagliato sta in ballo un quarto di secolo prima di ottenere un verdetto. Da ciò si evince: prima di fare fuori la prescrizione che, alla scadenza di certi tempi, elimina il contenzioso, sarebbe opportuno rimuovere le lungaggini e magari richiamare all'ordine coloro che le provocano. Insomma, se i dibattimenti comportano secoli per giungere a un giudizio, non bisogna prendersela con chi li subisce, bensì con chi provoca la dilatazione dei medesimi. Il problema si complica ove si considera che il 50 per cento dei carcerati viene alla fine riconosciuto innocente. Si tiene cioè in galera per anni gente che non ha commesso scorrettezze. E il governo invece di abbreviare la durata dei processi, sopprime la prescrizione, consentendo alle toghe di non esaurire mai il loro lavoro. Esse sono abilitate a sbagliare senza pagare per i loro errori. E poi la chiamano Giustizia. Vittorio Feltri

«La mia telecamera spaccata,  il caos del tribunale  e la prescrizione: qui dove Gomorra non è una serie tv». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Crispino. Quella che vedete in foto è un’aula del tribunale penale di Aversa (Ce). Ritrae il momento di udienza. In fondo alla muraglia umana che occupa praticamente tutta l’inquadratura c’è un giudice che sta cercando di capire se assolvere o condannare un imputato. Le persone in piedi sono avvocati, testimoni, imputati. Tra i secondi c’ero anche io perché dopo ben quattro anni di attesa giovedì mattina finalmente si è svolta la prima udienza del processo che vede alla sbarra i responsabili della mia aggressione a Caivano dove mi fecero in mille pezzi la telecamera mentre cercavo di realizzare un’inchiesta sullo smaltimento illecito dei rifiuti. È passato tanto tempo perché non si riusciva a notificare l’udienza a uno degli imputati, al punto che il giudice ha disposto verifiche su chi quella notifica doveva farla. Ma anche perché nelle giornate affollate si dà precedenza alle pratiche con imputati detenuti e in una sola giornata non si riesce a rispettare il calendario. In una recente lettera inviata al ministro della Giustizia Bonafede il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati del tribunale di Napoli Nord (come è chiamato quello di Aversa) Gianfranco Mallardo ha denunciato una copertura della pianta organica di appena il 30% e quindi cause che vengono assegnate mediamente con due anni di ritardo rispetto all’iscrizione a ruolo. Ma è passato tanto tempo anche perché al momento di iniziare il processo il giudice è cambiato e in questo caso si riparte da zero. E’ passato tanto tempo a causa degli scioperi degli avvocati che - giustamente - si rifiutano di lavorare in queste condizioni. Vale la pena di sottolineare che questo tribunale serve 38 comuni tra cui alcuni ad alta densità criminale come Giugliano, Casal di Principe e Casapesenna. Dove, cioè, Gomorra non è una serie televisiva. Giovedì sono arrivato in tribunale alle 9, come da invito, e sono riuscito a testimoniare solo alle 16,15. Sette ore di attesa che si sono aggiunte alle altre ore di attesa maturate dal 2016 a oggi in seguito a ogni convocazione in tribunale. Che mi ha obbligato a una trasferta da Roma (dove abito) a Napoli, alla solita attesa (più o meno le stesso tempo di ieri) per poi sentirmi dire che sarei dovuto ritornare a causa di un altro rinvio. E con me l’avvocato del mio giornale, il Corriere, e quello del Sindacato unitario dei giornalisti della Campania che ringrazio per essermi stati vicini sempre. Tutto questo perché ho denunciato i miei aggressori, gente con due pagine A4 di precedenti penali, con l’avvocato difensore che se la rideva, che durante la deposizione ha cercato di minimizzare, insinuare e provocare. Ha tentato di sostenere che dire sotto al muso di un giornalista «Ti devi fare i caz.. tuoi» non sarebbe una minaccia ma un’esortazione goliardica. Gli eroi direbbero che bisogna credere nella giustizia, io invece dico che questo sistema metterebbe a dura prova la fede di un santo. Che capisco il perché dalle mie parti (sono napoletano) le cose si risolvono in un certo modo, perché molte persone anche cosiddette «perbene» cercano altre strade, compromessi al ribasso, predicano bene e poi razzolano come mai penseresti che facciano. Il mio processo è destinato alla prescrizione non per l’abilità di avvocati difensori che hanno messo in atto strategie dilatorie. Hanno dovuto semplicemente assistere all’ingolfamento del sistema giudiziario in cui la parte amministrativa (dove si lamenta sempre la presenza di questi ormai famigerati cancellieri) fatica a seguire quella giudicante e quest’ultima fatica a far fronte alle richieste di giustizia di un mondo reale in cui tutto pare essere diventato di rilevanza penale. E sarò sincero: nonostante sia la parte offesa e abbia tutto da guadagnare non vedo l’ora che finisca. Mi inorridisce e mi deprime l’idea di essere all’interno di questo calderone all’infinito. Figuriamoci se ci fossi in veste di imputato.

Omicidio Alessandro Polizzi:  scadono i termini, killer libero «Ammazzò mio figlio 6 anni fa». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. La Cassazione non fissa l’udienza in tempo. I familiari della vittima Alessandro Polizzi disperati. La gigantografia del volto di Alessandro Polizzi viene pazientemente srotolata: i genitori del ragazzo assassinato a Perugia nel 2013, Daniela Ricci e Giovanni Polizzi, presidiano la sede del ministero della Giustizia, per avere una risposta: «Possibile — dicono assieme — che un uomo condannato all’ergastolo fino al terzo grado sia libero dopo sei anni?». L’uomo di cui parlano è Riccardo Menenti che uccise Polizzi per vendicare il figlio Simone, umiliato da tre pestaggi nati attorno alla relazione con Julia Tosti, che da fidanzata di Simone era divenuta ragazza di Alessandro. È accaduto che Menenti, 60 anni, condannato all’ergastolo ma in attesa di un giudizio bis che sciolga la questione delle aggravanti (la crudeltà), è stato scarcerato per decorrenza dei termini il 10 gennaio scorso, come previsto dal codice penale. Ora: se la Cassazione avesse fissato, secondo la procedura, l’udienza per decidere sul processo bis, Menenti sarebbe rimasto nel carcere di Terni dov’era detenuto. «Purtroppo qualcosa è andato storto e i fascicoli processuali non sono mai stati trasmessi dalla Corte d’appello di Firenze ai giudici della Cassazione che in questo modo non hanno potuto fissare alcuna data, tantomeno pronunciarsi» spiega l’avvocato Nadia Trappolin che assiste i Polizzi dal principio. Non è tutto. Perché nel frattempo sono scaduti anche i termini della custodia cautelare di Simone Menenti condannato a sedici anni e mezzo per concorso in omicidio nella stessa vicenda. Secondo la ricostruzione investigativa avrebbe concorso nell’omicidio, svolto un ruolo di mandante del delitto. Fu il giallo che più scosse la Perugia del dopo Meredith Kercher. La notte fra il 25 e il 26 marzo 2013 un uomo con indosso il passamontagna entrò sfondando la porta nell’appartamento in cui il 24enne Polizzi conviveva con la Tosti. L’ex pugile Menenti spara un colpo, Polizzi riesce ad alzarsi e nel tentativo di difendere la ragazza si para davanti all’assalitore che, a quel punto, si accanisce anche con uno svitabulloni. Il rumore sveglia i vicini. Menenti scappa ma le indagini della squadra mobile nei suoi confronti e nei confronti del figlio Simone si concludono rapidamente con l’arresto. Quindi i processi: «Rapidi tranne quest’ultimo capitolo» spiega Trappolin da Firenze dove è andata in missione per cercare di capire se questi famosi fascicoli siano stati o meno trasmessi a Roma. «Mi hanno risposto di no» spiega perplessa. Ma cosa potrebbe accadere ora? Secondo la famiglia di Alessandro, Riccardo Menenti, non avendo nulla da perdere, potrebbe tentare la fuga mentre per Simone c’è ancora la speranza di un’assoluzione: se la Cassazione ravvisasse un vizio di motivazione nell’appello bis il processo dovrebbe essere nuovamente celebrato. «Questa storia — dice la mamma di Polizzi— è una sconfitta per la giustizia italiana. Sta passando l’idea che vendicarsi con le proprie mani come hanno fatto i Menenti è più rapido e neppure così controproducente considerato che vieni scarcerato dopo soli sei anni. Il messaggio che passa con i più giovani è avvilente». Sul pericolo di fuga interviene l’avvocato Francesco Mattiangeli, difensore di Menenti: «Dalla sua scarcerazione l’ho sentito più volte e posso confermare che si trova in Italia, anche se ovviamente non posso rivelare la località». Dal ministero della Giustizia intanto arriva un impegno. Il ministro Alfonso Bonafede invierà degli ispettori per ricostruire cosa sia avvenuto del fascicolo.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 27 giugno 2020. Il procedimento contro Ciro Grillo e tre suoi amici, accusati di violenza sessuale da una ragazza italonorvegese, procede a rilento, anche a causa del Covid-19. A fine agosto, mentre nasceva il nuovo governo, a Grillo junior e ai suoi compagni vennero sequestrati i cellulari. A gennaio il procuratore di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha ricevuto dal suo consulente la relazione sulle chat e i video contenuti nei telefonini dei ragazzi. Una perizia di cui non è trapelata nemmeno una parola. Ma se Capasso, esponente della corrente moderata di Magistratura indipendente, è stato straordinario nel blindare il procedimento e i contenuti degli smartphone, di cui dopo quasi un anno si sa poco o nulla, il procuratore sardo deve oggi fare i conti con il grande risalto mediatico che sta avendo un altro processo, quello di Luca Palamara, ex potentissimo consigliere del Csm. Infatti nelle carte del procedimento perugino spunta la chat che ha condiviso con Palamara. Il primo messaggio tra i due risale al 31 ottobre 2017, quando Capasso è pm a Latina e l' interlocutore è membro del parlamentino dei giudici. Il procuratore sardo, juventino sfegatato, dà inizio a un insistente «corteggiamento» per convincere il romanista Palamara ad andare a Torino con lui ad assistere alla sfida tra bianconeri e giallorossi del 23 dicembre 2017. Capasso la prima volta scrive dopo una vittoria della squadra capitolina contro il Chelsea: «Caro Luca, stasera, da buon italiano, ho fatto un gran tifo per una bellissima Roma. Chissà magari riuscirò a trascinarti nel mio stadio per vedere assieme "la partita"...». Palamara risponde: «Verrò sempre con grande piacere e ti aspetto presto». Inizia il pressing di Capasso: «Allora mi attivo... partita e cena al ristorante dello Stadium. Tribuna Cento dove saremo ospitati. E vinca il migliore, Var permettendo. Un saluto affettuoso». La Tribuna Cento è il top: ha i posti più centrali e vicini al campo e, come si legge sul sito della Juve, «oltre ad una posizione privilegiata su poltrone di altissimo comfort» mette «a disposizione servizi di catering di altissimo livello in un ristorante esclusivo». Questi posti valgono circa 350 euro l' uno e vengono acquistati dalle aziende che li mettono a disposizione di clienti e personalità. Il 5 novembre Capasso ricorda a Palamara la sua preziosa offerta: «Il 23 dicembre ho due inviti per una grande partita in primissima fila preceduta da un eccellente pranzo al ristorante dello Stadium. Poco prima di Natale [] Ps se vuoi, ma dubito, ho anche due inviti per la fila posizionata proprio dietro la panchina della squadra locale». Praticamente un bagarino. Il tutto in tripudio di emoticon. Palamara: «Grazie. Mi organizzo e ti faccio sapere». Il 6 dicembre il procuratore sardo ripropone la mercanzia: «Caro Luca se sei pronto il 23 ci attende una grande partita. E in una posizione adeguata. Previa cena al ristorante interno». Palamara cincischia: «Grazie Gregorio un abbraccio e ci sentiamo inizio prossima settimana». Arriva l' antivigilia di Natale e Capasso è un tifoso solo: «Caro Luca sto andando a Torino...Attendevo con piacere un tuo cenno, ma mi rendo conto che il 23 dicembre non è agevole spostarsi e soprattutto lasciare a casa moglie e magari figli. Speriamo di organizzarci per una prossima, importante occasione». Il 31 gennaio Palamara gli scrive: «Contento?». Capasso: «Certo che sì Luca. Grazie per il sostegno. Quando vuoi ci vediamo. Per qualunque cosa, partite comprese». Di che cosa parla Palamara? Quel giorno non ci sono state partite, ma il riferimento potrebbe essere alla notizia che compare pochi giorni dopo su un giornale locale: il Tar del Lazio ha annullato il provvedimento relativo alla nomina di procuratore aggiunto di Latina di Carlo Lasperanza, accogliendo il ricorso presentato proprio da Capasso, che aveva partecipato al concorso. Successivamente i due commentano le partite della Roma e la cavalcata Champions dei giallorossi. Il 24 aprile, invece, affrontano per la prima volta il tema delle nomine: «Se riusciamo giovedì plenum!!!» fa sapere Palamara, con riferimento all' incarico da procuratore a Tempio Pausania del collega. «Magari. Ma è stata finalmente approvata in commissione?», replica Capasso. Palamara: «Sì, caro. Proprio ora». Capasso: «Grazie Luca. Non dico altro». Palamara lo solletica: «Questa estate giro in barca». Capasso: «Ovvio. E calcetto...». Palamara il 9 maggio dà la conferma all' amico: «Plenum!!!». Capasso: «Grazie caro Luca ce l' abbiamo fatta. Io spero di festeggiare pure stasera (è prevista Juventus-Milan di Coppa Italia, ndr)». In estate i due si scambiano una serie di messaggi per organizzare una cena in Sardegna. Si ritrovano il 22 agosto e verso le 10 di sera. Palamara gira a Capasso il numero di cellulare del capo di gabinetto del ministro Alfonso Bonafede, Fulvio Baldi, di cui probabilmente hanno parlato tra una portata e l' altra. Il 23 Capasso commenta: «Bella serata caro Luca e piacere di essere stati assieme. Se vuoi andare al Lamante dell' Oasi di Sabaudia fammi sapere». Lamante è il beach club dell' elegante hotel Oasi di Kufra, in provincia di Latina, dove evidentemente Capasso ha i giusti agganci. Il 6 settembre il neoprocuratore si rifà vivo: «Avrei bisogno di una cortesia, se puoi. Domattina dovrei essere a Roma ed avrei urgente bisogno di parlare con la Fabbrini (Barbara, capo dipartimento dell' organizzazione giudiziaria al ministero della Giustizia, ndr) che non conosco personalmente. Se tu la conosci e puoi in qualche modo mettermi in contatto con lei ti sarei grato. [] Se ritieni che sia meglio potrei anche chiamare Baldi ma dovresti comunque anticiparglielo tu». Verso sera Palamara risponde: «Grande Gregorio ti aspetta domani alle 11.15». Capasso: «Grazie caro. Vado e poi ti chiamo per vederci [] riservatamente che se mi beccano». Il 13 settembre Capasso informa Palamara di essere rimasto con un solo sostituto procuratore in organico e di essersi rivolto alle commissioni del Csm competenti: «Vedi un attimo che si può fare» è il suo invito. A fine settembre Palamara sbarca in Sardegna. Il programma prevede giro alla Tavolara, arrampicata e cena con esponenti delle forze dell' ordine. Tra ottobre e novembre i due provano a organizzare un nuovo incontro conviviale sull' isola con Cosimo Ferri, parlamentare renziano ed ex capo della corrente di Mi. L' occasione per la «grande cena», in cui festeggiare l' ammissione di Capasso a un «corso riservato ai dirigenti degli uffici giudiziari» si presenta il 23 novembre. Da quel momento, a giudicare dalla chat, i rapporti si raffreddano e nel 2019 Capasso e Palamara si scambiano un solo messaggio, a tema calcistico.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 15 gennaio 2020. Alla fine, come nei processi per stupro degli anni '60, finirà che a doversi discolpare sarà la vittima. C' è una ragazza che dice di essere stata violentata: ma il rischio è che ora sia lei a dover spiegare perché ha accettato un invito, o perché non ha rifiutato un ultimo bicchiere. E persino perché, qualche giorno dopo i fatti, abbia postato su un social network una immagine in cui appare sorridente. Non è una indagine qualunque, quella dove la presunta vittima rischia di essere torchiata come una indagata. Perché tra i quattro maschi che il 26 luglio, in una caserma milanese dei carabinieri, la ragazza ha deciso di denunciare per violenza carnale c'è un figlio eccellente: Ciro Grillo, figlio di Beppe. E proprio nella villa in Costa Smeralda del fondatore del M5s era avvenuta, dieci giorni prima, la festa finita in sesso: sesso forzato, secondo la ragazza, con Grillo junior e i quattro amici che si danno il turno sopra di lei, rintronata dall'alcol e incapace di difendersi. Ma a quasi sei mesi dalla denuncia, la verità giudiziaria sembra ancora lontana. La Procura di Tempio Pausania, competente per territorio, ha prima promesso «indagini rapide», poi una ulteriore «accelerata». Eppure di una conclusione delle indagini non si parla nemmeno. Ultimo atto istruttorio di cui si sia avuta notizia, l'interrogatorio di Parvin Tadjk, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, che quella notte era in una dépendance della villa: il 22 ottobre, convocata dal procuratore Gregorio Capasso, la Tadjk pare abbia detto di non essersi accorta di nulla. Ma della lentezza delle indagini la Procura non ha molta colpa. Se tutto procede molto a rilento è perché sotto accusa non ci sono dei peruviani ubriachi ma quattro rampolli della Genova bene, in grado di esercitare pienamente i loro diritti alla difesa. Ciro Grillo e i suoi amici hanno ad assisterli uno staff agguerrito di legali. E hanno un loro supertecnico informatico, il genovese Mattia Epifani, pronto a scendere in campo in uno dei terreni che potrebbero risultare decisivi per l'inchiesta, ovvero l'analisi degli smartphone e dei profili social dei protagonisti. Non solo dei quattro indagati, ma anche della diciannovenne milanese che li ha denunciati. I ragazzi hanno consegnato spontaneamente telefoni e password, ma ora il problema è risalire ai contenuti cancellati. Per questo l' 11 settembre la Procura ha nominato un suo consulente, che ha aperto le memorie alla presenza del perito della difesa, che ha potuto estrarre copia ufficiale dei contenuti. La relazione del consulente dei pm ha impiegato parecchio più del previsto, e fino a ieri Natale non risultava ancora depositata. Ma l'ostacolo principale è quello che rischia di aprirsi subito dopo, quando i contenuti andranno analizzati uno per uno. Se questo dovesse avvenire alla presenza e in contraddittorio con il consulente della difesa l'analisi potrebbe impiegare mesi e mesi. In teoria, avendo a disposizione la copia del materiale, Epifani potrebbe lavorare autonomamente. Ma gli avvocati sembrano (legittimamente) intenzionati a chiedere la sua presenza. Rapporto consensuale o stupro, questo è il nodo da sciogliere. Gli inquirenti hanno già in mano un video girato durante la festa: evidentemente non risolutivo, tanto che vittima e accusati, attraverso i rispettivi legali, ne danno letture opposte. Così nei messaggi e nei post si cerca di ricostruire i rapporti tra i ragazzi genovesi e la milanese prima e soprattutto dopo la notte a villa Grillo. E le difese sarebbero orientate a rinfacciare un selfie in cui, qualche giorno dopo il 16 luglio, la ragazza appare sorridente in compagnia dei genitori. Basterà questo a provare che ha mentito?

Via libera al processo eterno: il Pd cede, vince Grillo. Aldo Torchiaro il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. Dal conclave di Contigliano si solleva una fumata bianca. È sulla prescrizione: un argomento caldissimo, a dispetto del gelido convento reatino in cui sono chiusi ministri, parlamentari e dirigenti Pd. Nelle segrete stanze dell’abbazia circola, come nella suggestione di Umberto Eco, il nome della rosa: un patto segreto cui tutti i convenuti giurano fedeltà. Il codice miniato da tutelare a costo della vita qui assume le prosaiche fattezze del testo della riforma Bonafede. È Lucia Annunziata, rimasta fuori dalle porte del conclave, a rivelare i dettagli della riunione dem: «Don Dario Franceschini in chiesa ha chiesto a una coppia di conviventi un po’ riottosi di sposarsi». In sostanza la strategia politica espressa durante l’incontro in questo “freddissimo e austerissimo convento”, continua la Annunziata è che «l’alleanza tra il Pd e M5s si rinsaldi, diventi strategica» legandosi al progetto, tratteggiato dal segretario Zingaretti, di un partito che cambia nome e simbolo, magari proprio in asse con lo sparring partner a Cinque Stelle. Vittima sacrificale e primo banco di prova di questa unione è la prescrizione, che i Dem sono pronti a mandare in soffitta, con il rischio di trasformare il sistema giustizia nel girone dei dannati in cui la pena accessoria diventa di fatto, già a monte, l’incertezza più assoluta sulla durata del procedimento. Si introdurrebbe, se la prescrizione saltasse senza correttivi, la “fine pena mai” per milioni di processi consegnati allo strazio infinito. Se il Pd voterà insieme con il M5S in Commissione Giustizia, il loro emendamento anti-Costa ha ottime probabilità di successo. Dei 45 componenti della Commissione giustizia, 25 sono di maggioranza e 20 di opposizione. Se i due di Italia Viva si sfilano, confermando il voto della proposta di legge a firma Costa, finirà comunque 23 a 22. La presidente della Commissione, la giovane avvocata padovana Francesca Businarolo, dei Cinque Stelle, con ogni probabilità non rispetterà la prassi per cui il presidente si astiene e farà convergere il suo voto su quello di maggioranza. Ieri ha perfino reso noto che il voto previsto oggi viene spostato alla seduta pomeridiana di mercoledì prossimo. Un rinvio chiesto dal gruppo del Pd proprio per gli impegni a porte chiuse di queste ore, ma anche dal rappresentante del governo che segue il provvedimento, ed è stato accolto da tutti i gruppi con la sola esclusione di Fi e Lega. Palazzo Chigi in effetti non è rimasto a guardare. Il premier Conte ha provato a mediare con una misura giudicata ancora inadeguata dai renziani: «Non siamo ancora soddisfatti – dice Davide Faraone – e ci riserviamo di valutare». Per Maria Elena Boschi «resta migliore l’ipotesi di tornare alla disciplina precedente votando la proposta di Costa». Conte aveva promesso un impegno da parte sua per un disegno di legge delega sul processo penale che dovrebbe accelerare i tempi dei tre gradi di giudizio con una sanzione disciplinare prevista per i giudici che li sforano in appello. L’unica modifica vera strappata alla riforma Bonafede che dal primo gennaio ha stoppato la prescrizione dopo il primo grado è la distinzione tra condannati e assolti: per i primi la prescrizione resterebbe bloccata, gli assolti invece beneficerebbero della decorrenza dei termini nei successivi gradi di giudizio. Un lodo promosso da un altro Conte, Federico, di Leu, che punta a fermare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio solo per chi viene condannato. «A noi appare una proposta significativa, anche perché dimostra la non intoccabilità della legge», dichiara Walter Verini, responsabile giustizia del Pd, al Riformista. Prosegue Verini: «Mi permetto di far rilevare che la parte davvero importante dell’intesa che si è trovata riguarda le ipotesi concrete di norme e provvedimenti in grado di portare a tempi certi delle fasi processuali, coerenti con la durata ragionevole dei processi». Solo ipotesi, appunto. Ma pacta sunt servanda. Secondo Forza Italia, patti satanici. «Il Pd sta vendendo la sua anima al diavolo pentastellato e, cosa molto più importante, sta svendendo il Paese all’ideologia giustizialista e pauperista dei 5 Stelle», arringa un altro avvocato della politica, il deputato azzurro Francesco Paolo Sisto. Alle trattative tra Pd e Cinque Stelle non è estraneo l’altro dossier caldo, quello sul Dl Sicurezza. «Non c’è dubbio che ogni momento è buono per lavorare alla revisione. soprattutto depurandoli di alcune previsioni aggiuntive che non hanno nulla a che vedere con l’impianto inizialmente previsto», ha assicurato Giuseppe Conte ieri. I maligni parlano di una intesa mediata da Conte tra Zingaretti e Di Maio, Franceschini e Bonafede: via la prescrizione, via il Decreto Sicurezza. E rimane, corretto, il Reddito di Cittadinanza.

«Noi confermiamo le nostre posizioni», attesta Ettore Rosato, Italia Viva. «Se poi altri hanno trovato un’intesa senza di noi…». In effetti l’intesa c’è e a Contigliano sembrano pronti a sottoscrivere più di un accordo concessivo: un contratto pre-matrimoniale, per rifarci alla metafora nuziale, pur di fermare l’avanzata di Salvini. Gli ultimi sondaggi sull’Emilia-Romagna preludono a una stagione di cambiamenti radicali in casa Dem. Nome e simbolo finiranno in quel camino da cui ieri è esalata, trasformata in fumo, la prescrizione.

Cosa succede a chi cade nella loro rete. Alessandro Sallusti, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Egregio dottor Davigo, ho letto con interesse ieri sul Fatto Quotidiano la sua intervista accalorata a difesa della legge che abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Lei dice che bisogna estirpare il malcostume degli avvocati di fare ricorso a prescindere in Appello e in Cassazione solo per comperare tempo e alla fine sfangarla appunto con la prescrizione (pratica peraltro messa in atto con successo anche dal suo intervistatore Marco Travaglio, ma questa è un'altra storia). Al di là di considerazioni sul rispetto che lei ha per il diritto inviolabile di un uomo a difendersi in ogni tempo, luogo e sede, mi spiace che lei non faccia accenno anche al vizio opposto, cioè quello delle Procure di fare ricorso in maniera automatica contro qualsiasi sentenza loro sfavorevole in primo grado, intasando i tribunali e allungando il calvario degli imputati. Ma si sa, lei non è un arbitro ma un giocatore, veste la maglia dei magistrati e vede solo i falli degli avversari, mai quelli commessi dalla sua squadra. A tal proposito volevo sottoporle, mi scuserà per questo, un caso personale per dimostrarle quanto sia difficile, per un cittadino imputato anche di quisquilie, avere giustizia in tempi accettabili, ma soprattutto avere giustizia anche di fronte a un palese errore giudiziario per scambio di persona. Probabilmente ai suoi occhi sono colpevole per il solo fatto di essere un garantista rinviato a giudizio ma mi creda, questa volta non può essere così, prenda in considerazione per un secondo la possibilità che anche un orologio rotto (quale lei probabilmente mi considera) due volte al giorno segni l'ora esatta. Provo a dimostraglielo. Nel dicembre del 2012 venni arrestato, primo direttore in Italia, per omesso controllo su un articolo scritto nel 2006 da un collega che criticava l'operato di un giudice. Lasciamo stare che 50 giorni dopo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano commutò la detenzione in semplice multa per evidente sproporzione della pena e che nel 2019 la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha condannato l'Italia a risarcirmi 18mila euro per ingiusta detenzione; lasciamo stare quindi la comprovata incompetenza dei giudici che emisero quella sentenza pagata non da loro ma dai contribuenti. Il fatto che voglio sottoporle è un altro. Pochi mesi dopo l'arresto, siamo quindi nel 2013, un altro giudice mi denunciò per omesso controllo su un articolo scritto sul tema da un collega nei giorni seguenti la condanna. Per questo presunto reato sono finito a processo nel 2017 presso il tribunale di Cagliari (richiesta del pm: un anno e sei mesi di carcere), dove con grande sorpresa e imbarazzo del giudice ho dimostrato in maniera inoppugnabile che quel reato non potevo averlo commesso, perché all'epoca dei fatti non ero direttore responsabile de Il Giornale. Mi creda, dottor Davigo, non si tratta di trucco o furbizia, quando fu pubblicato l'articolo in questione, il direttore responsabile era il collega Biazzi Vergani, come risulta dagli atti del Consiglio di amministrazione della società editrice, dall'interruzione amministrativa e sostanziale del mio rapporto di lavoro (ero stato liquidato), dalla gerenza pubblicata sul Giornale, insomma dai fatti formali e concreti. Un errore bello e buono, tanto che il giudice mi assolse per non aver commesso il fatto. Tutto bene quel che finisce bene? Questa massima quando hai a che fare con certa magistratura non vale. Il pm cagliaritano, stizzito, nonostante l'evidenza ha fatto appello e, mistero delle toghe, nell'aprile del 2019 lo ha vinto. Un giudice mi ha condannato, non più carcere ma 850 euro di multa. Insomma, direttore a metà, colpevole ma solo un po'. Entro tre mesi, per legge, quel giudice avrebbe dovuto depositare le motivazioni della bizzarra sentenza ma ancora di mesi ne sono passati nove aspetto di sapere in che modo lui sia giunto alla conclusione che un privato cittadino quale ero io all'epoca del fatto contestato sia responsabile di un presunto reato compiuto da un giornale del quale non era dipendente. Fino a che non leggo tali motivazioni non posso fare ricorso e quindi se il reato andasse in prescrizione non sarebbe per colpa di un avvocato furbo, ma di un magistrato fannullone. E allora, dottor Davigo, le chiedo: secondo lei quanto tempo è lecito che io aspetti ancora per sapere come stanno le cose e, sempre che lei non si arrabbi, fare ricorso in Cassazione? Le chiedo: perché a sette anni dal presunto reato rispetto al quale come le ho dimostrato sono del tutto estraneo siamo ancora in ballo con giudici e avvocati non per mia furbizia ma per errori, incapacità e negligenza della sua categoria? E ancora: quanti anni pensa che passeranno prima che la Cassazione alla quale mi rivolgerò - possa mettere la parola fine a questa odissea? Ma soprattutto, lei sa quanti milioni di persone si trovano alle prese con gli stessi miei problemi per questioni ben più importanti della mia?

Il giudice si accanisce su Sallusti anche se è stato processato per errore. Non era direttore ed è stato assolto, ma il querelante in toga fa ricorso. Diana Alfieri, Mercoledì 31/05/2017, su Il Giornale. Assolto per non avere commesso il fatto: Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, esce incolume dal processo intentato contro di lui da un ex giudice di Cassazione, Antonio Bevere, proprio quello che nel 2012 gli aveva rifilato un anno di carcere, e che poi si era sentito diffamato dagli articoli del nostro quotidiano. Ieri il tribunale di Cagliari assolve Sallusti: per il semplice, documentato motivo che all'epoca dell'articolo querelato non era più direttore del Giornale, e anzi si era dimesso. Il giudice Bevere, che vede allontanarsi la speranza di vedere finalmente Sallusti condannato al carcere e soprattutto a un robusto risarcimento, però non ci sta: e attraverso il suo legale Alessandro Gamberini annuncia che presenterà ricorso. Ieri sera, quando le agenzie di stampa danno la notizia, Sallusti si indigna. Lo aveva già fatto nei mesi scorsi, nel corso del processo, quando si era presentato davanti al tribunale di Cagliari rivendicando la propria innocenza, e depositando al giudice la copia cartacea del quotidiano in cui l'articolo era pubblicato: bastava andare alla terzultima pagina, dove era pubblicata la «gerenza», per vedere che in quella data il direttore responsabile era Gian Galeazzo Biazzi Vergani, nominato dall'editore dopo che Sallusti aveva rassegnato le proprie dimissioni. Ma il giudice Bevere, e il suo legale, avevano querelato - oltre all'autore dell'articolo incriminato - anche Sallusti, accusandolo di omesso controllo. Un reato che, in base alla legge, può commettere solo il direttore responsabile. Eppure a Cagliari la Procura aveva chiesto la condanna di Sallusti a un anno e mezzo di carcere, e davanti all'inevitabile assoluzione Bevere annuncia il ricorso. «Siamo al di là dell'immaginabile - commenta Sallusti - è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Mi hanno denunciato sapendomi innocente, e adesso vogliono anche un nuovo processo. Incredibile. Io questo reato avrei voluto commetterlo, ma non ho potuto farlo perché non ero il direttore». Per l'autore dell'articolo, la Procura aveva chiesto due anni: il giudice gli ha dato mille euro di multa, il minimo della pena.

Prescrizione, Marco Travaglio ha bisogno di qualche ripetizione da Emma Bonino. Tiziana Maiolo il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quando parla, la butta lì. Tanto non ha contraddittorio. Quando scrive, la butta lì. Tanto non ha contraddittorio. Quando parla. Ha detto testualmente Marco Travaglio, nella solita trasmissione in cui non esistono pareri contrari, che la prescrizione, ormai diventata una sorta di peccato originale della giustizia italiana, serve solo ai “colpevoli”. Perché tanto gli innocenti, ha aggiunto, vengono assolti. Non ci permetteremmo mai di introdurre nella vita di un grande giornalista la novità non solo di incontrare qualcuno che contesta la sua apodittica affermazione e neppure, come sarebbe doveroso, di sentirsi dare dell’ignorante. Perché saremmo costretti a sollecitarlo a ripassare, se non studiare, almeno la prima parte della Costituzione e la presunzione di “non colpevolezza”. Che è cosa diversa dall’innocenza, ma non vogliamo sottilizzare. Ci basta ricordargli il caso più famoso delle tante ingiustizie italiane, quello di Enzo Tortora. Il quale – ricordi, Travaglio? – fu rinviato a giudizio e anche condannato al processo di primo grado. Colpevole, dunque? È per uno come lui che si deve abolire ogni termine di prescrizione, che si devono buttare via le chiavi e lasciarlo morire prima che abbia avuto quella riparazione di giustizia che fu rappresentata dall’assoluzione in appello e poi in via definitiva in Cassazione? La domanda non ha risposta, ai grandi giornalisti non serve avere risposta, basta loro buttarla lì. Senza contraddittorio. Quando scrive. Non avendo sufficiente cultura per l’ironia, Marco Travaglio fa grande uso del sarcasmo. Ha preso di mira, nell’editoriale di ieri sul quotidiano che dirige, alcune persone per bene, descritte come dei poveretti in quanto portatori di pensiero divergente dal suo. Emma Bonino, Benedetto Della Vedova, Stefano Parisi e Carlo Calenda avevano preso parte a una manifestazione davanti a Montecitorio proprio per segnalare la barbarie cui è arrivato il processo penale dopo l’entrata in vigore della legge che abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Travaglio li sfotte con la consueta eleganza. Siete pochi, dice loro dall’alto del suo seguito di folle oceaniche, e non siete neanche dei veri europeisti, tanto che non sapete neppure che l’Italia è stata condannata, proprio per il suo sistema di prescrizione, «da tutte le istituzioni europee, che hanno sempre caldeggiato la riforma Bonafede». Caspita. E quali sono queste istituzioni che avrebbero “condannato” l’Italia? Il nostro cita un solo organismo, e capiamo subito che di un po’ di ripetizioni da Emma Bonino il ragazzo avrebbe proprio bisogno. Per chiarirsi le idee sull’Europa e anche per imparare a distinguere tra i diversi organismi. Non c’è stata nei confronti dell’Italia alcuna condanna e non potrebbe esserci. L’organismo da lui citato infatti, si è solo limitato a esprimere una preoccupazione (non vincolante) per l’eccesso di reati caduti in prescrizione nel nostro Paese. Si tratta del Consiglio d’Europa, che è un ente esterno all’Unione Europea, tanto che ne fanno parte anche paesi come Turchia, Russia e Azerbaigian e che è nato fin dal 1949 per promuovere la democrazia e i diritti umani. All’interno del Consiglio d’Europa (che non va confuso né con il Consiglio della UE né con il Consiglio europeo) esiste un gruppo di controllo sulla corruzione chiamato Greco, che sarebbe, secondo Travaglio, l’autore della “condanna” nei confronti dell’Italia. Cosa impossibile, non avendo questo gruppo, come del resto lo stesso Consiglio d’Europa, alcuna funzione giurisdizionale. Compito al contrario attribuito, oltre che alla Corte di giustizia dell’Unione europea, alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che ha, lei sì, più volte condannato l’Italia, ma per una serie di casi di eccessiva lentezza dei processi. Ma la lentezza, che è poi la premessa che sta alla base della necessità di ricorrere anche alla prescrizione dei reati, ai grandi giornalisti come Travaglio non interessa. Visto che è interessato alla documentazione prodotta dal Consiglio d’Europa, gli suggeriamo materiale per il prossimo editoriale. Dia un’occhiata all’ultimo rapporto prodotto dalla commissione che si occupa dell’efficienza della giustizia (Cepej) nel 2018. Proviamo a esaminare i dati sui tempi della giustizia penale nei vari Paesi europei. La media dei Paesi membri del Consiglio d’Europa è di 138 giorni per il processo di primo grado, 143 per il secondo e altri 143 per il terzo. Complessivamente poco più di un anno. L’Italia? Mediamente 310 giorni per il primo grado (Germania 117, Spagna 163, Regno Unito 72, Danimarca 38), 876 per il secondo, 191 per la cassazione. Totale: tre anni e nove mesi. Ecco dove nasce la necessità di ricorrere alla prescrizione. Fattelo spiegare da Emma Bonino, caro Travaglio.

Piercamillo Davigo: «L’avvocato paghi al posto degli indagati». Il Dubbio il 10 gennaio 2020.  La proposta di Piercamillo Davigo. Secondo il consigliere togato del Csm, «bisognerebbe rendere responsabili in solido I legali». «Oggi tutti propongono i ricorsi e si perde un sacco di tempo. La sanzione pecuniaria, 2- 6mila euro a imputato, non spaventa nessuno. Anzi, non la paga quasi nessuno: lo Stato incassa solo il 4%, perché gran parte degli imputati non dichiara redditi né ha beni al sole. Basterebbe rendere responsabile in solido l’avvocato. Così, quando il cliente gli chiede di ricorrere, gli fa depositare fino a 6 mila euro e poi, in caso di inammissibilità del ricorso, verserà lui la somma al posto del cliente». E’ una delle proposte di Piercamillo Davigo, presidente della II Sezione Penale presso la Corte suprema di Cassazione e membro togato del Consiglio superiore della magistratura, che ha lanciato da un un’intervista a Il Fatto Quotidiano Inoltre suggerisce Davigo, «nei Paesi di Common Law, c’è il reato di oltraggio alla Corte per chi fa perdere tempo inutile. Basterebbe consentire al giudice di valutare anche le impugnazioni meramente dilatorie per aumentare la pena». «Altra cosa prosegue – per legge, può emettere la sentenza solo il giudice che ha acquisito personalmente tutte le prove. Se un membro del collegio va in maternità o in pensione o viene trasferito, a richiesta della difesa bisogna riacquisire tutte le prove, anche se ora le Sezioni Unite della Cassazione hanno tentato di arginare questa prassi insensata». «Io rivedrei il patrocinio gratuito a spese dello Stato per i non abbienti – propone poi Davigo – La non abbienza è una categoria fantasiosa, perché molti imputati risultano nullatenenti. Così lo Stato paga i loro avvocati a piè di lista per tutti gli atti compiuti, e quelli compiono più atti possibile per aumentare la parcella. Molto meglio fissare un forfait una tantum secondo i tipi di processo».

Prescrizione avvelenata. Errico Novi l'11 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il day after sulla prescrizione smorza gli entusiasmi della maggioranza. Mascherin: subito il tavolo con avvocati e magistrati Pure Davigo boccia il lodo Conte: è incostituzionale. La cosa buffa dell’ennesimo day after sulla prescrizione è che la sospirata intesa non piace a nessuno. O quasi. Piace di certo a Giuseppe Conte che l’ha proposta, va bene tutto sommato al Pd che non era strafelice di mettersi all’opposizione di Salvini per una questione di principio sulla giustizia. Ma l’idea di ritoccare la riforma Bonafede nel senso di limitarla solo alle sentenze di condanna rischia di diventare problematica persino per il Movimento 5 Stelle. Ebbene sì, perché con un colpo di scena beffardo, poche ore dopo il sospiro tirato alla fine del vertice di giovedì sera, Piercamillo Davigo, ascoltatissimo dai grillini, regala con assoluta nonchalance il seguente epitaffio: «Limitare lo stop a chi in primo grado è condannato? Possono esserci dubbi sotto il profilo di precedenti pronunce della Consulta». Gelo. Non solo nel senso che il togato del Csm, dopo aver liquidato il lodo Conte, sistema così l’imputato impertinente che ricorre in appello: «Nel suo caso, l’argomento per cui senza prescrizione c’è il fine processo mai non ha senso: di che si lamenta se è lui che chiede un altro giudizio?» ( il diritto di difesa per Davigo è sempre come la bicicletta, l’hai voluto e pedala). No, il gelo paralizza per ore i 5 Stelle, che non diffondono alcun attestato di giubilo sullo sblocco del dossier giustizia. Fioccano le dichiarazioni delle opposizioni, in particolare di Forza Italia, che parla di «bestialità giuridica» ( Francesco Paolo Sisto) e di «obbrobrio» ( Enrico Costa). Fino a Renato Schifani, che preferisce optare per il «mostro giuridico di lapalissiana incostituzionalità» e aggiunge: «Il M5S materializza le sue suggestioni colpevolistiche, con il Pd che alla fine subisce e avalla il giustizialismo grillino». Probabile che l’ex presidente del Senato colga nel segno. La quasi totalità dei giuristi vede nel lodo Conte sulla prescrizione un vizio di legittimità forse ancora più grave di quanto non fosse già nella norma Bonafede originale. Tanto è vero che l’Unione Camere penali continua a tenere sul tavolo l’ipotesi del referendum abrogativo, come l’Ocf, il cui coordinatore Giovanni Malinconico teme anche «una corsia preferenziale per gli appelli dei pm, con un’ulteriore disparità di trattamento». Si potrebbe citare persino il vero autore della proposta, Conte, ma non Giuseppe: si tratta di Federico, l’ingegnoso deputato- avvocato di Leu che in realtà aveva sguainato l’idea della prescrizione limitata alle condanne molto tempo addietro. Addirittura nella prima riunione di maggioranza sulla giustizia, a settembre. Ebbene, proprio lui, intervistato qualche giorno fa dal Dubbio sul rischio di violare la presunzione di non colpevolezza, aveva risposto «con un paradosso» che è comunque «meglio dimezzare lo spazio di probabile incostituzionalità…». A essere davvero d’accordo con il lodo c’è forse solo l’Anm: lo propone da sempre e al recente congresso di Genova, in una mozione, ha ribadito di essere per rendere potenzialmente eterni solo i processi a chi in primo grado è condannato. Ora, proprio l’Anm sarà riascoltata dal guardasigilli Bonafede per gli ultimi dettagli sulla riforma penale, in particolare sul coté ordinamentale. A via Arenula si ipotizza di riallungare l’età pensionabile dei magistrati a 72 anni, ma già dal “sindacato” delle toghe filtra scetticismo sull’ennesima oscillazione della soglia. Certo è che il ministro si dice «pronto» ad arrivare con il corposo ddl penale, comprensivo anche delle riforme per il Csm, già al Consiglio dei ministri di martedì prossimo. Dovrà però fare in tempo a cucirci dentro la norma che sopprime la nuova prescrizione nei casi in cui in primo grado si è assolti. La sua idea, definita nel colloquio con il premier giovedì sera, è di aggravare comunque un po’ la sorte di questi ultimi, con il recepimento della proposta Pd: allungare di 6 mesi ( più altri 6 in caso di rinnovazione del dibattimento) la sospensione della prescrizione se il pm fa appello. Si vedrà. Certo entreranno nella legge delega altre varie misure acceleratorie. Alcune ben note, come la digitalizzazione delle notifiche successive alla prima. Altre molto interessanti, di marca dem, come il controllo giurisdizionale del gip sull’effettiva tempestività con cui il pm iscrive l’indagato nel registro, in modo che la Procura non guadagni tempo indebito per le indagini con la scusa che non ha ancora ben individuato il responsabile dell’illecito. Antica richiesta dell’avvocatura. Che potrebbe vedere dei passi avanti anche su un altro, inatteso fronte, quello delle depenalizzazioni. Ma prima di verificare quanto misurerà il campo da gioco della riforma penale, bisognerà capire meglio se si è chiuso davvero il match sulla prescrizione. O se il fallo da dietro di Davigo rischia di riaprirlo.

Prescrizione, Mascherin: «Il teorema di Davigo: superfluo l’esercizio della difesa». Andrea Mascherin il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. La proposta di Davigo: l’avvocato paghi per l’indagato. La replica del presidente del Cnf. I magistrati possono sbagliare: il giusto processo serve a evitare errori giudiziari che gettano il peso delle conseguenze sulle spalle dei cittadini. A me pare che per valutare le tesi del Consigliere Davigo in tema di prescrizione, apparse sul Fatto Quotidiano di ieri, si debba preliminarmente rispondere ad una domanda: e cioè se possiamo escludere la fallibilità di pubblici ministeri e giudici. In tale caso potremmo anche escludere la utilità di un giusto processo, e la necessità di garantire il diritto di difesa. Per mera ipotesi, e senza voler urtare la suscettibilità del Consigliere Davigo, supponiamo invece che il magistrato – pubblico ministero o giudice – possa sbagliare, e in tale caso quali le possibili conseguenze. Diciamo subito: consisterebbero in qualche vita rovinata. Di esseri umani. E perfino di interi nuclei familiari. Ora vi è da puntualizzare che i nostri Padri Costituenti, probabilmente condizionati da esperienze autoritarie, abbiano ritenuto di prendere in considerazione le possibilità dell’errore giudiziario ( inteso come condanna dell’innocente e non viceversa); garantendo perciò il diritto alla difesa a tutti a prescindere dal censo; fissando la presunzione di non colpevolezza e riconoscendo alla pena un fine anche rieducativo.

Ipotizziamo anche – sempre per mera ipotesi – che i dati, che ci consegnano circa mille errori giudiziari accertati all’anno ( sempre di innocenti ingiustamente condannati), siano veritieri. Pur se è vero che sullo sfondo di questo dato si profila la possibile fallibilità della giurisdizione. Se, sempre per amor di tesi, si dovesse ritenere opportuno evitare condanne ingiuste, allora dovremmo concludere che i Padri Costituenti, considerando la possibilità di errore degli operatori del diritto: avvocati e magistrati, abbiano voluto costruire un sistema fondato sulla presunzione di non colpevolezza, sul rispetto della persona, sul fine anche rieducativo della pena. Sistema che, in ultima analisi, privilegia l’idea di evitare a tutti i costi la condanna ingiusta, e magari la conseguente perdita di libertà di un nostro simile.

Ora, noi avvocati abbiamo piena consapevolezza della nostra umana fallibilità. Tuttavia qualora anche i magistrati fossero fallibili – e per il vero moltissimi tra loro sembrerebbero ritenerlo possibile – allora un compiuto ed equilibrato sistema di civiltà dovrebbe prevedere una rigorosa applicazione del principio di non colpevolezza, un altrettanto rigoroso rispetto del diritto alla difesa, un’idea di funzione anche rieducativa della pena. Se insomma avesse ragione la Carta Fondamentale, dovremmo concludere che nel bilanciamento dei vari interessi e della varie tutele in primo luogo si dovrebbero limitare i rischi di errore giudiziario ( sempre inteso come condanna dell’innocente); garantire di conseguenza il pieno rispetto del ruolo della difesa e dell’avvocato, chiamato a custodire i diritti del cittadino accusato così come quelli delle parti offese, e non da ultimo il riconoscimento di una giurisdizione autonoma e indipendente da ogni potere, salvo il controllo tecnico operato dall’avvocato. Tutto sommato quanto sopra parrebbe il disegno del cosiddetto giusto processo, che comprende anche la ragionevole durata dello stesso, nell’interesse di tutti: imputati, parti lese, Stato. Giusto processo che non è fatto di sanzioni a carico di chi si difende, non è fatto di strumenti a compressione del diritto di difesa, compreso quello delle parti lese, non è fatto di durata indeterminata e indeterminabile dei procedimenti, e che si fonda sul riconoscimento del ruolo costituzionale dell’avvocato oltre che sulla necessaria autonomia e indipendenza della magistratura. Il giusto processo non può essere inteso come un percorso a ostacoli per la difesa, disseminato di sanzioni processuali e pecuniarie. Dovendosi casomai affermare la necessità di un unico civile ostacolo, ovvero la necessità della prova al di là di ogni ragionevole dubbio per giungere ad una sentenza di condanna. Il giusto processo richiede anche la tutela della parte offesa, attraverso la possibilità di far valere le proprie ragioni a mezzo del proprio avvocato in tempi ragionevoli. Ora, l’avvocatura per vocazione e convinzione rispetta le tesi di chiunque, nella rigorosa applicazione del principio dialettico, e quindi anche quelle del consigliere Davigo, che propongono un’idea di giurisdizione e di società che pare essere fondata sulla presunzione di colpevolezza, sulla funzione esclusivamente retributiva della pena, sulla superfluità dell’esercizio del diritto alla difesa. Una tesi astrattamente legittima ( magari forse costituzionalmente poco orientata) e comunque da rispettare, seppur impossibile da condividere da parte dell’avvocatura italiana, che vede ogni giorno uccisi, imprigionati, scomparsi, centinaia di colleghi che nel mondo si battono per le libertà. Lo abbiamo detto tante volte. Prima di far pesare le disfunzioni dello Stato sui cittadini, bisognerebbe intervenire con definitivi e decisivi investimenti in organico di magistrati, personale amministrativo, strumenti e edilizia giudiziaria. Ovviamente quanto finora affermato a sostegno del giusto processo presuppone la fallibilità, oltre che degli avvocati, anche dei magistrati: eventualità quest’ultima che nelle visioni a mio avviso non di rado provocatorie del Consigliere Davigo, non sembra trovare cittadinanza. Ma se, discostandoci per un attimo dalle tesi del Consigliere, ipotizzassimo, sempre ed esclusivamente per amor di tesi, che anche i pm ed i giudici possano sbagliare, e che dunque sia molto pericoloso per la nostra democrazia comprimere il diritto alla difesa, allora dovremmo concludere che i nostri padri Costituenti siano stati molto lucidi e consapevoli nel considerare inviolabile quel diritto. In definitiva, non va sanzionata la difesa dell’imputato, come quella della parte lesa, che al contrario vanno gelosamente tutelate tramite un sistema giustizia all’altezza di una democrazia evoluta, senza rischiare di far pagare ai cittadini le eventuali carenze statali. Quanto appena detto presuppone che la giurisdizione debba fondarsi su rigorose garanzie, che la mettano al riparo da errori e da visioni giustizialiste. Certo anche questa è una tesi. Con il dubbio però che questa sia la tesi fondante il nostro Stato di diritto.

Prescrizione, la ricetta di Davigo fa arrabbiare gli avvocati. Le proposte del magistrato per riformare la prescrizione non piacciono agli avvocati. E scoppia la polemica "forense". Alberto Giorgi, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Scoraggiare i ricordi in appello e rendere responsabili gli avvocati. Sono due delle proposte avanzate da Piercamillo Davigo per riformare la giustizia italiana, prescrizione compresa. Il presidente della II Sezione Penale presso la Corte suprema di cassazione e membro togato del Consiglio superiore della magistratura, intervistato da Il Fatto Quotidiano, ha sciorinato la sua ricetta. Ricetta che parte dall'esempio francese, visto che i cugini d'oltre Alpe hanno abolito il divieto di "reformatio in peius in appello". In soldoni, se vieni condannato e ti appelli, può arrivarti una condanna più alta. In Italia, invece, questa cosa non è possibile. "Questa cosa, qui da noi, incentiva tutti a provarci: mal che ti vada, non rischi niente, anzi non vai in carcere e magari ti prendi pure la prescrizione. Perché non dovrebbero tentare? Perciò qui patteggiano in pochissimi e negli Usa quasi tutti: lì, se l'imputato si dichiara innocente, sceglie il rito ordinario e poi si scopre che era colpevole, lo rovinano con pene così alte che agli altri passa la voglia di provarci. In Italia puoi patteggiare senza dirti colpevole e poi financo ricorrere in Cassazione contro il patteggiamento che hai concordato", il Davigo-pensiero. Un pensiero, però, che non piace affatto agli avvocati. Giovanni Malinconico, presidente dell'Organismo congressuale forense, ha così commentato all'Adnkronos le uscite del magistrato: "Le proposte di Davigo sono un intervento a gamba tesa ed è un'aberrazione che un componente togato dell'organo di autogoverno della Magistratura interferisca con scelte normative, peraltro usufruendo di un organo di stampa". Il presidente dell’Ocf rincara la dose: "Il discorso di Davigo è un racconto giustizialista che avvalora la concezione della giurisdizione come potere, non sistema di tutele per i cittadini". A Malinconico ha fatto eco Antonino Galletti, presidente del Consiglio degli avvocati di Roma: "La ricetta di Davigo si risolve in una formula molto semplice ed inaccettabile: ridurre i diritti e le garanzie per abbreviare i processi". E aggiunge: "L'avvocatura si oppone a qualunque visione che individua nell'uomo libero un potenziale colpevole ancora da scoprire". Ma le idee di Davigo non si esauriscono alla "Reformatio in peius", anzi. Il magistrato suggerisce il reato di oltraggio alla Corte per tutti quegli imputati che cercando far perdere tempo alla corte: "Basterebbe consentire al giudice di valutare anche le impugnazioni meramente dilatorie per aumentare la pena". Dulcis in fundo, un'altra stretta: "Fosse per me, rivedrei anche il patrocinio gratuito a spese dello Stato per i non abbienti, perché quella del abbienza è una categoria fantasiosa, perché molti imputati risultano nullatenenti. Così lo Stato paga i loro avvocati a piè di lista per tutti gli atti compiuti, e quelli compiono più atti possibile per aumentare la parcella…".

Un processo infinito lede i diritti costituzionali. Non esistono tecniche dilatorie della difesa. Andrea Mascherin l'8 gennaio su Il Dubbio. Il commento del presidente del Cnf, Andrea Mascherin. Gli argomenti, fondati o meno, a favore o contro la soluzione Bonafede sulla prescrizione sono ormai più che noti, e quindi non mi soffermo sugli stessi, salvo osservare come sia necessario affrontare argomenti tecnici in maniera tecnica, ciò vale per il diritto, come per la medicina (vedi le discussioni spesso “lunari” sui vaccini), e per tanti altri temi. Va anche detto che non esistono sistemi processuali perfetti in grado di evitare comunque il verificarsi di patologie. Premesso quanto sopra, la questione è capire come il nostro sistema democratico, fondato sulla Costituzione, abbia voluto disegnare il processo o meglio il sistema della giurisdizione. Diciamo subito che l’idea della giurisdizione riflette l’ idea di società e la nostra carta fondamentale ha voluto disegnare una società (e dunque una giurisdizione) fondata sul principio di eguaglianza e di solidarietà, con al centro la tutela della dignità della persona sempre e comunque, scelta questa derivata come reazione a un regime autoritario che negava il principio di eguaglianza, per affermare una sorta di giustificazione ordinamentale alla diseguaglianza, pensiamo alle leggi razziali, ai tribunali speciali, ecc…I padri costituenti erano consapevoli del fatto che nessun diritto è definitivamente acquisito, che ogni libertà può essere messa in discussione, bastando a ciò un tratto di penna da parte del Legislatore di turno. E’ questa una considerazione centrale, perché vale a significare che comprimere un diritto di chiunque, anche del soggetto socialmente più riprovevole, e anche per fini che si ritengano giusti, significa comprimere il diritto di tutti, significa mettere in discussione una scelta di sistema e di società. Ecco per quale motivo la nostra Costituzione riesce, in nome della democrazia evoluta, a fare sintesi tra ideologie all’epoca molto distanti tra loro. Come quella cattolica, quella liberale, quella socialista. La scelta dei costituenti è stata quella di individuare una giurisdizione (non solo penale) intesa come sede di libertà e di pari diritti per tutti, una idea di processo in cui si garantisca la presunzione di non colpevolezza, una idea di pena intesa si come punizione, ma in ogni ipotesi anche come strumento di recupero. Naturalmente si tratta di una scelta che ha delle conseguenze, come qualsiasi scelta. Garantire i diritti di tutti significa anche individuare dei momenti di bilanciamento tra i diversi interessi in campo, ad esempio tra Stato e imputato, o tra questi e la parte lesa, ma sempre rifiutando l’idea che la società e lo Stato possano essere tentati di fondare il proprio agire su risposte che pongano anche solo a rischio la dignità della persona, la presunzione di non colpevolezza, la speranza del recupero del reo. In altre parole si vuole evitare che lo Stato finisca con il comportarsi come il possibile reo che con il suo agire contro legge abbia avuto in spregio i diritti altrui. Ciò comporta che per assicurare il diritto di tutti a essere considerati non colpevoli fino a prova contraria, si deve garantire un tanto a chiunque, senza eccezioni. Aprire a eccezioni significherebbe iniziare a tracciare quel tratto di penna di cui più sopra. E lo stesso vale per la funzione della pena e per il diritto di chiunque a non restare sotto processo da parte dello Stato per un tempo indeterminato e indeterminabile. E’ una scelta, che alle volte porta inevitabilmente a situazioni non popolari, o poco comprensibili. “Giustamente” chi è vittima, e non solo, ben difficilmente può condividere o comprendere opzioni che garantiscano in qualche maniera il presunto “carnefice-imputato”, o il condannato definitivo, specie di fronte a delitti efferati. Qui c’entra lo Stato, c’entra la politica, c’entrano gli operatori del diritto, tra cui i magistrati e gli avvocati che hanno il compito di custodire i principi del giusto processo, c’entrano i media, che hanno il compito di informare correttamente, senza cedimenti di sorta alla ricerca del consenso, ma al contrario sapendo anche abbracciare scelte impopolari. Come già accennato ogni sistema è imperfetto, il nostro sistema costituzionale e la sua idea di giurisdizione da inevitabilmente vita a delle criticità, così come, con ben più gravi conseguenze, accadrebbe per un sistema fondato sulla priorità della punizione, del carcere, della pena purché vi sia una pena. Un sistema quest’ultimo che vede nella assoluzione di un presunto innocente non una affermazione dello Stato di diritto, ma un fallimento dello Stato, o che processa mediaticamente il giudice che infligge una pena inferiore a quella richiesta dai “sondaggi” popolari, o che minaccia l’avvocato perché difende un imputato di un reato esecrabile, così negando il diritto inviolabile di tutti alla difesa. In entrambi i sistemi ognuno potrebbe elencare patologie e possibili ingiustizie, per esempio sono oltre mille all’anno gli errori giudiziari accertati, così come dall’altra parte si potrebbe parlare, come viene fatto, di alcuni episodi di reati prescritti che hanno fatto scalpore (degni di scalpore sono comunque probabilmente pochi), al di là delle vere cause. Di certo tra le cause del maturare della prescrizione non possono allinearsi immaginarie e inesistenti tecniche dilatorie della difesa, sappiamo bene come quasi il 70% delle prescrizioni (per lo più di reati minori) si verifichino in sede di indagine preliminare, che qualsiasi rinvio chiesto dalla difesa non fa decorrere il termine prescrizionale, che il giudice può ammettere il numero di testi che ritiene, anche nessuno, che parlare di impugnazioni come strumenti dilatori sarebbe come negare al malato di seguire tutte le strade possibili di cura o di sollievo alla malattia, che in alcune sedi giudiziarie non si prescrive nulla a differenza che in altre. Come avvocati, chiamati a garantire il diritto alla difesa per tutti, naturalmente difendiamo l’idea di giurisdizione tracciata dalla Costituzione, ma il punto non è questo, il punto è che credo che qualsiasi cittadino responsabile debba pretendere che temi fondanti l’dea di una società solidale e democratica, come la giurisdizione, vadano trattati con il metodo primo delle democrazie, ovvero il rispetto delle tesi e delle idee altrui, senza criminalizzazioni e uso di distorsioni comunicative. Pensarla diversamente deve poter essere la norma, rispettare il ruolo degli operatori della giustizia, avvocati e magistrati, è importante per garantire la pace sociale e la mediazione dei conflitti attraverso il diritto e null’altro, men che meno la violenza. La questione della durata dei processi penali, civili, amministrativi, tributari, sarebbe, come è sempre stato sotto ogni governo, facilmente risolvibile investendo in maniera importante in organico di magistrati, di personale amministrativo, di mezzi, in edilizia giudiziaria, e quindi potrebbero poi bastare pochi ritocchi processuali, e allora, per esempio, quanto al penale, l’istituto della prescrizione sarebbe meno rilevante a fronte di un processo garantito e di regola dalla durata ragionevole. Il problema invece è condividere l’obiettivo di un sistema sociale che garantisca il rispetto di tutti, con i limiti di ogni sistema, e che dia centralità alla dignità della persona, e soprattutto evitare che strumenti fondanti lo Stato di diritto, come la giurisdizione, diventino mezzi di propaganda politica, di scelte basate sui sondaggi, di scontro tra tifoserie. Tradiremmo lo spirito dei padri costituenti, che ben sapevano quale fosse il vero problema.

Prescrizione processuale, un “tabù” abbattuto da Canzio già sette anni fa. Il Dubbio il 9 gennaio 2020. La proposta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013. Da presidente della corte d’apppello di Milano, il magistrato poi al vertice della Cassazione aveva prefigurato la norma Bonafede, ma insieme con limiti di durata insuperabili per le successive fasi del giudizio. Riportiamo di seguito un ampio estratto della “Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013” proposta da Gianni Canzio nella veste di presidente della Corte d’appello di Milano, poi Cassazione. Il seguente testo è tratto in particolare dal secondo capitolo della “Parte II” di quella relazione, intitolato “Le riforme del diritto e del processo penale”.

È davvero efficace il processo di cui si programma lo scivolamento verso un esito proscioglitivo per il mero decorso del tempo, cui la difesa ha il diritto di tendere, con il conseguente fallimento della funzione cognitiva di accertamento della verità e con la sconfitta dell’ansia di giustizia delle vittime e della collettività? Si aggrava la crisi di autorevolezza della giurisdizione, si compromette la tenuta del sistema, mentre aumenta la distanza della nostra disciplina rispetto agli apparati di tutela riconosciuti dalle fonti convenzionali e sovranazionali e praticati dalla maggior parte dei Paesi europei.

PRESCRIZIONE, STOP MA POI TEMPI CERTI. Al fine di restituire razionalità ed efficienza al sistema non è opportuno allungare ulteriormente i termini della prescrizione sostanziale e, di conseguenza, la durata dei processi, bensì sembra più coerente stabilire il divieto di dichiarare la prescrizione del reato nel corso del processo, salvo che prima della sentenza di condanna di primo grado non sia già decorso il tempo necessario, assicurando termini celeri e certi per le successive, eventuali, fasi di impugnazione, la cui ingiustificata violazione non resti priva di conseguenze. Si è proposto di anticipare l’inefficacia della prescrizione all’avvenuto esercizio dell’azione penale. La proposta, all’apparenza più radicale, presenta tuttavia serie controindicazioni per il rischio che essa possa autorizzare prassi non virtuose dell’organo di accusa, sotto il profilo dell’allungamento dei tempi delle indagini preliminari fino allo spirare dei termini prescrizionali ovvero dell’incompletezza delle stesse, di cui dovrebbe poi farsi carico la fase del giudizio, resa immune dalla pressione della prescrizione del reato. Sembra perciò preferibile la tesi di sterilizzare gli effetti estintivi della prescrizione “sostanziale” del reato dopo che sia stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado, laddove non sia già decorso il tempo necessario. Per non lasciare sprovvisto di tutela l’imputato che sia stato condannato vanno previsti, peraltro, termini certi e legalmente predeterminati di durata massima per le fasi e i gradi di impugnazione fino alla pronuncia irrevocabile, il cui compasso temporale ben può essere disegnato secondo i limiti di durata ragionevole del processo fissati, ai fini dell’equa riparazione, dall’art. 2, comma 2- bis l. n. 89/ 2001, modif. dall’art. 55 d. l. n. 83/ 2012, conv. in l. n. 134/ 201: due anni per l’appello, un anno per la cassazione, ancora un anno per l’eventuale giudizio di rinvio ecc. Termini che dovranno essere calcolati a partire dal momento dell’effettivo pervenimento degli atti al giudice dell’impugnazione e ragionevolmente calibrati ( in virtù di limitate e tassative ipotesi di proroga o sospensione) in considerazione, soprattutto, di taluni indici di particolare “complessità” della fattispecie ( ad esempio, numero degli imputati e/ o delle imputazioni e dei difensori, esigenza di riapertura dell’istruzione probatoria ecc.), sulla falsariga di quanto prevede l’art. 304 c. p. p. con riguardo ai termini di durata massima della custodia cautelare. La violazione dei suddetti termini non può rimanere, peraltro, priva di conseguenze.

ILLECITI DISCIPLINARI, SCONTI: NON BASTA. La qualificazione dell’ingiustificata violazione come mero illecito disciplinare non soddisfa il fine di tutela del diritto del condannato alla celere definizione della sua posizione processuale in termini certi e predeterminati, rivelandosi eccentrica, di per sé, all’obiettivo della ragionevole durata della fase impugnatoria. La previsione di un’attenuante speciale con la diminuzione della pena fino a un terzo, in caso di conferma della statuizione di condanna e di superamento dei limiti di durata ragionevole della fase di impugnazione ( secondo il modello “compensatorio” tedesco), presenta anch’essa significative controindicazioni: per un verso, la previsione legislativa di una diminuente – alla fine – per il giudizio “allungato” rischia di disincentivare gli effetti premiali del percorso alternativo – all’inizio – del giudizio “abbreviato”; per altro verso, la difficoltà di proporzionare l’entità della diminuzione di pena alla concreta portata del prolungamento dei termini di fase comporterebbe una varietà applicativa e si sostanzierebbe in un’ingiustificata disparità di trattamento.

LA PRESCRIZIONE PROCESSUALE E I FILTRI. Esclusa la congruità della sanzione disciplinare e l’applicabilità di una mera diminuzione di pena a favore del condannato, la reazione dell’ordinamento alla violazione dei termini di durata massima della fase impugnatoria ( pure prorogati o sospesi nei casi tassativamente consentiti) non potrà non consistere nella declaratoria d’improseguibilità dell’azione penale per la sopravvenuta “prescrizione del processo”. E però, affinché la prescrizione processuale non diventi anch’essa agente “patogeno” incentivando strumentalmente le impugnazioni, occorre anche intervenire – oltre l’auspicabile enunciazione di principio del “dovere di lealtà processuale” dei soggetti del processo contro ogni ipotesi di abuso – mediante un’attenta regolamentazione della disciplina delle preclusioni endoprocessuali in tema di competenza, invalidità degli atti e notificazioni, dei rapporti fra gravami incidentali e giudizio principale, e, soprattutto, della semplificazione degli esiti d’inammissibilità delle sequenze impugnatorie. Per ridare respiro e dignità al processo penale, la salvaguardia del secondo grado di giudizio pretende logicamente l’estensione della disciplina dell’inammissibilità del gravame, oltre i casi di aspecificità anche alle ipotesi di manifesta infondatezza dei motivi di ricorso. A seguito del recente intervento riformatore di cui all’art. 54 del “decreto sviluppo” si è previsto, con riguardo al giudizio civile d’appello, che, sentite le parti e con ordinanza succintamente motivata, l’impugnazione può essere dichiarata inammissibile “quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”, cioè quando essa si prospetti manifestamente infondata secondo una meditata prognosi di sicuro insuccesso. Orbene, attesa la ratio dell’istituto, non appare coerente né logicamente sostenibile una diversità del meccanismo dell’inammissibilità fra l’appello civile e quello penale.

LE GARANZIE DIFENSIVE SAREBBERO CONGRUE. Perché meritino di essere preservati ben tre gradi di giurisdizione occorrono seri filtri delle impugnazioni, nel senso di un necessario restringersi dei cerchi concentrici dell’ordo processus all’esito di un’attenta opera di selezione dei ricorsi ammissibili, secondo l’istituto di comune matrice europea del leave to appeal. Non si ravvisa, in effetti, alcuna ragione perché si debba celebrare l’udienza di merito anche per un appello affetto dal vizio di aspecificità o di manifesta infondatezza delle ragioni che lo sostengono: è uno spreco di risorse, questo, che nessun sistema processuale può consentire. Le garanzie della difesa a fronte dell’opera di selezione sono comunque ampie: la competenza specializzata del magistrato che procede allo spoglio del fascicolo; la deliberazione collegiale in camera di consiglio ( eventualmente partecipata), l’ordinanza pur succintamente motivata, la ricorribilità per cassazione della stessa per la verifica di correttezza dello scrutinio d’inammissibilità. (…) Più in generale, in una visione d’insieme del sistema, l’attività di selezione delle impugnazioni ammissibili/ inammissibili è destinata ad agevolare la crescita professionale di tutti i protagonisti del processo, sia giudici che avvocati, e ad assicurare larghezza di tempi, attenzione e risorse alle impugnazioni selezionate come davvero meritevoli di essere trattate nel pieno merito.

Prescrizione, Cheli: «Lo stop viola il principio della durata ragionevole del processo». Giulia Merlo il 9 gennaio 2020 su Il Dubbio.  Parla il costituzionalista Enzo Cheli. «Avvocatura, magistratura e accademia devono fare fronte comune in difesa dei principi costituzionali. Condivido la posizione del Cnf su questo». «L’attuale formulazione della prescrizione è sbilanciata rispetto ai principi fondamentali della Carta e presta il fianco all’ipotesi di incostituzionali-tà» . A confermarlo è il giurista Enzo Cheli, giudice emerito della Corte Costituzionale. «L’attuale formulazione della prescrizione è sbilanciata rispetto « ai principi fondamentali della Carta e presta il fianco all’ipotesi di incostituzionalità». A confermarlo è il giurista Enzo Cheli, già ordinario di Diritto costituzionale presso le università di Cagliari, Siena e Firenze e giudice emerito della Corte Costituzionale.

Professore, in che senso l’attuale formulazione della norma sulla prescrizione, contenuta nella riforma Bonafede, è sbilanciata?

«Il mio ragionamento muove dall’assunto che il tema della prescrizione è tecnicamente complesso e, come tale, va affrontato tenendo conto di un complesso di principi costituzionali. Il primo è la presunzione di innocenza, contenuto nell’articolo 27 della Carta; il secondo è il principio del giusto processo, cui consegue quello della ragionevole durata del processo contenuti nell’articolo 111 e infine il terzo, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale dell’articolo 112, che sottintende la certezza della pena per chi ha commesso il reato. La difficoltà per il legislatore è di mettere in equilibrio questi principi, trovando il punto di bilanciamento tra le diverse esigenze indicate nella Costituzione».

Lo stop alla prescrizione non lo fa correttamente?

«I principi della presunzione di innocenza e quello della ragionevole durata del processo operano a favore della prescrizione e tendono a ridurne la durata; quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, invece, opera contro la prescrizione e tende a dilatarne i tempi. Ecco, la norma voluta da Bonafede tiene conto solo del principio della certezza della pena, senza considerare invece gli altri due».

Quali rischi comporta?

«La sospensione illimitata della prescrizione mette in discussione il principio della ragionevole durata del processo. Così formulata, la norma elimina l’interessa a chiudere rapidamente il processo e, visto il carico di lavoro del corpo giudiziario, esiste il concreto rischio che l’imputato rimanga indefinitamente sotto processo, nonostante l’assoluzione in primo grado. Una sorta di fine processo mai, che a mio parere va incontro a una incostituzionalità certa».

Con quali conseguenze?

«Che la stortura costituzionale verrà corretta sul piano giudiziario, se ciò non avverrà sul piano politico».

E’ possibile superare questa incostituzionalità?

«Io credo che una strada percorribile sarebbe quella di introdurre una disciplina differenziata a seconda della gravità dei reati contestati. Bisogna individuare il giusto punto di equilibrio, per esempio riducendo i tempi di prescrizione dopo una sentenza di assoluzione e allungandoli nel caso di una sentenza di condanna. Si tratta di un orientamento che già circola e mi sembra che un aggiustamento di questo tipo possa contemperare l’esigenza di certezza della pena con quella del principio di innocenza, preservando la ragionevole durata del processo».

Questo permetterebbe un corretto bilanciamento?

«Le strade possono essere molteplici, ma credo che la chiave di volta rimanga il principio della ragionevole durata del processo, attraverso il quale individuare il punto di equilibrio tra gli estremi garantisti e giustizialisti. Non si può affrontare un tema che tocca elementi così pregnanti del sistema penale, modellando la riforma solo su un elemento. Tuttavia, per raggiungere il risultato di ridurre i tempi della giustizia, è necessaria una riforma più complessiva del sistema penale».

Ritiene serva una riforma profonda oppure solo aggiustamenti mirati?

«Le linee di fondo che reggono il processo penale rispondono a un’idea moderna del processo, come introdotta dalla riforma Vassalli che ha aperto la strada alla revisione costituzionale del giusto processo, con l’introduzione del principio del contraddittorio e il superamento del sistema inquisitorio. E’ vero che esistono alcuni nodi tecnici, che possono provocare l’allungamento dei tempi processuali in modo anche improprio, ma si tratta di patologie rimediabili. Insomma, la struttura attuale del processo è solida e non ha bisogno di riforme radicali, ma di aggiustamenti che, operativamente, riguardando soprattutto il profilo organizzativo».

Non la procedura, quindi?

«No, il problema di fondo del processo penale non sta nella procedura ma nell’organizzazione giudiziaria: serve un investimento di risorse nella macchina giudiziaria. Un investimento, per altro, che va legato direttamente alla necessità di rafforzare la nostra democrazia e la fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, attraverso una giurisdizione che risponda in modo tempestivo al loro bisogno di giustizia».

L’avvocatura, la magistratura e l’accademia si sono unite, in questa fase, in difesa dei principi costituzionali.

«Certo, esiste una vicinanza culturale tra il mondo della magistratura, quello delle professioni e l’accademia. E’ stato così quando venne redatta la riforma del giusto processo e lo è adesso, con l’obiettivo comune di difendere i principi dello stato di diritto. La linea del Cnf mi sembra molto ragionevole e condivisibile, soprattutto nella parte in cui sottolinea l’esigenza di difendere il principio della presunzione di innocenza, che è forse quello più rilevante».

Prescrizione, giusto preservare un principio di civiltà giuridica. Guido Neppi Modona il 28 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Stupisce che persino la prescrizione sia divenuta oggetto di scontro politico tra le stesse forze della maggioranza di governo. La prescrizione è infatti un istituto che coinvolge fondamentali principi costituzionali in tema di funzionamento della giustizia e diritti dei cittadini, segnatamente il principio del giusto processo e il corollario della sua ragionevole durata, entrambi enunciati dall’articolo 111 della Costituzione. Principi sulla cui attuazione sarebbe ragionevole aspettarsi un sostanziale accordo tra tutte le forze politiche, ferme restando eventuali marginali discordanze tra maggioranza e opposizione. Si tratta cioè di trovare un punto di equilibrio capace di conciliare contrastanti esigenze. Da un lato la pretesa punitiva dello Stato, volta ad applicare la sanzione penale a chi ha commesso il reato e a rispondere alle aspettative di giustizia della vittima del reato e di sicurezza della collettività; dall’altro il cosiddetto “diritto all’oblio” a favore dell’autore del reato, cioè l’esigenza di evitare che la sanzione penale intervenga in un momento eccessivamente lontano dal reato, cioè quando il processo non è più “giusto”, perché le aspettative di giustizia della vittima sono ormai deluse e l’imputato è persona ormai diversa da chi allora aveva commesso il reato. E’ invece accaduto che il ministro di Grazia e Giustizia, Alfonso Bonafede, ha presentato un disegno di legge, inspiegabilmente approvato da Camera e Senato, che viola clamorosamente quelle esigenze di equilibrio e, prima ancora, si appalesa manifestamente irragionevole. La nuova legge dispone infatti che, dopo la condanna di primo grado, non esistono più termini oltre i quali, se non interviene una sentenza definitiva di condanna, il reato si estingue per prescrizione, ma l’imputato può essere raggiunto in qualsiasi momento, anche dopo anni o decenni da quando ha commesso il reato, da una sentenza definitiva di condanna. Prima della legge Bonafede la disciplina della prescrizione, da sempre tormentata da incessanti modifiche, si era attestata su una legge del 2017, che dopo la condanna di primo grado prevedeva, sia in caso di appello che di ricorso per Cassazione, la sospensione del decorso dei termini di durata della prescrizione per un anno e mezzo, e così per un totale di tre anni di sospensione nei due gradi giudizio. Soluzione sostanzialmente equilibrata, a fronte della quale la dilatazione infinita dei tempi della prescrizione prevista dalla legge Bonafede appare priva di misura. Risulta quindi quanto mai tempestiva una proposta di legge di alcuni deputati e senatori del Pd che sostanzialmente ripropone la riforma del 2017, stabilendo la sospensione dei termini della prescrizione per due anni nel giudizio di appello, nel quale più frequenti sono i casi di prescrizione dei reati, e di un anno nel giudizio di Cassazione, senza modificare il termine complessivo di sospensione di tre anni. Se la proposta di legge del Pd dovesse tagliare il traguardo dell’approvazione parlamentare, ovviamente risulterà abrogata la legge Bonafede che, destinata ad entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2020, non avrebbe così neppure il tempo di trovare concreta applicazione.

"Io, imputato per 11 anni senza neanche una sentenza. Fermare i processi è civiltà". L'odissea giudiziaria dell'ex senatore Pd: «All'Italia servirebbe una riforma della custodia cautelare». Luca Fazzo, Venerdì 03/01/2020, su Il Giornale. Per i 5 Stelle è uno dei miracolati dalla prescrizione, uno di quelli che la fanno franca grazie ai trucchi dei loro avvocati. Peccato che la storia dell'ex senatore del Pd Alberto Tedesco, «il mio calvario» come lo chiama lui, racconti un'altra verità, comune a migliaia di processi in Italia: un processo infinito dove sono prima la Procura e poi i giudici a impiegare tempi inverosimili a fare il loro lavoro, dove imputati muoiono prima della sentenza, e dove alla fine la prescrizione arriva a impedire che il processo si trascini in eterno.

Dicono che la lentezza dei processi è colpa degli imputati e dei loro avvocati.

«Io non ho mai chiesto il rinvio di una sola udienza. Quando i giudici sono cambiati, ed è accaduto tre volte, avrei potuto chiedere di ricominciare daccapo. Non l'ho fatto».

Quanto è durato il suo processo?

«Undici anni».

Come è stato possibile?

«Ero assessore alla Sanità della Regione Puglia. Hanno iniziato a indagare su di me nel 2008, in base ad una intercettazione casuale. Nel 2009 esce la notizia Ansa: ero indagato dal pool antimafia per associazione a delinquere, corruzione, concussione e una lunga serie di altri reati. Ho chiesto di essere interrogato: richiesta respinta. Due anni dopo chiedono al Senato l'autorizzazione ad arrestarmi, io chiedo ai colleghi di votare a favore, loro respingono la richiesta. Nel 2013, il giorno stesso dello scioglimento del Senato, mi telefona la polizia giudiziaria da Bari: dobbiamo arrestarla. E finisco ai domiciliari».

L'inchiesta intanto va avanti?

«Con una lentezza incredibile. Il processo a mio carico comincia solo nel 2014, a sei anni dall'inizio delle indagini. La Procura chiede di convocare in aula centocinquanta testimoni. A sentirli tutti ci hanno messo quattro anni. Dei pm che mi avevano incriminato non ne era rimasto neanche uno, e quelli nuovi dovevano ristudiare tutto. Nel 2018, quando hanno iniziato a interrogare i miei testimoni, ormai era tutto prescritto. Nel 2019 è arrivata la sentenza: prosciolto per prescrizione».

Alla prescrizione lei poteva rinunciare.

«Volevo farlo perché so di essere innocente. Tutti i miei coimputati giudicati a parte sono stati assolti. Di quelli che erano a processo insieme a me, solo tre non erano prescritti: sono stati assolti con formula piena».

E allora perché non ha rinunciato?

«I miei avvocati mi hanno detto che avrei dovuto trovarmi un altro difensore. Se sfidi la magistratura ti prendono a calci nel sedere. Sei un uomo finito».

Come si vivono undici anni nel limbo?

«Non voglio parlare della vita privata, dei familiari che si sono ammalati eccetera: dico solo che tutto quello che poteva accadermi è successo. Parlo della vita pubblica, della emarginazione assoluta, totale. Poche ore dopo che il Senato aveva votato contro il mio arresto, il mio segretario Pierluigi Bersani disse all'Ansa che dovevo dimettermi da parlamentare. Io gli risposi nei denti che piuttosto mi dimettevo dal Pd. E così feci».

Ora il Pd si trova al governo insieme al partito che della abolizione della prescrizione ha fatto prima una bandiera e ora un trionfo.

«Vediamo cosa accadrà. Io, che l'ho provata sulla mia pelle, dico che la prescrizione è un istituto di civiltà, che va non solo reintrodotta ma anche rafforzata, garantendo davvero la ragionevole durata dei processi. La vera riforma che servirebbe alla giustizia in questo paese è la riforma della custodia cautelare, una barbarie che andrebbe usata solo nei casi estremi».

Poliziotto assolto: è innocente. Ma lo Stato gli richiede i soldi.  L'assurdo caso: l'agente accusato, processato e assolto. Ma per il Viminale non basta. La sua battaglia lunga 18 anni. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Ci sono due assurdità, in questa storia. La prima: i tempi dei processi e delle decisioni sui vari ricorsi. L’altra, il merito della vicenda. Il "c'era una volta" risale al lontano agosto del 2001 (poco prima degli attentati a New York, capite?) e il finale ad appena a un mese fa. Sono i diciotto anni di calvario di un poliziotto prima accusato, poi assolto, infine beffato da quella stessa amministrazione cui presta servizio dal 1990. Luca Olivieri è un vice ispettore di polizia. Sul curriculum vanta due conflitti a fuoco, una serie di lodi, encomi solenni e pure una promozione per merito straordinario. Prima in servizio alla sezione Catturandi (quella che dà la caccia ai latitanti), poi a quella anti-rapina, è anche grazie a lui se due big mafiosi come Michele Zagaria e Marco Di Lauro sono finiti in manette. Con un pedigree così, direte, che problemi potrà avere mai avuto? Tutto inizia il 12 agosto del 2001 a Napoli, quando Olivieri e due colleghi notano un'auto su una corsia preferenziale. Lo invitano ad accostare, gli chiedono i documenti e gli contestano alcune violazioni del codice della strada. Un caso come tanti. Un mese dopo, però, l'autista del mezzo decide di sporgere querela nei confronti dei tre poliziotti che, a suo dire, l'avrebbero insultato con frasi del tipo "scurnacchiato", "mettiamo il pesce in bocca a tuo fratello", "guardo a ‘sto ricchione" e via dicendo. Gli agenti vengono indagati e poi rinviati a giudizio con l'accusa di ingiurie e minacce con abuso di potere e violazione dei doveri. Un processo che impedisce loro di partecipare a concorsi per l'avanzamento di qualifica. Nel 2008 (sette anni dopo i fatti) arriva finalmente la sentenza: assolti "perché il fatto non sussiste". Il giudice, come si legge negli atti, ha considerato la ricostruzione del querelante "non convincente", perché basata su dichiarazioni “equivoche e mosse dallo specifico e ben determinato interesse di evitare il pagamento delle sanzioni amministrative". Dunque "prive di quel rassicurante grado di attendibilità che consenta di fondare un sicuro giudizio di colpevolezza". Il dramma è che un processo costa. Molto. L’ispettore all'inizio del calvario chiede al ministero dell’Interno l'anticipo delle spese di difesa, ottenendo 2.500 euro. Poi però i costi lievitano e alla fine la parcella degli avvocati sfiora quota 20mila euro. Come previsto dalla legge, tutti i dipendenti delle forze di polizia hanno diritto al rimborso delle spese legali "sostenute a seguito di procedimenti giudiziari instaurati contro di loro per attività connesse al servizio". Basta che alla fine la sentenza ne escluda la responsabilità. Olivieri viene assolto, quindi si aspetta di non doverci rimettere i risparmi di una vita e invia l'istanza al Viminale. Nel 2009, però, la doccia gelata: l'Avvocatura dello Stato risponde "picche", negando il sostegno economico. Il motivo? Il giudice ha sì assolto l'agente, ma le motivazioni della sentenza non consentirebbero di "ritenere esclusa la responsabilità dell’imputato". In sostanza Olivieri è innocente per i giudici, ma potenzialmente colpevole per lo Stato. Quindi niente rimborso. Così, dopo la battaglia in Tribunale, ne inizia un'altra contro il Viminale. L'ispettore si rivolge al Tar, che però rigetta il ricorso. Nel 2012 viene chiamato in causa il Consiglio di Stato: le toghe amministrative valutano il caso, passa il tempo e intanto il ministero rivuole indietro pure i 2.500 euro anticipati qualche anno prima. Oltre al danno, pure la beffa. Sette anni dopo (!), cioè pochi mesi fa, la svolta: in sede giurisdizionale i giudici si pronunciano a favore di Olivieri, condannando il ministero "al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio" (3mila euro) e alla liquidazione delle parcelle degli avvocati per il processo penale originario (circa 17mila). L’assoluzione "dubitativa" ipotizzata dall’Avvocatura, infatti, è stata ormai rimossa dal nostro ordinamento perché in contrasto con la Costituzione. Tradotto: Olivieri è stato assolto e non possono esserci dubbi. Ha diritto al rimborso. Intanto, però, ha dovuto lottare con i denti per anni, investendo cifre importanti. Forse si potevano evitare 10 anni di liti tra un servitore dello Stato e chi avrebbe il compito di tutelarlo.

Giudice assente e carte smarrite. Ecco l'incubo processi infiniti. Da oggi addio alla prescrizione. Il caso di un poliziotto, assolto dopo 8 anni dalla querela e cinque di processo. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 01/01/2020, su Il Giornale.  Oggi il Movimento Cinque Stelle pianta la propria bandierina sulla luna della politica. Entra in vigore la legge Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, sia in caso di condanna che di assoluzione. Esultano i grillini, si compiace Marco Travaglio. E anche se in Parlamento la riforma è osteggiata da quasi tutti (Lega, FdI, FI, Italia Viva, Pd), che a gran voce chiedono in parallelo una riforma sui tempi dei processi, alla fine capodanno è arrivato senza modifiche alla riforma. Mentre impazzava la polemica, ci siamo ritrovati a scrivere un pezzo su un lungo caso giudiziario che ha coinvolto un poliziotto. Un percorso che l’ha visto ingiustamente accusato, processato, assolto e poi beffato dalla stesso ministero per cui presta servizio. Il suo calvario è durato 18 lunghi anni tra causa penale, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Studiando le carte abbiamo toccato con mano, ma per davvero, quanto le decisioni dei giudici in Italia possano durare all’infinito. Nel caso in questione non è sopravvenuta la prescrizione, certo. E la vicenda s’è conclusa con un’assoluzione. Ma lo svolgimento del processo può forse può far riflettere sulle cause senza fine che coinvolgono per (troppi) anni indagati, ricorrenti e cittadini. Entriamo nel dettaglio. Tre poliziotti vengono querelati nel settembre del 2001. Nel totale silenzio passa un anno e mezzo e solo a marzo del 2003 i diretti interessati capiscono di essere indagati dalla Procura. È la prassi, direte: prima o poi si arriverà al dunque. Non proprio. Perché per il decreto di citazione diretta bisognerà attendere il maggio del 2006, cioè cinque anni dopo i fatti. La prima udienza viene convocata per l’ottobre dello stesso anno. Solo che viene rinviata, state a sentire, “per il mancato reperimento del fascicolo nella cancelleria del giudicante”. In pratica, ci sembra di capire, avevano momentaneamente perso le carte e la citazione degli imputati è stata “rinnovata” alla successiva udienza, convocata per l'anno a venire. Cinque mesi dopo, è il marzo del 2007, il procedimento viene rinviato (di nuovo) perché l’avvocato difensore aderisce “all’astensione proclamata dalla Camera Penale”. Sciopero, e via. Due mesi dopo ci provano di nuovo, ma mancare è direttamente il giudice titolare. Morale della (brutta) favola: solo a ottobre dello stesso anno finalmente si riesce ad aprire il dibattimento. È ormai passato un anno dalla convocazione della prima udienza. Quel che forse i tifosi del “fine-processo-mai” non tengono in considerazione è che un procedimento aperto produce conseguenze nefaste sull’imputato, soprattutto se non ha commesso alcun crimine. Per esempio: mentre un poliziotto è sottoposto a processo penale, colpevole o innocente che sia, non gli è permesso di partecipare a corsi di specializzazione che garantirebbero un avanzo di carriera. Tenerlo alla sbarra, rinviare udienze, perdere i fascicoli, causa dunque danni incalcolabili, di cui poco purtroppo si dibatte. Nel caso in questione, tra una convocazione e l’altra sono passati dai 3 ai 5 mesi. Febbraio, maggio, settembre, dicembre. Alla fine la sentenza è stata depositata in cancelleria al tribunale di Napoli il 30 dicembre del 2008. Dalla querela erano passati sette lunghi anni, cinque dalla citazione in giudizio. Risultato: i tre imputati sono stati assolti da tutte le accuse perché “il fatto non sussiste”. Siamo fortunati che il caso non sia finito in Appello prima e in Corte di Cassazione poi, altrimenti - probabilmente - saremmo ancora a “campa cavallo”. Secondo un'elaborazione del Sole 24 Ore, dalle indagini preliminari alla sentenza in Cassazione in Italia passano in media 1.589 giorni. Cioè quattro anni e tre mesi. I problemi maggiori sono in Appello, dove il 40% delle cause sono giacenti da oltre due anni, limite massimo imposto dalla legge Pinto, che calcola in sei anni la “ragionevole durata” totale di un processo (alla faccia del “ragionevole”). Il bello, o il brutto, è che la riforma voluta da Bonafede rischia di ingolfare ancora di più proprio i Tribunali di secondo grado che si troveranno a gestire anche i processi che fino a oggi si estinguevano per avvenuta prescrizione.

Il processo penale dura sei anni a Roma. La media italiana è di 1.600 giorni. I tempi nei tre gradi di giudizio salgono a sei anni nei distretti di Roma e Napoli. Il collo di bottiglia è la Corte d’appello, dove la durata media delle cause è di 759 giorni. Di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei su ilsole24ore.com il 27 dicembre 2019. Quasi 1.600 giorni dalle indagini preliminari alla sentenza di Cassazione: è la durata media di un processo penale nei tre gradi di giudizio. Si tratta di quattro anni e quattro mesi circa, la metà dei quali passano di fronte alla Corte d’appello. E sono tre i distretti in cui i procedimenti penali nei tre gradi di giudizio durano in media più di duemila giorni: Reggio Calabria, Napoli e Roma, che arriva a 2.241 giorni, più di sei anni. È questo il quadro destinato ad accogliere lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che è previsto entri in vigore il prossimo 1° gennaio. Una misura fortemente voluta dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (M5S), che l’ha difesa a spada tratta nonostante sia osteggiata dai compagni di Governo del Pd e da una parte consistente degli operatori della giustizia, avvocati in prima fila, preoccupati dallo scenario del «fine processo mai». Per scongiurare il rischio di tenere troppo a lungo gli imputati in attesa di una sentenza che non arriva, quello che si chiede da più parti è che la morte della prescrizione sia accompagnata dalla riduzione dei tempi dei processi. Si tratta di un impegno già alla base del patto con la Lega, allora al Governo, che un anno fa aveva portato all’approvazione del blocco della prescrizione. Ma il progetto di riforma elaborato da Bonafede non è mai arrivato al Consiglio dei ministri.

I tempi delle cause. Ma quanto durano i procedimenti penali? Per capirlo Il Sole 24 Ore del Lunedì ha elaborato i dati raccolti dal ministero della Giustizia nei 26 distretti di Corte d’appello e riferiti al primo semestre del 2018. A questi è stata applicata la formula utilizzata dalla Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia) per stimare la durata media, che prevede di dividere i procedimenti pendenti per quelli definiti e di moltiplicare il risultato per il periodo considerato (in questo caso 181 giorni).

QUANTO DURANO I PROCESSI PENALI (Fonte: elaborazione del Sole 24 Ore del Lunedì su dati del ministero della Giustizia). Quello che emerge è che al momento i tempi medi dei procedimenti penali restano (tranne in appello) ben al di sotto dei limiti di «ragionevole durata», vale a dire le soglie che, se sforate, danno diritto a un indennizzo per le parti, regolato dalla legge Pinto: in totale sei anni, articolati in tre anni in primo grado, due in secondo e uno in Cassazione. Sia le indagini preliminari condotte dalle procure sia i processi in tribunale durano in media circa un anno (rispettivamente, 323 e 375 giorni), mentre in appello i tempi medi sono di 759 giorni e in Cassazione di 132 giorni. Ma, esaminando i dati dei processi a rischio Pinto, la situazione cambia: nel 2017 le cause in corso da più di tre anni in tribunale erano il 19% del totale, quelle giacenti da oltre due anni in appello quasi il 40% e gli ultra-annuali in Cassazione l’1,3 per cento.

L’allarme in appello. Che la situazione delle Corti d’appello sia quella più difficile lo confermano anche i dati territoriali: in nove uffici giudiziari su 26 si supera in media la «ragionevole durata» di due anni, con Bari, Reggio Calabria, Venezia e Roma oltre i mille giorni e Napoli che arriva quasi a 1.500 giorni. E in appello si faranno sentire gli effetti del blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado: le Corti dovranno gestire anche i processi che non si estingueranno più con il passare del tempo. «Le Corti d’appello - spiega il presidente della sede di Roma, Luciano Panzani - rappresentano il collo di bottiglia della giustizia penale perché, con la riforma del 1998 che ha istituito il giudice unico di primo grado e lo ha sostituito in molti casi al collegio, si è aumentata la produttività del tribunale senza rafforzare gli organici dell’appello». Per Panzani «occorre potenziare le Corti in difficoltà e la revisione delle piante organiche annunciata dal ministero va in questa direzione». In ogni caso, «a Roma - afferma - i processi di un certo rilievo li facciamo in fretta e tutti: Mafia Capitale l’abbiamo chiuso in sei mesi. E dall’anno scorso abbiamo iniziato a erodere l’arretrato: abbiamo definito un numero di processi più alto rispetto ai nuovi iscritti».

La situazione in Procura. Al contrario di quanto succede nei tribunali, nelle Procure le durate più lunghe si registrano nei distretti del Nord. In cima alla classifica Brescia, con 535 giorni. «Ora la situazione è cambiata - spiega però il Procuratore aggiunto di Brescia, Carlo Nocerino -. Da un paio d’anni l’organico è quasi al completo (23 sostituti procuratori su 25) e siamo quindi riusciti a invertire la tendenza: nel primo semestre 2019, a fronte di 9.866 nuovi fascicoli ne abbiamo chiusi 12.779. Abbiamo inoltre svolto importanti indagini sull’infiltrazione delle organizzazioni mafiose, sul finanziamento al terrorismo islamico e sul deep web».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 2 gennaio 2020. Adesso è davvero legge. Esulta Luigi Di Maio e, soprattutto, manifesta tutta la sua soddisfazione il Guardasigilli, Alfonso Bonafede: la prescrizione è stata abolita. E mentre il Pd resta scettico e l'Unione camere penali annunciano battaglia «per arrivare all'abrogazione della legge Bonafede», che sembra non piacere a nessuno se non ai pentastellati, bisogna fare i conti con l'appesantimento del carico di lavoro per i Tribunali: secondo i dati 2018, diffusi dal ministero della Giustizia, sono circa 30mila i processi che, con lo stop dopo il primo grado, rischiano di rimanere aperti senza termine. Un numero che potrebbe crescere, se si considerano i procedimenti in corte d'appello. Gli effetti non saranno immediati, dal momento che la norma non è retroattiva. E i tempi sono ancora più lunghi di quanto valutato dal premier Giuseppe Conte: le conseguenze della nuova legge si potranno avvertire nel 2028, visto che la prescrizione, per i reati meno gravi, è attualmente di sette anni. Secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, i procedimenti penali prescritti in Corte d'appello e Cassazione, nel 2018, sono stati 29.862. I numeri sono in calo: dal 2016 al 2018 da 136.888 si è passati a 117.367 (-14 per cento). L'imbuto è la Corte d'Appello, dove i processi che si chiudono con la prescrizione negli ultimi due anni sono aumentati del 12 per cento. Una media di un processo su quattro. A determinare la flessione complessiva, comunque, è il numero dei procedimenti interrotti durante le indagini preliminari (dai 72.840 del 2016 si è passati a 48.735 del 2018). Una cifra che resta comunque molto elevata, perché riguarda quasi il 41 per cento dei procedimenti. La riforma non riguarderà, almeno in primo grado, il 75 per cento dei processi che in questa fase, finora, vengono definiti. E lo stop non avrà gli stessi effetti nei diversi distretti del Paese. Le statistiche, infatti, variano a seconda delle Corti d'Appello. A Milano, Lecce, Palermo, Trieste, Caltanissetta e Trento, durante il secondo grado di giudizio, la percentuale di prescrizioni non raggiunge il 10 per cento. A Venezia e Torino, invece, i giudizi che si interrompono in corte d'Appello superano il 40 per cento dei procedimenti definiti. L'appesantimento potrebbe riguardare anche Catania, che nel 2018 aveva raggiunto il 37,8 per cento di estinzioni per prescrizioni, seguita da Perugia e Roma con il 36 per cento. «Il primo gennaio del 2020 - commenta Di Maio, in una diretta Facebook - è un giorno importante perché entra finalmente in vigore la legge sulla prescrizione. Prima si perdeva tempo e si riusciva a farla franca, ora se vieni condannato in primo grado la prescrizione non esiste più, devi arrivare a sentenza». Il leader del Movimento Cinquestelle rivela che «Se è saltato il governo ad agosto è anche perché non si voleva approvare la prescrizione» e annuncia la legge per accorciare i tempi del processo. Bonafede, si dice orgoglioso ma anche lui punta a una riforma complessiva: «Adesso dobbiamo metterci al lavoro - ha sottolineato il Guardasigilli - compatti per la riduzione dei tempi del processo perché è giusto che tutti i cittadini abbiamo diritto a un processo che abbia una durata breve e ragionevole nel penale e nel civile». E dopo le critiche arrivate dall'Anm, l'Unione camere penali torna ad annunciare la propria mobilitazione: «Prosegue la battaglia contro l'abolizione della prescrizione». Comincia così la nota con la quale gli avvocati penalisti, presieduti da Gian Domenico Caiazza, comunicano «lo stato di agitazione a sostegno di questa campagna politica che, lungi dall'essersi conclusa, prosegue ora con obiettivi ancora più ambiziosi e determinati». L'attacco a Bonafede è diretto: «Nonostante il prossimo e preannunciato vertice di maggioranza - si legge nella nota - perdura il silenzio del ministro della Giustizia in ordine alla richiesta dei dati statistici su quali siano i reati che ogni anno si prescrivono, fino ad oggi non a caso sistematicamente nascosti alla pubblica opinione». Gli avvocati paventano un ricorso giurisdizionale e ribadiscono il proprio sostegno al progetto di legge Costa (Forza Italia) per l'abrogazione di quella che definiscono «la controriforma Bonafede della prescrizione». L'obiettivo è il referendum.

Barbara Acquaviti per “il Messaggero”. La legge che prevede lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio «va contro i principi costituzionali per più di una ragione» a cominciare dall'assunto che «l'esercizio del potere punitivo dello Stato non può essere indefinito nel tempo». Il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, sottolinea più di una volta il concetto di «ragionevole durata» inserito nella Carta dai padri costituenti. A suo giudizio presidente è anche «irragionevole» pensare che «se lo Stato non riesce a rispettare i tempi dei processi, per evitare che ci sia la prescrizione, decida di eliminarla», anche perché «c'è un altro principio costituzionale per il quale l'imputato non è considerato colpevole fino alla sentenza definitiva».

Insomma, presidente, lei è d'accordo sulla diagnosi della malattia ma non sulla cura scelta?

«Esattamente. Mi pare ci sia un impegno forte di tutte le forze politiche di governo a ricondurre i processi, e quelli penali in particolare, a una ragionevole durata. Ma, paradossalmente, se questo è l'impegno diventa inutile proprio la norma che ferma la prescrizione».

Quindi la considera una legge sbagliata a prescindere dagli interventi che si posso fare sulla riforma della giustizia?

«Ci possono essere altri strumenti che sterilizzano alcuni tempi del processo o dell'impugnazione ai fini del calcolo della prescrizione, ma sempre in un ambito di ragionevolezza. Eliminarla del tutto significa diminuire le garanzie per i cittadini, non accrescerle».

Quali altri strumenti ci possono essere?

«Ricordo che la Costituzione dice che la legge assicura una ragionevole durata del processo, non è una previsione generica. Questo vuole dire che è un dovere assicurare per ogni processo questo risultato. E durata ragionevole vuol dire processi che si concludano in tempi brevi e certi e che non diano luogo possibilmente alla prescrizione. La prescrizione dovrebbe essere l'ultimo rimedio. C'è poi un altro aspetto».

Quale?

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma si può parlare di rieducazione del condannato quando l'accertamento del fatto avviene dopo un numero enorme di anni rispetto a quando l'atto è stato compiuto?»

C'è anche il rischio che si annulli la differenza tra reati più o meno gravi?

«Certo, ci sono reati molto gravi, come i crimini contro l'umanità, per cui la prescrizione non c'è, ma anche altri per cui è di così lunga durata da consentire di svolgere in maniera ampia il processo e arrivare all'accertamento dei fatti. Toglierla totalmente, di certo assimila situazioni che sono molto diverse e questo è un altro aspetto di dubbia legittimità costituzionale».

Pensa che la controproposta del Pd possa essere utile per mitigare gli effetti dello stop alla prescrizione?

«Quella proposta ha una logica, nel senso che salvaguarda il principio costituzionale e prende atto di alcune difficoltà che ci possono essere nella celebrazione dei diversi gradi di giudizio, sospendendo la prescrizione in quel lasso di tempo. Questo rientra nella discrezionale valutazione del legislatore nel determinare i tempi della prescrizione in un ambito di ragionevolezza. Del resto, possibilità di sospensione ce ne sono già se, per esempio, l'allungamento dipende da condotte dilatorie».

Il ministro della Giustizia Bonafede esulta per l'entrata in vigore di questa riforma che piace a molti magistrati ma per niente agli avvocati. Crede che la sua sia una posizione sbilanciata?

«Non leggerei la questione come una partita tra magistrati e avvocati. Qui c'è un interesse dello Stato a punire i colpevoli, e a farlo con un giusto processo, e il diritto dei cittadini a non essere sottoposti a giudizio senza limiti di tempo».

Processo perpetuo: oggi scatta il codice Travaglio. Piero Sansonetti il 31 Dicembre 2019 su Il Riformista. Stanotte in Italia entra in vigore il Codice Travaglio. Sì, è vero, questo è stato il paese di Beccaria, di Calamandrei, di Sciascia. Beh: è stato. Dimenticatelo. Ora è il paese di Travaglio. Il quale, dopo aver imposto la legge spazza-corrotti, largamente incostituzionale, da questo momento in poi fa scattare il codice “giustizia eterna”. Non nel senso che l’amministra l’Eterno, ma nel senso che si fonderà su un processo perpetuo per il sospettato, e su un potere illimitato del magistrato che accusa. In questo consiste la fine della prescrizione, in vigore dalla mezzanotte. È la fine del diritto sancito da un articolo della Costituzione che prevede la ragionevole durata del processo, e la proclamazione del diritto per un Pm di far durare i suoi sospetti, anche magari in assenza di prove, per tutto il tempo che vuole. Trasformando la pena in qualcosa che viene prima della condanna. E che non necessariamente prevede una condanna. Per capirci, una persona accusata di “traffico di influenze”, o di concorso esterno in associazione mafiosa (che sono i reati più cari a Travaglio) potrà essere condannato a un processo-a-vita senza mai essere condannato in secondo e in terzo grado. La prescrizione oggi funziona così: dopo sei anni, se sei accusato di un reato piccolo, in assenza di sentenza definitiva, il tuo processo è finito. Se invece sei accusato di un reato più grande, la prescrizione scatterà solo dopo un numero di anni pari alla pena massima prevista per quel reato, e per alcuni reati ancora più gravi gli anni sono aumentati di un quarto. Per i reati gravissimi, e cioè quelli che prevedono come pena massima l’ergastolo, la prescrizione non esiste. In più ci sono una serie di misure che prevedono la sospensione dei termini di prescrizione nell’intervallo tra i vari gradi di giudizio. Il risultato di questa legge è che per un reato di corruzione, ad esempio, la prescrizione scatta dopo una ventina di anni. Per i reati più gravi, di violenza, scatta dopo trent’anni. Anche per alcuni reati involontari scatta dopo almeno vent’anni, ma anche di più: ad esempio – per dire una cosa attuale in questi giorni – scatta dopo oltre 20 anni per omicidio stradale. Che è una nuova forma del vecchio omicidio colposo, non voluto. Le indagini sull’incidente di Corso Francia sono già iniziate e potranno tranquillamente durare fino al 2040 o forse anche al 2043 (con le sospensioni) senza che scatti la prescrizione. Se però c’è un omicidio volontario, allora la prescrizione non scatta mai. Marco Travaglio l’altro giorno ha scritto sul Fatto un lungo articolo nel quale, rivendicando a sé – sembrerebbe: e giustamente – il merito di aver pensato e fatto approvare la legge che poi va sotto il nome di Bonafede (che è un suo collaboratore abbastanza fedele), cioè l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ci consegna gli argomenti che lui ritiene i più convincenti a favore della riforma. Il primo argomento è questo: l’Italia è l’unico Paese europeo, a parte la Grecia, dove esiste la prescrizione. Affermazione che non lascia molti dubbi. Uno dice: sempre ci dobbiamo fare riconoscere… Beh, naturalmente si potrebbe opporre a questo argomento l’argomento opposto: l’Italia è il Paese dove i processi durano più a lungo. Nel senso che la durata  media di un processo penale è di 1377 giorni (tre gradi di giudizio) contro i 424 giorni di un processo medio negli altri Paesi europei. Questo dato fa capire che magari in Europa non c’è gran bisogno di prescrizione, anche perché data la velocità dei processi non scatterebbe mai. E quindi il problema è italiano. Cioè il problema è: come si può riconoscere il diritto alla giusta durata di un processo in un Paese dove mediamente il processo dura tre volte più che nel resto di Europa? Fin qui, Travaglio ha commesso solo un errore di omissione. Volontario o no. Probabilmente involontario: nessuno gli ha fornito questi dati. Poi c’è un errore più clamoroso: non è vero che la prescrizione esiste solo in Italia. Esiste, in varie forme, in quasi tutti gli altri Paesi che adottano la cosiddetta “Civil Law”. Per esempio Spagna, Germania, Francia. Prendiamo la Francia, che è un luogo che un pochino pochino il diritto lo conosce e conosce un po’ lo Stato di diritto. Qui i reati si dividono in due categorie: crimini e delitti. I crimini sono i più gravi e prevedono pene comunque superiori ai 15 anni. I delitti pene inferiori. Tra i delitti, ad esempio, stanno tutti i reati di corruzione (sempre quelli più cari a Travaglio e ai suoi). Quanto dura la prescrizione, in Francia, per i delitti? Di norma tre anni, per alcuni delitti particolari solo tre mesi. Un reato che in Italia prevede la prescrizione dopo 15 anni (più eventuali sospensioni fino a 18 anni) in Francia si prescrive dopo tre. È vero che anche in Francia è possibile la sospensione della prescrizione. Anche per un tempo lungo. Mai, però, superiore al tempo massimo della prescrizione. Quindi, tre anni più tre anni: sei al massimo. Nei casi dei crimini invece la prescrizione scatta solo dopo 20 anni. Appena un po’ prima che da noi. (Questi dati sono facilmente reperibili nel sito web della Camera dei deputati). Fino al 2012, effettivamente, la prescrizione in Francia era più lasca. Poi i termini furono ristretti e ora è si e no tre volte più generosa che in Italia, ma in alcuni casi solo il doppio, e in casi estremi addirittura uguale all’Italia (sei anni). Secondo argomento di Travaglio. Grazie alla prescrizione, Berlusconi si è salvato 9 volte e Andreotti una. Già. E in Francia? O anche in Germania, o in Spagna? In Francia Andreotti non sarebbe stato nemmeno processabile  (e neppure in Germania, in Spagna, In Inghilterra, in Belgio, in Olanda, in Svizzera, in Polonia… posso continuare per un centinaio di righe) perché era accusato di un reato davvero strampalato (concorso esterno in associazione mafiosa) che non esiste in nessuno di questi Paesi e che è intraducibile nella gran parte delle lingue europee ( se non si vuole essere presi per pazzi); peraltro è un reato che è stato dichiarato (almeno per gli anni ai quali si riferisce il processo Andreotti) inesistente anche in Italia dalla Corte Europea. Quindi, su Andreotti, zero. Su Berlusconi bisognerà tener conto del fatto che è stato mandato a processo 70 volte, una volta condannato (in condizioni assai discutibili) da un magistrato che ora è uno stabile collaboratore del Fatto Quotidiano, e tutte le altre volte assolto. Due osservazioni 1) ovviamente in nessun Paese al mondo sarebbe stato mandato a processo per 70 volte. 2) Probabilmente questa mania di mandare continuamente a processo le personalità più in vista, e che producono più pubblicità per i Pm, è una delle ragioni della durata folle dei processi in Italia. In nessun Paese ci sono tanti processi, e forse, se si volesse davvero migliorare la giustizia, bisognerebbe occuparsi di questo problema, non della prescrizione. Travaglio poi chiede, provocatoriamente, ai sostenitori della prescrizione, quale sia l’articolo della Costituzione che rischia di essere violato con il codice Travaglio-Bonafede. Beh, qui basta una riga per rispondergli: l’articolo 111. Molti lo conoscono. Anche nelle scuole. Comunque, se chiede a Padellaro, sicuramente glielo spiega. Mi devo fermare qui. Anche se vorrei continuare (ma è finita la pagina), perché quell’articolo di Travaglio dà uno spunto di riflessione a ogni riga. E forse è la chiave di volta per capire il motivo del crollo del giornalismo: l’abitudine, sempre più dilagante, a scrivere cose senza saperle (o, a volte, fingendo di non saperle). Però un’ultima osservazione devo farla. Nello stesso numero del Fatto che ospita il proclama di Travaglio, c’è una bellissima intervista a Cesare Beccaria nella quale Beccaria si dice favorevole all’abolizione della prescrizione. No, no, non sono pazzo: è esattamente così. Un’ intervista immaginaria nella quale l’estensore spiega perchè Beccaria si è fatto convincere da Travaglio e ha abiurato. Uno di questi giorni pubblico un’intervista a Montanelli per chiedergli se si ricorda del suo allievo Travaglio. E se poi gli faccio dire “ oddio, non sapevo come levarmelo di torno, per fortuna c’era Cervi che me lo teneva lontano.”, certamente vado vicino alla verità.

Prescrizione, la proposta di Orlando non convince gli avvocati. Redazione de Il Riformista il 28 Dicembre 2019. La riforma del ministro Bonafede che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio entrerà in vigore il 1 gennaio, ma ieri il Partito democratico ha presentato la sua proposta di legge per provare a correggere il tiro su un tema che ha creato profonde divisioni nella maggioranza. A illustrarla in una conferenza stampa al Nazareno tutto lo stato maggiore dei dem in materia di giustizia. Unico assente il vicesegretario ed ex Guardasigilli Andrea Orlando, la proposta però, sostanzialmente, ripercorre proprio la sua riforma introdotta nel 2015. Il testo, di un solo articolo, prevede che la prescrizione si sospenda «dopo la pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna» per due anni in caso di appello e per un ulteriore anno in caso di ricorso in Cassazione, prevedendo sei mesi aggiuntivi «se è disposta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». In totale, quindi, tre anni e sei mesi di stop. Il Pd depositerà la proposta sia alla Camera che al Senato. «Siamo sicuri che in questo modo non si prescriverà neanche un processo in appello e in Cassazione, ma lasciamo una barriera finale per evitare processi infiniti», hanno spiegato i dem. La loro legge crea anche una distinzione tra le sentenze di condanna e quelle di assoluzione: «è il minimo sindacale secondo noi», ha affermato il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. Secondo Il Fatto invece, che è la testata di riferimento dei 5 Stelle, questa distinzione va contro la Costituzione: «lo ha già evidenziato la Consulta con la sentenza del 6 febbraio 2007 che bocciò la legge Pecorella (governo Berlusconi) sull’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento», riferiva ieri il sito aggiungendo che «come ha spiegato Piero Grasso in una intervista a Il Fatto Quotidiano, «per la Costituzione la presunzione di innocenza resta tale fino alla sentenza definitiva. E questo vale tanto per l’innocente quanto per il colpevole: non ci può essere una distinzione in questo senso». Per il Fatto quindi, come per il ministro Bonafede, la prescrizione va cancellata per tutti, senza distinzioni. Sono in tantissimi però a denunciare l’incostituzionalità della sua abolizione, a cominciare dall’Unione delle camere penali che contro la riforma conduce da mesi una strenua battaglia. Tuttavia, la proposta dei dem non convince i penalisti: «Ad una prima lettura, si tratta più o meno di una riproposizione, lievemente corretta, della attuale condizione normativa (la recente riforma Orlando) che la riforma Bonafede seccamente abroga», sottolinea in una nota il presidente Gian Domenico Caiazza. Ma, al di là del merito, afferma: «È difficile comprendere quale sia il disegno strategico del Pd», sottolinea, criticando il responsabile giustizia Verini il quale ha dichiarato che questa iniziativa legislativa è ora rimessa alla valutazione ed alla “sintesi” del Presidente del Consiglio. «In questi due mesi il Pd – accusa Caiazza – per dichiarato spirito di lealtà verso il Governo, ha contribuito in modo decisivo a respingere ogni tentativo parlamentare di ottenere almeno un rinvio della entrata in vigore della riforma Bonafede, cioè la soluzione più sensata e ragionevole, che lo stesso Ministro di Giustizia aveva accettato un anno fa (“prima riformiamo i tempi del processo, poi eliminiamo la prescrizione”). Quindi, dopo aver ottenuto il risultato di rendere ineluttabile l’entrata in vigore della riforma, il Pd ora presenta un disegno di legge sostanzialmente abrogativo della riforma medesima. In quali termini si immagina che dovrebbe intervenire la mediazione del Presidente Conte?», chiede il leader dei penalisti, «Ma soprattutto: se nulla accadrà –come pare francamente assai probabile – cosa farà il Pd di questo disegno di legge? Lo difenderà comunque, proponendolo al Parlamento per la sua approvazione?». «Se il Pd dovesse ricevere, su questo tema della prescrizione, l’ennesimo incondizionato no del Ministro Bonafede e del Presidente Conte, accetterà che il proprio disegno di legge venga votato dal Parlamento con una maggioranza di voti diversa da quella della compagine governativa? L’Onorevole Costa, come si direbbe al tavolo di poker, è già “andato a vedere” la mano, dichiarando che i parlamentari di Forza Italia sono pronti a votare il disegno di legge del Pd. Non c’è più molto spazio per le fumisterie». «Se si ribadisce in ogni sede, come il Pd ha fatto – ed è cosa che i penalisti italiani apprezzano senza riserve – che l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado afferma un principio – il processo infinito, il cittadino in balia della giustizia penale senza limiti di tempo – in evidente contrasto con l’art. 111 della Costituzione, occorre essere conseguenti, senza prestare ulteriore accondiscendenza verso le cocciute esigenze propagandistiche del populismo penale propugnato dal partner di Governo», chiude il leader dei penalisti.

Prescrizione, il web si schiera con le Camere penali: “Così siamo ostaggio della magistratura”. Fabrizio De Feo il 28 Dicembre 2019 su Il Riformista. Ha raggiunto oltre mezzo milione di persone in soli quattro giorni la campagna social dell’Unione camere penali italiane contro il provvedimento della nuova prescrizione che entrerà in vigore dal primo gennaio. I post con vignette e “meme” che sintetizzano gli effetti pratici della nuova legge hanno fatto il giro delle pagine Facebook e Instagram ricevendo l’endorsement di migliaia di persone. Il verdetto è chiaro: dall’analisi delle interazioni dei social media il rapporto tra chi si schiera contro la nuova legge è di sei volte superiore rispetto a chi invece la approva, e il tema si dimostra caldo tanto che un like non basta a esprimere il dissenso. Sono migliaia le persone che hanno lasciato commenti contrari alla nuova legge giudicata iniqua e troppo garantista nei confronti dello Stato, a discapito delle vittime e degli imputati che diventano automaticamente colpevoli “fino a prova contraria”, l’esatto ribaltamento di quanto dice la legge. Lo dice Michele R., che in commento a un post scrive: «Adesso tutti noi siamo passibili di processo eterno, il bello è che qualcuno è pure contento. Beata ignoranza», e lo sottolinea anche Pierfrancesco C.: «Mi dici che impatto rieducativo ha una pena da scontare venticinque anni dopo i fatti? E che giustizia sarebbe tenere un cittadino imputato a vita, senza prescrizione, praticamente ostaggio della magistratura?». C’è poi chi non nasconde di aver passato dei guai pur essendo innocente, e porta la sua testimonianza in risposta a chi invece sostiene la nuova legge: «Sei mai stato accusato ingiustamente di un reato, senza averlo mai commesso? Credi che sia così difficile? A me carpirono l’identitàper fare delle truffe a parroci dell’Alto Adige. Un cliente mi ha accusato di appropriazione indebita per coprire i suoi mancati versamenti delle tasse», scrive Dani P. Chiude la discussione Salvatore M.: «Colpevoli o innocenti non si può tenere sotto processo una persona a vita, piuttosto che prolungare la prescrizione sarebbe meglio definire la durata dei processi, perché non mi dite che dopo due o tre anni di indagine non si può definire se una persona è colpevole o innocente». Su Twitter interviene Giancarlo L.: «La cancellazione della prescrizione è il punto più basso a cui ci sta portando il populismo – scrive – corrisponde all’idea che chiunque è colpevole, basta avere abbastanza tempo per dimostrarlo e anche un innocente è solo un colpevole processato male e quindi va riprocessato fino alla Verità». Oltre ai post, condivisi e commentati centinaia di volte, ci sono anche i commenti a riscuotere like e approvazioni. Uno dei record appartiene ad Alberto M. (104 “mi piace”) che sul post «La prescrizione senza fine? È come un ospedale con liste d’attesa interminabili», commenta: «È la soluzione più facile, che procura più consensi elettorali e perché è l’unica di cui è capace chi attualmente ci governa. L’altra, quella più corretta, ma anche più difficile da attuare, sarebbe quella di fare in modo che tutti (o quasi) i procedimenti terminassero in tempi “umani”, in modo da non oltrepassare gli attuali termini di prescrizione. Così facendo, il problema si sarebbe risolto senza necessità di modificare la norma sulla prescrizione». Ci sono comunque voci che si pongono a favore della nuova legge, come dice Francesco F.: «La legge sulla prescrizione finalmente eviterà che molti processi finiscano senza colpevoli! È successo tantissime volte e stranamente a salvarsi dalle condanne sono stati i nostri politici». Ma sono in molti a rispondergli, come Enrico C.: «Togliere la prescrizione senza stabilire una data certa per chiedere un processo vuole dire imputare a vita… con tutti i costi che ci vanno dietro».

Indagato dal 2016: «Il mio processo fantasma con questa prescrizione finirà per essere eterno…». Giovanni M. Jacobazzi il 4 gennaio 2020 su Il Dubbio.  Quando si viene travolti dal cosiddetto processo mediatico, la propria vita è destinata a cambiare per sempre. E’ difficile, infatti, dopo essere stati sommersi da accuse, mai provate in un’aula di Tribunale, riuscire a recuperare la reputazione di un tempo. Tutto viene spazzato via in un attimo. Anni di duro lavoro, sacrifici, impegno a favore del prossimo. Il processo mediatico, che è la negazione del diritto e del principio di legalità, non lascia scampo. Ed è inutile parlare di diritto all’oblio. L’oblio scatta quando una persona ha pagato il proprio debito con la giustizia e vuole ripartire, mettendosi alle spalle un passato di errori. Ma nel processo mediatico non c’è stata alcuna sentenza ad attestare che questi errori siano stati commessi. Ci sono solo articoli di giornale che, come un fiume carsico, ogni tanto riemergono dai meandri del web senza che vi si possa mettere argine. La storia del dottor Piero Mita è uno di quei casi che dovrebbero far riflettere sulle conseguenze della condanna preventiva a mezzo stampa e, soprattutto, del procedimento penale eterno. Mita è un luminare delle fecondazione medicalmente assistita ed è anche medico di base a Milano dal 1999. Nella sua lunga vita professionale ha curato migliaia di persone. Ma Mita si dedica anche a chi è in situazioni di disagio ed emarginazione. Per questo suo impegno nei confronti del prossimo è molto stimato ed apprezzato. Nel 2011 entra in contatto con una signora ottuagenaria che vive, insieme ad un cane, in un modesto bilocale alla semiperiferia di Milano. La signora, sola e senza figli, è seguita dai servizi sociali. Le condizioni di salute sono precarie, aggravate anche dalla fatiscenza del domicilio, sprovvisto di corrente elettrica, riscaldamento e gas. L’unica fonte di sostentamento è una pensione di 640 euro mensili, la cui gestione è affidata ad un amministratore di sostegno. L’impegno dei servizi sociali si limita alla somministrazione dei pasti. L’Amministratore di sostegno, invece, punta a dichiararla incapace di intendere e di volere per poi procedere al ricovero coatto in una casa di riposo. Mita, allora, decide di portare la signora in un centro specializzato per malattie mentali. I medici escludono qualsiasi “patologia psichica attiva”, diagnosticando una “fragilità emotiva”: la “sindrome di abbandono” che colpisce gli anziani soli. Mita inizia a provvedere alle piccole incombenze della signora, mettendo ordine in casa e accompagnandola, dopo anni, dal parrucchiere. L’estate la invita a trascorrere qualche settimana nella sua casa di campagna. Il nuovo amministratore di sostegno, in una relazione al Tribunale del 2015, da atto del positivo recupero della signora che ha “ritrovato serenità e la cura per se stessa”. Nel marzo del 2016 la signora, tornata a vita nuova, effettua addirittura un viaggio a Lourdes. Il 13 luglio del 2016, su ordine della Procura di Milano, Mita viene arrestato con la terribile accusa di essersi approfittato di lei: “associazione per delinquere, sequestro di persona, circonvenzione d’incapace e maltrattamenti”, i reati contestati. Il giorno dell’arresto, durante la conferenza stampa, i carabinieri raccontano che Mita ha “segregato” in casa la signora, “spogliandola di tutti gli averi, picchiandola, costringendola a mangiare alle mense dei poveri e, all’occorrenza, a lavorare gratis come cameriera e addetta alle pulizie”. Mita trascorre tutta l’estate del 2016 agli arresti, prima che il magistrato decida di rimetterlo in libertà. Da allora, il nulla. A distanza di oltre tre anni, scaduti tutti i termini per le indagini preliminari, Mita non ha più ricevuto alcuna comunicazione da parte degli inquirenti. La sua è una vita sospesa, non sapendo se dovrà essere processato o meno. Nel frattempo ha ripreso, con difficoltà, l’attività di medico. Lasciato in questo limbo dallo Stato ed impossibilitato a difendersi da accuse orribili, l’unico “processo” che ha subito è stato quello sui giornali il giorno del suo arresto. Un processo mediatico, appunto. Mita non teme un eventuale giudizio in Tribunale, consapevole della bontà e correttezza del proprio operato. E’ giusto, allora, per i fautori del processo senza fine, lasciare per anni in questa situazione di incertezza una persona la cui unica colpa è stata quella di aiutare un’anziana signora indigente? Dopo che questa persona è stata arrestata e sbattuta su tutti i giornali?

Prescrizione, il magistrato Auriemma: «Questa legge nega che un uomo possa cambiare». Giovanni M. Jacobazzi il 3 gennaio 2020 su Il Dubbio. Paolo Auriemma, procuratore di Viterbo, è molto critico con la riforma voluta dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede. «La prescrizione è uno dei pilastri del nostro sistema giudiziario perché pone l’uomo al centro, un uomo che cambia e che non è più lo stesso a distanza di anni. Ecco perché interromperla è un grosso errore». Paolo Auriemma, procuratore di Viterbo, è molto critico con la riforma voluta dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede ed in vigore da mercoledì. «Già adesso è doloroso emettere ordini di carcerazione nei confronti di persone che hanno cambiato vita e anni prima erano dediti ai reati: figuriamoci cosa accadrà domani», prosegue Auriemma, secondo cui «le difficoltà della giustizia italiana non si superano bloccando la prescrizione. Non è questa la radice dei problemi». Il procuratore di Viterbo è comunque consapevole che il blocco della prescrizione ha riscosso successo in ampi settori della magistratura: «A differenza di molti altri magistrati non solo sono contrario ma sono anche abbastanza preoccupato. Il mio è un punto di vista personale, in assoluta minoranza: la maggior parte dei magistrati, con l’Anm, si è espressa positivamente». Un riferimento a quanto accaduto durante l’ultimo congresso nazionale dell’Anm in cui il presidente Luca Poniz, inizialmente contrario – «la riforma della prescrizione rischia di produrre squilibri complessivi” -, aveva cambiato idea – “la prescrizione cosi com’è va benissimo» – il giorno dopo. Se l’Anm ha cambiato idea, Auriemma ha però un “alleato” autorevole: il parere espresso dal Csm in occasione dell’approvazione della legge Spazzacorrotti, ove era stato inserito lo stop della prescrizione. Con il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado si rischierebbe un «allungamento dei processi», e questo, di conseguenza, «aggraverebbe il vulnus al principio di cui all’articolo 111 della Costituzione» e «darebbe luogo ad una potenziale lesione del diritto di difesa dell’imputato garantito dall’articolo 24 della Costituzione», scrivevano a Palazzo dei Marescialli a dicembre del 2018. «Le uniche modifiche processuali sembra vadano in controtendenza con la ragionevole durata dei processi. Penso all’eliminazione del giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo», fa notare invece Auriemma. «Questa modifica ha portato, a Viterbo, alla necessità di instaurare diverse Corti d’assise in corso nello stesso momento, i cui lavori ovviamente incideranno sull’intero andamento del Tribunale: un assassino reo confesso, ad esempio, aveva chiesto l’abbreviato, ma è stato dichiarato inammissibile proprio in virtù di questa riforma, con conseguente dispendio di energie e di tempo». Alla vulgata secondo cui la causa della prescrizione sia da addebitare alle condotte dilatorie degli avvocati, la replica del procuratore di Viterbo è netta: «E’ una affermazione senza senso, una rappresentazione superficiale, quasi macchiettistica, di una categoria professionale che invece contribuisce alla crescita culturale del Paese». Se le riforme “epocali” della giustizia non si sono ancora viste, una strada percorribile fin da ora per velocizzare almeno alcune fasi del procedimento passa per l’informatizzazione.

«La Procura di Viterbo, a tal riguardo, è un punto di riferimento per gli uffici del Lazio. La sua organizzazione informatica è stata definita un’eccellenza dagli ispettori del ministero della Giustizia. Con l’informatizzazione siamo riusciti a supplire alla carenza di personale amministrativo ed ad eliminare anche molti arretrati, soprattutto quelli riguardanti l’iscrizione della notizia di reato. I fascicoli noti sono stati scannerizzati e gli avvocati possono visualizzarli digitalmente e richiederne copia con un dimezzamento dei costi», afferma Auriemma. «E grazie ad una convenzione con l’università della Tuscia aggiunge – è stato reso più fruibile il sito della Procura, attraverso il quale possono essere richiesti pure determinati certificati». E sulle mancate notifiche che comportano un rallentamento dei processi perché le udienze saltano? «Ora le notifiche vengono fatte via pec e tramite il sistema TIAP ( Trattamento Informatico Atti Processuali, un applicativo sviluppato da via Arenula, ndr), puntualizza il procuratore di Viterbo.

Telefono Rosa al ministro Bonafede: «Il nome è sbagliato e un bimbo con la leucemia non ottiene l’invalidità». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Rosa Gabriella Carnieri Moscatelli. Illustre ministro, ogni anno le volontarie si riuniscono per fare un escursus dell’anno appena trascorso. Durante l’incontro è inevitabile che si affronti il grande problema della difesa legale delle donne che si rivolgono alla nostra associazione. Il senso di impotenza che pervade tutte noi quando leggiamo alcuni provvedimenti. Ci siamo poste molte domande che giriamo a Lei signor ministro. Perché ad oggi non c’è un progetto di rivisitazione e riorganizzazione dei Tribunali? Le criticità che hanno presentato quest’ultimo anno i tribunali dei minori, le difficoltà oggettive dei giudici di pace non le suggeriscono una accurata analisi? Per essere più chiare le parliamo di episodi avvenuti nei tribunali minorili, impegnati con la parte più fragile della nostra società: i bambini e gli adolescenti. Pochi mesi fa una nostra avvocata ci ha comunicato che su un provvedimento di affido dei minori alla madre hanno sbagliato il nome dei figli. Sappiamo già che un semplice errore per essere corretto ha una procedura lunga e contorta. L’ultimo ha colpito un nucleo di mamma con tre figli, il più piccolo ammalato di leucemia. Il provvedimento con nome sbagliato risale al giugno 2018, a causa di ciò l’Inps ha rigettato la richiesta di pensione di invalidità. Appena arrivata la notifica Inps, nel settembre 2019, si è fatta richiesta di correggere il nome sul decreto. Il 19 dicembre 2019 è stata presentata una nuova richiesta perché dopo tre mesi la correzione non è stata eseguita. Un atto che richiede pochi secondi, atto che deve porre rimedio ad un errore del tribunale, purtroppo dopo tre mesi giace ancora inevaso. Il bambino non può prendere la pensione di invalidità, ogni pratica che la mamma deve aprire non procede perché il provvedimento è sbagliato. Ma questo è uno stato che rispetta il cittadino o lo tratta da “suddito”? E ancora ministro, posso farla partecipe delle dolorose vicende che hanno dovuto affrontare alcune delle donne ospiti delle case rifugio e che ci hanno confermato che viene ignorata completamente la convenzione di Istanbul oggi legge dello Stato italiano. Abbiamo letto l’appello al presidente Mattarella della signora Merighi che denuncia il trattamento che il tribunale dei Minori di Roma le ha riservato. Possiamo affermare, senza temere di essere smentite, che lo stesso trattamento è stato riservato, recentemente, ad una madre ospite di una nostra casa che ha denunciato il marito violento e con un ordine di protezione è entrata in una delle nostre case. Il marito ha ottenuto dal Tribunale dei minori un decreto provvisorio che ignora la decisione del Tribunale Penale di Roma. Solleva la giovane mamma dalla responsabilità genitoriale e colloca la bimba di 14 mesi, presso una casa famiglia. La mamma può seguire se vuole la bambina! Abbiamo scritto a tutte le istituzioni interessate al provvedimento. Nessuna ha risposto. Non basta, il genitore ha chiesto al Tribunale Penale la revoca del provvedimento di “protezione”. Il Tribunale Penale di Roma, con grande professionalità, ha immediatamente avviato il procedimento. A gennaio è stata fissata l’udienza. A lei ministro, chiediamo di far luce su episodi che troppo spesso vedono bimbi strappati alle loro madri che hanno una sola colpa: quella di aver denunciato un marito violento. 

Chiede l’affido del figlio di sei anni, ma l’ok arriva  quando è maggiorenne. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. Il punto chiave di questa odissea burocratica e giudiziaria sta in un aggettivo, quello che identifica il provvedimento: «Decreto definitivo». È quel definitivo che bisogna fissare, se si considera la domanda: un uomo che nel 2006, dopo la separazione dalla moglie, si rivolgeva al Tribunale per chiedere d’urgenza l’affidamento condiviso del figlio e una regolamentazione del proprio «diritto di visita» del bambino. Il piccolo, all’epoca, aveva 6 anni: ma la decisione del Tribunale per i minorenni (il «decreto definitivo») è arrivata soltanto nel 2017, quando il bambino era diventato ormai un ragazzo. Ma non è tutto, perché a quel punto, col ricorso del padre in Corte d’appello, i tempi sono andati ancor oltre. E dunque la sentenza che avrebbe dovuto regolare il diritto di visita di un padre a un bambino di 6 anni è stata confermata quando il giovane, ormai maggiorenne, poteva decidere in autonomia della sua vita e dei suoi rapporti con i genitori. È una vicenda della quale il Corriere non rivela altri dettagli per non rendere identificabili le persone coinvolte, ma che, con immediata evidenza, sollecita una domanda: come è stato possibile? Prima di provare a rispondere, bisogna dar conto dell’ultimo passaggio, che risale al 13 dicembre 2019. Porta infatti quella data la lettera con la quale il legale del padre, Gianpaolo Caponi, con il suo collega Francesco Langè, chiede al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia un maxi risarcimento. Un milione di euro: perché «per colpa di un vuoto decisionale», si legge nella lettera, nel quale non sono state emesse «neppure in via temporanea ed urgente delle regole seppur minime che potessero assicurare una frequentazione periodica», all’uomo «è stato precluso, forse per sempre, il diritto di vivere con il proprio figlio». «Siamo di fronte alla violazione di un diritto primario inviolabile, con un danno irreversibile e non quantificabile», riflette l’avvocato Caponi. La vicenda ha inizio nel 2006 e si genera all’interno di un rapporto di conflitto continuo e profondissimo tra madre e padre, da poco separati. Solo nel 2008 i giudici (onorari) incaricano i servizi sociali di fare un’istruttoria, organizzare incontri padre/figlio «in modalità protetta» e valutare le personalità dei genitori. L’esito di quel percorso è una relazione (depositata nel 2009) nella quale gli assistenti sociali spiegano «di non aver rilevato inadeguatezze genitoriali», anzi «evidenziano quanto i genitori siano importanti punti di riferimento per il minore, in grado di offrire allo stesso risorse differenti, ma comunque preziose». Anche il padre «appare affettuoso con il figlio, capace di condividere con lui momenti sereni e divertenti». Il vero problema resta la «conflittualità tra i genitori». Un’altra relazione è datata 2010, ma non arriva ancora la decisione, e una pronuncia non si ottiene neppure nel 2012 e nel 2014, quando la causa viene trattenuta in decisione, ma poi rimessa sul ruolo, con le audizioni che riprendono nel 2016: fino a quella del 2017 in cui il ragazzo si rifiuta di andare in Tribunale. Il passare degli anni è stato scandito da lettere con richiesta di far vedere il bambino al padre, e nei primi periodi alcuni incontri si riuscivano comunque ad organizzare, anche al di fuori di quelli (della durata di un’ora) con gli assistenti sociali presenti. Padre e figlio riuscivano così a tenere un filo di contatto e una volta passarono anche qualche giorno di vacanza insieme, ma tutto questo è sempre avvenuto senza un quadro di regole definito dalla giustizia. Fino a che, come spiegato dal ragazzo in audizione nel 2014, «i rapporti si sono sempre più diradati, fino a interrompersi». Col decreto del 2017 i giudici affidano il ragazzo (ormai 17enne) in via esclusiva alla madre, spiegando di fatto che è sempre stata una «brava madre», pur non essendo stata in grado di assicurare il diritto alla «bi-genitorialità».

È un tempo cupo per i diritti, finirà quando l’Italia pagherà i danni per i processi infiniti. Bartolomeo Romano, ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo, su Il Dubbio il 21 febbraio 2020. Dalla prescrizione alle idee di alcuni pm, cresce la spinta autoritaria. Se ne parlerà anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione camere penali a Brescia. Viviamo tempi bui, nei quali princìpi di civiltà giuridica, faticosamente costruiti e difesi nei decenni e persino nei secoli passati, sembrano vacillare per effetto di attacchi, sempre più duri e decisi, che rischiano di colpire il cuore delle nostre libertà e della nostra democrazia. La cartina di tornasole del dibattito tra garantisti e giustizialisti sembra essere rappresentata dalla riforma della prescrizione, tenacemente voluta dal ministro Bonafede, che di fatto elimina la prescrizione dopo una decisione di primo grado. Una previsione che trasformerà l’imputato in eterno giudicabile, con la conseguenza che si darà vita all’ergastolo processuale. E che pregiudicherà le stesse persone offese, le quali hanno il diritto di ottenere giustizia in tempi certi. Il tutto in spregio agli articoli 27 ( principio di non colpevolezza) e 111 ( principio della ragionevole durata dei processi) della Costituzione e all’articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo ( che stabilisce la ragionevole durata dei processi e definisce la persona accusata “presunta innocente”). Spero, dunque, che si fermi questa barbarie, che rischia di pregiudicare le stesse libertà civili e politiche dei cittadini, eliminando la riforma Bonafede ( proposta Costa) o, almeno, spostandone l’efficacia di un anno ( come nel lodo Annibali, però respinto in commissione). Le altre ipotesi attualmente sul campo, come il lodo Conte- bis, non più nel “milleproroghe” ma nel ddl delega sul processo penale, approvato in Consiglio dei ministri, il 14 febbraio, sembrano del tutto inappropriate, come del resto l’intero disegno di legge. Appunto: la mia preoccupazione è più profonda e ampia di quella, già serissima, legata alla prescrizione. Anzi, temo che il dibattito sulla prescrizione sia utilizzato come un pericoloso e subdolo cavallo di Troia per scardinare il sistema di garanzie e lo stesso Stato di diritto. Nella corsa al populismo mediatico- giudiziario, ho avvertito – e credo di non essere il solo – un continuo alzare i toni, con proposte sempre più estreme, che hanno richiamato alla mente la storia della Rivoluzione francese, nella quale i puri sono stati superati dai più puri, con conseguenze tragiche. Così, con stupore e imbarazzo prima, e ( confesso) con timore e preoccupazione poi, ho ascoltato le affermazioni di Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri, non solo in materia di prescrizione, ma – in senso più ampio – di giustizia penale. Le opinioni dei due alti magistrati sono note e esigenze di sintesi impongono di non discuterle nel merito. Basti richiamarle a grandi linee. Per Davigo: occorre eliminare il divieto di reformatio in peius; rendere responsabile in solido l’avvocato ( che dovrebbe depositare fino a 6mila euro!) in caso di inammissibilità del ricorso; consentire cambi di giudice senza rinnovare gli atti; rivedere il gratuito patrocinio. Per Gratteri: occorrerebbe generalizzare il processo a distanza per tutte le vicende penali; bisognerebbe creare campi di lavoro gratuiti per i detenuti come terapia e rieducazione; il carcere di Bollate, la casa di reclusione aperta nel 2000 nell’hinterland milanese, sarebbe un mero spot. Ma, ad altri, le proposte sopra richiamate devono essere sembrate moderate: così, Giancarlo Caselli ha suggerito, addirittura, di eliminare del tutto l’appello. Pericolo concreto, se il prossimo 21 e 22 febbraio, a Brescia, l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei Penalisti Italiani sarà proprio su “l’appello irrinunciabile. In difesa del doppio grado di giudizio”. Inoltre, certa stampa accoglie e rilancia tutte tali tesi: sul presupposto che, se una persona è sottoposta a processo, è, quasi certamente, colpevole; e, del resto, lo stesso ministro della Giustizia in carica ha affermato che in carcere gli innocenti non vanno… A ciò si aggiunga che, per alcuni editorialisti, chi la pensa diversamente è fannullone, ladro, corrotto e, comunque, in cattiva fede o agisce per biechi interessi personali. Non si criticano ( eventualmente) le idee, ma si attaccano direttamente le persone che hanno opinioni diverse. Viviamo tempi bui, non solo per il contenuto di molte delle idee che circolano, tipiche dell’inquisizione o di Stati autoritari, ma anche per il modo di affermarle. E questo dovrebbe preoccupare tutti, comunque la si pensi. Credo però che, se continuiamo così, una seria riforma della giustizia non la farà un guardasigilli ma un ministro dell’Economia, perché dovremo – tutti noi – risarcire ( anzi, indennizzare) chi ha subito processi troppo lunghi ( che la eliminazione della prescrizione diluirà ancora) e ingiuste detenzioni. E, forse, allora, la nostra civiltà giuridica sarà più salda, evoluta e moderna.

·         Prescrizione e toghe inoperose.

Albamonte: "Sui tempi dei processi non vogliamo essere il capro espiatorio. Davigo? Gli avvocati sbagliano". Parla il segretario di Area, corrente di sinistra delle toghe, ex presidente dell'Anm: "Assurdo prevedere tempi bloccati per ogni grado di giudizio". E sulla richiesta dei penalisti, che a Milano non vogliono l'ex pm di Mani Pulite all'inaugurazione dell'anno giudiziario: "Danno prova di scarsa democrazia". Liana Milella il 30 gennaio 2020 su la Repubblica. "È un'idea assurda prevedere tempi bloccati per ogni grado di giudizio. Noi magistrati non accettiamo di giocare alla roulette russa sulla nostra testa, né tantomeno di essere la merce scambio per uscire dal cul de sac in cui si è cacciata la politica". E ancora sul caso Davigo: "Gli avvocati di Milano, sbagliando, stanno dando prova di scarsa democrazia e stanno trasformando il collega in un martire". È furibondo il segretario della corrente di sinistra delle toghe Eugenio Albamonte, pm a Roma ed ex presidente dell'Anm che dice: "La politica vuole uscire da un dibattito surreale scaricando tutto sulle nostre teste, ma non si stanno rendendo conto che questo sarà il peggior danno possibile da fare alla giustizia italiana".

Processi lenti: il governo giallorosso va verso un'intesa che, in primis, punisce i magistrati con la scure disciplinare. La ritiene una soluzione giusta?

"E lo sapevo che si andava a finire in questo modo. Le forze di governo, per cercare di uscire dal cul de sac in cui si sono infilate sulla prescrizione, adesso utilizzano le toghe come merce di scambio. E pretendono di addossarci tutte le colpe delle lungaggini dei processi".

Ma lei nega che queste lungaggini ci siano? Purtroppo sono sotto gli occhi di tutti...

"Certo che le lungaggini ci sono, io le verifico ogni giorno quando vado in udienza. E ne vedo chiaramente anche tutte le ragioni. Nel nostro sistema ci sono troppi reati, alcuni ormai privi di senso; il processo è diventato un percorso a ostacoli che prevede inciampi anche quando non servono a dare maggiori garanzie all'imputato; mancano clamorosamente - ma questo lo sanno tutti - risorse economiche, di personale e di infrastrutture, la cui messa a disposizione è precisa responsabilità del governo e del ministro della Giustizia".

Quindi lei, da pm, metterebbe sotto processo disciplinare il governo anziché i suoi colleghi? 

"La responsabilità della politica, secondo me, sta nel fatto di utilizzare i temi del processo come strumento per acquisire consenso elettorale. Il Guardasigilli Bonafede lancia il tema della prescrizione quando era stata appena modificata dal suo predecessore Orlando. Anziché occuparsi da subito delle riforme strutturali necessarie a far funzionare meglio il processo".

Ma Bonafede sostiene che sia stata la Lega a bloccarlo nelle riforme e comunque dice che le sta facendo adesso. 

"Stiamo assistendo da mesi a un dibattito surreale nel quale, al di là della contrapposizione tra i partiti per ragioni di visibilità, non è stata fatta nessuna proposta concreta se non questa, del tutto assurda, di contingentare i tempi del processo e stabilire sanzioni disciplinari per i magistrati che non li rispettano".

Perché assurda?

"Per la semplice ragione che, in qualsiasi azienda che si rispetti, non si pretende un risultato senza aver prima messo in bilancio i mezzi e le risorse necessari".

Eppure proprio il Pd, che è contro la prescrizione di Bonafede, non ha sollevato un dito contro l'ipotesi di sanzioni disciplinari. 

"Forse perché si va cercando un modo apparentemente onorevole per uscire da questa disputa politica e, in mancanza di altre idee che abbiano una vera consistenza giuridica, si va alla ricerca di un capro espiatorio".

L'Anm ha parlato di "metodo brutale", ma la mia impressione è che questa volta con voi magistrati non ci stia nessuno, neppure la gente che va in piazza. Non siamo più ai tempi di Mani pulite, il cittadino medio vi ritiene colpevoli di questi ritardi. 

"Sarà sempre peggio perché quando il ministro Bonafede, pur non garantendo alcuna possibilità di rispettarli, fisserà dei tempi certi per ogni grado di giudizio, i cittadini saranno autorizzati a credere che il loro mancato rispetto dipende dal fatto che i magistrati sono dei fannulloni. In questo modo il governo ipoteca anche per il futuro ogni residua credibilità della giustizia e dei magistrati che invece dovrebbe preservare".

Scusi Albamonte, non voglio fare l'avvocato difensore di Bonafede. Ma da quando è ministro, e se ricorda bene anche nel congresso dell'Anm a Siena due anni fa quando lei era presidente, lui ha sempre difeso i magistrati presentandoli come produttivi e tra i migliori in Europa. È un po' la linea di Piercamillo Davigo. Non sarà che Pd e renziani, pur di ottenere una prescrizione più morbida, sono pronti a sacrificarvi? Se lo ricorda Renzi quando tagliò le ferie accusandovi di non lavorare?

"Proprio per questo sto dicendo che i magistrati oggi sono la merce di scambio nell'ambito della trattativa tra i partiti di governo innescata dallo scontro sulla riforma della prescrizione. Rischiamo di rimanere stritolati in questa dinamica, e con noi sarà stritolata anche la residua efficienza del processo che finora solo noi abbiamo garantito con i nostri sforzi e con essa anche i diritti dei cittadini".

Ma allora come mai gli avvocati, avvelenati contro la prescrizione, non dicono nulla sulla previsione di sanzioni disciplinari contro di voi? 

"In questo momento mi sembra che gli avvocati si stiano avvitando in una spirale di polemiche come quella su Davigo che allontana ancor di più da un approccio ragionevole e produttivo sui tempi della riforma, perdendo tempo a confutare le posizioni personalissime di quest'ultimo come se fosse lui il legislatore e rinunciando a ogni proposta concreta di modifica".

Lei come la pensa sulla richiesta degli avvocati di Milano di escludere Davigo, in rappresentanza del Csm, dalla cerimonia per l'anno giudiziario?

"Le idee di Davigo sulla giustizia non sono certamente le mie, ma la fatwa che gli è stata lanciata dagli avvocati milanesi, oltre a essere brutalmente antidemocratica, rischia solo di attribuire al suo pensiero e alle sue proposte un valore politico e culturale molto maggiore di quello che effettivamente hanno.

L’Anm sostiene che i magistrati italiani sono i più stacanovisti d’Europa. Ma i dati dicono altro. Giovanni M. Jacobazzi il 30 gennaio 2020 su Il Dubbio. Secondo l’Ue il nostro Paese figura fra gli Stati in cui il grado di efficienza degli organi giudiziari per i procedimenti penali è da ritenersi «preoccupante». «I magistrati italiani sono i più produttivi d’Europa». Il tema non è nuovo. Anche ieri l’Anm, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, è tornata sull’argomento per sottolineare come lo sforzo delle toghe italiane sia già al massimo. E quindi sarebbe “ingeneroso” prevedere sanzioni per i magistrati che non dovessero rispettare i tempi previsti dal ministro della Giustizia per lo svolgimento del processo. Le toghe, per sostenere la propria operosità citano i rapporti della Commissione europea per l’efficienza della giustizia (CEPEJ), un organo istituito nel 2002 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con il fine di migliorare la qualità e l’efficienza dei sistemi giudiziari europei ed accrescere la fiducia degli cittadini nei “meccanismi” di giustizia. Ogni due anni CEPEJ pubblica i risultati dei propri studi sul funzionamento dei sistemi giudiziari, elencando i numeri dei procedimenti, i giorni necessari per definirli, il numero dei giudici in servizio preposti alla loro trattazione. Per quanto riguarda il settore penale, un dato emerge fin da subito: la Francia è il Paese in cui i pm si trovano a gestire il maggior carico di lavoro, dovendo smaltire il più grande numero di procedimenti tra gli stati a fronte di un numero esiguo di procureur. Sul fronte del personale (impiegati amministrativi, marescialli, ecc.) a disposizione, l’Italia figura ai primi posti con 4,1 unità per pm. La Spagna, ad esempio, ha solo 0,8 unità per pm. E veniamo alla “produttività”. Il tema della ragionevole durata dei processi è l’elemento cardine per valutare il grado di efficienza dei sistemi giudiziari dei 47 Stati del Consiglio d’Europa. CEPEJ sottolinea che «l’efficienza degli uffici giudiziari ha un ruolo fondamentale nel rafforzamento dello stato di diritto (rule of law), in quanto assicura la responsabilità di tutte le persone, istituzioni ed organi, pubblici e privati, e garantisce l’esistenza di rimedi giusti, equi e tempestivi». In tal modo, aggiunge, si crea fiducia nelle istituzioni. Nel misurare l’efficienza dei sistemi giudiziari, la CEPEJ si basata su due indicatori di performance: il tasso di risoluzione dei casi (clearance rate), basato sul rapporto tra i casi risolti e quelli ricevuti dai tribunali ed il tempo necessario per la risoluzione degli stessi (disposition time), facendo riferimento in particolar modo al primo grado di giudizio. Sul penale, la CEPEJ ribadisce l’importanza di un rapido svolgimento dei procedimenti, purché in accordo con i principi del giusto processo. Tale requisito è cruciale per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo, soprattutto nei casi di applicazione di misure preventive di privazione della libertà. Considerando che il ruolo del pm varia da Paese a Paese, è necessario analizzare i dati tenendo conto di tali differenze. In generale, si può comunque osservare che i pm hanno ricevuto in media 3,4 casi ogni 100 abitanti. Circa il 45% di questi procedimenti viene “abbandonato” dal pm, mentre il 25% è portato a giudizio. Il restante 30% è chiuso dallo stesso pm che commina una pena o negozia altra misura sanzionatoria (negli Stati ove è possibile). L’Italia figura fra gli Stati in cui il grado di efficienza degli organi giudiziari per i procedimenti penali è da ritenersi «preoccupante», sia per il numero di procedimenti conclusi sia per la loro lunghezza. I dati riguardanti l’Italia sono guardati con estrema attenzione, in considerazione del fatto che più dell’85%, dei procedimenti – per CEPEJ – riguarda «crimini gravi».

Avvocato picchia giudice, carabinieri e infermiera. Treviso, furia per rinvio udienza. Silvana Palazzo su Il Sussuadiario il 28.01.2020. Treviso, udienza rinviata: avvocato picchia giudice, carabinieri e infermiera. Poi viene sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio. Aggredisce il giudice, picchia un carabiniere e schiaffeggia l’infermiera che lo accompagna in ambulanza. A dare in escandescenza non è l’imputato, ma un avvocato. È accaduto martedì mattina a Treviso, nello studio di un giudice della sezione civile. Il legale 49enne di Bassano del Grappa ha perso il controllo quando il giudice gli ha comunicato che l’udienza, nella quale l’avvocato assisteva una delle parti in causa, sarebbe stata rinviata. Il professionista, stando a quanto riportato dal Corriere della Sera, ha cominciato a urlare contro il magistrato, arrivando a provare di picchiarlo. Invece è riuscito solo a strattonarlo prima che il giudice riuscisse a scappare e a dare l’allarme. Ma non è finita qui, perché la furia dell’avvocato non si è placata col giudice che si allontanava. Ormai fuori di testa, se l’è presa infatti con le altre persone che sono accorse, a partire dalle forze dell’ordine.

TREVISO, UDIENZA RINVIATA: AVVOCATO S’INFURIA. Dalla procura sono infatti arrivati in poco tempo alcuni agenti della polizia giudiziaria. Questi sono stati poi raggiunti poco dopo da carabinieri e polizia. L’avvocato è stato quindi accompagnato in procura, dove gli agenti hanno provato a calmarlo, ma la situazione non è migliorata, anzi è stato peggio. Il legale infatti, come riportato dal Corriere della Sera, prima si è scagliato contro un carabiniere, riuscendo a colpirlo con due schiaffi, poi si è buttato a terra. Solo dopo un’ora di mediazione, gli agenti e il magistrato di turno sono riusciti a convincerlo ad andare in ospedale per accertamenti. Ma neppure in ambulanza la sua furia si è placata, anzi l’avvocato 49enne è arrivato pure ad aggredire un’infermiera, colpendola con uno schiaffo. Il legale bassanese, che ormai aveva perso il controllo, è stato quindi sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio (Tso).

Avvocati, "stress da malagiustizia" il ministero condannato a risarcire. Napoli, il giudice di pace dà ragione a ottanta legali che denunciavano i disservizi del tribunale. La Repubblica il 21 gennaio 2007. Stabilita anche l'entità del rimborso: 100 euro a testa più le spese. Il ministero risarcisce gli avvocati per stress da "inefficienza del sistema giudiziario". Accade a Napoli dove il giudice di pace ha condannato il dicastero della Giustizia a rimborsare cento euro per ciascuno degli ottanta legali che lo hanno citato in giudizio. Il contenzioso nasce da una causa promossa dall'avvocato Angelo Pisani, alla quale poi si sono accodati altri suoi colleghi iniziata il 28 ottobre del 2005 contro, si legge nell'esposto, "l'inefficiente sistema giudiziario napoletano caratterizzato da gravi e ingiustificati disagi, gravi violazioni del diritto di difesa, delle regole processuali come illegittimi ed inspiegabili rinvii delle prime udienze, lunghe file per la verifica dell'assegnazione delle cause, ingiusticate condizioni di lavoro, inspiegabili ritardi anche di otto/nove mesi per il rilascio di copie esecutive di sentenze relative a procedimenti tenuti presso l'ufficio del giudice di pace". Insomma, in poche righe, una descrizione esaustiva dei mali che affliggono questa come altre sezioni del tribunale partenopeo. Dopo un anno e mezzo, la sentenza emessa dal giudice di pace della prima sezione civile Renato Marzano che dà ragione agli avvocati e condanna il ministero a una equa riparazione dei "danni esistenziali conseguenti allo stress derivante dai disagi subiti". Oltre ai cento euro, via Arenula dovrà accollarsi anche il pagamento delle spese di giudizio liquidate in 70 euro per le spese, 125 euro per i diritti, 75 per gli onorari oltre l'Iva, il 12,50% a titolo di rimborso spese generali. Il giudice di pace ha però accolto solo in parte le richieste dei legali, che avanzavano anche l'ipotesi di una applicazione della legge Pinto, individuando gli elementi per ritenere di dover essere risarciti per una ingiustificata durata dei processi. Tutti i testi hanno riferito al giudice di Pace che mentre sino a qualche tempo fa una causa iscritta a ruolo veniva chiamata dopo sette giorni rispetto la data indicata in citazione, questo termine nel tempo si è dilatato fino ad arrivare a 60 giorni; senza contare le file lunghissime, per circa una ora, per iscrivere una causa a ruolo, e i quattro mesi che occorrono per ottenere copie urgenti di una sentenza, pagando il triplo dei diritti previsti, mentre per le vie ordinarie ci vogliono anche 12 mesi per quelle stesse copie. Una situazione per la quale gli avvocati si trovano coinvolti in discussioni continue con i loro clienti esasperati. Da qui lo stress. E il risarcimento.

Vittima di stalking, in diciotto mesi nessuna udienza. Leandro Del Gaudio Giovedì 30 Gennaio 2020 su Il Mattino. Altro che codice rosso, altro che processi spediti per le vittime di violenza di genere. Tanto battage sulla necessità di acquisire le prove, di ascoltare i soggetti coinvolti in aggressioni o azioni persecutorie, per poi ritrovarsi lì, nel tempo immobile di un'aula di giustizia. Indagini da impostare in cinque giorni, secondo le regole dell'ultimo decreto di sicurezza, di fronte a processi che restano al palo, che stazionano dinanzi a giudici monocratici e che incassano rinvii semestrali, addirittura da un anno all'altro. È il caso di una giovane donna, ritenuta dal pm Stella Castaldo vittima di stalking, tanto da costituirsi parte civile nel processo a carico del suo ex consorte: in un anno, due udienze di smistamento, due rinvii rapidi, si ritorna in aula a giugno. Da diciotto mesi è ancora in attesa che un giudice apra il suo fascicolo e affronti le sue ragioni. Una beffa, specie nell'era del codice rosso, del pacchetto di leggi che impongono alle Procure di attrezzarsi per acquisire in cinque giorni le testimonianze utili per dare la stura a processi contro le fasce deboli. Ieri mattina, nuovo stop, nuovo rinvio. Rappresentata dal penalista napoletano Antonio Di Nocera, la donna aveva denunciato il marito per atti persecutori, che hanno anche aggravato la sua condizione di salute. Vive con l'incubo di ritrovarsi sotto casa l'ex marito, di doverne affrontare lo sguardo, di subire nuove minacce o violenze. Un caso delicato, che attende la risposta di un giudice, mentre il caso della donna (presunta) vittima di stalking diventa simbolo dell'andamento lento della giustizia napoletana. A partire dalle date: la richiesta di rinvio a giudizio a carico dell'unico imputato risale ad ottobre del 2018; l'udienza preliminare viene celebrata il 25 gennaio del 2019, dinanzi a un gup che dispone il rinvio a giudizio dell'imputato. Per quando? Una settimana dopo? Un mese dopo? No, niente affatto: da un anno all'altro. È così che la prima udienza dinanzi a un giudice monocratico è stata fissata per il 29 gennaio del 2020, cioè ieri mattina. Aula 418, giudice monocratico, è il momento decisivo, pensa in cuor suo la donna. Sono passati 12 mesi dal rinvio a giudizio, ieri attendeva una risposta dal Tribunale, una svolta capace di sancire la fine di una brutta vicenda personale. E invece nulla di fatto: il dibattimento non viene neppure aperto, il suo processo viene rinviato al 24 giugno prossimo. Ma come mai un rinvio di sei mesi? Restiamo ai dati di fatto. Ieri mattina, dinanzi allo stesso giudice monocratico, c'erano almeno quaranta processi. Un imbuto. Folla dentro e fuori l'aula, passano un paio di ore, quando la donna si rende conto dell'impossibilità che la propria denuncia possa essere affrontata dal Tribunale. Eppure aveva denunciato il marito dopo la separazione, un copione diventato seriale: lui non accettava la sua scelta di chiudere il rapporto «a causa dei continui maltrattamenti subiti» e la tormentava ogni giorno. Sotto casa, al lavoro, in quel poco di vita privata che cercava di ritagliarsi. Un inferno, che la donna si decide a denunciare, chiedendo l'intervento delle forze dell'ordine e presentandosi dinanzi agli inquirenti. Da allora sono passati due anni, nella speranza che una sentenza di condanna dell'ex marito possa chiudere i conti con un passato di violenze. Ieri mattina invece l'ennesimo boccone indigesto, con il rinvio di altri sei mesi. Spiega l'avvocato Di Nocera: «Non è colpa del giudice, che con queste risorse e in queste condizioni poteva fare ben poco. Occorre un intervento dagli organi centrali, andare oltre i proclami e il battage mediatico, per rendere possibile la celebrazione dei processi, specie quando sono in gioco i diritti delle cosiddette fasce deboli. C'è una contraddizione evidente: il codice rosso impone tempi rapidi per acquisire le prove, per poi attendere anni per celebrare anche una sola udienza». Questa mattina, alle 10, toccherà al presidente della corte di appello Giuseppe De Carolis fornire i dati dell'ultimo anno giudiziario. Numeri di processi chiusi e in attesa di essere trattati, sarà difficile trovare il caso della donna vittima di stalking che ieri attendeva il verdetto di un giudice.

Processi lenti o mai conclusi, pesano le assenze dei giudici. Sara Menafra su Il Messaggero Venerdì 23 Novembre 2018. Quando si parla di prescrizione e degli annosi ritardi della giustizia italiana, sul banco degli imputati quasi sempre finiscono i penalisti - è stato così anche nelle ultime settimane - accusati di allungare i tempi con diabolici trucchi legulei. In realtà, a guardare l'unica ricerca scientifica che abbia analizzato i motivi dei rinvii dei processi di primo grado, molto spesso le cause delle lungaggini sono da attribuire ai magistrati (giudici o pm) o a problemi causati in qualche modo dalla macchina della giustizia.

LE ASSENZE. Visto che il ministero della Giustizia non raccoglie questo tipo di documentazione, l'Unione camere penali assieme all'Eurispes ha avviato la ricerca dieci anni fa. E i numeri parlano chiaro. Su 12.918 processi monitorati, ben il 12,4% viene rinviato per assenza del giudice titolare, lo 0,2% per quella del pm e l'1,5% per la cosiddetta precarietà del collegio ovvero perché uno dei giudici è in attesa di trasferimento. Di più: se si considerano le sole udienze successive alla prima, il 54% viene rinviato senza che si sia svolta alcuna attività, perché l'atto della citazione del testimone o è stato del tutto omesso, o è stato effettuato in modo errato. «Mi rendo conto che i dati non sono recenti, stiamo parlando del 2008, anche se da gennaio appronteremo gli strumenti per fare una nuova valutazione nel 2019 - spiega il presidente delle Camere penali, Giandomenico Caiazza - ma io ho l'impressione che i numeri siano ancora attuali e non riceveremo grandi sorprese. Anche perché da tempo la giurisprudenza ha svuotato o limitato fortemente tutte quelle fasi in cui erano gli avvocati ad allungare i tempi. È il caso della rinnovazione del dibattimento quando cambia il collegio: non è più possibile ascoltare tutti i testi da capo, i nuovi giudici si devono accontentare della conferma in aula di quanto è già a verbale e gli avvocati possono fare solo domande integrative».

LA CATTIVA GESTIONE. Non che non ci siano rinvii causati dall'intervento del difensore, ovviamente, ma la percentuale appare minore: il legittimo impedimento dell'imputato (ovvero malattia certificata) causa il 2,6% dei rinvii, quello del difensore (che è normato dalla legge e non include tutti i casi di altro impegno in udienza) è il 5% dei casi di rinvio, con un 6% ulteriore di esigenze di difesa, valutate dal giudice. Un altro 6,8% arriva dai problemi logistici, come la carenza di aule, l'assenza di un trascrittore o dell'interprete e, un 3,1% perché per quella data sono state fissate troppe udienze. Se si considera il totale delle udienze, sono tante quelle che fanno scorrere la clessidra perché i testimoni sono assenti: il 9,4% del numero complessivo slitta per «omessa o irregolare notifica all'imputato», un dato clamorosamente più basso di quello che riguarda «l'omessa o irregolare notifica al difensore»: già dieci anni fa eravamo allo 0,9% dei casi. In fondo a questo lungo tunnel, fatto di processi saltati per varie ragioni, ci sono, sì, anche quelli che si concludono per prescrizione del reato: il 7-8% del totale delle sentenze in primo grado (per intenderci, il 60,6% è di condanna). Certo, di tribunale in tribunale i numeri un po' cambiano. A Roma, che per prima aveva questa ricerca - il presidente della Camera penale Cesare Placanica intende ora lanciare un osservatorio permanente - le prescrizioni dichiarate alla fine del primo grado erano il 15% delle sentenze. Ma anche qui, i rinvii per assenza del giudice arrivavano al 14,3% dei casi.

Causa rinviata: responsabile l’avvocato? La Legge per Tutti il 7 Maggio 2014. Responsabilità professionale: i rinvii chiesti dall’avvocato, dal magistrato e dal codice di procedura. È responsabile, non solo a titolo deontologico, ma anche civilistico (ed è quindi tenuto al risarcimento del danno), l’avvocato che chiede continui rinvii delle udienze, prolungando così i tempi della causa e procurando un danno al proprio cliente. A stabilirlo è una recente sentenza della Cassazione. Cass. sent. n. 5410 del 7.03.2014.

Ma perché questi rinvii? Quando si parla di “rinvio” dell’udienza è facile cadere in luoghi comuni. Perciò, innanzitutto, è necessario informare i “non addetti ai lavori” che i cosiddetti (e tanto imprecati) “rinvii” non sono sempre addebitabili a richieste degli avvocati. Anzi, capita più spesso che – quando già non dipenda dalle forme dettate dal codice di procedura – sia il giudice a disporli d’ufficio o in udienza stessa. Questo capita un po’ per il carico di lavoro, un po’ per altre personali ragioni del magistrato (come per la necessità di studiare il fascicolo a seguito della sostituzione di un collega). In altre occasioni, invece, gli slittamenti sono dovuti a “intoppi” che possono verificarsi, nel corso del processo, per ragioni “burocratiche” (si pensi a una comunicazione da effettuarsi a cura della cancelleria, ma non andata a buon fine o di cui l’ufficio si è del tutto dimenticato) o per causa di terzi (un testimone che non si presenta in udienza) o, ancora, per questioni accidentali (lo smarrimento di un fascicolo) o, infine, per concomitanze con scioperi, elezioni, ecc. Prima delle recenti riforme, peraltro, gli avvocati avevano maggiori margini di manovra nel chiedere rinvii dell’udienza. Oggi, invece, un rigido sistema di preclusioni impedisce al legale di poter “giocare” con il processo a proprio piacimento. Ciò nonostante, può sempre verificarsi il caso in cui l’avvocato, adducendo varie motivazioni a sostegno della propria richiesta, possa riuscire a convincere il giudice a farsi accordare un puro e semplice rinvio, senza compiere, quindi, alcuna attività all’udienza. Si pensi, per esempio, al caso in cui si finga l’esistenza di una volontà transattiva volta a chiudere la controversia con la controparte (e, quindi, si chiede tempo per formalizzare un accordo che, in realtà, non esiste) o a un falso impedimento personale o lavorativo, ecc. Ebbene, con la sentenza in commento, la Cassazione ha precisato che incappa in responsabilità professionale il legale che prolunghi, senza motivo, i tempi del processo. Il cliente, per poter ottenere ristoro, dovrà provare di aver subito un danno (circostanza, del resto, insita in qualsiasi causa di risarcimento del danno). Ciò passa per la dimostrazione del “buon esito” della sentenza che, se tempestivamente emessa, avrebbe impedito il prodursi degli effetti pregiudizievoli in capo all’assistito. Vien da sé, infatti, che, nel caso opposto, ossia di sentenza sfavorevole alle richieste del cliente, per quest’ultimo sarà assai più difficile dimostrare che lo slittamento del processo ha significato per lui un danno.

·         Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio.

Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio, “Papà è morto senza potersi difendere”. Valentina Marsella su Il Riformista il 2 Maggio 2020. «Mio padre è morto da solo, senza potersi difendere e senza il nostro abbraccio». A parlare, in una accorata lettera, è Domenico Ribecco, figlio di Antonio, morto a 58 anni di Covid-19 mentre era detenuto nel carcere di Voghera. Come una macabra premonizione, un nome impresso nella sorte, l’operazione “infectio” della Dda di Catanzaro del dicembre scorso lo aveva fatto finire in manette insieme ad altre 22 persone, accusate a vario titolo di essere i volti del mosaico delle infiltrazioni criminali della ‘ndrangheta in Umbria. Di “infectio” viene arrestato, di “infectio” muore a tre mesi di distanza. Antonio Ribecco è originario di Cutro ma vive da oltre 25 anni a Perugia, dove fa l’imbianchino. Il 12 dicembre, racconta il figlio 28enne, «finisce in isolamento nel carcere di Capanne per 9 giorni, poi viene trasferito a Voghera. Lo abbiamo rivisto il 3 gennaio. Ci ha detto che aveva chiesto di essere trasferito di nuovo in Umbria, per essere più vicino a noi e a mia sorella non vedente. Ma così non è stato». L’ultima volta che Domenico ha visto suo padre vivo è stato il 15 febbraio. Due settimane dopo, Antonio ha la febbre ma nessuno immagina che si tratti di Coronavirus. «Anche se il virus continua ad aggredirlo – racconta Domenico – ci dice di stare meglio per tranquillizzarci anche se nessuno lo ha ancora visitato. Tanto che una guardia penitenziaria fa una lettera di richiamo al medico. Tutti fatti raccontati da mio padre, prima al telefono e poi in una lettera che dice di averci spedito che però non ci è mai arrivata». La situazione precipita: Ribecco viene ricoverato il 21 marzo in terapia intensiva al San Paolo di Milano e poi al San Carlo. Il 9 aprile la notizia della sua morte. Dall’aggressione del Covid-19 al decesso c’è un tempo sospeso di venti giorni, fatto di silenzi e angoscia. «Solo dopo ripetute telefonate riusciamo a sapere cosa sta accadendo – prosegue il figlio del 58enne – anche se non abbiamo mai capito se mio padre abbia ricevuto le cure adeguate. Vogliamo sapere solo la verità sulla sua morte». Intanto, i legali del detenuto calabrese, Gaetano Figoli del foro di Roma e Giuseppe Alfì del foro di Perugia, hanno sporto una denuncia alla Procura di Pavia perché accerti le condotte tenute dal personale del carcere lombardo e verifichi se vi siano stati comportamenti colposi e omissivi. Quello che è certo è che la furia distruttrice del Covid in carcere fa ancora più paura e che la scelta di fare i tamponi è stata fatta solo in alcuni penitenziari. «Per fronteggiare l’emergenza Coronavirus non c’è stata una procedura comune negli istituti di pena, o comunque un piano sanitario per effettuare i tamponi – fa notare l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane – ma solo iniziative singole». Finora i morti accertati di Covid-19 in carcere sono stati due, entrambi sottoposti a misura cautelare ed entrambi accusati di reati ostativi: Ribecco e un 76enne siciliano che era detenuto alla “Dozza” di Bologna. Due storie che «portano a fare delle riflessioni – aggiunge Catanzariti -; la prima: il Coronavirus non fa distinzione tra soggetti in espiazione pena e quelli in misura cautelare. La sua furia distruttrice non fa nemmeno differenze tra reati ostativi e reati comuni. Un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio. Ma la riflessione più importante è che la privazione della libertà, giusta o sbagliata che sia, impone un dovere di tutela specifica in chi l’ha disposta. Se lo Stato non protegge il diritto alla salute di chi è in sua custodia, il passo verso la tortura ed i trattamenti inumani è davvero breve». E il carcere è una «Istituzione totale», fa notare il professor Francisco Mele, psicanalista e criminologo, «perché l’individuo dorme, lavora, mangia, vive in un unico spazio. Tutti noi nasciamo, viviamo e moriamo nelle Istituzioni, che ci forniscono una identità. Il Coronavirus ha messo in discussione tutto il sistema che riguarda la disciplina attraverso la quale una persona entra e vive nelle Istituzioni. In quella Istituzione totale e anonima che è il carcere, il limbo dell’attesa di giudizio si è trasformato in morte». Una morte, conclude Mele, «di fronte alla quale tutti siamo soli, ancor di più quando non c’è una mano o un volto di conforto. Anche in carcere».

·         Salute e carcere. 

La psicologa Nasti: “In cella poco spazio e troppo tempo sprecato, così si impazzisce”. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. «Da diversi anni si parla di spazi di vivibilità e affettività, il che è indicativo del fatto che è tanto tempo che si individuano delle criticità ma non si riesce a trovare un rimedio e a pensare diversamente il sistema penitenziario». Francesca Nasti lavora come psicologa nel carcere di Secondigliano. Le misure per arginare i contagi in questo periodo di pandemia hanno sacrificato ulteriormente la sfera degli affetti per chi è dietro le sbarre, vietando qualunque contatto durante i colloqui e aumentando le distanze. «Se ci atteniamo alla regolarità del tempo pre-Covid e a quello che sarà il futuro, i colloqui sono un momento di grande caos e di assoluta deprivazione di intimità». A comprimere i diritti si aggiungono anche gli spazi. «Qui – spiega la dottoressa Nasti – si apre un’altra questione piuttosto drammatica perché non ci sono spazi a sufficienza, in carcere c’è una dimensione di ozio forzato che obbliga il detenuto a restare in cella per tanto tempo. Una cella non è abitabile, non prevede distinzione degli ambienti per cui si mangia nello stesso spazio dove si dorme e talvolta anche dove si fanno i bisogni. Per chi ha invalidità la condizione è ancora più drammatica. Tutto questo – aggiunge – crea un vissuto profondo di mortificazione e frustrazione che non fa altro che alimentare il circuito della rabbia, dell’ingiustizia percepita, e ciò nonostante ci sia molto spesso il riconoscimento di aver commesso un errore di cui bisogna rispondere». Carcere come luogo di sofferenza più che di recupero. «Per il modo in cui è organizzato e strutturato il carcere è un luogo di sofferenza che genera sofferenza per cui anche persone sane, quelle che non hanno sperimentato nella loro vita da liberi alcun disagio mentale, in carcere affrontano condizioni di ansia, depressione». È una grande falla del sistema. «Si è molto lontani da un sistema che assicuri un percorso rieducativo che dovrebbe essere anche di reintegro, di istruzione di possibilità alternative, di progetti fattivi sul territorio. Servirebbe un lavoro in rete, di collegamento, invece il carcere ha le sbarre e non solo simbolicamente. È praticamente disconnesso dal resto della società». La distanza tra il mondo fuori e quello dentro andrebbe colmata. Ci sono proposte: maggiore sinergia tra i due mondi, dentro e fuori, meno la burocrazia, più relazioni, più investimenti per educatori, formatori e psicologi per guidare i detenuti, tutti, verso percorsi positivi di cambiamento. Oggi ai corsi di istruzione e formazione accedono in pochi, questione di mezzi e risorse a disposizione: pochi come sempre. Ma a partire da una premessa, che è poi il pilastro su cui si dovrebbe reggere tutto: «Intanto bisognerebbe garantire i diritti minimi – sottolinea la psicologa Nasti – che stanno nel rispetto di uno spazio, di un luogo che consenta di espiare la pena non improntandola sulla deprivazione grave». Poi il secondo step: «Istruzione e formazione sono l’unica arma di emancipazione che abbiamo». Dovrebbero diventare l’opportunità offerta in carcere per invertire la tendenza di una società che tende più facilmente a recludere che a includere, a considerare il lavoro più una concessione che un diritto. «Gli educatori, gli psicologi, gli agenti di polizia penitenziaria, tutta l’equipe che conosce le persone in carcere fa fatica a ragionare su progetti individulizzati perché le risorse sono scarsissime anche per lavorare in carcere. È una battaglia – dice Nasti – è difficile, si resta in attesa per tanto tempo e si lavora per poco tempo. Il lavoro sembra una concessione, specchio anche della società esterna che di fronte a delinquenza, emarginazione, disagio pensa che la soluzione sia nel marginalizzare piuttosto che integrare».

Covid e carceri, il caso della cella 55 a Poggioreale: 14 detenuti in una stanza. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Luglio 2020. Il primo detenuto positivo al coronavirus in un carcere campano viene tracciato nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere il 5 aprile, pieno lockdown. Un uomo che da oltre una settimana – denunciava la famiglia – soffre i sintomi del covid. Il giorno stesso 150 detenuti si barricano in una delle sezioni dell’istituto; il giorno dopo decine di ristretti, familiari e associazioni che lavorano nel carcere denunciano la presunta irruzione violenta nel reparto Nilo da parte di alcuni agenti. I primi di giugno protestano anche gli agenti di polizia penitenziaria. L’emergenza covid ha inasprito le criticità – già gravi – del sistema carceri. E ha innescato paure e tensioni che si sono riverberate in diverse occasioni negli istituti di tutto il Paese. E che non è detto non possano tornare a verificarsi qualora il trend dei contagi dovesse crescere in maniera preoccupante dopo l’estate. Un dossier presentato dal Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello ricostruisce la cronistoria del coronavirus nelle carceri campane. I dati nazionali: i detenuti positivi sono stati 94, 11 i ricoverati negli ospedali, 83 in isolamento sanitario, tre i decessi. I primi di marzo i giorni neri della pandemia nelle carceri: scoppiano proteste e rivolte, anche violente, in numerosi istituti, da Nord a Sud. Muoiono 14 persone, si registrano evasioni a Foggia, i detenuti salgono sui tetti di Poggioreale a Napoli e a San Vittore a Milano. A scatenare la rabbia è l’estensione del lockdown al mondo penitenziario: dall’8 marzo il Consiglio dei ministri ha emanato la sospensione dei colloqui con i familiari in tutti gli Istituti del paese. Esplodono così le proteste dentro e fuori le mura. I colloqui vengono allora condotti via Skype e con la diffusione dei dispositivi di protezione individuale e dei test di screening la situazione rientra. Solo il 18 maggio vengono ristabiliti i colloqui in presenza. Con l’effetto del decreto ex art.123 cd. Cura Italia e dell’applicazione della legge 199/2010 escono dal carcere circa 900 persone. In Campania i detenuti sono passati dai 7.468 di febbraio ai 6.404 di maggio. «Seppur tali azioni abbiano portato una riduzione della popolazione ristretta negli istituti penitenziari, i risultati potrebbero essere stati migliori», osserva il Garante. I detenuti positivi in Campania sono stati 4, 3 nel personale sanitario, 3 nella polizia penitenziaria (204 in tutta Italia). «Alle persone che sbagliano deve essere tolto il diritto alla libertà, non quello alla dignità», ha commentato Ciambriello lamentando la lentezza della macchina giudiziaria, i mancati provvedimenti di scarcerazione, la carenza di braccialetti, le risposte evasive dell’amministrazione penitenziaria. Il numero totale dei ristretti nel 2019, si legge nel dossier, registra un 17% in più rispetto alla capienza regolamentare. Il 22% delle strutture non presenta docce in camera, il 37% non prevede servizi igienici essenziali nelle stanze. Problematiche cui si aggiungono la carenza di professionalità quali ginecologi, pediatri, psicologi, psichiatri ed educatori. «In questi giorni di caldo tanti istituti hanno le sezioni per i detenuti chiuse 20 ore al giorno. In questo senso è famosa la cella 55 del carcere di Poggioreale dove ci sono 14 detenuti in una stanza con una finestra», denuncia Ciambriello. Al sovraffollamento si aggiunge il dramma dei suicidi: già sette in Campania, uno al mese dall’inizio dell’anno. «Si ritiene necessario riflettere – osserva il Garante – creando un adeguamento degli interventi di prevenzione, e ben consci che occorre inseguire una domanda: cosa accadrà a settembre?».

Come funziona la sanità nelle prigioni, l’ergastolo bianco dei detenuti. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Salute e carcere. C’è un aspetto di questo binomio in cui si addensano le maggiori criticità. È quello della tutela della salute psichica delle persone condannate. In genere i posti nelle sezioni specializzate non sono sufficienti e i ricoveri lunghi diventano una sorta di “ergastolo bianco” come segnalato dal garante regionale dei detenuti. Pur volendo considerare una situazione (e purtroppo non dappertutto è la normalità) in cui gli stessi diritti di salute garantiti fuori vengono egualmente garantiti dentro il carcere, appare evidente che il carcere, per sua stessa natura, può comprimere diritti individuali. La reclusione, la privazione della libertà, la condizione di dipendenza del detenuto per diverse necessità del vivere quotidiano finiscono inevitabilmente per incidere sulla sua sfera psicologica. E tutto si complica quando ci sono patologie pregresse, in quel caso la compatibilità tra carcere e salute mentale diventa davvero difficile. «Nonostante i ripetuti richiami degli organismi internazionali, che rispecchiano peraltro l’ispirazione originaria della riforma sanitaria – si legge nella relazione del garante regionale dei detenuti – prevale l’idea che la tutela della salute mentale equivalga ad assicurare solo servizi psichiatrici specialistici, in linea con la più generale tendenza a confondere la salute con la sanità». I dati dell’ultimo anno aiutano a comprendere le dimensioni del problema. Almeno un migliaio di detenuti con disagi mentali si trova negli istituti normali e 1.200 detenuti sono in istituti specifici. In carcere le patologie più diffuse sono schizofrenia e disturbi psicotici (in genere relativi a situazioni precedenti alla detenzione), disturbi dell’umore (frequente la depressione come reazione allo stato detentivo), disturbi d’ansia e psicosi indotte dall’uso di particolari sostanze. Non mancano casi di disturbi della personalità nei confronti dei quali il trattamento in carcere appare più complicato. Quando il governo ha provveduto a svuotare gli ospedali psichiatrici giudiziari per riportare la gran parte die malati in carcere, all’interno degli istituti di pena sono state attivate sezioni specializzate. A Napoli è il carcere di Secondigliano a ospitare un’articolazione di salute mentale con diciotto posti letto. La durata media del ricovero oscilla tra uno e cinque mesi, se non addirittura anni. «Tali situazioni – spiega il garante Ciambriello nel report annuale – non solo rischiano di acutizzare e cronicizzare le stesse manifestazioni psichiche dei detenuti degenti ma impediscono un corretto usufrutto da parte degli altri detenuti che in media superano di gran lunga la capacità dei posti all’interno di tali reparti speciali». Le sezioni cliniche di salute mentale dovrebbero funzionare come luoghi transitori, per preparare programmi terapeutici e riabilitativi da eseguirsi sul territorio. «Di fatto invece – si denuncia nel report – i detenuti che transitano in questi spazi vi restano in maniera cronica, quasi a ripetere la triste situazione di un ergastolo bianco».

·         Le Mie Prigioni.

La denuncia. Detenute censurate, non possono più scrivere ai garanti. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Dicembre 2020. «Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno intimato alle detenute del Senna di non scrivere più lettere ai garanti per farle poi pubblicare», denuncia il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Se non è proprio censura, è sicuramente un invito alla riservatezza che sembra decisamente stonare con le adesioni allo sciopero della fame per sensibilizzare politica e opinione pubblica sul dramma negli istituti di pena, sciopero cominciato il 10 novembre dalla leader dei Radicali e anima di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini e dal quale è nata una staffetta che ha previsto giornate di digiuno a cui hanno aderito garanti, avvocati, professionisti, parroci e cappellani delle carceri, volontari, rappresentanti del mondo dell’associazionismo locale, oltre appunto a centinaia di detenuti in tutta Italia. Sabato scorso, a Napoli, il garante Ciambriello e il cappellano di Poggioreale don Franco Esposito hanno guidato una marcia attorno al carcere cittadino. «Un giorno di digiuno per la dignità di chi è in carcere» e per sostenere la necessità di inserire anche i detenuti e chi, come gli agenti della penitenziaria, lavora nelle carceri tra le persone da sottoporre con priorità alla campagna di vaccinazione contro il Covid. In questo contesto, dunque, la censura all’interno degli istituti di pena colpisce. «Ci adoperiamo anche per chi lavora nelle carceri», spiega Ciambriello evidenziando come, tra le vittime del Covid nelle celle della Campania, oltre due detenuti, ci siano stati finora anche un medico e un agente della penitenziaria. E invece è arrivato nel carcere casertano l’invito a evitare lettere e interviste. «Addirittura a una detenuta, il cui parente aveva fatto un’intervista denuncia, per un giorno hanno fatto visite e controlli e poi hanno consigliato di non far ripetere la cosa», aggiunge Ciambriello. Ma cosa hanno scritto nelle loro lettere le detenute del Senna? Hanno scritto della loro intenzione di aderire allo sciopero della fame: «Aderiremo noi tutte sabato, speranzose che anche il nostro contributo possa essere d’aiuto in questa battaglia alla sensibilizzazione del valore della vita di ogni singolo detenuto». «Purtroppo – si legge nella lettera – dell’universo carcere ci sono idee confuse e percezioni distorte e non aver mai toccato con mano certe realtà può rendere disumani. Un detenuto viene guardato dall’esterno per i crimini che ha commesso e non viene vista la sua natura di essere umano. Qualcuno si ferma mai ad ascoltare cosa si nasconde dietro ciò che ha commesso? Oppure cosa accade nella vita quotidiana di queste persone?». Poi c’è un riferimento alla pandemia e alle preoccupazioni che sta generando: «Anche la morte di un detenuto dovrebbe provocare lo stesso dolore di ogni singolo essere umano». Il garante regionale ha attivato da ieri una serie di colloqui con i reclusi dei vari istituti di pena campani: si tratta di colloqui telefonici e in videochiamata. Intanto il Covid in cella continua a fare paura. Secondo i dati più aggiornati, i detenuti contagiati nelle carceri della regione sono 49: di questi, il numero più alto è nel carcere di Secondigliano (44 positivi), 2 a Benevento e sono scesi a 3 a Poggioreale, un risultato che incoraggia e premia gli sforzi messi in campo all’interno del più grande penitenziario cittadino. I numeri, però, non consentono di abbassare la guardia: tra agenti della penitenziaria e operatori socio-sanitari si contano ancora 82 positivi al virus.

VITTORIO FELTRI per “Libero quotidiano” il 3 dicembre 2020. Fra tutte le storie dell' avventurosa vita di Luigi Pagano, direttore di molte carceri italiane, portabandiera, teorico, capomastro e operaio del recupero dei delinquenti fino alla restituzione alla società, quella che mi ha fatto davvero raggelare non è la più sanguinosa (che dopo vi racconto): è invece il giorno in cui un detenuto lavorante al carcere di Pianosa con grande gentilezza disse a sua moglie, che era incinta, «le madri non dovrebbero mai morire». Erano le parole di un uomo che aveva ammazzato la mamma e sterminato il resto della famiglia. Come si gestisce la confusa concentrazione di male che si trova nelle carceri, l' inestricabile varietà degli uomini, un reato diverso per ciascuno, quelli che hanno sbagliato una sola volta, quelli che hanno fatto apposta, gli psicopatici, i furbi, gli irriducibili, gli stupidi? Pagano, che è in pensione da un anno e mezzo, ha raccontato tutto del suo complicato mestiere, aneddoti, tragedie, burocrazia, tipi umani, nell' autobiografia Il direttore. Quarant' anni di lavoro in carcere (Zolfo editore, 299 pagine, 19 euro). «La società civile», ha spiegato in infinite interviste, «tende a rimuovere il carcere dal proprio universo mentale. Purtroppo, però, tanto più il carcere diventa impermeabile rispetto alla vita normale, tanto più è difficile che possa assolvere al meglio la sua funzione di reinserimento sociale delle persone». Sono sue molte delle iniziative grazie alle quali ha preso piede il ribaltamento della prospettiva tradizionale della galera come gabbia: l' introduzione di attività culturali e ricreative, il Maurizio Costanzo show registrato nel 1985 all' interno del carcere di Brescia, la visita del cardinale Carlo Maria Martini a San Vittore per il "Giubileo delle carceri" nel 2000 (Martini era stato a San Vittore per la prima volta nel 1981 e da allora vi ha celebrato la Messa di Natale ogni anno), l' esperienza rivoluzionaria del carcere "modello" di Bollate, del quale le statistiche dicono che su dieci detenuti rilasciati solo due tornano a delinquere. Fino al 1975, anno della legge sulla riforma delle carceri con cui è iniziata l' età del recupero e della restituzione alla civiltà dei carcerati, la prigione è stata il tappeto sotto il quale la società ha nascosto i suoi detriti, un posto di cui chi è fuori si dimentica e chi è dentro scompare. La carriera di Pagano, dopo una parentesi come avvocato, comincia proprio con un gioco di prestigio, all' isola di Pianosa, il suo primo incarico. Nato a Cesa, nel casertano, nel 1954, ha condotto studi napoletani in Giurisprudenza e Criminologia e vissuto una carriera in diaspora fra molte delle carceri italiane, come funzionario e come direttore: Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero, Piacenza, Brescia, Taranto, Bollate, per 15 anni a capo di San Vittore e per altri 15 dirigente e poi consulente dell' amministrazione penitenziaria in Lombardia e a livello nazionale. A 25 anni, dunque, Pagano prende un aliscafo guidato da un uomo torvo dal quale si aspetta gridi «anime prave», e scopre che, oltrepassate dopo un' ora l' Elba e Montecristo, Pianosa non esiste finché non ci si arriva proprio addosso, è così piatta e brumosa che dal mare all' orizzonte non compare mai. Qualcosa di assai diverso da Capri, Procida, Ischia, che «erano la bellezza, il turismo vociante, le barche, terre raggiungibili sempre e comunque, non tre volte alla settimana». Scrive bene Pagano, la sua narrazione non saltella. Guarda il mondo da uomo libero dietro le sbarre, i fatti della recente storia d' Italia gli scorrono davanti con la prospettiva del "dopo", dalla sorveglianza dei brigatisti condannati agli "eccellenti" di Tangentopoli. Così mi sono trovato prigioniero della lettura, davanti a vari personaggi, mammasantissima e minori, degni di un serial: per esempio la figura di un condannato cronico diventato factotum, che raccontava «con impeto dilagante» le sue imprese criminali aggiungendone ogni volta di nuove e inserendo se stesso in alcune cui non aveva partecipato, lasciando intendere a sguardi che il suo nome era stato omesso per troppa importanza. Nel 1981 Pagano assistette all' epilogo dell' omicidio con 42 coltellate del boss della mala milanese Francis Turatello nel carcere di Nuoro: venne chiamato mentre si sedeva a tavola e fece solo in tempo a vedere uno dei detenuti incaricati dell' esecuzione tagliargli la gola quando era ormai morto, come gesto di sfregio. All' Asinara, nel 1982, invece il protagonista fu un toro: il direttore Francesco Massidda, un pescatore appassionato, grande intenditore di flora e fauna che si immergeva armato "solo" con un arpione per non avere troppo vantaggio sui pesci, ne aveva programmato l' acquisto alla fiera di Oristano. Ne selezionò uno le cui caratteristiche lo avrebbero reso un buon animale da monta, ma l' organo di controllo impose la scelta di un altro esemplare, più economico. Il quale però non mostrò alcun interesse per le mucche messe a sua disposizione, uno stallo che si dimostrò irrimediabile, almeno fino a che Pagano venne trasferito. Nel 1983 Pagano ebbe a che fare con un magistrato che lo rimbrottava duramente perché stringesse le maglie intorno alla carcerazione di Bruno Tassan Din, arrestato per il caso Banco Ambrosiano-Loggia P2. Pagano incassò («Faccia in modo di evitare qualsiasi sgradita sorpresa»), credendo che si riferisse alla diffusione di notizie false, pubblicate su Panorama, secondo le quali Tassan Din avrebbe ricevuto prosciutti e mozzarelle in luogo del cibo ordinario. Dovette arrivare alla fine della telefonata («ma di che mozzarelle sta parlando?») per scoprire che il magistrato era tanto allarmato a causa della fuga, avvenuta quella mattina, di Ligio Gelli dal carcere svizzero di Champ-Dollon. Come vedete, storie molto diverse tra loro, accomunate solo dall' essere avvenute dietro le sbarre. Ma ancora oggi la galera divide il bene e il male in modo dozzinale, perché toglie di torno solo gli uomini e non il loro peccato, questa è la lezione di Pagano, corroborata dalla sua poderosa giurisprudenza d' esperienza personale: il male non lo si vince con la mannaia collettiva del codice, ma un uomo alla volta, ed è un mestiere che dura per sempre. Ho avuto la sensazione, chiudendo questo libro, che l' autore abbia raccontato, ben oltre le sue vicende biografiche, la guerra impari contro un abisso misterioso e beffardo di cui non ci possiamo liberare, e l' umanità che cammina sull' orlo di questo abisso. È una percezione sinistra, che mi ha richiamato alla memoria letture antiche: il diavolo che appare a Ivan Karamazov con un aspetto miserevole e gli spiega perché vorrebbe essere annientato e liberarsi del suo destino, ma invano: «Vivi, perché senza di te non ci sarebbe niente», gli è stato risposto. «Se sulla terra tutto fosse sensato, allora non succederebbe un bel nulla». Così, conclude il triste diavolo, «io presto il mio servizio a malincuore affinché ci siano avvenimenti, e su ordinazione creo l' insensato». Al male, dice Dostoevskij, siamo coscritti. E al bene anche con il più irriducibile ottimismo ci possiamo solo avvicinare, spingendo la pietra pesante della volontà.

 “La mia prima volta in cella tra sporcizia, disumanità e psicofarmaci”, lettera di un detenuto. Redazione su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Onorevole Rita Bernardini, sono un ex detenuto del carcere Marassi di Genova. Sono uscito una settimana fa dopo quattro mesi di reclusione. Per fortuna è la prima volta che mi succede, ma le illustrerò che cosa ho dovuto vedere con i miei occhi lì dentro. Sono entrato e subito mandato in isolamento causa covid, e in 14 giorni nessun tampone mi è stato fatto, così come agli altri detenuti. Cella che definire affollata è dire poco. Ho vissuto 2 anni in Repubblica Dominicana e le cabanas sono più pulite. Materassi datati 2012, assenza di cuscini. Assistenti che non assistono per niente, anzi spesso ti deridono e farlo con una persona che sta vivendo uno stato particolare della propria vita che per alcuni è una tragedia, è a dir poco disumano oltreché ignobile. Per avere una scheda telefonica ci sono voluti due mesi perché le domandine vengono perse, oppure ti senti rispondere che non sarà stata compilata nel modo giusto e altre scuse di ogni tipo. La posta arriva sistematicamente a tutti in media in 20gg, un’altra vergogna. I soldi sul conto corrente mancano sempre, certo parliamo di qualche euro, ma moltiplicato per 700 detenuti… Le ore d’aria sono pressoché a discrezione degli assistenti i quali ogni giorno ci sottraggono dai 20 ai 30 minuti. Non esiste un regolamento interno a disposizione di tutti e perciò è difficile far valere i propri diritti: meno i detenuti sanno, meglio è per gli assistenti alcuni dei quali hanno un livello di istruzione davvero basso. Sul vitto ci sarebbe da scrivere un libro: pasta scotta tutti i giorni e razioni insufficienti. Un giorno nella mia cella sovraffollata di sei persone abbiamo fatto uno sciopero perché nella pasta abbiamo trovato delle unghie e addirittura un tagliaunghie! La maggior parte dei detenuti vengono imbottiti di psicofarmaci, terapie e altre porcherie, in modo che nessuno disturbi le guardie. Personalmente non ho mai preso nulla, ma ho conosciuto ragazzi entrati in carcere normali e, dopo qualche settimana, li ho trovati irriconoscibili con lo sguardo perso e la bocca aperta come spesso ci capita di vedere i tossicodipendenti. La gran parte sono ragazzi extracomunitari, che non sanno leggere, scrivere e non conoscono i loro diritti, quindi sono difficili da gestire. Non sono mancate tragedie sfiorate: marocchini e tunisini che si tagliano le vene, gente che tenta di strangolarsi con le lenzuola, fermate in tempo dai compagni. C’è chi vorrebbe che tutto questo non uscisse dalle celle. L’impressione è che la gente fuori pensi che più gente c’è dentro e più al sicuro si trovano quelli fuori. Niente di più sbagliato! Nella sezione dov’ero io, eravamo tutti giudicabili. È il sistema italiano: ti mettono dentro, dando per scontata la tua colpevolezza. Ho conosciuto ragazzi giovanissimi che hanno passato le pene dell’inferno per arrivare in Italia e che sono finiti in prigione per essere stati trovati in possesso di 0,2 gr di hashish, altri portati in prigione per essersi trovati in luoghi dove sono stati commessi furti in abitazioni. Senza che gli siano stati trovati strumenti da scasso o refurtiva si sono visti affibbiare 1 anno e 8 mesi; ho letto verbali, quindi ne sono testimone. Ora le domando: che futuro possono avere questi ragazzi così giovani dopo l’esperienza del carcere? Sinceramente non credo sia un deterrente la custodia cautelare, tutt’altro! Credo che al contrario si creino dei nuovi delinquenti in questo modo. Se finiscono in prigione per niente, la prossima volta commetteranno dei reati per davvero. Ma per tornare all’argomento per il quale le ho scritto e cioè le condizioni del carcere di Marassi, ripeto, ci sarebbe da scrivere un romanzo: minacce, abusi. In carcere entra di tutto e per tutto intendo “tutto”. Ho visto giudici di sorveglianza che vengono a fare sopralluoghi e vengono puntualmente portati nelle sezioni dove tutto deve funzionare, così possono scrivere nei loro rapporti dove scrivono che è tutto a posto. L’idea che mi sono fatto dopo questa esperienza è che il carcere è solo un business, un business vergognoso dove tutti i sistemi che ruotano intorno alla giustizia ci guadagnano e se è vero che per ogni detenuto l’Italia paga 137 € al giorno, beh io ho viaggiato parecchio e posso assicurarle che con meno euro si alloggia in stanza d’albergo a 4 stelle in posizione centrale, quindi che la smettessero con tutta questa ipocrisia. Finché in questo paese non ci sarà una riforma della giustizia e una riforma carceraria sarà sempre così… Ci sono paesi in Europa dove appena entri ti danno subito la scheda telefonica, c’è il supermercato all’interno e con una scheda ricaricabile puoi fare la spesa, oltre che avere colloqui non sorvegliati con i propri familiari, intimi con le mogli. Questi sono paesi civili, ma il nostro, dove per autorizzare le telefonate alla propria famiglia ci vogliono due mesi come è successo a me, è una vergogna! Per tutte queste ragioni ho deciso di scriverle, scusi lo sfogo ma in questo momento ho bisogno di esternare a qualcuno che è sensibile sull’argomento come lei, onorevole. Conto in un suo interessamento in merito e le faccio i miei cordiali saluti. D.

M.E.V. per “la Repubblica - Edizione Roma” il 28 ottobre 2020. L'hanno picchiata e trascinata nuda tra le pozze d'acqua fredda davanti a tutti. Poi hanno falsificato le relazioni di servizio per timore di essere scoperti. Sono stati sospesi dal servizio per un anno due agenti della polizia penitenziaria, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio presso la casa circondariale femminile del carcere di Rebibbia: sono accusati di falso ideologico e abuso di autorità. I fatti risalgono alla notte tra il 21 e il 22 luglio scorsi. La detenuta, che ha problemi psichici, aveva danneggiato un termosifone perché le era stata negata una sigaretta. A quel punto i due hanno deciso di punirla. Le telecamere immortalano la donna che viene trascinata a terra, nuda, fino all'unica stanza senza telecamere. La vittima si vergogna, cerca di coprirsi, anche perché uno dei due agenti è un uomo. Quest' ultimo, alla fine, le consegna la sigaretta e la invita a non parlare dell'accaduto per evitare ulteriori violenze. Poi, per essere sicuri di nascondere tutto, i due compilano una relazione in cui parlano di violenze della donna ai danni della poliziotta, cosa che, secondo il gip, non corrisponde al vero e che rivela « le personalità del tutto spregiudicate » dei due indagati.  

L'assemblea nazionale a Napoli. L’allarme dei garanti dei detenuti: “44 suicidi in carcere nel 2020, 8 solo in Campania”. Amedeo Junod su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Con il diffondersi dell’epidemia di Coronavirus è stata scritta un’altra pagina nera nella triste storia delle carceri in Italia. Nell’anno delle rivolte e, più di recente, delle numerose denunce di maltrattamenti e violenze, si contano, ad oggi, già 44 suicidi negli istituti di pena , di cui 8 persone solo nella regione Campania. In un simile contesto assume un rilievo ancor maggiore la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. L’assemblea nazionale, strutturata in due giorni di dibattiti, è stata organizzata a Napoli il 9 e 10 ottobre 2020, in una regione, come sottolineato dal garante regionale della Campania Samuele Ciambriello, “che è una terra di contrasti, che si riverberano anche nell’ambito operativo in un contesto delicato quale quello delle persone private della libertà” e in cui al primato negativo riguardante il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle strutture, denunciata ormai da decenni, hanno fatto seguito solo promesse (il progetto del Carcere di Nola, per fare un esempio, è ancora in fase di progettazione preliminare) mentre Poggioreale resta il carcere più sovraffollato d’Europa. Al centro del dibattito, le tematiche relative alla prevenzione, al diritto alle relazioni familiari e alla formazione nei penitenziari, in tempi di pandemia. Per Mauro Palma, Presidente nazionale del garante dei diritti dei detenuti, “ le rivolte nelle carceri all’inizio della pandemia sono state l’esplicitazione di una doppia ansia che c’era negli istituti penitenziari. Aver fatto circolare la voce di una chiusura totale e avere la sensazione di stare in un ambiente rischiosissimo in caso di pandemia, hanno determinato le rivolte che non devono essere lette come organizzate da qualche mano oscura. È stato piuttosto un grido drammatico che rispondeva ad un’angoscia reale. La questione delle morti avvenute durante le rivolte è stata spesso superficialmente archiviata come drammatico effetto collaterale. Come garante nazionale, mi sono presentato come persona offesa in tutte le inchieste e seguo attentamente l’evolversi delle indagini. I fatti recenti di Santa Maria Capua Vetere, invece, testimoniano come la magistratura di sorveglianza abbia fatto un lavoro egregio andando a reperire le dichiarazioni delle persone fin dalla stessa notte della prima denuncia. Sono atti gravi da appurare a fondo”. Per quanto riguarda la quotidianità in carcere in era Covid, per Stefano Anastasìa, portavoce della Conferenza e garante dei diritti dei detenuti per la Regione Lazio e per la Regione Umbria, “in carcere sono stati mesi caratterizzati da difficoltà inedite, perché le misure di prevenzione covid hanno inevitabilmente danneggiato o interrotto attività e relazioni familiari, costringendo spesso ad interrompere i rapporti dei detenuti col mondo esterno. Come garanti siamo stati presenti negli istituti di pena per cercare di sostenere in prima linea le necessità delle persone private della libertà. In questa assemblea cercheremo di fare il punto sulle esperienze e sulle criticità presenti e sulle prospettive implicate dall’epidemia”. Il Garante regionale Ciambriello ha fornito inoltre alcuni numeri sulla situazione in Campania, aggiornati a settembre 2020: Nei 15 istituti penitenziari per adulti risiedono 6475 detenuti di cui 308 donne e 134 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 6062 unità. Per ciò che concerne gli Istituti penali per Minori, invece, sono accolti complessivamente 55 ragazzi. Sul fronte delle buone notizie, invece, risale a pochi giorni fa la visita del Ministro Gaetano Manfredi al Polo Universitario Penitenziario di Secondigliano, secondo polo universitario per detenuti per numero di iscritti, dopo quello di Bologna. Per quanto riguarda i corsi di formazione professionale, invece, si riscontra l’attivazione di 23 corsi di formazione che hanno coinvolto 236 iscritti. L’opinione condivisa dei garanti è che occorre però fare molto di più per rendere gli istituti penitenziari migliori, per promuovere il circolo virtuoso dell’investimento formativo considerato come strumento finalizzato al reinserimento sociale concreto, e per accostare alla certezza della pena un’altra certezza, altrettanto cruciale, e cioè la garanzia di una pena di qualità, che tenga sempre aperti gli occhi sui diritti inviolabili delle persone private della libertà. “Alla persona che sbaglia va tolto il diritto alla libertà, ma non quello alla dignità”.

Invece di diritti, ennesimo reato. In Inghilterra telefoni in ogni cella. In Italia no, abbiamo Bonafede…Rita Bernardini su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Decine di migliaia di genitori detenuti non possono abbracciare i propri figli, anche minori, da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus, cioè da otto mesi. All’inizio dell’emergenza i colloqui visivi sono stati del tutto vietati il che, non essendo stato spiegato come di dovere alla popolazione detenuta, ha originato proteste e perfino rivolte in decine di istituti penitenziari con tanto di morti e feriti sul campo. Da luglio, i colloqui dei detenuti con i familiari sono stati autorizzati ma solo attraverso un vetro divisorio e solo per un adulto e un minore (insomma, come al 41-bis!). Solo chi non sa cosa significhi il colloquio de visu per una persona reclusa, può sottovalutare, come è capitato e capita, la portata di questi provvedimenti. Non che prima della pandemia le cose andassero meglio, soprattutto per le telefonate. Il regolamento penitenziario prevede infatti che un detenuto abbia diritto a una sola telefonata a settimana per non più di dieci minuti, il che smentisce lo spirito stesso dell’ordinamento penitenziario che all’art. 28 prevede che l’Amministrazione dedichi «particolare cura a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie». Cura? L’Italia detiene la maglia nera in Europa sia per gli incontri dei detenuti con i propri familiari (sei al mese della durata di un’ora), sia per le telefonate, come abbiamo già visto. Vietati i colloqui intimi, come se la sessualità non rientrasse nella sfera dei diritti inviolabili della persona e se l’obbligo di astinenza (magari per anni) non determinasse serie ripercussioni sulla salute psico-fisica dei ristretti. In questo quadro sommariamente descritto, che ti fa il Governo Conte su proposta del ministro della Giustizia Bonafede? Anziché intervenire per assicurare una pena costituzionalmente orientata meglio garantendo la cura degli affetti con la famiglia dove prima o poi il detenuto dovrà ritornare, introduce una nuova fattispecie di reato, quasi non bastassero le 37.000 già esistenti! Affronta così non il problema (l’affettività negata) ma la conseguenza (i cellulari introdotti negli istituti) derivante dalle ridottissime possibilità di contatto con i familiari contemplate nella legislazione vigente. Loro contano i sequestri di telefonini e non cosa ci fanno i detenuti e le detenute con essi. Per lor-signori i 54mila carcerati sono tutti boss mafiosi che mandano ordini e messaggi all’esterno. Ma non è così. Nella stragrande maggioranza dei casi i ristretti usano i cellulari per parlare con la fidanzata, moglie o convivente; per parlare con i genitori anziani o con i figli piccoli, per sapere come stanno in salute, come va la scuola; per sapere se la famiglia se la sta cavando con l’affitto o con le bollette da pagare, se l’assistente sociale si è fatta viva e li sta aiutando; per chiedere che nel pacco mensile sia inserita una maglietta o un paio di jeans. Cioè le cose semplici oggetto delle conversazioni telefoniche di miliardi di persone al mondo. In Gran Bretagna, nel 2017, i telefonini rinvenuti nei 118 istituti penitenziari sono stati 10.643. Da noi 1.761. Una bella differenza, direi: sei volte di più che da noi! Solo che, dopo questa scoperta, in Gran Bretagna l’amministrazione della Giustizia ha deciso di mettere il telefono in ogni cella per consentire ai detenuti di poter parlare quando vogliono con i familiari o con altre persone ammesse. Nel 2018 il Segretario di Stato alla Giustizia, David Gauke, spiegò che i telefoni nelle celle «rappresentano un mezzo fondamentale per consentire ai detenuti di costruire e mantenere relazioni familiari, cosa che sappiamo essere fondamentale per la loro riabilitazione». E aggiunse che questa “riforma” contribuiva a «tramutare le prigioni in luoghi decenti in cui i criminali hanno una reale possibilità di cambiare le loro vite». Ahi-noi! Qui in Italia abbiamo Bonafede al quale il Partito Democratico lascia fare ogni scempiaggine gli passi per la testa in tema di giustizia e carcere.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 6 ottobre 2020. È uno strano reato, l'«introduzione di telefoni cellulari in carcere», punibile con pena da 1 a 4 anni, come da ultimo decreto del governo, su proposta del ministro Alfonso Bonafede. Eppure è il segno dei tempi. Perché la corsa ai mini-cellulari nelle celle sembra incontenibile. I freddi numeri dicono che la polizia penitenziaria ha sequestrato nei primi 9 mesi del 2020 ben 1.761 apparecchi; nello stesso periodo del 2019 erano stati 1206. Un fenomeno in crescita. Come è ovvio, non è ammesso che un detenuto possa avere in cella un proprio telefonino. Tanto più se è un mafioso che così mantiene i contatti con l'esterno. E invece. Nel carcere di Parma, il detenuto Giuseppe Gallo, detto «Peppe 'o pazzo», in regime di 41 bis, nel dicembre del 2019 aveva con sé tre apparecchi. A marzo, quando ci fu la rivolta nelle carceri italiane contro le misure prese per contenere il Covid-19, la polizia penitenziaria scoprì che i caporioni si tenevano in contatto con cellulari illegali. È una gara a chi inventa il modo più fantasioso per introdurli nei penitenziari. C'è chi fa ricorso alle nuove tecnologie: a Napoli-Secondigliano, durante il lockdown, un drone si è schiantato contro uno dei muri del carcere. Portava due piccoli involucri contenenti smartphone, minicellulari con batterie, sim-card, e kit di alimentazione. Di nuovo è capitato due giorni fa, nello stesso penitenziario: stavolta appesi al drone erano dieci telefonini cellulari, otto carica-batteria, dieci schede telefoniche. Ci sono quelli che inventano stratagemmi: a Carinola, Caserta, era l'agosto scorso quando qualcuno ha lanciato da fuori venti pezzi di calcestruzzo, incellophanati, con all'interno ciascuno un mini-cellulare. A Benevento quattro erano stati infilati in un paio di salame. A Rebibbia ne hanno intercettati tre in un pezzo di formaggio. Persino un inoffensivo pallone da calcio era stato «farcito» con 16 telefonini, come scoperto ad Avellino. Infine, l'ultima trovata: nel sottofondo di una batteria di pentole c'erano diciannove minicellulari, quattro smartphone e due telefoni satellitari. Ci sono poi i casi più classici. A Palermo, un condannato ne aveva ingoiati quattro prima di entrare in carcere. A Salerno e Bologna sono stati beccati degli avvocati che li stavano passando ai loro assistiti. Un agente si era fatto corrompere per portarli dentro a Reggio Calabria. Persino un cappellano, a Salerno, l'hanno fermato con nove minicellulari occultati nel tabacco che portava «in dono». Questi minicellulari li fabbricano in Cina, costano una trentina di euro su Internet, sembrano una carta di credito. Il più piccolo è lungo 7 centimetri, largo 2, spesso 1. Peso: 20 grammi. Per fermarli, anche la polizia penitenziaria si affida alle tecnologie. Il sottosegretario Andrea Giorgis recentemente ha spiegato che sono stati acquistati 200 rilevatori portatili di dispositivi elettronici, 65 rilevatori portatili di telefoni cellulari, 40 disturbatori elettronici «jammer». Ora si spera nella deterrenza del reato che scatta anche per chi li riceve, non solo per chi li porta dentro.

Lecce, sconta la pena ma non vuole uscire dal carcere: «Non ho nessuno». Protagonista un detenuto che ha pagato il conto con la giustizia. E la Polizia penitenziaria gli trova una struttura. Il Quotidiano del Sud l'11 Settembre 2020. Finisce di scontare la pena ma non vuole lasciare il carcere. Perchè quella cella, nella quale è stato rinchiuso per tanto tempo, ormai è diventata la sua casa. Perchè il disagio psicologico che lo accompagna ha fatto sì che dietro le sbarre lui si sentisse al sicuro. Adesso, però, di lui si prenderanno cura i sanitari di una casa di cura, pronti ad accoglierlo per scacciare via il male che lo accompagna. È una storia a lieto fine, quella che arriva dalla casa circondariale di Lecce, in particolare dalla sezione per il trattamento dei detenuti psichiatrici. A raccontarla una nota di Uil-Pa Lecce, sindacato di polizia penitenziaria, a firma del segretario provinciale Diego Leone. Libero (lo chiameremo così) ha pagato il suo debito con la giustizia. Ora è veramente un uomo libero. Ma lui, quella libertà tanto agognata da tutti i detenuti, non la vuole. Iniziano le operazioni di dimissione dal carcere, ma improvvisamente in lui affiora un malessere: si sdraia per terra, chiude gli occhi e si arrocca in un silenzio impenetrabile. Interviene il personale medico e paramedico. I parametri vitali sono apposto, sta bene. Semplicemente non vuole andare via. La sua famiglia, che non gli ha mai fatto mancare amore e supporto, purtroppo non può accoglierlo. Ed ecco che gli operatori si adoperano in tutti i modi per cercare una soluzioni. Contattano medici interni ed esterni, specialisti, servizi sociali. Come se non bastasse le norme anti Covid non permettono l’accoglienza immediata nelle strutture di sostegno. Alla fine tutto si risolve: viene trovata una struttura di diagnosi e cura disposta ad assisterlo. Libero è sereno, lascia il carcere tranquillo, ora non sarà più da solo a lottare contro i suoi fantasmi.

Era in cella e gli negarono l’addio alla moglie e alla madre morente: il caso in Parlamento. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 Settembre 2020. Era detenuto e non poté abbracciare per l’ultima volta madre e moglie che morirono senza salutarlo. Approda in parlamento la vicenda di Salvatore Proietto, all’epoca condannato a due anni per il possesso di 72 grammi di marijuana. Era detenuto e non poté abbracciare per l’ultima volta madre e moglie che sono morte. Approda in parlamento la vicenda di Salvatore Proietto, all’epoca condannato a due anni per il possesso di 72 grammi di marijuana, che fu resa pubblica esattamente un anno fa da Il Dubbio e poi ripresa dal quotidiano La Sicilia. A chiedere, tramite interrogazione parlamentare, chiarezza al ministro della giustizia è la deputata del movimento cinque stelle Jessica Costanzo. «Il giudice – ricostruisce la vicenda la parlamentare del m5s – risponde alla richiesta di concessione di un permesso di uscita per recarsi a vedere la salma da parte di Proietto, ma subordina l’uscita dal carcere alla presenza della scorta. Nonostante i permessi attribuiti, Salvatore Proietto attende invano e in cella l’arrivo della scorta, ma ottiene l’uscita solo il 7 luglio 2018, quando oramai la madre era stata già stata tumulata». Costanzo prosegue: «Successivamente trasferito ai domiciliari, Salvatore Proietto sconta il resto della sua pena assieme alla compagna, e nel frattempo vede respinte le richieste di affidamento in prova e di permesso lavorativo, nonostante ci fosse un’azienda ben disposta ad assumerlo». Ma ad aprile 2019 la compagna di Salvatore viene trasferita improvvisamente in ospedale, dove è ricoverata d’urgenza per problemi cardiaci. Nei giorni successivi, la compagna viene trasferita in terapia intensiva e al presentarsi di una serie di complicazioni, tra cui un’embolia polmonare. Per questo motivo Salvatore presenta attraverso i suoi legali istanza di permesso di necessità, ai sensi dell’art. 30 O.P., al magistrato di sorveglianza. «Visto l’aggravarsi delle condizioni della compagna – prosegue la deputata -, che entra in coma farmacologico, Salvatore Proietto presenta diversi solleciti al magistrato di sorveglianza, che tuttavia non risponde». La compagna di Proietto, dopo 22 giorni in ospedale, muore senza che Salvatore riesca ad ottenere il permesso di vederla un’ultima volta. Il giudice risponderà infatti solo una settimana dopo la sua sepoltura all’istanza di permesso. Salvatore soffriva di depressione e di disturbi d’ansia e dopo i due episodi le sue condizioni si sarebbero aggravate. «Attualmente – prosegue l’interrogazione parlamentare -, dopo aver terminato di scontare la sua pena, Salvatore Proietto è sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, una misura di prevenzione regolata dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 e successive modifiche, su si è più volte discusso in merito alla sua legittimità costituzionale e alla conformità ai principi contenuti Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo o CEDU». A questo punto la deputata del m5s si rivolge al ministro Bonafede chiedendo di accertare se il Ministero interrogato «abbia posto in essere tutte le azioni e le verifiche in suo potere e necessarie per comprendere come si sia potuti giungere a negare a Salvatore Proietto la possibilità di fruire dei permessi di uscita in occasione della morte della madre e dell’aggravarsi delle condizioni della compagna». Non solo. Aggiunge se sia il caso di «adoperarsi per valutare per quale motivo l’autorizzazione da parte dei magistrati di sorveglianza sia giunta con tale ritardo, cagionando a Salvatore Proietto un duplice danno morale e psicologico che non sarà mai riparabile data l’ineluttabilità degli eventi luttuosi che lo hanno investito».

È malato ma lo sbattono di nuovo in galera: ucciso dalla furia antiscarcerazioni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 Settembre 2020. A fine aprile erano stati concessi i domiciliari a Carmelo Terranova a causa di una cardiopatia. Ma poi c’è stata la campagna mediatica contro le scarcerazioni e gli hanno detto: «Sei guarito…» Giovedì è morto nel carcere di Parma ed era tra i gravemente malati che sono stati rimandati in carcere dopo l’onda emozionale contro le “scarcerazioni”. Si tratta del 72enne pluriergastolano siciliano Carmelo Terranova, il quale a fine aprile ha usufruito della detenzione domiciliare a causa delle sue patologie ritenute inizialmente incompatibili con il carcere. Il suo legale, Antonio Meduri, aveva presentato istanza di scarcerazione per motivi di salute al Tribunale di sorveglianza di Bari. Ed il magistrato, accertato lo stato di salute precario del detenuto, già vittima di un infarto, anche per l’emergenza Covid 19, aveva disposto la scarcerazione. D’altronde il suo legale, producendo una corposa documentazione medica, ha motivato la sua richiesta con le gravi condizioni di salute del detenuto, afflitto da scompensi polmonari al punto che era costretto a respirare con l’aiuto della bombola dell’ossigeno 24 ore su 24. Ma il resto della storia la conosciamo. Scoppia il caso “scarcerazioni”, arriva l’indignazione popolare e il ministro della giustizia partorisce subito ben due decreti per rendere più difficile la concessione della detenzione domiciliare ai detenuti per reati di mafia e terrorismo. Indignazioni che però si sono rinnovate giovedì scorso con alcuni articoli di Repubblica. Solo che mentre sono riscoppiate le polemiche – si è distinta la sola voce autorevole del Garante Mauro Palma che ha spiegato l’importanza del diritto alla salute -, Il Dubbio ha potuto scoprire che nello stesso identico giorno muore uno di quei reclusi fatti ritornare in carcere perché ritenuti – dopo una stringente rivalutazione – compatibili con il regime penitenziario. Come detto, Carmelo Terranova è stato fatto rientrare in carcere. Inizialmente l’hanno tradotto presso la casa Circondariale siciliana “Cavadonna”, in quanto, attraverso la rivalutazione obbligatoria, hanno attestato la compatibilità delle sue condizioni di salute col regime carcerario. In realtà, tempo poco più di un mese, lo hanno tradotto nel carcere di Parma e, esattamente il 14 agosto, è stato assegnato al centro clinico del carcere ( ora denominato con l’acronimo Sai). Struttura interna al penitenziario dove, come più volte ha denunciato il garante locale Roberto Cavalieri, ha solo 29 posti e perennemente tutti occupati: parliamo del punto di riferimento delle carceri di mezza Italia. Detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. Un vero e proprio lazzaretto interno al penitenziario dove le cure sono sempre più difficili. Non a caso, subito dopo hanno ricoverato il detenuto in ospedale, nel reparto detentivo, dove alla fine è morto. Terranova, come tutti gli altri detenuti finiti al centro del ciclone, non era un “boss”, ma uno degli appartenenti di spicco del clan Aparo. Era stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Siracusa sia per l’omicidio del francofontese Salvatore Pernagallo, avvenuto il 7 aprile 1992, sia per l’omicidio dell’ex autista del sindaco di Canicattini Bagni, Salvatore Navarra, avvenuto sempre nel 1992 nell’ambito della guerra di mafia tra i clan Aparo- Nardo- Trigila e il gruppo Urso- Bottaro, sia per la strage di San Marco, verificatasi il 3 settembre 1992. Ma la pena, per qualsiasi criminale, deve essere umana, e nei casi dove c’è una evidente incompatibilità carceraria con lo stato di salute, si dispongono misure alternative. La lotta alla mafia, oggi, pare che si sia ridotta alla caccia ai vecchi “boss” malati che sono ristretti nei penitenziari. Se vengono “scarcerati” per motivi di salute ci si indigna, si fanno inchieste TV e fanno dimettere i vertici del Dap. Se invece muoiono come nel caso di Terranova, silenzio tombale. Nessuna inchiesta TV e nessuno chiede se ci sia stata una qualche responsabilità da parte dei vertici. La sacrosanta lotta alla mafia pare che si sia trasformata in una crociata contro i principi costituzionali.

L'intervista al Presidente dell'associazione "A Buon Diritto". “Violenze, abusi e torture: il 41 bis è illegale”, parla Luigi Manconi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Luigi Manconi, che insegna sociologia dei fenomeni politici allo Iulm di Milano, esplora gli abissi del diritto, e i suoi confini. Dapprima portavoce dei Verdi, quindi sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, dal 2013 al 2018 a Palazzo Madama con il Pd, è stato il primo Garante dei diritti delle persone private della libertà, nominato per il Comune di Roma dall’allora sindaco, Walter Veltroni. La legge che integra il reato di tortura porta il suo nome. Iscritto a Nessuno Tocchi Caino, ha fondato l’associazione A Buon Diritto, sul punto di compiere vent’anni. Per il tuo bene ti mozzerò la testa, saggio sul giustizialismo morale scritto a quattro mani con Federica Graziani, uscito per Einaudi, è il suo ultimo libro. «Negli ultimi decenni mi sono dedicato al tentativo di disvelare le tematiche legate alla detenzione, alla marginalità sociale, all’emigrazione con una dimensione di intelligenza razionale, rifiutando la retorica fatta di emotività e compassione che spesso soffoca questi argomenti».

Il suo osservatorio sui diritti, purtroppo, non conosce riposo.

«Noi abbiamo contato in 22 mesi notizie serie, approfondite e documentate di ben nove vicende che riguardano violenze e abusi contro i detenuti, una parte delle quali configurabili come torture. O comunque quelli che la Corte Europea dei Diritti Umani ha definito “trattamenti inumani e degradanti”. Nove vicende venute alla luce, su cui ci sono indagini della magistratura. Da San Gimignano a Torino a Santa Maria Capua Vetere».

Esiste una pena afflittiva supplementare per chi sta in carcere?

«Certo che c’è, ed è illegale. Contesto la definizione prevalente del 41bis come Carcere duro. Perché il 41bis nella legge non deve essere quello. Non esiste una “detenzione aggravata da un surplus di afflizione”. Non è un carcere al quale va aggiunto un trattamento che introduce la sofferenza come pena addizionale, o determini divieti tali da ridurre gli spazi di vita, socializzazione ed espressione della persona reclusa. Il 41bis non deve essere questo».

Ma lo diventa.

«Eccome. E anche qualcosa di più. Ma per l’ordinamento il 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Il 41bis deve impedire le relazioni con l’esterno per rescindere i legami criminali. Invece è diventato quel carcere duro perché si è trasformato in un sistema di privazioni e limitazioni, imposizioni e divieti».

Anche al di là del 41bis, stare in celle piccole, con scarsi servizi igenici, finisce per integrare una condotta sottilmente afflittiva, di continua umiliazione e degradazione umana…

«Oggi il carcere priva di senso il carattere rieducativo della pena. La legge sulla tortura porta il mio nome, ma non la riconosco: il testo finale è ben diverso da quello che avevo scritto. Dal momento che tengo molto a fondare le parole sulla realtà, parlo di tortura solo quando si configura un comportamento di tortura. Esempio: in queste ore stiamo apprendendo cosa è successo il 6 aprile di quest’anno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lì si può e si deve parlare di tortura».

La legge sanzionerebbe anche gli atti di violenza psicologica.

«Sì, limitando in maniera molto rigida la possibilità di ravvisarla nei comportamenti concreti, sottoponendo l’obbligo di documentarla a condizioni difficilmente riscontrabili. Ma si parla di violenza psicologica, e non c’è dubbio che all’interno del 41bis le violenze psicologiche siano frequenti e ripetute, e possono essere considerate – in casi documentabili – come torture».

Temi scottanti, ma per pochi. Siamo nel paese del giustizialismo morale. Non è un paradosso, avere tanti giustizialisti in un Paese dove scarseggiano senso civico ed etica pubblica?

«Ne è appunto la derivazione. La carenza di spirito pubblico e di senso civico produce un surrogato. Determina cioè un sottoprodotto pericoloso che è il giustizialismo morale. Se ci fosse in Italia più senso civico e spirito pubblico il giustizialismo morale non avrebbe tanto spazio di affermarsi».

Il suo libro non nasconde lo scetticismo verso chi accarezza il populismo giudiziario. Un errore anche del Pd.

«Sicuramente, e noi lo scriviamo esplicitamente: il populismo penale passa attraverso la classe politica del sistema dei partiti condizionandoli tutti. Nutrendoli tutti. In alcuni casi li nutre in misura larghissimamente maggioritaria, in altri casi meno. Ritengo che la Lega sia potentemente condizionata dal populismo penale, e che altrettanto lo siano i Cinque stelle ma, con la sola eccezione dei radicali, non vedo nessuno che ne sia esente».

Nel vostro libro parlate a lungo di Bonafede, con cui Pd, Iv e Leu hanno fatto tutti i compromessi possibili. Qual è il suo giudizio sul Ministro?

«Non sembra interessato ad alcuna visione generale e sembra rifuggire da qualunque, come dire?, filosofia del diritto. Perché affermo questo? Perché mai ho sentito argomentare progetti di legge o decisioni di governo con motivazioni che rispondessero alle critiche di fondo e di principio che riceveva. Le risposte sono state sempre e solo di natura contingente, politicistiche e – uso questo termine in senso giuridico – sostanzialiste».

Cosa intende?

«Quel famoso “guardiamo alla sostanza” che spesso è un inganno. E quel metodo delle maniere spicce che spesso è una truffa e prende il nome di sostanzialismo. La noncuranza per le forme, quasi che le forme non coincidessero esattamente con le regole e con la loro logica. Le critiche fatte alla cosiddetta riforma della prescrizione non hanno mai incontrato una sola risposta all’altezza di quelle che erano contestazioni di natura teorica, ad esempio il fatto che la prescrizione è parte costitutiva del diritto contemporaneo. E non un escamotage truffaldino inventato dagli avvocati. Fa parte di una concezione matura e liberale della giustizia».

Stesso dicasi per le intercettazioni a grappolo. Altro abominio.

«Certo, è così. Anche in quel caso mi colpisce quanto quel discorso sia piegato alla sola efficacia dello strumento. Ora, lo strumento è indubbiamente efficace. Ma è come se mancasse la consapevolezza, anche nel ministro, che comunque stiamo entrando in una sfera di altissima delicatezza, stiamo toccando una materia insidiosissima. Colpisce che non si sia coscienti che misure pur indispensabili, sollevino comunque questioni enormi, anche etiche, che il legislatore deve considerare. La questione della riservatezza non può essere ignorata, come se fosse un bene di lusso rivendicato da privilegiati. Colpisce che la dignità individuale viene ferita, vilipesa attraverso le intercettazioni senza che ci si pongano degli interrogativi di fondo».

L'intervista alla coautrice del nuovo libro. “Le nostre galere negazione del fine educativo”, parla Federica Graziani. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Settembre 2020.

Chi sono i giustizialisti e perché diventano giustizieri?

«Coloro che coltivano un’idea della giustizia che, pur di difendere l’incolumità di beni e affetti, utilizzi ogni arma possibile. Chi crede insomma che si possa rispondere alle proprie aspettative e alle proprie paure purché si individuino e castighino i colpevoli a qualsiasi prezzo. Se necessario, anche eliminandoli».

Come si vive nelle carceri Italiane? Il fine rieducativo lo vede (mai) applicato?

«Nelle nostre galere la negazione del fine rieducativo della pena è l’istituto più rispettato e quando qualche recluso riesce a essere nuovamente incluso nella società dei liberi lo si deve quasi sempre più a una eccezionale combinazione di risorse personali e fortuna che alla tutela del suo diritto costituzionale da parte dello stato».

Quale esperienza ne trae dalle sue visite alle carceri?

«Che ogni essere umano è tanto capace di compiere orrori quanto è capace di cambiare. Nessun uomo si riduce mai solo ai propri crimini e nessun uomo può meritare una condanna tanto abissale da essere ridotto a nient’altro che il suo reato. Occhio per occhio acceca entrambi i bulbi oculari».

Perché, come affermate nel libro, è così “faticoso essere garantisti” in Italia?

«Perché impera un orientamento politico, culturale e giudiziario che sobilla il rancore sociale torcendolo non verso una valutazione razionale delle minacce, al contrario precipitandolo verso un centro, sempre drammatico e semplificato, di esplosione in singoli episodi violenti che richiedono misure spicce e sommarie. Il populismo penale, mostro dalle tante facce e dagli esiti fatali».

Emanuela Carucci per ilgiornale.it l'1 ottobre 2020. Un corso di boxe per i detenuti nel carcere di Rebibbia. Sarebbe comico se non fosse tragico. "Io lo definisco un'istigazione alla violenza contro i poliziotti", dice con tono perentorio al telefono, Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria. La notizia è diventata subito virale, soprattutto tra le forze dell'ordine. I primi di ottobre partirà, tra i vari corsi messi a disposizione nell'istituto di pena della capitale, anche quello di pugilato. "Piuttosto che trovare soluzioni idonee agli eventi critici che sistematicamente si verificano nelle carceri, piuttosto che impiegare i detenuti in opere di recupero ambientale (come la pulizia delle spiagge, dei sentieri, degli alvei dei fiumi, dei giardini pubblici) per trovare soluzione all’ozio penitenziario nel quale i ristretti stanno 24 ore al giorno, a Rebibbia si pensa a mettere i detenuti in condizione di imparare le migliori tecniche per magari aggredire i poliziotti." continua il sindacalista. Come si legge nel comunicato stampa reso noto sul sito del Sappe, si chiede, in merito alla vicenda, l'intervento del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, affinché "disponga la revoca di questa scellerata decisione". A ilGiornale.it, però, Capece sottolinea in maniera provocatoria "Io questo ministro non l'ho mai né sentito né visto. Abbiamo un ministro della Giustizia?". La questione del corso di boxe tra le sbarre è un argomento assai delicato perché la violenza nelle carceri italiane è in aumento. I numeri parlano chiaro. Si è passati da 378 aggressioni agli agenti penitenziari nel primo semestre del 2019 a 502 nel successivo semestre. Ancora, si è passati dai 737 ai 1.119 telefonini rinvenuti e sequestrati ai detenuti, dalle 477 minacce, violenze e ingiurie alle 546, dalle 3.819 alle 4.179 manifestazioni di protesta negli ultimi tempi. "Le carceri sono incontrollate - spiega, ancora, Donato Capece -e noi agenti cerchiamo di contenere la delinquenza con grande fatica all'interno degli istituti di pena". Proprio ieri sera, nel carcere psichiatrico di San Pietro, a Reggio Calabria, alcuni agenti sono stati aggrediti e sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari negli ospedali riuniti "Bianchi - Melacrino". Quello della violenza contro le forze dell'ordine è un tema molto dibattuto, tant'è che il 14 ottobre prossimo alle ore 10 è prevista una manifestazione in piazza del Popolo, a Roma, a cui parteciperanno in 3mila tra agenti di polizia penitenziaria, carabinieri, poliziotti, vigili del fuoco e agenti della guardia di finanza "contro la violenza in carcere e le aggressioni nei confronti degli umili servitori dello Stato che quotidianamente assicurano la sicurezza ai cittadini", come ha specificato, ancora, Capece.

Violenza in carcere, botte troppo ordinarie per fare notizia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Dire che i pestaggi nelle carceri costituiscono la regola sarebbe statisticamente inesatto solo perché, forse, quella violenza non si registra proprio tutti i giorni e in tutte le carceri: ma rappresentano un fatto notorio e tutt’altro che raro, che non bisognerebbe considerare meno grave soltanto perché il personale a guardia delle prigioni non è fatto tutto di picchiatori (ci mancherebbe pure, e ci mancherebbe che proprio ogni detenuto fosse destinatario di quell’abuso). È esattamente quel che succede in guerra, quando la truppa si abbandona al saccheggio e allo stupro. Ovviamente non succede in ogni campagna militare e ovviamente, quando succede, non ne è responsabile ogni soldato. Ma sanno tutti che se non è la regola è comunque un fatto frequente, e questa violenza condivide con l’altra – quella che ricorre nelle carceri – una buona somma di caratteristiche: si rivolge contro gli indifesi, si esercita al riparo da qualsiasi controllo inquirente e, soprattutto, avviene sotto il comando di chi magari non la istiga ma certamente la conosce e la lascia correre. Spiace doverlo denunciare ma, davanti a una realtà che conoscono tutti, alcuni hanno più responsabilità di altri: e chi, se non quelli che per ufficio – accusando, giudicando – affidano le persone a quel dispositivo di risaputa violenza? Ovviamente non si vuol dire che chi stende una richiesta di arresto o una sentenza di condanna deve per ciò solo rispondere se il destinatario di quel provvedimento è poi preso a bastonate. E nemmeno chi amministra le carceri può essere ritenuto responsabile, per il sol fatto di ricoprire quel ruolo, degli abusi eventualmente commessi da questo o quell’aguzzino in divisa. Ma gli uni e gli altri – magistrati e amministratori – non possono far finta di non sapere ciò che tutti sanno perfettamente: e cioè che in quei luoghi di pena è, se non normale, almeno assai frequente che i detenuti siano sottoposti a quel regime selvaggiamente sopraffattorio. Non dovrebbero, né gli uni né gli altri, sopportare oltre di essere elementi decisivi di un sistema che per norma accetta quell’illegalità ricorrente. Perché di questo infine si tratta: di una realtà davanti alla quale allarghiamo le braccia, perché si sa che è così e buonanotte. Con questo di peggio: che per un caso fuoriuscito dal buio in cui quasi sempre quella violenza è perpetrata, mille e mille ce ne sono di cui nessuno si occupa perché un detenuto massacrato di botte non è una notizia ma un’ordinaria proprietà del nostro sistema carcerario. Una cosa di cui non si parla e che non fa vergogna non perché non c’è: ma perché non importa.

Pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, “Bonafede chiarisca”. Giacomo Andreoli su Il Riformista il 30 Settembre 2020. «Ci sono le immagini che provano le violenze. Forse gli agenti pensavano di restare impuniti, ma così non è». Sulla presunta spedizione punitiva degli agenti penitenziari contro i detenuti al carcere di Santa Maria Capua Vetere (nel casertano), il garante dei detenuti per la Campania, Samuele Ciambriello, non ha dubbi. Per lui lo scorso 7 aprile, dopo le violente proteste per le condizioni disumane dei carcerati aggravate dal Covid 19, il pestaggio c’è stato eccome e l’indagine «potrebbe allargarsi ad altri agenti». Per ora si indaga per reati di tortura e abuso di potere: sono 57 gli agenti nel mirino dei magistrati della Procura locale. Agenti che erano alle dipendenze di un comandante che, per triste ironia della sorte, si chiama Gaetano Manganelli. Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, si sarebbe trattato solo di una perquisizione straordinaria delle celle, ma i detenuti hanno sempre sostenuto altro, sorretti dall’associazione Antigone che pubblicava le sue denunce sulle irregolarità nelle carceri sotto Covid qui su Il Riformista già a marzo. Un ex detenuto, testimone delle violenze, ha raccontato al quotidiano Domani di aver visto il video che sarebbe in mano ai pm, durante l’interrogatorio cui è stato sottoposto dopo l’uscita dal carcere: sono i fotogrammi probabilmente acquisiti dai carabinieri dalle telecamere di sorveglianza interne del carcere casertano. Immagini che si unirebbero al materiale proveniente dal sequestro dei telefoni di alcuni agenti. Manganellate, schiene sfregiate, denti rotti, occhi gonfi e varie contusioni. Secondo il testimone gli agenti erano 300, provenivano per lo più da altre carceri e ne avrebbero fatte di ogni. Non solo: a quanto dice i detenuti avrebbero solo subito le botte, senza reagire, mentre alcune ricostruzioni a favore degli agenti parlavano di bastoni usati dai carcerati contro le forze dell’ordine. Tra chi è stato picchiato, sostiene, ci sarebbe anche un disabile sulla sedia a rotelle, un uomo legato a un clan perdente di camorra che i suoi compagni chiamavano lo zio. Un altro detenuto, malato, le avrebbe prese per essere poi messo in isolamento e morire un mese dopo. Il caso, ora, si fa politico e rischia di diventare una bomba per la maggioranza: ieri il Partito democratico ha presentato un’interrogazione al ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, già nell’occhio del ciclone nei mesi scorsi per la gestione delle carceri durante l’emergenza coronavirus. Prima firma del responsabile dei temi giudiziari Walter Verini. «Il ministro è a conoscenza dei fatti riportati?» chiedono i dem, riprendendo quanto scriveva il Direttore del nostro giornale Piero Sansonetti, nell’editoriale di ieri. Il Pd domanda anche «se sia stata avviata un’inchiesta per accertare le eventuali responsabilità». Tutto questo, perché, conclude l’interrogazione, «le difficili condizioni nelle quali gli agenti svolgono quotidianamente il loro lavoro non possono in alcun modo giustificare, ove fossero confermati, simili gravissimi episodi». Durissimo il deputato di LeU Erasmo Palazzotto. «Nel carcere è successo qualcosa di spaventoso – ha scritto in una nota – Una totale sospensione dello Stato di Diritto. Quelli massacrati sono cittadini sotto la custodia dello Stato. Garantire la loro dignità e incolumità è compito delle Istituzioni. La funzione del carcere, è bene ricordarlo, è quella di riabilitare e reinserire i detenuti nella società. Quanto accaduto invece ha a che fare con l’annientamento della persona». Intanto, denuncia Ciambrello, «presunte vittime e agenti denunciati sono ancora nello stesso reparto, faccia a faccia tutti i giorni. Una circostanza che tiene il clima in carcere costantemente teso». Per questo, aggiunge: «Non capisco perché il Dap non intervenga con i trasferimenti di detenuti o poliziotti». Ma Giuseppe Moretti, presidente del sindacato degli agenti, l’Uspp, smentisce: «Gli agenti prestano servizio esclusivamente nei settori esterni all’area detentiva».

Il grido dalla cella del carcere. “Siamo stati pestati da 300 agenti”, l’audio choc di un detenuto di Santa Maria Capua Vetere. Angela Stella su Il Riformista il 3 Ottobre 2020. «Ci hanno picchiato verso le quattro e mezzo, cinque del pomeriggio del lunedì», «sono venuti in trecento di loro. Hanno sfondato le celle e hanno preso 3 o quattro di loro. Intanto hanno detto “dobbiamo morire tutti”. Ci sono ora due o tre ragazzi in coma, stanno cercando i loro familiari ma non li trovano.  C’è gente a cui hanno fatto saltare i denti, gente con la testa rotta, le mani rotte, con fratture ovunque”, “Ci hanno tolto tutti i diritti” . E’ rotta dal pianto la voce del detenuto che, nella registrazione della telefonata che il Riformista ha ricevuto e pubblicato, racconta a una familiare il pestaggio che si sarebbe consumato lo scorso 6 aprile nel carcere di Santa maria Capua Vetere. Sulla vicenda è aperta una indagine da parte della procura locale, oltre cinquanta agenti di polizia penitenziaria sono sotto inchiesta per il reato di tortura e abuso di potere. Nella telefonata il detenuto denuncia la sospensione delle videochiamate con i familiari: «Quelli aspettano cinque, dieci giorni che si tolgono i lividi?», dice. E prosegue: «Hanno dato manganellate a tutti quanti e fino a due minuti fa. Sono scesi ed io ero seduto su uno sgabello in cella e mi hanno picchiato di nuovo; è passata là una guardia, mi ha visto sulla sgabello e mi ha detto “Ah sei seduto, non ti alzi davanti a noi?”. C’è gente che non si sa che fine abbia fatto; alcuni sono in ospedale per le botte che hanno preso, li piantonano in ospedale e non li fanno vedere a nessuno. È lì che devono andare a cercare». Che cosa sia accaduto in quel giorno di aprile nel padiglione Nilo del carcere campano lo stabilirà la magistratura. A noi resta il compito di non spegnere l’attenzione su quello che potrebbe delinearsi, come ha detto il Presidente dell’Associazione A Buon Diritto, Luigi Manconi, ieri a Omnibus, come una “azione di rappresaglia militare” di alcuni agenti di polizia penitenziaria nei confronti di diversi detenuti che chiedevano solo rassicurazioni nel pieno dell’emergenza sanitaria da covid-19. Il condizionale è d’obbligo, soprattutto quando si tratta di fatti accaduti al di là di quel muro che divide i presunti buoni dai presunti cattivi, dove spesso vittime e carnefici si scambiano i ruoli, e dove è difficile trovare testimoni. Per fortuna che esistono le telecamere di sorveglianza, i cui video ora sono al vaglio della magistratura: potrebbero confermare quanto già testimoniato da numerosi detenuti che hanno raccontato di brutali pestaggi da parte degli uomini della Polizia Penitenziaria entrati nelle celle a volto coperto e muniti di manganello. La presunzione di innocenza vale per tutti. Ma ciò, crediamo, non impedisca al Ministro Alfonso Bonafede, responsabile politico dell’amministrazione penitenziaria, di pronunciarsi in base a quanto emerso fino ad oggi. La stessa cosa vale per il capo del Dap Bernardo Petralia. Della riservatezza mediatica di Petralia non ci stupiamo: da quando è al vertice del Dap non ha ancora rilasciato interviste o dichiarazioni di rilievo, se non andiamo errati. Per quanto  riguarda il Ministro Bonafede siamo un po’ stupiti, o forse no, da questo suo silenzio. Anche Pd, Leu e +Europa, con diverse interrogazioni parlamentari, hanno chiesto chiarimenti, ma al momento nessuna risposta. Eppure il Ministro già in passato ha rilasciato dichiarazioni, sempre con la dovuta premessa “Sono casi che verranno vagliati dalla magistratura e non entro nel merito”, relativi a fatti di cronaca. Tuttavia in questo caso c’è un assordante silenzio. Certo, l’indagine preliminare non è conclusa e si potrebbe obiettare che non sarebbe opportuno pronunciarsi in una fase così embrionale, ma c’è un problema politico più generale dietro la vicenda: cosa è accaduto nelle carceri nel periodo del lockdown, quando anche quattordici detenuti hanno perso la vita? Esiste o no un problema strutturale all’interno degli istituti di pena? E poi va ricordato che in circa 22 mesi sono emerse, «attraverso documentazioni e indagini, altre nove vicende simili relative ad altrettanti istituti penitenziari», come ha ricordato sempre Luigi Manconi. Ieri abbiamo contattato gli uffici di Bonafede e Petralia per chiedere una dichiarazione ma nulla ci è stato risposto, se non informalmente che entrambi «non intendono esporsi essendoci accertamenti della magistratura in corso e che da parte del ministero c’è la massima attenzione nei confronti della vicenda». «Ci hanno tolto tutti i diritti», diceva il detenuto nella drammatica telefonata pubblicata sul sito del Riformista. «Se io voglio scrivere a casa non posso. È come se non esistessimo più: non siamo più detenuti ma prigionieri. Io li porto in tribunale, non ho mai fatto una denuncia, ma questa volta hanno esagerato». Quanto ancora bisogna aspettare perché le istituzioni battano un colpo e dicano –  non a noi giornalisti in cerca di una dichiarazione –  ma alla popolazione, ai cittadini che il carcere non è una cantina sociale di cui nessuno si occupa ma una problema della collettività?

La polemica. I detenuti possono essere pestati, ma non possono andare a Italia’s Got Talent. Angela Azzaro su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Viviamo in uno strano Paese: se qualcuno osa applicare l’articolo 27 della Costituzione e invece di pestare i detenuti, cerca di metterli nelle condizioni di fare un percorso di rieducazione, rischia di finire travolto dalle polemiche o addirittura in galera. Per i benpensanti con la pistola in mano è davvero troppo che invece della vendetta ci sia la possibilità di rifarsi una vita. Figuriamoci poi se questo coincide con la partecipazione a un programma televisivo come è accaduto a un gruppo di detenuti del carcere di Marassi di Genova che lunedì sera hanno registrato il programma Sky Italia’s Got talent proponendo un brano del loro spettacolo teatrale. Invece di applaudire, commuoversi, dire bravi, come hanno fatto i quattro giudici del programma che li hanno “promossi”, sono scattate le critiche del sindacato della polizia penitenziaria Uilpa per l’orario notturno in cui è avvenuto lo spostamento da Genova a Roma (il talent viene registrato a Cinecittà) e per l’emergenza coronavirus. Il leader della Lega Matteo Salvini non poteva farsi scappare un’occasione così ghiotta per polemizzare definendo l’iniziativa «scellerata e vergognosa»: «Anziché investire in divise, dotazioni, mezzi e pagare gli straordinari agli agenti, ecco come butta i soldi il governo». Una parte della spese sono state in realtà sostenute dall’associazione Teatro Necessario che nel carcere di Marassi gestisce da quindici anni i laboratori teatrali, ma è evidente che la polemica è un’altra: non sui soldi, ma sulla natura stessa del carcere. Da una parte c’è la Costituzione, dall’altra c’è l’idea del carcere come buco nero, come un luogo in cui viene sospeso lo stato di diritto. La Lega è pronta a presentare l’interrogazione al ministro Alfonso Bonafede, che ieri in commissione Giustizia ha messo subito le mani avanti: “Ho disposto accertamenti per ricostruire i fatti”. Solerzia che il ministro non dimostra nei confronti dei pestaggi avvenuti nelle carceri come rappresaglia dopo le proteste di marzo. Se si rieduca, scattano i controlli, se si viene presi a botte va tutto bene. Il ministro della Giustizia più inutile e dannoso della storia della Repubblica è così: silenzio sul carcere di Santa Maria Capua Vetere e accertamenti quando si fa di tutto per essere umani. Ma cosa hanno fatto di così male i cinque detenuti? Hanno urlato, bestemmiato, invitato i cittadini a rubare, uccidere? Niente di tutto questo. Sono andati in tv a far vedere il loro talento, hanno raccontato quello che sanno fare. Hanno messo in scena un brano in cui i detenuti salutano i parenti quando entrano in carcere. Lacrime. Emozione. Questo si doveva provare. Invece… Intervistata dal fattoquotidiano.it la direttrice del carcere di Marassi ha difeso l’iniziativa: «La trasferta – ha detto Maria Milano – fa parte di un progetto di lavoro esterno autorizzato da tempo e consentito dall’articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario. Il viaggio si è svolto in totale sicurezza, sia i detenuti che gli agenti sono usciti con il nullaosta sanitario e sono stati sottoposti a tampone prima del rientro. Ogni attività – ha continuato – può essere considerata superflua, ma io sono dell’idea che il percorso trattamentale non possa essere abbandonato, altrimenti le carceri diventano bombe a orologeria. Scontare la pena con finalità rieducative è un diritto costituzionale». Speriamo che questa direttrice coraggiosa non debba pagare un prezzo per queste sue parole e per le sue decisioni. Altre volte è successo. L’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, è stata addirittura accusata di concorso esterno in associazione mafiosa ed è stata disposta per lei la misura cautelare dei domiciliari, poi revocata. Al momento è stata sospesa per un anno dal suo lavoro. Ma la sua vicenda racconta bene il clima che si vive nelle carceri italiane: se sei un magistrato di sorveglianza e consenti a un detenuto malato di tumore di andare ai domiciliari, contro di te si scatena l’orda mediatica e arrivano i controlli. Se sei una direttrice che applica la Costituzione, sei fregata e si indaga su di te. Se sei un detenuto e accusi di pestaggio la polizia penitenziaria, aspetta e spera…Qualche anno fa a Berlino i fratelli Taviani vinsero l’Orso d’oro con il film Cesare deve morire, racconto commovente su un’esperienza teatrale nel carcere di Rebibbia. Un gruppo di detenuti deve mettere in scena Shakespeare e scopre quanto nella tragedia del Giulio Cesare ci sia della loro storia e della vita di tutti. Molto probabilmente oggi un film così non si potrebbe fare. Accuserebbero i due grandi registi, Paolo e Vittorio, morto nel 2018, di chi sa quale concorso esterno, di favorire i boss. Chissà quante puntate di Non è l’Arena contro di loro: altro che Orso d’oro, altro che applausi internazionali, gli avrebbero reso la vita impossibile. Come viene resa a tutti coloro che cercano di applicare la Carta, a tutti coloro che cercano di stabilire un legame tra il dentro e il fuori delle prigioni. Viviamo nel Paese in cui il processo mediatico è più diffuso. I verdetti si decidono via tv, le condanne si eseguono sui social, le giurie sono composte da giornalisti, politici, esperti tuttologi. Non c’è caso che ancora prima di arrivare in un’aula di giustizia non venga buttato in pasto all’opinione pubblica. Le prove non contano, contano i “si sa”, i “si dice”, i “si mormora” detti a uso e consumo del pubblico vociante. Ma guai se a quel pubblico per una volta si mostra il lato migliore della pena, se si mostra come i detenuti, anche quelli che hanno commesso reati molto gravi, sono persone, sono esseri umani. Guai se si mostra che sanno fare e che anche loro possono trovare forme di riscatto. Bravi e coraggiosi, quelli di Italia’s got talent nel decidere di chiamarli e di farli passare alle fasi successive. Ma sapranno resistere a queste polemiche? Riusciranno a non farsi intimorire? Sarebbe bellissimo perché una volta tanto invece del processo e della vendetta, la tv metterebbe in scena la possibilità del perdono, la possibilità di identificarci con chi ha sbagliato, con chi ha causato il male agli altri e tenta di rifarsi una vita. Ma non ditelo a Bonafede, se no partono gli accertamenti…

Detenuti picchiati, denudati e insultati: ma i media parlano di scarcerazioni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 agosto 2020. Pestaggi, ritorsioni nei confronti dei rivoltosi, presunte squadrette che hanno creato terrore nelle sezioni del carcere. Il biennio 2019 – 2020 è il periodo dove sono emerse denunce riguardanti presunti abusi all’interno dei penitenziari italiani. Il picco sarebbe stato raggiunto il giorno dopo le rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e l’11 marzo scorso. Pestaggi, ritorsioni nei confronti dei rivoltosi, presunte squadrette che hanno creato terrore nelle sezioni del carcere. Il biennio 2019 – 2020 è il periodo dove sono emerse denunce riguardanti presunti abusi all’interno dei penitenziari italiani. Il picco sarebbe stato raggiunto il giorno dopo le rivolte carcerarie avvenute tra il 7 e l’11 marzo scorso. Mentre il tema “scarcerazioni” (che in realtà si trattava di differimento pena per motivi di salute ai tempi del covid 19) ha monopolizzato i mass media e l’opinione pubblica, poco è stato detto sui presunti pestaggi dove alcune procure hanno avviato indagini – alcune conclusasi con la richiesta di rinvio a giudizio – con l’accusa di reato di tortura.In questo momento sono circa otto i procedimenti in corso per episodi di tortura che vedono implicati gli agenti della polizia penitenziaria. Partiamo dal carcere di San Gimignano dove l’associazione Yairaiha Onlus ha reso pubblica la lettera – pubblicata in esclusiva su Il Dubbio – da parte di un detenuto che sarebbe stato spettatore di un presunto pestaggio nei confronti di un extracomunitario. Addirittura lo scrivente ha detto di essere stato aggredito da un agente penitenziario per aver protestato contro il presunto pestaggio. L’altra conferma che qualcosa è accaduto è poi dovuta dalla Asl che, una volta ricevuto i referti compilati dal medico di turno, ai sensi dell’art 331 cpp, è stata trasmessa la notizia di reato alla competente Procura di Siena. Poi, nell’ottobre del 2019, dopo un’accurata indagine con tanto di prove video, il pubblico ministero ha contestato il reato di tortura nei confronti di quindici agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione. Nei confronti di 4 poliziotti, a seguito di misura interdittiva disposta dalla procura, il Dap aveva disposto la sospensione dal servizio. Al termine del periodo sono regolarmente rientrati in servizio. Oltre Yairaiha Onlus, anche l’associazione Antigone è parte del procedimento in quanto a dicembre del 2019 ha presentato un proprio esposto sui fatti. L’udienza preliminare originariamente fissata per il 23 aprile 2020, a causa dell’emergenza sanitaria è stata rinviata al 10 settembre 2020. Parteciperà anche l’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà come parte offesa.Come si legge nel pre – rapporto di Antigone c’è il caso del carcere di Monza. I fatti risalgono ad agosto 2019 e riguardano la violenta aggressione fisica denunciata da un detenuto. A fine settembre Antigone presenta un esposto, che si affianca alla denuncia presentata dalla vittima. Il magistrato, nel corso del procedimento, ha acquisito le videoregistrazioni relative a quanto accaduto. Nel febbraio del 2020 è stato avviato il procedimento per tortura contro taluni agenti. Le indagini sono attualmente in corso. Così come al carcere di Palermo, a gennaio di quest’anno, Antigone viene a conoscenza di un episodio di maltrattamenti nei confronti di una persona detenuta, il quale in Corte di Assise di Appello di Palermo rende dichiarazioni spontanee, denunciando le violenze subite all’arrivo in carcere. La Corte, riscontrati i segni al volto e ascoltato il racconto, trasmette gli atti alla Procura. A seguire Antigone ha presentato un esposto contro gli agenti per tortura e contro i medici per non avere accertato le lesioni. Anche in questo caso le indagini sono attualmente in corso.

I PESTAGGI DOPO LE RIVOLTE CARCERARIE. A marzo 2020, durante l’emergenza sanitaria dovuta al diffondersi del covid 19, Antigone è stata contattata da molti familiari di persone detenute presso il Carcere di Opera, per le violenze, gli abusi e i maltrattamenti, come punizione per la rivolta precedentemente scoppiata nel I Reparto. A seguire Antigone ha presentato un esposto per tortura. Sempre a marzo 2020 – periodo delle rivolte – Antigone è stata contattata dai familiari di molte persone detenute presso il carcere di Melfi, le quali hanno denunciato gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, verso le ore 03.30, come punizione alla protesta scoppiata il 9 marzo 2020 in seguito alle restrizioni conseguenti allo stato d’emergenza sanitaria. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito nemmeno di andare in bagno. Ad esse sarebbero state fatte firmare delle dichiarazioni in cui dichiaravano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture. Poi c’è il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nel mese di aprile 2020 Antigone è stata contattata da diversi familiari di persone detenute presso il reparto “Nilo” della casa circondariale campana per abusi, violenze e torture subite da taluni detenuti. Le violenze sarebbero avvenute nel pomeriggio del 6 aprile 2020 come ritorsione per la protesta svoltasi il giorno precedente dopo il diffondersi della notizia secondo cui vi era nell’istituto una persona positiva al coronavirus. I medici, in base a quanto denunciato, avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. Sin attivò anche il garante regionale Ciambriello. A fine aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per tortura, percosse, omissione di referto, falso e favoreggiamento. Sempre nel marzo 2020 Antigone è stata contattata dai familiari di alcune persone detenute nel carcere di Pavia che hanno denunciano violenze, abusi, e trasferimenti arbitrari subiti a seguito delle proteste di qualche giorno prima. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato diverse persone detenute, colpendole, insultandole, privandole degli indumenti e lasciandole senza cibo. Ai detenuti durante il trasferimento non sarebbe stato permesso di portare nulla dei propri effetti personali né di avvisare i familiari. A fine aprile Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e tortura. Le indagini sono attualmente in corso. Diverse persone sarebbero state già sentite dalle autorità inquirenti.Altri presunti pestaggi sarebbero avvenuti nel carcere di Foggia e sempre come ritorsione per la rivolta. A rendere pubblica l’esposto fatto in procura da parte dei familiari è Il Dubbio. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima dell’intervenuto trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze. Sarà la Procura ad accertare quanto sia effettivamente avvenuto e, nel caso, ad esercitare un’azione penale nei confronti dei responsabili di eventuali reati. Rimangono sullo sfondo le diverse testimonianze che coincidono perfettamente. Non per ultimo c’è il discorso dei 14 detenuti morti a seguito delle rivolte. Ufficialmente, dopo aver effettuato l’autopsia, risulta che sono morti per overdose. Ma resta aperto il discorso dei detenuti morti a seguito dei trasferimenti. Parliamo di quelli di Monza, morti uno dopo l’altro nel momento del trasferimento nelle altre carceri. Alcuni con viaggi durati ore. Cinque erano già morti nel carcere, mentre gli altri quattro sono morti durante il trasferimento. Come mai non si sono accorti che anche quest’ultimi avevano fatto una ingestione di metadone? Sarà eventualmente la magistratura a cercare la verità dei fatti.

Rivolte a Modena, spuntano le lettere di due detenuti: «ci hanno denudato e pestato a sangue». Il Dubbio il 12 agosto 2020.

Durante le proteste esplose nelle carceri tra l’8 e il 9 marzo, hanno perso la vita 13 detenuti. Tutti, secondo i primi risultati delle indagini, per overdose di metadone. Ma alcuni testimoni raccontano di aver subito abusi e violenze da parte degli agenti. A cinque mesi dall’esplosione delle proteste che hanno attraverso le carceri italiane, si apre un nuovo, inquietante, scenario. A diffondere dettagli inediti sulla vicenda è l’Agenzia Agi, entrata in possesso di due lettere in cui alcuni detenuti raccontano di aver subito violenze da parte della polizia penitenziaria nel corso degli scontri. I fatti si svolgono tra l’8 e il 9 marzo. Mentre gli italiani si avviano alla fase più dura della pandemia, il divieto di colloqui tra familiari e detenuti per contenere il rischio di contagio innesca una sequenza di proteste in una settantina di carceri dal nord al sud del Paese. Durante le rivolte perdono la vita 13 persone, nove solo nel carcere di Modena, di cui quattro durante il trasporto in altri istituti, uno alla Dozza di Bologna e tre nella prigione di Rieti. La maggior parte di loro sono giovani e tossicodipendenti che stavano scontando condanne per reati legati alla droga. Dai primi riscontri emerge che il decesso sarebbe dovuto all’ingestione di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. È questa l’ipotesi su cui si concentrano sin da subito le indagini per omicidio colposo e “morte in conseguenza di altro reato” avviate dalle procure che hanno disposto gli esami tossicologici. I primi esiti confermano l’assunzione delle sostanze, che possono essere letali, se prese in grande quantità. Ma gli avvocati delle vittime, che portano avanti le istanze delle famiglie, le associazioni attive nel mondo delle carceri e alcuni testimoni ritengono che non basti l’overdose a spiegare quanto accaduto. In particolare, due detenuti denunciano di avere subito «abusi» nel carcere di Modena e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite, nonostante stessero male. «A me dispiace molto per quello che è successo. Io non c’entravo niente. Ho avuto paura. Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?,ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta», si legge in una delle lettere diffuse dall’Agi, firmata dai compagni di viaggio di Salvatore Sasa Piscitelli, uno dei 13 detenuti morto a Modena nella protesta dell’8 marzo. Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano chiesto in una lettera resa pubblica a giugno di sapere la «verità sulla sua scomparsa». I pestaggi, stando a questa testimonianza, sarebbero proseguiti durante il viaggio verso Ascoli dove «Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa». «Come aprivi bocca per chiedere qualcosa – scrivono – prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce». Uno dei detenuti conferma che «Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato». La parte del racconto sui pestaggi viene negata da Gennarino De Fazio, segretario nazionale Uilpa della polizia penitenziaria, che invita a riflettere invece su altre possibili mancanze nella gestione della protesta. «Mi sento di escludere che ci sia stata violenza senza motivo. Parliamo di un istituto penitenziario incendiato e devastato, sono stati divelti cancelli e tentata un’evasione di massa. Immagino ci siano state delle perquisizioni accurate perché alcuni avevano armi rudimentali od oggetti da taglio e che quindi si sia dovuto ricorrere anche al denudamento di qualche detenuto. Teniamo presente che parliamo di un carcere col 152% di sovraffollamento, la capienza regolamentare è di 369 detenuti, ce n’erano 560 in quel momento. Solo questa segna il livello di accuratezza della gestione all’interno del penitenziario. In quel contesto, se c’è stata violenza la possiamo definire “legittima” perché serviva per ripristinare l’ordine, evitare evasioni ed eventuali soprusi di detenuti sui loro compagni». De Fazio sottolinea altri aspetti della vicenda: «Il fatto che i detenuti siano arrivati così facilmente alle infermerie degli istituti e si siano approvvigionati di metadone con così tanta facilità dimostra che qualcosa è mancato. Si aveva l’obbligo di rendere più sicure le infermerie? Non impedire la commissione di un reato, per il nostro codice penale, equivale a cagionarlo. Non è possibile che siano morte in questo modo 13 persone». Sui fatti di Modena la Procura ha aperto un’inchiesta complicata dalla morte improvvisa, l’11 luglio scorso, del procuratore capo Paolo Giovagnoli. Alcune famiglie dei reclusi hanno deciso di affidarsi ai legali che già assistevano i loro congiunti in questa indagine. Luca Sebastiani, avvocato di Hafedh Chouchane, racconta la difficoltà a comunicare il decesso ai parenti del suo assistito: «Se non fosse stato per me, la sua famiglia tunisina, mamma e fratelli, non avrebbe saputo della sua morte. Ho impiegato diversi giorni a rintracciarli attraverso il consolato. La sua morte mi ha sconvolto, era un ragazzo di 36 anni, sempre sorridente, ne ho un bel ricordo. Avrebbe beneficiato a breve della liberazione anticipata, avevo appena depositato l’istanza. Nel giro di un paio di settimane sarebbe uscito, pensava al futuro, a un lavoro. Non aveva un’indole violenta, mi è sembrato strano sia finito in episodi turbolenti. Era finito dentro per spaccio. Mi chiedo come sia stata danneggiata la farmacia interna: in che modo, era accessibile, era stata lasciata aperta? Quando si è sentito male, quando sono arrivati i soccorsi? I detenuti in overdose sono stati portati via senza essere curati? Mi auguro che si vada a fondo». Lorenzo Bergomi, legale di Ahmadi Arial, marocchino di 36 anni, riferisce «che a molti che si dice abbiano partecipato alla rivolta ora vengono negati i benefici, anche se non sono indagati e non hanno procedimenti disciplinari in corso. Uno di loro è stato riportato in carcere mentre stava scontando la pena ai domiciliari per il sospetto che abbia partecipato perché nella sua cella con altre 3 persone è stato trovato un coltello rudimentale e si trovava nella zona dove hanno sfondato il cancello. “Lo abbiamo fatto perchè bruciava tutto, mi ha assicurato, negando che il coltello fosse suo”». Un aspetto da chiarire è quello delle visite mediche, obbligatorio per autorizzare il trasferimento. In un’informativa inviata al Parlamento, l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Basentini, scrive che gli agenti «riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti». Non si fa cenno in questo passaggio ad alcuna visita medica.

Estratto dell’articolo di Damiano Aliprandi per ildubbio.news il 19 dicembre 2020. Cinque detenuti del carcere di Modena, oltre a essere vittime di pestaggi nonostante si fossero consegnati senza nemmeno aver partecipato attivamente alla rivolta di marzo, testimoniano di aver visto caricare «detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone». […] I cinque detenuti hanno deciso di metterci la propria faccia tramite un esposto alla procura di Ancona. Trasferiti al carcere di Ascoli Piceno dopo la cosiddetta rivolta, il caso vuole che dopo la loro denuncia sono stati rimandati nel penitenziario di Modena, teatro delle rivolte e delle morti di marzo, ma in celle di isolamento senza permettere colloqui con gli avvocati e chiamate con i famigliari. Solo dopo la segnalazione alle autorità da parte dell’associazione Yairaiha Onlus, che si sta occupando del caso, sono state concesse le prime chiamate con i propri cari. Uno di loro ha raccontato al proprio famigliare che si troverebbe al freddo, senza coperte e al dire della sorella mostrerebbe sintomi di raffreddamento. I familiari dei detenuti Claudio Cipriani, Bianco Ferrucci e Mattia Palloni – così si chiamano tre di coloro che hanno deciso di denunciare – si sono rivolti all’associazione Yairaiha Onlus esprimendo forte preoccupazione per la coincidenza del trasferimento avvenuto a seguito della presentazione del loro esposto. Non solo. Alcuni familiari hanno riferito all’associazione di minacce indirizzate da alcuni agenti del carcere di Ascoli Piceno ai propri cari a seguito della denuncia in procura. […] Sottolinea sempre Yairaiha: «Anche l’isolamento disciplinare presenta non pochi elementi di dubbia legittimità, così come il trasferimento in sé lascia perplessi essendo stato depositato un esposto in cui si chiede di far luce su fatti gravissimi che mettono in discussione l’operato di alcuni agenti e la ricostruzione ufficiale degli eventi che hanno attraversato le carceri di Modena e Ascoli Piceno nei giorni dall’8 al 10 marzo e la morte del signor Salvatore Piscitelli Cuomo». Ma chi è quest’ultimo detenuto e cosa gli sarebbe accaduto secondo la versione fornita dai detenuti che ne sono stati testimoni? Per capire meglio, vale la pena riportare l’altra verità dei fatti sulle rivolte di marzo e le 13 morti, ufficialmente, per overdose. Nell’esposto i detenuti dichiarano di essersi trovati coinvolti seppure in maniera passiva nella rivolta scoppiata l’8 marzo presso il carcere di Modena. Dicono di aver assistito ai metodi coercitivi messi in atto non solo da parte di alcuni agenti penitenziari di Modena, ma anche da quelli provenienti dalle carceri di Bologna e Reggio Emilia. Oltre ad aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo, avrebbero caricato dei detenuti in palese stato di alterazione psichica dovuta da abusi di farmaci a colpi di manganellate al volto e al corpo. Secondo l’esposto, sarebbero coloro che poi sono morti. «Noi stessi – si legge sempre nell’esposto – siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e private delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna». Gli agenti– a forza di manganellate – li avrebbero fatti salire sui mezzi per condurli al carcere di Ascoli dove sarebbero stati nuovamente picchiati anche da alcuni agenti del carcere di Bologna. Alla classica visita medica, a molti di loro non gli avrebbero neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessero lesioni corporee. Denunciano che la mattina seguente al loro arrivo, e nei giorni seguenti, sarebbero stati picchiati con calci, pugni e manganellate all’interno delle celle per opera «di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria». La parte più tragica del loro racconto riguarda la vicenda di Salvatore Piscitelli, per gli amici Sasà. Parliamo di uno dei 4 detenuti morti dopo o durante i trasferimenti. Ricordiamo che in tutto sono nove i morti del carcere di Modena. Nelle celle ne sono stati ritrovati cinque senza vita: si chiamavano Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi e Slim Agrebi. Mentre i rimanenti 4, trasportati in altre carceri quando erano ancora in vita, si chiamavano Abdellah Rouan, Ghazi Hadidi, Arthur Isuzu e Salvatore Piscitelli. Quest’ultimo, secondo i detenuti testimoni dell’accaduto, sarebbe deceduto nel carcere di Ascoli senza essere trasferito subito in ospedale nonostante presentasse sintomi e urlasse dal dolore. Ma come sarebbero andati i fatti? «Già brutalmente picchiato presso la C.C di Modena e durante la traduzione – si legge nell’esposto in procura – arrivò presso la C.C di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti». I testimoni sottolineano di aver fatto presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e che necessitava di cure immediate. Ma non vi sarebbe stata risposta alcuna. La mattina seguente, il nove marzo, sarebbe stato fatto nuovamente presente che Sasà non stava bene e che emetteva dei versi lancinanti. «Verso le 9 del mattino – si legge nell’esposto – furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico. Qualcuno sentì un agente dire “fatelo morire”, verso le 10:00 – 10:20 dopo molteplici solleciti furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo». Testimoniano che fu sdraiato sul pavimento, l’infermiera avrebbe provato a fargli una iniezione «ma fu fermata dal commissario che gli fece notare che il ragazzo era ormai morto». Messo in un lenzuolo, viene successivamente portato via. «È inopinabile che vi siano stati dei disordini – denunciano nell’esposto -, ma nessuno di noi è stato interrogato o sentito come persona informata sui fatti». I detenuti traggono anche una riflessione. «Il sistema carcere è in evidente stato di crisi vivendo condizioni di sovraffollamento e degrado. In maniera tacita e accondiscendente tende a sminuire e tollerare atteggiamenti violenti e repressivi ad opera di chi indossando una divisa dovrebbe rappresentare lo stato». Concludono amaramente: «È chiaro che si tratta di una minoranza, ma non vi sarà mai una riformabilità efficace». Ricordiamo ancora una volta, che dopo l’esposto sono stati traferiti nuovamente al carcere di Modena, in isolamento. I famigliari si sono allarmati, per questo l’associazione Yairaiha ha subito segnalato la questione al Dap, al ministero della giustizia e al garante regionale e nazionale. Quest’ultimo si è subito attivato per verificare il loro effettivo stato di detenzione.

Da ansa.it - 29 settembre 2020. È quanto afferma il garante dei detenuti per la Campania, Samuele Ciambriello, che interviene sull'indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) che ha indagato, per reati di tortura e abuso di potere, 57 agenti della penitenziaria.Il 6 aprile scorso, in pieno lockdown, si sarebbero resi responsabili di pestaggi e violenze ai danni di decine di detenuti del Reparto Nilo i quali la sera prima avevano dato vita ad una rivolta dopo aver appreso della positività di un detenuto. Dell'indagine parlano alcuni organi di stampa che riportano le parole di un ex detenuto, presente ai pestaggi di aprile, il quale ha confermato di aver visto le immagini dei pestaggi durante l'interrogatorio cui è stato sottoposto dopo l'uscita dal carcere; si tratta delle immagini acquisite dai carabinieri dalle telecamere di sorveglianza interne del carcere casertano, che avrebbero inchiodato i responsabili. "Forse gli agenti pensavano non funzionassero o, cosa ancora più grave - osserva Ciambriello - credevano di restare impuniti; ma così non è stato". Ciambriello sottolinea inoltre "che presunte vittime e agenti denunciati sono ancora nello stesso reparto, faccia a faccia tutti i giorni. Una circostanza che tiene il clima in carcere costantemente teso; non capisco perché il Dap non intervenga con i trasferimenti di detenuti o poliziotti".

Estratto dell’articolo di Nello Trocchia per “Il Domani” - 29 settembre 2020. Nella spedizione punitiva degli agenti penitenziari a Santa Maria Capua Vetere è stato preso a manganellate anche un detenuto in carrozzina. Un testimone: "Ho visto il video degli abusi". "Ricordo che c'era anche un detenuto sulla sedia a rotelle. Anziano e diabetico. Hanno colpito con il manganello anche lui. Di questa violenza c'è il video, l'ho visto". A parlare è l'ex detenuto che, insieme ad altre decine di persone, ha presentato denuncia per i fatti avvenuti, il 6 aprile, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il testimone, uscito dal carcere, racconta quanto accaduto e i video che ha visto durante l'interrogatorio al quale è stato sottoposto. Il 6 aprile scorso, un contingente di trecento agenti della polizia penitenziaria, provenienti da altri istituti di pena, è entrato nell'istituto e ha picchiato i detenuti. "Le guardie manganellavano quel disabile e gli urlavano: "ti mettiamo il pesce in bocca, non conti nu cazzo qua dentro e neanche fuori". Il detenuto in sedia a rotelle, legato a un clan perdente della camorra, è stato colpito sulle braccia nonostante la disabilità. Il pestaggio è documentato anche da un video agli atti dell'indagine. Ci sono anche immagini di reclusi inginocchiati, trascinati, picchiati da quattro, cinque poliziotti. Il testimone ha ricostruito anche la catena di comando e chi c'era quel giorno.  […] Uno degli agenti aveva i guanti rossi, l'hanno ribattezzato "l'animale": "Picchiava forte, era incontrollabile", dice il testimone. Molti avevano i volti coperti, tranne gli agenti interni. Il testimone ha riconosciuto, per esempio, la commissaria di reparto. "Guardava mentre ci massacravano, ma non interveniva, un ragazzo detenuto di vent'anni mi ha detto "poteva essere mia madre, ma non ha mosso un dito". Gli interni erano presenti, ma assenti: "Alcuni ci dicevano "questi sono i fanatici, abbassate la testa e incassate". Emergono così altri particolari inquietanti su quella giornata. C'è il caso di un detenuto che viene pestato e, successivamente, messo in isolamento. Era già malato, è morto a inizio maggio, un mese dopo la galleria degli orrori. Quella perquisizione straordinaria era finalizzata anche alla ricerca di oggetti contundenti, presumibilmente usati nelle proteste dei giorni precedenti. […]

Carcere: suicidi, pandemia e sovraffollamento…Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'11 agosto 2020.  Tutti i numeri della tragedia carcere nel rapporto Antigone: e nel 2020 già 34 suicidi, di cui il 20% tra detenuti giovanissimi. Per il Coronavirus hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari. Ma con la popolazione carceraria in aumento, resta il pericolo di nuovi contagi. «Sofferenza» è la parola chiave del pre-rapporto di metà anno redatto dall’Associazione Antigone sulle carceri. In primo luogo la sofferenza della malattia, quella caratterizzata dal Covid 19, per come è stata percepita dai detenuti osservando i bollettini provenienti dal mondo esterno. La sofferenza della solitudine, dell’abbandono, quella dettata dalla stagione estiva e quindi del caldo insopportabile che diventa sempre più insostenibile all’interno delle celle. La sofferenza psichica che in carcere si amplifica a dismisura e può portare al suicidio. Durante la presentazione del pre-rapporto, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, ha elencato tutte queste sofferenze che vivono i reclusi, compresa quelle indotte, ovvero quelle fisiche commesse da alcuni agenti penitenziari che ora la legge ha contemplato con il reato di tortura. «Proibire e reprimere la tortura – ha osservato Gonnella – vuol dire essere coerenti con la legge interna e quella internazionale». E quindi, ha aggiunto il presidente di Antigone, «sarebbe importante che, quando il procedimento va avanti, lo Stato con le sue forme si costituisca parte civile, perché sarebbe un segnale importante». Gonnella, in sintesi, ha spiegato che per ridurre il tasso di sofferenza, ci vuole «uno Stato forte che non si autoassolva e rompa con la retorica delle mele marce». A proposito di suicidi, il presidente di Antigone ha sottolineato che l’anno scorso, in questo periodo, erano stati 26, quando la popolazione reclusa era di varie migliaia di unità in più. Ora, nello stesso periodo siamo invece arrivati già a 34 suicidi. Il 20% di questi aveva fra i 20 e i 29 anni (i due più giovani ne avevano solo 23), il 43% ne aveva fra i 30 e i 39, per entrambe le fasce d’età 40-49 e 50-59 troviamo il 17% dei suicidi, il detenuto più anziano aveva 60 anni. Il 40% dei suicidi è avvenuto in un istituto del nord Italia, il 36% al sud e il 23% al centro; in tre istituti sono avvenuti due suicidi: Como, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. Gonnella ha ricordato che ultimamente si sono ammazzati ragazzi giovani per i quali probabilmente il carcere non sarebbe stata la giusta opzione. «Per questo – ha spiegato Gonnella – vorremmo dedicare questo pre-rapporto al giovane rapper Jhonny Cirillo, morto suicida nel carcere di Fuorni. Un ragazzo che, sì, aveva commesso un reato, ma la sua biografia richiedeva un’attenzione sociale ben diversa dall’imprigionamento, esito di una giustizia cieca e burocrate. Jhonny andava aiutato, sostenuto e non incarcerato». Il presidente di Antigone ha concluso, infine, con un auspicio, ovvero che il tasso di sovraffollamento non ricominci a crescere e che, al contrario, si riduca ancora di più.

In aumento il numero dei detenuti. Nel pre-rapporto, Antigone spiega che l’8 marzo entravano in vigore, con il decreto “Cura Italia”, le prime misure atte a contenere i numeri della popolazione detenuta per contrastare la diffusione del Coronavirus in carcere. Nei mesi successivi le presenze, che peraltro già prima di queste misure erano iniziate a calare, raggiungevano a fine aprile le 53.904 unità. Tre mesi dopo, a fine luglio, le presenze in carcere, con 53.619 unità, restano sostanzialmente stabili. Il tasso di affollamento ufficiale si ferma per ora al 106,1% (era del 119,4% un anno fa) ma in ben 24 istituti supera ancora il 140% ed in 3 si supera il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%). Il reale tasso di affollamento nazionale – si legge nel documento di Antigone – è inoltre superiore a quello ufficiale in quanto alcune migliaia di posti letto non sono attualmente disponibili a causa della chiusura dei relativi reparti. In un anno le presenze sono calate in media dell’11,7% ma il dato a livello regionale è molto disomogeneo: -19,8% in Emilia-Romagna, -15,2% in Campania, -13,9% in Lombardia, -11,0% in Piemonte, -7,4% in Sicilia, -7,3% in Veneto. Le Marche sono l’unica regione in Italia in cui la popolazione detenuta è aumentata nell’ultimo anno, con una crescita dell’1,1%.Secondo Antigone è necessario che si scenda a breve sotto i 50 mila detenuti per garantire spazio e distanziamento fisico.

I casi totali di contagio all’interno delle carceri. Secondo gli ultimi dati disponibili i casi totali in carcere fino al 7 luglio sono stati 287 con un picco massimo nella stessa giornata di 161 persone positive. Un numero contenuto, ma secondo Antigone da non sottovalutare: in rapporto al totale della popolazione detenuta è infatti superiore, sebbene di poco, al tasso di contagio nel resto del paese. Le misure prese a marzo a livello periferico sono state determinanti. «Non deve tornare l’affollamento in carcere – osserva Antigone-, altrimenti si rischia di trasformare queste ultime in luoghi fortemente a rischio, come lo sono state le Rsa».Focolai si sono riscontrati a Saluzzo, Torino, Lodi (poi trasferiti a Milano), Voghera, Piacenza, Bologna e Verona. Lunghi alcuni decorsi della malattia, che hanno raggiunto anche i tre mesi. Per il Coronavirus hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari. Più che in passato sono disponibili per personale e detenuti dispositivi di protezione individuale. Antigone, con il sostegno di Cild, ha donato migliaia di mascherine alle direzioni dei seguenti istituti: San Vittore Milano, Trieste, Bari, Rebibbia Nc, Regina Coeli nonché case famiglia per detenute madri e comunità dove sono ristretti minori.

Un detenuto su cinque deve scontare un solo anno di pena. Secondo i dati rilevati da Antigone, Il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore ad un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni per un totale di 18.856 detenuti. Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%. Sono percentualmente aumentati i detenuti per i reati più gravi, a seguito delle scarcerazioni avvenute tra marzo e maggio di persone con pene brevi. I presenti con una condanna definitiva superiore ai 10 anni, ergastolani inclusi, erano a fine giugno 2019 il 26,8%, dei presenti totali. A fine giugno 2020 erano il 29,8%. Al 30 giugno erano 7.262 i detenuti reclusi per associazione di stampo mafioso (416-bis): soltanto 128 erano donne e 176 stranieri. Al 6 novembre 2019, ultimo dato ufficiale disponibile, le persone sottoposte al regime speciale di cui il 41bis erano 747 (735 uomini e 12 donne), a cui devono aggiungersi 7 internati, per un totale di 754 persone distribuite in 11 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza. Aumenta anche l’età media. I detenuti con più di 50 anni erano il 25,2% a fine giugno 2019, mentre un anno dopo erano il 25,9% dei presenti.

Puntare sulle pene alternative farebbe risparmiare 500 milioni di euro. Un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa (costi che comprendono la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno. Per questo secondo Antigone si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena. Ma nel frattempo crescono i numeri dei reclusi in custodia cautelare. A fine aprile 2020, calate notevolmente le presenze in carcere, i definitivi erano il 68,8% dei presenti (il 66% dei soli stranieri). Nonostante le misure deflattive previste riguardassero solo i detenuti con una condanna definitiva, la percentuale di persone in custodia cautelare in questo intervallo era addirittura leggermente calata, ed il calo era più significativo tra gli stranieri. A fine luglio 2020 aveva una condanna definitiva il 66,8% dei presenti (il 64,8% tra i soli stranieri). In pochi mesi dunque, nonostante la popolazione detenuta nel suo complesso sia sostanzialmente invariata, continuano a calare i definitivi ma aumentano le persone in custodia cautelare, segno che sono tornati ad aumentare gli ingressi in carcere.

Cala la presenza degli stranieri in carcere. Sono 17.448 gli stranieri in carcere al 31 luglio 2020, per una percentuale pari al 32,5% del totale della popolazione detenuta. Tale percentuale – si legge nel pre- rapporto di Antigone – raggiungeva il 37% nel 2008, quando (al 31 dicembre) gli stranieri detenuti erano 21.562. Al 31 luglio 2020 i 5 istituti penitenziari con il maggior numero di detenuti stranieri in termini assoluti erano: la CC di Torino (663 detenuti stranieri, 48,4% sul totale), la CC di Milano San Vittore (542 detenuti stranieri, 58,3 % sul totale), la CC di Roma Regina Coeli (496 detenuti stranieri, 49,5% sul totale), la CC Firenze Sollicciano (494 detenuti stranieri, 66,8% sul totale) e la CC di Roma Rebibbia NC (466 detenuti stranieri, 32,9% sul totale). Di questi 5 istituti, solo Firenze Sollicciano rientra tra i primi dieci con la più alta concentrazione in percentuale di stranieri, attestandosi al sesto posto. I primi cinque istituti per percentuale di stranieri sono due case di reclusione sarde, Onanì dove l’81,7% dei detenuti è di nazionalità non italiana e Arbus Is Arenas dove gli stranieri rappresentano l’80,9%del totale dei reclusi. A seguire le case circondariali di Bolzano (70,1%) Aosta (68,4%) e Padova (67,4%). Le cinque regioni con la più alta presenza in percentuale di stranieri detenuti negli istituti penitenziari sono la Valle d’Aosta (68,4%), il Trentino Alto Adige (63,1%), la Liguria (53,1%), il Veneto (53%) e la Toscana (49,9%). Sono comunque ben sopra la media nazionale (al 32,5% il 31 luglio 2020) l’Emilia-Romagna (48,3%), la Lombardia (43,7%), il Friuli Venezia Giulia (35,3%) ed il Piemonte (40,5%). Ben al di sotto della media nazionale la Calabria (18,4%), l’Abruzzo (17,6%), la Sicilia (18,7%), la Campania (13,6%), la Puglia (13,7%) e la Basilicata (12,3%). Per quanto riguarda le nazionalità più rappresentate all’interno dei nostri istituti di pena andiamo a distinguere tra popolazione reclusa maschile e femminile. Per quanto riguarda gli uomini, le cinque nazioni straniere più rappresentate sono (le percentuali sono da riferirsi sul totale dei detenuti non italiani): il Marocco (18,5%), la Romania (12,2%), l’Albania (11,7%), la Tunisia (10,2%), la Nigeria (8,6%).

Le donne recluse all’interno di carceri maschili. Quella femminile è storicamente una piccola minoranza, oggi – secondo Antigone – pari al 4,19% del totale. Negli ultimi trent’anni la presenza femminile in carcere è sempre oscillata tra i 4 e i 5 punti percentuali. Ma sono solo 4 gli istituti penitenziari interamente femminili in Italia, che ospitano in totale 554 donne. Ovvero un quarto della popolazione detenuta femminile. Ma Il resto delle donne si trovano nelle 43 sezioni femminili ubicate all’interno di carceri maschili, sparse in tutte le regioni del Paese, con capienze e modelli organizzativi molto diversi tra loro: la più piccola si trova a Paliano (Lazio) dove sono ristrette 2 donne.Le più grandi, che ospitano oltre cento detenute, sono Milano Bollate (118), Torino (110) e Firenze Sollicciano (114). Nel frattempo, al 31 luglio, ci sono ancora 33 bambini sotto i tre anni che vivono in carcere o negli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (Icam). Il gruppo più numeroso (8 bambini) si trova a Torino, 6 sono i bambini a Rebibbia femminile e 7 nell’ICAM di Lauro, in Campania. Le madri detenute con figli al seguito sono 31 (15 straniere e 16 italiane). A fine aprile i bambini detenuti erano 40 ed erano 59 a fine febbraio.

Braccialetti elettronici ancora insufficienti. Al 20 maggio le persone andate in detenzione domiciliare durante l’emergenza sanitaria erano 3.379. Di queste, a 975 era stato applicato il braccialetto elettronico (Fonte: Garante nazionale). I braccialetti elettronici diventati operativi negli ultimi mesi, secondo Antigone sono molti meno di quelli promessi nell’accordo tra ministeri dell’Interno e della Giustizia (300 a settimane), a conferma che si tratti di una misura costosa e di difficile applicazione.

l fantasma del carcere si chiama suicidio: nel 2020 in 34 si sono tolti la vita in cella. Alessio Scandurra su Il Riformista il 12 Agosto 2020. L’emergenza coronavirus è diventata l’ordinarietà, dentro e fuori dal carcere. Ed il sistema penitenziario italiano affronta questo agosto anomalo facendo i conti con la vita in carcere ai tempi del coronavirus. L’apice della crisi è passato, ma non senza lasciare ferite: 287 contagi in tutto ad inizio luglio ed 8 morti, 4 tra i detenuti, 2 tra il personale di polizia e 2 tra quello medico. Poteva andare molto peggio ma le misure di prevenzione, le limitazioni dei contatti con l’esterno ed il calo della popolazione detenuta hanno evitato che questo accadesse: a fine luglio c’erano nelle nostre carceri 53.619 persone, 7.611 in meno rispetto alla fine di febbraio. Le misure per il contrasto al sovraffollamento hanno dunque funzionato, ma abbiamo ancora più detenuti che posti regolamentari (50.588 in tutto, mentre i posti effettivamente disponibili sono almeno 4.000 in meno), mentre le misure adottate erano a tempo, e sono venute meno il 30 giugno. Da un momento all’altro dunque i numeri potrebbero tornare a crescere. Il tasso di affollamento ufficiale si ferma intanto al 106,1%, gli istituti più affollati sono Larino (178,9%), Taranto (177,8%) e soprattutto Latina (197,4%), mentre le regioni più affollate sono la Puglia (127,2%), il Friuli-Venezia Giulia (129,3%) ed il Molise (144,4%). Il contrasto al virus per ora ha almeno in parte funzionato, ma non tutto è andato per il meglio durante questa difficile prova. Da una parte va segnalato il numero dei suicidi, 34 dall’inizio del 2020, un numero molto alto rispetto agli anni passati, equivalente a più di 10 volte il tasso di suicidi della popolazione libera, certamente legato anche all’ansia per sé e per i propri cari, ansia che, come in molti, medici e detenuti, ci hanno testimoniato, in questi mesi ha raggiunto livelli eccezionali. Ma sono cresciute moltissimo in questo periodo anche le segnalazioni ricevute da Antigone per presunti maltrattamenti e violenze. Da Milano, Melfi, Santa Maria Capua Vetere e Pavia ci sono arrivate notizie di rappresaglie da parte di elementi del personale di polizia penitenziaria ai danni di persone che avrebbero organizzato o partecipato alle rivolte di Marzo. Durante le rivolte sono stati commessi dei reati, ai quali bisogna rispondere con le indagini e con i processi. Non con violenza arbitraria che, se venisse accertata in giudizio, configurerebbe veri e propri casi di tortura. Le indagini sono attualmente in corso e andranno seguite con attenzione. Intanto, come dicevamo, il carcere si adatta a questa nuova normalità. Sono ripresi i colloqui con i familiari quasi ovunque ma in molti istituti, per prevenire i contagi, si autorizza un solo familiare. In altri due o a volte anche tre, secondo una logica non troppo chiara. Continua anche l’uso delle videochiamate, che sono state utilissime per limitare in questi mesi l’isolamento e la preoccupazione dei detenuti. Queste però vengono sempre più autorizzate in alternativa ai colloqui, non in aggiunta a questi, costringendo i detenuti a scegliere ad esempio se passare un’ora di colloquio con il proprio partner o un’ora di videochiamata con quei membri della propria famiglia i quali, perchè troppo giovani o troppo anziani, non possono affrontare il viaggio a volte lunghissimo per andare al colloquio. Ci auguriamo davvero che al più presto si decida, per favorire i rapporti con i familiari come sempre si dice di voler fare, che questo limite venga rimosso. I mesi passati hanno dimostrato come è possibile farlo. Così come è possibile allargare l’uso delle videochiamate oltre i colloqui con i familiari. L’esperienza della didattica a distanza in carcere non è andata benissimo, soprattutto per limiti tecnici. Le risorse (PC, tablet, internet, etc.) erano limitate e sono state usate soprattutto per favorire i contatti con i familiari. Ma da qualche parte sono state usate anche per altre attività, didattiche o formative, e si è trattato di esperienze certamente positive da preservare e moltiplicare, non certo da archiviare.

L’ex boss Pasquale De Feo: le “piccole” ingiustizie in cella. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 agosto 2020. La drammatica lettera di un detenuto sepolto in carcere dal 1983 a cui hanno tolto il computer che lo ha aiutato con gli studi universitari. Gli ritirano il computer che lo ha aiutato con gli studi universitari, per accumulare un patrimonio culturale che lo ha fatto chiudere con il passato. Così come, tempo prima ha dovuto subire un torto riconosciuto in seguito dal magistrato di sorveglianza. In sostanza – dopo anni di 41 bis – lui è da tempo in regime AS1, non ha la censura e quando ha fatto i piego libri per spedire appunto i libri o i giornali, in maniera non corretta gli hanno applicato la procedura del pacco. Quindi ispezione, magazzino e gli inevitabili tempi lungi. Ma il piego di libri è corrispondenza, non un pacco. Parliamo di Pasquale De Feo, nato in provincia di Salerno, il 27 gennaio 1961, recluso dal 20 agosto 1983 quando aveva appena 22 anni. Sta scontando la pena dell’ergastolo ostativo in un carcere della Sardegna, sepolto vivo fra sbarre e cemento. Ha scritto una lettera all’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che prontamente l’ha rigirata a Il Dubbio affinché il mondo esterno capisca quanto sia complicato vivere la quotidianità in carcere. Piccole cose, per noi insignificanti, ma che tra le quattro mura diventano fastidiosissime e creano angoscia. «Io credo che la galera – spiega a Il Dubbio Carmelo Musumeci -, così com’è, sia un’istituzione criminogena e oltre a farti perdere la libertà, la gestione della tua vita e spesso anche dei tuoi pensieri, ti spoglia della tua identità. Il carcere ti disinsegna a vivere. Quasi sempre rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia, un luogo di esclusione e di annullamento della persona umana: dietro la vuota retorica di risocializzazione, di rieducazione, si nasconde in realtà una vita non degna di essere vissuta». Carmelo continua a sostenere che, nella maggioranza dei casi, in carcere il Diritto e i diritti dei detenuti sono calpestati e la legge è solo un’arma del potere, ad uso e abuso di tante ‘ mele marce’. «In più di un quarto di secolo di prigione – continua Musumeci -, ne ho viste di tutti i colori e adesso che per fortuna sono libero ( o quasi) sono comunque informato tramite le lettere dei miei ex compagni e capisco che le cose, invece di migliorare, sono peggiorate». Qui di seguito la lettera di Pasquale De Feo, direttamente dal carcere sardo di Massama, ad Oristano.

«Caro Carmelo, lo sai anche tu, le lettere che ricevi in carcere sono gocce di vita e in trentasette anni di carcere mi hanno aiutato a sentirmi ancora umano. Adesso in questo lager vogliono farmi accettare che la corrispondenza, sia in arrivo che in partenza, tramite le buste A4 e A5 devono essere considerati come pacchi postali. Come sai, la procedura per spedire o ricevere un pacco è diversa, costosa e complicata, sia per gli agenti che per i detenuti. Senza contare che le spedizioni postali “piego di libri” ( contenente libri, riviste, carte processuali ecc.) si affrancano con euro 1,28 centesimi ed è un servizio delle poste per consentire alla cultura di avere più facile diffusione. Perché in questo carcere i detenuti non ne possono usufruire? Mi hanno ordinato di spedire e ricevere la corrispondenza “Piego di libri” come se fossero dei pacchi. Io mi sono rifiutato e ho inoltrato reclamo al Magistrato di sorveglianza. Il Magistrato di sorveglianza mi ha dato ragione. Dopo appena mezzora che mi avevano consegnato le buste, mi hanno fatto una perquisizione in cella e in un libro hanno trovato un cd regolarmente allegato, come capita in tanti libri, e con questa scusa mi hanno ritirato il computer. Devi sapere che qui qualsiasi cosa arrivi da fuori passa sotto lo scanner ( come quelli dell’aeroporto), se dentro una busta di corrispondenza risulta qualcosa che non è cartaceo, viene chiamato il recluso e gli dicono che bisogna aprire la busta perché c’è un oggetto non consentito. A tutti noi reclusi è capitato qualche volta, anche a me. Lo scanner è computerizzato, pertanto tutto viene registrato nel suo hard disk. Basterebbe controllare il computer dello scanner, per appurare che l’addetto al servizio sapeva del cd del libro, ma ora l’hanno usato come pretesto per ritirarmi il computer. Ti puoi immaginare come mi sento. Il computer lo uso per i miei studi universitari, per cercare di alimentare la mia conoscenza, consentendomi con il patrimonio culturale accumulato di poter dare una svolta alla mia vita e chiudere con il passato».

 Il carcere è una vendetta irrazionale e premoderna. Il Dubbio l'1 agosto 2020. Nel suo saggio “Il colore dell’inferni”, Umberto Curi si chiede se il sistema penale moderno sia uscito dalla logica della vendetta. E poi: “Perché una società che si ritiene avanzata sente l’esigenza di infliggere una sofferenza a un proprio membro al fine di rispondere alla sofferenza che egli ha provocato?” In uno scenario in cui la retorica securitaria impera e trova sosta solo nella monotona soluzione carceraria, alla barbara invocazione di “gettar via le chiavi”, una riflessione sulla prigione e, in generale, sul sistema penale risulta già di per sé preziosa. Se poi una simile riflessione procede da un lungo lavoro di ruminazione filosofica e tende non solo a una riforma presuntamente umanitaria della pena ma a un sovvertimento della razionalità con cui si intendono le relazioni sociali, anche quelle con gli individui fragili e rei di aver sbagliato, allora essa giunge come una insperata boccata di aria fresca dove le scorie intellettuali rendevano l’ambiente invivibile. E quello che il sistema penale occidentale, soprattutto nella sua connotazione punitiva e carceraria, richiede è davvero un ripensamento radicale. Sono assai note le ricerche che negli anni Settanta Foucault ha dedicato a questa realtà, interrogandosi sul suo profondo significato, ricercando la provenienza storica e portando alla luce la vera natura della punizione carceraria: essa, si può riassumere, si colloca al margine della dimensione sociale reputata normale e retta, ma instaura con essa uno stretto rapporto di interscambio. Una specie di catena di montaggio collega il dentro del carcere rispetto al fuori, alla città, alla libertà; o, viceversa, il dentro della società con quel fuori dove vengono esclusi i rifiuti umani. Al punto che non esistono davvero un dentro e un fuori; esiste bensì un complesso sistema che normalizza dentro il carcere ciò che poi si potrà operare fuori dalle sue mura: quella della sicurezza, quindi, è una mera illusione, rivelandosi piuttosto il movente grazie a cui si procurano le condizioni per un potere erosivo nei confronti dello stato di diritto. Ancora più in profondità si spinge Umberto Curi nel suo Il colore dell’inferno: una profondità che gli viene aperta dalla sua capacità di sondare un passato che non è solo quello cronologico della genealogia, bensì quello mitologico, che struttura in maniera inconsapevole ma pervicace il nostro pensiero. È lì che ci si può collocare, per interrogare il significato della punizione, il tipo di relazioni che essa conforma, il modello di società da cui essa può essere accolta con più o meno coerenza. In un serrato, ma accessibile, confronto con questi significati, Curi si pone delle domande che oggi non possono davvero più essere evitate se si vuol uscire dai paradossi che inquinano il nostro vivere collettivo. Fra tutte: il sistema penale moderno è uscito dalla logica della vendetta? Perché una società che si ritiene avanzata sente l’esigenza di infliggere una sofferenza a un proprio membro al fine di rispondere alla sofferenza che egli ha provocato? Non solo, come ci ha dimostrato Foucault nei decenni scorsi, la pena carceraria si rivela nociva anche per i membri dell’intero sistema sociale che la invoca. Sotto la lente di ingrandimento di Umberto Curi essa si dimostra irrazionale, incapace di produrre gli effetti che intende perseguire: un germe di irrazionalità all’interno di un sistema giuridico che si vorrebbe invece razionale e conseguente. Se interrogati sul senso della pena, spesso si fa appello alla categoria del merito: il reo merita la pena perché trasgressore di una specie di contratto, proprio come nell’antico rapporto fra un debitore e il suo creditore per cui quest’ultimo poteva rifarsi sul corpo del debitore insolvente. La possibilità di infliggere un dolore rappresentava allora un godimento che retribuiva il creditore pur non risarcendolo della perdita, precisamente come fa oggi la privazione della libertà o della vita. Lo squilibrio provocato dalla trasgressione rimane invece intatto: dove risiederebbe quindi la razionalità della pena? Vi sarebbe infatti un barlume di razionalità se la pena riuscisse a cancellare il reato, a far come se non ci fosse mai stato e a reintegrare l’ordine universale. Si tratta di una pretesa dalla chiara origine mitico- religiosa, che tuttavia la religione cristiana ha abbandonato in favore della prospettiva della misericordia, mentre viene assunta con tutti i suoi paradossi da una illusoria concezione rieducativa della pena, che fa dello Stato il depositario di valori, obiettivi e universali cui ricondurre il reo. Uscendo da un dibattito tutto giocato dentro simili paradossi, l’analisi di Curi permette di prendere coscienza che il nostro di- ritto replica, solo ammodernandola e ricoprendola di una patina quasi umana, la logica della vendetta, ossia una logica capace di offrire un fugace e superficiale appagamento, ma del tutto impotente rispetto a quel senso di giustizia e di buona relazione che si muove nel profondo del vivere civile. Mettendo in luce la logica intima della pena, la proposta cautamente, ma acutamente, elaborata da Curi muove verso una definizione riparativa della giustizia: una prospettiva che superi la logica del castigo, e che rimetta in primo piano le figure in carne e ossa del reo e della vittima, considerandole come me mbri di una comunità, e impegnando il colpevole nella profonda e volontaria ricerca di soluzioni al conflitto, allo scopo di favorire la riparazione del danno e la riconciliazione delle parti. Si tratta di una proposta impegnativa e, per i meno ottimisti, perfino utopica; e tuttavia non mancano esempi e sperimentazioni in questo senso, volti cioè alla ricostruzione delle relazioni, al reinserimento anche di quegli individui più fragili che nel sistema attuale subiscono solo emarginazione, sospetto e odio, rimanendo incastrati in una coazione a ripetere i loro errori.

“La tortura in Italia esiste ed è un crimine del potere”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 luglio 2020. L’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti umani nel sistema penale ha prodotto un e-book scaricabile gratuitamente dal sito che approfondisce, sia dal punto di vista giuridico che empirico, le possibilità applicative della legge attualmente in vigore e dall’altro prova a fare luce sulle situazioni e i luoghi in cui il rischio di subire la tortura è più alto. La tortura esiste ed è un crimine del potere. L’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti umani nel sistema penale ha prodotto un e-book scaricabile gratuitamente dal sito che approfondisce, sia dal punto di vista giuridico che empirico, le possibilità applicative della legge attualmente in vigore e dall’altro prova a fare luce sulle situazioni e i luoghi in cui il rischio di subire la tortura è più alto. Al suo interno si possono leggere i contributi del garante nazionale Mauro Palma, l’avvocata Simona Filippi, Francesca Cancellaro, Giuseppe Mosconi, Gennaro Santoro, Federica Brioschi, Carolina Antonucci e Claudio Paterniti Martello. Nel 1989 l’Italia ratificò la Convenzione contro la tortura votata il 10 dicembre 1984 dall’Onu. Obbligo che l’Italia ha disatteso per quasi trent’anni. Le proposte di legge volte a riempire questo vuoto non sono mancate. Alcune erano promosse da Antigone, ma tutte, fino a luglio del 2017, si sono arenate in Parlamento. Il reato di tortura, dunque, in Italia esiste da poco. Non si può dire lo stesso della tortura che senza un reato specifico è sempre stato difficile perseguire. Nel primo capitolo dell’e-book si analizza il testo della legge sul reato di tortura. Se ne evidenziano i limiti ma anche le inaspettate possibilità interpretative. Nel secondo capitolo si ripercorrono alcuni dei processi in cui Antigone è coinvolta e che hanno un rapporto con la tortura. Nel terzo capitolo il Garante Mauro Palma sottolinea i fattori di rischio legati alla tortura nel contesto penitenziario, gli elementi critici da monitorare con più attenzione e l’importanza della prevenzione, oltre che del suo perseguimento in sede penale. Nel quarto capitolo ci si concentra sugli hotspot, in cui molti migranti vengono trattenuti senza alcuna convalida dell’autorità giudiziaria e in assenza di rimedi interni che permettano di denunciare maltrattamenti e condizioni di vita. Nel sesto capitolo si esplorano gli effetti dell’isolamento penitenziario e le ragioni per cui può essere dannoso. Nel settimo capitolo si presentano i risultati di una ricerca empirica sullo stato dei diritti durante la fase della custodia pre-cautelare, cioè dal momento dall’arresto a quello dell’udienza di convalida. Negli ultimi capitoli sono presentati i risultati di un’altra ricerca, volta a indagare se le Direttive dell’Unione Europea in materia di tutela delle vittime di reato siano andate a rafforzare le tutele di quei detenuti che restano vittime di violenza all’interno degli istituti penitenziari.

Muore suicida in carcere il rapper Johnny Cirillo, il dramma del 25enne. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Luglio 2020. Aveva deciso di farla finita lanciandosi sotto un treno. Non aveva avuto il coraggio e si era comprato una pistola. Questo anni fa. La forza l’ha trovata nel carcere di Fuorni, nel salernitano, domenica sera. Giovanni Cirillo aveva 25 anni. È il settimo detenuto a togliersi la vita negli istituti di pena della Campania nel 2020: già uno in più del 2019, rispetto al quale sono aumentati anche scioperi della fame e atti di autolesionismo. Il conflitto, il dramma, la tragedia si trovavano tutti nelle canzoni di Jhonny – «sono solo uno dei tanti con il chiasso dentro, spesso fuori sorrido ma dentro ho l’inferno» – in mezzo all’autotune, alla drum machine, alla retorica delle “tipe” e delle Balenciaga. Era nato in Italia, da madre di origine senegalesi con problemi di tossicodipendenza. Abbandonato dopo il parto, era stato adottato da una famiglia di Scafati. La pelle nera – raccontava in un’intervista a Cesena Today – era stata un problema fin dall’infanzia; era diventata emarginazione. E quindi l’alcol, la cocaina, il ricovero in una clinica e l’evasione, le prime avvisaglie di una tendenza suicida. «Munito di un coltello ho fatto una rapina in una gioielleria – ricordava – Dopo aver fatto razzia di tutto quello che avevo trovato sono fuggito in preda alle allucinazioni, ero fatto di cocaina. Con i Carabinieri alle calcagna mi sono arrampicato su un balcone e sono caduto. È stata una caduta tremenda, sono stato due giorni in coma». Era passato dall’ospedale al carcere ai domiciliari a una comunità a San Maurizio di Borghi. La Romagna lo aveva accolto e la musica lo aveva gratificato, dando un senso alla sua gioventù bruciata e un soprannome fastidioso: rapper della rapina. Lo scorso 9 gennaio di nuovo un arresto: rapina in una farmacia. Due settimane fa la revoca dei domiciliari, dai quali era evaso quattro volte. Il 20 luglio la condanna a quattro anni per rapina. Domenica 26 luglio il suicidio. «La vittima richiedeva con forza il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiche», fa sapere il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Problema endemico delle carceri all’inizio di luglio sollevato da due suicidi, nel giro di 48 ore, tra Poggioreale a Napoli e Santa Maria Capua Vetere. Alla carenza di personale – 17 psicologi, 23 psichiatri, 43 esperti – si aggiunge la quasi totale assenza in Campania di “articolazioni psichiatriche”: aree destinate a chi soffre di disturbi mentali. A Poggioreale 100 detenuti provenienti da istituti per la cura di patologie mentali vengono trattati come persone senza tali patologie. Il sostegno cui stava lavorando il carcere di Fuorni – autorizzati i colloqui – non ha scongiurato la tragedia. Si starebbe indagando anche sulla pista dell’istigazione al suicidio. «Né la famiglia né la società possono fornire una risposta all’altezza – lamenta Ciambriello – slegandola da altri interventi che devono essere garantiti fuori dagli istituti penitenziari, e cioè sul territorio. Il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire il carcere. Ciò è pericoloso perché in seguito a tali estremi gesti siamo portati erroneamente a individuare dei colpevoli a tutti i costi e a ricercare responsabilità che molto spesso sono ‘allargate’. Bisogna integrare i protocolli di prevenzione del rischio suicidario, adeguandoli ai bisogni delle nuove utenze». A livello nazionale sono stati 32 i suicidi negli istituti italiani. Il 5 agosto al provveditorato Regionale si terrà una riunione su questa strage silenziosa nelle carceri.

Giovanni “Jhonny” Cirillo era un rapper, si è ucciso nel carcere di Fuorni. Cesare Damiano su Il Dubbio il 29 luglio 2020. Aveva 25 anni Giovanni “Jhonny” Cirillo si è tolto la vita nel carcere campano di Fuorni. Con il suo, sono sette i suicidi dall’inizio dell’anno, solo in quell’istituto. Aveva 25 anni Giovanni Cirillo, in arte Jhonny, rapper di origini somale che domenica scorsa si è tolto la vita nel carcere campano di Fuorni. Con il suo, sono sette i suicidi dall’inizio dell’anno, solo in quell’istituto. Dai domiciliari per una rapina in farmacia era finito in carcere in seguito a un aggravamento della misura cautelare chiesto dalla Procura dopo quattro evasioni dall’abitazione. Non ha resistito e ha deciso di togliersi la vita. Grazie a Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, si viene a sapere che il giovane rapper richiedeva con forza il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiche. Il carcere, quindi, si rivela un fallimento. O meglio, una opzione mortale per quei ragazzi difficili. Giovanni, si viene a sapere proprio da un articolo dell’anno scorso pubblicato su La Città, quotidiano di Salerno e provincia, ha trovato nella musica una nuova vita, dopo un trascorso tra coca e criminalità. «Feci una rapina in gioielleria, ma fui arrestato poco dopo e portato in carcere, ebbi problemi di salute in successione, gravi problemi renali, ma riuscii a sconfiggerli», ha raccontato all’epoca, aggiungendo: «Fortunatamente mi concessero i domiciliari e poi l’ingresso in comunità di recupero. Fu dura all’inizio ma poi decisi di cogliere la palla al balzo e darmi una possibilità». Ed è nata lì la nuova vita. Giovanni iniziò così il suo percorso di rinascita e di riscatto che lo ha portato ad incidere il suo primo brano, “Serpe”, girato a Rimini con l’agenzia “Trasmetto.it”. Ma purtroppo non è una storia a lieto fine. Accade che, all’inizio di quest’anno, dopo un litigio familiare in cui lo stesso rapper, esasperato, avrebbe chiesto denaro per il pagamento di una bolletta, decide di rapinare una farmacia. Il suo tentativo, in realtà concluso con la fuga, è poi finito male con l’arrivo dei carabinieri che lo hanno bloccato ancora con i 600 euro rubati: il giovane aveva portato a compimento il suo proposito intascando i soldi al volo, minacciando i titolari con l’ausilio di una pistola giocattolo, prima di essere raggiunto dai militari e condotto in cella, con la successiva scarcerazione e remissione agli arresti domiciliari seguita alla piena confessione delle sue responsabilità. Poi, però, a causa dei suoi tentativi di evasione dai domiciliari, viene rispedito dentro in cella. Lì decide di togliersi la vita. Qualcosa non ha funzionato, forse la società stessa che non è stata in grado di farselo a carico. Eppure, secondo quanto riferito dal Garante, il giovane rapper chiedeva aiuto.

Torture nel carcere di Torino, rimossi dall’incarico direttore e comandante della Polizia penitenziaria. Il Dubbio il 28 luglio 2020. Minervini è stato messo a disposizione del provveditorato, mentre Alberotanza è stato distaccato ad Asti. Sono stati rimossi dall’incarico il direttore e il comandante della Polizia penitenziaria del carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, Domenico Minervini e Giovanni Battista Alberotanza. La decisione, confermano fonti del Dap, è stata adottata dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria: Minervini e Alberotanza sono tra i 25 indagati dell’inchiesta aperta a Torino su presunte violenze ai danni di detenuti reclusi nel penitenziario.

Minervini è stato messo a disposizione del provveditorato, mentre Alberotanza è stato distaccato ad Asti. Entrambi sono accusati di favoreggiamento, il direttore anche di omessa denuncia. Il nuovo direttore dovrebbe essere ora Rosalia Marino, che attualmente ricopre analogo incarico al carcere di Novara. Nell’inchiesta coordinata dal pm Francesco Pelosi sono 25 le persone indagate. I gravi episodi di violenza sarebbero stati commessi all’interno del carcere di Torino nel periodo compreso tra l’aprile del 2017 e il novembre del 2018. Il reato contestato è quello di tortura, in questo caso ai danni di detenuti, previsto dall’articolo 613 bis del Codice penale. «Ti dovrei ammazzare invece devo tutelarti», sarebbe una delle frasi che gli agenti arrestati con l’accusa di tortura e indagati dalla Procura di Torino rivolgevano ai detenuti. Le minacce si concretizzavano in perquisizioni definite dagli inquirenti «arbitrarie e vessatorie», devastazioni delle celle e vere e proprie spedizioni punitive con i detenuti che venivano presi a schiaffi, pugni, calci. «Ti renderemo la vita molto dura», la frase che si è sentito rivolgere uno dei detenuti prima di essere percosso. In un’altra occasione uno dei detenuti a Torino, in attesa di un Tso, sarebbe stato chiuso in uno stanzino e malmenato. E mentre lui urlava per il dolore gli agenti «ridevano». Parliamo dei sei agenti di polizia penitenziaria, in servizio presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno del capoluogo piemontese, che sono stati arrestati con l’accusa del reato di tortura ai danni di alcuni detenuti. L’indagine è scattata da una segnalazione di Monica Gallo, la Garante delle persone private della libertà personale del comune di Torino.

Violenze nel carcere di Torino: indagato direttore e capo delle guardie carcerarie. Il Dubbio il 21 luglio 2020. Per la procura il direttore del carcere di Torino e il capo delle guardie carcerarie avrebbero coperto le violenze. Concluse le indagini della Procura di Torino sulle presunte violenze, in alcuni casi torture, ai danni dei detenuti dl carcere del capoluogo piemontese "Lorusso-Cutugno". Nell’inchiesta coordinata dal pm Francesco Pelosi finiscono tra i 25 indagati anche il direttore Domenico Minervini e il capo delle guardie carcerarie Giovanni Battista Alberotanza che, secondo l’accusa, avrebbero sempre coperto gli episodi. Entrambi sono accusati di favoreggiamento, il direttore anche di omessa denuncia. I gravi episodi di violenza sarebbero stati commessi all’interno del carcere di Torino nel periodo compreso tra l’aprile del 2017 e il novembre del 2018. Il provvedimento, infatti, riguarda «plurimi e gravi episodi di violenza» commessi da agenti penitenziari ai danni di detenuti. Il reato contestato è quello di tortura, previsto dall’articolo 613 bis del Codice penale. «Ti dovrei ammazzare invece devo tutelarti», sarebbe una delle frasi che gli agenti arrestati con l’accusa di tortura e indagati dalla Procura di Torino rivolgevano ai detenuti. Le minacce si concretizzavano in perquisizioni definite dagli inquirenti «arbitrarie e vessatorie», devastazioni delle celle e vere e proprie spedizioni punitive con i detenuti che venivano presi a schiaffi, pugni, calci. «Ti renderemo la vita molto dura», la frase che si è sentito rivolgere uno dei detenuti prima di essere percosso. In un’altra occasione uno dei detenuti a Torino, in attesa di un Tso, sarebbe stato chiuso in uno stanzino e malmenato. E mentre lui urlava per il dolore gli agenti «ridevano». Parliamo dei sei agenti di polizia penitenziaria, in servizio presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno del capoluogo piemontese, che sono stati arrestati con l’accusa del reato di tortura ai danni di alcuni detenuti. È scattata da una segnalazione di Monica Gallo, la Garante delle persone private della libertà personale del comune di Torino, l’indagine che ha portato agli arresti degli agenti, ora ai domiciliari.

Torino, botte e umiliazioni ai detenuti: 25 indagati tra cui il direttore, contestato per la prima volta il reato di tortura. Pubblicato martedì, 21 luglio 2020 da Ottavia Giustetti su La Repubblica.it. Nel mirino soprattutto i reclusi con problemi psichici, spogliati, malmenati e minacciati nella famigerata "sezione X". E le denunce cadevano nel vuoto. Celle dedicate alla punizione dei detenuti con scompensi psichici. Venivano obbligati a spogliarsi e a gridare frasi come “Sono un pezzo di m...” mentre gli agenti li malmenavano con schiaffi e pugni, attrezzati di guanti per non lasciare i segni. “Figlio di p..., ti devi impiccare” urlava la guardia carceraria Antonio Ventroni al detenuto Daniele Caruso dopo averlo portato in infermeria. "In due gli sputavano addosso e lo colpivano con violenti pugni al volto, provocandogli un ematoma a un occhio, emorragia dal naso e una lesione a un dente incisivo superiore che, dopo qualche tempo, a causa di quel colpo cadeva". Decine di episodi a partire dalla primavera del 2017, denunciati prima dai detenuti e poi dalla garante di Torino, Monica Gallo, ma sempre ignorati a tutti i livelli. È l’intero "sistema carcere" a essere finito sotto inchiesta da parte del pubblico ministero di Torino Francesco Pelosi: inchiesta che si è chiusa con 25 indagati che vanno dal direttore della casa circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, Domenico Minervini, al capo delle guardie carcerarie, Giovanni Battista Alberotanza, ai rappresentanti del sindacato più attivo della polizia penitenziaria, l’Osapp. Violenze fisiche e vessazioni ai detenuti, denunciate in più occasioni, costano ai principali indagati l’accusa di tortura, per “condotte che comportavano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona detenuta”, reato mai contestato prima per le violenze all’interno del carcere. Favoreggiamento e omissione di denunce di reati sono invece le accuse per il direttore Domenico Minervini, il quale avrebbe sempre ignorato le lamentele e le segnalazioni della garante, lasciando che gli agenti agissero indisturbati. Erano le celle numero 209, 210, 229, 230 della X Sezione quelle prescelte per isolare i detenuti che davano segno di scompenso psichico, nonostante nel carcere di Torino esista una sezione apposita per quel tipo di problematiche. L’ispettore Maurizio Gebbia e altri agenti penitenziari portavano lì i reclusi per “punirli” nel silenzio generale che consentiva loro di eludere le indagini. E quando i detenuti erano troppo malconci e dovevano farsi visitare li minacciavano dicendo loro che “dovevano dichiarare che era stato un altro detenuto a picchiarlo, altrimenti avrebbero usato nuovamente violenza su di lui, così costringendolo il giorno successivo alle violenze a rendere in infermeria questa falsa versione dei fatti”, come è riepilogato nel documento di chiusura delle indagini.

Da corriere.it il 22 luglio 2020. Avrebbero fatto finta di non sapere, o di non vedere, nonostante i racconti di alcuni detenuti e le relazioni dell’allora Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo: per questo, il direttore e il comandante degli agenti del carcere «Lorusso e Cutugno» sono indagati per favoreggiamento (entrambi) e omessa denuncia (solo il primo). Avrebbero insomma coperto gli atti di violenza e vessazione di cui sono accusati una ventina di agenti della polizia penitenziaria, sei dei quali arrestati nell’ottobre dello scorso anno. Questa, almeno, è l’ipotesi della Procura.

La svolta. La svolta è arrivata grazie agli accertamenti del Nucleo investigativo di Torino della stessa polizia penitenziaria, che è riuscita a ricostruire la vicenda tra confidenze, sussurri, false piste e dicerie, che si aggiravano tra le mura del carcere già dall’ottobre 2018. Un’indagine complessa e complicata, in un ambiente molto difficile, sia per i detenuti che per chi, tra le celle, ci deve lavorare.

«Dici che sei un figlio di p...» L’inchiesta — coordinata dal pubblico ministero Francesco Pelosi — ha messo in fila gli episodi, almeno una decina, accaduti nel braccio C. C’è chi era costretto a ripetere in continuazione «sono un pezzo di m…», chi veniva obbligato a spogliarsi e a subire in silenzio schiaffi, calci, pugni. E poi minacce, di continuo: «Tu adesso devi firmare un foglio, dove dici che sei un figlio di p…, altrimenti prendi il resto». E ancora: «Per quello che hai fatto, tu qui ci devi morire. Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia di stare qui dentro». Botte, insulti, perquisizioni a vanvera, devastazioni delle celle erano diventati una routine. Davanti alla quale — sempre secondo la ricostruzione degli uomini del Nucleo investigativo — il direttore Domenico Minervini, 50 anni e il capo degli agenti, Giovanni Battista Albertotanza 46 anni, non avrebbero preso i dovuti provvedimenti. Il direttore — che ha nominato come difensore l’avvocato Michela Malerba — non avrebbe agito nonostante avesse ricevuto più di una segnalazione dal garante per i detenuti. E il comandante delle guardie — tutelato dall’avvocato Antonio Genovese — dopo essere stato informato di quanto accaduto, avrebbe aiutato i colleghi indagati.

Accuse di tortura. Tra le ipotesi d’accusa, anche quella di aver condotto un’indagine interna arrivata a incolpare però due detenuti. Su 21 agenti, a 17, a suo tempo messi agli arresti domiciliari, è contestato anche il reato di tortura, modificato invece nei confronti di altri. Alcuni, invece, sono accusati di lesioni. Tutte le «persone offese» individuate dagli investigatori, sono detenute per reati a sfondo sessuale. Non è un mistero per nessuno — spiegò un inquirente — che all’interno dei penitenziari reati come questi destino una certa ostilità: ma qui ci sarebbero stati «trattamenti inumani e degradanti per la dignità della persona detenuta», come riassunto nell’avviso di fine indagini notificato ai due. Comportamenti che sarebbe stati «ricorrenti»: si mormorava che, alla sera, nel padiglione C, qualche divisa si dedicasse con regolarità alla cura dei detenuti.

"Andiamo a divertirci", le intercettazioni delle guardie penitenziarie accusate di tortura. Pubblicato lunedì, 27 luglio 2020 da Ottavia Giustetti su La Repubblica.it. Il comandante aveva invitato i suoi a non parlare al telefono: "Credono più ai detenuti che a voi". Anche se il comandante Giovan Battista Alberotanza aveva avvisato i suoi uomini di non parlare al telefono, ogni tanto, nelle chiacchiere con i familiari, qualche allusione a come ci si divertiva dietro le sbarre del Padiglione dei sex- offender, alle guardie continuava a sfuggire. " Andiamo a dare i cambi che oggi mi sto divertendo ", diceva per esempio Simone Battisti alla fidanzata a metà mattina del 16 ottobre 2019. "A menà? ", ribatteva lei, come se quella fosse l'abitudine. Eppure il collega Vincenzo Di Marco, parlando con la madre all'indomani degli arresti, aveva spiegato che " il comandante dice "al telefono non dite niente, non fate niente, perché credono più ai detenuti che a voi"" e aveva tagliato corto la conversazione nella quale lei gli chiedeva se c'entrava qualcosa con l'inchiesta che aveva portato all'arresto di sei agenti della polizia penitenziaria, con l'accusa di tortura. L'intero carcere tremava. Per la prima volta venivano svelati all'esterno i metodi punitivi con cui erano trattati alcuni detenuti. E da un lato gli agenti si interrogavano, freneticamente, su dove sarebbe arrivata la procura di Torino ( l'inchiesta è coordinata dal pm Francesco Pelosi), dall'altro cercavano di correre ai ripari come potevano. " Bisogna dire ai ragazzi - diceva il comandante a un suo sottoposto il 4 novembre - di mettere d'accordo gli avvocati in modo da tenere la stessa linea". Il fatto è che gli uomini detenuti nel padiglione C delle Vallette erano colpevoli di aver commesso reati sessuali. Perciò i custodi della loro carcerazione si trasformavano quotidianamente in "giustizieri". "Ti ammazzerei e invece devo tutelarti " , era la frase tipica che si sentivano dire, come ha raccontato nella sua denuncia Daniele Caruso, così apostrofato dal commissario Maurizio Gebbia, il capo della " squadretta punitiva". Gli stavano praticando un trattamento sanitario obbligatorio e intanto gli agenti di Gebbia gli sputavano addosso e lo colpivano con violenti pugni al volto. Caruso dopo quell'episodio fu costretto a dichiarare che era stato un compagno di cella a picchiarlo, altrimenti sarebbero ritornati. Sempre a minacciarlo delle stesse umiliazioni e vessazioni. Sempre sotto la scure di un pestaggio. E quello di Caruso è solo un esempio, perché i trattamenti disumani erano all'ordine del giorno in quella sezione. "Si tratta di una gestione basata su una sistematica attività volta a instaurare un clima di intimidazione " , spiegano gli agenti del Nucleo investigativo della Polizia penitenziaria, che nelle indagini hanno ricostruito almeno undici casi come quello di Caruso. E, alla fine, hanno notificato 23 avvisi di garanzia agli agenti e, con accuse più lievi, al direttore del Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini ( favoreggiamento e omissione di denunce di reato) e al comandante Giovan Battista Alberotanza ( favoreggiamento) per aver ostacolato le indagini. Nulla di particolare era accaduto, in realtà. " Come avete fatto fino a ieri continuate a fare, adesso tutto è diventato coercitivo", commentava il dirigente sanitario, Antonio Pellegrino, in una telefonata di ottobre 2019 con Minervini. Però pian piano, a partire dal 2017, le vittime avevano trovato la forza per parlare. E gli interlocutori, soprattutto donne che venivano dall'esterno, hanno cominciato a segnalare quel che registravano. Fino anche a farsi revocare l'incarico, come è successo a due psicologhe. O a farsi indicare con frasi del tipo "quella grande p... della garante... spero che crepi " quando arrivava per i colloqui. Ma Monica Gallo non si è lasciata intimidire e, avendo capito che il direttore non interveniva, ha fatto emergere i fatti in procura. Qualche tempo dopo i primi sei arresti, si era suicidato in cella un detenuto con problemi psichici. Doveva essere sottoposto a sorveglianza continua Roberto Del Gaudio, che era stato arrestato dopo aver ucciso la moglie con 30 coltellate. Ma quando gli agenti erano arrivati alla sua cella era già morto, impiccato al letto con un lenzuolo. Parlando tra loro al telefono gli agenti commentavano che quel suicidio non sarebbe dovuto accadere, data la presenza di tre agenti in servizio. Ma nella VII sezione, dove stanno i detenuti con problemi psichici sottoposti a sorveglianza continua con telecamere, "era consuetudine - spiegavano - che gli agenti portassero le tessere della pay- tv da collegare ai monitor di sorveglianza per guardare la partita di calcio " . Ebbene, la sera dei suicidio si stava giocando la partita di serie A tra Juventus e Milan. E anche in quel caso la decisione fu di non denunciare nulla.

Giuseppe Legato per “la Stampa” il 23 luglio 2020. Ad agosto del 2019 la procura di Torino aveva già chiaro cosa stesse accadendo nella "pancia" del carcere Lorusso e Cutugno. Botte, sputi, pestaggi, umiliazioni ai detenuti. In una parola torture. Uno degli agenti indagati ha il telefono intercettato. Nelle cuffie degli investigatori finisce una chiamata alla fidanzata. «Oggi ci siamo divertiti. Sembrava un carcere di Israele degli anni Cinquanta». Lei domanda: «Li avete menati di nuovo?». Silenzio, pausa: «Sì». Secondo il pm Francesco Pelosi, titolare dell'inchiesta che scuote uno dei più importanti penitenziari italiani, è questo uno dei tanti casi in cui nemmeno si conoscono i nomi delle vittime. Ma dei presunti picchiatori di professione sì. «E la ventina di episodi emersi sono solo la punta di un iceberg» racconta un investigatore. Non potrebbe essere altrimenti a meno di non leggere ulteriori conversazioni finite agli atti dell'inchiesta: «Cosa vuoi che dicano? - dice uno dei secondini indagati a un collega -. Nemmeno li abbiamo portati in infermeria a farsi refertare. Vale di più la parola di un pedofilo o di un pubblico ufficiale?». Dunque altre lesioni, altre torture sarebbero avvenute e se non sono contestate nella lunga lista dei capi di imputazione notificati agli indagati è solo perché non si è raggiunto il livello necessario della prova contro qualcuno. Negli atti allegati al fascicolo emergono le riunioni che gli agenti tenevano per concertare insieme al loro comandante le versioni «dolosamente false» a discolpa per disinnescare le segnalazioni giunte al direttore. Il comandante li copriva. Quando il detenuto Diego Sivera segnalò le prime violenze, Giovanni Battista Alberotanza, comandante della polizia penitenziaria, avviò un'indagine interna. E andò a sentire il detenuto: «Lo sai - gli avrebbe detto in premessa - che se poi vieni smentito dagli agenti rischi di essere condannato per calunnia e dovrai stare in carcere ancora di più». Sivera ha colto il messaggio e ha rinunciato a raccontare. Lo ha fatto in seguito alla garante dei detenuti di Torino Monica Gallo che ha girato le segnalazioni al comandante e in copia alla procura. Oggi spiega: «Era un atto doveroso ascoltare i detenuti. E' il mio lavoro». Ma secondo le accuse sono in pochi ad avere fatto la propria parte. Non il direttore Domenico Minervini «che ha omesso di trasmettere le segnalazioni delle presunte violenze» e si sarebbe limitato a "spostare" periodicamente un ispettore indagato in altro settore. Né il comandante degli agenti, difeso dal legale Antonio Genovese. Che viene informato dell'esistenza di un'indagine da due sindacalisti. «Comandante hai il telefono intercettato» gli dice uno dei due. Chi li ha informati? Al momento non si sa. Si conosce invece un'altra inchiesta che inguaia altri 12 agenti della penitenziaria del carcere. Secondo il pm Vito Destito portavano droga e telefonini all'interno dell'istituto per cederli ad alcuni detenuti. Sono già stati interrogati nei mesi scorsi a attendono l'avviso di conclusione indagini.

Lodovico Poletto per “la Stampa” il 23 luglio 2020. L'italiano è approssimativo. I fatti no. E i calci dati con le scarpe pesanti della divisa sulla ferita non ancora guarita dell'operazione all'addome fanno male anche soltanto a sentirne parlare. «Io non posso stare malato in carcere con dolori da morire, per colpa di una guardia di quel brigadiere». E se anche la frase è sconclusionata il senso è chiaro: non posso morire qui dentro per colpa di quei due agenti che mi hanno preso a botte. La lettera è agli atti. L'ha scritta un uomo di origini marocchine, si chiama Mohamed Chikhi, ha 49 anni. Ha una condanna per omicidio e ancora tre anni da scontare. Ha una cella nel blocco B sezione decima. Il suo racconto, verbalizzato dai magistrati che hanno scoperchiato il bubbone delle violenze nel carcere Lorosso e Cutugno di Torino; e anche se questa non è una storia di torture nel senso stretto del termine è una storia di violenza: gratuita. E di coperture. Mohammed racconta che era stato operato da poco per un'ulcera all'addome. A metà aprile dello scorso anno un giorno si sente male. Gli altri detenuti lo soccorrono e chiamano le guardie. Il blocco B è un posto dove tra detenuti c'è molta socialità. Si gira tra le celle. Mohamed è circostanziato: «La guardia è tornata con una pastiglia di Buscopan presa in infermeria: «Mi ha detto muori pezzo di merda e me l'ha buttata per terra». Mohamed reagisce. Dice: «Soltanto a parole». Il seguito è scontato. «Dopo un po' è arrivato il capo posto e mi ha detto che il brigadiere mi voleva vedere, e mi hanno portato da lui». Ed è qui, in una stanza al primo piano, che sarebbe avvenuto il pestaggio. «La guardia - racconta Mohamed - mi ha dato un calcio alla gamba e io sono caduto». E ancora: «Mentre ero a terra quello ha iniziato a darmi calci nella pancia e altre botte, proprio sulla ferita dell'operazione». Uno, due, tre: quanti non sa dirlo. Ma tanti, è sicuro. In carcere le regole sono chiare: i detenuti sanno che uno sbaglio si paga. Ma sanno anche che i graduati della polizia penitenziaria sono la garanzia che tutto avvenga senza problemi. Senza eccessi. Ecco, ciò che più lo indigna è il fatto che il brigadiere abbia lasciato fare: «Non ha alzato la mano per fermarlo, no niente». La storia è stata raccontata la prima volta dal detenuto all'avvocato Domenico Peila. Che conferma: «Dopo quel fatto sono accadute altre cose e il mio assistito si è visto negare la possibilità di accedere a permessi e benefici: un danno grave per lui». Il seguito è più o meno questo. Dopo il pestaggio il detenuto chiede una visita perché sta male: e vengono riscontrate lesioni. E chiede anche di andare a rapporto: vuole presentare una denuncia. E qui la questione diventa complicata. Agli atti non viene messo nulla. Mohamed viene riportato in cella, la denuncia mai formalizzata. E lui si ritrova pestato un'altra volta: denunciare, far aprire fascicoli e inchieste per vicende interne non è una buona pratica per il mondo che si agita dietro le sbarre. Non è una buona pratica e si paga cara. La storia di Mohamed è finita comunque negli atti dell'inchiesta torinese. Ci sono stati interrogatori e verifiche. La carte sono sul tavolo del magistrato; l'interrogatorio è uno dei mille atti di questi mesi d'inchiesta. Mohamed è ancora detenuto nel padiglione B, sezione decima. Non ha ottenuto i benefici in cui sperava: in galera basta una rapporto non favorevole per ritrovarsi nell'inferno. L'italiano è approssimativo, ma il concetto è chiaro: «Signor giudice se io non ho fatto del male a lui, perché lui ha fatto a me quelle cose con botte e calci? Tanti calci nella mia pancia, proprio dove mi avevano appena operato».

Le storie di Annamaria, Lucia e Liz: quando la pena è il riscatto. Marco Ruotolo su Il Riformista il 4 Giugno 2020. Lucia, Liz e Annamaria. Tre storie paradigmatiche, tre casi giurisprudenziali che si legano all’esperienza del Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. Sono storie di carcere, frammenti di umanità che si vanno ricomponendo. Sono il primo seguito ideale di quella straordinaria iniziativa della Corte costituzionale, di cui è data testimonianza nel docufilm di Fabio Cavalli. Lucia, nata con i caratteri sessuali maschili e all’anagrafe inizialmente iscritta con il nome di Luciano, si trova nel reparto “transgender” del carcere di Solliciano. Nel 2017 ha ottenuto dal Tribunale di Firenze la rettificazione delle generalità e del sesso sugli atti di stato civile e autorizzazione ad adeguare i caratteri sessuali mediante trattamento medico chirurgico. In questa fase di transizione – ad oggi l’intervento chirurgico non è stato effettuato – Lucia vorrebbe essere assegnata al reparto femminile. È una delle domande che rivolge nel film alla giudice costituzionale Silvana Sciarra e che si trasforma in istanza (tecnicamente reclamo) al magistrato di sorveglianza. In primo grado il reclamo è rigettato, ma Lucia non demorde e contesta questa decisione, finalmente ottenendo giustizia dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che il 18 febbraio 2020 ordina all’amministrazione penitenziaria di disporne l’assegnazione al reparto detentivo femminile, tra l’altro con specifica indicazione circa l’inderogabile necessità di rivolgersi alla detenuta Lucia al femminile e «con le modalità dovute ad una donna». Liz, giovane detenuta presso il carcere di Nisida, ha sulle spalle un provvedimento di espulsione da eseguire a fine pena. Chiede al giudice costituzionale Amato se sia giusto che dopo aver seguito un positivo percorso rieducativo debba tornare nella Repubblica Dominicana. La strada è in salita. Occorre ottenere la revoca del provvedimento di espulsione, trovare una comunità che sia disposta ad ospitarla a fine pena, assicurare continuità all’esperienza lavorativa già intrapresa. Con una comprensibile ansia per il futuro, Liz racconta la sua storia a Giuliano Amato in occasione del Viaggio, in un pranzo a Nisida al quale sono presente. Si attiva una straordinaria e virtuosa collaborazione, che vede il coinvolgimento di alcune associazioni e di Gennaro, un mio ex studente, oggi affermato avvocato. Gennaro “trova” nel testo unico sull’immigrazione la norma giusta, che consente l’attivazione di un programma di protezione e il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari a favore delle persone straniere che durante la minore età abbiano commesso un reato punito con pena detentiva e che abbiano intrapreso positivamente un “programma di assistenza e integrazione sociale” sostenuto dai servizi sociali competenti o da una associazione accreditata. Il 21 marzo 2019 Liz ottiene giustizia, è libera e la sua strada comincia ad essere in discesa. Grazie, anzitutto, a Gennaro, che ai tempi dell’Università si sosteneva gli studi lavorando in una pizzeria e nei cui occhi avevo visto allora un’ansia per il futuro non troppo diversa da quella oggi propria di Liz. Annamaria non è una detenuta. È la figlia ventunenne di una persona reclusa presso il carcere di Lecce. È affetta da idrocefalia, invalida al 100%. La mamma – il cui nome non viene detto nel film – racconta la sua storia alla giudice costituzionale Daria De Pretis, chiedendole se sia giusto che il nostro ordinamento le precluda di assistere sua figlia, che ha bisogno di lei almeno quanto un bambino in tenera età («non si sa lavare nemmeno le manine da sola»). La legge stabilisce, infatti, limiti legati all’età del figlio (dieci anni) per la concessione della detenzione domiciliare “speciale”, condizionando la stessa alla durata della pena. Questa volta la risposta viene dalla Corte costituzionale, con una sentenza del 14 febbraio 2020, della quale è redattrice la Presidente Marta Cartabia e che trae origine da vicenda analoga a quella raccontata nel film. La Corte afferma, finalmente, che le madri di figli gravemente disabili possono scontare la pena in detenzione domiciliare, quale che sia l’età del figlio e la durata della pena, sempre che il giudice non riscontri in concreto un pericolo per la sicurezza pubblica. Per la mamma di Annamaria si apriranno probabilmente le porte del carcere. Ad avere giustizia, questa volta, è proprio Annamaria, figlia incolpevole, particolarmente bisognosa del rapporto quotidiano e delle cure della madre. Tre storie paradigmatiche, che contribuiscono a creare precedenti giurisprudenziali e che soprattutto ridanno alla pena la luce che la Costituzione vuole essa abbia. Una luce fatta di umanità e di rieducazione.

Dagospia  il 7 giugno 2020. ''Libero Quotidiano'' pubblica la prefazione di Vittorio Feltri al libro di Francesca Carollo «Donne in prigione si raccontano» (Wall of Dolls Onlus). Chi si immergerà in questo libro, sarà impressionato dalla capacità di immedesimazione dell' autrice. Francesca Carollo dentro il reparto femminile del carcere di San Vittore diventa una reclusa. Non è un trucco, un espediente giornalistico per spremere meglio le sue prede giornalistiche. No, si lascia sedurre da ciascuna di loro, è come se accettasse di lasciarsi invadere, e così a sua volta le seduce. Perché questo è il potere delle donne: aprono la porta della loro dimora interiore, tu entri, e sei in loro dominio. Un dominio che, a seconda della padrona di casa, ha tutte le gamme possibili del bello e del brutto. Attuano questa seduzione anche nelle amicizie, anche tra di loro. Francesca ha messo al servizio di un' opera di bene quest' arte con cui ha una dimestichezza senza malizia, direi con candore. Era il solo modo per non cadere nel manierismo pietista del giornalismo che per lavarsi la coscienza entra in carcere e beve tutto come oro colato, limitandosi a fare da eco acritico a ciò che ascolta. Oppure seleziona vicende che fanno comodo a tesi precostituite. Del tipo: il carcere peggiora tutti, la prigione è sempre una dannazione; oppure il contrario, e che cioè rappresenti sempre e comunque una strada di redenzione.

Dolcezze e Asprezze. Stavolta non è così. Ci sono chiaroscuri. Ci sono disperazioni e rimorsi, dolcezze e asprezze. C' è un mondo vero, di cui non sappiamo in realtà quasi nulla. Anzi, non sapevano quasi nulla, ma alla fine del volume sapremo qualcosa di più. E cioè che lì dentro, nelle celle, ci sono delle persone una diversa dall' altra. Persone recluse le quali a volte sono dentro per circostanze odiose esterne alla loro volontà (la schiava nigeriana), in altri casi violente per un demone cui hanno obbedito o forse le ha afferrate (c' è una ragazza che ha bruciato viva la propria sorella, e poi ha cercato di far lo stesso con la madre perché la sospettava), ma tutte meritano, oltre che la pena, una seconda possibilità. E questa diventerà un' ipotesi non solo teorica se il tempo di privazione della libertà sarà abitato da presenze umane capaci di voler bene e di trasmettere una passione per la vita. Questo è quel che ha fatto l' autrice. Mentre interrogava queste donne di ogni continente e religione, non era una presenza inerte, una specie di telecamera di sicurezza che tutto registra dall' alto, ma è stata anch' essa pienamente persona, capace di commuoversi, senza però mai perdere la percezione del bene e del male, del vero e del falso, e manifestando con loro una sincerità come di chi non sta sopra o sotto queste "criminali", ma alla pari. Quanti pregiudizi cadranno leggendo queste pagine. Non ho notoriamente nessuna tenerezza per i delitti, credo nella severità delle pene. Non sopporto però la tortura. L' isolamento sanzionato per sentenza. Tutto quel carico di pene aggiuntive rispetto alla negazione della libertà è a mio giudizio indebito. Restituirà alla vita sociale gente incattivita. Per fortuna il carcere di San Vittore, ramo femminile, beninteso, si è emancipato da queste crudeltà. E credo debba trasformarsi in un esempio che deve valere per la condizione di tutti i 62mila detenuti in Italia. Scrive molto bene la Carollo: «La vita in (questo) carcere non è una vita di privazioni materiali gravi. Si può mangiare, cucinare di tutto, fumare, lavorare, leggere, studiare, fare teatro, musica, cantare. La privazione che pesa su tutto è quella della libertà, come è facile immaginare, e ciascuno la vive come meglio può. Per Stefania, oltre ad avere l' inusitato conforto del sentirsi pienamente responsabile di ciò che ha fatto, è un dovere scontare il carcere, ed è un sollievo quando ogni mattina le aprono la porta della cella e può "liberamente" andare a lavorare al bar, percorrendo cinquecento metri a piedi con tutte le porte aperte. Ricomincia a vivere dentro, da dentro, una Stefania che va reintegrandosi con se stessa, che ha ancora tempo per completare un' opera difficile, faticosa, molto più faticosa che commettere un delitto, soprattutto perché la colpa la tormenta molto di più che la pena. Ma, forse, è un tormento che conduce a una vita più serena ed equilibrata». Dice una signora filippina, Josephine: (se sei trattata umanamente, autorevolmente e non autoritariamente, allora) «tutto dipende da come affronti i problemi, tutto dipende da te, da come maturi dentro di te. Questo è un ambiente di sofferenza, ma è fondamentale anche a volte soffrire per crescere».

La Bella Scoperta. Un cammino. Il carcere può essere un percorso autentico di cambiamento. Si può cambiare. E forse però questo sarà possibile se cambieremo noi che siamo fuori, smettendola di ritenere la prigione una gabbia di irredimibili da far soffrire più che si può. Così facciamo del male anche a noi stessi. Devo ammettere che questo testo mi ha fatto conoscere anche una Carollo diversa da quella pur bravissima giornalista di inchiesta che ho imparato ad apprezzare nelle sue dirette e nei suoi servizi su Mediaset. Lì Francesca si sposta ovunque con la telecamera e senza timore piazza il microfono sotto il naso di chiunque, persino con una certa sfacciataggine specie se l' interlocutore è potente. Ha la capacità di far entrare in relazione il telespettatore con la realtà spesso cruda della cronaca, non fa sconti a nessuno, senza mediazioni. Qui invece la scrittura le consente un altro tipo di lavoro, più profondo. Non crea una distanza, ma dà nome alle cose, ci aiuta non solo a guardare, ma come diceva Gesù nel Vangelo a vedere; non solo a udire, ma ad ascoltare. Grazie Francesca.

Il mistero di Diego morto "suicida" a Poggioreale, il fratello: “Lo hanno ucciso, voglio la verità”. Rossella Grasso su Il Riformista l'11 Giugno 2020. “Mio fratello Diego se ha visto il mare tre volte nella sua vita è pure assai. Il resto lo ha passato in carcere a scontare i reati commessi ma non meritava di pagare anche con la vita”. Christian Cinque è il fratello di Diego, morto a 29 anni in carcere. Subito il caso fu archiviato come suicidio, uno dei tanti che si susseguono nelle carceri. Ma Christian non ci ha creduto nemmeno per un istante. Diego stava scontando una pena di 7 anni per rapina. Arrestato a luglio 2016, sarebbe tornato in libertà a marzo 2023, una pena breve che non avrebbe comunque giustificato la voglia di un suicidio da parte di Diego, giovane, con una compagna con cui aveva un rapporto molto sereno e una figlia di 1 anno e mezzo per cui stravedeva e non vedeva l’ora di riabbracciare. “Io sentivo spesso mio fratello ed era sereno – racconta Christian – certo a volte mi ha parlato di qualche lite con gli altri detenuti ma sono situazioni a cui un ragazzo come lui era abituato”. Christian ricorda con dolore quando quella mattina del 16 ottobre 2018 trovarono suo fratello impiccato nel bagno vicino alla sua cella. “Mi telefonarono alcuni detenuti suoi compagni di cella – dice – mi precipitai al carcere di Poggioreale e mi dissero che era vero: mio fratello era ancora appeso al soffitto con un laccio per le scarpe. Mi dissero subito che era stato un suicidio ma io non ci ho mai creduto. Era un ragazzo abituato al carcere e non ne era turbato. Poi quando vidi il corpo senza vita diceva chiaramente che non si era ammazzato da solo”. Subito fu chiesta l’archiviazione come morte determinata da “asfissia acuta meccanica violenta da impiccamento suicidiario tipico”. Complice anche la circostanza del ritrovamento del corpo chiuso in bagno dall’interno con una corda tesa a bloccare la porta e uno sgabello rovesciato. Ma alcune incongruenze tra cui la ricostruzione dei compagni di cella di quella mattina portarono il giudice per le indagini preliminari a rigettarla e riaprire il caso. A confermare i sospetti di Christian è stato soprattutto l’esame del medico da lui ingaggiato per un’autopsia di parte. Sul collo di Diego c’erano due diversi segni, un primo più doppio, simile a un lenzuolo, e un secondo stretto come un laccio di scarpe che però non sembrava essere stato stretto attorno al collo di una persona viva. E ancora colpi di percosse e le analisi agli occhi che denunciavano che Diego era passato dal sonno alla morte. Poi il sangue condensatosi sulla schiena segno di un corpo morto supino e non appeso per il collo. “No, mio fratello non si è suicidato – dice Christian che non si dà pace – non lo so cosa sia successo. Credo nella giustizia e non credo sia stata opera della polizia penitenziaria. Ma chiunque sia stato io merito di conoscere la verità”. “Sono due anni che il carcere di Poggioreale teneva ancora gli effetti personali di mio fratello – racconta Christian – Quando morì mi dissero che queste cose erano sotto sequestro. Sono recentemente andato a ritirare il suo borsone, l’ho preso, ho ingenuamente firmato senza controllarne il contenuto e sono andato a casa. Con grande dispiacere l’ho aperto e l’ho trovato quasi vuoto. Non sono importanti le cose, i vestiti o gli oggetti, erano gli ultimi ricordi affettivi che abbiamo di lui. Ci hanno portato via anche quelli. Voglio solo giustizia”.

Il garante Ciambriello: “Controllare lo stress di ogni detenuto”. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Giugno 2020. Un problema all’interno delle carceri sono i suicidi in cella. E una possibile soluzione potrebbe essere quella di potenziare il sostegno psicologico se, come emerge dall’ultima relazione annuale del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, “va riscontrata la difficoltà negli istituti di pena di avviare programmi di igiene mentale di comunità dato il limitato o assente accesso ai servizi psichiatrici”. Finire in cella per la prima volta, soprattutto per un’accusa che si ritiene infondata o quando ci si ritiene vittima di errori giudiziari, è dura. Durissima. Chi ha provato questa esperienza racconta lo smarrimento, lo sconforto, la paura. L’istituto che ha il più alto tasso di suicidi è Poggioreale sebbene non sia tra gli istituti con il maggior livello di sovraffollamento. “Risulta evidente dunque che i fattori di rischio suicidario non sono riconducibili esclusivamente alle caratteristiche dell’istituto, bensì si intrecciano con le caratteristiche personali, come dichiarato dall’Organizzazione mondiale della salute nel rapporto sul suicidio del 2003”, si legge nella relazione del garante che fa il punto su un anno di storie ed eventi accaduti nei 15 penitenziari della Campania. “Gli istituti di pena sono luoghi dove si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente tra quelli più a rischio. L’impatto psicologico dell’arresto e dell’incarcerazione, le crisi di astinenza dei tossicodipendenti, la consapevolezza di una condanna lunga o lo stress quotidiano della vita in carcere possono superare la soglia di resistenza del detenuto medio e a maggior ragione di quello a rischio elevato”, è l’analisi. Non in tutti gli ambienti carcerari esistono procedure che consentono di identificare e gestire i detenuti più fragili, quelli che possono tentare o realizzare l’estremo gesto di togliersi la vita. Non basta lo screening per gli indicatori di rischio elevato. Quello che manca o va potenziato, secondo la relazione del garante, è un adeguato monitoraggio del livello di stress dei detenuti: “Vi è poca probabilità di identificare situazioni di rischio acuto”. Eccolo il nodo, il punto su cui intervenire è la soluzione proposta. Perché, come emerge dall’analisi dei dati del rapporto annuale, “anche laddove programmi o procedure adeguate sussistono, eventuali condizioni di sovraccarico lavorativo per il personale o il loro mancato addestramento possono talvolta impedire il riconoscimento dei segnali precoci di rischio suicidario”.

Dramma carceri, in aumento il numero di detenuti che si tolgono la vita in cella. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Giugno 2020. Dario aveva 38 anni, era nato e cresciuto nel Salernitano ed era arrivato nel carcere di Secondigliano per un’accusa legata a un reato odiosissimo, violenza sessuale. Era in attesa di giudizio, come la maggior parte dei detenuti nelle carceri italiane. Il 27 febbraio lo hanno trovato impiccato nella sua cella mentre il mondo fuori cominciava a fare i conti con l’epidemia da Coronavirus . È stato un caso di suicidio. Emil, 32 anni, era arrivato in Italia dalla Romania ed era finito nel carcere di Aversa per espiare una condanna per il reato di rapina. A novembre avrebbe riacquistato la libertà, ma non ce l’ha fatta ad aspettare: lo hanno trovato il 5 aprile scorso impiccato. Suicidio anche in questo caso. Lamine aveva 28 anni, era algerino. Si è suicidato il 5 maggio scorso, asfissia da gas la causa del decesso stabilita dai medici. È stato trovato senza vita nel reparto Danubio ma proveniva dal reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere dove circa un mese prima altri detenuti avevano denunciato di aver subìto presunti pestaggi. Dario, Emil e Lamine sono i tre detenuti morti suicidi in istituti di pena campani i cui nomi sono finiti nell’elenco dei 21 casi registrati dall’inizio del 2020 nelle carceri di tutta Italia. Sono nomi le cui storie finiscono archiviate come “eventi critici” e usate per statistiche che rendono le dimensioni di un bilancio sempre drammatico, provando a riportare la questione della vivibilità in carcere tra i temi delicati per i quali viene richiesto un maggiore impegno da parte della politica e delle istituzioni. Un nuovo grido di allarme arriva dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “L’emergenza Coronavirus ha pesato enormemente sulla già precaria situazione delle carceri in Campania. Dall’inizio dell’anno in Italia si sono registrati 21 suicidi, tre in Campania dal 27 febbraio ad oggi. Le galere servono a togliere la libertà, non la vita”, tuona Ciambriello. “Ogni suicidio – aggiunge – ha una risposta diversa ma comunque propone sicuramente delle domande e le sintesi esplicative non funzionano per spiegare gesti di disperazione così gravi. La scelta di una persona di togliersi la vita non deve mai, da nessuno, essere strumentalizzata”. Ciambriello punta l’attenzione su un dato comune ai suicidi degli ultimi tempi: “Mi colpisce il fatto che, tra gli ultimi suicidi in Italia, ci siano persone che avevano appena fatto ingresso in istituto ed erano state collocate in isolamento sanitario precauzionale”. La maggior parte di chi ha scelto di togliersi la vita, quindi, non era in cella da molto tempo. Cosa abbia spinto queste persone a un gesto così estremo? Quali paure e quali angosce fanno leva su di loro al punto da decidere di non darsi nemmeno più una possibilità? “Dietro una scelta di suicidio – spiega il garante regionale dei detenuti che da anni si impegna in Campania per i diritti di chi è recluso in carcere – può esserci solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psicofarmaci, assenza di speranza, disperazione per il processo o la condanna, abusi. Non è possibile ricondurre a una la motivazione”. È chiaro che ci sono aspetti su cui occorre soffermarsi con riflessioni più ampie. “Non si può morire di carcere in carcere – ribadisce Ciambriello – Invito le istituzioni ai vari livelli, il Ministero della Giustizia, gli operatori del privato sociale, a una riflessione perché accanto alla precarietà endemica del carcere si stanno aggiungendo vulnerabilità e disagi in questo periodo di Covid”. Il particolare momento storico vissuto attualmente con gli effetti dell’isolamento causato dalla pandemia possono aver avuto un peso, ma il discorso appare più complesso. Ciambriello pone anche l’accento sulla necessità di misure mirate. “In questo senso occorre prevedere un incremento di figure sociali sostanziali, altro che un concorso per 95 educatori in tutta Italia. Bisogna andare oltre l’attuazione di quel protocollo anti-suicidiario che si applica in condizioni normali ma che non dà buoni risultati”. Dall’ultima relazione annuale sulle carceri emerge che a fronte di un calo dei decessi per morte naturale negli istituti campani (-13%) si è registrato nel 2019 un aumento dei suicidi (53 casi, il 41% in più rispetto al passato) e una preoccupante impennata dei tentativi di suicidio (1198 casi). Vuol dire che un detenuto ogni 900 ha provato a togliersi la vita in cella.

Per non risarcire i carcerati il Ministero conta i centimetri. Rita Bernardini de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Mentre da un lato la Consulta emette una sentenza storica dichiarando incostituzionale la parte della legge spazzacorrotti che estende retroattivamente il divieto di misure alternative al carcere per i condannati per reati corruttivi, dall’altro, la prima sezione penale della Corte di Cassazione decide, su impulso del Ministero della Giustizia, di rinviare alle Sezioni Unite la questione del computo degli spazi in cella ai fini della corresponsione o meno dei rimedi risarcitori previsti dall’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario per quei detenuti che siano stati costretti a vivere in una cella avendo a disposizione uno spazio inferiore ai tre metri quadri. Dalla parte della Corte Costituzionale la pena viene pesata e valutata al punto che se una legge successiva alla commissione di un reato corruttivo preveda – diversamente dalla normativa preesistente – esclusivamente il carcere anziché la possibilità di accesso alle misure alternative, la sua applicazione non può essere retroattiva perché si violerebbe l’articolo 25 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Principio, quello dell’articolo 25, da legare strettamente all’articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che garantisce il principio di “prevedibilità”, nel senso che ogni persona deve conoscere anticipatamente quali condotte siano considerate un reato e quali pene siano previste per tali azioni. Dalla parte del Ministero della Giustizia la pena del carcere non solo viene sempre più considerata come unica pena in dispregio dell’articolo 27 della Costituzione che parla, invece, di “pene” al plurale, ma la si vuole così afflittiva (e quindi affatto rieducativa) da stare a giocare con i centimetri pur di non pagare ai detenuti quei risarcimenti che il legislatore, nel 2014, è stato costretto ad inserire nel nostro ordinamento a seguito della sentenza Torreggiani del 2013; sentenza con la quale la Corte EDU ha condannato l’Italia per il sovraffollamento che determina condizioni di vita detentive disumane e degradanti. Preoccupa, e perciò dovrebbe occupare tutti i democratici del nostro Paese, questa distanza che si fa sempre più evidente dai principi e dal rispetto dei diritti umani fondamentali da parte dei rappresentanti delle istituzioni. I rimedi risarcitori dovrebbero vedere il Ministero della Giustizia strenuamente impegnato a rimuovere le cause che generano il sovraffollamento penitenziario, magari prevedendo un maggiore accesso alla pene alternative. E, invece, ci tocca scoprirlo affannato a contendere al carcerato il centimetro in una cella sperando che le Sezioni Unite della Cassazione considerino il letto (perfino quello a castello a due o tre piani) o gli armadietti e gli altri arredi, come spazio vivibile, calpestabile e adeguato al movimento dei detenuti ristretti in una cella. Andarsi a rileggere la sacrosanta normativa riguardante il benessere animale negli allevamenti dei suini, può essere utile agli attori che si confronteranno in Cassazione sugli spazi detentivi degli esseri umani. Glielo suggerisco. Il Decreto Legislativo 20 febbraio 2004, n. 53, a proposito dei suini adulti, recita: «I recinti per i verri devono essere sistemati e costruiti in modo da permettere all’animale di girarsi e di avere il contatto uditivo, olfattivo e visivo con gli altri suini. Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 mq».

Il pestaggio shock di un detenuto: calci, pugni e quell’agente di oltre 100 chili che lo schiacciava a terra. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 febbraio 2020. Ecco il video dell’aggressione di un ragazzo tunisino che era detenuto nel carcere San Gimignano. Ad un certo punto un soggetto appartenente alla Polizia Penitenziaria corpulento, indossante una maglia bianca a maniche corte, calvo, rimasto nelle retrovie, si faceva largo tra i colleghi e, giunto in prossimità dei tre, ha sferrato dall’alto verso il basso un pugno con il quale colpiva violentemente il detenuto tunisino.

Parliamo di alcuni particolari emersi dalla visione delle telecamere eseguite dal NIC, il Nucleo Investigativo Centrale che ha svolto le indagini per quanto riguardano i presunti episodi di pestaggio avvenuti nel carcere di San Gimignano l’11 ottobre del 2018 riportati a suo tempo in esclusiva da Il Dubbio grazie alla segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus. Ma il video continua: Dopo il colpo, tirato giù anche dall’ispettore capo, oltre che dal pugno sferratogli dall’assistente capo, il ragazzo cadeva a terra. Inoltre è emerso che in questo frangente si notava l’assistente capo, del peso di 120 kili, montare addosso al malcapitato con le ginocchia (poste all’altezza della vita e delle gambe) mentre l’ispettore lo teneva per il braccio destro e un altro agente lo prendeva per il collo, contribuendo alla forzata immobilizzazione del detenuto. A quel punto il malcapitato veniva completamente circondato da tutti i soggetti appartenenti alla Polizia Penitenziaria intervenuti, che creavano una sorta di “copertura” rispetto alle telecamere. Nondimeno dalla visione delle immagini appare possibile distintamente osservare dei movimenti di piedi e dei movimenti concitati delle braccia, che rendono altamente verosimile la circostanza che il detenuto sia rimasto vittima di un vero e proprio pestaggio. Infatti si vede qualcuno che lo pesta con gli scarponi. Il prossimo 23 Aprile ci sarà l’udienza preliminare per quanto riguarda la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di cinque agenti penitenziari accusati, tutti, di 613 bis (il reato di tortura) per la presunta violenza commessa e di un medico accusato di omissione di atti d’ufficio. Sempre dalle riprese video di vede che il detenuto veniva rialzato e trasportato di peso verso il lato B del Reparto Isolamento. Dalla visione delle immagini era possibile osservare come sul pavimento resti una ciabatta e una macchia scura non meglio definita. Inoltre si nota distintamente che il detenuto aveva i pantaloni abbassati e i piedi nudi e inciampava continuamente nei pantaloni stessi mentre i soggetti appartenenti alla Polizia Penitenziaria continuavano a trascinarlo violentemente, per poi gettarlo o comunque lasciarlo di nuovo cadere a terra. «…L’ispettore chiamato “lo sfregiato” – testimonia un detenuto che ha assistito alla scena – in quel momento era vicino alla cella di un altro detenuto e lo minacciava e lo offendeva. Il ragazzo (il tunisino ndr) gridava di dolore, sempre più forte. Ho avuto come l’impressione che venisse picchiato proprio davanti alle celle di noi detenuti del Reparto Isolamento come gesto intimidatorio anche nei nostri confronti. Poi ho visto che lo trascinavano verso la sua nuova cella e continuavo a sentire confusione, grida ed urla. In quel momento avevo davvero paura per lui, che tra l’altro è un ragazzo dalla corporatura esile. Avevo paura anche per me stesso, ovvero che entrassero anche nella mia cella…». Questo era il clima che si sarebbe respirato. Violenze, minacce e rimproveri anche nei confronti di chi svolgeva con professionalità il proprio lavoro come il caso della dottoressa che aveva redatto referti medici nei confronti di chi presentava delle escoriazioni ed ematomi. Il 23 Aprile, come detto, ci sarà l’udienza preliminare. Su Il Dubbio di domani verranno aggiunti altri particolari. L’articolo integrale è disponibile sull’edizione del 29 febbraio 2020.

Quando la detenzione causa patologie psichiatriche. Damiano Aliprandi l'8 febbraio 2020 su Il Dubbio. Lo rivela una ricerca dell’associazione Antigone condotta insieme al Segretariato italiano degli studenti di Medicina. “Sindrome da ingresso in carcere”, “disculturazione”, “vertigine da uscita”, sono concetti coniati dalla medicina penitenziaria riguardanti i detenuti che contraggono patologie psichiatriche a causa dell’ambiente carcerario. Un tema sviscerato grazie all’approfondimento dell’associazione Antigone realizzato assieme al Sism, il Segretariato Italiano Studenti di Medicina. Maddalena Di Lillo di Antigone ha riportato accuratamente questa ricerca, sottolineando che all’interno di un carcere, la salute mentale è più vulnerabile di quanto non accada nella società libera. Sono diversi gli studi che mostrano come nel sistema penitenziario la percentuale di soggetti affetti da patologie psichiatriche sia più elevata che all’esterno. Emerge che anche il genere è un fattore di rischio importante. «Le donne – scrive Di Lillo – sarebbero più esposte degli uomini a questo tipo di patologie. Dei ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma hanno mostrato come tra le donne ristrette vi sia un’elevata incidenza di temperamenti patologici. In particolare sono stati messi in luce comportamenti distimici o ciclotimici, ansiosi o irritabili, atteggiamenti di attaccamento insicuro, condotte di evitamento o impulsività». La ricercatrice sottolinea che, fermo restando che il carcere ha in sé elementi strutturali che favoriscono l’emergere di patologie psichiatriche, «bisogna considerare che spesso le condizioni psico-fisiche di chi incappa nel sistema penitenziario sono precarie già prima del suo ingresso: tra marginalità sociale e patologie psichiatriche vi è un nesso che in carcere si rafforza ulteriormente». I momenti più delicati sono proprio quelli relativi all’ingresso in carcere, perché «la persona – scrive Di Lillo – perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente, del contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici. La persona detenuta vive rapporti sociali imposti e diventa dipendente dall’istituzione; sperimenta l’impotenza e la frustrazione, soprattutto delle aspettative». Disturbi d’ansia generalizzata, irritabilità permanente, tutti sentimenti che vengono somatizzati e sfociare in diverse patologie psicosomatiche come la perdita di appetito, di peso, malessere generalizzato e aspecifico, esasperazione dei problemi medici preesistenti, disturbi visivi, tachicardia. «La rabbia – scrive la ricercatrice di Antigone -, laddove non si prosegua un obiettivo tangibile nella vita quotidiana, come spesso accade durante la detenzione, può essere percepita come stato depressivo e, se mal gestita, può condurre a episodi di autolesionismo e suicidio». E poi ci sono le sindromi penitenziarie, quelle patologie psichiatriche che sopravvengono durante la detenzione. Una di queste è la “Sindrome da ingresso in carcere”, disturbo psichiatrico che compare frequentemente tra coloro che hanno un impatto drammatico, ossia tra chi presenta generalmente un grado di cultura maggiore e avverte un divario importante tra il tenore di vita condotto in liberta` e quello carcerario. Oppure la “disculturazione”, che consiste nella perdita di valori e stili di vita posseduti in precedenza, con la conseguenza che la persona detenuta non riesce più ad affrontare le situazioni tipiche della realtà esterna. Così come la “Vertigine da uscita”, una patologia che affiora durante la fase prossima alla scarcerazione. «I suoi pensieri – scrive Maddalena Di Lillo – si focalizzano sulle difficoltà di vita del mondo esterno, sulla possibilità di commettere ancora reati e sul profondo timore di non essere in grado di ritornare sufficientemente autonomi. Il detenuto che sta per lasciare il carcere sperimenta poi la paura dell’estraniamento, l’incapacità di adeguarsi ai mutamenti della vita sociale e al nuovo contesto dopo la scarcerazione».

Gli anni in carcere e ora la laurea. «Diamo un nome a rabbia e dolore». Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Elisabetta Andreis. Rapine, violenza, furiosi pestaggi. Questa è la storia di un ragazzo che è profondamente cambiato. Da adolescente pareva refrattario non solo a qualunque regola, ma anche a qualunque affetto. Una vita allo sbando a Quarto Oggiaro, nonostante due genitori presenti che ce la mettevano tutta. Il carcere, tra il Beccaria e San Vittore, poi — dal 2015 –—l’affidamento in prova presso la comunità Kayròs di don Claudio Burgio. Daniel Zaccaro adesso ha 27 anni, è diventato grande. Ieri si è laureato brillantemente all’università Cattolica, in Scienze della formazione. Vuole diventare educatore, ha già iniziato a lavorare con un ragazzo difficile, proprio come era lui. Ad applaudirlo alla laurea, tra le persone importanti della sua vita, c’era anche la Pm del Tribunale per i minorenni che l’ha processato e fatto condannare in tutte le udienze in cui era imputato. Negli occhi di quella Pm — severissima e dalla grande umanità — si leggevano orgoglio e soddisfazione. L’ha mandato in galera per il suo bene «prima», ora lo accompagna nelle scuole, per parlare con i bulli e raccontare la sua storia personale. «È una grande vittoria di tutti noi, questa», diceva dandogli una carezza sulla corona d’alloro: «Daniel racconta agli adolescenti come è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi. Ma io glielo dico sempre, a costo di sembrare pedante: attento a non farti sedurre dal lato oscuro della forza». Gli vuole bene, come gliene vuole Fiorella, docente in pensione che a San Vittore gli ha fatto studiare il suo primo libro di scuola, l’Inferno di Dante. Lo applaudiva anche lei, ieri, di fianco a don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria insieme a don Gino Rigoldi ed eccezionale nell’agganciare certi ragazzi. «Dietro questo bellissimo traguardo, oltre alla bravura di Daniel, ci sono tante persone e molte istituzioni civili ed ecclesiali che insieme hanno saputo collaborare in questi anni. È la storia di un lavoro di squadra — si schermisce don Claudio —. Questa è la città che mi piace e che ispira il mio impegno educativo quotidiano. Ora toccherà a Daniel raccogliere questo impegno e trasmetterlo ad altri giovani con tutta l’esperienza e la competenza maturati in questo percorso». Quando Daniel ha commesso il primo reato, era «per fare la vita bella, facile, ed essere stimato dal quartiere». Eppure i suoi genitori gli avevano insegnato il valore del lavoro e del rispetto. In carcere continuava a prendere punizioni per cattiva disciplina. Oggi, maturo e attento, si guarda indietro. Ragiona sulla violenza che a volte, specie in gruppo, prende il sopravvento. «La brutalità è indice di povertà di pensiero — dice —. È l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. I violenti hanno profondissimi problemi di linguaggio. Quando non sai chiamare il dolore e la rabbia con il loro nome ti scateni così, come un animale. Io l’ho capito, e lo voglio spiegare al maggior numero di ragazzi possibile».

La Toscana rilancia il diritto all’affettività e alla sessualità per i detenuti. Damiano Aliprandi il 9 febbraio 2020 su Il Dubbio. Proposta di legge approvata dalla commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale toscano. Il diritto all’affettività e alla sessualità per i detenuti, una proposta di legge al parlamento proveniente dalla regione Toscana. In particolare è stata la Commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), a licenziare con parere favorevole a maggioranza la proposta di legge al Parlamento. Il primo firmatario è stato Leonardo Marras, capogruppo Pd, mentre i consiglieri di Forza Italia e Lega Nord hanno espresso parere contrario. Tale proposta di legge andrebbe a colmare il vuoto della riforma dell’ordinamento penitenziaria approvata a metà dallo scorso governo giallo verde. La proposta interviene appunto sulle norme che regolano l’ordinamento penitenziario. All’articolo 28, che regola i rapporti con la famiglia, si aggiunge il “diritto all’affettività” mettendo un comma che recita: «Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tal fine i detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi ed auditivi». Come detto, tale norma in realtà era già previsto dai decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e già le polemiche non erano mancate, soprattutto da parte di alcuni sindacati della polizia penitenziaria. È il diritto alla sessualità in carcere, ma che poi è stato completamente oscurato e non più contemplato dal nuovo ordinamento penitenziario. Un tabù che in tutta Europa è già superato. C’è la Svizzera, dove in alcuni Cantoni i detenuti possono incontrarsi, senza sorveglianza, con i loro partner. In Francia è in corso una sperimentazione, previste visite senza sorveglianza in una “maison central”. In Germania poi viene garantito lo spazio agli incontri intimi e ai rapporti sessuali per chi deve scontare moltissimi anni di carcere. La norma è prevista in alcuni Lander e gli spazi riservati alle coppie sono degli appartamentini. Poi c’è la Spagna dove viene garantita una visita al mese, più una seconda per tutti coloro che hanno una relazione affettiva ( moglie, fidanzate, mariti e fidanzati). Le visite vengono concesse come premio. In Svezia poi, sempre all’avanguardia, c’è il via libera a fidanzati e familiari in piccoli appartamenti all’interno degli istituti di pena. Non può mancare la Norvegia, dove è possibile avere rapporti sessuali senza sorveglianza per un’ora in stanze simili a quelle d’albergo. Un tema, quello dell’affettività, che era stato sviscerato durante gli Stati generali per l’esecuzione penale voluto dall’ex ministro della giustizia Andrea Orlando. Il gruppo di lavoro coordinato da Rita Bernardini del Partito Radicale aveva affrontato il problema di come assicurare all’interno del carcere uno spazio e un tempo in cui la persona detenuta possa vivere la propria sessualità. Ne è scaturita quindi la proposta di un nuovo istituto giuridico costituito dalla “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantirebbe al detenuto la possibilità di incontrarsi con chi è autorizzato ad effettuare i colloqui senza che vi sia un controllo visivo e/ o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Tutto questo è stato poi affossato, ma la regione Toscana ha rilanciato.

Bari, allarme del procuratore generale sul carcere: «Trattamento disumano». Asl: presto reparto in ospedale per detenuti. La dott.ssa Tosto in visita nel penitenziario sottolinea i dati sul sovraffollamento e sulla gestione del centro clinico. La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Febbraio 2020. Il carcere di Bari è in «condizioni che si avvicinano pericolosamente a quelle considerate 'trattamento disumanò dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo». Lo ha detto il procuratore generale presso la Corte di Appello di Bari, Annamaria Tosto, al termine di una visita nella Casa circondariale, sottolineando i dati sul sovraffollamento e sulla gestione del centro clinico penitenziario. L’istituto barese ospita attualmente 460 detenuti su una capienza di 299 presenze e, a fronte di un centro clinico che conta 24 posti letto, le visite specialistiche sono state, solo nel 2018, 11 mila all’interno dell’Istituto, cui devono aggiungersi le 1.250 effettuate all’esterno. «Il sovraffollamento desta grande preoccupazione, - ha detto la magistrata - si tratta di condizioni incompatibili con la finalità rieducativa della pena. Il sovraffollamento dell’Istituto, a vocazione sanitaria e, per questo, destinato ad ospitare anche detenuti provenienti da altre carceri bisognosi di cure specialistiche, mette, inevitabilmente, a rischio la salute del detenuto, la cui tutela, come la finalità rieducativa, è sancita dalla Costituzione». «Risulta non più differibile - ha aggiunto Tosto - che sia dato corso, da parte della Asl, alla delibera con la quale, già dal luglio scorso, la Giunta regionale della Puglia, ha previsto la creazione di un reparto di medicina protetta presso l'ospedale San Paolo di Bari». Per il procuratore generale "questa soluzione consentirebbe una razionalizzazione del servizio e minori costi di gestione» perché «si garantirebbe l'avvio di un sistema unico di prenotazione e il ridimensionamento se non l’azzeramento degli spostamenti dei detenuti», sempre garantendone «la salute e la dignità», "l'efficienza del servizio», «le diverse istanze di sicurezza e le condizioni lavorative del personale e degli operatori».

SICUREZZA NEGATA AGLI INFERMIERI - «Condizioni igienico-sanitarie da brivido» che causano «gravi ripercussioni sulla salute dei dipendenti; carenza di farmaci il cui rifornimento viene effettuato solo due volte a settimana con grave nocumento ai pazienti detenuti; assenza di barelle e sedie a rotelle; carenza di personale con rischio di errore nella somministrazione delle terapie»: sono alcuni dei problemi che, evidenzia il sindacato Usppi in una nota, devono affrontare gli infermieri dell’Asl Bari che lavorano nella Casa circondariale del capoluogo pugliese. «La situazione - evidenzia il segretario generale Usppi, Nicola Brescia - è critica e richiede interventi risolutivi. C'è una gravissima situazione in termini di mancata sicurezza e diversi sono i punti da affrontare». «Nostro malgrado - conclude Brescia - per la sicurezza dei lavoratori e per garantire condizioni assistenziali adeguate ai detenuti, qualora non ci dovesse essere riscontro attiveremo le dovute forme di protesta». 

L'ANNUNCIO DELLA ASL BARI -  La Asl di Bari ha «adottato una serie di misure e azioni per dare un’accelerata all’iter attuativo" per la realizzazione del nuovo reparto di Medicina protetta dell’ospedale San Paolo, destinato ai detenuti, e nel frattempo ha «predisposto il potenziamento della dotazione diagnostica" nel centro clinico penitenziario del carcere di Bari. Lo spiega una nota della direzione generale della Asl di Bari in risposta all’allarme lanciato oggi dal Procuratore generale Annamaria Tosto sulle criticità della casa circondariale di Bari dovute al sovraffollamento e alle gestione del centro clinico penitenziario.

La azienda sanitaria «intende assicurare - si legge nella nota - una adeguata assistenza sanitaria ai detenuti, tanto che ha preventivamente supportato e rafforzato la decisione regionale di trasferire il reparto penitenziario dal Policlinico alla Asl». Sul nuovo reparto di Medicina protetta, la direzione generale spiega che «è stato già inviato il progetto preliminare al Provveditore per l’Amministrazione Penitenziaria per la condivisione e approvazione. Sono stati individuati i locali destinati ad ospitare il nuovo reparto del San Paolo, provvisoriamente occupati da altre unità operative e sono in corso le operazioni di ricollocazione, prima di procedere con i lavori di adeguamento e con l’acquisto successivo di infissi e arredi, adeguati agli standard di sicurezza. Inoltre è stata data priorità al completamento di un nuovo reparto di Psichiatria all’interno dell’ospedale per migliorare l’offerta assistenziale». All’interno del carcere, inoltre, sarà istallato entro 60 giorni «un telecomandato digitale, un sistema che consente la trasmissione in remoto degli esami, utile per evitare o diminuire i frequenti spostamenti di detenuti» e un nuovo OPT (Ortopantomografo).

Lucia all’ergastolo accusata di aver ucciso il marito, ora lavora in procura. Redazione de Il Riformista il 10 Febbraio 2020. Lucia Bartolomeo è all’ergastolo da circa 13 anni, accusata di aver ucciso suo marito Ettore Attanasio, ma adesso potrà lavorare fuori dal carcere negli uffici della Procura di Lecce, che all’epoca indagò sulle sue responsabilità. Lucia, che si è sempre detta innocente, ha potuto beneficiare della legge sull’ordinamento penitenziario che consente ai detenuti di lavorare fuori dal carcere avendo scontato, almeno, dieci anni di detenzione. LA VICENDA – La vicenda risale al maggio 2006. Ettore Attanasio, fabbro di 34 anni, morì nella casa in cui viveva a Taurisano con moglie e figlia di pochi anni. All’inizio si pensò a un caso di morte naturale perchè Lucia aveva detto che il marito era affetto da tumore. Ma un’ infermiera del 118 accese il sospetto: disse ai colleghi che tornavano da Taurisano, dopo aver accertato la morte di Attanasio, che di quel tumore dichiarato dalla moglie di Attanasio non c’era alcuna diagnosi documentata. A seguito di un esposto il cadavere di Attanasio fu riesumato e sottoposto per la prima volta ad autopsia ed esame tossicologico. Dall’esame risultò che nel corpo dell’operaio c’erano tracce di una dose di circa 70 mg di eroina, una quantità massiccia che, secondo gli addetti ai lavori, ne aveva causato la morte nel sonno. I sospetti caddero immediatamente sulla moglie infermiera che proprio nei giorni che avevano preceduta la tragedia aveva fatto delle flebo al marito. Bartolemeo, che all’epoca lavorava in una casa di cura per malati mentali, venne indagata per aver somministrato al marito farmaci che lo stavano avvelenando e successivamente arrestata con l’accusa di omicidio.

IL MOVENTE – Dalle indagini risultò che Lucia avrebbe ucciso il marito per potersi rifare una vita con l’amante, il suo collega Biagio Martella, senza dover rinunciare all’affido della figlia e senza perdere benefici economici. A incastrare la donna furono i messaggi che scrisse all’amante.  Alcuni mesi prima del decesso, Lucia scriveva a Biagio di un crescente malessere fisico del marito, culminato, secondo i messaggi mandati dalla Bartolomeo al Martella, la notte del 30 maggio, quando il marito sarebbe sprofondato in uno stato di pre-coma. “Questione di ore”, avrebbe scritto la donna mentre il marito moriva nel sonno.

LA CONDANNA – La Cassazione confermò a Lucia l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dall’aver agito col mezzo di sostanze venefiche e nei confronti del coniuge, e quindi fu condannata all’ ergastolo. La procura per l’infermiera di Lecce, aveva chiesto 24 anni di carcere. Dopo la condanna, Lucia Bartolomeo ha perso la patria potestà sulla figlia, alla quale ha dovuto versare un risarcimento come parte lesa nel processo sull’omicidio del marito. Continua a dirsi innocente.

Carceri, le storie raccontate da Nessuno tocchi Caino. Gioacchino Criaco il 24 Dicembre 2019 su Il Riformista. C’è un nubifragio ostinato intorno a Milano, rancoroso di bibbia, l’acqua del cielo si unisce agli effluvi di una terra umida. La Pianura raccoglie gli scrosci, li precipita sul penitenziario di Opera e la pioggia supera la sbarra mobile, s’infila di soppiatto oltre le porte, da un cancello all’altro si fa passo silenzioso, percorre corridoi infiniti e beffarda intona la disamistade di De Andrè, per dire che non c’è un altro modo di vivere senza dolore. Dentro il carcere, per chi si chiede cosa sia il carcere, il dolore è un sentimento fisico, un’acqua che informa gli uomini e uragano dopo uragano ne spazza le anime, canne umane la cui unica missione è non spezzarsi. Insieme alla pioggia nel carcere ci entra il freddo, si fissa nelle ossa e le comanda anche in piena estate. Dentro fa sempre freddo, soffia perenne il gelo del maestrale e l’umidità tanfa pure se non c’è. Cancelli e corridoi, silenzi e tempi infiniti, scarpe pulite e facce pallide sono le divise dei detenuti e uno sguardo che è per tutti uguale. I giusti hanno ricacciato il male dentro enclave di cemento e acciaio e la Ong di Nessuno Tocchi Caino è venuta a forare i muri, andando oltre la speranza di non farcela, per sperare ancora: Spes Contra Spem, nel mantra di Marco Pannella che dentro Opera risulta ancora vivo, mischiato ai presenti nella sala del teatro che porta il suo nome. Due giorni di discussione, venerdì e sabato, per parlare di diritto penale e di qualcosa che sia migliore del diritto penale per regolare i rapporti fra gli uomini, di una via che non annichilisca le vite di chi sbaglia, e che non disperda l’umanità buona di cui ognuno è portatore. Parlano Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, segretario, presidente e tesoriere, vecchi e riconfermati, di Nessuno Tocchi Caino. Parlano Gherardo Colombo, Luigi Pagano, Mauro Palma. Parlano esperti e tecnici. Parlano i detenuti. Ci si alterna fra uno di dentro e uno di fuori. Ecco, per chi vuol sapere cosa sia la galera basta ascoltarli: fuori ci si dimentica al pomeriggio di cosa si sia fatto la mattina, dentro, Antonio spacca il tempo fino al microsecondo: sa quante telefonate ha fatto in 26 anni, quante lettere ha ricevuto, quanti colloqui ha avuto, potrebbe elencare ogni suo capo d’abbigliamento dell’ultimo ventennio. Dentro, il nulla diventa essenziale, e l’essenziale è l’invisibile agli occhi del Piccolo Principe: l’affetto, il coraggio, la tenacia. La certezza di non essere il macero per la carta. Stefano Castellino è venuto da Palma di Montechiaro, dove è sindaco, per abbracciare gli ergastolani suoi compaesani. “Sono anche il vostro sindaco”, dice, celebrano insieme la memoria della vita spezzata di un grande e giovane magistrato, Rosario Livatino, e il fiato manca a chiunque si trovi nel teatro. Per un attimo sorge un sole meridionale che mette in fuga la pioggia, che inchioda ai muri il freddo. Un’onda calda avvolge tutti e Opera, la gatta di Opera che non si è persa nemmeno una delle parole pronunciate nel teatro, si accovaccia al centro del palco, smette di rincorrere i bicchieri che ha sottratto agli oratori e fissa gli occhi sui Palmesi. Raffaele cerca orecchie per perorare la causa di un suo compagno di pena che dopo 20 anni di 41bis era riuscito ad andare in permesso e ora, arrivando da un altro carcere, deve ricominciare daccapo. Raffaele pure s’è fatto 16 anni di 41, su 34 passati dentro, non vede i figli da 15 anni. Li obbliga a non vederlo perché non vuole che le sue colpe ricadano su di loro: 5 figli laureati e sistemati, la sua impresa. Vito dopo 23 anni andrà in permesso per la vigilia di Natale, 2 giorni senza i quadretti delle sbarre a filtrare il cielo dai suoi occhi. Sa che non dormirà per la paura di tornare in carcere durante il sonno e di vedersi portata via una pausa al dolore inseguita per 23 anni. Sul palco è il turno di Sabrina, lei è di quelli di fuori, viene da Acireale, parla e piange perché prima di lei ha parlato e ha pianto Corrado, che è di quelli di dentro, che venerdì si è sentito meno solo perché c’era la sua compaesana. I detenuti dicono che Marco Pannella non è mai morto, ha scelto di rimanere dentro, si è incarnato nella gatta di Opera, Opera, e svanisce e poi torna dietro le sbarre, congiunge due mondi che non si parlano se non per mezzo di creature strane e straordinarie, convinte che ci sia qualcosa di migliore rispetto al diritto penale. Che per migliorare il carcere serva migliorare quelli di fuori, dargli la possibilità di essere migliori, perché non sanno davvero quanto inutile dolore, oltre ogni necessità, venga inflitto a quelli che stanno dentro. Non potranno mai sapere quanta selvatica primordialità contengano i durissimi regimi carcerari di un Paese che si sente troppo buono. Quelli di Nessuno Tocchi Caino hanno dedicato 2 giorni di discussione nel carcere di Opera perché la speranza di chi sta dentro vada oltre la spietatezza di una società ignava, che non vuole scoprirlo che dentro il carcere Caino non c’è.

Intervista a Gherardo Colombo: “Con Davigo divergenze, magistratura oggi è al discredito”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Ex pm, protagonista della stagione di Mani Pulite, oggi Gherardo Colombo è tra più acerrimi avversari del sistema carcerario come dimostra anche il suo ultimo libro Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla: «Secondo me – ci spiega – il carcere da noi non rieduca se non eccezionalmente. Perché il carcere nel modo di pensare generale ha una funzione diversa da quella del rieducare: ha la funzione del punire, e quindi punisce».

Tutto l’opposto di quello che dice la Costituzione.

«Esatto. La Costituzione, all’articolo 27, prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato, anche attraverso l’umanità del trattamento. Richiederebbe cioè che la persona detenuta prenda coscienza della dignità dell’altro e della sua inviolabilità».

E invece così non accade.

«Mi verrebbe da dire che accade il contrario. Il carcere oggi insegna a sottomettersi e umilia chi vi è ristretto. A mio parere non è compatibile con la nostra Costituzione».

Quali sono le carceri che ha visitato di persona?

«Da magistrato sono stato in molte sale colloqui, che non vuol dire visitare il carcere. Ho visto San Vittore durante il tirocinio, e ho iniziato a frequentarlo da volontario nel 2007, dopo che mi sono dimesso dalla magistratura. Tutti i mesi, da tredici anni e fino al Covid, ho partecipato al corso di legalità nel reparto di trattamento avanzato per tossicodipendenti, la Nave. A vario titolo ho partecipato ad attività in vari istituti, tra cui Opera, Bollate, Verona, Torino, Genova, Padova, Rebibbia, Regina Coeli e tanti altri».

E quando va da volontario, cosa fa?

«Dialogo con i detenuti sul tema delle regole e della legalità».

La rieducazione che dovrebbe fare il carcere.

«E che molto limitatamente solo alcuni istituti fanno. Per fare in modo che una persona si renda conto della dignità dell’altro, bisogna che possa rendersi conto della dignità propria. A mio parere la detenzione, quindi, dovrebbe essere limitata a chi è pericoloso, per il tempo in cui è pericoloso, e in una condizione in cui siano garantiti tutti i suoi diritti che non confliggono con la sicurezza delle collettività».

Quali sono i diritti più spesso negati?

«Il diritto allo spazio vitale, all’igiene, alla cura della salute, all’istruzione, all’affettività».

Con l’emergenza Covid le difficoltà ovviamente si sono moltiplicate.

«Si sono moltiplicate e hanno reso ancora più pesante la detenzione. Credo che in tanti fossero angosciati, nella fase acuta della pandemia, dal non avere contatti con i propri cari, della salute dei quali non avevano notizie. Il che ovviamente non giustifica l’uso della violenza, che è in sé la negazione del principio del riconoscimento della dignità altrui, da qualunque parte provenga».

Ha incrociato l’impegno politico dei radicali su questi temi?

«Più di una volta mi sono incrociato con Nessuno Tocchi Caino, con Rita Bernardini e con altri, dei quali apprezzo l’impegno. Credo sia fondamentale lo stimolo a occuparsi del carcere che viene da loro e da Radio Radicale».

Peccato che il mondo politico sia invece spesso disattento.

«Non credo sia del tutto disattento, credo che tante parti del mondo politico stiano molto attente ai riflessi elettorali. Che è una cosa diversa».

Lei ha mai pensato di dedicarsi alla politica?

«Ho ricevuto più di una proposta, ma ho sempre detto di no».

Quelli che dicono “buttiamo via la chiave” lo fanno per convenienza elettorale?

«O anche per convinzione personale. In Italia è così diffusa l’idea che chi ha commesso un reato poi debba soffrire, che quando si vota tanti scelgono chi dice e promette di garantire le stesse cose».

Non siamo più il paese di Cesare Beccaria.

«Per certi versi non lo siamo mai stati. Dovremmo fare analisi un po’ articolate: nel 1764 quante erano le persone che potevano aver letto il suo trattato Dei delitti e delle pene? Soltanto chi sapeva leggere, e quanti erano?»

A proposito di libri. Qualche anno fa uscì con Longanesi un volume scritto a quattro mani, sue e di Davigo, il cui titolo diceva tutto: “La tua giustizia non è la mia”. Due visioni diverse tra colleghi dello stesso pool.

«Abbiamo lavorato a lungo insieme Piercamillo ed io, abbiamo avuto momenti di divergenza, c’è stata qualche discussione, ma è successo raramente. Il diverso modo di vedere le cose non ha influito sul rispetto delle regole del processo da parte di entrambi».

Avete un approccio culturale diverso.

«Molto diverso».

Lei non direbbe mai che è pieno di colpevoli che la fanno franca o che certe volte non vale neanche la pena di aspettare le sentenze…

«Non so se Piercamillo ha detto proprio così. Certo bisogna considerare anche chi, oltre a chi la fa franca, finisce in carcere senza aver commesso un reato».

Cosa si può cambiare del processo penale senza ledere il diritto all’oralità della difesa?

«Non soltanto all’oralità, ma a tutte le prerogative della difesa. Bisogna cambiare tanto. Bisogna partire da lontano: perché il processo penale possa funzionare è necessario in primo luogo che si depenalizzi molto. Perché ormai tutto diventa penale, o quasi».

Va operata una distinzione tra fattispecie, e depenalizzare quelle di tipo amministrativistico?

«La depenalizzazione deve essere molto ampia. Le faccio un esempio, cancellare la timbratura del biglietto dell’autobus per riutilizzarlo è reato, sarebbe invece sufficiente una sanzione amministrativa. Occorrerebbe procedere allo stesso modo per tante fattispecie E poi, soprattutto, serve un intervento educativo».

Educare alla prevenzione dell’illegalità?

«Sia attraverso la scuola sia attraverso i mezzi di comunicazione. Oggi molto frequentemente, in modo inconsapevole, anziché educare al rispetto dell’altro, si educa a un rapporto di sopraffazione e sottomissione. Bisogna fare in modo che l’intervento penale diventi residuale anche grazie al fatto che la stragrande maggioranza delle persone evita di commettere reati. Ora, invece, in Italia ogni anno arrivano alle Procure quasi tre milioni di notizie di reato, ed è davvero difficile gestirle».

Viviamo la più grave crisi di fiducia verso la magistratura.

«Il tasso di considerazione nei confronti della magistratura è aumentato durante gli anni del terrorismo, poi con gli omicidi di tanti magistrati a opera anche della mafia. E all’inizio di Mani Pulite. In una situazione di normalità io credo che la considerazione della magistratura non possa essere eccezionale, anche perché è connaturato alla funzione che ci sia sempre qualcuno che ha da lamentarsi (chi perde la causa, per esempio). Oggi mi pare che siamo al discredito, credo per quel che accade all’interno della magistratura».

Sassari, detenuto al 41 bis accusa: «Venti agenti mi hanno pestato». Damiano Aliprandi il 30 gennaio 2020 su Il Dubbio. I familiari di Filippo Griner hanno presentato una denuncia. L’uomo, incontrato dopo giorni dall’avvocato Maria Teresa Pintus, ha confermato l’accaduto. La denuncia pesante è apparsa sulla pagina Facebook del garante dei detenuti di Sassari, anticipata da un’altra pagina social. Questa volta presentata ai carabinieri di Andria, città di provenienza del boss, e firmata dai familiari di Filippo Griner, detenuto al 41 bis del carcere Bancali. L’uomo accusa venti agenti penitenziari del reparto lo avrebbero pestato. Una vicenda delicatissima e tutta verificare. L’uomo, vittima del presunto pestaggio, è lo stesso che venerdì avrebbe aggredito un agente conficcandogli una penna nel viso. Episodio che però il detenuto stesso smentirà, dando un’altra versione dei fatti. Nel pomeriggio di venerdì 24 gennaio alle ore 15 era previsto il colloquio telefonico tra il signor Griner e lo studio De Pascalis, ma al momento di effettuare la telefonata è stato comunicato che, a causa di problemi alla linea, non si sarebbe potuto effettuare alcuna telefonata. La mattina di sabato 25 gennaio i legali hanno appreso dalla stampa locale che il loro assistito, nella mattinata del venerdì precedente, si sarebbe reso protagonista di un’aggressione ai danni di un agente della polizia penitenziaria causando delle lesioni al volto. Contemporaneamente veniva notificato l’avviso del sequestro e della convalida del sequestro dello strumento utilizzato per la presunta aggressione. Alle 12, però, in occasione del colloquio telefonico tra Griner e i propri familiari, egli riferiva di essere stato picchiato dagli agenti, di stare in una pessima condizione e di temere per la propria vita ed incolumità fisica. Il colloquio si sarebbe interrotto lasciando la famiglia in un gravissimo stato di agitazione e di preoccupazione. Pertanto i familiari hanno denunciato l’accaduto alla locale compagnia dei carabinieri di Andria. Nella mattinata di domenica 26 gennaio, l’avvocata Maria Teresa Pintus provava senza riuscirvi ad avere notizie dello stato di salute del detenuto al 41 bis mediante telefonata alla casa circondariale. Martedì scorso, finalmente, alle ore 14 ( dopo aver atteso dalle 9,30) l’avvocata Pintus è riuscita ad incontrare Griner il quale si trova in buone condizioni di salute nonostante abbia una spalla che non muove, dei lividi sulla parte bassa e al centro della schiena e varie escoriazioni sul tronco. Lamenta, inoltre, dolori al costato per i quali ha difficoltà respiratorie. L’accaduto della violenza che lui avrebbe commesso nei confronti dell’agente viene raccontato dallo stesso in maniera differente rispetto a quanto trapelato fino ad oggi: Filippo Griner afferma di essersi difeso e di non aver premeditato nessuna aggressione. Durante la colluttazione avrebbe utilizzato la penna per allontanare l’agente: dichiara che si è trattato di difesa e non di offesa. Ma tutto questo, compreso la violenza che lui avrebbe subito, lo accerterà la magistratura, grazie anche alle riprese video e alla presenza di altri soggetti in sezione. Nel frattempo, ieri, il garante locale Antonello Unida non ha avuto la possibilità di poter interloquire con il detenuto, ma potrà farlo venerdì prossimo. Come già riportato da Il Dubbio, il carcere di Sassari ha la peculiarità di aver creato la sezione del 41 bis scavando nel terreno e dove luce del giorno non entra mai. L’avvocata Maria Teresa Pintus spiega, senza mezzi termini, che al Bancali di Sassari ci sono problemi gravissimi: «Le celle sono sotterranee e si sa, se stai in un fosso sotto terra e hai tutto chiuso – dal blindo alle finestre – d’estate non puoi che soffocare, oltre a ciò si aggiunge la carenza dell’acqua e quella che esce dai rubinetti è gialla».

La lettera di Nicoletta Dosio: “In cella 18 ore su 24 , ho avuto la conferma: il carcere va abolito”. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. La lettera di Nicoletta Dosio, 74enne no tav arrestata a dicembre, inviata a “Potere al popolo”. “Più che la violenza cieca dello stato che ci reprime ( che pure esiste) colpisce la violenza subdola dei divieti immotivati, delle regole ad arbitrio, pesa la perdita della dimensione spazio- temporale”. Ecco la lettera che Nicoletta Dosio ha inviato a “Potere al Popolo”. La militante 74enne No Tav è in carcere dalla fine di dicembre del 2019 dopo la condanna a un anno, accusata insieme a altri attivisti di aver aperto le sbarre dei un casello autostradale durante una manifestazione di protesta. “Carissime compagne e compagni, Eccomi a voi per un saluto, sia pure da lontano, dal mondo capovolto che da venti giorni mi tiene carcerata. “Carcerata”, si, non “detenuta”: “detenuta” è un eufemismo che non rende bene la realtà; lo stridere ferrigno delle chiavi che chiudono a doppia mandata il cancello della cella; i colpi di spranga della “battitura” alle inferriate, nelle ore più disparate del giorno e della notte, a prevenire evasioni impossibili; la convivenza forzata, a due a due, in cubicoli di due metri per quattro, il cui fine non è certo favorire la socialità, ma privarci di momenti indispensabili di solitudine, del silenzio buono che rigenera, che ti permette di riordinare i pensieri e i ricordi. Qui siamo come uccellini chiusi in gabbia, in una gabbia troppo stretta. In questi luoghi, più che la violenza cieca dello stato che ci reprime ( che pure esiste) colpisce la violenza subdola dei divieti immotivati, delle regole ad arbitrio, pesa la perdita della dimensione spazio- temporale e soprattutto, per chi come me è ancora nella sezione delle “nuove aggiunte” in stato di “media osservazione”, la chiusura delle celle diciotto ore su ventiquattro. Eppure, nonostante tutto, la solidarietà tra recluse, magari un po’ “petrosa”, ma salda e immancabile, riesce a vincere anche la disumanizzazione del carcere: per tutte da parte di tutte, nei momenti bui, c’è la mano tesa, la parola che riesce a sdrammatizzare, il cibo offerto da cella a cella. Certo, non sono questi i momenti delle grandi lotte per i diritti nelle carceri, eppure non riesce a prevalere la guerra tra poveri su cui il sistema fonda da sempre il proprio dominio. Per questo, care compagne e compagni, sono serena e sperimento di persona, alla scuola del carcere, quanto da sempre andiamo teorizzando: che il carcere non è se non luogo di controllo sociale, di repressione contro gli ultimi, chi non ha voce e chi, individualmente e collettivamente si ribella; dunque da abolire. Quest’esperienza conferma che le nostre ragioni sono giuste e che la guerra infinita contro gli errori umani e contro la natura non può portare se non alla catastrofe sociale e ambientale. Contro un sistema irriformabile non serve aspettare dalla delega la salvezza che non verrà: serve allargare il conflitto, senza farsi spaventare da un potere che, più che mai, è un gigante dai piedi d’argilla. Mentre vi scrivo, si fa sera. La mia finestrella è in ombra, ma fuori i cortili sono inondati dal sole al tramonto. Anche il cemento, gli alberi polverosi addossati ai muri sembrano accarezzati da una precoce primavera. I passeri vanno e vengono dal davanzale oltre sbarre e reti, becchettano le briciole che riesco a spargere per loro. Mi fanno compagnia i miei libri più cari, che sono riuscita a portare con me, e le centinaia di lettere che mi giungono ogni giorno: le guardo e sono felice perché vi sento tutte e tutti qui vicini, voi, la mia grande famiglia di lotta. E sento la profonda, emozionante verità che Rosa ci lascia in una sua lettera dal carcere di Wronke "… Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita nella grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola". Questo il mio messaggio di saluto, con tenerezza. Nicoletta". 

Lettera di un detenuto al direttore: “In Italia la pena di morte è mascherata: ti lasciano morire in carcere”. Redazione su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Riportiamo in seguito il testo integrale di una lettera scritta da un detenuto nel carcere di Secondigliano di Napoli al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Salve Dott. Piero Sansonetti. Sono ***** *******, vi invio questa mia, per far conoscere i soprusi e gli abusi che sto subendo. Mi trovo in carcere per 416bis. Ma sono innocente: ho lavorato in un autolavaggio in Sicilia, altro che mafia, lavoravo più di 14 ore al giorno per 20 euro! Mi trovo qui a Secondigliano e da più di un anno, non posso parlare con i familiari, perché me lo hanno impedito. Ho fatto più richieste per poter parlare con i miei familiari e avere il numero di telefono contenuto nel mio telefonino sequestrato dalla polizia siciliana, ho chiesto al Magistrato di competenza ma non ho avuto nessuna risposta. Qui chiedo di poter parlare con il mio ambasciatore e non vogliono, non mi fanno parlare, non so cosa fare, mi tengono ristretto, non so l’italiano, non mi fanno parlare con i miei familiari e con il mio ambasciatore. Qui in carcere, per noi detenuti, non esistono diritti!!! Siamo sovraffollati, ammassati come sardine, in celle strette, anguste e non abbiamo neanche un metro quadro per detenuto per muoverci. La sanità non funziona, qui se hai una malattia che si può curare ti fanno morire, ho visto e vedo detenuti che muoiono e altri che stanno morendo e non se ne fregano. Vi faccio presente che la maggior parte dei detenuti sono presunti innocenti, qui ci arrestano per niente, innocenti, e questi magistrati corrotti ci condannano da innocenti e rovinano la vita nostra e dei nostri familiari. Qui in Italia c’è la pena di morte mascherata, che ti fanno morire in carcere, non vogliono che un detenuto si inserisca realmente in una nuova vita in libertà, in modo che la persona lavora onestamente. Qui non esistono benefici e applicano a tutti la Mafia, ma la vera mafia sono loro, che ci schiacciano, ci tolgono la libertà, rovinano le nostre famiglie e ci fanno morire in carcere e nessuno fa niente. Ti chiedo di aiutarmi per avere i miei Diritti, e di far conoscere la mia precaria e amara situazione attuale in modo che qualcuno possa intervenire. Io solo così posso farmi sentire. Qui in carcere non mi danno la possibilità di fare niente. Non posso parlare con il mio ambasciatore e soprattutto con la mia famiglia. Se puoi far sapere la mia situazione e mandare in qualche associazione che mi può aiutare. Non voglio fare atti estremi, ma qui in carcere ti portano loro ad arrivare a determinati atti, come violenza o suicidio, che più di tutti i casi di suicidio non è vero, sono le guardie che ammazzano i detenuti e poi gli mettono una corda al collo, o il lenzuolo e dicono e fanno dichiarare che si è impiccato. Ci sono altri omicidi che hanno fatto le Guardie e che li lasciano prendere metadone e grossi quantitativi di psicofarmaci e dichiarano che se li è presi il detenuto, non è per niente vero!!! Concludo e mi auguro che mi aiuterete. Nell’attesa, il Detenuto **** ***********, C.C. Secondigliano (Napoli).

Il 41 bis è una fossa comune di sepolti vivi. Sergio D'Elia su Il Riformista il 23 Luglio 2020. Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem terrà un altro Consiglio Direttivo sabato, 25 luglio. La riunione dal titolo “41-bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi” prende spunto dall’uscita di un numero monografico sul “carcere duro” della rivista giuridica Giurisprudenza Penale. Insieme all’aspetto tecnico-giuridico (di cui il fascicolo prevalentemente tratta), verrà trattato quello umano del vissuto delle vittime di questo regime speciale che vige in Italia da quasi trent’anni e che nessuno pare voglia mettere in discussione.  Prenderanno la parola ex detenuti al 41-bis, familiari, avvocati difensori, magistrati di sorveglianza, giuristi, giornalisti. Si parlerà della vicenda di Raffaele Cutolo, un uomo di quasi 80 anni vissuti in un tempo “equamente” diviso fra tre generazioni: la prima in libertà, la seconda nel carcere “normale”, la terza al “carcere duro”. Non sono pochi i detenuti al 41-bis che, come Raffaele Cutolo, sono sottoposti al regime speciale di isolamento, ininterrottamente, da quando è stato istituito nel 1992 e che rischiano di morire nelle mani di uno Stato che ha abolito la pena di morte, ma non la morte per pena e la pena fino alla morte. Il monumento simbolo della lotta alla mafia si erge su una fossa di sepolti vivi, uomini privati di sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, di facoltà sociali minime come la parola. Da regime speciale introdotto per tagliare le comunicazioni mafiose tra l’interno e l’esterno del carcere, il 41-bis si è nel tempo involuto fino ad attorcigliarsi su se stesso, si è incattivito fino ad accanirsi anche contro se stesso, con norme, disposizioni, circolari assurde che, al confronto, quelle in vigore a Guantanamo o nei campi di rieducazione cinesi appaiono regole libertarie. La mania securitaria ha spinto, ad esempio, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a percorrere tutti i gradi di ricorso fino alla Suprema Corte di Cassazione per ripristinare la sanzione disciplinare, che il Magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva cancellato, nei confronti di due detenuti che da una cella all’altra, prima di cena, si erano scambiati un “buon appetito”. Se il “diritto penale del nemico” ha stravolto le regole basilari del giusto processo nelle aule di tribunale dove si trattano reati di mafia, il “codice penitenziario del nemico” applicato ai detenuti per mafia (anche a quelli in attesa di giudizio, quindi innocenti fino a prova contraria) ha travolto le regole minime del buon senso. Dire a quello della cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare, costituisce grave minaccia all’ordine democratico e alla sicurezza pubblica, ordine e sicurezza non solo interni al carcere, anche esterni e, forse, anche internazionali. La Corte di Cassazione ha seppellito il ricorso del DAP con una risata. Ma c’è poco da ridere. Il 41-bis è un regime di tortura, un dominio dell’uomo sull’uomo pieno e incontrollato, sempre più chiuso e ottuso. È la quintessenza del carcere, dell’isolamento, della privazione della libertà. Un giorno – che noi di Nessuno tocchi Caino, noi che siamo anche Spes contra Spem, faremo in modo non sia molto lontano – ci volgeremo indietro e guarderemo al carcere, nella sua versione “dura” e nella sua versione “morbida”, come si guarda a una rovina della storia, un resto archeologico dell’umanità. Ci volgeremo indietro e diremo a noi stessi: cosa abbiamo fatto? Siamo arrivati a giudicare, punire e chiudere le persone in una cella! A tenerle fuori dal tempo e fuori dal mondo. A volte senza pane e acqua, a volte con pane e acqua, a volte interdette anche all’uso stesso della parola, all’usanza civile del dire “buon appetito”, alla buona maniera del dirsi “buongiorno” o “buonanotte”.

 “Io, al 41bis da 23 anni dico: lo Stato abbia il coraggio di fucilarmi”. Il Dubbio il 7 luglio 2020. L’appello dell’ex boss catanese Salvatore Cappello, condannato all’ergastolo e che da 23 anni sconta il regime di carcere duro del 41 bis: “Illustrissimo Presidente” chiedo di essere Fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. “Illustrissimo Presidente” chiedo di essere Fucilato nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta”. È l’appello contenuto nella lunga lettera inviata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dall’ex boss catanese Salvatore Cappello, condannato all’ergastolo e che da 23 anni sconta il regime di carcere duro del 41 bis. A divulgare la missiva in cui Cappello chiede la "grazia" della morte, è stata l’associazione Yairaiha Onlus che da anni si batte contro l’ergastolo ostativo. “Alla S.V. Illustrissima – scrive Cappello rivolgendosi al Capo dello Stato – affinché intervenga a far eseguire la condanna inflittami dalla Corte d’Assise di Catania e Milano cioè la condanna a morte nascosta dietro la parola ERGASTOLO, con FINE PENA 9999, cioè FINE PENA MAI! Chiedo che la condanna venga eseguita perché dopo 24 anni, di cui 23 passati al 41 bis, SONO MORTO già tante di quelle volte che non lo sopporto più; ogni volta che lo rinnovano muoio; quando guardo gli occhi dei miei figli, dei miei cari, di mia moglie penso che la condanna a morte è anche per loro. E non voglio – prosegue la lettera – che muoiano tutte le volte lo rinnovano con scuse banali e senza fondamento, per questo chiedo di morire”. “Non intendo impiccarmi o suicidarmi – scrive nella missiva indirizzata a Mattarella – perché l’ho visto fare tante di quelle volte che non voglio pensarci. Siete voi che dovete eseguire la sentenza perciò chiedo che venga eseguita tramite fucilazione nel cortile dell’istituto, così la facciamo finita perché, dopo 24 anni, non voglio più morire tutti i giorni, voglio morire una sola volta perché non basta che tu stia scontando l’ergastolo, non basta che lo sconti pure con la tortura del 41 bis, c’è anche la cattiveria”, sostiene aggiungendo una serie di esempi. “Che so… sei un 41 bis? Non puoi farti nemmeno un uovo fritto. È questa la lotta alla mafia? Tu hai preso 30 anni (senza uccidere nessuno) per estorsione ed associazione? Con l’art. 4 bis li sconti tutti senza benefici; ma se tu hai ucciso un bambino, lo hai violentato, sconti 20 anni e niente 41 bis, niente restrizioni. Questo è lo Stato italiano! Che so, rubi un tonno per fame? Sconti dai 3 ai 5 anni; poi – prosegue Cappello – c’è chi ruba milioni di euro, quelli vanno a Rebibbia in attesa dei domiciliari! E sono peggio dei mafiosi perché loro hanno giurato fedeltà allo Stato”. Io sig. Presidente, non sono un santo, sono, o meglio, ero, un delinquente. Ma – prosegue nella lettera – sono 10 anni che ho dato un taglio a tutto per amore dei miei figli e dei miei cari. Ma ciò non è servito a niente perché le procure non vogliono che tu dia un taglio al passato, o ti penti o sei sempre un mafioso da sfruttare tutte le volte che fanno un blitz sfruttando il nome tutte le volte che fanno un blitz sfruttano il tuo nome per dare più risalto per dare più peso al blitz e tu ci vai di mezzo solo perché . scrive l’ergastolano – un megalomane fa il tuo nome; non vogliono nemmeno che i tuoi figli lavorano perché vogliono che seguono le ‘orme del padre’, se trovano lavoro vanno dal datore di lavoro e gli dicono che stanno facendo lavorare il figlio di un mafioso. Se non lavorano dicono che non lavorano. Ma, ringraziando Dio, i miei figli lavorano tutti, lavori umili, ma lavorano, e fanno sacrifici per venirmi a trovare”. “Se chiedo la fucilazione – spiega – lo faccio anche per loro, per non dargli più problemi. Sa cosa vuol dire ricevere un telex che dice che tua figlia è ricoverata in fin di vita, vedi se puoi telefonare? No al 41 bis non posso chiamare; ho un solo colloquio al mese o una telefonata. Se avevo ucciso un bambino – insiste Cappello – non ero ‘mafioso’, non avevo 41 bis, allora si, assassino di bambini se ricevevo un telex tipo ‘mamma ha la febbre’, allora potevo telefonare, chiedere colloqui e tutto. Questa è la legge italiana! Signor Presidente, sono 23 anni che non ho una carezza dei miei genitori, che non abbraccio i miei figli, che non tocco la mano di mia moglie, perciò – conclude l’ex BOSS – mi chiedo ‘è questa la vita che devo fare fino alla morte’? E allora facciamola finita subito, FUCILATEMI! P.S. NON RESTITUITE IL CORPO ALLA MIA FAMIGLIA, SAREBBERO PER LORO ALTRI PROBLEMI. GRAZIE”

Il 4 bis e l’evoluzione del “doppio binario”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 settembre 2020. Il libro, della casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre, si intitola “Regime ostativo ai benefici penitenziari” ed è scritto dalla giovane avvocata Veronica Manca. L’ergastolo ostativo nega in radice il concetto di risocializzazione che dovrebbe giustificare, almeno come possibilità, la pena anche nella sua massima estensione. Il 2019 è stato però l’anno nel quale si è messo in discussione, grazie anche alle pronunce della Cedu e della Corte costituzionale, la questione di un “doppio binario” che caratterizza il nostro sistema giudiziario non solo nella fase processuale ma anche in quella dell’esecuzione della pena. Attenzione, il doppio binario rimane, ma il 4 bis che ne costituisce il perno ha smesso di sbarrare l’accesso ai benefici ( per ora solo il permesso premio) anche per i condannati che non vogliono collaborare con la giustizia. Una norma, il 4 bis, che nasce come una eccezione ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano – a seconda le emozioni del momento – delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. In questi ultimi due anni, come detto, ci sono state novità importanti. Ma, come sosteneva lo storico Tucidide, bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro. È appena uscito un libro che non solo analizza il passato, ma fa capire molto bene il presente dando gli strumenti necessari per monitorare un’esecuzione della pena legale, il più possibile conforme ai principi costituzionali e compatibile con la dignità umana della persona condannata. Il libro, della casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre, si intitola “Regime ostativo ai benefici penitenziari” ed è scritto dalla giovane avvocata Veronica Manca. Lei è membro dell’osservatorio carcere della Camera Penale di Trento, componente dell’osservatorio Europa delle camere penali e, non è un caso, fa parte del direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Il libro ripercorre l’evoluzione del “doppio binario” e le prassi applicative. Potrebbe far pensare che sia un libro rivolto soltanto agli avvocati, magistrati, giuristi in generale. In realtà è scritto in maniera chiara e scorrevole, a tratti avvincente soprattutto nel capitolo relativo alla genesi del 4 bis: parte dalla legge Gozzini, passa per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio e non manca di ricordare la prima introduzione voluta da Falcone che – alla faccia di chi strumentalmente utilizza il suo nome – inizialmente non precludeva in maniera assoluta i benefici a chi non collaborava. Interessante il riferimento ai tempi dell’Ucciardone di Palermo quando i mafiosi mangiavano “aragoste e champagne” e commissionavano gli omicidi. Un capitolo, quello della genesi del 4 bis, utilissimo sia per contestualizzare e sia per paragonare lo spirito emergenziale di allora ( scoppiavano le bombe) con quello di oggi. Non a caso l’autrice arriva a parlare anche della cosiddetta Spazzacorrotti, una legge emergenziale ( si allarga il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione) quando l’emergenza non c’è. Il libro dell’avvocata Manca pone l’obiettivo di fornire, quindi, tutti gli strumenti necessari per un approccio sistematico all’applicazione dell’articolo 4 bis e di tutte quelle ricadute pratiche. Un 4 bis, come viene ben spiegato nel libro, che adatta la struttura dell’ordinamento penitenziario al principio del trattamento esecutivo differenziato dei reclusi sulla base del titolo di reato per il quale sono stati condannati. Nel libro, infatti, vengono affrontati tutti i reati che fanno parte del 4 bis e non manca l’approfondimento dei reati sessuali. Quelli che creano maggiore indignazione, forse più della mafia stessa. Non a caso, secondo il “codice d’onore” dietro le sbarre, ad esempio i “pedofili” non hanno diritto di esistenza. Un tema – come si legge nell’introduzione del capitolo – «complesso e articolato, sia dal punto di vista scientifico, per la difficile ricerca di una categoria unitaria di tipi d’autore, detti “sex offender”; sia giuridico, a causa del susseguirsi di leggi, spesso stratificate, e anche contraddittorie». Sono crimini sessuali che rientrano alla “terza fascia” del 4 bis. Leggendo il libro, uno apprende che l’ordinamento penitenziario prevede per chi si è macchiato di questi gravi e indicibili crimini sessuali, un loro recupero attraverso programmi terapeutici e utili anche per dare elementi di valutazione al magistrato di sorveglianza per la concessione o meno dei benefici penitenziari. Tutto ciò che l’avvocata Manca ha descritto e narrato come se fosse un romanzo dell’esecuzione penale, ha fatto emergere quanto sia complesso e stratificato il 4 bis, creando così un ordinamento penitenziario che assomiglia a un sistema multilivello. La riforma dell’ordinamento penitenziario doveva essere epocale, ma oltre ad essere stata approvata a metà, rischia di subire una involuzione nonostante l’orientamento della giurisprudenza trans- nazionale. Il rischio di un “sovranismo giudiziario” è di nuovo alle porte. Per questo vale la pena di leggere il libro di Veronica Manca, dove mette di nuovo al centro la dignità della persona che deve comunque rappresentare – come dice l’autrice stessa – «il nucleo essenziale della legalità della pena».

Signori, il 4 bis rende il 41 bis una detenzione ancora più dura. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 Maggio 2020.  Momento imbarazzante durante la trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti. Francesco Basentini, ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è ormai diventato un vero e proprio capro espiatorio. È stato accusato, durante il programma Non è l’Arena di La7, di aver ammorbidito il 41 bis a Pasquale Zagaria dopo averci parlato. Come? Concedendogli il 14 bis dell’ordinamento penitenziario. Una affermazione davvero imbarazzante perché gli ospiti, tra i quali due ex magistrati (Luigi de Magistris e Antonio Ingroia) e uno ancora in servizio (Alfonso Sabella) non sapevano di cosa si stesse parlando. Solo dopo la pubblicità, forse consultando Google, hanno ammesso di aver preso un abbaglio. Ma senza specificare di che cosa si trattasse. Allora lo ricordiamo noi visto che su Il Dubbio abbiamo proprio affrontato questa misura che rende il 41 bis ancor più duro e spesso stigmatizzato dal Garante nazionale delle persone private della libertà tramite i suoi rapporti tematici. Il 41 bis oramai è entrato nell’immaginario collettivo come qualcosa di dovuto, ineludibile e non misura eccezionale. Con il passare degli anni è diventato sempre più duro rispetto a quello originale nato durante una vera e propria emergenza mafiosa: era il periodo stragista dove i mafiosi corleonesi ammazzarono con il tritolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ultimamente, grazie ad alcune sentenza della Consulta, alcune misure inutilmente afflittive sono cadute, ma tante altre ancora rimangono. Tra queste c’è una forma di 41 bis “speciale” che prevede una ulteriore riduzione dell’ora di socialità, isolamento pressoché totale, completamente al buio perché il più delle volte si è internati sottoterra. Un super 41 bis per alcuni condannati al 41 bis. Parliamo della cosiddetta “area riservata” che non ha nessun fondamento normativo, eppure è un atto amministrativo che viene applicato per i boss mafiosi di un certo calibro, ma non solo. Questo regime ulteriormente duro è stato più volte messo all’indice dagli organismi internazionali come il Comitato europeo per la prevenzione sulla tortura (Cpt), ma anche dal dossier della Commissione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi e, non da ultimo, dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Il Cpt ha evidenziato il “quasi isolamento” previsto dal regime speciale di questa area riservata caratterizzato da un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione ridotta al minimo e con possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri, queste aree riservate riservano un isolamento totale. Come si ottiene questa misura? Con l’applicazione congiunta del regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario previsto dall’articolo 41 bis e della sorveglianza speciale del fatidico articolo 14 bis menzionato durante la trasmissione di Massimo Giletti. Un combinato disposto che dà luogo a stati di isolamento prolungato, protratto anche per molti anni, che incidono gravemente sull’integrità psichica e fisica della persona detenuta. Solo per fare un esempio la delegazione del Garante nazionale nella Casa circondariale di Tolmezzo aveva incontrato un detenuto che era collocato nell’area riservata ed era in isolamento continuo da sei anni, senza poter accedere ad alcuna anche minima forma di socialità. Durante la visita effettuata dalla delegazione del Garante, la persona si presentava in condizioni igieniche appena sufficienti e riferiva di soffrire di cecità dall’occhio sinistro per “foro maculare” e ridotta visibilità al destro per “cellophane maculare”. La condizione di isolamento continuo protratta per sei anni, verosimilmente responsabile anche del decadimento fisico, psichico e igienico del detenuto che trascorre le proprie giornate soltanto ascoltando la radio ( non potendo nemmeno guardare la televisione a causa del difetto visivo), secondo Mauro Palma pone concretamente la questione della compatibilità con i parametri dell’umanità della pena e del divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani.

Maurizio Tortorella per “la Verità” il 27 maggio 2020. Se la giustizia italiana fosse giusta, una Procura avrebbe già aperto un' inchiesta. E i magistrati starebbero scavando nello scandalo delle scarcerazioni dei detenuti mafiosi, avvenute sotto il guardasigilli Alfonso Bonafede. Il materiale per un' inchiesta, del resto, c' è tutto: strane rivolte carcerarie, misteriose circolari ministeriali, sospetti lanciati come sassi in tv...Sospettati non ce ne sono, ma il materiale alla base dell' indagine-che-non-c' è ha per lo meno la stessa forza di quello che una decina d' anni fa ha acceso il controverso processo palermitano sulla presunta «trattativa» tra Stato e mafia, oggi in Corte d' appello. In primo grado mafiosi, politici e uomini delle forze dell' ordine sono stati condannati per avere ordito un piano oscuro, indefinito in più passaggi: alleggerire il carcere duro per i boss di Cosa nostra, detenuti in base all' articolo 41 bis della legge sull' ordinamento penitenziario. Voluta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli dopo la strage di Capaci del maggio 1992, costata la vita a Giovanni Falcone, quella norma impone ai capi mafiosi un duro regime di sorveglianza e l' impossibilità di comunicare con l' esterno. Secondo l'accusa, sostenuta dai pm antimafia palermitani raccolti attorno a Nino Di Matteo, tra il 1992 e il 1993 la presunta «trattativa» avrebbe visto da una parte i mafiosi, che minacciavano nuove bombe se il 41 bis non fosse stato attenuato, e dall' altra gli uomini dello Stato che facevano di tutto per evitarle. Imbastito su elementi a volte fumosi o inconsistenti, il processo Trattativa ha monopolizzato per anni il dibattito giudiziario e condizionato la vita politica. Al confronto con gli elementi alla base quel processo, paradossalmente, la sequenza dei fatti di questo terribile 2020 è più concreta e coerente. Però nessuno, almeno che si sappia, sta indagando. Il problema, a pensar male, è forse che la vicenda non coinvolge attori di centrodestra. Tutto comincia il 31 gennaio, quando il governo di Giuseppe Conte delibera lo stato d' emergenza per coronavirus. Quel giorno, secondo il ministero della Giustizia retto dal grillino Bonafede, le prigioni hanno un preoccupante sovraccarico di detenuti: sono 60.971, contro una capienza «regolamentare» di 50.692 e una disponibilità effettiva di 47.000 posti. Le celle scoppiano, il rischio di contagio è grave. Che cosa fa il ministro? Nulla. Che cosa fa il capo del Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, il magistrato che Bonafede ha scelto per quell' incarico nel giugno 2018, poco dopo il suo insediamento? Niente. Per tutto febbraio, ministro e capo del Dap non agiscono. Il 18 di quel mese, Basentini spedisce alle 189 carceri italiane le «Linee programmatiche per il 2020»: su 12 pagine, due sono dedicate al tema «La sanità negli istituti penitenziari», ma le parole «epidemia», «coronavirus» o «Covid-19» non compaiono nemmeno di striscio. Possibile non si capisca che le prigioni scoppiano e che il virus inevitabilmente le coinvolgerà? A fine febbraio i detenuti aumentano ancora: 61.230. Intanto l' onda della pandemia è montata, è uno tsunami. La paura del contagio si fa terrore, il malumore ribolle. Ai primi di marzo qualche protesta scoppia fuori dai cancelli. La risposta del ministero è così irrazionale da lasciare interdetti: vengono sospesi permessi-premio e visite dei familiari. Il risultato è inevitabile. Tra il 7 e il 9 marzo, in 26 prigioni, scoppia la più violenta rivolta degli ultimi 40 anni. Lascia 14 morti tra i detenuti (ufficialmente per overdose da metadone, rubato nelle infermerie), 50 agenti feriti, una settantina di evasi, danni per 35 milioni. C' è chi scrive che è tutto «organizzato», che c' è «una regia», ma anche quel tema stranamente evapora. Di certo i rivoltosi incontrano magistrati, ufficiali delle forze dell' ordine, e consegnano loro rivendicazioni e richieste. La protesta finisce. Passano dieci giorni, e il 21 marzo ecco altre anomalie. Il Dap invia un' irrituale circolare ai direttori delle prigioni: chiede di comunicare «con solerzia all' autorità giudiziaria» i nomi dei detenuti in condizioni di salute ed età tali da esporli al rischio di contagio. Il risultato dell' indagine servirà «per le eventuali determinazioni di competenza» dei Tribunali di sorveglianza, cioè per le possibili scarcerazioni. Mistero nel mistero, a firmare la circolare non è Basentini, né un direttore subordinato, ma l' addetta stampa Assunta Borzacchiello. Nessuno ne ha mai capito il perché. Il vero mistero, comunque, è la circolare, che subito viene letta come la chiave per aprire le celle. Non per nulla, il documento specifica che, «oltre alla relazione sanitaria» di ogni detenuto a rischio, devono essere allegate altre informazioni, tra cui «la disponibilità di un domicilio». E difatti i ritorni a casa cominciano: in sordina, a decine. Piano piano, escono di cella 376 detenuti pericolosi. Lo scandalo esplode solo a metà aprile, quando i giudici di sorveglianza spediscono ai domiciliari una serie di «pezzi da 90», fino a quel momento reclusi al 41 bis. Personaggi come Francesco Bonura, boss di Cosa nostra condannato a 23 anni; o come Pasquale Zagaria, fratello di Michele e mente finanziaria del clan camorristico dei Casalesi, condannato a 20 anni. Lo segnalano alcuni giornali, tra cui La Verità, e la polemica si fa rovente. Si scopre che il Dap non ha fornito ai giudici soluzioni alternative per i boss, che non ha saputo cercare posti nelle «strutture sanitarie protette». Il Dipartimento ha perso tempo, ha perfino spedito e-mail agli indirizzi sbagliati. Un' inconcludenza mai vista prima, nella struttura. Basentini vacilla. A fine aprile il guardasigilli decide di sacrificarlo, e il capo del Dap si dimette. Ma ai primi di maggio la polemica ha un ritorno di fiamma perché in tv Nino Di Matteo accusa Bonafede di avergli offerto e precipitosamente negato la guida del Dap che nel giugno 2018 ha poi affidato a Basentini. La rivelazione è quasi grottesca: due anni dopo la sua mancata nomina, Di Matteo - che, ricordiamolo, è uno dei pm del processo «Trattativa» - ipotizza che il ministro abbia fatto retromarcia sul suo nome per le proteste di «importantissimi boss mafiosi detenuti», preoccupati che il suo arrivo al Dap potesse produrre una stretta del 41 bis. A quel punto, mentre l' opposizione chiede le sue dimissioni, l' imbarazzatissimo Bonafede vara due decreti in pochi giorni: il primo subordina le scarcerazioni dei boss al Sì delle Procure antimafia; il secondo impone ai Tribunali di sorveglianza di verificare di continuo la salute dei boss trasferiti a casa. Intanto, nel silenzio di tutta la stampa italiana, La Verità riporta la sconcertante denuncia del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. L' ex boss di Cosa nostra, che si è pentito con Falcone nel 1992 e da 28 anni viene ritenuto affidabile, dice che le scarcerazioni dei boss «fanno parte della Trattativa tra Stato e mafia, che non è mai finita», e aggiunge che «è inutile che adesso il ministro annunci in pompa magna che li fa tornare in carcere: ormai sono fuori, i buoi sono scappati dal recinto». Anche il suo j' accuse cade nel vuoto. L'ultimo capitolo della storia riguarda la visita che Basentini ha fatto a Michele Zagaria, boss dei Casalesi recluso al 41 bis nel carcere dell' Aquila. Secondo quanto rivela oggi un cronista napoletano esperto di camorra, Paolo Chiariello, nel novembre 2018 il capo del Dap sarebbe entrato nella cella di Zagaria con il direttore della prigione e con una terza persona. Incontrare i detenuti è tra le facoltà del capo del Dipartimento. Intercettato poco dopo, però, il boss confida a un compagno di cella di aver parlato con «uomini delle istituzioni», che gli hanno fatto capire che il suo 41 bis non si può allentare solo per l'opposizione della Procura di Napoli. Se l'avesse saputo Di Matteo, una decina d' anni fa, chissà quali indagini ci avrebbe imbastito.

Cassazione: aver augurato “buon appetito” al 41bis non è uno scambio di informazioni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 Giugno 2020. No alla sanzione inflitta dal Dap, secondo cui il divieto era finalizzato a impedire comunicazioni. «Un atto privo di intento comunicativo». Dopo aver dichiarato che è illegittimo sanzionare il detenuto al 41 bis che ha dato “la buonanotte” a un gruppo diverso da quello di socialità, ora la Cassazione – con diverse ordinanze – ha dichiarato illegittimo anche la sanzione data a due detenuti al carcere duro per aver detto “buon appetito” ad altri detenuti ristretti fuori dal loro gruppo di socialità. Uno di loro è Giuseppe Madonia. Accade che il magistrato di Sorveglianza di Sassari aveva annullato la sanzione disciplinare del richiamo inflittagli per avere salutato ( augurando appunto “buon appetito”) altri detenuti ristretti nel suo varco. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha fatto reclamo, ma il tribunale di Sassari l’ha rigettato. Il Dap ha rilevato che il reclamo si fondava sul disposto dell’art 41 bis che prevede l’impossibilità di comunicare tra detenuti di diversi gruppi di socialità e che vieta quindi ogni forma di dialogo e comunicazione tra detti detenuti, sottolineando che la comunicazione può anche essere non verbale; tuttavia il Tribunale di Sorveglianza ha osservato che quel divieto di comunicazione serviva ad evitare uno scambio di notizie e doveva essere costituito da uno scambio di contenuti: pertanto il mero saluto era, invece, una forma espressiva neutra, dalla quale non poteva evincersi quale tipo di informazione potesse essere scambiata. Ma il Dap, il ministero della Giustizia, le direzioni delle carceri di Sassari e Viterbo hanno fatto ricorso in Cassazione sostenendo che il divieto in oggetto era finalizzato a impedire comunicazioni e che il Tribunale di Sorveglianza si era arrogato il potere di valutare se la singola comunicazione era pericolosa o meno. Ma non solo. Ha fatto ricorso anche il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Sassari, deducendo erronea applicazione di legge: ha sostenuto che il Tribunale di Sorveglianza aveva fornito un’interpretazione della norma che superava un limite imposto espressamente, e sostanzialmente aveva configurato come diritto la facoltà di procedere allo scambio comunicativo, poiché il termine “comunicazione” doveva intendersi quale comprensivo di ogni forma di contatto, il quale può rivelarsi anche nel saluto, nel gesto, nelle movenze e in ogni scambio alternativo all’ordinario che può definire un ruolo e un messaggio occulto. Per la Cassazione, però, i ricorsi sono inammissibili. Ha ricordato lo scopo del 41 bis, ovvero quello di impedire i collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. Quindi è vietato che comunichino persone dello stesso gruppo criminale, per questo motivo esistono i gruppi di socialità dove i componenti sono fatti da persone che non appartengono alla stessa organizzazione. Ma cosa intende per “comunicazione”? La Cassazione spiega che intende il processo e le modalità di trasmissione di una informazione da un individuo a un altro attraverso lo scambio di un messaggio connotato da un determinato significato. Nello specifico, perciò, secondo la Cassazione il Tribunale di Sorveglianza ha correttamente rilevato che la mera dichiarazione di saluto doveva considerarsi di natura neutra, nel senso che non vi era modo di cogliere una particolare informazione trasmessa in quel modo: in definitiva, un atto privo di un vero e proprio intento comunicativo. Quindi, aver sanzionato chi ha augurato “buon appetito”, ha determinato una inutile afflizione, non prevista e quindi non consentita. 

Scarcerate Rosa, rischia la paralisi. Gioacchino Criaco l'1 Novembre 2019 su Il Riformista. C’è una donna, Rosa Zagari, compagna di un ex superlatitante, Ernesto Fazzalari, in carcere per aver aiutato il suo compagno a eludere la pena, condannata in primo grado, in attesa di appello. Rosa sta in carcere, è scivolata nella doccia qualche mese fa, ha riportato gravi lesioni alla schiena. È rimasta in carcere, spostata dalla cella nel reparto medico della prigione. C’è una donna, Teresa Moscato, madre di Rosa, convinta che le cure alla figlia siano insufficienti, teme che rimanga paralizzata. C’è un appello che gira perché si faccia quanto possibile, quanto giusto, per aiutare una a stare bene e l’altra a non temere. È uno di quegli appelli che girano poco, fra i soliti fessi convinti che l’umanità venga prima di tutto. A queste cose, a quelli che stanno in galera, anche i buoni ci badano poco. Sì, anche i buoni, se c’è puzza di mafia, e anche se è tutta da dimostrare storcono il naso, si allineano a tutti quelli che ogni giorno criticano, con quelli che dispensano odio, e che in genere sono coerenti: odiano tutti allo stesso modo. Quelli che sono buoni no, in genere amano ma poi sanno anche ferocemente odiare. Per loro qualunque giudice o agente è cattivo a prescindere se tocca un Lucano, è sempre nel giusto se persegue un pungiuto o presunto tale. Agenti e magistrati stanno sempre nel male, contro i Cucchi, nelle Genova varie, e sono angeli del bene sempre e comunque contro i palermitani scaltri. E ognuno è libero di essere buono o cattivo a piacimento, di affogarsi nelle proprie ipocrisie. Ci sono due donne che soffrono e io, a Rosa e a Teresa, auguro a una di ritrovare la salute e all’altra la pace.

Il caso della detenuta che chiede di essere curata. Rischia paralisi in carcere, la lettera per Rosa: “Pesa 42 chili, la stiamo perdendo”. Redazione de Il Riformista il 30 Gennaio 2020. “Ormai pesa 42 chili  e la stiamo perdendo”. Rosa Zagari, 44 anni, affida al suo legale un appello per chiedere di ricevere le terapie adeguate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove attualmente è detenuta. La sua storia, ampiamente denunciata in queste settimane dal Riformista, è stata segnalata da tempo al garante nazionale dei detenuti e viene definita dall’avvocato che assiste la donna, Antonino Napoli, “un caso di violazione dei principi fondamentali della dignità e della tutela della salute che non si possono attenuare solo perché una persona è detenuta”. L’appello è lanciato attraverso l’agenzia AGI. “Vivo un calvario, qui non mi curano: aiutatemi” fa sapere Rosa, arrestata in passato a con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. E’ stata condannata a 8 anni in primo grado e aspetta l’esito dell’Appello. Rosa è la compagna di Ernesto Fazzalari, uno degli elementi apicali della famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘ndrangheta, arrestato nel 2016 dopo oltre 12 anni di latitanza e sta scontando una condanna all’ergastolo in regime di carcere duro. La donna non riesce a camminare da oltre un anno dopo un incidente avvenuto nel carcere di Reggio Calabria: dopo essersi fatta la doccia, Rosa è scivolata fratturandosi due vertebre. Stando al racconto del difensore e agli accertamenti dei periti nominati dalla difesa, la donna non è mai stata trattata in modo adeguato in nessuna delle tre strutture penitenziarie in cui è stata (Messina,  Reggio Calabria, Santa Maria Capua Vetere). Il suo legale ha chiesto più volte, senza ottenere alcun riscontro, che un Gip nomini un medico legale in grado di fare una diagnosi non di parte. All’AGI i familiari sono preoccupati delle sue condizioni e della perdita di peso: “E’ 42 chili, la stiamo perdendo.E’ ridotta malissimo – sono le parole della sorella – mi ha detto che in carcere la prendono in giro sostenendo che finge. A gennaio è morta di dolore anche la mamma che si era spesa molto per farla curare”. Il suo legale spiega che “un nostro ortopedico di fiducia, primario dell’ospedale di Locri, aveva notato che il busto era stato messo male e aveva prescritto una riabilitazione mai fatta. In seguito, la mia assistita è stata trasferita a Santa Maria Capua Vetere dove non c’è un centro clinico e, quindi, anche lì’ nulla è stato fatto per curarla. Nel luglio scorso, sua sua richiesta, sono andato a trovarla e ho visto coi miei occhi che non era in grado di camminare, se non appoggiata a un’altra persona. Dopo varie istanze al Dap, siamo riusicti a farla trasferire al centro clinico di Messina, dove le vengono somministrati degli antidolorifici, ma nulla più”.

 E’ morta Teresa, la mamma di Rosa: la donna che rischia la paralisi in cella. Gioacchino Criaco il 30 Gennaio 2020 su Il Riformista. È una storia di donne questa, di madre e figlia: di Teresa e di Rosa. Ve ne abbiamo parlato il 1° novembre, Rosa era in carcere con una frattura vertebrale e Teresa scriveva accorate lettere perché la figlia venisse curata. Rosa dentro ci è finita per amore, e l’amore non si giudica in base a chi sia l’amato. Anzi, nessuno può dar giudizi sull’amore. La persona che Rosa ama è un ex superlatitante, Ernesto Fazzalari, la vicinanza a lui è costata a Rosa una condanna a otto anni, con una sentenza che è tuttora riformabile, non definitiva. Rosa in carcere è scivolata nella doccia un anno fa, da un carcere è stata spostata in un altro ma è stata lasciata dentro a curarsi, e curarsi dentro, quando si ha una malattia vera, anche se fingiamo tutti di non saperlo, sappiamo benissimo che significa. Per sapere cosa sia il carcere in Italia basta guardarsi i report continuamente negativi di organismi nazionali o europei, le condanne subite dall’Italia in sede comunitaria. L’ultimo rapporto parla di violenze ai detenuti, di isolamento usato come tortura, occupiamo i posti finali nella civiltà delle prigioni, ma di questo l’orgoglio italico impregnato d’odio non si lagna. In questa storia, però, a dominare è l’amore, quello fra donne, fra madre e figlia: Teresa Moscato non si dà pace, non riesce ad avere pace, è convinta che Rosa Zagari finirà male, bloccata per sempre. E del resto nelle loro vite la fiaba non è mai stata protagonista, una comparsa svogliata e spilorcia che ha sborsato felicità da contare in secondi. Il carcere ha segnato la loro storia famigliare, dare giudizi è un affare di giudici, affare di tutti è l’umanità, quella riguarda ognuno di noi, darla e pretenderla appartiene a una responsabilità collettiva. Del gioire per chi sta dentro, a prescindere dalla colpevolezza o meno, in un modo o in un altro ne risponderemo. Teresa non sì è data pace per mesi, della condizione della figlia, e non se ne dà nemmeno adesso che non sente più il cuore batterle in petto. Teresa è morta senza pace da un paio di settimane. Se ne sta, stesa, al freddo di un refrigeratore mortuario: aspetta i figli, in galera, per farsi accompagnare al cimitero. È una storia d’amore di donne calabre, qualcuno che d’amore non capisce ha detto che le madri calabresi crescono i figli a ninna nanne di ndrangheta, ci fosse stato nel cuore delle donne calabresi, capirebbe la loro lotta secolare per guadagnarsi il paradiso e portarci dentro gli uomini che amano. Che senza queste donne, la deriva morale sarebbe stata totale. 

Giovanni, detenuto malato di tumore: non lo mandano a casa e muore in carcere. Rossella Grasso il 2 Gennaio 2020 su Il Riformista. È dimagrito di 10 chili in 10 giorni Giovanni De Angelis, malato di tumore all’intestino con metastasi lungo tutto il corpo detenuto nel carcere di Poggioreale di Napoli. È morto il 27 dicembre all’Ospedale Cardarelli, trasportato lì direttamente dal carcere quando le sue condizioni sono gravemente peggiorate. La famiglia aveva chiesto più volte di farlo rientrare a casa per motivi di salute, ma il Magistrato di Sorveglianza glie lo ha negato. Così è morto, nel carcere più affollato d’Europa, vivendo i suoi ultimi giorni di vita tra mille difficoltà che la malattia ha reso un vero inferno per se e la sua famiglia. Giovanni era stato arrestato per detenzione di armi e posto agli arresti domiciliari. Dopo aver evaso la misura è stato rinchiuso a Poggioreale. Qui inizia la storia infernale come denuncia Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania: “Non si può morire di carcere e in carcere”, ha detto. “Aveva un colloquio con me il giorno 3 dicembre 2019 – racconta Ciambriello –  e dopo diversi miei solleciti a livello sanitario, il detenuto è stato portato al Cardarelli, dal quale è stato dimesso con prognosi tumorale che annunciava ‘una vita breve’. A quel punto la Direzione Sanitaria del carcere di Poggioreale mi ha confermato che il 5 dicembre aveva emesso un certificato di Incompatibilità col regime carcerario. Nella nostra Regione si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni di questo tipo”. La storia di Giovanni era già stata segnalata da Pietro Ioia, neo Garante dei detenuti del Comune di Napoli e Presidente dell’Associazione Ex Don. “I familiari del detenuto Giovanni De Angelis sono disperati perché è un malato affetto da patologia psichiatrica e da qualche tempo era anche in cura perchè gli sono stati riscontrati valori tumorali alti – ha detto – È detenuto per reati minori e sta rifiutando il cibo per mancanza di medicinali, spero che non stiamo di fronte a un’altro caso come quello di Ciro Rigotti”. Ciambriello racconta che il 19 dicembre 2019 Giovanni aveva incontrato una delle collaboratrici del garante dei detenuti e in quella circostanza era risultato depresso, confuso, e affetto da schizofrenia indifferenziata. Dalla fine del mese di Novembre, e per l’intero mese di Dicembre, il suo avvocato aveva chiesto, senza ottenere alcuna risposta, al Tribunale di Sorveglianza di Napoli una concessione di misura alternativa alla detenzione. Poi il 27 dicembre scorso è peggiorato all’improvviso ed è stato necessario accompagnarlo al Cardarelli dove poche ore dopo è morto. Un destino beffardo quello che è toccato a Giovanni: dopo tanta insistenza da parte di sua sorella e sua madre giusto il 27 dicembre il Magistrato di Sorveglianza aveva autorizzato la detenzione domiciliare presso l’abitazione della sorella a Napoli. Ma Giovanni non ce l’ha fatta e ha spirato lì, tra il carcere e l’ospedale. “L’incompatibilità carceraria si verifica quando la persona è in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più (secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici praticati in carcere – ha sottolineato Ciambriello – Credo che non si tratti quindi di una concessione eventuale e/o discrezionale, ma di un preciso diritto, peraltro riconosciuto anche agli imputati”. L’art. 11 dell’Ordinamento Penitenziario infatti prevede che “ove siano necessari cura o accertamenti diagnostici che non possano essere apprestati dai servizi sanitari degli Istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del Magistrato di Sorveglianza in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura”. Per Ciambriello nel caso di Giovanni, il mancato differimento della pena è una violazione dei diritti costituzionali, ed è un trattamento contrario al senso di umanità. “Non è accettabile che un detenuto muoia in uno stato di detenzione dopo che, per una patologia nota e conclamata, è stata dichiarata l’Incompatibilità con il regime carcerario”.

Un cancro, un figlio disabile, la moglie morta e un anno da scontare: ma niente domiciliari. Damiano Aliprandi il 31 gennaio 2020 su Il Dubbio. A Gennaro Sicignano, attualmente recluso per droga presso la casa circondariale di Salerno, il Riesame ha respinto la richiesta di domiciliari. È affetto da una grave patologia neoplastica con multiple metastasi, inoltre a causa della coesistenza di grave patologia cardiovascolare non può essere sottoposto, al momento, a trattamento chemioterapico che risulterebbe tossico e non tollerato. Per questo – come hanno scritto nero su bianco i medici – necessita di un attento monitoraggio clinico e di una condizione di ridotto stress psico-fisico per preservare lo status di immunodepressione e ridurre il rischio di complicanze. Ma nonostante questo e le istanze presentate (prontamente rigettate dalla magistratura) l’uomo è tuttora detenuto. Parliamo di Gennaro Sicignano, attualmente recluso per droga presso la casa circondariale di Salerno (precisamente nel reparto detentivo dell’ospedale) con un fine pena al 31 maggio del 2021. Ha un figlio disabile e si è aggiunta la tragedia della moglie, deceduta nei primi giorni del mese di gennaio. A Gennaro Sicignano, che aveva fatto istanza di recarsi al suo capezzale, è stato rifiutato il permesso, in quanto – secondo il magistrato di Sorveglianza e l’Asl competente – la signora non era in “imminente pericolo di vita”. Purtroppo è morta cinque giorni dopo il rigetto della richiesta di permesso. Tutta questa situazione ha fatto indignare anche la direzione del carcere di Salerno che con una nota del 3 gennaio ha scritto ai vari uffici competenti ed al Tribunale di Sorveglianza di Salerno sostenendo anche la possibile violazione dei principi di umanità e dignità delle persone. Una terribile vicenda che ha appreso Rita Bernardini del Partito Radicale tramite l’avvocato Emiliano Torre, il legale di Gennaro. Il caso è emblematico perché la magistratura di sorveglianza ha rigettato la richiesta di detenzione domiciliare nonostante il parere favorevole del procuratore generale, le due consulenze di parte e anche il parere di Rita Romano, la direttrice della Casa circondariale di Salerno. Un parere, quest’ultimo, corroborato dalla relazione redatta dal sanitario dell’istituto penitenziario che dichiara l’incompatibilità di Sicignano al regime detentivo. Il quadro clinico descritto è disarmante. Si legge che fin da quando è giunto nell’istituto, ovvero a novembre del 2019, era già affetto da patologie quali l’adenocarcinoma del colon destro, insufficienza cardiaca cronica decompensata in cardiopatia ischemica post- infartuale, anemia a genesi multifattoriale, depressione del tono dell’umore, sarcopenia, instabilità statico-dinamica, piccolo esito ischemico cerebrale in sede lenticolare destra, diabete mellito di tipo 2, dislipidemia mista, steatosi epatica, litiasi della colecisti, ernia iatale, gastropatia antrale e duodenopatia erosiva- emorragica. Una lunga lista di patologie che oltre a dover essere trattate in maniera accurata, rendono complicata anche la cura del tumore. Un mix di malattie che lo rendono incompatibile con il regime detentivo, compreso il reparto giudiziario ospedaliero. «Considerate le condizioni di salute del detenuto Sicignano – scrive la direttrice del carcere di Salerno- a più riprese ne è stato chiesto il trasferimento presso una struttura dotata di Sai (Servizio assistenza intensificato ndr.). Nello specifico il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (ha individuato come sede di destinazione il Centro clinico di Secondigliano. Tuttavia – prosegue sempre la direttrice- le innumerevoli richieste di disponibilità del posto letto hanno sempre ricevuto risposta negativa da parte della direzione sanitaria di Secondigliano». La direttrice Rita Romano conclude che «sarebbe auspicabile una rapida soluzione della questione attesa l’irragionevole protrarsi della stessa». Lo stesso ospedale di Salerno ha ritenuto il Sicignano non idoneo a restare presso la struttura, e ha invitato ad un trasferimento presso struttura idonea, struttura che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non riesce a trovare in quanto tutte piene o perché – appunto – non idonee alle patologie che il detenuto manifesta. Una situazione clinica davvero grave e nessuno è in grado di correre ai ripari. L’avvocato Emiliano Torre e la collega Maria Cammarano avevano chiesto la detenzione domiciliare perché se fosse a casa e accudito potrebbe in teoria sottoporsi a cure in centri maggiormente specializzati anche fuori provincia. Ma la sorveglianza ha respinto la richiesta a causa di una violazione della misura che Sicignano ha commesso quando era stato precedentemente ai domiciliari. Ma il diritto sulla salute, previsto dall’articolo 32 della Costituzione, teoricamente non dovrebbe venire prima di ogni altra esigenza punitiva?

La sfida di «Juri»:  lo psicologo  che trasforma  i detenuti in cittadini. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Questa è la storia di un uomo che ha passato quarant’anni della sua vita in carcere senza essere né detenuto, né agente penitenziario. Uno che in carcere, 22 anni fa, ha cominciato una strana rivoluzione ancora oggi in corso: arruola soldati che fanno la guerra a sé stessi e al loro passato. Il campo di battaglia, diciamo così, si chiama «Gruppo della Trasgressione». Che quei soldati siano assassini, rapinatori, corrotti, ladri, poco importa. Quel che conta è la regola di ingaggio nel Gruppo, per tutti uguale: per avere diritto di parlare, devi recitare il teorema di Pitagora o una poesia; devi insomma dimostrare che ti sei impegnato a imparare qualcosa. L’uomo dei 40 anni dentro si chiama Angelo Aparo, 68 anni, per tutti Juri, nome preso in prestito da vecchi pensieri su Juri del Dottor Zivago. Era un ragazzo dalle belle speranze quando a settembre del 1977 si presentò al portone del carcere di San Vittore. «Sono lo psicologo». E varcò per la prima volta la soglia della prigione più nota del Paese. «A quel tempo ero uno dei primissimi psicologi del carcere» ricorda lui. «C’ero io soltanto per San Vittore e per Varese, 2000 detenuti in tutto. Oggi ce ne sono 8-10 in ogni sede. Nel tempo è molto cambiato quel che faccio rispetto a 40 anni fa. Per una ventina d’anni ho incontrato e parlato con detenuti che non avevano nessun interesse a farsi conoscere e a raccontarsi, come invece fanno i miei pazienti fuori dal carcere. Succedeva che quando il tempo trascorso in cella era diventato compatibile con una possibile misura alternativa intervenivo io: chiamavo il detenuto, chiedevo, valutavo, scrivevo la relazione. Era raro che qualcuno si rivolgesse a me spontaneamente per chiedere aiuto, a meno che non fosse un aiuto per uscire in fretta dal carcere». Una ventina d’anni così. Poi la svolta, cioè il «Gruppo della Trasgressione». Per chiarire: il Gruppo — la rivoluzione di Juri — è lo strumento di cui in 22 anni si sono serviti un migliaio di detenuti per viaggiare (come direbbe De André) «in direzione ostinata e contraria» al loro passato criminale. Il «Gruppo è discussione», autoanalisi, analisi di gruppo, incontri con le vittime di reato, teatro, insegnamento per giovani bulli nelle scuole o confronto con altri detenuti che vogliono capire, partecipare. È l’incontro con le istituzioni, con magistrati e direttori illuminati, con il mondo del lavoro, con la vita reale oltre le sbarre. È la via maestra che porta alla consapevolezza e alla creazione di una coscienza civile. In un solo concetto: il Gruppo trasforma i detenuti nei cittadini che non sono mai stati o che hanno dimenticato di essere. Dottor Aparo, torniamo indietro.

Ci spiega come è nato tutto questo?

«C’entra un viaggio e una passeggiata con la mia compagna a Bologna. Parlavamo di trasgressione e facemmo un discorso su quel concetto che mi rimase in mente. E poi c’entra Sergio Cusani. In quegli anni stava scontando la sua condanna ed era un mio paziente. Un detenuto che mi parlava per relazione, non per dovere. Una rarità. Stava male, si interrogava. Parlammo del fatto che io fossi molto interessato a persone come lui, a ottenere che i detenuti avessero voglia di capire la loro storia, di cercarla. E ci chiedemmo: come facciamo a trovare la via giusta perché questo accada? La risposta arrivò spontanea. Ci siamo detti che serviva un gruppo di riflessione svincolato dalle relazioni che lo Sato chiedeva per valutare i detenuti».

Da qui la creazione del Gruppo.

«Cusani diventò mio alleato. Passarono alcune settimane dopodiché mi presentai dai detenuti della sezione penale, cioè quelli che erano stabili a San Vittore, e dissi: vorrei creare questo Gruppo. Ci state? Le adesioni arrivarono rapide e a pioggia, partimmo in quarta, con riunioni due volte alla settimana. A quel punto ne parlai con il direttore di allora, Luigi Pagano. E il progetto partì davvero».

Da dove avete cominciato?

«Dalla ricerca delle trasgressioni di ciascuno, dagli ingredienti stessi di ogni trasgressione. Un tema che ricordo bene, all’inizio, fu la sfida. Cercavamo risposte al perché delinquere significa sfidare. Negli anni abbiamo battezzato l’adrenalina, la sfida, il bisogno di eccitazione, con l’espressione “virus delle gioie corte”. Accanto alle riunioni settimanali e agli scritti dei detenuti, avevamo molto spesso ospiti prestigiosi dai quali imparare e con cui confrontarci: Enzo Biagi, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni, Fabio Fazio. Il 24 dicembre del ’97, a casa di Dori Ghezzi e Fabrizio De André avevamo concordato che il nostro primo ospite sarebbe stato lui, ma poco dopo si ammalò e quell’incontro in carcere non ci fu mai: un dolore dal quale nacquero qualche anno dopo i concerti della Trsg.band con le canzoni di De André e le riflessioni dei detenuti sulle loro storie sbagliate».

Quanti detenuti si sono legati al Gruppo finora?

«Un migliaio in 22 anni. In questo periodo abbiamo 55-60 detenuti divisi in più gruppi, nei quali io sono sempre presente, nelle carceri di Opera, Bollate, San Vittore. E poi c’è il gruppo esterno, cioè detenuti che possono essere liberi di giorno o che sono in libertà condizionale con i quali ci ritroviamo una volta a settimana in una sede messa a disposizione dall’”Associazione Libera, lotta contro le mafie”».

Per quanto tempo un detenuto resta nel gruppo?

«Molto. Alcuni sono con me da nove-dieci anni e hanno assorbito una tale quantità di concetti e di principi che ormai non è più riconoscibile il confine fra il loro vissuto e il vissuto del gruppo, fra quello che hanno imparato da me e quello che pensano. Ci sono situazioni nelle quali questo è lampante, ad esempio a San Vittore, dove tre detenuti con 9 anni a testa di esperienza nel gruppo escono dal carcere di Opera ed entrano con me in quello di San Vittore per aiutare i detenuti del reparto “giovani adulti” a emanciparsi dalle maschere dei duri con cui sono finiti in carcere. Magari sbagliano qualche congiuntivo però sanno dire e sentire cose profonde, sanno riconoscere le loro fragilità e sanno che questo li rende liberi, con la mente ancor prima che con il corpo. A un certo punto uno dei valori aggiunti del Gruppo è stata la partecipazione ai nostri incontri di alcuni parenti di vittime di reato. Ci sono detenuti per i quali il gruppo è diventato famiglia. Alcuni tornano da me in studio, come pazienti, quando sono magari liberi da anni».

Il Gruppo è legato a una cooperativa, giusto?

«Giusto. Abbiamo aperto una cooperativa sociale nel 2012 che si chiama Trasgressione.net e che mi ha permesso di fare un grandissimo passo avanti sulla conoscenza del detenuto. Attraverso il lavoro della coop vedo com’è la sua interazione con gli altri, lo vedo vivere la vita vera. Perché ovviamente una cosa è parlare, un’altra è masticare le difficoltà della vita».

Di cosa si occupa questa cooperativa?

«Vende frutta e verdura. Al mercato, a ristoranti, bar, gelaterie, mense, gruppi di acquisto solidale, a chiunque ne abbia bisogno. Occasionalmente facciamo piccoli lavori di manutenzione, traslochi, tinteggiatura, lavori di pulizia. Ma in questo momento quello che la cooperativa riesce a mettere assieme non è sufficiente a dare lavoro alla ”Squadra anti-degrado” che servirebbe per l’attività sociale e di prevenzione che facciamo. La cooperativa ha lo scopo di dare un lavoro e quindi uno stipendio ai detenuti che poi sono gli stessi che fanno azione sociale attraverso il Gruppo. Faccio appello alla sensibilità sociale e civile di chi pensa che un detenuto recuperato, cittadino e lavoratore è un bene per tutti».

Che cosa chiede esattamente?

«Il principale obiettivo della nostra cooperativa è fare in modo che chi si comportava da predatore sentendosi del tutto estraneo alle sue vittime, possa sentirsi, nella sua seconda vita, parte significativa della collettività. Questo diventa più facile se i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti hanno un lavoro e partecipano a progetti a sfondo sociale. Col Gruppo della Trasgressione i detenuti imparano a a far diventare le loro storie sbagliate e i loro percorsi evolutivi strumenti per comunicare in modo efficace e con i giovani. È quello che facciamo da oltre quindici anni nelle scuole e sul territorio per contrastare bullismo e dipendenze da droga, alcol e gioco d’azzardo; inoltre, con i nostri convegni cerchiamo tutti gli anni di documentare pubblicamente i risultati raggiunti e di condividerli con autorità istituzionali, studenti universitari e comuni cittadini.

Quindi?

«Quindi affinché la nostra cooperativa possa avere dei testimonial capaci di svolgere questo ruolo è indispensabile che i detenuti, dopo anni di training col gruppo e una volta ottenuta la misura alternativa, abbiano un lavoro e uno stipendio. Abbiamo bisogno di lavorare di più, di un maggior numero di clienti — cioè di bar, ristoranti, mense, gelaterie — ai quali portare frutta e verdura. Tra l’altro, abbiamo qualità del prodotto, velocità nelle consegne e prezzi concorrenziali. In alternativa, possiamo stipulare contratti di lavoro fra la cooperativa e aziende che abbiano bisogno di mano d’opera. Se mi permette vorrei aggiungere un’altra cosa».

Prego.

«Vorrei dire che per ogni ex delinquente che diventa cittadino, la società guadagna anche il futuro dei suoi figli. Quindi il mio appello è: scriveteci, provate a partecipare a questo progetto. Lavoriamo assieme».

Sovraffollamento delle carceri: spazio vitale tra i 3 e 4 metri quadrati per quasi 14mila detenuti. Damiano Aliprandi il 24 gennaio 2020 su Il Dubbio. Dal rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura emerge un dato preoccupante sul sovraffollamento carcerario. Dal rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura emerge un dato preoccupante sul sovraffollamento carcerario che smentisce ulteriormente la storia che da noi il problema è virtuale, perché un detenuto avrebbe uno spazio abitativo minimo di 9 metri quadri per cella singola e 5 metri quadri per detenuto in celle a occupazione multipla. Nella realtà dei fatti non è assolutamente così. Al momento della visita, il Cpt ha rivelato che circa 13.800 detenuti sono stati ospitati in celle che hanno fornito tra i 3 e i 4 metri quadri di spazio vitale ciascuno. In pratica siamo al limite della soglia consentita dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso di Torreggiani v. Italia. Il Cpt raccomanda alle autorità italiane di agire per garantire che tutti i detenuti siano dotati di almeno 4 metri quadri in celle a occupazione multipla. Al momento della visita, nel marzo 2019, il complesso penitenziario operava a pieno regime con la popolazione carceraria di 60.611 per 50.514 posti. Per il Comitato ciò rappresenta un aumento significativo del numero dei detenuti dalla visita periodica risalente all’aprile del 2016, quando la popolazione carceraria era di 54.072 per una capacità di 49.545 posti. I componenti della delegazione del Cpt hanno concordato che l’aumento della popolazione carceraria non è collegata all’aumento della detenzione, ma ad un minor numero di persone rilasciate dal carcere. Il problema risiede nelle lunghe condanne inflitte dai tribunali dal 2008 in poi, combinate con i numerosi detenuti socialmente vulnerabili con brevi condanne che, pur essendo ammissibili a misure alternative, rimangono in carcere. Secondo il Cpt l’Italia dovrebbe sforzarsi nel porre un’azione rigorosa per ridurre la popolazione carceraria al di sotto del numero dei posti disponibili. A questo proposito, sempre secondo il Comitato europeo, l’accento dovrebbe essere posto sull’intera gamma di misure non detentive. Il governo però ha risposto al Cpt che per porre rimedio al sovraffollamento penserà di utilizzare le caserme dismesse e costruire nuove carceri. Quindi il governo rimane fermo sulla sua posizione. Mentre si attendono nuove carceri, senza pensare di utilizzare il carcere come estrema ratio, il sovraffollamento aumenta. Le uniche reazioni politiche provengono dai Radicali italiani e dal Partito Radicale. «Il superamento definitivo delle criticità riscontrate dal Consiglio d’Europea nelle strutture di detenzione – dichiarano Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, Segretario e Tesoriera di Radicali Italiani – richiede una riforma complessiva del sistema giustizia, a partire dalla depenalizzazione dei reati minori e dalla revisione dei meccanismi di custodia preventiva, provvedimenti che inciderebbero in modo decisivo sul sovraffollamento cronico degli istituti».

Suicidio di un boss al 41 bis, o forse era solo un pasticciere chissà. Gioacchino Criaco il 24 Gennaio 2020 su Il Riformista. Nelle esistenze che si spengono si soffre di più per le vite brevi, quando a morire sono i bambini. Eppure più si è piccoli, minore è la comprensione del concetto di morte, più si è giovani meno si ha paura di morire. Da grandi è diverso, la si percepisce in pieno l’ombra nera che arriva, e quando uno la vita se la toglie sa di portare dolore. Giuseppe Gregoraci si è impiccato nella cella del carcere di Voghera: ammazzarsi in una prigione è una cosa complessa, ti devi sottrarre ai tuoi guardiani, ai compagni di pena. Muori in modo ragionato, i perché te li lasci dietro perché non siano risolti, la tua vita finisce in cronaca, poche righe veloci e per chi non ti ha conosciuto resterai quello. Giuseppe era di Siderno, nella Locride, finito in una delle tante retate che si annunciano nelle albe radiose della Calabria, la sua aveva un nome imponente: Canadian Ndrangheta Connection, con essa, per la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, sono stati messi in luce i rapporti e i traffici fra le ‘ndrine calabresi e le loro corrispondenze criminali di Toronto. Dentro ci è finito a luglio quando in Calabria domina l’Oriente e gelsomini e oleandri fanno a gara per profumare la notte, oltre la libertà ha perso la sua terra e si ritrovato a respirare l’aria Padana di Voghera, che in estate sa delle vite giovani di granturco e riso e del letame delle stalle. Ed è stata la mancanza a segnare la gran parte dei suoi 51anni di esistenza: nessuno lo sa, ma da giovane Giuseppe è stato solo Pino, è entrato in una delle migliori pasticcerie del suo paese per imparare un mestiere. E lo ha fatto il pasticcere. Un incidente stradale gli ha portato via un piede. A Voghera ci è arrivato con una protesi, dopo un po’ ha rinunciato a utilizzarla perché le condizioni igieniche in promiscuità non sono facili da trovare. Si è arreso a una sedia a rotelle. E Pino era un uomo, era un uomo con una disabilità, con una giovinezza segnata da quel dramma, era un marito, un padre. Da detenuti si perde tutto, se si è accusati di mafia si diventa solo quello, un ‘ndranghetista. Lo si diventa prima di qualunque condanna. E forse anche quando ci siano le responsabilità, magari dopo che siano state dimostrate, il fatto di essere imputati non dovrebbe travolgere tutto. Le manette non lo hanno un angolo buono a contenere il cuore, non c’è una società buona a fabbricarglielo. E chissà se Pino è stato solo un pasticcere mancato o il boss “di rilievo” riportato in cronaca. Stava a 1.300 chilometri da casa, nel regime duro delle sezioni riservate ai mafiosi, la sua protesi nascosta da qualche parte e la sua umanità accantonata. Si è impiccato e ha lasciato i suoi perché, perché non si capiscano, o perché si capiscono fin troppo bene.

Il Comitato europeo all’Italia: «Il 41 bis è tortura». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti chiede che venga rivisto l’isolamento diurno dei detenuti. Presunte violenze al 41 bis come la vicenda di una ispettrice femminile del carcere di Viterbo che avrebbe bruciato le dita dei piedi con un accendino per accertare se il detenuto stesse fingendo uno stato catatonico. È questo uno dei casi segnalati da CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) Non solo. Il 26 gennaio 2019, un gruppo di sette ufficiali del GOM era entrato nella sua cella e, dotati di equipaggiamento, l’avrebbero pestato. Sempre a Viterbo, un detenuto ha affermato che il 30 dicembre 2018 – dopo un alterco verbale con un agente il quale lo avrebbe fatto inciampare – lo stesso agente gli avrebbe inferto dei colpi in faccia con una chiave di metallo della porta e lo avrebbe preso a calci. Questo è altro ancora è stato pubblicato nella relazione da parte del comitato europeo per la prevenzione della tortura. Ma le violenze non sarebbero state commesse solamente al carcere di Viterbo. Secondo quanto riportato dal comitato europeo, diversi maltrattamenti sarebbero avvenuti al carcere di Biella e a quello di Salluzzo dove un detenuto con problemi psichiatrici si è ritrovato con le dita schiacciate a causa del blindo chiuso con forza dagli agenti. In un certo numero di casi la delegazione del CPT ha trovato i referti negli archivi medici che erano compatibili con le accuse di maltrattamenti che i detenuti avrebbero ricevuto. 

41 bis disumano, va cambiato: così è come tortura. Stefano Anastasia su Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Intraprendere una seria riflessione sulla realtà del 41bis, abolire l’isolamento diurno e assumere tutte le misure necessarie per prevenire e accertare abusi e maltrattamenti in danno dei detenuti. Queste le raccomandazioni più rilevanti del Rapporto reso pubblico ieri dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) a seguito della visita ispettiva svoltasi nel marzo scorso, che aveva come focus proprio le misure e le condizioni di isolamento nel nostro sistema penitenziario. Con questo intento, il Cpt aveva visitato le carceri di Saluzzo, Biella, Opera e Viterbo, rilevando – come sempre – problemi specifici e criticità di ordine generale. Chi conosce il sistema penitenziario sa bene che le criticità sono molte, amplificate dal sovraffollamento ormai al livello di guardia (e il Cpt, seppure incidentalmente, lo rileva nelle premesse del suo Rapporto). E spesso le criticità dei singoli istituti evocano problemi di carattere generale. Talvolta, invece, sono tipiche della realtà locale e il Cpt non può che rilevarle. Così è stato per il carcere viterbese, dove il Cpt registra un numero di denunce di abusi e maltrattamenti significativamente più rilevante che negli altri istituti visitati e che sembra evidenziare peculiarità di quell’istituto, non a caso oggetto di ripetute segnalazioni all’autorità giudiziaria, anche da parte di chi scrive e del Garante nazionale delle persone private della libertà. Viceversa, di carattere generale sono i rilievi e le raccomandazioni del Comitato sui regimi di isolamento e, specificamente, sul 41bis. Senza mezzi termini, il Comitato raccomanda all’Italia l’abolizione dell’isolamento diurno ancora previsto dal codice penale come pena accessoria dell’ergastolo e che costringe immotivatamente detenuti già lungamente provati a un’afflizione ulteriore e priva di alcun significato che non sia meramente vessatorio. Ma anche l’isolamento indotto dal regime di sorveglianza particolare, adottato ripetutamente anche per lunghi periodi di tempo, appare ingiustificato rispetto alle sue motivazioni, e il Comitato chiede che chi vi sia sottoposto possa godere di almeno due ore al giorno di contatti umani significativi. Nell’uno come nell’altro caso, l’isolamento assoluto può comportare gravi danni alla salute psico-fisica dei detenuti che contrastano con le norme nazionali e internazionali che vietano i trattamenti e le pene inumani o degradanti. Inevitabilmente, all’esito di una visita ad hoc dedicata al monitoraggio delle forme di isolamento dei detenuti, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura dedica una parte del suo Rapporto ancora al regime di massima sicurezza del 41bis. Non dimentichiamo, infatti, che la minima socialità che ora il 41bis prevede (due ore d’aria o in saletta) è il frutto di specifiche raccomandazioni rivolte in passato al regime del 41bis, quando si presentava come una forma di isolamento totale e assoluto. Riprendendo i rilievi del Garante nazionale delle persone private della libertà, il Comitato europeo sollecita una riflessione sul regime del 41bis. Non sulla sua legittimità in astratto, ma sulla sua applicazione in concreto. Come si sa, il 41bis è misura estrema volta a interrompere le relazioni di comando di pericolosi capi nei confronti delle organizzazioni criminali di appartenenza. Si tratta indubbiamente di un regime che può pregiudicare fondamentali della persona, a partire da quello alla salute. Conseguentemente, dice il Cpt, va usato nelle strette necessità, per il tempo strettamente necessario e nella misura strettamente necessaria. Recentemente c’è voluta la Corte costituzionale per rimuovere il divieto di cottura dei cibi in 41bis, previsione priva di alcuna ragione di sicurezza e dunque esclusivamente afflittiva. Così ora il Cpt mette in dubbio che il rinnovo dei provvedimenti ministeriali di sottoposizione al 41bis (dopo i primi quattro, ogni due anni) siano sempre rigorosamente motivati, e anzi sembrano automatici nelle loro formulazioni standardizzate. Si arriva così ai casi limite di due detenuti con evidenti problemi di salute mentale su cui il Cpt chiede al Governo come possano essere considerati ancora capaci di comandare le organizzazioni criminali di originaria appartenenza. C’è poi l’annoso problema del 41bis nel 41bis, le cosiddette “aree riservate”, cui sono destinati i capi più capi degli altri, in cui le condizioni di vita e di socialità sono ancora più gravi (stanze prive di adeguata luce naturale, socialità ridotta all’aria con una sola persona) e che tradiscono un uso evidentemente eccessivo del 41bis, al punto da dover prefigurare un regime ulteriormente speciale per i pericolosissimi, in un crescendo di superlativi e di privazioni che sembra non avere fine. Ma anche i 41bis ordinari soffrono di limitazioni giudicate eccessive dagli ispettori europei, come le telefonate (dieci minuti) alternate ai colloqui (un’ora al mese) o la socialità alternata all’aria. Al contrario il Cpt raccomanda che ciascun detenuto al 41bis possa avere almeno quattro ore, all’aria o all’interno della sezione, per svolgere attività significative con il suo gruppo di socialità. Non sono cose nuove: le aveva già scritte il Cpt in precedenti rapporti, le ha scritte il Garante nazionale e, nella passata legislatura, la Commissione per i diritti umani del Senato. Oggi, il Cpt ci dice che così non va: serve una seria riflessione sulla realtà del 41bis, sulla sua finalità e, dunque, sui suoi limiti.

Torture al 41 bis: dai pestaggi alle bruciature dei piedi. Damiano Aliprandi isu Il Dubbio il 22 gennaio 2020. Quattro istituti nel mirino del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Nel rapporto si evidenzia il caso di Biella dove gli internati sono senza una occupazione e tenuti in condizioni pessime. Un quadro sconvolgente quello dipinto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura ( Cpt) nel rapporto pubblicato ieri relativamente alle visite effettuate dal 12 al 22 marzo dell’anno scorso. Lo scopo della visita ad hoc del Cpt era di riesaminare la situazione dei detenuti collocati nei regimi di alta sicurezza, il regime speciale ‘ 41 bis’ e prigionieri sottoposti a varie misure di isolamento e segregazione come l’isolamento ( definito “anacronistico” dal comitato) imposto dal tribunale ai detenuti condannati all’ergastolo. Quattro sono gli istituti penitenziari visitati e in tutti sono stati riscontrati problemi di maltrattamento da parte degli agenti penitenziari. Non solo quello di Viterbo quindi, ma anche il carcere Opera di Milano, quello di Biella e quello di Saluzzo. All’inizio della visita, la delegazione era stata informata dalle autorità e da altri interlocutori come il Garante Nazionale e l’associazione Antigone riguardo alle preoccupazioni dell’aumento del numero di eventi critici, in particolare il numero di aggressioni contro il personale carcerario da parte di detenuti, episodi di autolesionismo e violenza tra detenuti. Questa tendenza è stata attribuita dalle autorità all’aumento del numero di detenuti con problemi di salute mentale causati, tra l’altro, dalla chiusura degli Opg e il limitato numero di posti disponibili nelle residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, nonché dalle tensioni interetniche. Ma dalle visite, la delegazione del Cpt ha riscontrato anche gravi episodi di violenza da parte di alcuni agenti. Violenze che sarebbero avvenute al 41 bis come la vicenda di una ispettrice femminile del carcere di Viterbo che avrebbe bruciato le dita dei piedi con un accendino per accertare se il detenuto stesse fingendo uno stato catatonico. Non solo. Il 26 gennaio 2019, un gruppo di sette ufficiali del Gom sarebbe entrato nella cella del medesimo detenuto e, dotati di equipaggiamento, l’avrebbero pestato. Sempre a Viterbo, un detenuto ha affermato che il 30 dicembre 2018 – dopo un alterco verbale con un agente che lo avrebbe fatto inciampare – lo stesso funzionario di polizia gli avrebbe inferto dei colpi in faccia con una chiave di metallo della porta e lo avrebbe preso a calci. Ma le violenze non sarebbero state commesse solamente al carcere di Viterbo. Secondo quanto riportato dal Comitato europeo, diversi maltrattamenti sarebbero avvenuti anche alle altre carceri visitate. C’è l’esempio di Saluzzo dove un detenuto con problemi psichiatrici si è ritrovato con le dita schiacciate a causa del blindo chiuso con forza dagli agenti. Oppure al carcere Opera di Milano dove un detenuto avrebbe ricevuto diversi schiaffi in faccia da un ispettore della polizia penitenziaria dopo averlo sorpreso con della droga. Gli schiaffi avrebbero danneggiato la sua protesi dentale. Al carcere di Biella ( dove viene sottolineata la presenza di decine di internati tenuti senza una occupazione e tenuti in condizioni pessime come già denunciato da Il Dubbio), invece, un detenuto ha denunciato che dopo aver colpito un ufficiale del carcere con una scarpa nel corso di un alterco, sei membri del personale della polizia lo avrebbero trattenuto e gli avrebbero consegnato diversi pugni alla schiena e ai fianchi. In un certo numero di casi la delegazione del Cpt ha trovato i referti negli archivi medici che erano compatibili con le accuse di maltrattamenti che i detenuti avrebbero ricevuto. Dopo aver denunciato anche il considerevole sovraffollamento, il Cpt ha chiesto di riformare il 41 bis. Nel rapporto si evidenzia che ‘ ha incontrato almeno due detenuti al 41 bis affetti da seri disordini mentali’ e si chiede come le autorità ‘ abbiano valutato la loro capacità di provare che non sono più in grado di controllare le organizzazioni criminali che capeggiavano e se sia necessario tenerli ancora sotto il regime del 41 bis’. Inoltre stigmatizza l’utilizzo delle cosiddette aree riservate ( un super 41 bis), dove il collocamento del detenuto dovrebbe essere limitato nel tempo e soggetto a revisione mensile.

41 bis, non solo mafiosi: 10mila disgraziati in condizioni disumane. Piero Sansonetti il 18 Gennaio 2020 su Il Riformista. In Italia ci sono un po’ più di 60 mila detenuti. Diecimila più di quelli che il sistema carcerario è in grado di ospitare. Quindi l’indice di sovraffollamento è molto alto. Sta crescendo. Sebbene negli ultimi anni è crollato il numero dei reati. Non è crollato solo il numero dei reati: è diminuito anche il numero degli ingressi in carcere, nonostante una legislazione sempre più severa, spinta dal vento torrido del giustizialismo politico. Come è possibile che meno persone entrino in carcere e però il sovraffollamento aumenti? Succede che dal carcere è sempre più difficile uscire. Le cifre sono impressionanti. Le ha fornite ieri alla stampa il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il dato forse più clamoroso è questo: ci sono circa 23mila persone che devono scontare pene inferiori ai tre anni, o perché hanno ricevuto una condanna leggera, per reati molto piccoli, o perché hanno già scontato grande parte della pena. Queste persone, a norma di legge, potrebbero uscire e subìre le famose misure alternative. E invece restano in prigione. O perché i giudici non danno il benestare o, molto più spesso, perché non esistono strutture esterne al carcere in grado di realizzare le misure alternative. Poi ci sono altri 10 mila detenuti in attesa di giudizio (e le statistiche dicono che più della metà di loro sarà assolto, nei tre gradi di giudizio, o sarà condannato a pene molto contenute) e la stragrande maggioranza di loro non è in carcere perché costituisce un pericolo per la società, ma per ragioni relative al funzionamento delle indagini, cioè alla necessità di esercitare su di loro pressioni psicologiche perché confessino, visto che altrimenti mancano le prove per condannarli.  Di solito queste persone sono in cella in violazione della legge che prevede che  il carcere preventivo possa essere deciso solo per ragioni straordinarie e per tempi brevi. Diciamo che di questi 10 mila detenuti che la Costituzione considera innocenti, almeno 7000 non dovrebbero stare in cella. Poi sommiamo questi 7000 ai 23.000 con breve periodo residuo di pena e arriviamo a 30 mila detenuti che potrebbero essere scarcerati senza violare le leggi – anzi rispettandole pienamente – e senza mettere in discussione la sicurezza. 30.000 vuol dire la metà. Cioè potremmo dimezzare il numero dei detenuti senza compiere nessuna rivoluzione. Non vi sembrano cifre e considerazioni sconvolgenti? Perché non succede, cioè non succede che si svuotino le carceri e si ristabilisca un discreto livello di civiltà? Un po’ per la pigrizia della burocrazia e per il poco coraggio di alcuni magistrati. Un po’ perché l’impeto del senso comune giustizialista rende difficilissima una ragionevole politica carceraria. E su questo c’entrano molto la politica e soprattutto i giornalisti. La nostra categoria professionale, forse, è la più pericolosa: vive nella ricerca di chi si può mettere in prigione, nella speranza che più gente possibile sia ingabbiata, e nella corsa spasmodica a trovare casi clamorosi da raccontare sui giornali, di persone che avrebbero potuto stare in carcere e invece -maledizione – non ci stavano. Pensate allo scandalo sollevato nei giorni scorsi per un permesso premio concesso dopo un quarto di secolo a quelli della “Uno Bianca”. Poi c’è un secondo dato molto inquietante. Quello del 41 bis. Sapete che il 41 bis è un regime carcerario speciale, che anche i magistrati chiamano “carcere duro”. Siamo nel 2020, non siamo nel Settecento. Eppure in Italia esiste ancora il carcere duro, dove le condizioni di vita violano ogni principio costituzionale e si fanno beffe della dichiarazione dei diritti universali dell’uomo. Beh, ci sono più di diecimila persone che vivono al carcere duro. 10 mila, evidentemente, vuol dire che non sono solo boss mafiosi o terroristi. Ci sono tra loro, inevitabilmente, anche condannati (o sospettati) per reati minori. Manovalanza. Probabilmente anche una discreta percentuale di innocenti. Perché li hanno messi al carcere duro? Per puro sadismo? Forse in parte è così. In parte invece il motivo è un altro: farli parlare, confessare, accusare i complici. Non tutti sono in grado di reggere il 41 bis. E non tutti, tra quelli che parlano, dicono la verità. E comunque, è legittimo, in un paese democratico davvero, usare il carcere duro come strumento di indagine? Non è un metodo molto, molto vicino al metodo della tortura?

Chieti, detenuti trattati come cavie: nel 2020 in Abruzzo rinasce Lombroso. Rita Bernardini il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. In quest’epoca di sdoganamento da parte dei rappresentanti della politica istituzionale dei peggiori sentimenti e comportamenti umani, ci tocca anche di apprendere la notizia che il Garante abruzzese delle persone private della libertà, il Prof. Gianmarco Cifaldi, abbia firmato un protocollo di collaborazione con l’università di Chieti e il direttore del locale carcere per «valutare le risposte comportamentali di detenuti sottoposti ad un determinato stimolo», sperimentazione volta a «verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta attraverso una strumentazione non invasiva per verificare il grado di aggressività del detenuto». L’attrezzatura – presumibilmente messa a disposizione dall’Università – si compone di una pedana posturo-stabilometrica per rilevare le variazioni del baricentro corporeo nei tre piani dello spazio; e di un’apparecchiatura che rileva la temperatura dei muscoli superficiali del viso”. La strumentazione rileverà i mutamenti della postura del detenuto e le variazioni della temperatura dei muscoli superficiali del viso quando egli verrà sottoposto alla visione di immagini emotivamente significative o emotivamente neutre. Il comunicato stampa, postato sul sito ufficiale della regione Abruzzo, non spiega minimamente cosa comporterà il fatto che ad un detenuto venga misurata l’intensità e il tipo della sua aggressività né, tanto meno, se egli potrà scegliere se partecipare al test o rifiutarsi. Fatto sta che un detenuto in carcere ha, comunque, ben poca autonomia considerato che è ristretto fra quattro mura 24 ore su 24 e costantemente sottoposto alla sorveglianza e all’autorità della polizia penitenziaria e di chiunque in carcere presti la propria opera. Allarmata per questa notizia dal sapore lombrosiano, mi sono immediatamente messa in contatto sia con il Provveditore Interregionale che con il capo del Dap, ringraziati ufficialmente dal Garante per la loro disponibilità a sostegno della sperimentazione. Sia il Provveditore Carmelo Cantone, sia il capo del Dap Francesco Basentini hanno categoricamente smentito l’assenso al protocollo… di più, mi hanno detto di ignorarne l’esistenza. Se così stanno le cose, vuol dire che siamo di fronte ad un’iniziativa autonoma del Garante Cifaldi che si è messo d’accordo con il Rettore dell’Università di Chieti e con il direttore del carcere, ma allora, c’è da chiedersi come mai non arrivi alcuna smentita da parte del Ministero della giustizia. Anche perché l’inquietante iniziativa sembra destinata ad allargarsi, se prendiamo per buone le dichiarazioni dello stesso Garante, il quale intervistato da Tvsei ha dichiarato che l’intenzione è quella di diffonderlo in tutta Italia e in Europa. E i fondi? Per il momento, si farà carico delle spese l’università ma, una volta collaudata la sperimentazione, questa verrà sovvenzionata dai fondi europei. Ha fatto benissimo il mio amico Maurizio Acerbo, promotore della legge che ha istituito in Abruzzo la figura del Garante dei detenuti, ad indignarsi ricordando a Cifaldi quali sono i compiti del garante previsti dalla legge regionale, fra i quali non c’è certamente quella di fare esperimenti sui detenuti già costretti a misurarsi quotidianamente con le illegalità del sistema penitenziario italiano. Il Segretario di Rifondazione ha ragione anche ad insospettirsi per un possibile conflitto di interessi, visto che Cifaldi è professore aggregato proprio presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara. Quanto a me (perdonatemi una nota personale) dispiace molto non essere stata eletta Garante in Abruzzo come desiderato da Marco Pannella fino agli ultimi dolorosi respiri della sua vita. Ho impresso quell’ultimo collegamento con Radio Radicale quando, rivolgendosi a me che ero lì accanto a lui con Matteo Angioli, disse che occorreva mettercela tutta per farmi eleggere, aggiungendo un gratificante «è pure cocciuta come me». Certo, cocciuta. Per questo, la vicenda che ho raccontato, se non chiarita immediatamente, mi vedrà impegnata in adeguate iniziative per scongiurarla. 

Carcere Poggioreale come il muro di Berlino, malato di Hiv: “Mai esami clinici, lì dentro c’è il diavolo”. Ciro Cuozzo il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. E’ stato scarcerato lo scorso 16 gennaio dopo aver scontato una condanna di sei mesi per bancarotta fraudolenta. Giuseppe Wierdis ha quasi 63 anni e da circa la metà ha il virus dell’HIV. Durante il periodo di detenzione in un piano del padiglione Roma riservato ai sieropositivi del carcere di Poggioreale ha chiesto, invano, maggiore assistenza sanitaria proprio a causa delle sue condizioni di salute. Intervistato dal Riformista, Giuseppe ha raccontato la sua esperienza in una delle prigioni più problematiche e critiche d’Italia. “Eravamo almeno 150 nel padiglione Roma dove vengono reclusi sieropositivi, diabetici, tossici. Se ti metti a visita medica  – spiega – devi essere fortunato se ti chiamano dopo 15-20 giorni”. Giuseppe ha il volto provato dagli acciacchi fisici che anno dopo anno si fanno sempre più sentire. Prende le pillole che ogni mese va a ritirare lui o, su delega, i suoi familiari al Policlinico di Napoli e periodicamente si deve sottoporre a degli esami clinici per tenere sotto controllo i valori del sangue.  “In sei mesi non sono stato sottoposto ad alcun esame. Oggi, da libero, sto al 60% e avrei bisogno di una decina di giorni di ricovero per riequilibrare tutti i valori. Purtroppo nel carcere di Poggioreale hai a che fare con il "muro di Berlino". Puoi lamentarti quanto vuoi, serve davvero a poco, non ci sentono”. Per rafforzare questa sua convinzione racconta un episodio avvenuto nei mesi scorsi. “Se ne andò un medico, venne una nuova dottoressa e i primi giorni si rese conto della situazione. Era sconvolta, bastava guardarci in faccia per capire che stavamo male. Il terzo giorno quando la rividi sentivo soltanto dirle "lei sta così, può andare" e capii subito che avevano fatto l’iniezione anche a lei, cioè si era subito adeguata alla situazione”. Durante il suo periodo di detenzione Giuseppe ribadisce di non essere mai stato sottoposto a nessuno degli esami previsti per i malati di Hiv. “Anche il mio compagno di cella, che era lì da più tempo lamentava la stessa cosa. Nel carcere spesso non hanno tutti i farmaci e qualche volta mi davano una pillola celestina per dormire e non sentire i dolori ai piedi e alle gambe. Poi però la mattina mi svegliavo male e chiedevo agli infermieri di darmi qualche antidolorifico per evitare di riprendere questi farmaci”. All’interno del carcere Giuseppe spiega che la “moneta è il tabacco” e che nonostante la bellezza del padiglione Roma, recentemente ristrutturato, “all’interno c’è il diavolo, c’è marciume. Ci sono persone che non possono andare in bagno perché fa freddo e le porte sono danneggiate o rotte. Nelle celle però ci sono i termosifoni e si sta bene”. Poi l’elogio agli agenti della polizia penitenziaria: “Chi viene a visitare il carcere di Poggioreale non può vedere solo dove hanno lavato a terra ma devono mostrargli tutte le criticità che ci sono. Non hanno personale a sufficienza ma ci sono agenti che si ammazzano di lavoro e sono persone che ti ascoltano e ti aiutano, voglio ringraziarli per quanto fatto”. Commenta così la vicenda Pietro Ioia, garante dei detenuti per il comune di Napoli: “La sanità è il primo problema che si deve risolvere nel carcere di Poggioreale dove ho riscontrato l’assenza dei medici parlando con detenuti e la polizia penitenziaria, già sotto organico, deve pure sostituirsi agli infermieri. Bisogna trovare un accordo proficuo con l’Asl e con i vari ospedali”. Sull’intervista-denuncia è intervenuto anche il garante dei detenuti della regione Campania Samuale Ciambriello: “Ho chiesto alla direzione sanitaria del carcere notizie sull’ex detenuto in questione, al momento sono in attesa. Voglio però ribadire una cosa – aggiunge – il garante regionale è un pubblico ufficiale ed è pronto a raccogliere tutte le denunce a tutela dei diritti dei detenuti”. Nel carcere di Poggioreale a inizio febbraio si insedierà il nuovo direttore Carlo Berdini, 52 anni, già alla guida dell’istituto di Firenze Sollicciano e attuale direttore dell’Ufficio IV – Formazione Polizia Penitenziaria della Direzione Generale della Formazione del Dap. Berdini subentrerà a Maria Luisa Palma.  “Al nuovo direttore posso fare solo i miei auguri. Non la prendesse però come una premiazione ma come una missione perché il carcere di Poggioreale è pieno di problematiche: sanità, sovraffollamento, vivono tutti male, sia polizia che detenuti”.

Carcere, in cella ci sono più di 23mila “candidati” a misure alternative. Damiano Aliprandi il 18 gennaio 2020 su Il Dubbio. Al 13 gennaio risultano 23.024 detenuti che stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Altro dato che colpisce è la presenza di ben 1572 persone condannate ad una pena inferiore ad un anno. Sono 3.206, invece, le persone che hanno una pena inflitta da uno a due anni. «In carcere tanto non ci va più nessuno», è il luogo comune che spesso si sente evocare quasi come un mantra tra la gente. E ciò diventa più problematico quando questo pensiero proviene dall’alto, da una parte di élite intellettuale come taluni professori universitari e autorevoli magistrati. Ospiti di alcuni giornali, quest’ultimi sottolineano soprattutto che se una persona non prende almeno 10 anni di carcere, dentro non ci va. Ma ieri, durante la conferenza stampa, tutto ciò è stato smentito dal collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà composto dal presidente Mauro Palma e i membri Daniela De Robert ed Emilia Rossi. Al 13 gennaio risultano 23.024 detenuti che stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Altro dato che colpisce è la presenza di ben 1572 persone condannate ad una pena inferiore ad un anno. Sono 3.206, invece, le persone che hanno una pena inflitta da uno a due anni. Resta il dato oggettivo – come ha evidenziato il garante Mauro Palma – che attualmente ci sono più di 23mila persone «candidate ad una misura alternativa», ma rimangono dentro. Il sovraffollamento, che al 13 gennaio risulta del 129,40%, potenzialmente potrebbe affievolirsi garantendo appunto una pena alternativa per tutti quei detenuti che stanno scontando una pena molto bassa. Se le entrate – a causa della commissione dei reati in decrescita – diminuiscono, nello stesso tempo però diminuiscono le uscite. La conferenza stampa di ieri ha avuto come titolo “Le vulnerabilità in carcere. Riflessioni di inizio anno”. Sono proprio le vulnerabilità lo scenario impietoso che riguarda numerosi soggetti socialmente fragili che cominciano ad ingrossare le fila dei detenuti. Un problema, promette il collegio del Garante, che sarà sviscerato nella relazione annuale che verrà presentata in parlamento il 17 Aprile prossimo. Nel frattempo alcuni dati sono stati snocciolati. Sui 53 suicidi del 2019, dieci riguardano i senza fissa dimora. A dicembre, quattro sono i senza fissa dimora che si sono suicidati. Senza contare poi chi è morto per altre cause. Il garante ha raccontato il caso emblematico di un senza fissa dimora recluso nel carcere di Viterbo per una pena di 4 mesi e ucciso a sgabellate da un suo compagno di cella che aveva dei problemi psichiatrici. E proprio il discorso delle persone con patologie mentali è l’altro elemento che rappresenta la vulnerabilità in carcere. Le articolazioni psichiatriche, aree sanitarie su misura per questa tipologia di detenuti, come ha spiegato la garante Emilia Rossi, «rischiano di ricalcare il vecchio schema del manicomio» e inoltre sono poche, «presenti solo in 32 istituti su 191». A ciò si aggiunge il “sommerso” cioè l’utilizzo delle celle lisce per contenere i soggetti psichiatrici che vanno in escandescenza. Problemi che poi si ripercuotono anche agli agenti penitenziari. D’altronde – come è stato evidenziato alla conferenza stampa – nell’anno 2019 gli agenti hanno subito 800 aggressioni, e sono già 41 all’inizio dell’anno 2020. Quindi vediamo un carcere che diventa un contenitore di tutte quelle fragilità che la società libera non riesce a far fronte. «Certe aree di disagio potrebbero essere intercettate prima che le persone coinvolte possano entrare in carcere», ha spiegato il garante Palma. Gli fa eco la garante Daniela De Roberts, auspicando la necessità che il territorio sia attento «prima e dopo il carcere». Per discutere di tutto ciò Palma ha chiesto un incontro con l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani. Il Garante nazionale Palma ha anche affrontato le criticità riguardanti il 41 bis, sementendo certe ricostruzioni giornalistiche che lo vedono “ammorbidito” nel tempo. «Non mettiamo in discussione la necessità del 41 bis, legittimato anche da alcune sentenze della corte costituzionale, ma qualsiasi misura ulteriormente afflittiva è inutile e dannosa, perché travalica lo scopo per il quale il carcere differenziato è nato». Per quanto riguarda lo schema delle disposizioni delle celle al 41 bis, per il garante, sicuramente è auspicabile come quello del carcere di Sassari. «Ma non sottoterra come purtroppo si trovano nel carcere sardo», sottolinea il Garante. «Un carcere, quello di Sassari, che è complesso e meriterebbe una direzione stabile», aggiunge sempre Palma.

Quei tanti capolavori creati durante la detenzione…Damiano Aliprandi il 19 gennaio 2020 su Il Dubbio. Da “Le mie prigioni” a “Lettere dal carcere” di Gramsci. I libri che hanno cambiato l’umanità (anche in peggio se pensiamo al Mein Kampf ) e avuto una forte influenza sulla storia della letteratura sono stati scritti in carcere. Da Le mie prigioni di Silvio Pellico a Lettere dal carcere, di Antonio Gramsci, dal quale prende il nome questa pagina, raccolta postuma della corrispondenza intrattenuta da uno dei fondatori del Pci coi propri familiari e amici durante il periodo della sua lunga detenzione. Uno dei più noti libri scritti all’interno di un carcere è Le mie prigioni, di Silvio Pellico. Il romanzo è stato redatto intorno al 1800 e narra, in forma autobiografica, le vicende vissute durante i lunghi anni di prigionia vissuti dallo stesso scrittore. Pellico infatti fu rinchiuso in carcere per diversi anni a causa della sua partecipazione illecita ai moti carbonari dell’epoca. Le mie prigioni è solamente il più famoso dei tanti manoscritti che l’autore ebbe il tempo di redigere durante il periodo di reclusione. Il libro venne pubblicato solamente oltre trent’anni dopo, nel 1832, quando l’autore venne ufficialmente dichiarato uomo libero e poté finalmente fare ritorno a casa. Ma tanti altri romanzi famosi sono stati scritti durante la detenzione. Miguel de Cervantes finì in carcere per appropriamento indebito di denaro pubblico dopo che si indagò un po’ sui vari conti a cui aveva accesso come esattore delle tasse. E fu durante la reclusione al carcere di Siviglia che partorì il Don Chisciotte della Mancia. Marco Polo, tornato a Venezia, subisce lo scotto del riaprirsi delle ostilità tra la Repubblica e Genova. Fatto prigioniero fa buon viso a cattiva sorte: al cospetto dei suoi colleghi di cella inizia a raccontare le sue incredibili avventure, un materiale prezioso che fornirà lo spunto poi per la stesura de II Milione. Un altro noto ed apprezzato autore che dietro le sbarre scrisse uno dei suoi maggiori capolavori fu il giovane Oscar Wilde. Lo scrittore irlandese durante gli anni di prigionia lavorò al romanzo intitolato appunto La ballata del carcere di Reading. Wilde venne ammanettato nel corso del 1895 a causa della sua omosessualità al tempo considerata inammissibile e fu costretto a scontare ben due anni di prigionia durante i quali venne obbligato a svolgere anche i lavori forzati. Oscar venne rilasciato in seguito al pagamento di una salata cauzione la cui spesa di oltre duemila sterline venne sostenuta dagli amici e dai parenti del celebre scrittore. Il filone narrativo del romanzo scritto da Wilde durante i due anni di prigionia è interamente incentrato sulla tematica della pena di morte e sulla routine che un carcerato è costretto a vivere quotidianamente in attesa che il fatidico giorno giunga. Impossibile non citare Le 120 giornate di Sodoma, del marchese De Sade. Lo scrisse in prigione, alla Bastiglia, alla vigilia della Rivoluzione Francese (1789): nel racconto, concepito come una sorta di enciclopedia delle depravazioni, quattro nobili indulgono in ogni tipo di ‘”passione”, dal piacere all’omicidio, con 50 giovani prigionieri. Il manoscritto venne pubblicato solo nel 1905: 70 anni dopo ispirò Pasolini per il suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Si narra che l’abbia scritto in soli 37 giorni, su un rotolo di carta di 12 metri. Ma ritornando da noi, non si possono non citare due libri. Uno è I Neoplatonici di Luigi Settembrini: si tratta di un breve racconto scritto dal patriota mentre era in carcere di Santo Stefano con l’accusa di cospirazione. È una storia omoerotica che creò un certo imbarazzo, tanto da non essere pubblicata fino al 1977. Su questo ritardo nella pubblicazione pesò il veto di Benedetto Croce che, dopo aver letto il manoscritto, lo definì: “lubrico e malsano errore letterario del Venerato Maestro, martire patriottico dei Borbone”.

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano” il 12 gennaio 2020. Alberto Stasi, l' omicida di Garlasco, fa il centralinista per un call center all' interno del carcere di Bollate. Cosima e Sabrina Misseri, in galera a Taranto per aver ucciso la giovane Sara Scazzi, lavorano come sarte. Olindo e Rosa, condannati per la strage di Erba, passano le loro giornate divisi: lui, recluso a Opera, si dà da fare in cucina, mentre lei, a Bollate, lavora il cuoio e fa l' inserviente. Poi c' è Massimo Bossetti, ritenuto responsabile dell' omicidio di Yara Gambirasio, che smanetta per riparare le macchinette del caffè rotte. E Veronica Panarello, dietro le sbarre per la morte del figlio Loris? Ha deciso di frequentare un corso per diventare operatore sociale nel carcere di Torino. Michele Buoninconti, condannato per aver ammazzato la moglie Elena Ceste, è diventato tutor universitario in galera ad Alghero. Aiuta gli altri detenuti a studiare per coronare il sogno della laurea. I loro nomi hanno riempito d' inchiostro tutti i giornali per anni (e ancora oggi lo fanno), i loro volti sono passati su tutti i tg e nelle trasmissioni di ogni genere, persino quelle di gossip. Casi mediatici, a volte fin troppo, che hanno diviso il Paese tra chi diceva «è innocente, non è stato lui!» e chi invocava la gogna. Ora sono tutti in carcere. Chi è stato condannato all' ergastolo, chi spera in una revisione del processo, chi si è rassegnato. In tanti, però, hanno deciso di ripartire dal lavoro per sentirsi vivi e utili per gli altri. Del resto, si dice che il lavoro nobilita l'uomo. E chi meglio di loro ha bisogno di questo, visto il passato? Non ricevono lo stipendio, ma la cosiddetta mercede destinata ai reclusi, paga che può al massimo arrivare a mille euro. I detenuti poi decidono se tenere i soldi per sé o se girarli alla famiglia. Quasi sempre si tratta di progetti messi a punto da diverse cooperative e imprese per riabilitare chi si è macchiato di reati più o meno gravi. La "Bee4 altre menti", per esempio, che ha firmato una convenzione con la compagnia telefonica che dà lavoro a Stasi e presto, stage di formazione permettendo, lo darà anche a Salvatore Parolisi. Ex caporalmaggiore dell' Esercito Italiano, nel 2011 ha ucciso la moglie Melania Rea a Civitella del Tronto. "Second chance" si chiama invece il progetto in cui è inserito Bossetti: non solo perché si tratta di rigenerare macchinette da caffè guaste, ma anche perché punta a dare ai detenuti una seconda opportunità di vita. Ovviamente, di fianco a chi fatica e a chi studia, ci sono anche volti noti del crimine che non lavorano. Renato Vallanzasca, il bel René, bandito mitico condannato a quattro ergastoli e a 290 anni di carcere, passa le giornate senza far nulla a Bollate. E dire che nel 2010, in regime di semilibertà, aveva trovato lavoro in una pelletteria, poi in una ditta informatica e in una boutique, infine nella ricevitoria più antica di Milano. Si diceva che ci fosse la coda di curiosi ogni mattina per incrociare il suo sguardo. Due anni dopo, però, l' hanno beccato mentre rubava mutande in un supermercato, gli hanno tolto la semilibertà e addio lavoro. Se ne sta con le mani in mano pure Cesare Battisti, il terrorista comunista mai pentito, che dopo un' esagerata latitanza all' estero è ora finalmente rinchiuso nel carcere di Oristano. In attesa di rimettersi in gioco sono invece Antonio Logli, condannato a 20 anni per l' omicidio della moglie Roberta Ragusa, e Manuel Foffo, l' omicida di Luca Varani nel 2016 a Roma. Entrambi hanno lavorato, rispettivamente in galera Massa Carrara e a Rebibbia, per un po' di tempo a rotazione con altri detenuti, ma attualmente stanno aspettando un nuovo impiego.

Roberto Russo per il “Corriere del Mezzogiorno” il 16 gennaio 2020. Quindici detenuti napoletani, attualmente richiusi tra Poggioreale e Scampia, lavoreranno per un anno negli uffici della Procura di Napoli, nell' ambito di un progetto per il reinserimento e la rieducazione dei condannati in applicazione dell' articolo 27 della Costituzione. A volere fortemente l' esperimento è stato il procuratore Giovanni Melillo in persona. Napoli quindi sarà la prima Procura di una grande città italiana (la prima in assoluto è stata Lecce) a utilizzare nei suoi uffici alcuni reclusi. Già firmato, il 13 dicembre scorso, un protocollo tra Procura, provveditorato regionale dell' amministrazione penitenziari (Antonio Fullone) e garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Come anticipato dal sito «Fanpage» l' intesa preoccupa il sindacato Confsal Unsa, perché il suo segretario Mario De Rosa ritiene che «nonostante i nobili fini e la piena legittimità del protocollo, si impiegheranno detenuti in un settore molto delicato». In realtà l' accordo prevede maglie molto strette nell' individuazione dei quindici detenuti ai quali verrà concesso il beneficio di poter lavorare per dodici mesi in ambiente giudiziario. Sarà infatti loro affidata la movimentazione dei fascicoli interna all' ufficio, il tutto avverrà ovviamente dopo che il magistrato di sorveglianza avrà concluso l' istruttoria per poter concedere i permessi lavorativi e dopo che il Provveditorato campano avrà individuato i detenuti ritenuti maggiormente idonei per questo tipo di attività. Va detto che il progetto deve ancora ottenere la relativa copertura economica e perciò si sta lavorando per raggiungere l' obiettivo che non è certo semplice. L' azione di recupero sociale che si vuole operare con l' assunzione temporanea dei detenuti è coerente con le convinzioni dell' attuale procuratore di Napoli. Melillo non è solo un magistrato esperto di camorra, ma è anche da anni docente universitario di procedura penale e appassionato di organizzazione e ammodernamento tecnologico della giustizia. Nel 2015 da capo di gabinetto dell' allora Guardasigilli Andrea Orlando, ha maturato una significativa esperienza anche nel mondo delle carceri e si è potuto rendere conto di persona delle difficili condizioni di vita in molte carceri italiane. Del resto la particolare sensibilità del capo della Procura napoletana verso i drammi dei reclusi, è confermata dal suo messaggio di saluto del luglio dell' anno scorso alla giornata per l' emergenza carceri voluta dalle camere penali. In quell' occasione Melillo disse tra l' altro: «Chi non ascolta le voci di chi è in carcere si macchia di gravi responsabilità». Per Melillo la buona condotta richiede attenzione: «In occasione della rivolta a Poggioreale, due magistrati del mio ufficio», aggiunse Melillo, «si sono recati ad ascoltare le ragioni esposte civilmente da due detenuti. La legalità non si arresta di fronte al cancello di un penitenziario. Chi in Procura lavora sul carcere incontra le Camere penali, il garante nazionale, e costruisce con loro azioni concrete». Dal punto di vista della sicurezza tra gli operatori volontari e gli altri soggetti che si occupano del recupero dei detenuti, vengono respinte tutte le possibili preoccupazioni. «Non saranno certo scelti detenuti a casaccio, ma persone che in carcere stanno compiendo un percorso di riabilitazione e che dovranno possedere precise caratteristiche». Insomma, l' esperimento napoletano si annuncia avanzatissimo nel suo genere perché se è vero che i detenuti ottengono ordinariamente permessi lavorativi anche in altri enti pubblici (Comuni in primis), ciò non è accaduto in una Procura di una grande città. Napoli potrebbe così costituire il fronte più avanzato di un progetto sociale per molti aspetti unico.

Detenuti eccellenti, ecco cosa fanno all'interno delle carceri: Veronica Panarello frequenta un corso. Nuovosud l'11 gennaio 2020. C'è chi studia, chi sta ai fornelli, chi risponde al centralino del call center, chi rigenera macchine per caffè: dopo aver diviso più volte l'Italia tra innocentisti e colpevolisti, quei detenuti che per settimane o mesi, fino alla condanna definitiva, hanno "resistito" sulle prime pagine dei quotidiani vivono ora la reclusione impegnandosi in attività lavorative che consentono loro di mantenere un ponte con la società. Sono retribuiti con la mercede (così si chiama lo stipendio dei reclusi), da poche centinaia di euro e in qualche caso fino a mille euro: denaro che alcuni riservano per sé, altri destinano alle loro famiglie. Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l'omicidio della fidanzata Chiara Poggi (Garlasco, 13 agosto 2007), è impegnato nella casa di reclusione di Bollate (Milano), modello avanzato di struttura penitenziaria, come centralinista: opera al call center di una nota compagnia telefonica, che ha stipulato una convenzione con la "Bee4 altre menti", impresa sociale fondata nel 2013, che offre opportunità di riscatto a persone che hanno incontrato il carcere. Allo stesso call center aspira Salvatore Parolisi, che ha scontato quasi metà della pena a 20 anni di reclusione inflittagli per l'omicidio della moglie Melania Rea (Civitella del Tronto, 18 aprile 2011). L'ex caporalmaggiore sta frequentando, sempre a Bollate, uno stage di formazione e presto siederà accanto agli altri centralinisti. A Bollate è detenuto pure Massimo Bossetti, "fine pena mai" per l'omicidio di Yara Gambirasio (Brembate di Sopra, 26 novembre 2010). L'ex muratore di Mapello lavora per conto di un'azienda che, insieme a Bee4, ha creato il progetto Second Chance (seconda possibilità): rimettere a nuovo macchine per caffè espresso ormai rovinate, in fase di demolizione, che vengono rigenerate dai detenuti, i quali così, a loro volta, hanno una "seconda chance" di vita. Anche i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all'ergastolo per la strage di Erba (11 dicembre 2006) sono detenuti lavoratori: il primo è ai fornelli nel centro clinico del carcere di Milano-Opera, la seconda è inserviente nella casa di reclusione di Bollate, ma è impegnata anche nella creazione di borse e accessori di cuoio per una cooperativa che sostiene progetti in favore dei bambini in Africa. Taglio e cucito, invece, per Cosima Serrano Misseri e la figlia Sabrina Misseri, ergastolane anche loro, recluse nella casa circondariale di Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi (Avetrana, 26 agosto 2010): entrambe svolgono attività di volontariato per la sartoria istituita nella sezione femminile. Un altro ergastolano, Angelo Izzo, condannato per la strage del Circeo (29 settembre 1975) fa saltuari lavori nel carcere di Velletri. Veronica Panarello, 30 anni di reclusione per l'omicidio del figlio Lorys (Santa Croce Camerina, 29 novembre 2014) frequenta nel carcere di Torino un corso per operatore dei servizi sociali. Agli studi ha deciso di dedicarsi anche Michele Buoninconti, condannato a 20 anni per l'omicidio della moglie Elena Ceste, la donna di Costigliole d'Asti scomparsa da casa il 24 gennaio 2014 e trovata morta il successivo 18 ottobre. L'ex vigile del fuoco fa il tutor universitario: studente accademico, mette la sua esperienza al servizio di altri detenuti-studenti che hanno bisogno di sostegno. Non lavorano, invece, due detenuti eccellenti, entrambi condannati all'ergastolo: Renato Vallanzasca, il bel René, superboss della mala milanese negli anni settanta-ottanta, recluso a Bollate; e Cesare Battisti, l'ex terrorista rosso trasferito lo scorso anno nel carcere di Oristano dopo una lunga latitanza all'estero. Sono temporaneamente "disoccupati" anche Antonio Logli, condannato a 20 anni per l'omicidio della moglie, Roberta Ragusa, sparita nel nulla nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, che sta scontando la pena nel carcere di Massa; e Manuel Foffo, detenuto nel carcere di Rebibbia, a Roma, 30 anni di reclusione per l'omicidio di Luca Varani (Roma, 4 marzo 2016). I due hanno svolto per un periodo lavoro a rotazione con altri detenuti e sono in attesa di "nuova occupazione".

Franco Giubilei per “la Stampa” il 30 dicembre 2019. Il dato secco è impressionante: il 27% dei detenuti italiani viene sottoposto a terapia psichiatrica, percentuale che, come tutte le medie statistiche, oscilla fra l' incredibile 97% della casa di reclusione di Spoleto e il minuscolo 0,6% di Volterra. L' associazione Antigone, con la sua ricerca condotta su oltre 60 istituti detentivi su 190, alza il velo sull' ennesima, grave espressione di disagio del mondo carcerario italiano. Forme di sofferenza che spesso sfociano in aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, atti di autolesionismo dei reclusi e suicidi: nel 2018 si sono tolti la vita 61 detenuti, il 33% in più rispetto al 2015 (quando erano stati 39), ma è soprattutto il divario con quanto accade fuori dal carcere a dare la misura della drammaticità della situazione: il tasso di suicidi calcolato su 10 mila persone nel mondo libero è sotto l' 1%, mentre dietro le sbarre un anno fa è balzato al 10,4%. Il numero del 2019 aggiornato allo scorso 7 dicembre parla di 46 episodi. Un' emergenza così acuta, quella dei problemi mentali e delle loro conseguenze sulla vita all' interno delle carceri, che pochi mesi fa il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha scritto al governo e ad altri organismi interessati una lettera dal titolo inequivocabile: «Interventi urgenti in ordine all' acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico». «Occorre dedicare ogni sforzo all' implementazione dell' assistenza psichiatrica negli istituti, per le valutazioni delle persone detenute e per i contatti con i dipartimenti di salute mentale del territorio, ai fini della continuità terapeutica al ritorno in libertà», vi si legge. Vanno promossi «accordi su tutto il territorio nazionale fra direzioni penitenziarie e Asl» e soprattutto, per l' assistenza ai detenuti malati, vanno rafforzati «i servizi psicologici e psichiatrici». Già, perché allo stato attuale, sempre secondo Antigone, l' assistenza è chiaramente insufficiente se, ogni 100 detenuti, la presenza settimanale media degli psicologi è pari a 11 ore e mezza, dato che precipita a 7 ore quando si parla di psichiatri. Sette ore alla settimana per cento persone significa che ogni recluso ha uno specialista a sua disposizione per quattro minuti e venti secondi, quanto basta a mala pena a un medico per fare una domanda, avere una risposta e prescrivere un medicinale. Il che fa sorgere il dubbio ragionevole che un ricorso così generalizzato agli psicofarmaci sia spesso la risposta impropria a problemi di altro genere: «La situazione di istituti come quello di Spoleto, dove le persone in terapia psichiatrica superano il 97% del totale e le ore passate dagli psichiatri con cento di loro ogni settimana sono 2 e 21 minuti, ci dice che non si fa null' altro che prescrivere medicinali, trascurando qualsiasi altra forma di intervento, il che vuol dire che diventa anche uno strumento di controllo», sostiene Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell' Osservatorio sulle condizioni detentive di Antigone. Gli ansiolitici sono i medicinali cui si ricorre più spesso e con cui si interviene su detenuti nelle attività rieducative, scolastiche e lavorative ridotte al lumicino: «Occorrerebbe distinguere il disagio mentale vero dal disagio sociale legato alla famiglia di provenienza e alla povertà dei detenuti - aggiunge Miravalle -. Molti dei casi trattati come psichiatrici hanno proprio di questi problemi. D' altra parte chi non impazzirebbe a passare venti ore al giorno di ozio penitenziario?». Il contesto di sovraffollamento cronico - 123,5% il dato medio - ovviamente non aiuta, così come non aiuta la scarsità del servizio assicurato dalle Asl in certe realtà: «A Foggia, dove ci sono oltre 600 detenuti, non c' è neanche uno psicologo e gli psichiatri sono presenti per tre ore alla settimana per cento persone». Felice Nava, direttore dell' Unità operativa di sanità penitenziaria Auls 6 di Padova, pensando all' enormità del dato di più di un detenuto su quattro in cura con psicofarmaci, indica un equivoco di fondo: «La prima distinzione da fare è fra patologia psichiatrica e disagio psichico: il reo folle ha le caratteristiche del soggetto malato per cui è in cura da psichiatri, ma non va confuso con chi, non avendo una patologia, esprime un disagio che si traduce in autolesionismo o in un tentativo di suicidio. Voglio dire che le percentuali dei soggetti veramente psicotici sono le stesse sia fuori che dentro il carcere, ma in prigione c' è il disagio psichico che si manifesta molto di più perché quello è un luogo estremo. E' la mancanza di attività rieducative e lavoro, propedeutiche alla riabilitazione, che induce questo problema».

Il superamento degli Opg. L' impennata delle terapie psichiatriche degli ultimi anni, con ricorso indiscriminato alle benzodiazepine - «di cui in molti casi si abusa, come avviene col Rivotril» - aggiunge Nava, è anche legata a un evento importante per il nostro sistema carcerario: la fine degli Opg, gli ex manicomi criminali che ospitavano circa 1.500 persone. «Da quando, cinque anni fa, sono cominciati a diminuire gli invii di detenuti agli Ospedali psichiatrici giudiziari in vista della loro chiusura, nelle carceri hanno osservato l' aumento di problematiche mentali, un aumento che è esploso quando tutti gli Opg hanno cessato di esistere, fra il 2016 e il 2017», evidenzia Miravalle. Nel frattempo venivano istituite le Rems (capienza complessiva di 600 posti su 32 centri, ndr), le Residenze per l' esecuzione delle misure di sicurezza gestite dai servizi sanitari territoriali, concepite per accogliere gli ex detenuti degli Opg oltre agli autori di reati giudicati incapaci di intendere e di volere, tutta gente che un tempo finiva dimenticata nei manicomi criminali. La legge 81 del 2014 ha stabilito anche l' impossibilità, per quanti si ammalano di patologie mentali all' interno di un carcere dopo la condanna, di essere trasferiti nelle Rems: è in prigione che devono essere curati, al pari di qualsiasi altro paziente, e sono i medici delle Asl a dover farsene carico. «L'intento del legislatore era proprio quello di evitare che anche le Rems, come avveniva una volta per gli Opg, diventassero un luogo dove scaricare i casi difficili», commenta Miravalle. Sulla carta tutto bene, peccato che il meccanismo ben presto si sia inceppato per la latitanza dei servizi psichiatrici territoriali, al punto che, riporta il coordinatore di Antigone, «oggi, parlando con qualsiasi direttore di carcere, fra le problematiche più rilevanti, ci sono i detenuti con problemi mentali». Al Dap confermano le criticità, parlano di «forte preoccupazione» e mettono in evidenza la «difficoltà di dialogo con una pluralità di soggetti», cioè le Asl delle varie città che si regolano ognuna in maniera diversa. Denunciano anche il «malessere dei detenuti manifestato con aggressioni al personale" e ricordano che "non sempre i nostri appelli (ai servizi sanitari territoriali, ndr) alla collaborazione, a parte alcune realtà, vengono seguiti». Ne fanno le spese i detenuti malati, soprattutto ora, durante le feste. Alcuni fra i 30 reparti psichiatrici attivi in altrettante carceri italiane sotto le feste dovranno chiudere per mancanza di assistenza, ma i pazienti resteranno lì, in prigione, coi loro disturbi. Quei reparti ospitano in tutto 300 persone, in più ci sono i malati in lista d' attesa, perché tutta l' Italia è paese, al di qua e al di là delle sbarre.

Giovanni, detenuto malato di tumore: non lo mandano a casa e muore in carcere. Rossella Grasso il 2 Gennaio 2020 su Il Riformista. È dimagrito di 10 chili in 10 giorni Giovanni De Angelis, malato di tumore all’intestino con metastasi lungo tutto il corpo detenuto nel carcere di Poggioreale di Napoli. È morto il 27 dicembre all’Ospedale Cardarelli, trasportato lì direttamente dal carcere quando le sue condizioni sono gravemente peggiorate. La famiglia aveva chiesto più volte di farlo rientrare a casa per motivi di salute, ma il Magistrato di Sorveglianza glie lo ha negato. Così è morto, nel carcere più affollato d’Europa, vivendo i suoi ultimi giorni di vita tra mille difficoltà che la malattia ha reso un vero inferno per se e la sua famiglia. Giovanni era stato arrestato per detenzione di armi e posto agli arresti domiciliari. Dopo aver evaso la misura è stato rinchiuso a Poggioreale. Qui inizia la storia infernale come denuncia Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania: “Non si può morire di carcere e in carcere”, ha detto. “Aveva un colloquio con me il giorno 3 dicembre 2019 – racconta Ciambriello –  e dopo diversi miei solleciti a livello sanitario, il detenuto è stato portato al Cardarelli, dal quale è stato dimesso con prognosi tumorale che annunciava ‘una vita breve’. A quel punto la Direzione Sanitaria del carcere di Poggioreale mi ha confermato che il 5 dicembre aveva emesso un certificato di Incompatibilità col regime carcerario. Nella nostra Regione si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni di questo tipo”. La storia di Giovanni era già stata segnalata da Pietro Ioia, neo Garante dei detenuti del Comune di Napoli e Presidente dell’Associazione Ex Don. “I familiari del detenuto Giovanni De Angelis sono disperati perché è un malato affetto da patologia psichiatrica e da qualche tempo era anche in cura perchè gli sono stati riscontrati valori tumorali alti – ha detto – È detenuto per reati minori e sta rifiutando il cibo per mancanza di medicinali, spero che non stiamo di fronte a un altro caso come quello di Ciro Rigotti”. Ciambriello racconta che il 19 dicembre 2019 Giovanni aveva incontrato una delle collaboratrici del garante dei detenuti e in quella circostanza era risultato depresso, confuso, e affetto da schizofrenia indifferenziata. Dalla fine del mese di Novembre, e per l’intero mese di Dicembre, il suo avvocato aveva chiesto, senza ottenere alcuna risposta, al Tribunale di Sorveglianza di Napoli una concessione di misura alternativa alla detenzione. Poi il 27 dicembre scorso è peggiorato all’improvviso ed è stato necessario accompagnarlo al Cardarelli dove poche ore dopo è morto. Un destino beffardo quello che è toccato a Giovanni: dopo tanta insistenza da parte di sua sorella e sua madre giusto il 27 dicembre il Magistrato di Sorveglianza aveva autorizzato la detenzione domiciliare presso l’abitazione della sorella a Napoli. Ma Giovanni non ce l’ha fatta e ha spirato lì, tra il carcere e l’ospedale. “L’incompatibilità carceraria si verifica quando la persona è in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più (secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici praticati in carcere – ha sottolineato Ciambriello – Credo che non si tratti quindi di una concessione eventuale e/o discrezionale, ma di un preciso diritto, peraltro riconosciuto anche agli imputati”. L’art. 11 dell’Ordinamento Penitenziario infatti prevede che “ove siano necessari cura o accertamenti diagnostici che non possano essere apprestati dai servizi sanitari degli Istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del Magistrato di Sorveglianza in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura”. Per Ciambriello nel caso di Giovanni, il mancato differimento della pena è una violazione dei diritti costituzionali, ed è un trattamento contrario al senso di umanità. “Non è accettabile che un detenuto muoia in uno stato di detenzione dopo che, per una patologia nota e conclamata, è stata dichiarata l’Incompatibilità con il regime carcerario”.

Suicidi, poveri e senza fissa dimora: quando il carcere non è la soluzione. Damiano Aliprandi il 3 gennaio 2020 su Il Dubbio. A dicembre 4 degli 8 che si sono tolti la vita in cella non avevano un domicilio. Il 29 dicembre un altro detenuto si è ammazzato, facendo salire a 53 le vittime. In galera ci sono circa 5000 stanno scontando una pena tra zero e due anni. L’anno 2019 non si è concluso con 52 suicidi in carcere, ma con 53. L’ultimo suicidio, avvenuto al carcere di Venezia il 29 dicembre scorso, riguarda un ragazzo ( in attesa di giudizio) di 33 anni arrestato per furto, tra l’altro aggravato perché compiuto in un luogo pubblico. Era un senza fissa dimora. A darne notizia è il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, intervenuto durante una trasmissione di Radio Radicale condotta dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Ma non è l’unico caso riguardante una persona che appartiene a una minorità sociale, ovvero povera. Sempre il garante ha sottolineato che nel mese di dicembre ci sono stati otto suicidi, tra i quali ben quattro erano dei senza fissa dimora. Un dato che fa emergere con chiarezza un problema devastante che riguarda la nostra società. Suicidi che dovrebbero porre interrogativi su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere. Come non dimenticare ciò che è avvenuto sempre nell’anno 2019 al carcere di Viterbo, quando un senza fissa dimora è stato ucciso da un altro disperato che, nonostante i suoi precedenti di aggressione in carcere a causa del suo disagio psichico, è stato messo nella stessa cella con lui. Oppure l’altro suicidio, sempre a Viterbo, avvenuto a novembre e riguardante un ventenne africano che stava scontando una pena di pochi mesi. Mentre su alcuni giornali alcuni magistrati hanno scritto che in carcere non ci va quasi più nessuno, la realtà che emerge è ben diversa. Non solo c’è il problema del sovraffollamento che smentisce categoricamente qualsiasi tesi del genere, ma c’è anche il fatto che in carcere si finisce per scontare una pena di pochi mesi. Problema che riguarda soprattutto le persone povere. Sempre il garante nazionale delle persone private della libertà ha snocciolato dei dati che cristallizzano la dimensione del problema. Nelle patrie galere ci sono 1683 persone che stanno scontando una pena inferiore a un anno, mentre 3000 reclusi tra uno e i due anni. In totale ci sono circa 5000 persone che stanno scontando una pena tra zero e due anni. Sono persone che potrebbero scontare la pena fuori dal carcere, ma non hanno gli strumenti per accedervi e, in mancanza di domicilio, il magistrato non può concedere una pena alternativa. Un problema che riguarda la fragilità sociale con un Paese che non riesce a farne fronte. Gli ultimi dati istat parlano chiaro: in Italia ci sono 1,8 milioni di famiglie in povertà, pari a circa 5 milioni di individui, concentrati nelle principali città metropolitane del Paese: in sette di esse risiede la metà di persone senza fissa dimora. Se da una parte c’è un problema, enorme, di diseguaglianza, dall’altra c’è il carcere che rischia di diventare un contenitore di queste problematiche. In realtà nella riforma originaria dell’ordinamento penitenziario era contemplato un decreto, poi disatteso, sulle pene alternative dove non solo si valorizzava l’accesso, ma indicava anche una soluzione per le persone con problemi di dimora, incentivando l’implementazione degli alloggi. In particolare, la commissione presieduta dal professore Glauco Giostra, aveva inserito un nuovo comma affinché gli UEPE si adoperino per favorire il reperimento di alloggi per le persone ammesse alla semilibertà, in modo da favorire il loro accesso alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova. Ma il governo precedente legastellato l’ha cancellato.

Pertini e Settembrini reclusi eccellenti. Solo “Fra Diavolo” evase da Santo Stefano. Damiano Aliprandi il 4 gennaio 2020 su Il Dubbio. Sandro Pertini fu recluso per un anno, Luigi Settembrini per otto ani e dopo due tentitivi falliti fu liberato con uno stratagemma. Il brigante Michele Pezza organizzò una evasione di massa. «La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla “bocca di lupo” guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. È un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vinto, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare». È un passaggio di Sandro Pertini quando descrive la sua reclusione al carcere di Santo Stefano. Il futuro presidente della Repubblica italiana, fu ospite, suo malgrado, della cella n. 36, dal dicembre 1929 al dicembre 1930. A perenne memoria, all’ingresso principale del carcere, è stata affissa una lapide in marmo. Le date di ingresso di Pertini si rilevano da due missive. La prima redatta sul treno Roma- Napoli 23 dicembre 1929 è scritta dallo stesso Pertini alla madre per comunicarle il suo trasferimento sull’isola. Da questa lettera si rilevano il genuino amore di un figlio per la propria madre, la tenacia di un ribelle, e la forza di un uomo indomito che ha creduto, combattuto e pagato caramente per i suoi ideali: «Mia buona mamma – scrive Pertini -, sono riuscito a procurarmi un pezzo di lapis e un po’ di carta e tento di scriverti nonostante questi maledetti ferri che mi stringono i polsi. Voglio che ti giungano i miei auguri per il nuovo anno, mamma, e farò di tutto perché a Napoli questa mia lettera sia imbucata. Sono qui solo in una piccola cella del vagone cellulare. Mi portano a Napoli e verso il 27 mi porteranno al reclusorio di S. Stefano. Mamma buona e santa, non ti rattristare per questa mia nuova sorte. Pensa, mamma, che lotto per un ideale sublime, tutta luce. Se tu sapessi con quale gioia, e con quanta fierezza io alzai dalla gabbia dopo la lettura della sentenza il grido della mia fede “Viva il Socialismo”, “Abbasso il fascismo”. E allora mi saltarono addosso furenti, turandomi la bocca quasi a soffocarmi, ma io nulla sentivo». La seconda lettera, scritta da Andreina Costa Gavazzi, figlia di Anna Kuliscioff, a Filippo Turati, datata 23 dicembre 1930, riporta il trasferimento di Pertini a Turi, dove è testualmente detto: «… la presente per informarla, d’urgenza, che ricevo proprio ora dalla fidanzata del nostro Sandro la notizia che fino dal 10 corrente egli è stato trasferito alla Casa di pena di Turi ( provincia di Bari). È un reclusorio meno duro di Santo Stefano? Non ne so nulla…». Anche Sandro Pertini, in un suo scritto, ha lasciato testimonianza della sua permanenza in Santo Stefano: «Non sapevo a cosa andavo incontro. S. Stefano era rimasto il vecchio carcere dei Borboni, con celle umide e malsane, e quando la guardia aprì la mia cella, con accento meridionale disse: “Qui dentro c’è stato Luigi Settembrini”. All’alba ci portavano un caffè acquoso e alle dieci il rancio che era una minestra di pasta e ceci o pasta e fagioli, che doveva bastare tutto il giorno». Come scritto nel racconto di sabato scorso, il carcere di Santo Stefano venne realizzato nell’età dell’illuminismo, quando si era passati alla concezione dell’istituzione carceraria come centro del sistema penale. Un carcere adibito per gli ergastolani, dove, nonostante il secolo dei lumi, non si risparmiavano le pene corporali. Lo svolgersi delle interminabili giornate spesso era rotto dal crudele spettacolo delle punizioni a cui i condannati assistevano dalle grate delle finestre o dallo spioncino delle porte. In effetti, il regolamento interno, così come di qualsiasi altra prigione, prevedeva, oltre a piccoli premi per i condannati modello, anche dure punizioni per coloro i quali non si attenevano alle regole di condotta disciplinanti l’andamento della giornata. Accanto alle punizioni di carattere più leggero vigevano punizioni corporali che per la loro brutalità potevano anche portare alla tomba: cella oscura a pane e acqua, raddoppio delle catene alle caviglie e ai polsi, incatenamento al puntale ( anello murato nel pavimento), battiture in cella o all’aperto in presenza degli altri detenuti. L’ergastolo di Santo Stefano, inquadrabile sicuramente tra quelli a sistema durissimo, era un carcere senza speranze, dove l’ozio ed i vizi spadroneggiavano e dove la quotidianità dei reclusi era scandita dalla battitura delle grate alle finestre, dallo stridere dei cancelli, dalle bestemmie e maledizioni dei forzati rivolte nel nulla e dai lamenti di coloro i quali, insubordinati alle regole interne, erano bastonati al centro del cortile, quale monito per i compagni obbligati ad assistere al triste spettacolo come accennato, da dietro gli sportellini delle porte delle celle. Da quell’inferno gli ergastolani con fine pena mai, potevano uscire solamente in due modi: o da morti, oppure con una evasione. In realtà nemmeno da morti: le spoglie dei reclusi morti durante l’esecuzione della pena, venivano tumulate nel piccolo cimitero dell’isola. La prima grossa evasione in massa fu attuata nel 1806 dal brigante “Fra Diavolo” di Itri ( il cui vero nome era Michele Pezza), che dopo l’evasione arruolò i detenuti tra le fila della sua banda per combattere a fianco dei Borboni, contro i Francesi. Questo episodio determinò la chiusura della prigione per undici anni. Solo nel 1817, per volontà del ministro Medici, i cancelli di Santo Stefano furono riaperti per ospitarvi sempre più detenuti politici e meno criminali. Altra evasione, solo programmata ma fallita nella sua realizzazione, fu quella ideata dal patriota Luigi Settembrini ed appoggiata all’esterno da Giuseppe Garibaldi, che sarebbe dovuta avvenire tra il 1855 ed il 1857. Settembrini fu recluso nel carcere di Santo Stefano agli inizi del 1851 e ne uscì agli inizi del 1859. Nella primavera del 1855 iniziò a programmare il proprio piano di fuga, da mettere in atto verso la fine dell’estate. Da un copioso scambio epistolare clandestino con sua moglie Raffaella, si apprende che lui stesso chiese collaborazione all’esterno per sé e per altri cinque compagni di cella, stabilendo man mano le modalità del piano di fuga, preparando addirittura delle piantine con i disegni dei luoghi e le rotte marinare da seguire. Dall’esterno Giuseppe Garibaldi partecipò attivamente al piano, tracciando su apposite carte nautiche la rotta che l’imbarcazione ( The Isle of Thanet), acquistata in Inghilterra dal rivoluzionario Antonio Panizzi con una sottoscrizione fra amici, avrebbe dovuto seguire per la riuscita dell’evasione. Il piano fallì in quanto l’imbarcazione naufragò ancora prima di giungere nel golfo di Gaeta. Fallì anche un secondo tentativo. Settembrini sarà infine liberato con un altro stratagemma messo in atto a bordo del piroscafo David Stewart nel mese di febbraio del 1859 durante il trasferimento, per il decretato esilio, suo e di altri sessantasei detenuti politici in Nord- America. Il comandante della nave, per paura di ventilati fastidi diplomatici internazionali, anziché dirigersi a New York, come concordato con le autorità, fece rotta verso l’Inghilterra dove sbarcarono liberi dopo qualche giorno.

·         L’ergastolo ostativo: il carcere per i Vecchi.

Ergastolo ostativo, cosa è e perché ha le ore contate. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 9 Luglio 2020.

1. Secondo la Costituzione, puniamo qualcuno per averlo poi indietro, possibilmente cambiato: alle corte, questo sta a significare che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, comma 3). Ecco perché, da sempre, l’ergastolo è pietra d’inciampo. Come può, infatti, mirare al recupero sociale una detenzione a vita, dunque fino alla morte del reo?

2. Per l’ergastolo comune, che pure il codice definisce pena «perpetua» (art. 22), la quadratura del cerchio è stata trovata nel 1962, estendendo per legge anche ai condannati a vita la liberazione condizionale: la possibilità cioè, per l’ergastolano che abbia dato prova di sicuro ravvedimento, di uscire di galera dopo ventisei anni di detenzione (riducibili fino a ventuno grazie al meccanismo degli sconti di pena, se meritati). Scarcerato, vivrà in libertà condizionata per cinque anni, trascorsi i quali – se avrà rigato dritto – la sua pena sarà estinta. Ecco perché quando, anni dopo, l’art. 22 del codice penale venne impugnato davanti alla Corte costituzionale, questa respinse la quaestio come infondata: non essendo più perpetua, la pena dell’ergastolo incapsula una valenza risocializzatrice (sentenza n. 264/1974). Traduco? Secondo quella sbrigativa decisione, l’ergastolo non vìola la Costituzione perché non è più ergastolo. E può continuare a esistere in quanto tende a non esistere. È un sofisma di corto respiro. Capovolto, dimostra che il carcere a vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i colpevoli che hanno scontato un ergastolo fino a morirne sono stati sottoposti a una pena che la Costituzione ripudia. È accaduto. Continua ad accadere anche oggi: a settembre 2019, dietro le sbarre si contavano 1790 ergastolani, molti in galera da oltre ventisei anni.

3. Per la stragrande maggioranza di essi (1255, pari al 70,1%), quel sofisma non può neppure essere invocato. Sono gli «ergastolani senza scampo» (il copyright è di Adriano Sofri) perché condannati a vita per uno dei gravi reati associativi inclusi nella blacklist compilata nell’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario. In gergo, si chiamano ergastolani ostativi. La loro è davvero una condanna a vita: se non collaborano utilmente con la giustizia, ad essi è automaticamente precluso l’accesso alla liberazione condizionale. Per loro, e solo per loro, ogni giorno trascorso è un giorno in più (e non in meno) di detenzione. Per loro, e solo per loro, l’espressione gergale «finire dentro» vale alla lettera, nel senso inedito e senza speranza di chi in carcere è destinato a finire, cioè a morirvi. L’ergastolo torna così ad essere quello che è sempre stato: l’ambiguo luogotenente della pena capitale, «una pena di morte nascosta» (come lo chiama Papa Francesco). La novità è che, ora, l’ergastolo ostativo sembra arrivato al capolinea. È del 3 giugno scorso, infatti, l’ordinanza con cui la Prima Sezione penale della Cassazione dubita della sua conformità a Costituzione. Le domande precedono sempre le risposte, e quelle formulate dalla Cassazione sono davvero serrate: vediamole.

4. La prima è particolarmente insidiosa, perché usa parole spese in passato dalla stessa Corte costituzionale: «se la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca» (sentenza n. 161/1997). Tertium non datur. E così la stampella argomentativa, fin qui adoperata a puntellare l’ergastolo comune, viene meno per la sua variante ostativa. Come un boomerang, torna indietro ritorcendoglisi contro.

5. La seconda domanda chiama in causa la Corte di Strasburgo. La sua giurisprudenza non è contraria a pene perpetue, purché riducibili de jure (ad esempio, attraverso la liberazione condizionale) e de facto (dovendosi riconoscere all’ergastolano una prevedibile e concreta possibilità, ancorché condizionata, di scarcerazione). Diversamente, la detenzione a vita vìola il divieto di pene inumane o degradanti (art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Qui la Cassazione invoca un diretto precedente contro l’Italia, la sentenza Viola n° 2, pronunciata un anno fa, che ci ha condannati proprio in ragione del regime ostativo applicato all’ergastolo: per i giudici europei, infatti, è un meccanismo che «limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena». Negando il diritto alla speranza dell’ergastolano, ne degrada la dignità che inerisce ad ogni persona, anche criminale certificato, perché la dignità umana «non si acquista per meriti né si perde per demeriti» (così Gaetano Silvestri, già Presidente della Corte costituzionale). Precedente non trascurabile, la sentenza Viola n° 2, riguardando «una vicenda pienamente sovrapponibile» a quella oggetto del mio procedimento, scrive la Cassazione. Dunque, nei suoi esiti interpretativi, è doppiamente vincolante: perché espressione di un orientamento consolidato a Strasburgo e perché calco esatto della quaestio ora promossa davanti alla Corte costituzionale.

6. L’ultimo quesito posto alla Consulta ne chiama in causa, di nuovo, un obbligo di coerenza giurisprudenziale. Qui, il riferimento è alla ratio decidendi della sua sentenza n. 253/2019, che ha aperto una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria riconoscendo la possibilità di domandare – e non il diritto di ottenere – il beneficio del permesso premio (anche) all’ergastolano ostativo non collaborante. È una sentenza che ha smontato la presunzione legale secondo cui chi non parla, pur potendolo fare, è socialmente pericoloso. Per legge, infatti, quel silenzio è sempre omertoso, prova invincibile della permanente adesione del reo al sodalizio criminale. Non contano le ragioni del suo silenzio (magari dettato dal timore di ritorsioni a danno di sé o dei propri familiari). Non conta il suo percorso rieducativo fatto durante gli anni di reclusione (anche se ne attesta un’autentica revisione critica delle pregresse scelte criminali). O ti penti o rimani in cella per sempre. Con la sua sentenza la Corte costituzionale ha censurato tale automatismo. Perché la collaborazione può essere premiata, ma non estorta con il ricatto di una detenzione più afflittiva. Perché nega, a priori, rilevanza giuridica al processo di risocializzazione del detenuto. Perché il decorso del tempo in prigione può contraddire la presunta «immutabilità, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere». È il giudice di sorveglianza, dunque, a dover valutare, caso per caso, entrambi i fattori, al fine di concedere o meno il beneficio penitenziario richiesto dal reo non collaborante. A questa ratio decidendi la Cassazione fa appello. Una ratio che non può non valere anche per la liberazione condizionale, traguardo di un percorso trattamentale di cui il permesso premio è solo il punto di partenza, altrimenti sterilizzato nella sua «funzione pedagogico-propulsiva».

7. Sono pronto a scommettere che l’ordinanza della Cassazione farà da apripista ad altre analoghe impugnazioni da parte di Tribunali di sorveglianza non pavidi. Se accadrà, le relative questioni di costituzionalità potranno arricchirsi di ulteriori profili. Ad esempio, la violazione del diritto di difesa (art. 24, comma 2), perché il diritto al silenzio garantito nel processo si rovescia nell’obbligo di collaborare in sede di esecuzione della pena. O la violazione del divieto, assoluto e incondizionato, della morte come pena (art. 27, comma 4), perché l’ergastolo ostativo alla concessione della liberazione condizionale è una pena fino alla morte. O il divieto di tortura (artt. 13, comma 4, e 117, comma 1), che la pertinente convenzione ONU del 1984, ratificata anche dall’Italia, definisce come «ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per propositi quali ottenere da essa […] informazioni o confessioni». Da ultimo, l’ottusità di un simile regime ostativo può generare un autentico paradosso kafkiano, nel caso non improbabile di errore giudiziario: solo il colpevole, infatti, può utilmente collaborare con la giustizia, non l’innocente, che – condannato all’ergastolo ostativo – dovrà rassegnarsi a morire murato vivo. Amen.

8. Prima che la contraerea preventiva dei soliti noti inizi a sparare la sua mediatica potenza di fuoco, censurando come improvvida l’iniziativa della Cassazione, tentando così di condizionare i giudici costituzionali, va segnalata un’ulteriore novità. Se possibile, ancora più clamorosa. È la stessa Commissione parlamentare antimafia, nella sua relazione approvata il 20 maggio scorso, a prendere atto – alla luce della giurisprudenza più recente delle due corti dei diritti – che «la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Seguendo indicazioni già presenti nella sentenza n. 253/2019, la relazione prefigura «nuove soluzioni normative», che introducano «un più rigoroso procedimento di accertamento da parte della magistratura di sorveglianza» circa i presupposti per la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, quando richiesti dal condannato che non collabori con la giustizia. Di tali proposte di riforma si può discutere. Ma ciò che conta, qui e ora, è il loro assunto di partenza: l’incompatibilità, costituzionale e convenzionale, di un ergastolo senza scampo.

9. È dunque iniziato il countdown: per giudicato costituzionale o per scelta legislativa (o, com’è più probabile, perché l’uno trascinerà l’altra), sull’ergastolo ostativo calerà il sipario. Com’è giusto che sia. È così semplice da capire, quasi elementare: se l’orizzonte costituzionale è quello del recupero del condannato alla vita sociale, allora davvero il fine della pena esige la fine della pena.

Quasi mille gli anziani in carcere, tra loro anche alcuni novantenni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Aumenta l’età media delle pene e l’età media della popolazione detenuta. In breve tempo la popolazione carceraria ultra 70enne è triplicata. Negli ultimi anni sono aumentate l’età media delle pene, aumenta l’età media della popolazione detenuta stessa e di conseguenza abbiamo triplicato, rispetto al 2005 (il primo dato disponibile sul sito del ministero della Giustizia), la popolazione ultra 70enne. Al 2019, infatti, risultano 986 persone anziane dove non mancano detenuti che hanno raggiunto la soglia dei 90 anni, soprattutto gli ergastolani che sono al 41 bis. Sì, anziani con le ovvie patologie legate alla loro età, compreso i tumori. Quella popolazione più vulnerabile ai tempi della piena emergenza coronavirus dove il Dap non ha potuto fare a meno di inviare quella famosa circolare che aveva come nobile obiettivo di tutelare la salute delle persone detenute, conscio che le carceri avrebbero potuto fare la fine delle Rsa dove il Covid 19 ha fatto una strage di anziani. Il Dap risultò “colpevole” di aver richiesto a tutti gli istituti penitenziari una lista di detenuti anziani e con patologie importanti, più esposti ai rischi di contagio da Covid-19, a prescindere dalla loro posizione giuridica e dal circuito penitenziario di appartenenza. Forse fu l’unica cosa di buon senso che l’amministrazione penitenziaria riuscì a fare e fu colpita mediaticamente per questo, tanto che ancora oggi la commissione nazionale Antimafia sta compiendo una indagine conoscitiva.

Quei novantenni in carcere. Ma ritorniamo agli anziani, soprattutto dopo il caso di Emilio Fede, quasi 90enne, che è stato arrestato mentre era a festeggiare in una pizzeria il suo compleanno, reo di non aver atteso la notifica della liberazione anticipata che gli era stata comunque concessa. Il consigliere regionale del Lazio di +Europa Alessandro Capriccioli, commentando la notizia su Facebook, ha detto: «So cosa state pensando: ci sono tanti anziani in carcere e nessuno se li fila, ma adesso che hanno arrestato Emilio Fede al ristorante tutti si indignano. Senonché, io in carcere ci vado spesso. E alcuni di quegli anziani li ho conosciuti. Ci ho parlato. Ho visto gli altri detenuti far loro da badanti, perché di badanti, non di agenti della penitenziaria, avevano bisogno». Capriccioli poi ha aggiunto: «Lasciatevelo dire da uno che quegli anziani, quando gli capita, se li fila: fare i benaltristi, dicendo che prima di indignarsi per l’arresto di Emilio Fede bisognerebbe farlo per gli anziani meno famosi di lui che stanno dentro da chissà quanto, equivale a non fare nulla. Né per l’uno né per gli altri». Il nostro ordinamento penitenziario contiene l’art. 47 ter, comma 1, il quale prevede che la pena detentiva inflitta ad una persona che abbia compiuto i settanta anni di età «può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza». Questa ipotesi di detenzione domiciliare ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti. Ci sono gli anziani senza fissa dimora e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli, oppure ci sono anziani con i reati cosiddetti “ostativi”. Si può pensare che siano tutti mafiosi, ma anche questo non è vero.

La storia di Gino Baccani, l’82 enne recluso a Rebibbia. Due anni fa Il Dubbio si è occupato del caso di Gino Baccani, oggi 82enne, recluso al carcere di Rebibbia. Non è considerato socialmente pericoloso ed è stato arrestato nel 2014 per reati commessi tanti anni fa. Tutti gli operatori penitenziari, dagli educatori ai volontari che l’assistono, dicono che si è ravveduto. A dimostrarlo è anche l’ottima relazione dell’equipe di osservazione. Il signor Baccani si ritrova dentro per un cumulo di pene per due reati non mafiosi commessi a distanza di anni, traffico di sostanze stupefacenti: nel 1987 con sentenza definitiva nel 1989 e nel 2001 con sentenza definitiva emessa nel 2010. Ha così determinato una pena complessiva di 15 anni e 4 mesi di reclusione. Ma è sempre lì, in carcere, ora nel nuovo complesso di Rebibbia dove sta in una situazione di sofferenza. Storie come le sue ce ne sono tante. Ogni anziano ha storie a sé. Non sono tutti dei Totò Riina e non sono tutti come Gino Baccani. Ma è un fenomeno che dovrebbe porre interrogativi, quindi delle soluzioni senza farsi coinvolgere da chiavi di lettura dietrologica come sta accadendo oggi per bocca di personaggi auditi in commissione Antimafia. Luogo dove si evocano fantomatici papelli, mai dimostrati materialmente, ma solo per stigmatizzare le poche conquiste che rendono il nostro Paese un po’ più civile.

L’ergastolo ostativo sta per scomparire, prepariamoci alla reazione di politici e giornali. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Siamo a un passo dalla fine dell’ergastolo ostativo. La Corte di Cassazione ha rimandato alla Corte Costituzionale la decisione, dopo il ricorso di un detenuto che reclamava la liberazione condizionale che gli era stata negata dalla Corte d’appello in quanto detenuto in regime ostativo. La Cassazione ritiene che questa decisione dell’Appello possa essere incostituzionale. La decisione definitiva ora spetta alla Corte Costituzionale. Ma la decisione della Corte Costituzionale è praticamente scontata dal momento che la stessa Corte, in ottobre, ha emesso una sentenza nella quale giudica incostituzionale il rifiuto di concedere permessi premio a un detenuto in regime ostativo. Le norme attuali prevedono che i benefici penitenziari possano essere concessi ai detenuti per i reati di mafia e altri reati di pericolosità sociale, solo se il detenuto ha collaborato attivamente con la giustizia. In caso contrario zero benefici e quindi niente liberazione anticipata. La Corte Costituzionale in ottobre si era trovata a decidere sul ricorso di un detenuto che chiedeva i permessi premio sebbene non avesse collaborato con la Giustizia. La Corte poteva decidere solo sui permessi premio. E sentenziò che non era costituzionale negare i permessi premio ai non pentiti e dunque diede ragione al detenuto. La sentenza però non poteva riguardare anche l’ergastolo ostativo perché la sentenza della Consulta può toccare solo le questioni sollevate da chi ricorre. Ora la Cassazione ha affrontato l’argomento decisivo. Quello dell’ergastolo. Rivolgendosi alla Corte Costituzionale perché ritiene “non infondato” il ricorso del detenuto che chiede, dopo aver scontato più di trent’anni di carcere, la liberazione anticipata sulla base della buona condotta e del ravvedimento (è stato condannato per due omicidi). La Corte d’Appello aveva negato la scarcerazione perché il detenuto non è pentito. Se la Consulta accetterà la richiesta della Cassazione si chiuderà finalmente una delle vicende che più ha ferito, in tutti questi anni, la civiltà giuridica italiana. La questione dell’ergastolo – del finepenamai – è molto vecchia. Già nel 1974 la Corte Costituzionale fu chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’ergastolo. Cioè della prigione senza speranza, che ovviamente esclude la rieducazione (non ha senso rieducare se la pena è infinita) e probabilmente è anche un trattamento inumano e degradante. La Consulta in quell’occasione sostenne la tesi che l’ergastolo fosse legittimo, proprio perché la legislazione prevedeva regimi di premio che concedevano, anche agli ergastolani, la possibilità di essere liberati dopo almeno 26 anni di prigione. Quindi che non fosse vero ergastolo. Poi però, nel fuoco dello scontro con la mafia, nacquero le leggi e i regolamenti speciali e spuntò l’ergastolo ostativo. Che è una pena davvero inumana. Prevede che tu non possa godere di nessun beneficio penitenziario, nessun permesso, nessuna scarcerazione anticipata. Ti murano vivo. Se vuoi uscire dall’ergastolo ostativo devi collaborare con la giustizia, cioè diventare un “pentito” e accusare qualche tuo complice. Molti detenuti, non solo della mafia, non hanno mai accettato questo ricatto (difficile definirlo in modo diverso) e sono rimasti per decenni chiusi da muri e sbarre. Finalmente la decisione sull’ergastolo ostativo arriva alla Consulta e tutto lascia immaginare che la soluzione sarà la più logica: quella di ristabilire il diritto e la legalità e tornare alla decisione della Consulta del ‘74. Del resto in questa direzione erano già andate alcune sentenze della Corte europea e diverse dichiarazioni di prestigiosissimi giuristi, compresa l’attuale presidente della Corte Marta Cartabia. Il problema, forse, sarà quello della reazione che ci potrà essere da parte della politica, del giornalismo e di pezzi di magistratura. In questi anni il mito delle “leggi speciali” è stato una specie di “spilla” da mettere sulla giacca per dichiarare la propria antimafiosità Doc. Chi prova a sostenere che un mafioso è una persona e non un avanzo putrido dell’umanità viene solitamente additato come complice. Non solo dai grandi giornali, in genere alla coda del Fatto. Ma anche da settori consistenti della magistratura e da quasi tutti i partiti politici. Basta dare un’occhiata a quel che è successo quando i giudici di sorveglianza hanno scarcerato per motivi sanitari e umanitari un vecchio detenuto ottantenne, malato gravemente di cancro, privo di reati di sangue, condannato a 18 anni di carcere per estorsione e che aveva già scontato 17 anni e mezzo in cella. Gli mancavano sei mesi, e se avesse potuto godere dei benefici penitenziari neanche quelli (ma non poteva goderne, appunto, perché condannato per mafia e non collaboratore di giustizia). Giornali e partiti si indignarono, spiegarono che era un boss, che era il vice di Provenzano, che era uno smacco per la giustizia, per l’Italia, per la patria e non so per cos’altro. E la stessa cosa è successa per Zagaria, fratello di un boss della camorra. E per tanti altri poveretti per i quali il ministro, spinto dai giornali, si affrettò a varare un decreto urgentissimo, probabilmente del tutto incostituzionale, che toglieva poteri alla magistratura di sorveglianza e moltiplicava i poteri già esagerati delle Procure. E poi andò a vantarsi in Parlamento: li ho fatti riarrestare quasi tutti. Vedrete che succederà qualcosa di simile. La cultura di massa in Italia è profondamente intrisa di manette. Il giornalismo e la politica sono del tutto subalterni al partito delle Procure. Resta, nel campo garantista e del diritto, solo una parte assolutamente minoritaria dell’intellettualità, qualche scampolo di politica e i settori più avanzati (e malvisti) della magistratura.

Ergastolo: tutti i perché della consulta. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Dello schiaffo dato dalla Corte Costituzionale ai fan dell’ergastolo ostativo ora conosciamo anche il merito. La sentenza depositata ieri dice chiaramente che il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere punito ulteriormente – negandogli benefici riconosciuti a tutti – se non collabora. La sentenza arriva dopo che, le scorse settimane, la Consulta aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo comma, dell’ordinamento penitenziario là dove non contempla che, in determinate condizioni, il giudice possa concedere al detenuto il permesso premio. L’incostituzionalità della norma, ritenuta dai giudici della Consulta «in contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena» è stata estesa a tutti i reati compresi nel primo comma dell’articolo 4 bis, oltre a quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”, anche quando questi erano puniti con pena diversa dall’ergastolo. Dal ministero della Giustizia fanno sapere che i tecnici sono già al lavoro per verificare, insieme al Parlamento, un’adeguata e tempestiva soluzione. Nel dettaglio, se il detenuto non collabora, la presunzione di pericolosità resta ma non in modo assoluto.

·         La Prigione dei Bambini.

I nodi della giustizia. Il dramma dei bambini detenuti con le mamme, in carcere dalla nascita. Viviana Lanza su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Ci sono sette detenute madri in Campania, vuol dire che sono in cella con figli al seguito. In totale nove bambini. Hanno meno di tre anni d’età e vivono in carcere con le loro mamme. Sono divisi tra il carcere di Lauro e quello di Salerno, i due istituti di pena che in Campania sono attrezzati per ospitare anche bambini così piccoli. I loro nomi e le loro storie diventano un numero sul bilancio con cui periodicamente il Ministero della Giustizia fa il punto sulla situazione penitenziaria, detenute madri comprese. L’ultimo report è aggiornato al 31 maggio e, paragonando i numeri degli ultimi mesi, ci si accorge che durante i mesi di lockdown soltanto una detenuta con i due suoi bambini ha ottenuto la possibilità di lasciare il carcere. Per gli altri la reclusione continua. Nell’annuale rapporto sulle condizioni di detenzione elaborato dall’associazione Antigone emerge il paradosso: a fonte di numeri così ridotti (sono 55 le detenute madri in tutta Italia, otto quelle in Campania) «risulta davvero difficile pensare che non si riescano a trovare luoghi alternativi al carcere», si legge nel rapporto. E così ci sono bambini che trascorrono i primi anni della loro vita in una cella, come piccoli reclusi, lontani da affetti e contesti familiari, da soli assieme alle loro mamme. «È necessario e improrogabile che ai bambini venga assicurato il diritto all’infanzia», sottolinea Francesco Ceraudo, esperto di medicina penitenziaria e autore del libro “Il medico degli ultimi”. Il tema è estremamente delicato e tutt’altro che irrilevante se si considera che si parla di bambini in tenerissima età, eppure se ne parla pochissimo. I bambini in carcere si trovano in istituti a custodia attenuata o in asili nido allestiti presso la struttura penitenziaria. In ogni caso, spiega Ceraudo, «un bambino in carcere è un fatto intollerabile per l’opinione pubblica in quanto il carcere è un’istituzione punitiva. Resta facilmente intuibile che il carcere appare come l’ambiente più insano dal punto di vista dell’igiene mentale e dello sviluppo fisico per un bambino». Secondo alcuni studi, la condizione di reclusione condiziona il linguaggio e la capacità di movimento dei bambini che si trovano a vivere in cella assieme alle loro mamme. “Apri”, “fuori”, “aria” sono tra le prime parole che i piccoli imparano a pronunciare in carcere. Le quattro mura della cella finiscono per diventare il loro mondo, un mondo dove lo spazio è limitato, e non solo quello fisico. Dove non c’è posto per le piccole scoperte che aiutano i bambini a esplorare il mondo nei primi anni di vita, non ci sono tutti gli affetti familiari, non ci sono passeggiate, non ci sono lunghe corse all’aria aperta. «In carcere – spiega Ceraudo – il bambino subisce inerarrabili costrizioni poiché vive e cresce secondo i tempi e i ritmi, i suoni e gli odori della prigione. L’ambiente è innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli». Ci sono studi e recenti ricerche sociologiche che dimostrano come il rischio di devianza sia più alto per quei bambini che hanno vissuto l’esperienza del carcere nei primissimi anni di vita a seguito dell’arresto o della condanna della mamma. La possibilità di tenere in cella le detenute madri con i loro piccoli risale a una legge del 1975, varata con lo scopo di evitare o comunque ritardare il distacco del piccolo dalla mamma ma rischia adesso di avere effetti devastanti «e purtroppo permanenti», aggiunge il professor Ceraudo, già presidente dell’associazione nazionale medici penitenziari. «Maternità e reclusione sono due condizioni in conflitto tra loro e la seconda comunque sembra negare la possibilità alla prima di esprimersi se non in situazioni di estremo disagio». Un rimedio possibile c’è? Secondo Ceraudo, migliorare l’ambiente, colorare le celle, riempire gli asili delle carceri di giocattoli sono interventi possibili «ma il vero obiettivo da perseguire non è il miglioramento dell’ambiente nel quale il bambino vive ma neutralizzare sin dall’inizio l’operazione carceraria che costringe il bambino a vivere in un carcere vero e proprio».

Una “casa senza sbarre” per le mamme detenute. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 giugno 2020. “Le mamme con bambini costituiscono un target particolarmente delicato perché alle tradizionali debolezze di un sistema penale basato in gran parte su esigenze securitarie si aggiungono le esigenze inviolabili dei bambini in età evolutiva”. Anche in Piemonte potrebbe nascere una casa famiglia per mamme detenuti con figli. In Italia ce ne sono soltanto due: Roma e Milano. La Legge 62/ 2011 ha introdotto nell’ordinamento penitenziario norme di maggior tutela per le detenute mamme, istituendo in carcere le “Custodie attenuate” ( Icam) per le madri ristrette con i figli minori al seguito ( per bimbi fino ai 6 anni), e prevedendo la nascita di una rete di Case famiglia protette ( per bambini fino a 10 anni) per offrire un’accoglienza in ambiente senza sbarre. «La Regione Piemonte intende sensibilizzare la Cassa delle ammende affinché metta in campo misure che consentano di attivare almeno una Casa famiglia protetta “senza sbarre” in ogni regione perché un bambino non deve pagare sulla propria pelle le conseguenze degli errori della propria madre». Lo ha dichiarato l’assessore regionale al Welfare Chiara Caucino intervenendo all’incontro “Una casa senza sbarre. Anche in Piemonte una Casa famiglia protetta per mamme con bambini in ambito di esecuzione penale?”, promosso dai garanti regionali dei detenuti e dell’infanzia. «Fragilità individuali e precarietà abitativa rischiano di compromettere percorsi virtuosi di reinserimento sociale – ha affermato il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano –. Le mamme con bambini costituiscono un target particolarmente delicato perché alle tradizionali debolezze di un sistema penale basato in gran parte su esigenze securitarie si aggiungono le esigenze inviolabili dei bambini in età evolutiva, con tutto ciò che questo comporta dal punto di vista della tutela e della salvaguardia dei cittadini di domani». E’ intervenuta anche la garante regionale dell’infanzia Ylenia Serra: «Alla fine di maggio l’Istituto a custodia attenuata per mamme attivo presso l’Istituto penitenziario Lorusso e Cutugno di Torino ospitava sei detenute con sette figli al seguito Numeri piccoli che non devono indurre ad abbassare la guardia su questo tema perché è quanto mai necessario contemperare l’esigenza cautelare dell’autorità giudiziaria con il diritto del minore a vivere con la propria madre in un ambiente sano e che ne salvaguardi lo sviluppo psicofisico». Il sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Giorgis ha assicurato il proprio appoggio alla proposta dell’assessore Caucino, sottolineando l’impegno del Governo affinché «il carcere possa essere sempre più considerato come extrema ratio e si possa dare una piena ed effettiva attuazione al principio costituzionale che prescrive di fare in modo che la pena abbia funzione rieducativa». La docente di Diritto penitenziario Giulia Mantovani ha sottolineato come le Case famiglia protette «sono uno strumento fondamentale affinché l’Italia possa dare attuazione alle linee guida internazionali in materia penitenziaria a cominciare dalle Regole di Bangkok adottate dall’Onu nel 2010 per le donne in gravidanza e le madri detenute e dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2018 sulla sostituzione della carcerazione con soluzioni extramurarie quando si tratti di genitori che devono accudire figli minori».

Storia di Pippo e Katy, ragazzini con genitori in cella e abbandonati dallo Stato. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 5 Giugno 2020. Era il 30 luglio del 2014 quando due fratellini, Pippo e Katy, (nomi di fantasia) nel cuore della notte hanno visto la polizia piombare nella loro abitazione e portarsi via i loro genitori. Succedeva a Rosarno (RC): Pippo aveva 13 anni e la bambina appena 10. Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria ha affidato i due bambini ai nonni materni con il compito di mantenerli, provvedere alla loro istruzione ma anche di accompagnare i ragazzi a visitare i loro genitori in carcere, perché, nonostante tutto, sia Pippo che Katy continuano a vedere in loro «figure fondamentali di riferimento e dei quali attendono il ritorno a casa» (dalla sentenza di affido). I nonni non si sottraggono. Ed oggi i due ragazzi sono dei bravi liceali che frequentano la scuola con ottimi risultati. E lo “Stato”? Non pervenuto. Il nonno ha fatto il giro delle sette chiese per chiedere il contributo previsto da una legge dello Stato ( n. 149/2001 art.5) e da analoga legge dalla Regione Calabria. Inutilmente. Il diritto è stato negato! La pigrizia della burocrazia, s’è sommata al disinteresse degli organi dello Stato e della Regione, totalmente assenti nonostante siano in gioco le disposizioni sui minori riconosciuti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991. Il mantenimento dei minori, fino a questo momento, è ricaduto interamente sulle spalle del nonno che è l’unico della famiglia ad avere un lavoro. Siamo venuti a conoscenza del “caso” perché i nonni dei ragazzi, stanchi e disperati, e dopo essersi rivolti inutilmente a tutte le autorità dello Stato e di Regione Calabria, sono arrivati a Rita Bernardini, del Partito radicale, che minaccia di iniziare uno sciopero della fame qualora la burocrazia statale e regionale perseverasse nel colpevole torpore. I calabresi in carcere rappresentano il 6,2% del totale dei detenuti sebbene la Calabria abbia appena il 3% della popolazione italiana. Quanti sono i casi come quelli di Pippo e Katy? Non lo sappiamo! Una cosa però appare certa: se i due ragazzi non avessero trovato dei nonni attenti e responsabili, il loro avvenire sarebbe stato segnato ed in un futuro prossimo, molto probabilmente, lo “Stato” sarebbe stato costretto a combatterli perché collocati dall’altra parte della barricata. In Calabria si spendono ogni anno milioni e milioni di euro in una presunta lotta contro la ‘ndrangheta caratterizzata da squadroni di militari armati sino ai denti, da auto blindate di ultima generazione e scortate come fossimo a Kabul, convegni a iosa e provvedimenti repressivi a strascico. Ma nessuno si cura di bonificare il terreno su cui il crimine attecchisce. E così un diritto negato oggi, si “traduce” molto spesso in un criminale da combattere domani. E purtroppo c’è chi dei criminali ha bisogno come l’aria per giustificare la presenza sul territorio calabrese del più imponente apparato repressivo dell’Europa occidentale. Il “caso” di Pippo e Katy è l’ulteriore dimostrazione di quanto faccia comodo la “Calabria criminale” per non affrontare seriamente la questione meridionale.

Storia di Edward, 2 anni unico bimbo rinchiuso nel nido di Rebibbia come al 41 bis. Giulio Cavalli su Il Riformista il 26 Maggio 2020. Rimasto solo nel nido. Non è il titolo di un romanzo o di una gustosa serie televisiva, solo nel nido ci è rimasto Edward che ha 2 anni e da settembre dell’anno scorso passa la giornata dentro il nido del carcere di Rebibbia, considerato modello nazionale eppure sempre spazio contornato di sbarre e con una libertà centellinata. Solo che il nido, dopo che sono risultati positivi al Covid-19 due medici e due infermiere che prestavano servizio nel complesso femminile del carcere di Rebibbia, è stato completamente svuotato accedendo a misure alternative di tutti i 14 bambini che c’erano all’inizio dell’emergenza Coronavirus, tutti tranne Edward e sua madre Naza. Lei ha 42 anni e per un cumulo di condanne deve scontare 18 anni di carcere. Naza non ha commesso nessun reato contro la persona, qui siamo lontani dai boss di mafia su cui si è fatto tanto rumore, ma la sua esistenza difficile di madre di ben 13 figli, il suo cognome non italiano e le condanne per furti aggravati e non l’hanno resa una storia minore, una di quelle vicende laterali che risulta perfino scomodo raccontare in questi tempi in cui buttare via la chiave per i colpevoli è diventata la frase regina del dibattito politico e pubblico. Il carcere, si sa, lo fanno quelli che non hanno abbastanza voce e abbastanza soldi per potersi fare ascoltare e così a Naza non spetta che attendere l’esito del suo ricorso, l’ultima udienza è stata lo scorso mercoledì, e sperare. Le colpe di Edward invece sono le stesse di tutti i figli di madri carcerate: essere figlio. Intanto balza agli occhi un dato: in questi due mesi i magistrati competenti, non solo di sorveglianza, hanno usato tutti gli strumenti per scarcerare i bambini del nido di Rebibbia, a dimostrazione del fatto che se esiste la volontà (non solo sanitaria) di garantire un’infanzia dignitosa a bambini reclusi esistono strumenti a disposizione. Bisogna avere il coraggio di usarli e di osarli. «Non facciamoci anestetizzare perché l’alba della vita in un carcere non ha senso. I primi mille giorni della vita non possono esser privati di tutti gli stimoli: affettivi, cognitivi, relazionali, ambientali, sociali, sensoriali che formano la personalità e l’identità» scriveva Leda Colombini, partigiana, assessore agli enti locali e ai servizi sociali della Regione Lazio e poi deputata. In Italia esistono 12 nidi nelle carceri, usati per bambini fino al terzo anno di età. C’è una legge, la 62 del 2011, che ha istituito le case famiglia protette che nelle intenzioni dovrebbero garantire ai bambini condizioni il più possibile vicine a quelle dei loro coetanei. Solo tre anni fa a Roma è stata inaugurata la prima casa protetta intitolata proprio a Leda Colombini. Dal 2006 sono stati creati anche gli Icam, istituti a custodia attenuata per detenute madri in cui le recluse possono tenere i loro figli fino al sesto anno di età. Edward è rimasto solo nel nido e sua madre ha un fine pena che scade nel 2037. Strano Paese questo che si innamora dei bambini quando possono servire per riempire qualche colonnina di siti e giornali con una notiziola curiosa e che invece ritiene normale che possano stare all’interno di un carcere in piena pandemia.

 La condanna dei figli dei detenuti, costretti a vedere i genitori allevati come bestie. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 13 Febbraio 2020. Si parla sempre delle “vittime”, ma solo di alcune. Perlopiù ci si riferisce alle vittime degli illeciti: nei discorsi di quelli che, per vederle ripagate, vogliono sanzioni più gravi e “certezza della pena”. Altre volte si tratta delle vittime dell’ingiustizia: nei discorsi di quelli che della giustizia denunciano errori e abusi. E non c’è dubbio sul fatto che quelle e queste abbiano diritto di ricevere attenzione e cura, e va benissimo che se ne parli. Ma di altre vittime non si parla né ci si preoccupa mai, e sono le più numerose e spesso fragili. Sono i figli, spesso bambini, dei detenuti. Sono i loro compagni e le loro compagne. Sono i loro genitori. Non si pensa abbastanza attentamente, sempre che ci si pensi, a come l’inciviltà del carcere, così oscena e pressoché sempre inutile per come infierisce sulla vita del detenuto, si moltiplichi e diffonda scaricandosi impietosamente su queste vittime ulteriori e indiscutibilmente innocenti. Qui non si parla di vaghe notizie di malagiustizia di cui è possibile non sapere, o di sentenze opinabili che possono sfuggire al controllo civile degli osservatori: qui si parla del fatto notorio e indiscutibile, determinato da una giustizia teoricamente anche impeccabile, per cui la detenzione di uno produce la sofferenza di altri. Ed è un effetto del processo anche più garantito. È una conseguenza della decisione anche più corretta e meglio motivata. Perché anche il processo che più efficacemente protegge il diritto della difesa ricasca su quelle vittime quando giunge all’irrogazione della pena detentiva. Anche la sentenza più attenta e scrupolosa, quando comanda il carcere, libera tuttavia una violenza che si dirige contro la vita di quegli innocenti. Come possiamo permettere che un bambino sia separato in questo modo dal genitore, e che sia costretto a vederlo, semmai può vederlo, come si fa visita a un allevamento di bestie? Come possiamo non vergognarcene? Permettiamo che un bambino non solo sia privato del diritto di frequentare il padre o la madre, ma oltretutto che cresca nell’imbarazzo, nella vergogna per il marchio che si porta addosso: di essere figlio di un detenuto. Immaginiamola, questa domanda generalmente innocua e routinaria, il primo giorno di scuola, ai giardinetti o durante una merenda: «E il tuo papà che lavoro fa?». Metterebbe a disagio una moglie dover rispondere: «Mio marito è in prigione». Ma un bambino! Ho scritto: «il marchio che si porta addosso». Ma glielo abbiamo appiccicato noi. È un contrassegno che gli imponiamo noi. Perché è colpa della comunità civile e politica che organizza in questo modo il sistema carcerario e delle pene se quel bambino non solo non può vedere il genitore ma deve anche vergognarsi del motivo per cui non può vederlo.  E a ricadere su di lui non è la colpa del genitore che delinque, come una retorica balorda risponderebbe: a ricadere su di lui è la colpa di quella comunità, un complesso sociale indifferente davanti a una simile mortificazione e in ogni caso incapace di adottare alternative a quest’unica soluzione afflittiva. Una soluzione ingiusta e violenta. Una soluzione ingiustamente violenta. Anche senza aprirci verso una prospettiva decisamente abolizionista, infatti, potremmo almeno comprendere che la privazione della libertà dovrebbe riguardare unicamente i soggetti attualmente pericolosi. E non pericolosi perché beccati ad alterare un bilancio o a rubare una macchina, cose semmai da sanzionare con risarcimento e lavoro: ma pericolosi per l’incolumità e la salute delle persone. Questi devi isolarli per forza, magari senza trattarli da cani (sempre che valga il riferimento, visto che i cani sono spesso trattati meglio di tanti detenuti). E in quest’altro sistema, se fossimo completamente civili, penseremmo anche ai figli di questi pochi che purtroppo devono essere isolati dalla società. Forniremmo loro assistenza, dimostreremmo loro simpatia, assicureremmo loro ogni cura possibile per rimediare almeno un poco al torto che siamo costretti a fargli imprigionandogli la famiglia.  E intanto agli altri l’avremmo restituita, e ci sarebbero meno bambini costretti ad addormentarsi e a svegliarsi pensando al padre in galera. E ad abbassare gli occhi quando gli chiedono dov’è.

·         Le Class Action carcerarie.

Carceri, class action procedimentale per il rispetto delle misure igienico sanitarie. Redazione su Il Riformista il 25 Maggio 2020. L’avvocato Egidio Albanese, presidente della Camera Penale di Taranto, gli avvocati Carlo Raffo, Carmine Urso, Marco Pomes, Gianluca Sebastio, Enzo Luca Fumarola, Gianluca Mongelli componenti del Consiglio Direttivo della Camera Penale di Taranto, l’avvocato Mario Calzolaro, il dott. Danilo Vedruccio e Anna Briganti con il patrocinio dell’associazione Nessuno Tocchi Caino – Spes Contra Spem, hanno promosso una class action procedimentale per il rispetto delle misure igienico sanitarie nel Carcere di Taranto. La class action ha come interlocutori il Presidente del Consiglio dei Ministri, il Ministro della Giustizia oltre che il Sindaco di Taranto ed è stata determinata dalla consapevolezza, drammatica, che il sovraffollamento carcerario è l’emergenza permanente nel nostro Paese e che oggi, in tempo di pandemia da Covid-19, lo è ancora di più.

L’INIZIATIVA – Il Carcere di Taranto può accogliere 306 persone detenute, ce ne sono invece 608 secondo le ultime stime aggiornate al 4 marzo 2020 sul sito del Ministero della Giustizia. Tale situazione mette a rischio non solo la salute dei detenuti, ma anche quella degli operatori penitenziari e fa vacillare il principio di uguaglianza dei diritti e di non discriminazione sancito dalle carte internazionali dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione della Repubblica Italiana. L’iniziativa consiste fondamentalmente in un tentativo di dialogo per l’affermazione dello Stato di Diritto e di tutela dei diritti umani fondamentali che in carcere sono fortemente a rischio non solo per la situazione pandemica. Sulla base di queste premesse l’intero Consiglio Direttivo della Camera Penale di Taranto con gli avv.ti Egidio Albanese (Presidente), Carlo Raffo, Carmine Urso, Marco Pomes, Gianluca Sebastio, Enzo Luca Fumarola, Gianluca Mongelli e l’avv. Mario Calzolaro, il dott. Danilo Vedruccio e Anna Briganti hanno promosso questa iniziativa popolare nei confronti del Governo sul presupposto della funzione sociale dell’avvocatura, intesa come presidio di legalità e del principio di militanza del sapere giuridico posto al servizio dei cittadini contro possibili torti di massa. Nei giorni scorsi è stato trasmesso un atto di invito al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia affinché il Governo consenta “il rispetto delle ripetute prescrizioni governative in materia di mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro, di divieto di assembramento e di affettività delle misure igienico sanitarie a protezione della salute del personale penitenziario e dei detenuti”. Il sindaco di Taranto è stato invitato a “verificare tramite i competenti uffici tecnici, di concerto con il Ministero della Giustizia, la sussistenza nelle mura della Casa Circondariale di Taranto delle condizioni oggettive atte a garantire ai detenuti e al personale penitenziario l’applicazione concreta della normativa sopra richiamata in materia di distanza di sicurezza interpersonale, di divieto di assembramento e di affettività delle misure di prevenzione igienico sanitarie”. Preannunciamo inoltre che “in assenza di adempimento del rispetto delle misure di tutela del diritto alla prevenzione dal contagio da agenti virali trasmissibili all’interno della Casa Circondariale di Taranto potrà ritenersi ipotizzabile la fattispecie giuridica del torto di massa idonea a dar corso a promuovere, anche in sostituzione degli Enti locali predetti, ogni rimedio giuridico a livello nazionale e sovranazionale idoneo ad assicurare il ripristino della legalità repubblicana e conseguentemente ad imporre nella detta Casa Circondariale l’applicazione concreta, senza alcuna discriminazione, delle carte fondamentali del diritto universale, comunitario e nazionale in tema di egualitaria tutela della salute.

·         Gli scrivani del carcere.

Storia di Fabio Falbo, lo scrivano di Rebibbia: un po’ avvocato un po’ filosofo. Sergio D'Elia de Il Riformista il 23 Aprile 2020. La figura dello “scrivano” è un punto di riferimento essenziale in carcere e può essere l’ultimo salvagente rimasto dopo un naufragio nel mare di privazioni e patimenti forzati dove spesso annegano gli ultimi della terra, i condannati – colpevoli o innocenti che siano, in esecuzione pena per un misfatto ma anche in mancanza di un qualche misfatto – alla galera. Lo “scrivano” può essere l’unica ancora di salvezza per chi non sa né leggere né scrivere, per chi non sa la lingua per parlare, per chi, entrato sano, si è ammalato, per chi fuggito dalla fame e dalla sete continua a patirle, per chi è abbandonato da Dio e dagli uomini, per chi è senza una famiglia dietro le spalle o una difesa davanti a un tribunale. Fabio Falbo fa lo “scrivano” a Rebibbia, nel braccio di alta sicurezza. In base al regolamento, sarebbe l’addetto alle “domandine”, alla compilazione di istanze e alla distribuzione di moduli. In realtà fa molto di più: dà senso e corpo a buona parte delle sette opere di misericordia corporale: si premura che nella sua sezione l’affamato abbia da mangiare, che l’assetato abbia da bere, che l’ignudo sia vestito, che l’infermo sia visitato, che il carcerato sia difeso e non solo visitato. La sua opera non si limita al bene materiale, il suo pronto soccorso offre anche il dono di parole – ne ha un canestro pieno e inesauribile da distribuire – di vita, di amore e di speranza. Fabio Falbo è l’avvocato dei carcerati, ma anche un filosofo. Il Laboratorio di pratica filosofica dell’Università di Tor Vergata a cui ha partecipato è stata un’esperienza straordinaria, raccolta poi in un bellissimo libro dal titolo Naufraghi in cerca di una stella, nella quale ha scoperto che la luce da cercare non era in alto nel cielo, ma dentro di sé, ed era quella – ancora più capace a illuminare la via – della coscienza. Fabio Falbo è un garante dei detenuti, ma anche un visionario costruttore di realtà. Il Laboratorio “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino in corso a Rebibbia, di cui è l’animatore più convinto, lo ha aiutato a cambiare sé stesso, il suo modo di pensare, di sentire e di agire e, per ciò, a cambiare il mondo in cui vive, l’ambiente in cui vive, il carcere in cui vive e anche il potere più ottuso e opprimente che domina la vita in galera. Fabio non raccoglie o dispensa solo “domandine”. Forte anche di una laurea in legge conseguita in carcere due anni fa, fa esposti di denuncia per le più gravi violazioni dei diritti umani, scrive istanze di sospensione pena per i più seri motivi di salute, inoltra richieste di detenzione domiciliare o di alternativa alla pena, prepara memorie difensive per quelli in attesa di giudizio, calcola i giusti cumuli di pena e ricalcola quelli sbagliati. Impara, prepara, integra, corregge, sovverte il lavoro di principi del foro e dei più alti magistrati. Da quando la pandemia si è abbattuta come un’ira di Dio sul nostro paese, Fabio si dedica anima e corpo all’opera volta a evitare che la malaugurata evenienza di un contagio possa colpire i carcerati e condannarli a morte, una pena abolita nel diritto, ma praticata di fatto nel per sua natura mortifero sistema penitenziario italiano.  Alcuni giorni fa, Fabio ha scritto a me, a Rita Bernardini e a Elisabetta Zamparutti per dirci che era felice di aver fatto scarcerare alcune persone, condannate e in attesa di giudizio – anche per il reato ostativo di associazione mafiosa! – e che era in attesa di altre risposte da altre autorità giudiziarie: in caso di rigetto aveva già pronti i ricorsi ai tribunali in cui avrebbe sollevato anche questione di incostituzionalità. «Ormai sono in un campo di guerra giuridica per il diritto assoluto alla salute, da far valere non solo in questo periodo di emergenza sanitaria, ma anche dopo, perché la salute in carcere è uno stato d’emergenza permanente». Quando parla di diritto alla salute, Fabio pensa innanzitutto a quella dei suoi compagni di detenzione, non alla sua, alla malattia rara che si porta dietro dalla nascita.Ci fa sapere che Franco Gambacurta ha un solo rene ed è affetto da molte altre patologie. Ci informa che Giuseppe Gambacorta, ergastolano, ha subito due interventi al cuore, ha le difese immunitarie molto basse e per incognite ragioni è ancora detenuto in alta sicurezza. Ci segnala il caso di Alfredo Barasso che da novembre attende di essere operato ma con l’emergenza sanitaria in corso difficilmente lo sarà, sicché rischia di restare su una sedia a rotelle vita natural durante. Nella stessa sezione, c’è Sergio Gandolfo, con vari problemi del sangue, un’insufficienza renale cronica, l’ipertensione arteriosa nonché il linfoma di Hodgkin. A nessuno ha mai detto che lui invece soffre di una patologia grave e rara, l’angioedema ereditario, che in situazioni di stress può esplodere in gonfiori della cute, delle mucose e degli organi interni che a volte possono risultare fatali. Da oltre un anno non ha più i farmaci per tenerla un po’ a bada. «La mia fortuna in tale condizione è lo studio che mi rilassa e non fa innalzare l’ansia e lo stress». Per avere il farmaco, che sembra irreperibile in Italia, ha inviato una lettera al ministro della Salute e anche all’Aifa, ma non ha ricevuto risposta. «Di questo non vi avevo mai detto niente perché non ho mai voluto accampare alibi per una misura meno afflittiva». Con i suoi modelli di richiesta di scarcerazione, che ha inviato ai detenuti – definitivi e giudicabili, con patologie e senza – in oltre trenta strutture carcerarie, pensa di far uscire ancora un gran numero di persone. «Al momento servo dentro e non fuori. Non voglio abbandonare nessuno in un frangente così delicato. Io sarò l’ultimo a presentare l’istanza del mio differimento pena». Fabio Falbo, quando uscirà, vuole trovare un alloggio a Roma per proseguire gli studi e continuare le sue opere di carità materiale e nutrimento spirituale nei confronti degli affamati, degli assetati, degli ignudi, degli infermi, dei carcerati. «Sono tante le cause da affrontare, la nostra battaglia è volta anche all’abolizione del carcere. Dobbiamo seguire l’esempio Ruth Wilson Gilmore, che in America lotta per questa causa da più di trent’anni». Sia letto questo articolo da chi di potere e di dovere come un “amicus curiae”, una istanza a beneficio della corte, nel caso in cui un domani, una corte, dovrà esaminare anche quella di Fabio Falbo, lo “scrivano” di suppliche per conto terzi, il dottore in legge votato al patrocinio dei dannati della terra, al pronto soccorso dei naufraghi della galera in cerca di una stella. 

·         A Proposito di Riabilitazione…

Padova, l’autista che salvò i bimbi: “Io arrestato e poi riabilitato ma nessuno mi dà lavoro”. Un anno fa Deniss Panduru, romeno, ebbe un incidente con lo scuolabus e scappò per paura del linciaggio. Ora le indagini lo scagionano, ma la sua vita è rovinata. Enrico Ferro il 10 febbraio 2020 su La Repubblica. Padova -  Un anno fa la storia viene raccontata così: «Autista romeno dello scuolabus causa un incidente ubriaco e scappa». È il 17 maggio 2019 quando, due mesi dopo il dirottamento di San Donato Milanese, sui colli padovani di Arquà Petrarca scatta la caccia all’uomo. Deniss Panduru, 51 anni, viene arrestato poco dopo con l’accusa di fuga, lesioni personali colpose plurime e guida in stato di ebbrezza. L’allora ministro Danilo Toninelli ne chiede il licenziamento immediato e viene accontentato dalla Seaf di Este. Nemmeno un anno dopo tutto l’architrave accusatorio cade: nessuna fuga, nessun abbandono di minori, patente restituita e guida in stato di ebbrezza ridimensionata. Le indagini dimostrano che l’autista, dopo l’incidente, fece uscire i dodici bambini dal pulmino ribaltato su un fianco. Nonostante questo la caccia all’uomo, cioè a Deniss Panduru, non si è mai conclusa. «Mi hanno sbattuto in galera per tre giorni senza colpa. E adesso, nonostante l’archiviazione, nessuno più mi dà lavoro», Deniss Panduru spalanca le braccia e maledice quel giorno. Capelli rasati ai lati e lunghi dietro, orecchino, catena d’oro in mostra sul petto villoso: la sua faccia fece il giro d’Italia.

Panduru, archiviata ogni accusa. Davvero non trova un lavoro?

«Porto il curriculum con la mia esperienza ventennale ma poi mettono il nome su Google e nessuno richiama. Io non sono un bandito, vi prego: datemi un lavoro».

Secondo lei è per l’incidente?

«Per tutti io resto l’autista ubriaco del pulmino ribaltato. Nessuno più mi vuole a lavorare e io ho il mutuo per la casa da pagare».

Cosa successe quel giorno?

«Sa qual è il mio unico senso di colpa oggi? Non essermi opposto a chi mi faceva lavorare con un pulmino ridotto in quello stato».

Cosa intende?

«Era vecchio e malridotto, più volte mi sono lamentato con il titolare dell’azienda. Perdeva olio dello sterzo, io stesso facevo il rabbocco alla fine di ogni turno».

Dunque l’incidente successe a causa dello sterzo?

«Si bloccò all’improvviso, affrontando un tornante».

Lei cosa fece dopo il ribaltamento?

«C’erano vetri ovunque, i bambini gridavano spaventati. Chiesi loro se stavano tutti bene. Si fermò un automobilista e mi aiutò a fare uscire tutti, uno a uno, con relativi zaini».

Come le è venuto in mente di scappare?

«Abbiamo chiamato i soccorsi e messo tutti in sicurezza. Poi hanno iniziato ad arrivare alcuni genitori. Io ero un po’ in disparte, sentivo frasi irripetibili sul mio conto che si moltiplicavano mano a mano che passavano i minuti. A quel punto decisi che era meglio andar via».

Così però è sembrata una fuga, un’ammissione di colpa.

«I bambini erano in salvo. Per questo hanno archiviato il procedimento».

Come sono arrivati all’arresto?

«Sono stato fermato due ore dopo, portato in ospedale per le analisi. Pensavo fossero accertamenti normali. Poi, a un certo punto, un carabiniere mi dice: mi dispiace Panduru dobbiamo arrestarti».

L’alcoltest rivelò un tasso alcolico di 0,30.

«Prendevo un farmaco per la gola che aveva una base alcolica ma io non ho toccato nemmeno un goccio quel giorno. E comunque, anche se fosse, è prevista una multa, non il carcere».

Come fa ora a mantenersi?

«Cerco di arrangiarmi con piccole mansioni di giardinaggio ma nulla di sicuro. Ho due figli da crescere. Vorrei che la gente mi vedesse per quello che sono, non per il mostro che non sono mai stato».

Omicidio Tommy, permesso per Antonella Conserva. La madre: «Scandaloso». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti e Angela Geraci. Il bimbo fu ucciso nel 2006. La donna condannata a 24 anni per complicità con il compagno, Mario Alessi, che sconta l’ergastolo. Condannata a 24 anni di carcere per il sequestro del piccolo Tommaso Onofri, Antonella Conserva è in permesso premio. Il piccolo aveva 18 mesi quando fu ucciso, la sera del 2 marzo 2006, dopo essere stato rapito dalla propria abitazione nelle campagne alle porte di Parma. Antonella Conserva fece parte del piano messo in atto dal compagno Mario Alessi, condannato all’ergastolo per l’omicidio del bambino, e da Salvatore Raimondi, 20 anni per sequestro di persona. Il terzetto voleva ottenere un riscatto di 5 milioni di euro. Da 14 anni Conserva sta scontando la pena presso il penitenziario di Bollate dopo esser stata trasferita dal carcere di Verona. In questi giorni la donna è fuori per un permesso premio. La notizia è stata accolta con delusione dalla mamma di Tommaso Onofri, Paola Pellinghelli. « Queste leggi devono cambiare, situazioni del genere non devono essere permesse: non solo per me, ma per tante altre vittime. I veri carcerati siamo noi parenti delle ittime. Il nostro è un fine pena mai — ha dichiarato al Corriere — Prevedevo che saremmo arrivati a questo momento, però non pensavo che la vita di mio figlio valesse così poco. Antonella Conserva deve fare solo i conti con la propria coscienza se ne ha una, non uscire in permesso premio». La signora Pellinghelli stava tentando di voltare pagina. «Io in qualche modo dovevo sopravvivere — aggiunge — per cui queste persone sono uscite completamente dalla mia vita. La mancanza di Tommy sono 14 anni che ogni giorno si fa sentire». «La nostra legge schifosa glielo permette, bisogna riguardare le leggi. Da 14 anni sostengo che ci sono persone che puoi recuperare e ci sono persone che vanno guardate a vista, ce ne sono tante». La sera del 2 aprile Mario Alessi, che aveva precedentemente lavorato a casa Onofri, condusse gli investigatori e i Vigili del Fuoco a San Prospero Parmense, sulle rive del torrente Enza, sul luogo dov’era stato occultato il corpo del bambino. Alessi avrebbe dichiarato in seguito di aver rapito il bimbo per ottenere un corposo riscatto, che gli sarebbe servito a pagare dei debiti; ma di averlo ucciso venti minuti dopo il sequestro perché, con le sue urla, gli dava fastidio. In primo grado Mario Alessi prese l'ergastolo, trenta anni Antonella Conserva e venti Salvatore Raimondi. Nel 2011 la pena ad Antonella Conserva è stata ridotta da 30 a 24 anni. Gli avvocati della difesa ne avevano chiesto l’assoluzione considerando la donna estranea al delitto. Mario Alessi, ex compagno della Conserva, è invece stato condannato in modo definito all’ergastolo per l’uccisione di Tommy. I giudici hanno riconosciuto alla donna le attenuanti generiche, ma ne hanno confermato la colpevolezza per i reati di cui era accusata.

·         Le mie Evasioni.

Leonardo Coen per il “Fatto quotidiano” il 2 luglio 2020. Ferragosto 1977. Quando le autorità italiane dissero che l' ex ufficiale delle Ss Herbert Kappler , il boia della Fosse Ardeatine, era evaso dall' ospedale militare Celio di Roma in modo rocambolesco, prima calato con delle corde da una finestra che stava a 17 metri d' altezza, poi, una volta fuori dell'ospedale, nascosto dentro una valigia Samsonite, pochi ci credettero, perché era roba da Vallanzasca, audace fugaiolo, non da settantenne male in arnese che infatti morirà un paio d' anni dopo. Era non solo una fuga, ma un miserabile affronto verso una comunità che aveva sofferto le disumane rappresaglie dei nazisti e che pretendeva giustizia. Non una fuga per la vittoria, o per scampare ai lager, ai gulag, ai soprusi, all' ingiustizia o più semplicemente per sfuggire ai mandati di cattura, o per evadere di galera. Era una brutta, ignobile storia, piena di bugie, come si scoprirà troppi anni dopo altro che valigia. Così come oggi ce l' hanno spacciata per la fuga del manager Ghosn, ficcato dentro il contenitore di un contrabbasso. Nulla a che vedere con le magnifiche evasioni musicali di Bach, che compose l' arte della fuga. E men che mai con le imprese eroiche e solitarie dell' uomo solo al comando, in fuga per ore in sella ad una bicicletta, come sapeva fare Fausto Coppi, il campione in fuga "da se stesso", secondo Gianni Brera che gli fece così l' elogio funebre. Houdini trasformò l' arte della fuga in mestiere e spettacolo. Il cinema rese celebri quelle da Alcatraz, simbolo della prigione più disumana. Fughe che diventano romanzi popolari, storie accattivanti e, in molti casi, di riscatto e vendetta: l' archetipo è il Conte di Montecristo. Fantasia, creatività, sfrontatezza accompagnano i grandi fuggitivi. Come Giacomo Casanova , il quale raccontò la sua perigliosa fuga dai Piombi di Venezia. O il tenace Papillon , al secolo Henri Charrière, che riuscì a scappare dall' Isola del Diavolo, dopo numerosi tentativi falliti e puniti duramente. I media vanno a nozze, quando si tratta di fughe. El Chapo , per esempio, al secolo il narcotrafficante Joaquim Guzman, si fa costruire un tunnel di un chilometro e mezzo, con tanto di binari e moto che corre sulle rotaie. Nel luglio del 2015 scappa dal penitenziario di massima sicurezza che non aveva mai subito un' evasione: il buco della fuga è nella doccia, unico spazio della sua cella di isolamento senza copertura video per motivi di privacy, e sparisce, calandosi dal buco giù per dieci metri, con una scala a pioli, prima di raggiungere, tramite una galleria di collegamento, il tunnel. Il bandito Graziano Mesina è il recordman delle evasioni: ventidue tentate. Ce la fa dieci volte. Durante un trasferimento in treno, beffò chi lo doveva sorvegliare. Però se ne pentì e si costituì. Lui sfruttava le distrazioni dei secondini, escogitava trucchi, usava camuffamenti. Il repertorio del fuggitivo è infinito. Dalle armi finte di sapone e legno colorato, alle lenzuola per calarsi dalle celle, sino agli elicotteri. Il rapinatore Pascal Payet vola via nel 2001, nel 2003 aiuta altri detenuti a far lo stesso con un elicottero noleggiato a Cannes, infine, dopo essere stato arrestato, nel 2007, ripete il colpo, durante i festeggiamenti del 14 luglio. Pure Licio Gelli fuggì in elicottero, la notte tra il 9 e il 10 agosto 1983, dopo essere uscito tranquillamente dal supercarcere di Champdollon, fuori Ginevra, grazie a 20mila franchi intascati dal secondino Edouard Ceresa e a 15mila per pagare il volo fino a Monaco. Gli svizzeri non gli contestarono l' evasione, in quanto diritto riconosciuto ai detenuti. Basta, non violare la legge. Gelli senza usare falsa identità. Ma processarono per corruzione Ceresa.

 (ANSA-AFP il 2 gennaio 2020.) - La Turchia ha aperto un'indagine sul passaggio in Turchia dell'ex presidente di Nissan-Renault Carlos Ghosn, fuggito in Libano. Secondo i media turchi, alcune persone sono già state arrestate ed interrogate. I media libanesi avevano riferito che Ghosn era atterrato all'aeroporto di Beirut con un jet privato proveniente dalla Turchia.

(AWE/Finanza.com il 22 gennaio 2020) - Carlos Ghosn continua a difendersi dal Libano, il paese dove si è rifugiato dopo la fuga dal Giappone. L'ex numero uno di Nissan-Renault continua ad affermare che le accuse nei suoi confronti non sono fondate e ha le idee chiare su cosa ha portato alla sua incriminazione. "Quando il mio mandato è stato rinnovato, all'inizio del 2018 - dice Ghosn in un'intervista concessa a Repubblica - alcuni colleghi giapponesi hanno avuto paura che tramite me lo Stato francese volesse prendere il controllo di Nissan. Hanno pensato che volessi una fusione, mentre io lavoravo per rendere l'alleanza irreversibile, ma senza fusione". Tra i rimpianti della sua lunga carriera Ghosn menziona quello di non aver accettato l'offerta dell'amministrazione Obama di guidare General Motors. Conferma anche che Fiat lo aveva cercato prima di chiamare Sergio Marchionne come amministratore delegato. E la mancata fusione FCA-Renault perchè è fallita? "Ero in carcere. Ma so che era una grande opportunità e che eravamo a buon punto: era un accordo imperdibile. Ma chi mi ha sostituito è riuscito a farselo sfuggire", conclude Ghosh.

Da La Repubblica il 22 gennaio 2020. "Ci sono cose che preferisco non raccontare. Ma posso dirle che ho deciso di scappare a dicembre. (…) È stato un piano azzardato, (…) La mia fuga è diventata una storia popolare, qualunque sia la realtà: mi hanno detto che in Giappone hanno anche creato un videogioco”.

Estratto dell’articolo di Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 2 gennaio 2020.(…) A Tokyo il pubblico ministero ha chiesto la revoca della libertà su cauzione del manager. La cauzione – circa 13,8 milioni di dollari – sarà certamente confiscata. Se dovesse rimettere piede in Giappone, Ghosn rischierebbe anche 15 anni di galera. Il manager ha scelto il Libano sia perché è il Paese d’origine della sua famiglia sia perché non esistono accordi di estradizione tra il Libano e il Giappone. «In Libano da molto tempo Ghosn ha investito nel settore dei vigneti e in quello bancario. Ormai vituperato da tutti, solo lì, dopo la sua caduta, hanno continuato a difenderlo. Nei mesi scorsi per le strade di Beirut sono apparsi grandi manifesti in cui era scritto: “Siamo tutti Carlos Ghosn”. È il simbolo del successo della diaspora nel mondo. Ora fonti libanesi rivelano alla Stampa che punterebbe a una carriera politica nel paese, in preda a una grave crisi sociale ed economica. Tra le ambizioni di Ghosn ci sarebbe persino quella di diventare primo ministro. L’ex manager Renault avrebbe incontrato anche il presidente del Libano, Michel Aoun. Probabilmente anche per parlare di un futuro in politica». (…)

Ettore Livini per “la Repubblica” il 2 gennaio 2020. «È scappato nascosto nella custodia di un contrabbasso di una finta band di canti gregoriani». «No è stato esfiltrato da un gruppo paramilitare e trasferito dal Giappone al Libano con due jet privati, viaggiando da aeroporti minori per sfuggire ai controlli». Altro che Papillon o la fuga da Alcatraz. A 48 ore dal suo arrivo a Beirut, l'"evasione" di Carlos Ghosn ha già i contorni hollywoodiani di un thriller dove la fantasia («la storia della band è fiction pura», dice la moglie Carole) supera la realtà. Unica certezza: grazie a un' operazione da 007, l' ex numero uno di Renault- Nissan è sfuggito alla giustizia nipponica che lo accusa di aver accumulato un tesoretto di decine di milioni in nero con i soldi della casa automobilistica. E dopo 130 giorni di carcere e 7 mesi ai domiciliari è svanito nel nulla il 30 dicembre dalla casa dove viveva nella capitale giapponese, eludendo i poliziotti e le guardie pagate da Nissan per tenerlo sotto controllo. Ed è rispuntato 24 ore dopo («munito di passaporto francese e carta d' identità libanese », dicono le autorità locali) a Beirut. Dove ha festeggiato Capodanno da un parente della moglie, brindando alle leggi locali che impediscono la sua estradizione in Giappone. «È stata una fuga da codardo», dicono i media nipponici. «Noi non ne sapevamo niente», dicono imbarazzati al ministero degli Esteri transalpino. «Siamo avviliti», ammettono i legali giapponesi che avevano in custodia i suoi tre passaporti (francese, brasiliano e libanese). Ghosn - che si dice vittima di un complotto di nazionalisti giapponesi contrari alla fusione di Renault con Nissan - promette battaglia: «Non sfuggo alla giustizia, ma all' ingiustizia e alla persecuzione politica. Ora non sono più ostaggio di un Paese dove vige la presunzione di colpevolezza». E dà appuntamento per mercoledì, quanto terrà una conferenza stampa. Sulle sue spalle, dopo un patteggiamento con le autorità Usa per malversazione di fonti, pendono quattro processi in Giappone e un' indagine in Francia, dove dovrà difendersi dalle accuse - fotografate anche in un dossier interno della Renault - di aver usato fondi aziendali per pagare il suo matrimonio al castello di Versailles, per comprarsi il 120 piedi (40 metri) Shachou - "Boss" in giapponese - per fare shopping di ville a Rio de Janeiro, Amsterdam e Beirut. A sua disposizione, sostiene l' accusa, ci sarebbero stati più di 100 milioni stornati dal gruppo con un fitto giro di consulenze fittizie e premi di produzione sospetti a manager e concessionari in Medio Oriente a lui molto vicini. L' idea di pianificare la fuga, sostiene la stampa francese, avrebbe preso corpo un paio di mesi fa dopo che le rigide norme sulla libertà vigilata del Giappone avevano consentito a Ghosn di parlare con sua moglie solo una volta per 50 minuti via Skype e con i legali costretti a redigere un verbale fedele della conversazione. E il piano sarebbe decollato dopo che gli sarebbe stato impedito di incontrare Carole a Natale. Versione romantica per giustificare un' evasione che - al netto di un probabile mandato di cattura internazionale - consentirà al supermanager di vivere da uomo libero in un Paese che ne ha fatto un eroe (con tanto di affissioni stradali a sostegno quando fu arrestato) e dove, secondo Reuters , avrebbe già incontrato il presidente Michel Aoun ringraziandolo. Unico cruccio: i 12 milioni di cauzione versati per la libertà vigilata, sequestrati ieri dal tribunale di Tokyo. Ma la libertà, vale anche per Ghosn, non ha prezzo.

(AWE/AP il 2 gennaio 2020.) - L'ex presidente e a.d. di Renault-Nissan, Carlos Ghosn, smentisce che il Libano o la sua famiglia abbiano avuto un ruolo nella sua fuga dagli arresti domiciliari in Giappone. "Le accuse nei media secondo cui mia moglie Carole e altri membri della mia famiglia avrebbero avuto un ruolo nella mia partenza dal Giappone sono false e fuorvianti. Ho organizzato da solo la mia partenza. La mia famiglia non ha avuto alcun ruolo", scrive l'ex top manager in una nota.

Francesca Conti per AWE/LaPresse il 2 gennaio 2020. Un mandato d'arresto internazionale e la Francia che tende la mano al fuggitivo. Si infittisce il mistero dell'ex presidente e amministratore delegato di Renault-Nissan, Carlos Ghosn, fuggito dal Giappone in Libano, paese d'origine della sua famiglia, passando dalla Turchia a bordo di un jet privato. Le autorità giapponesi fanno irruzione nella casa di Tokyo del super manager, mentre Ankara avvia le indagini per far luce sui problemi alla sicurezza che hanno permesso a Ghosn di rifugiarsi a Beirut e riceve un mandato d'arresto internazionale dall'Interpol. Intanto la Francia tende la mano al fuggitivo: "Se Ghosn viene in Francia non lo estraderemo", spiega il segretario di stato di Parigi. Mentre la fuga di Ghosn è stata una sorpresa persino per il suo avvocato, è probabile che il Libano conoscesse già da tempo i piani del super manager. Secondo il Financial Times gli sforzi del Libano per riportare Ghosn nel paese di origine sarebbero iniziati già a ottobre e avrebbero coinvolto un team di professionisti arruolati appositamente. Le Autorità libanesi avevano presentato per Ghosn una richiesta di ritorno in Libano un anno fa, per poi rinnovarla in occasione della visita a Beirut del ministro degli Affari esteri giapponese Keisuke Suzuki lo scorso dicembre. Notizie che amplificano gli interrogativi sul sostegno che Ghosn sta ricevendo dal paese e che allontanano ancora di più l'ipotesi che il paese consegni presto il fuggitivo. Al Libano arriva però il mandato di cattura internazionale da parte dell'Interpol. In un'intervista all'Associated Press il ministro della Giustizia libanese Albert Sernhan ha spiegato che il paese "svolgerà le proprie funzioni", facendo intendere per la prima volta che Ghosn potrebbe essere interrogato. Ma il ministro ha anche sottolineato che Libano e Giappone non hanno un trattato di estradizione, escludendo la possibilità che Beirut consegni Ghosn al Giappone. Il manager ha violato la libertà su cauzione e si trova attualmente in Libano. Ghosn ha cittadinanza francese, libanese e brasiliana. L'emittente pubblica giapponese Nhk Tv scrive che Ghosn era in possesso di due passaporti francesi, uno dei quali utilizzato per entrare illegalmente in Libano. Per Beirut il manager è entrato nel paese "legalmente". Ad indagare sulle modalità di ingresso in Libano è anche la Turchia che ha arrestato 7 persone, accusate di aver aiutato Ghosn a fuggire. Tra i detenuti ci sarebbero 4 piloti, il dirigente di una società di cargo e due dipendenti aeroportuali. Ghosn è fuggito questa settimana prima del suo processo in Giappone. Il manager aveva dichiarato di essere fuggito da "ingiustizia" e "persecuzione politica". Sul manager 65enne di origine libanese, ma nato in Brasile, gravano quattro capi di accusa, tra cui appropriazione indebita. Definito 'il salvatore di Nissan' dopo il suo arrivo nel gruppo giapponese nel 1999, Ghosn ha trascorso in totale 130 giorni di detenzione tra novembre 2018 e aprile 2019. Il manager è accusato di aver falsificato i rendiconti finanziari delle società da lui guidate, sottostimando i propri compensi per 80 milioni di dollari e abusando di beni aziendali.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 3 gennaio 2020. No, Carole non c' entra. Carlos Ghosn, reduce da una fuga da film, al sicuro a Beirut ma silente o soprattutto sfuggente (chissà quanto gode che i media di mezzo mondo parlino di lui: da supermanager adorava parlare in pubblico e ai giornalisti giusti), si è espresso ieri in un breve comunicato : «Le ipotesi per cui mia moglie o altri membri della mia famiglia avrebbero giocato un ruolo nella mia partenza dal Giappone sono false. Sono io che ho organizzato tutto. Loro non c' entrano nulla». Credergli? Nessuno gli crede, vista l' intraprendenza della signora Ghosn. Sulla fuga il mistero resta fitto (Ghosn parlerà in una conferenza stampa mercoledì prossimo) ma qualche elemento affiora. Sicuro è l' arrivo di un jet privato all' aeroporto Ataturk di Istanbul alle 5 e 15 della mattina del 30 dicembre, proveniente da Osaka e con la matricola Tc-Tsr. Alle sei ne sarebbe partito da lì un altro, diretto a Beirut, modello Bombardier Challenger 300, matricola Tc-Rza. È praticamente sicuro che a bordo di quei voli ci fosse il nostro. Ieri in Turchia sono state fermate sette persone, che sarebbero coinvolte nella vicenda, tra cui quattro piloti. L' aeroporto Ataturk è utilizzato solo per il trasporto merci e da alcuni jet privati. E dove si può dare meno nell' occhio. Ma perché partire da Osaka? Anche in quel caso, i controlli sono più blandi che a Tokyo. Varie fonti libanesi insistono sull' ipotesi della fuga in una cassa che conteneva il contrabbasso di un' orchestra specializzata in canti gregorani. L' ex padre padrone di Renault-Nissan, che viveva in libertà vigilata in un appartamento vicino all' ambasciata francese, a Tokyo, aveva ottenuto il permesso di organizzare un concertino a casa sua il 29. L' abitazione era controllata dai poliziotti e da una società privata di Nissan. Quella della cassa sarebbe stata l' unica possibilità per andarsene senza essere visto. Poi la corsa in autostrada verso Osaka, a più di 500 km dalla capitale. I giorni che precedono l' Oshogatsu, il capodanno nipponico, sono gli unici in cui i giapponesi staccano davvero, festeggiando con la famiglia. Ghosn ha approfittato di un calo generale dell' attenzione. Per passare i controlli a Osaka ha fatto probabilmente ricorso a un travestimento e a una falsa identità. L' orchestra (ma erano veri musicisti?) sarebbe stata accompagnata da ex militari di Beirut e nel volo da Osaka sarebbe stato presente «personale diplomatico», presumibilmente libanese. Ghosn si sarebbe confuso tra di loro. Ieri l' appartamento che occupava a Tokyo è stato perquisito dalla polizia. E Interpol ha spiccato un mandato di cattura contro Ghosn, notificato alle autorità libanesi. Lui avrebbe passato i controlli al suo arrivo a Beirut con un passaporto francese, che aveva in più a quello che gli era stato sequestrato in Giappone. Ora, se anche Tokyo chiederà l'estradizione di Ghosn, il Libano la negherà. Ha rigettato per anni pure quella di un terrorista nipponico, Kozo Okamoto, tra gli autori di un attentato all' aeroporto israeliano Ben Gurion nel 1972, che fece 26 morti. Okamoto vive ancora oggi indisturbato a Beirut. Ieri anche Agnès Pannier-Runacher, sottosegretario francese all' Economia, ha detto che, se Ghosn si spostasse in Francia, «non procederemmo all' estradizione, perché il nostro Paese così fa con tutti i suoi cittadini». L' ex supermanager si trova asserragliato in una delle sue dimore libanesi, nel quartiere cristiano-maronita di Achrafieh, nell' est di Beirut. È una villa rosa dalle persiane verdi. L' acquistò nel 2016 per 9,5 milioni di dollari. Ma il suo restauro sarebbe costato 7,2 milioni e, secondo le accuse di Nissan, sarebbe stato fatto pagare dalla casa automobilistica. Nissan ha fatto causa anche in Libano ma il tribunale di Beirut ha dato la villa in concessione ai Ghosn, almeno temporaneamente. Carole, seconda moglie di Carlos, ci vive dall' aprile scorso, quando lasciò Tokyo. E lì, negli ultimi mesi, ha imbandito cene con i migliori scampoli del Libano bene e avrebbe organizzato la fuga di Carlos, anche se lui ora nega. È la sua seconda moglie, classe 1966, libanese come lui, ma ha vissuto gran parte della sua vita a New York, dove commercializza caftani di lusso disegnati dalla stilista Alison Levasseur. Fu la prima moglie di Ghosn, Rita Khordahi, a scoprire la tresca a Tokyo nel 2013. Subito dopo Carlos e Carole, con il suo brushing sempre impeccabile, iniziarono una sfrenata esistenza mondana, compresa la comparsa fissa dal 2015 al 2018 sulle scalinata del festival di Cannes. Trionfanti e vincenti. Hanno vinto anche stavolta.

Leonardo Coen per il “Fatto quotidiano” il 2 gennaio 2020. Ferragosto 1977. Quando le autorità italiane dissero che l' ex ufficiale delle Ss Herbert Kappler , il boia della Fosse Ardeatine, era evaso dall' ospedale militare Celio di Roma in modo rocambolesco, prima calato con delle corde da una finestra che stava a 17 metri d' altezza, poi, una volta fuori dell' ospedale, nascosto dentro una valigia Samsonite, pochi ci credettero, perché era roba da Vallanzasca, audace fugaiolo, non da settantenne male in arnese che infatti morirà un paio d' anni dopo. Era non solo una fuga, ma un miserabile affronto verso una comunità che aveva sofferto le disumane rappresaglie dei nazisti e che pretendeva giustizia. Non una fuga per la vittoria, o per scampare ai lager, ai gulag, ai soprusi, all' ingiustizia o più semplicemente per sfuggire ai mandati di cattura, o per evadere di galera. Era una brutta, ignobile storia, piena di bugie, come si scoprirà troppi anni dopo altro che valigia. Così come oggi ce l' hanno spacciata per la fuga del manager Ghosn, ficcato dentro il contenitore di un contrabbasso. Nulla a che vedere con le magnifiche evasioni musicali di Bach, che compose l' arte della fuga. E men che mai con le imprese eroiche e solitarie dell' uomo solo al comando, in fuga per ore in sella ad una bicicletta, come sapeva fare Fausto Coppi, il campione in fuga "da se stesso", secondo Gianni Brera che gli fece così l' elogio funebre. Houdini trasformò l'arte della fuga in mestiere e spettacolo. Il cinema rese celebri quelle da Alcatraz, simbolo della prigione più disumana. Fughe che diventano romanzi popolari, storie accattivanti e, in molti casi, di riscatto e vendetta: l' archetipo è il Conte di Montecristo. Fantasia, creatività, sfrontatezza accompagnano i grandi fuggitivi. Come Giacomo Casanova , il quale raccontò la sua perigliosa fuga dai Piombi di Venezia. O il tenace Papillon , al secolo Henri Charrière, che riuscì a scappare dall' Isola del Diavolo, dopo numerosi tentativi falliti e puniti duramente. I media vanno a nozze, quando si tratta di fughe. El Chapo , per esempio, al secolo il narcotrafficante Joaquim Guzman, si fa costruire un tunnel di un chilometro e mezzo, con tanto di binari e moto che corre sulle rotaie. Nel luglio del 2015 scappa dal penitenziario di massima sicurezza che non aveva mai subito un' evasione: il buco della fuga è nella doccia, unico spazio della sua cella di isolamento senza copertura video per motivi di privacy, e sparisce, calandosi dal buco giù per dieci metri, con una scala a pioli, prima di raggiungere, tramite una galleria di collegamento, il tunnel. Il bandito Graziano Mesina è il recordman delle evasioni: ventidue tentate. Ce la fa dieci volte. Durante un trasferimento in treno, beffò chi lo doveva sorvegliare. Però se ne pentì e si costituì. Lui sfruttava le distrazioni dei secondini, escogitava trucchi, usava camuffamenti. Il repertorio del fuggitivo è infinito. Dalle armi finte di sapone e legno colorato, alle lenzuola per calarsi dalle celle, sino agli elicotteri. Il rapinatore Pascal Payet vola via nel 2001, nel 2003 aiuta altri detenuti a far lo stesso con un elicottero noleggiato a Cannes, infine, dopo essere stato arrestato, nel 2007, ripete il colpo, durante i festeggiamenti del 14 luglio. Pure Licio Gelli fuggì in elicottero, la notte tra il 9 e il 10 agosto 1983, dopo essere uscito tranquillamente dal supercarcere di Champdollon, fuori Ginevra, grazie a 20mila franchi intascati dal secondino Edouard Ceresa e a 15mila per pagare il volo fino a Monaco. Gli svizzeri non gli contestarono l' evasione, in quanto diritto riconosciuto ai detenuti. Basta, non violare la legge. Gelli senza usare falsa identità. Ma processarono per corruzione Ceresa.

Gli aerei turchi e l’aiuto dell’ex berretto verde. Così è fuggito Ghosn. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. La fuga dal Giappone di Carlos Ghosn era stata pianificata da mesi, con l’aiuto di un ex militare delle forze speciali Usa ed è costata 312 mila euro soltanto per i voli privati. Più passano i giorni e più si aggiungono tasselli alla fuga dell’ex capo di Nissan e Renault, fino a farne una vicenda a tratti surreale. I resoconti delle piattaforme di tracciamento degli aerei, della tv di Stato giapponese, dei giornali locali e stranieri, i documenti giudiziari e alcune delle persone a conoscenza del dossier consentono di fare una prima ricostruzione. Il piano parte il 28 dicembre a Dubai. Alle 20.38 locali (le 17.38 in Italia) un Bombardier Global Express immatricolato TC-TSR e della turca MNG Jet decolla dallo scalo. Costa, come si evince dal tariffario, 9 mila euro l’ora, ha 13 poltrone e interni rifiniti. A bordo, ricostruisce il ministro della giustizia turco Abdulhamit Gul, viaggiano «due stranieri». Uno è Michael L. Taylor, 59 anni, ex specialista nell’unità antiterrorismo dello U.S. Special Forces, da tempo un contractor, condannato per una frode milionaria ai danni dell’esercito e che qualche anno fa gestiva l’American International Security Corporation. È sposato con una libanese e con lei ha due figli. L’altro passeggero è George Antoine Zayek, dipendente nelle varie società di Taylor. TC-TSR è una matricola da tempo finita nei radar delle agenzie d’intelligence per i suoi frequenti viaggi tra la Russia e il Venezuela. Alle 10.08 del mattino (le 2.08 in Italia) del 29 dicembre il jet atterra a Osaka. Ghosn, 65 anni, è a 500 chilometri di distanza, nella casa a Tokyo dove è detenuto in libertà vigilata in attesa di processo. È accusato di aver sottostimato i propri compensi alle autorità di borsa e aver usato beni aziendali a fini personali quando era capo di Nissan. Le telecamere di sorveglianza lo mostrano mentre esce alle 14.30 con un cappello e una mascherina monouso. Ma nessuno lo ferma perché i filmati — così come le telefonate, gli incontri e le attività online — vengono consegnati alle autorità una volta al mese, di solito il 15. E proprio pochi giorni prima, scrive Sankei, i legali di Ghosn erano riusciti a bloccare la sorveglianza privata di Nissan. Non è chiaro come abbia fatto l’ex manager a spostarsi da Tokyo a Osaka. Di sicuro porta il passaporto francese perché la legge locale richiede agli stranieri di avere sempre un documento d’identità. Una volta in aeroporto si nasconde in una cassa per il trasporto di strumenti musicali poi imbarcata sul velivolo, sostiene il Wall Street Journal. Alle 23.10 il Bombardier parte con Ghosn, Taylor e Zayek. Per quanto possa sembrare incredibile viene ripreso dalla telecamera di una troupe della tv di Stato giapponese Nhk (che si trova lì per un altro servizio) nella fase di rullaggio e di decollo. Dodici ore dopo, alle 5.15 (3.15 in Italia) del 30 dicembre il velivolo atterra all’«Ataturk» di Istanbul. L’ex dirigente scende per risalire su un altro aereo sempre di MNG Jet (matricola TC-RZA, 4.500 euro l’ora) che decolla alle 6.02 per Beirut. Ghosn vola con un dipendente della società turca (poi arrestato assieme ad altri sei). Taylor e Zayek s’imbarcano per il Libano su un volo commerciale. Da MNG Jet sostengono che il nome del manager non compare in nessuna delle prenotazioni e che uno degli addetti ha ammesso di aver falsificato i registri. Ma non dicono con quali nomi i velivoli siano stati affittati. «Non ci è consentito rivelare queste informazioni perché c’è un’indagine in corso», replica via e-mail al Corriere della Sera un portavoce, Thomas Eymond-Laritaz. Alle 6.35 (le 5.35 in Italia) del 30 dicembre il bimotore arriva a Beirut.

Ghosn festeggia la fuga con la moglie, un po’ di vino e l’idea di fare un film. Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it Michel Farina. Come è fuggito? Chi l'ha aiutato? Cosa farà ora? Carlos Ghosn (65 anni) si gode la ritrovata libertà in Libano. In Rete sono affiorate immagini del suo Capodanno: con la giacca e gli occhi bassi, mentre siede a tavola accanto alla moglie Carol (53 anni): alle spalle candelabri con mezze candele spente, davanti agli occhi calici di vino pieni a metà (ma nessuna traccia del famoso sarcofago posto sotto una passerella trasparente nella sua «reggi» libanese). L’ex boss della Nissan-Renault in attesa di processo a Tokyo per malversazioni è scappato questa settimana dal Giappone via Turchia. Ecco le ultime notizie sul mistero della sua riuscita «evasione» dagli arresti domiciliari, la più incredibile degli ultimi tempi. Ghosn, arrestato per la prima volta nel novembre 2018, ha negato in un comunicato dal Libano che la moglie abbia avuto un ruolo da regista nella sua incredibile fuga: «Ho agito da solo, i miei familiari non c’entrano nulla». In teoria, Ghosn poteva vedere la moglie soltanto in video-chiamata e alla presenza dei suoi legali. Poteva usare Internet solo nell’ufficio dell’avvocato, che giura di essere stato tenuto all’oscuro di tutto. Il filmato della telecamera piazzata davanti alla sua residenza mostra le sue ultime immagini sul suolo giapponese: domenica intorno a mezzogiorno, Ghosn (uscito di prigione dopo alcuni mesi di detenzione grazie a una cauzione di quasi 14 milioni di dollari) lascia quello che per sette mesi è stato il suo rifugio: una casa in affitto, in una palazzina piuttosto dimessa non lontano dall’area molto nota di Roppongi. E’ da solo, ed è diretto (ma si saprà soltanto dopo) verso l’aeroporto. Una fonte vicina a Ghosn ha smentito ieri alla France Press la notizia fornita da un amico (il consulente libanese Imad Ajami, che vive a Tokyo) all’agenzia giapponese Kyodo, e cioè che il manager dai tre passaporti (franco-libano-brasiliano) fosse scappato nascosto nella custodia di uno strumento musicale con l’aiuto di due guardie di sicurezza private travestite da musicisti per un fantomatico concerto. Secondo questa nuova (e meno romanzesca) versione, Ghosn si sarebbe imbarcato su un jet privato la sera di domenica 29 dicembre dall’aeroporto Kansai con direzione Istanbul. Da lì con un altro volo avrebbe raggiunto Beirut. Le autorità turche stanno interrogando sette persone, tra cui quattro piloti, un dirigente di una compagnia cargo privata, due dipendenti «di terra». Oggi una compagnia aerea turca ha fatto sapere che un impiegato avrebbe falsificato i documenti del volo Tokyo-Istanbul in modo che il nome di Ghosn non comparisse. Secondo la stampa giapponese Ghosn avrebbe lasciato il Giappone servendosi di uno di due passaporti francesi di cui è titolare. Il suo principale avvocato difensore, Junichiro Hironaka, ha confermato che le autorità giudiziarie avevano preso in custodia tre dei quattro passaporti in questione: uno francese, uno libanese e uno brasiliano. Ma il secondo passaporto francese non gli era stato tolto, a condizione che il documento fosse rinchiuso «in una cassetta di sicurezza» e le chiavi custodite dai legali dell’ex dirigente aziendale. Secondo l’emittente televisiva Nhk, Ghosn teneva il quarto passaporto con sé dallo scorso maggio, per ragioni ancora non chiare. In Giappone Ghosn rischia 15 anni di prigione. Il tasso di condanne in Giappone è del 99%. Le autorità di Tokyo hanno ufficialmente chiesto all’Interpol l’arresto del dirigente. Libano e Giappone non hanno un trattato di estradizione. Ghosn potrebbe essere ascoltato dalle autorità di Beirut, ma al momento la possibilità che venga consegnato al Giappone appare remota. Il ministro della Giustizia libanese Albert Serhan ha affermato che Ghosn è entrato nel Paese con un passaporto francese valido e che non ci sono accuse nei suoi confronti. Oggi il governo di Parigi ha escluso ogni coinvolgimento nella fuga, pur chiarendo che l’ex presidente di Renault e Nissan «non sarà estradato in Giappone» nel caso decidesse di recarsi in Francia. Intanto a Tokyo il procedimento giudiziario a suo carico va avanti, ma la data del processo non è stata fissata. E i processi in contumacia non sono frequenti nel Paese del Sol Levante. Riguardano varie malversazioni finanziarie. Ghosn, soprannominato 7-11 per i suoi leggendari ritmi di lavoro sette giorni su sette, non avrebbe dichiarato una parte dei suoi compensi (ma lui sostiene che tali compensi non erano mai stati decisi). Il manager, che nel giro di vent’anni aveva ribaltato le sorti di un gigante automobilistico sull’orlo della bancarotta, si sarebbe appropriato di denaro dell’azienda con investimenti in Oman e Arabia Saudita (ma lui ribatte che si trattava di legittime compensi). A dicembre nella sua «prigione» domiciliare, tre locali in affitto in un lussuoso quartiere di Tokyo, Ghosn aveva parlato della sua vicenda con John Lesher, produttore di Hollywood (Birdman, Oscar 2014). Lo racconta il New York Times. L’idea era quella di fare un film sulla sua vicenda, la caduta e la redenzione, con il sistema della giustizia giapponese nella parte del «cattivo». Secondi i racconti di Lesher, Ghosn voleva che il film dipingesse il suo personaggio in una luce più positiva. Naturalmente, nessun cenno alla sorpresa che stava architettando per fine anno.

Da ansa.it il 7 gennaio 2020. Il pubblico ministero di Tokyo ha spiccato un mandato d'arresto per la moglie di Carlos Ghosn, Carole. La 53enne - che ha la cittadinanza libanese - si è a lungo battuta per la liberazione del marito, criticando duramente il sistema giudiziario giapponese. Carole Ghosn, precisa l'agenzia Kyodo, è accusata in particolare di falsa testimonianza davanti a una Corte nipponica durante un'udienza nell'aprile scorso. L'ex numero uno di Renault-Nissan è fuggito in Libano con un jet privato, riunendosi con la moglie a Beirut lo scorso lunedì. All'ex tycoon 65enne era stato vietato di vedere la propria consorte nel periodo di detenzione, e aveva un accesso limitato alle conversazioni tramite videoconferenza durante la libertà su cauzione. Al suo arrivo in Libano, la scorsa settimana, Ghosn ha escluso che la moglie avesse orchestrato il piano di fuga, insistendo che il progetto era stato ideato da lui personalmente. Carole - che mantiene anche la cittadinanza statunitense - aveva lasciato il Giappone lo scorso aprile, dopo il quarto mandato di arresto a carico di Ghosn, ma aveva continuato la campagna di sensibilizzazione in diversi paesi, chiedendo un equo processo e la liberazione del marito. Ghosn, intanto, avrebbe firmato un contratto in esclusiva con Netflix per raccontare sullo schermo la storia della sua vita fino alla rocambolesca fuga dal Giappone. Rivelata dal quotidiano le Monde, la notizia non trova al momento alcun riscontro ufficiale e la stessa piattaforma streaming non conferma né smentisce. Come Le Monde, anche il New York Times aveva evocato giorni fa un potenziale interesse di Hollywood per la vicenda dell'ex numero uno del gruppo Renault-Nissan dal triplo passaporto brasiliano, francese e libanese. Se realizzata secondo i suoi dettami, la trasposizione cinematografica potrebbe rivelarsi molto interessante per lo stesso Ghosn, che potrebbe così far valere la sua presunta innocenza attraverso il potente mezzo cinematografico. Dopo aver risanato Nissan, Carlos Ghosn già ebbe modo di entrare nella cultura pop, diventando l'eroe di un manga in sei numeri per il giornale Superior.

Ghosn vuota il sacco. Due americani complici della fuga da Tokio. Pierluigi Bonora per “il Giornale” il 7 gennaio 2020. Domani, salvo imprevisti, Carlos Ghosn vuoterà il sacco nella conferenza stampa annunciata a Beirut, nel suo Paese d' origine. Qui si è infatti rifugiato a conclusione della clamorosa fuga da Tokio, dove era in libertà vigilata su cauzione, dopo aver trascorso un lungo periodo in prigione. L' ex potentissimo numero uno di Renault e Nissan, nonché della proficua Alleanza, da lui creata, tra le due Case francesi e giapponesi, a cui si è poi aggiunta l' altra nipponica Mitsubishi, dirà la sua verità a proposito delle accuse di aver falsificato i rendiconti finanziari delle società guidate, sottostimando i propri compensi per 80 milioni di dollari e abusando di beni aziendali. Intanto, continuano a emergere nuovi retoscena sulla sua fuga in Libano, via Istanbul. E il sistema di controllo giapponese non ci fa di certo una bella figura. Fonti investigative sostengono che Ghosn abbia lasciato la sua abitazione di Tokio nel primo pomeriggio del 29 dicembre per raggiungere due uomini - cittadini americani - in un hotel di lusso poco distante. I tre sono quindi saliti su un treno alla stazione di Shinagawa per raggiungere Osaka. Dopo una sosta in un albergo a 5 stelle nei dintorni, i due americani sono ripartiti portando con sé due grandi bagagli. È proprio all' interno di uno di questi, presentati in aeroporto come custodie di strumenti musicali, che Ghosn, la cui statura è di circa 1,70 metri, è stato trasportato a bordo di un jet privato diretto in Turchia. Le custodie non sarebbero state sottoposte a controlli radiografici in aeroporto e non sarebbero state aperte dai funzionari doganali. In attesa della conferenza stampa di domani, in forte imbarazzo sono le diplomazie di Francia (non c' è obbligo di estradizione nel caso l' ex top manager cercasse rifugio nel suo Paese di adozione) e Giappone. E in gioco c' è soprattutto la tenuta dell' Alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi.

Massimiliano Jattoni Dall’Asén per corriere.it il 7 gennaio 2020. Com’è andata davvero la rocambolesca fuga dal Giappone dell’ex capo di Nissan e Renault, Carlos Ghosn, lo sapremo (forse) solo dalla tv. Almeno, è quanto sostiene Le Monde, che assicura che il 65enne Ceo deposto ha firmato alcuni mesi fa un accordo esclusivo con la piattaforma americana Netflix. “Il libanese più famoso del mondo”, scrive il quotidiano francese, “ha deciso di controllare il racconto della propria storia fino alla fine, anche se in spregio alla legge”. Dal canto suo, Netflix ha negato l’esistenza di questo contratto, ma il rumor non è campato per aria: anche il New York Times pochi giorni fa ha confermato il desiderio di Ghosn che il cinema racconti la sua vita. Secondo il quotidiano americano, nel dicembre scorso l’ex numero uno di Nissan avrebbe infatti incontrato il produttore di Hollywood John Lesher (noto per film come Birdman) proprio per discutere la sceneggiatura di una pellicola che racconti la sua ascesa: dalla nascita in Brasile, figlio di immigrati libanesi, agli studi in Francia e alla conquista dei vertici della Nissan, i cui ottimi risultati lo porteranno a diventare ad dell’intero gruppo Renault. I colloqui con Lesher però sarebbero rimasti lettera morta ed ecco l’interesse di Netflix, pronto a convergere con le ambizioni di Ghosn. Sia come sia, è evidente che l’ex Ceo vuole tenere ben salde nelle sue mani la regia della sua storia, nella quale vuole apparire come un ero. Poche ore dopo il suo arrivo in Libano, infatti, il 31 dicembre scorso, ha rilasciato un comunicato stampa: “Non sarò più ostaggio di un sistema giudiziario giapponese truccato in cui si presume la colpevolezza”, si legge nella nota. “Non sono fuggito dalla giustizia: sto sfuggendo all’ingiustizia e alla persecuzione politica”. Nessuno può negare che la fuga di Ghosn dal Giappone sia degna di una sceneggiatura hollywoodiana. Gli ingredienti ci sono tutti per un grande action movie, con protagonista un celebre Ceo caduto in disgrazia dopo l’accusa di non aver dichiarato compensi per un totale di 9 miliardi di yen, circa 80 milioni di dollari, tra il 2010 e il 2017, oltre a una serie di illeciti finanziari e di aver usato beni aziendali, quando era a capo di Nissan, a fini personali. Al Ceo non resta che progettare una fuga rocambolesca dalla sua casa di Tokyo, dove è stato posto in libertà vigilata. Fuga che costa, come ha già raccontato il Corriere della Sera, 312 mila euro soltanto per i voli privati che devono portarlo, con l’aiuto di un ex militare americano, nella terra d’origine della sua famiglia, il Libano. L’action movie potrebbe cominciare con la sequenza di un uomo (il nostro Ghosn) che esce da un palazzo di Tokyo: a immortalarlo alle 14.30 del 29 dicembre 2019 c’è una telecamera. Per non farsi riconoscere, l’uomo indossa un cappello e una mascherina monouso, quelle che in Oriente sono così diffuse per proteggersi dalle malattie e per non trasmetterle agli altri. Nulla, dunque, che possa dare nell’occhio nell’affollata Tokyo. L’uomo è diretto all’aeroporto di Osaka ed è qui che c’è il primo colpo di scena. Lo sceneggiatore di Netflix, o chi per lui, forse avrà il permesso da parte di Ghosn di confermare quanto ricostruito dal Wall Street Journal: l’ex Ceo, arrivato in aeroporto, entra in una cassa per il trasporto di strumenti musicali (al seguito, sostiene la rete libanese Mtv, di un’orchestra di musicisti e agenti segreti che aveva suonato nella dimora super-sorvegliata di Ghosn nel quartiere di Hiroo). Così, imbarcato sul Bombardier, l’uomo lascia il suolo giapponese alle 23.10. Dodici ore dopo, atterra all’aeroporto di Istanbul, dove sale su un altro velivolo che, grazie all’aiuto di alcuni dipendenti della compagnia aerea turca (già individuati e arrestati), lo porta sano e salvo a Beirut. In un action movie che si rispetti non può mancare il personaggio femminile che, dall’esterno, aiuta il protagonista nella fuga. E in questo caso, è la moglie di Ghosn, Carole Nahas, che attende il marito al suo sbarco in Libano. Nata nel 1966 a Beirut, anche Carole è di nazionalità libanese (Ghosn ha altri due passaporti: uno del Brasile, Paese dove è nato, e uno francese), ma ha trascorso gran parte della sua vita a New York, come l’ex capo della Renault, un tempo responsabile delle operazioni della Michelin in Nord America. È in questa città che i due iniziano a frequentarsi, mentre entrambi sono già sposati. Ottenuto il divorzio, i due si mostrano insieme pubblicamente per la prima volta sul tappeto rosso di Cannes nel 2015. L’anno seguente, la coppia si sposa civilmente a Parigi per poi celebrare in pompa magna la loro unione al Grand Trianon di Versailles. C’è dunque Carole dietro all’organizzazione di questa evasione straordinaria. Secondo le fonti citate dall’agenzia Reuters il piano sarebbe stato preparato in tre mesi e realizzato da una società di sicurezza privata. Si mormora che un bell’aiuto sia arrivato dal governo libanese (il presidente Michel Aoun avrebbe incontrato Ghosn appena giunto a Beirut). Difficile ora immaginare come finirà l’«affaire Ghosn» e, dunque, il suo ipotetico biopic targato Netflix. Forse, l’atteso processo senza l’imputato non si celebrerà più (in Giappone non sono frequenti i processi in contumacia). Forse Ghosn si accontenterà della ritrovata libertà. Oppure, ormai in salvo dalle carceri nipponiche, protetto da Libano e Francia, potrebbe aver voglia di difendersi, togliersi qualche sassolino dalla scarpa e attaccare la Nissan, che lui conosce bene. Lui che l’ha salvata, trasformandola in una delle aziende più redditizie, potrebbe svelarne tutti i punti deboli. Nell’attesa, c’è fibrillazione per la conferenza stampa che Ghosn ha indetto per mercoledì 8 gennaio a Beirut (alle 15 ora locale, le 14 in Italia), quando «l’imperatore di tre continenti» darà il suo punto di vista su una delle vicende più intricate degli ultimi anni.

(ANSA l'8 gennaio 2020) - L'ex amministratore delegato di Renault-Nissan Carlos Ghosn è comparso oggi a Beirut di fronte ai media dopo la sua fuga dal Giappone dove si trovava in stato di arresto da più di un anno per accuse di corruzione. "E' un giorno felice per me oggi perché sono finalmente libero di esprimermi e di spiegare", ha detto Ghosn a Beirut. "Sono felice per essere ora con la mia famiglia e i miei cari... dopo essermi battuto per 400 giorni per la mia innocenza e dopo esser stato detenuto in condizioni brutali e contro i principi fondamentali del rispetto dei diritti umani". Carlos Ghosn, ex amministratore delegato di Renault-Nissan, ha accusato oggi la stessa società automobilistica e la giustizia giapponese di "aver orchestrato una campagna" e "un complotto" contro di lui. Fuggito nei giorni scorsi dal Giappone, dove si trovava in stato di libertà vigilata, Ghosn è apparso oggi per la prima volta a Beirut. Era stato arrestato nel novembre del 2018 e rimasto in carcere per diversi mesi in Giappone. Ghosn ha detto che "la procura (giapponese) e la società (Renault-Nissan) sono in combutta" e che lui "può fare tutti i nomi delle persone coinvolte nel complotto", ma che non vuole "nuocere agli interessi del Libano". Ghosn ha la nazionalità francese, brasiliana e libanese. Carlos Ghosn ha smentito oggi di aver firmato un contratto con la piattaforma americana Netlix per la produzione e la realizzazione di un film o di una miniserie sulla sua vita e in particolare sulla rocambolesca fuga dal Giappone nei giorni scorsi. In una conferenza stampa a Beirut, Ghosn ha detto che "sui giornali e sui media appaiono molte storie infondate e leggende senza fondamento... non ha firmato alcun contratto con Netlix". Nei giorni scorsi, media francesi e americani avevano detto che Ghosn aveva firmato un accordo con Netflix ma la piattaforma americana aveva smentito. "Il gruppo Fiat-Chrysler e Renault dovevano proseguire i negoziati nel gennaio del 2019 per l'accordo di fusione, ma sono stato arrestato e tutto è saltato": lo ha detto oggi a Beirut l'ex amministratore delegato di Renault-Nissan, fuggito dal Giappone nei giorni scorsi dopo esser stato arrestato nel novembre del 2018 a Tokyo. "Ero in contatto con Fiat-Chrysler", ha detto Ghosn, affermando che "l'accordo doveva essere concluso in un incontro a gennaio (del 2019) ma sono stato arrestato e mi trovavo in isolamento in carcere". La procura di Tokyo ha respinto le accuse lanciate da Carlos Ghosn, l'ex patron di Renault-Nissan-Mitsubishi fuggito rocambolescamente in Libano, di complotto ai suoi danni ordito da Nissan e autorità nipponiche, bollandole come "categoricamente false e contrarie ai fatti". La procura, riferisce la Kyodo, ha notato che l'ex manager ha "fallito la giustificazione dei suoi atti", accusandolo in una nota di criticismo "unilaterale" e "inaccettabile" al sistema giudiziario e legale nipponico. Ghosn, che ha tenuto la sua prima conferenza stampa dopo la fuga a Beirut di quasi due ore e mezza, è stato criticato dalla procura di Tokyo perché le sue accuse "ignorano completamente la sua condotta". In altri termini, l'ex manager dovrebbe "incolpare solo se stesso per essere stato arrestato", in forza del fatto che ha "palesemente violato violato la legge giapponese per evitare le conseguenze dei crimini che ha commesso". Ghosn aveva avuto, dopo un lungo braccio di ferro con la procura, la libertà su cauzione ed era in attesa del processo in Giappone con i capi d'accusa relativi a quattro casi di violazione finanziaria, mentre lo scorso mese ha elaborato la fuga in Libano, mandando su tutte le furie le autorità di Tokyo.

Francesca Caferri per “la Repubblica” il 9 gennaio 2020. È un grande show quello che Carlos Ghosn ha preparato per il suo ritorno sulla scena mondiale dopo 14 mesi di silenzio, arresti e accuse. L' ex presidente e ad di Nissan- Renault, 65 anni, appare nella sala del sindacato della stampa libanese in abito blu e cravatta rossa, gemelli d' oro, orologio sportivo: è sicuro di sé, il viso più magro rispetto alle foto di prima dell' arresto, pettinato con cura.  Accanto a lui c' è Carole, 53 anni, sua moglie, elegantissima in tailleur scuro e camicia di seta chiara. Ad attendere la coppia 150 giornalisti di tutto il mondo: altrettanti sono rimasti fuori, sotto la pioggia fredda di Beirut. Ghosn è arrivato in Libano - Paese di cui è cittadino, come di Francia e Brasile - il 30 dicembre, dopo una fuga rocambolesca dal Giappone, dove era agli arresti domiciliari con l' accusa di frode fiscale e malversazione. Non appena sale sul podio, appare chiaro che lo stile vistoso e fuori dagli schemi che per anni ne ha fatto uno dei protagonisti della finanza mondiale è ancora lì, nonostante tutto. «Le accuse contro di me non hanno nessun fondamento, ma ho capito che non avrei mai potuto dimostrarlo in un processo equo. La decisione di fuggire è stata la più difficile della mia vita - dice - Ma non avevo altra scelta per difendere me stesso e la mia famiglia. Sono stato vittima di una persecuzione: a un certo punto non è stato difficile arrivare alla conclusione che la scelta era fra morire in Giappone o scappare». E avanti così: un monologo di un' ora e quindici minuti in cui senza mai fermarsi, racconta di una detenzione "brutale": la doccia solo due volte alla settimana, la cella di isolamento con la luce sempre accesa, gli interrogatori durati ore, senza pause e senza avvocati, l' obbligo di stare lontano dalla moglie. «Mi hanno detto che se avessi confessato, tutto sarebbe finito bene. Altrimenti avrebbero perseguitato anche lei e i miei figli», dice. E ancora: «Ringrazio chi mi è stato vicino, la mia famiglia, le autorità e la gente del Libano che non ha mai perso la fiducia in me». In sala si alzano gli applausi: per parte di questo Paese Ghosn è un eroe, un figlio della diaspora che ha avuto successo all' estero e tenuto alto il nome della nazione sulla scena mondiale. Poco importa se le migliaia di persone che da quasi tre mesi manifestano contro la corruzione vedano in lui un simbolo del Libano che vorrebbero cancellare: oggi in sala c' è l' altra metà del Paese. I banchieri, i ricchi dalle fortune misteriose e quelli - tanti - che nessuno sa cosa facciano: ma che qui hanno ancora molto da dire. A Ghosn questo non importa. Gli basta che la sala sia piena, pienissima, e che penda dalle sue labbra. Sorride, gesticola, si agita: si gode ogni momento. Accusa Nissan e il governo giapponese di essersi alleati contro di lui allo scopo di diminuire l' influenza della francese Renault su Nissan nell' alleanza a due che lui stesso aveva voluto e i magistrati di aver tentato di farlo passare per un «dittatore freddo e meschino». «Mi sono sentito ostaggio di un Paese che ho servito per 17 anni», ripete più volte. Alle sue spalle, sul muro, vengono proiettati una serie di documenti: la lista delle accuse, quella dei pagamenti effettuati per la festa di matrimonio al castello di Versailles, gli accordi siglati con Nissan per l' uso delle case in Brasile e in Libano. Ghosn li usa per rispondere alle accuse dei magistrati ad una a una. La strategia è chiara: «Ho intenzione di ripulire il mio nome e di ristabilire la verità sul lavoro che ho fatto». Solo di un argomento non parla: come sia arrivato qui. Da giorni i giornali libanesi e quelli internazionali pubblicano dettagli sulla sua fuga: un piano da milioni di dollari preparato per mesi, dicono, con l' aiuto di un membro delle forze speciali americane dedito all' attività privata e di ex miliziani falangisti. Il manager tace: «è stato come tornare alla vita», si limita a dire.  Una frase che non risponde alle tante domande dei magistrati giapponesi, che da Tokyo parlano di critiche «inaccettabili e unilaterali » e promettono di proseguire la loro battaglia: contro di lui e contro sua moglie, da tre giorni ufficialmente ricercata come complice. Ma a Carlos Ghosn, è evidente, quello che hanno da dire non interessa più: «Sono un uomo d' affari. E gli uomini d' affari si giudicano dai risultati - spiega - da quando non ci sono più io Nissan e Renault hanno perso miliardi di capitalizzazione in Borsa. E l' alleanza, detto francamente, non esiste più». Un passaggio particolarmente doloroso è quello del mancato accordo con Fiat Chrysler: «Hanno mancato quello che non si poteva mancare», dice riferendosi ai manager che hanno preso il suo posto. E poi, rispondendo a una domanda di Repubblica spiega: «Con Fca avevamo avuto un ottimo dialogo. Avremmo dovuto vederci a gennaio 2019 per finalizzare l' accordo, ma sono stato arrestato. La mancata firma è una grande perdita per Renault». Sono passate due ore e mezza dall' inizio della conferenza stampa: le mani dei giornalisti si alzano ancora per fare domande, Ghosn vorrebbe rispondere a tutti, continuando a passare, come ha fatto per tutto il pomeriggio, dall' inglese al francese, dall' arabo al portoghese. Ma i suoi gli dicono che, basta, è ora di andare. A malincuore si ferma, non prima però di promettere che non finisce qui: il mondo, questo è certo, di lui sentirà ancora parlare.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Oltre ogni ragionevole dubbio.

Oltre ogni ragionevole dubbio, Antonio Angelini il 28 aprile 2020 su Il Giornale. Oggi su questo mio Blog ospito un fisico. Ha lavorato per vari tribunali, consulenze su via Fani e per vari altri famosi processi.  Ci propone un ragionamento, un modo di vedere. Sarà il primo di una serie di incontri con lui. Che cosa ne pensate?

OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO?

Oggi nell’era della iper-comunicazione, in un mondo fatto di informazioni continue ed ovunque reperibili, ci troviamo di fronte a due problemi apparentemente insormontabili:

quale è la verità? e quale è l’aspettativa che la scienza dia una risposta certa ad ogni domanda?

Poiché la prima domanda è spesso legata alla seconda (in particolar modo in questo periodo di pandemia) inizieremo a dare degli spunti per rispondere al quesito: la scienza può dare delle risposte certe su ogni argomento?

Cercare risposte è sempre stato lo spirito che ha animato l’essere umano dal momento in cui ha avuto coscienza. Esistono due livelli di risposte:

un livello personale, interiore che può sfociare nel sociale ed è la Filosofia, ed un livello oggettivo in cui si danno risposte ai meccanismi che regolano i fenomeni naturali, ed è la Scienza.

Come noto le due discipline per secoli si sono avvicinate ed a volte sovrapposte fino a distaccarsi con il nascere del metodo scientifico Galileiano (osservazione, misurazione, deduzione). Senza entrare in questi dettagli cerchiamo invece di dare degli strumenti al cittadino comune per potersi districare nell’enorme massa di informazioni circolanti al giorno d’oggi.

Partiamo dal principio più discusso in tempi di pace, in una società umana, ed è il principio giuridico di condanna per un presunto colpevole di un crimine “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Questa formulazione giuridica intende dire che l’insieme delle prove, raccolte in sede di dibattimento, deve portare, affinché una giuria si possa esprimere per una condanna, ad un convincimento tale della colpevolezza che alcun dubbio possa offuscare la certezza del giudizio. Non entriamo nelle polemiche socio politiche sui tempi e modi della giustizia, qui supponiamo che il giudizio avvenga in tempi brevi e con il pieno convincimento del collegio giudicante in linea ovviamente con le leggi vigenti.

Che vuol dire ”oltre ogni ragionevole dubbio”?

La “certezza” in ambito giurisprudenziale è qualcosa che va oltre il significato scientifico. La certezza in termini statistici si ha solo con il 100% delle probabilità favorevoli, e il 100% di eventi favorevoli è un dato che scientificamente “difficilmente” viene ottenuto. Restando in ambito forense, si pensi al confronto tra due profili genetici; quando un certo numero di loci coincidenti viene raggiunto, la probabilità che quei due profili genetici appartengano alla stessa persona raggiunge il massimo possibile ed è statisticamente del 99,99%. Il significato scientifico (statistico) è che quei due profili appartengono alla stessa persona a meno di uno su svariati miliardi, il che da un punto di vista giurisprudenziale è logicamente sufficiente a stabilire l’identità. Tuttavia la scienza mantiene un margine di incertezza insita nel fenomeno stesso in esame, ovvero non possiamo escludere in “assoluto” che non esistano due persone con il medesimo DNA (a parte i gemelli omozigoti ovviamente), per quanto infinitesima sia la probabilità che ciò accada. L’errore in ambito scientifico non viene inteso come uno “sbaglio”, “abbiamo sbagliato i calcoli, o il presupposto di partenza, per cui abbiamo commesso un errore”. L’errore è l’errore insito nella misura stessa. Senza scomodare il principio di Heisenberg,  il cui concetto si può sintetizzare nella constatazione che “nel momento in cui si misura un evento nel suo ambito naturale si condiziona l’ambiente stesso e pertanto l’errore va considerato come parte integrante della misura”, in termini molto più comprensibili, ma concettualmente differenti rispetto al citato principio, basta cercare di misurare la lunghezza di un lato di un tavolo con misuratori differenti o anche uguali, i quali, per loro stessa costruzione, presentano un margine di incertezza che può variare da centesimi a millesimi di metro per gli strumenti più comuni. Questo comporterà che un lato di un tavolo, lungo un metro avrà riportato il valore misurato, ad esempio, con (1,00+0,01)m. Una misurazione correttamente riportata con il suo proprio errore legato allo strumento utilizzato, comporterà a cascata tutta una serie di “incertezze” nelle successive considerazioni, che non sono però incertezze dovute ad incomprensioni, ma bensì incertezze scientifiche (di misura in questo caso).

Esprimere pertanto un risultato con un termine di probabilità in ambito giurisprudenziale è un esercizio spesso rischioso e non di aiuto nell’interpretazione dell’evento.

La probabilità è un “numero”, compreso tra 0 e 1, risultato dal numero di eventi favorevoli diviso il numero di eventi totali. In sistemi molto articolati la probabilità di un evento, per essere calcolata, necessita di espressioni anche molto complesse. Ma sono le conseguenze di un valore di probabilità, stimato sull’interpretazione di un evento criminoso, che vogliamo discutere.

Senza entrare nel merito di eventuali calcoli molto complessi, riportiamo un esempio banale: se la NASA riportasse uno studio in cui venisse assegnata una probabilità di impatto con la terra da parte di un grosso meteorite anche “solo” del 50%, ciò scatenerebbe, giustamente, una serie di eventi a catena a livello globale per trovare delle soluzioni onde evitare l’evento distruttivo. Se invece in un processo penale per omicidio si stabilisse che un personaggio ha commesso il reato con una probabilità dell’80%, quasi certamente il soggetto verrebbe assolto.

Ora la giurisprudenza potrebbe spiegare che il rischio di una estinzione di massa per via dell’impatto del meteorite giustifica l’allarme ed il prendere seri provvedimenti in merito, mentre il rischio di condannare un innocente con un margine di incertezza del 20% non è accettabile.

Ma quanto è accettabile? Al 99,99% (massima percentuale favorevole raggiungibile in accertamenti scientifici utilizzati in ambito forense)? Ma questa percentuale si riferisce al fatto che i profili genetici di una traccia repertata e di un sospettato sono gli stessi (a meno dello 0,01%), ma la stessa deve poi essere contestualizzata nella scena del crimine. Infatti non sempre si ha la “fortuna” di rinvenire tracce biologiche in una scena in posizioni favorevoli alla spiegazione del crimine (ad esempio sotto le unghie di una vittima, o sul manico di un coltello rinvenuto infilzato sul corpo della vittima etc.). Ed anche quando fosse favorevole, il movente può essere passibile di interpretazione, dalla preterintenzionalità, alla casualità, alla difesa etc. La dinamica di un evento criminoso è la combinazione di una serie di eventi ognuno con una probabilità associata differente e non sempre i valori possono essere così elevati.

Pertanto si potrebbe raggiungere il paradosso che una serie di eventi consequenziali, che mostrano inequivocabilmente che i fatti siano andati in quel modo, potrebbero avere una probabilità associata giurisprudenzialmente considerata bassa.

Allora si deve ricorrere ad una successione logica di eventi, ovvero tornare “indietro” nel pensiero scientifico e ragionare sulla “logica deduzione”.

Logica ( dal Greco logos, parola) termine che implica un collegamento tra una ipotesi ed una tesi.

Deduzione (dal Latino deducere) che per gli antichi Romani era un termine legato alla fondazione di una città, che intrinsecamente significa arrivare ad una conclusione a partire da fatti “accertati”.

Tornando al concetto giuridico, ci troviamo di fronte ad un apparente paradosso: abbiamo tecnologie avanzatissime che consentono di individuare su una scena di un crimine “una” cellula e da essa estrarre un profilo di DNA di una persona; abbiamo tecnologie in grado di ricostruire le traiettorie delle tracce di sangue con scarsi margini di incertezze, ricostruire volti da immagini distorte et., eppure la decisione è demandata alla fine da un giudizio espresso da un giudice ed una giuria che il più delle volte non hanno nemmeno la preparazione minima scientifica per interpretare correttamente il dato tecnico.

Senza volerlo, in quanto appena scritto, abbiamo messo insieme due termini “scienza” e “tecnologia” che nella realtà non sono affatto la stessa cosa.

La tecnologia è una conseguenza di una conoscenza ed è la realizzazione di strumenti che ci consentono certamente non solo una vita migliore ma anche capacità di elaborare nuove maggiori conoscenze.

Ma mentre la scienza esiste senza la tecnologia, non è vero il contrario ed anzi diventa estremamente pericoloso utilizzare la tecnologia senza la giusta conoscenza scientifica.

Anzi, come diceva qualcuno, la tecnologia rischia di diventare la tomba della scienza, ed oggi troppo spesso si tende infatti a confondere le due cose, creare aspettative sbagliate e dare inizio ad una caccia alle streghe di tipo medioevale del tipo “allora la scienza non serve a nulla”.

Non è ovviamente cosi, anzi. Chiariamo una cosa: l’estrazione di un profilo di DNA da una cellula è tecnologia, non scienza, la velocità di calcolo di un processore è tecnologia, non scienza, un software è tecnologia non scienza…un algoritmo invece rientra in un concetto scientifico, ovvero una formulazione matematica in grado di individuare, tra miliardi di dati, delle correlazioni. L’intero sistema economico finanziario può essere considerato un avanzamento tecnologico, non certo scientifico, cosi come un conto è realizzare un vaccino per un virus (tecnologia) un conto è comprendere un processo pandemico (scienza), la Politica è tecnologia. Abbiamo espresso dei concetti un po forzandone il senso ed anticipando anche gli argomenti delle prossime considerazioni, ma tornando al nostro attuale tema, ovvero: la scienza può dare risposte assolute ed univoche in ogni campo?

La risposta è NO. Ma il NO va interpretato nel senso descritto in queste poche righe di considerazioni; se ci aspettiamo che la scienza risolva ogni dubbio e ci dia una strada unica percorribile per risolvere ogni problema, sbagliamo atteggiamento e creiamo false aspettative. Se chiediamo alla Scienza di fornire degli strumenti attraverso i quali scegliere di percorre quella che è la strada giusta (in ogni campo) allora SI quella è l’aspettativa corretta…ma poi sta al singolo essere umano fare un buon uso degli strumenti della scienza e delle informazioni che la tecnologia (che in ogni caso “deriva” dalla Scienza) ci fornisce ed assumersene la responsabilità.

Se lo studio orografico di una certa area geografica ci dice che li un tempo scorreva un fiume, o era una zona montana in cui le valanghe trovavano il loro sfogo, non possiamo certo dare colpa alla scienza che non ci dice con esattezza se e quando un evento alluvionale o una valanga avverranno di nuovo, lo stesso discorso per i terremoti etc etc.

Quindi in ogni campo un semplice cittadino per poter esprimere un giudizio valido in un settore a lui sconosciuto, deve per prima cosa informarsi almeno sui principii di base di quello specifico tema, dopodiché però è opportuno che si faccia una idea personale del fatto da analizzare sulla base di ragionamenti logico deduttivi a partire dai “fatti” acclarati, non da considerazioni altrui, altrimenti rischia di cadere nel marasma di informazioni (anche pubblicazioni) che dicono tutto ed il contrario di tutto. Ma questo sarà argomento dei prossimi incontri.

TORNA UN GIORNO IN PRETURA. ROBERTA PETRELLUZZI: “L’ITALIA? UN PAESE GIUSTIZIALISTA”. Marco Baronti il 29 aprile 2020 su L’Opinione.it. Orecchini di perle, foulard e cartellina in mano. Sono questi i tratti che contraddistinguono Roberta Petrelluzzi, storica ideatrice e conduttrice di Un giorno in pretura, programma di Rai 3 che da oltre trent’anni racconta le vicende più buie che hanno segnato la storia di questo Paese. E che da domenica 3 maggio tornerà in onda con una nuova stagione in prima serata. Il mostro di Firenze, Mani pulite, il massacro del Circeo, la strage di Erba, il caso Cucchi, sono soltanto alcuni dei grandi processi che il programma della terza rete pubblica ha raccontato nel trentennio di messa in onda. “Il processo che più mi ha colpito? Quello sull’omicidio di Sarah Scazzi, con due donne che si trovano a scontare la pena dell’ergastolo tra tanti dubbi.” E sulla polemica di questi giorni per i boss mafiosi scarcerati: “Una bagarre inutile, sembra sia stato liberato Totò Riina con la licenza di uccidere. Siamo un Paese giustizialista”.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Un giorno in pretura?

«Sarà una stagione ricca di processi di grande attualità che aiuteranno a raccontare l’Italia in tutte le sue sfaccettature. Inizieremo nella prima puntata con il processo che vede protagonista un personaggio popolare come Gina Lollobrigida. Ma parleremo anche di vicende meno note, come il caso del suicidio di una ragazza a Palermo avvenuto in un quartiere popolare, in un contesto molto difficile. Poi il caso di Gloria Rosboch, l’insegnante uccisa dal suo ex studente. Emergeranno, come sempre, spezzoni di vita tratti dai diversi spaccati della nostra società».

Ci saranno delle novità particolari?

«La vera novità di questa stagione sarà che i processi si esauriranno tutti nella medesima puntata».

Come è cambiato il format rispetto alla prima puntata del 1988?

«È cambiato moltissimo. Se si guarda una puntata del 1988 risulta irriconoscibile rispetto alla costruzione e alla narrazione di quelle di oggi. Prima l’approccio era molto più notarile, seguivamo con le telecamere la ritualità del processo. Con il tempo abbiamo cominciato ad entrare nel merito delle cose, a raccogliere la voce dell’accusa e della difesa, a cercare di capire e spiegare quelli che sono i meccanismi che ruotano attorno a un’aula di tribunale. Ma soprattutto a svelare cosa si nasconde nella natura profonda degli uomini».

Secondo lei il successo di questo programma è dato anche da un interesse morboso che l’opinione pubblica nutre per la cronaca giudiziaria?

«Non lo definirei un interesse morboso, rifiuto questo termine. Secondo me un omicidio, una tragedia, un qualsiasi caso di cronaca nera colpiscono profondamente le coscienze di ognuno di noi. Umori e sensazioni si fanno molto profondi portandoci all’attenzione, al voler sapere, conoscere. Spesso un processo ci aiuta a capire l’andamento di ciò che ci sta intorno. Ci “attrezza” a conoscere l’uomo, le sue passioni, le sue debolezze».

Lei non è solo conduttrice ma anche autrice e regista. Come riesce a conciliare questi ruoli?

«Siamo un equipe fantastica, una redazione veramente affiatata dove tutti partecipano e contribuiscono a un pezzo importante del programma. Posso dire che la longevità di Un giorno in pretura è dovuta anche alla grande capacità di essere un vero gruppo di lavoro».

Si può dire che il processo Mani Pulite ha contribuito ad affermare questo programma?

«In realtà gli anni di Tangentopoli non sono stati un vero e proprio spartiacque sotto l’aspetto dell’affermazione del format, anche se gli ascolti che riscontrammo in quel periodo furono incredibili. È stato il racconto di un pezzo d’Italia che il programma ha fotografato e testimoniato. Basti pensare che il discorso di Bettino Craxi in tribunale, inquadrato da solo per un’ora, ha tenuto incollati milioni e milioni di italiani. Per la tivù di oggi è inimmaginabile, tutto è più veloce, lo zapping si è impossessato di noi».

Cos’è cambiato rispetto a quegli anni?

«Prima le persone volevano sapere, capire. Adesso si ragiona più con la pancia, si cede ai pregiudizi. Diciamo che la valutazione attenta e la riflessione dei fatti è una merce molto rara al giorno d’oggi».

Qual è stato il processo che più l’ha colpita?

«Quello che più mi ha appassionato e allo stesso tempo lasciato grande dispiacere è stato il processo sull’omicidio di Sarah Scazzi».

Perché?

«È stato un processo che ha subito profonde modifiche dovute a elementi esterni. Il piccolo paese di Avetrana d’un tratto era diventato New York e quando si creano contesti e situazioni del genere è molto difficile, se non impossibile, riuscire ad avere dei testimoni liberi».

Pensa quindi che la sentenza di condanna all’ergastolo nei confronti di Cosima Serrano e Sabrina Misseri non renda giustizia?

«Ho molti dubbi su quella sentenza, credo fortemente all’ipotesi dell’errore giudiziario».

Cosa la differenzia dai programmi e dallo stile di Franca Leosini (Storie Maledette) e Federica Sciarelli (Chi l’ha visto?)?

«Loro sono semplicemente più brave di me. Io non vengo mai a contatto diretto con vittime e carnefici, resto sempre distante. Quando vado in onda sono solo in compagnia della telecamera e della mia cartellina».

Sul caso di Marco Vannini si è trovata al centro di una grande polemica per aver difeso Martina Ciontoli dagli attacchi dell’opinione pubblica. Si è pentita?

«No. Secondo me in situazioni come quella dell’omicidio Vannini i soli ad avere il diritto di urlare e provare rabbia sono i familiari del ragazzo, la madre in primis. Tutto il resto dell’opinione pubblica si lascia soltanto trascinare dall’emozione dentro fatti che sono difficilissimi. Nessuno è più disposto a ragionare, è lo specchio dei nostri giorni a cui per fortuna non appartengo perché la mia formazione è totalmente diversa. Credo che ognuno debba sempre considerare la pietà verso chi sbaglia, verso l’altra persona, le sue ragioni».

Siamo un Paese giustizialista?

«Sì, sicuramente. Le persone preferiscono dare giudizi netti, è una facile scorciatoia. Le sfumature sono molto più difficili da cogliere perché ci costringono a perdere troppo tempo. Pretendiamo invece tutto, subito e con facilità. Chi ha molti contatti con le vittime è impossibile che non ne sposi la causa, diventa una cosa naturale perché ti affezioni. Vedi una mamma soffrire e piangere ed è umano rimanere coinvolti, schierarsi dalla sua parte. Però bisogna anche capire la realtà complessa e sfaccettata, ricca di spigolature e dettagli in più».

Come sta trascorrendo questa quarantena?

«Bene, diciamo che sono molto fortunata. Vivo in una casa molto grande con un terrazzo e non ho le preoccupazioni economiche che molti italiani purtroppo hanno in questo difficile momento. E poi impiego il mio tempo lavorando, quindi non mi posso certo lamentare, sarei una donna da poco se lo facessi».

Molti hanno paragonato la condizione di quarantena che stiamo vivendo agli arresti domiciliari. È d’accordo?

«Mi sembra un paragone improprio. Vuol dire non comprendere cosa sia davvero la carcerazione domiciliare».

Pensa che questa emergenza abbia insegnato agli italiani a immedesimarsi con chi vive agli arresti?

«Non credo. Perché siamo un popolo duro a capire. Ne abbiamo avuto la dimostrazione anche in questi giorni, con le grandi polemiche che si sono sollevate sulla scarcerazione di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Ne è nata una bagarre assurda per niente. In un caso specifico si tratta di un uomo anziano e gravemente malato al quale restavano soltanto nove mesi da scontare in carcere. Capirai. Quel magistrato ha fatto bene a concedergli gli arresti domiciliari. Gran parte delle persone, invece, ha reagito come se fosse stato scarcerato Totò Riina con la licenza di uccidere».

Cosa è il giustizialismo, spiegato bene. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Il Riformista è uno dei pochi usberghi sopravvissuti in difesa dello Stato di diritto. L’opinione pubblica non si è ancora accorta che, col pretesto dell’epidemia del Covid-19, la legislazione d’emergenza ha azzerato non solo i fondamentali diritti di libertà (politici, religiosi, civili) ma ha trasformato in reati le più elementari regole di comportamento che gli esseri umani utilizzano da quando i cavernicoli hanno cominciato ad esplorare il territorio. Ormai la nostra esistenza è regolata da un solo diritto: quello penale. A questo proposito consiglio la lettura di un lepidus libellus di Filippo Sgubbi Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, edito da Il Mulino. Già il titolo è eloquente, ma nelle 88 pagine del libellus, Sgubbi, ex docente di diritto penale e autore di pubblicazioni fondamentali nella materia, mette in evidenza la trasformazione intervenuta nel diritto e nella procedura penale, tanto da alterare le funzioni che non solo la Costituzione, ma prima ancora gli ordinamenti liberali, ripartiscono tra i diversi poteri dello Stato. Peraltro questo breve saggio è stato scritto prima che si affacciasse, anche nelle previsioni degli indovini, la prospettiva di un contagio con effetti devastanti sulla vita e le abitudini dei cittadini e distruttivi per l’economia, il reddito e l’occupazione. Il quadro tracciato da Sgubbi si è trasformato in una sorta di quadratura del cerchio nel rapporto tra lo Stato e il cittadino attraverso un uso repressivo della legge. Il diritto penale è divenuto ancora di più totale «perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua». Totale «perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale». Tanto che le norme sulla sospensione della prescrizione somigliano al sistema punitivo degli antichi Tribunali episcopali, «i quali disponevano del potere di irrogare penitenze che potevano durare fino alla morte del trasgressore». E ancora, totale «soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male». E qui Sgubbi – senza citare casi concreti ma consentendo al lettore di risalire a eventi della cronaca – denuncia gli interventi governativi che di fronte a fatti disastrosi, ampiamente presenti e diffusi dai media, pretendono di aver immediatamente identificato il responsabile, prescindendo dall’operato della magistratura reputato troppo lento nell’acquisire le prove e nel giudicare. Una forma di pretesa irrilevanza delle prove come quella manifestata da certi gruppi (l’autore di riferisce a movimenti come il #metoo) che mirano ad incolpare senza provare. A questo proposito l’autore si sofferma sul tema delle molestie sessuali di tipo verbale o non verbale, ‘’indesiderate’’, dove la tipicità penale del fatto scaturisce direttamente dal gradimento o meno da parte del destinatario. La percezione della vittima diventa elemento costitutivo del reato: «La condotta dell’agente può essere oggettivamente neutra, ma se viene percepita come lesiva dall’interlocutore diventa reato». Ne deriva che nei processi penali le prove non si limitano ad applicare il sillogismo classico dell’illiceità, confrontando il comportamento specifico dell’imputato con la norma di carattere generale, ma la ricerca verte anche sull’esistenza o meno della illiceità ovvero di una norma che sanzioni quel comportamento. È il caso di incriminazioni non di origine legislativa ma giurisprudenziale, tra le quali spicca il cosiddetto concorso esterno nei reati associativi «ove l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza – e quindi ex post – se la propria condotta rientra o meno in tale figura». La giurisprudenza – che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto – è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. «L’apparato penale – spiega Sgubbi- costruito per definire l’area dell’illecito e per legittimare l’applicazione delle sanzioni, diventa il supporto per l’adozione di scelte decisionali di governo economico-sociali». La “distorsione istituzionale” viene così spiegata: «La decisione giurisprudenziale diventa – secondo l’autore – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente». Ma la critica («le norme penali così assumono un ruolo inedito. Sono fattori non di punizione, ma di governo») non si ferma qui. «Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – prosegue Sgubbi – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari». Si staglia, poi, nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro). In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifica fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri”, al peccato originale. Non si tratta di una colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Così talune categorie sociali sono “pure” per definizione e prive di colpa (esempio gli occupanti abusivi di case); anzi la loro condizione di illegalità, talvolta, è creatrice di diritti (come l’allacciamento abusivo alla corrente elettrica). Gli appartenenti ad altre categorie, invece, dovranno dimostrare la loro contingente ed episodica purezza (un innocente è solo un colpevole che l’ha scampata); cioè saranno costretti a provare che in quella circostanza eccezionalmente non gli può essere imputato nulla. Per gli impuri “la salvezza penale è ardua” perché devono vincere la presunzione di colpevolezza e superare l’inversione dell’onere della prova. È la casta; e in quanto tale è condannata ad un costante e immanente sospetto di illecito. Si è cominciato e si continua così. Il fatto è che questi abusi sono sorretti da un sostanziale consenso. Nella serata del 25 Aprile, mi ha impressionato una trasmissione televisiva, durante la quale la conduttrice si collegava con un operatore a bordo di un elicottero delle Forze dell’Ordine che sorvolava Roma per individuare degli assembramenti ed orientare, dall’alto, l’intervento delle pattuglie dei Carabinieri. Io operazioni siffatte le ho viste compiere solo nel Cile ai tempi di Pinochet, quando la Cgil mi incaricò – come si faceva tutti gli anni – di recarmi a Santiago per parlare al comizio (proibito) organizzato dai sindacati dell’opposizione. La presenza di un sindacalista straniero alla loro manifestazione era un modo di proteggere quei lavoratori dagli interventi repressivi della Polizia del regime, che non gradiva far parlare di sé sul piano internazionale. Siamo a questo punto? La democrazia italiana sta diventando una "democratura"?

·         La Giornata per le vittime di errori giudiziari.

La battaglia di democrazia. Difendiamo i diritti di che è stato in cella ingiustamente. Giulio Petrilli su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Abbiamo dato appuntamento oggi a Roma, davanti Montecitorio, per il diritto al risarcimento dei cittadini che hanno subito una ingiusta detenzione. All’appello lanciato dal nostro Comitato hanno risposto in tanti e tante che saranno con noi, sia del mondo politico che culturale: dal portavoce nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni al deputato Gennaro Migliore, all’ex segretaria nazionale del Partito Radicale Rita Bernardini, al segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, a Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione Internazionale Enzo Tortora, alla redazione del Riformista, a Damiano Aliprandi, giornalista del Dubbio, a rappresentanti delle istituzioni locali, come il consigliere della Regione Abruzzo Americo Di Benedetto, ad altri autorevoli esponenti politici da sempre impegnati sul fronte del garantismo, come i già senatori Claudio Grassi e Russo Spena ed Eleonora Forenza, che ha seduto nei banchi dell’Europarlamento fino all’anno scorso. Raccogliamo come elemento di grande positività il fatto che diversi rappresentanti che siedono in Parlamento o che hanno occupato posizioni rilevanti sia nelle istituzioni che nella vita politica e civile si sentano investiti di questa battaglia di tutela democratica fondamentale. Dovrebbe essere scontato che chi viene arrestato e costretto alla reclusione ingiustamente, poi assolto, venga poi risarcito dei danni materiali e psicologici subiti, invece nel nostro Paese purtroppo non è così. Ogni anno in Italia sono circa 8000 le persone che chiedono il risarcimento per ingiusta detenzione e a 6000 di loro viene risposto no, adducendo motivazioni inaccettabili. Ovvero motivazioni che nulla hanno a che vedere con l’innocenza del richiedente, accertata da una sentenza del tribunale, ma da presunti errori commessi nella difesa che avrebbero tratto in inganno il Pm e il Gip. Insomma, nei fatti il giudice non ha responsabilità alcuna se sbaglia e priva un cittadino, anche per anni come spesso accade, della propria libertà ingiustamente. Un paese democratico non può convivere con questa orrenda stortura democratica, che invece è consentita dall’articolo 314 del codice di procedura penale, su cui chiediamo quindi un intervento di immediata modifica. La Commissione petizioni del Parlamento Europeo, che ovviamente oggi non può interferire in materia sulle vicende nazionali, ci ha dato ragione ed è a lavoro per una legge europea che sancisca il diritto al risarcimento per tutti gli assolti. Spero però che il Governo Conte mostri attenzione e ragionevolezza verso le questioni da noi sollevate ed intraprenda una iniziativa risolutiva a prescindere dalle indicazioni della UE.

Storia del potere e delle punizioni, l’insegnamento di Michel Foucault. Michele Magno su Il Riformista il 4 Agosto 2020. «Questo non è un libro di storia […] È un’antologia di esistenze»: così recita l’incipit fulminante di un celebre volumetto di Michel Foucault, La vita degli uomini infami. Apparso nel 1977, racconta appunto quelle esistenze che non hanno lasciato traccia se non nei registri d’internamento della polizia, nelle suppliche al re e nelle “lettres de cachet”, per lo più ordini d’imprigionamento o d’esilio con cui il sovrano infliggeva punizioni al di fuori delle normali procedure giudiziarie. I documenti passati al setaccio dal filosofo francese coprono l’arco di un secolo (1660-1760). In essi si rispecchia un mondo di sventura e di rabbia, di disagio e di malvagità, in cui Foucault scorge la paradossale presenza dello straordinario nell’ordinario, di qualcosa che somiglia al sublime settecentesco di Edmund Burke o di Immanuel Kant, che suscita cioè un «certo effetto misto di bellezza e di spavento». A chi sa leggerle, queste vite di uomini infami, ossia non solo oscuri, privi di fama, ma malfamati, rivelano una certa sinistra grandezza. Sono echi di voci spente e di ribellioni stroncate, devianze di individui ignoti, indagati e condannati su segnalazioni di parenti e preti, o sulla base di delazioni anonime. Il pamphlet di Foucault va letto all’interno della sua costellazione di interessi, che comprende la “microfisica del potere”, le dinamiche dell’esclusione sociale, la nascita del sistema carcerario moderno e lo studio dell’ossessione che si concentra sul delinquente in quanto “mostro”, da cui la società si deve difendere con ogni mezzo. Se nell’Ottocento la sua pericolosità verrà analizzata dalla medicina e poi dalla psichiatria, nell’Ancien Régime veniva direttamente generata dal discorso del potere politico o dalle reazioni sproporzionate delle autorità detentrici del monopolio della forza. Il crimine non violava, infatti, solo la legge, ma «colpiva i diritti, la volontà del sovrano, presenti nella legge; di conseguenza attaccava il corpo del sovrano fisicamente inteso […]. Nella punizione del crimine si assisteva alla ricostituzione rituale e regolata dell’integrità del potere». La novità di questo approccio alla “vita degli uomini infami” sta nel fatto che gli apparati polizieschi e giudiziari riprendono il modello cristiano della confessione. Lo stravolgono, ma sono in grado di renderlo utile alle loro procedure repressive. A differenza della confessione cristiana, dove il pentimento cancella i peccati, le colpe non vengono più condonate, e al segreto del sacramento si sostituisce il registro in cui viene annotato l’interrogatorio del reo confesso, spesso grazie alla pratica della tortura. Disposizione amministrativa, dunque, non più religiosa; meccanismo di registrazione, non più di perdono. La denuncia, la querela, l’inchiesta, il rapporto di polizia, la delazione, l’interrogatorio, vanno così a formare un’enorme massa documentaria, un archivio dei mali del mondo.  Tutto questo, avverte Foucault, costituiva anche una sorta di servizio pubblico. Il dispotismo regio, infatti, spesso era sollecitato dal basso, per oscure storie di famiglia: sposi beffati o picchiati, patrimoni dilapidati, conflitti d’interesse, giovani indisciplinati, mascalzonate, orge, e ogni specie di (piccoli) disordini del comportamento. Da qui una serie di conseguenze: la sovranità politica si introduce negli interstizi più elementari del corpo sociale, nei rapporti di vicinato, di mestiere, di rivalità, di odio e di amore. Nelle ragnatele del potere, attraverso circuiti assai complessi, vengono a impigliarsi le dispute tra genitori e figli, i malintesi delle coppie, gli eccessi nel vino e nel sesso, e tante passioni segrete. I documenti riuniti da Foucault fanno comparire figure di miserabili o di disperati su uno strano palcoscenico, dove urlano per ottenere attenzione sulla scena del potere: «personaggi di Céline che vogliono avere udienza a Versailles». Più tardi – egli conclude – questo contrasto verrà cancellato. Il potere che si eserciterà a livello della vita quotidiana non sarà più quello di un monarca onnipotente e capriccioso; sarà invece rappresentato da una ragnatela sottile e differenziata, che collega tra loro le diverse istituzioni della giustizia, della polizia, della scienza e dell’informazione. In questo senso, non devono stupire le singolari convergenze tra uno dei numi tutelari della gauche francese e un liberale, con tendenze libertarie ante litteram, come Bruno Leoni. Come ha scritto Antonio Masala (in Le ragioni della libertà, Rubbettino, 2014), per entrambi il problema dello stato va analizzato a partire dalla struttura delle relazioni umane, e non da una sovranità che proviene dall’alto. Il capolavoro di Leoni, La libertà e la legge (pubblicato in inglese nel 1961), è un aspro atto d’accusa contro il positivismo giuridico, contro ogni concezione del potere inteso esclusivamente come strumento di dominio e non anche di cooperazione tra i cittadini. La critica di Foucault al formalismo giuridico, che irrigidisce il potere in «un fenomeno di dominazione compatto e omogeneo», si muove nello stesso solco. Per il grande storico della follia, del crimine, della sessualità, era necessario sbarazzarsi del «modello del Leviatano»: «Le relazioni di potere sono sia quelle che gli apparati dello stato esercitano sugli individui, sia quelle che esercita il padre di famiglia sulla moglie e sui figli, il potere che esercita il medico, il potere che esercita il notabile […]». Come chiarirà alla vigilia della sua morte, avvenuta nel 1984, ora il potere si articola in «un tipo di governo degli uomini in cui viene soltanto richiesto di obbedire» (“Il governo dei viventi”, in I corsi al Collège de France”. I Resumés, Feltrinelli, 1999). È un’affermazione forte, ma che in certa misura calza a pennello per l’Italia ai tempi del coronavirus. Perché da noi, appena qualcuno si azzarda a sollevare qualche dubbio sul tasso di riformismo dell’attuale maggioranza parlamentare, scatta immediata la reazione di quelli che c’è la pandemia e quindi non bisogna disturbare il manovratore. Si è scomodato perfino un nutrito manipolo di intellettuali engagé per ricordare che, se non si mangia la minestra che passa il convento, l’unica alternativa è il menù avvelenato delle destre sovraniste. Pelose lezioni di realpolitik, con accluso divieto di domandarsi se mezzi cattivi per avventura non possano corrompere anche fini buoni. Lezioni tanto più indigeste se impartite da quei dirigenti di partito che spesso hanno a cuore solo il proprio destino personale, magari con un occhio rivolto al Colle. L’etica politica è l’etica dei risultati e non dei princìpi, è vero. Ma di tutti i risultati? Se si vuol distinguere risultato da risultato – osservava Norberto Bobbio – non occorre ancora una volta risalire ai princìpi? Si può ridurre il buon risultato al successo immediato, magari come quello incassato dalle campagne xenofobe di Matteo Salvini? C’è un verso del Bellum Civile del poeta latino Lucano che recita: «Victrix causa deis placuit/ Sed victa Catoni». Il suo senso è: la causa di Cesare vinse perché appoggiata dagli dei, mentre Catone l’Uticense perse per aver sposato la causa della libertà repubblicana. Significa che i vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma il vinto di oggi non può essere il vincitore di domani?

Errori giudiziari e magistrati impuniti, la memoria corta del dott. Pignatone. Stefano Parisi su Il Riformista il 4 Agosto 2020. Secondo Giuseppe Pignatone, su la Repubblica del 28 luglio, l’iniziativa legislativa promossa dall’On. Costa, “finisce per indicare all’opinione pubblica i magistrati come colpevoli di tutti i casi di ingiusta detenzione”. La proposta di legge in discussione alla Camera modifica il Codice di procedura penale disponendo che l’ordinanza che accoglie la richiesta di indennizzo per ingiusta detenzione venga trasmessa agli organi titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati per le valutazioni di loro competenza. Come al solito quando si torna sulla responsabilità civile dei magistrati vi è una reazione di chiusura da parte di alcuni autorevoli magistrati che va molto al di là della ragionevolezza. Le norme in materia di giustizia non possono essere mai valutate per il loro presunto impatto sull’opinione pubblica, ma per i loro effetti sulla realtà del nostro sistema giudiziario. La norma proposta da Enrico Costa non “punisce i giudici per gli arresti sbagliati” come denuncia il dott. Pignatone, ma chiede agli organi titolati dell’azione disciplinare di valutarne il comportamento. Un alto magistrato dovrebbe valutare una norma con animo più sereno attenendosi ai suoi aspetti tecnici non generando disinformazione. Il dott. Pignatone giustamente ricorda che “la custodia cautelare richiede la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza” mentre per la condanna in giudizio l’imputato deve risultare colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. La sentenza si basa su elementi processuali che non sono a disposizione dell’inquirente nella fase delle indagini, da qui la non colpevolezza del magistrato nel caso di ingiusta detenzione. Questa, infatti, viene valutata a sentenza definitiva emessa ma non può essere tale in fase di indagine. Fino a qui ci siamo. Ma il dott. Pignatone ricorda anche che, nel caso in cui il magistrato violi la legge e adotti provvedimenti cautelari nei casi non consentiti, deve essere punito in modo rigoroso. È esattamente questo il punto. In Italia questa sanzione non avviene mai. Le misure cautelari personali possono infatti essere applicate esclusivamente quando esiste almeno una delle tassative esigenze cautelari di cui all’art. 274 C.P.P.: il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga, la reiterazione del reato. Purtroppo nei fatti vi è una prassi sconcertante di misure cautelari imposte in assenza delle esigenze appena descritte. Magari per strappare confessioni a un indagato, una delle patologie più infauste del sistema giudiziario italiano, lasciata in eredità dalla stagione di Mani Pulite. Piuttosto che per una interpretazione personale di certi magistrati che teorizzano la carcerazione preventiva come unica possibilità di far scontare la pena a un indagato, visti i tempi lunghissimi dei (loro) processi. La leggerezza con la quale alcuni ambienti della magistratura commentano la gravissima patologia dell’elevato numero di errori giudiziari in Italia forse deriva dal fatto che ai magistrati non viene imputata alcuna responsabilità personale. Principio invece affermato in qualunque altra funzione pubblica o privata. La responsabilità del magistrato non è personale ma dello Stato. Fino a mezzo milione di euro per ogni errore giudiziario. Quasi 45 milioni di euro di indennizzi nel 2019. Soldi dei contribuenti. Il 30 per cento in più dell’anno precedente. Al di là dell’onere per lo Stato, gli errori giudiziari rappresentano un costo enorme dal punto di vista economico e sociale. E gli italiani hanno anche votato a favore del referendum sulla responsabilità civile perché i magistrati risarcissero di tasca propria gli errori giudiziari. Ma il Parlamento, cambiando le carte in tavola, predispose una legge che stabiliva che a pagare fosse lo Stato. Va qui distinto tra i casi di ingiusta detenzione, rilevatisi tali successivamente alla sentenza passata in giudicato, ma i cui provvedimenti cautelari sono stati assunti sulla base dei criteri dell’art. 274 del CPP, e i casi di provvedimenti presi in assenza di tali presupposti. Appare evidente che la sussistenza di questo secondo caso, debba essere valutata da organi disciplinari indipendenti. Deve infatti essere prevista una sanzione personale, in termini di carriera, ed economica a carico del magistrato. Del resto, il dott. Pignatone dovrebbe sapere di cosa stiamo parlando. Lui nel 2012 prese il posto di Giovanni Ferrara (divenuto sottosegretario nel Governo Monti) a capo della Procura di Roma durante il calvario giudiziario di Silvio Scaglia e altri amici e manager di Fastweb e di Telecom Italia. Scaglia nel 2006 viene indagato per una accusa che si rivelerà nient’altro che una bolla di sapone. Nel 2010, insieme agli altri, viene arrestato. Non tenta la fuga, non cerca di inquinare le prove o di reiterare il reato. Si costituisce. Rientra in Italia, accetta di essere interrogato. Trascorre un anno (un anno!) in custodia cautelare prima di essere scarcerato. Con gli imputati innocenti ha subìto anche sequestri di beni per anni, le aziende vittime del raggiro (Fastweb e Telecom Italia) hanno dovuto patteggiare con il fisco versando ingiustamente somme rilevantissime senza che ne siano mai state risarcite. I tre manager sono stati assolti con una sentenza nettissima nell’ottobre del 2013, la posizione dell’azienda e degli altri manager coinvolti, archiviata. La procura di Roma insiste e ricorre in appello, dove nel 2017 subisce un’altra clamorosa sconfitta. Nessuno ha pagato per gli errori giudiziari della vicenda Fastweb e Telecom Italia. Il procuratore aggiunto che ha promosso l’indagine, (lo stesso che ha promosso l’indagine contro Ilaria Capua) non ha avuto nessuna conseguenza personale su quel clamoroso errore e su quella violazione delle norme del Codice di Procedura Penale. Il suddetto procuratore aggiunto ha vissuto quegli anni da star, invitato nei convegni, rilasciando interviste sul valore educativo dell’attività giudiziaria e sulla necessità che i magistrati fossero sostenuti dal consenso popolare per combattere il malaffare. Il sistema giudiziario italiano ha bisogno che questi comportamenti vengano sanzionati in modo netto per renderne credibile la funzione. La stragrande maggioranza dei magistrati fanno il loro dovere nel rispetto delle leggi, secondo i principi del diritto penale liberale, senza fare interviste ed utilizzare la loro notorietà, conquistata violando il Codice, per fare carriera o lanciarsi in politica. È grave che non ci si renda conto che gli errori giudiziari sono un dramma tragico che investe persone, famiglie, carriere, aziende, comunità. Che mina la credibilità dello Stato. La proposta di legge Costa sulle riparazioni per ingiusta detenzione è un piccolo passo avanti. Ma per riformare davvero in profondità la giustizia italiana servono cambiamenti seri. Bisogna riformare il Csm, anche dando una composizione laica e non togata alla commissione disciplinare, separare le carriere ed eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale. L’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono valori inviolabili ma solo se accompagnati da una chiara e netta assunzione di responsabilità.

Costa contro Pignatone: "Uno Stato serio s'interroga sugli innocenti messi in carcere ingiustamente". Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Liana Milella su La Repubblica.it Il deputato di Fi contro l'ex procuratore di Roma sulla proposta di legge per le ingiuste detenzioni. "È contro le toghe" dice Pignatone. "È una legge di civiltà" per Costa. "Una persona è finita ingiustamente in galera. Lo Stato che fa? Paga e si volta dall'altra parte, in attesa del prossimo pagamento, o cerca di capire perché è stato, a torto, privato qualcuno della libertà?". Parte da questo interrogativo la replica di Enrico Costa, deputato di Forza Italia e responsabile Giustizia del suo partito, all'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone che, dalle pagine dei commenti di Repubblica, ieri ha criticato la proposta di legge Costa sull'ingiusta detenzione. Su cui è d'accordo anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma che, secondo Pignatone, rappresenta un errore perché "finisce per indicare all'opinione pubblica i magistrati come colpevoli di tutti i casi di ingiusta detenzione, cosa certamente non vera. E diventa un implicito segnale lanciato a pm e gip a non adottare misure cautelari".  

Pignatone sostiene che, dopo tante leggi per aumentare le pene, adesso la sua proposta è contraddittoria perché fa apparire i magistrati come "negligenti, prevenuti e innamorati del tintinnio delle manette". 

"Vorrei innanzitutto spiegare cosa c'è nella mia legge. Qualora venga riconosciuta un'ingiusta detenzione e sia pagata dallo Stato una somma a titolo d'indennizzo, il fascicolo dev'essere inviato "al titolare dell'azione disciplinare per le valutazioni di competenza". Si prevede poi una sanzione disciplinare a carico "di chi abbia concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all'adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale",  successivamente riconosciuta come ingiusta detenzione".

Beh, ammetterà che questo passaggio comporta nei fatti, come scrive Pignatone, una presunta colpevolezza del magistrato che ha ordinato le misure. 

"Per capire il senso della mia proposta bisogna partire dai dati. Nel 2019 i casi d'ingiusta detenzione sono stati mille, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione di 44.894.510 milioni di euro. Rispetto all'anno precedente, è in deciso aumento il numero di casi (+105) e soprattutto la spesa (+33%). Il sito errorigiudiziari.com rivela che nel 2019 il record di casi indennizzati spetta a Napoli, con 129, seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105, poi Catanzaro con 83, Bari con 78 e Catania  con 75. Il record della somma spetta  a Reggio Calabria con 9.836.000 euro, seguita da Roma con 4.897.000 e Catanzaro con 4.458.000".

E questo cosa significa? Che tutti questi magistrati sono colpevoli?

"Dal 1992, anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione nei registri conservati presso il ministero dell'Economia, al 31 dicembre 2019, si contano 28.702 casi: in media, 1.025 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto, per una spesa che supera i 757 milioni di euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27 milioni di euro l'anno".

E allora? Lei vuole mettere sotto processo disciplinare tutte le toghe che hanno firmato gli arresti? 

"In un Paese civile ci si dovrebbe interrogare sulle ragioni di questi errori. Ci dovrebbe essere qualcuno che, di fronte a un'ingiusta detenzione riconosciuta e indennizzata, riprenda in mano i fascicoli del procedimento e approfondisca per capire se qualcuno ha sbagliato. Una persona è finita ingiustamente in galera. Lo Stato che fa? Paga e si volta dall'altra parte, in attesa del prossimo pagamento, o cerca di capire perché è stato, a torto, privato qualcuno della libertà?". 

Ammetterà che in questa sua pretesa c'è in nuce un processo alla magistratura.

 "Non voglio né intimidire alcuno, né soffocare la lotta alla criminalità, ma neanche dimenticare che, dietro un innocente in carcere ci sono famiglie distrutte, attività lavorative andate in frantumi, ferite che non si rimarginano. Spesso un arresto, che poi si riconosce essere ingiusto, è sbandierato in conferenze stampa dove suona solo la campana dell'accusa, con buona pace della presunzione d'innocenza...". 

Ma questo è quello che dicono da anni i garantisti che vorrebbero cancellare con un colpo di spugna tutti i processi all'insegna dell'illegalità più diffusa...

"Io ho visto invece, in questi anni, inchieste con titoli altisonanti, magari poi smentiti dai fatti, foto sbattute in prima pagina, la sentenza mediatica pronunciata in 24 ore. Poi, quando arriva il processo vero e stabilisce che quella persona è innocente, possono essere passati anni: chi ha sbagliato è stato promosso a più alti incarichi, ma resta una persona in carne ed ossa cui è stata tolta non solo la libertà, ma anche la possibilità di recuperare la credibilità".

E quindi lei propone di trasformare pm e gip in potenziali colpevoli da mandare sotto ispezione e successivo accertamento disciplinare? 

"Io pongo una questione e faccio una domanda: è giusto o sbagliato dire che occorre approfondire se un arresto ingiusto sia stato disposto per negligenza o superficialità? Ogni professionista che sbaglia finisce sotto i riflettori e paga. Di fronte ad oltre 28mila ingiuste detenzioni, non solo nessuno o quasi nessuno ha mai pagato, ma addirittura nessuno ha mai analizzato la natura di questi errori". 

Ma si rende conto che lei sta chiedendo il processo sul processo?

 "Se lo Stato con una mano priva della libertà e con l'altra si scusa e risarcisce, qualcosa da verificare c'è. Poi si potrà ovviamente concludere che la verifica ha escluso ogni negligenza o che l'errore era inevitabile, ma almeno si è fatto un approfondimento. Oggi non si fa neanche questo. E se anche ci fossero gravi responsabilità, nessuno potrebbe venirle a conoscere e sanzionare. Un Paese civile non mette frettolosamente questi fascicoli in archivio, ma si organizza per evitare di ripetere gli stessi errori. Almeno quelli evitabili. Soprattutto quelli che privano della libertà personale una persona del tutto ingiustamente".

Giornata per le vittime di errori giudiziari: una legge nel nome di Tortora. Valentina Stella il 4 Marzo 2020 su Il Dubbio. La Commissione Giustizia del Senato ha dato il via libera alla calendarizzazione di una giornata per la memoria. «L’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia del Senato ha dato il via libera, con votazione unanime, alla calendarizzazione del ddl n. 1686, per Istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari. Contiamo di portare subito il testo in Commissione per l’avvio dell’iter di discussione e la successiva approvazione. La data indicata per le celebrazioni è il 17 giugno, nella ricorrenza dell’arresto di Enzo Tortora»: è quanto annunciato ieri dal senatore della Lega Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama. “Se le Camere dimostreranno la necessaria sensibilità, non dovremo aspettare il 2021 per indire la prima giornata. Ogni anno – ha aggiunto Ostellari – ci sono 1000 italiani che finiscono in carcere ingiustamente, quasi tre al giorno. Approvare questo ddl è importante per ricordare, anche a chi non vuole ammetterlo, che nel nostro Paese ci sono innocenti che vanno in carcere. E per le istituzioni, in modo che si adoperino per ridurre e infine cancellare queste insopportabili ingiustizie”. Per quanto concerne l’iter, “la sede deliberante più veloce sarebbe quella in Commissione”, ha spiegato Ostellari ai microfoni di Radio Radicale, “però così si eviterebbe il dibattito in Aula”, udibile anche per i cittadini. Forse, ha aggiunto il senatore, “la si potrebbe lasciare in sede ordinaria, prevedendo quindi prima il dibattito in aula Senato e poi in aula Camera”. Non dovrebbe esserci la necessità di fare audizioni. L’iniziativa era nata da una proposta del Partito Radicale che l’aveva ufficialmente presentata lo scorso 29 gennaio alla presenza di diverse esponenti della Lega, di Forza Italia e Italia Viva. Proprio Maurizio Turco ed Irene Testa, rispettivamente Segretario e Tesoriere del Partito Radicale, esprimono soddisfazione per “l’impegno e la celerità del Presidente della commissione giustizia del Senato, Andrea Ostellari, per aver sottoposto al voto della commissione giustizia, la calendarizzazione del disegno di legge promosso dal Partito”. Essendo stata la votazione in Commissione unanime, ciò – concludono – “ci lascia ben sperare che la proposta possa diventare presto legge dello Stato già dal prossimo 17 giugno”.

Giornata per le vittime di errori giudiziari, Pd e 5Stelle non votano e Renzi vota con la destra. Il Dubbio l'8 luglio 2020. La giornata per le vittime di errori giudiziari passa in commissione giustizia ma la maggioranza si spacca. Pd e 5Stelle non votano e ci pensa Italia Viva a far passare il disegno di legge. La giornata per le vittime di errori giudiziari passa in commissione giustizia ma la maggioranza si spacca. Pd e 5Stelle non votano e ci pensa Italia Viva a far passare il disegno di legge. “Spiace che Pd e 5Stelle abbiano votato contro il mandato al relatore sul disegno di legge di istituzione della ‘Giornata per le vittime degli errori giudiziari’, nonostante l’esponente di Italia Viva si fosse espresso a favore e spaccando, di fatto, la maggioranza. Il Pd, in particolare, prima ha presentato un emendamento che svuotava il corpo della legge, provando ad impedire che questa giornata di ricordo diventasse patrimonio di tutti gli italiani, a cominciare dai più giovani, attraverso la celebrazione nelle scuole; poi lo ha ritirato accodandosi al M5S. L’importanza e la necessità di questa legge è dimostrata dai numeri: in media ci sono 1000 innocenti vittime di errori giudiziari l’anno, oltre 26mila negli ultimi 25 anni. Con questo atteggiamento Pd e 5Stelle hanno dimostrato ancora una volta di non avere a cuore la diffusione del valore fondamentale della libertà e della presunzione di non colpevolezza come regola di giudizio”. Lo dichiarano i senatori di Forza Italia, membri della commissione Giustizia, Giacomo Caliendo, Franco Dal Mas, Massimo Mallegni e Fiammetta Modena.

I radicali soddisfatti per l’istituzione della giornata delle vittime di errori giudiziari. “L’istituzione della Giornata delle vittime degli errori giudiziari è un atto con il quale vogliamo ricordare l’alto numero di coloro che hanno subito la gogna mediatica alla quale è seguita l’ingiusta detenzione o la estraneità ai fatti per i quali sono stati indicati al pubblico ludibrio”. Lo sottolineano in una nota Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale che ringraziano il Presidente della Commissione Giustizia Andrea Ostellari “per aver depositato la nostra proposta di legge” e i membri della Commissione “per averla sostenuta con il loro voto”. “Con l’istituzione della Giornata – osservano – lo Stato riconosce di aver fatto un torto alle vittime, auspichiamo che con la massima celerità l’aula del Senato e poi la Camera istituiscano formalmente la giornata delle vittime degli errori giudiziari. Continua ad essere urgente e necessaria la riforma complessiva della Giustizia per prevenire nei limiti del possibile e dell’impossibile che il sistema continui a generare errori, cioè a sottoporre liberi e innocenti cittadini a una violenza di Stato inaudita. E comunque, se colpevoli, non li getti in quei luoghi che sono la negazione radicale dei principi e del dettato costituzionale”. “Il voto contrario del Partito Democratico e del M5S – concludono – è un segnale grave e pericoloso”.

Quella volta che Pietro Grasso sbattè la porta in faccia a Enzo Tortora. Francesca Scopelliti su Il Riformista l'11 Luglio 2020. Il 14 luglio saranno rinnovate le presidenze delle quattordici commissioni permanenti del Senato: saranno spazzati via quelli della Lega, vecchia alleata dei 5stelle, per dar posto a nomi del nuovo governo. E così parte il “totonomine”. Gira voce che per la commissione giustizia, verso la quale c’è un’attenzione particolare, si pensa a Pietro Grasso. La notizia non è confortante, perché – in questo momento – i magistrati impegnati in politica dovrebbero avere il buon senso di non assumere incarichi di primo piano. Ma abbiamo anche imparato – proprio in questi momenti – che i magistrati “di potere” come li chiamava Enzo Tortora, amano sempre e comunque, per vanità e visibilità, entrare nelle stanze dei bottoni. Nel caso specifico, però, si pone una questione di opportunità: il senatore Grasso è stato Presidente del Senato nella precedente legislatura e la dignità di chi ha rappresentato la seconda carica dello Stato dovrebbe consigliare di non occupare una poltrona, importante e autorevole certo, ma pur sempre una “diminutio” rispetto all’altra. Dovrebbe assumere l’ “altezza” di un padre della Patria (se ci riesce). Ma questo tocca – come dire – il sentimento personale, il saper vivere individuale. Che sembra mancare. E in mancanza di una attenta valutazione personale, sarà bene raccontare un fatto di cui il senatore Grasso si è fatto protagonista. A giugno del 2016 per presentare alla stampa il libro che raccoglie le lettere che Enzo Tortora scrisse dal carcere alla sua compagna, venne richiesta una sala del Senato ma, nonostante gli uffici avessero accantonato la pratica come “cosa fatta”, la richiesta fu respinta dall’allora Presidente: «… con riferimento alla sua richiesta di presentare il libro Lettere a Francesca in Senato, spiace comunicarle che la proposta non può essere valutata positivamente, non essendo la presentazione del libro collegata alle finalità istituzionali del Senato.» Parole senza senso che provocarono questa reazione: «… il libro che presenterò venerdì 17 prossimo raccoglie le lettere che Tortora mi ha scritto dal carcere e parla di una brutta pagina della giustizia italiana, talmente brutta da essere riconosciuta come tale da tutti, compresi tutti quei magistrati onesti per i quali Tortora si dimise dal Parlamento Europeo (…). Il libro che presenterò venerdì parla di un uomo perbene, accusato da alcuni magistrati per male che nonostante questo hanno fatto carriera. A dispetto di Tortora che invece è morto proprio a causa di quell’avviso di garanzia sparato – come un proiettile – il 17 giugno 1983. Il libro che presenterò venerdì denuncia il nostro sistema penale che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere, cosa che invece accade ancora. Così come denuncia il nostro sistema carcerario più volte e aspramente denunciato dall’Europa perché non corrispondente ai parametri di civiltà e di rispetto dell’”uomo”. Il libro che presenterò venerdì parla di un uomo che, a dispetto di chi lo voleva vittima, si è fatto protagonista di una nobile battaglia per la giustizia diventando così un grande leader politico, in Italia e in Europa. Il libro che presenterò venerdì dal titolo “Lettere a Francesca” parla anche di un sentimento per la donna amata. Un sentimento nobile e puro. Se tutti questi argomenti non rispecchiano “le finalità istituzionali del Senato”, allora mi deve spiegare quali sono e come giustifica tante altre iniziative che hanno invece ottenuto il “sigillo” senatoriale. Naturalmente rispetto la decisione del Presidente del Senato ma – mi si perdonerà la franchezza – spero non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla attuale veste di seconda carica istituzionale del Paese. Sarebbe un’ulteriore ferita per Enzo Tortora. Una lesione per le nostre povere istituzioni. Un affronto.». Così la presidente della Fondazione Tortora, una lettera che naturalmente non ha avuto risposta. Conclusione. In mancanza di una fondamentale e schietta sensibilità sui temi della giustizia, anche quando la giustizia sbaglia, è lecito affermare che il senatore Pietro Grasso sarebbe la persona meno adeguata per la presidenza della commissione Giustizia.

 “Pd zerbino dei 5 Stelle, vergogna!”, l’accusa della compagna di Enzo Tortora. Angela Stella su Il Riformista il 9 Luglio 2020. La maggioranza si è spaccata ieri in Commissione giustizia al Senato in merito al disegno di legge per l’ “Istituzione della «Giornata nazionale “Enzo Tortora” in memoria delle vittime degli errori giudiziari»”. Italia Viva ha votato infatti insieme a Forza Italia e Lega dando mandato al relatore di riferire favorevolmente in Assemblea sul testo: dodici voti favorevoli, undici contrari. Questi ultimi sono quelli del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle che tramite una nota congiunta dei senatori Franco Mirabelli e Grazia D’Angelo, rispettivamente capogruppo Pd e M5s nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, hanno spiegato che «la maggioranza ha solo chiesto di costruire un testo condiviso e di fronte alla indisponibilità del centrodestra, ha scelto di non votare il mandato al relatore. Sono sicuro che quando il provvedimento andrà in aula, la maggioranza avrà una posizione unitaria su un testo meno strumentale di quello che il centrodestra ha presentato». Poi la polemica contro il senatore della Lega Ostellari, primo firmatario della proposta avanzata dal Partito radicale, dal sito internet Errorigiudiziari.com, dalla Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora, dal Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei  e dall’associazione Il detenuto ignoto: «È grave che un presidente di commissione come Ostellari si presti a giochetti politici e dica bugie. La commissione Giustizia oggi non ha votato nessun ddl». Strano perché proprio il senatore del M5s Mattia Crucioli, commentando il suo voto contrario al disegno di legge, ha affermato: «oggi si è votato per istituire la giornata per le vittime degli errori della magistratura prevedendo che si vada nelle scuole a rimarcare la fallibilità della magistratura. C’è un tentativo di delegittimazione della magistratura». Gli ha risposto il senatore di Italia viva Giuseppe Cucca, unico componente renziano nella commissione Giustizia di Palazzo Madama che è stato il fondamentale ago della bilancia: «La richiesta di istituire la giornata per le vittime degli errori giudiziari è solo una riaffermazione pubblica dei valori sanciti dalla Costituzione, non c’è niente di più in questo provvedimento. Non c’è nessun attacco alla magistratura». Sconcertati per il voto contrario anche Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale: «Il voto contrario del Partito Democratico e del M5S è un segnale grave e pericoloso. Si vuole giocare con i tecnicismi e le parole ma la sostanza è che Pd e Movimento 5 Stelle si sono uniti contro un provvedimento lineare che nulla ha di strumentale. Nel preambolo c’è il ricordo della vicenda di Enzo Tortora, ci sono i numeri: in media 1.000 errori ogni anno, quasi tre al giorno, oltre 26.000 negli ultimi venticinque anni. E poi nell’articolo 1 le iniziative per sensibilizzare sul tema negli istituti scolastici e nella società civile mediante manifestazioni pubbliche, cerimonie, come avviene già per altre categorie di vittime. Invece avrebbero voluto cancellare tutto questo». Infatti i senatori Pd Franco Mirabelli, Monica Cirinnà e Valeria Valente avevano presentato un emendamento secondo cui tutto l’articolo 1 sarebbe dovuto essere sostituito con «La Repubblica riconosce il giorno 17 giugno quale Giornata nazionale in memoria delle vittime degli errori giudiziari», facendo addirittura sparire il nome di Enzo Tortora. Ma alla fine lo hanno ritirato e il Pd ha votato contro. «Il Pd ha opportunamente ritirato un emendamento che toglieva l’anima alla legge istitutiva della giornata in memoria delle vittime di errori giudiziari, rendendola una campana senza batacchio»: ha dichiarato Franco Dal Mas, senatore di Forza Italia e relatore del provvedimento licenziato. Duro il commento di Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora e presidente della Fondazione per la giustizia Enzo Tortora: «È vergognoso che il Pd non abbia memoria e non l’abbia mai avuta. Si confermano giustizialisti e trovo poco dignitoso che facciano gli zerbini al Movimento 5 Stelle. Il 17 giugno Tortora fu arrestato, lui rappresenta tutte le vittime di errori giudiziari e la giornata non può non portare il suo nome».

Giornata per le vittime degli errori giudiziari, Gaia Tortora: «Perché Pd e M5s hanno votato no?». Per far passare la proposta Italia Viva ha dovuto votare con il centrodestra. Il Dubbio il 10 luglio 2020. «Vorrei sapere da Pd e M5s perché non hanno votato in commissione giustizia al Senato il dl per istituire una giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari. Semplicemente Vergognoso. Vorrei una risposta. Grazie». A scriverlo, con un tweet, è Gaia Tortora, figlia di Enzo, uomo simbolo degli errori giudiziari in Italia. Il riferimento è al voto contrario dei due partiti in Commissione Giustizia sulla proposta di istituire una giornata in memoria delle vittime della malagiustizia, da celebrare proprio nel giorno dell’arresto del noto presentatore. Ci ha pensato però Italia Viva a far passare il disegno di legge. «Spiace che Pd e 5Stelle abbiano votato contro il mandato al relatore sul disegno di legge di istituzione della ‘Giornata per le vittime degli errori giudiziari’, nonostante l’esponente di Italia Viva si fosse espresso a favore e spaccando, di fatto, la maggioranza. Il Pd, in particolare, prima ha presentato un emendamento che svuotava il corpo della legge, provando ad impedire che questa giornata di ricordo diventasse patrimonio di tutti gli italiani, a cominciare dai più giovani, attraverso la celebrazione nelle scuole; poi lo ha ritirato accodandosi al M5S. L’importanza e la necessità di questa legge è dimostrata dai numeri: in media ci sono 1000 innocenti vittime di errori giudiziari l’anno, oltre 26mila negli ultimi 25 anni. Con questo atteggiamento Pd e 5Stelle hanno dimostrato ancora una volta di non avere a cuore la diffusione del valore fondamentale della libertà e della presunzione di non colpevolezza come regola di giudizio», hanno dichiarato i senatori di Forza Italia, membri della commissione Giustizia, Giacomo Caliendo, Franco Dal Mas, Massimo Mallegni e Fiammetta Modena.

I radicali soddisfatti per l’istituzione della giornata delle vittime di errori giudiziari. «L’istituzione della Giornata delle vittime degli errori giudiziari è un atto con il quale vogliamo ricordare l’alto numero di coloro che hanno subito la gogna mediatica alla quale è seguita l’ingiusta detenzione o la estraneità ai fatti per i quali sono stati indicati al pubblico ludibrio», hanno sottolineato in una nota Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale che ringraziano il Presidente della Commissione Giustizia Andrea Ostellari «per aver depositato la nostra proposta di legge» e i membri della Commissione «per averla sostenuta con il loro voto». «Con l’istituzione della Giornata – osservano – lo Stato riconosce di aver fatto un torto alle vittime, auspichiamo che con la massima celerità l’aula del Senato e poi la Camera istituiscano formalmente la giornata delle vittime degli errori giudiziari. Continua ad essere urgente e necessaria la riforma complessiva della Giustizia per prevenire nei limiti del possibile e dell’impossibile che il sistema continui a generare errori, cioè a sottoporre liberi e innocenti cittadini a una violenza di Stato inaudita. E comunque, se colpevoli, non li getti in quei luoghi che sono la negazione radicale dei principi e del dettato costituzionale. Il voto contrario del Partito Democratico e del M5S – concludono – è un segnale grave e pericoloso».

·         La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo. La Cedu, il carrozzone inutile che costa 71 milioni all'anno.

La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo ha il fascino dei grandi principi e delle utopie: che, come spesso accade, si traducono poi a fatica in prassi altrettanto elevate. Luca Fazzo, Martedì 27/11/2018 su Il Giornale. Costa ai contribuenti 71 milioni di euro all'anno. Sullo splendido edificio che la ospita, sventolano le bandiere dei 47 paesi che hanno sottoscritto la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo: hanno rinunciato almeno in parte, cioè, a farsi giustizia da soli, a fare valere solo le proprie leggi; hanno ceduto, insomma, una parte della loro sovranità nel campo del diritto in favore di principi più alti e generali. La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo ha il fascino dei grandi principi e delle utopie: che, come spesso accade, si traducono poi a fatica in prassi altrettanto elevate. Un po' perché i giudici che ne fanno parte sono tutti, in un modo o nell'altro, di nomina politica. E soprattutto perché i tempi delle decisioni sono talmente smisurati da rendere, tranne pochi fortunati casi, le decisioni di Strasburgo del tutto ininfluenti sui casi concreti: quando ormai le presunte vittime delle prepotenze degli Stati sono libere, o addirittura morte. È accaduto ora con il caso di Silvio Berlusconi, che i giudici di Strasburgo hanno iniziato ad esaminare con tutta calma: hanno impiegato tre anni per chiedere il parere del governo italiano, un altro anno se n'è andato perché i giudici che avevano la pratica se ne spogliassero a favore della Grand Chambre, un altro anno è servito per la decisione. Nel frattempo la vita ha fatto il suo corso, il tempo è passato, la condanna di Berlusconi è stata cancellata: insomma alla fine il Cavaliere ha deciso di lasciar perdere, nonostante il robusto sforzo economico sostenuto per impiantare la causa a Strasburgo. Ma tempi analoghi la Corte li ha purtroppo quasi sempre. Li ha avuti con Bruno Contrada, ex funzionario dei servizi segreti, che si è visto dare ragione quando ormai aveva finito di scontare la sua pena. Rischia di accadere la stessa cosa con Marcello Dell'Utri, il cui ricorso è stato presentato nel 2015 e non verrà deciso prima del prossimo anno. E accade in continuazione con cittadini noti e meno noti dei 47 paesi. Proprio ieri, celebrando il ventesimo anno di attività della Corte, il suo presidente, l'italiano Guido Raimondi, ha fornito numeri che giustificano questi ritmi di decisione: davanti alla Corte sono attualmente fermi 58mila procedimenti, che sono un bel passo avanti rispetto ai 160mila giacenti nel 2011, ma che rendono comunque assai improbabile che la maggior parte dei ricorrenti riceva una risposta in tempi sensati. Certamente dietro a questo intasamento c'è anche una certa resistenza degli Stati membri, dai cui finanziamenti dipende il funzionamento della Corte, che non hanno troppo interesse ad avere una Corte in piena efficienza. Ma in alcuni casi a Strasburgo hanno saputo dare corso in fretta. Lo hanno fatto quando diedero ragione al terrorista Abu Omar nella sua causa contro l'Italia, lo hanno fatto quando hanno abrogato il reato di immigrazione clandestina previsto dalla legge Bossi-Fini. Ma qui almeno c'erano in ballo questioni rilevanti ed urgenti di libertà civili. Ma in tempi ben più rapidi del solito è stata decisa anche la causa sollevata da una televisione italiana su una questione di frequenze. Insomma, sarà anche vero che, come ha detto ieri Guido Raimondi, centinaia di milioni di europei sanno che a Strasburgo c'è qualcuno che vigila costantemente sui loro diritti". Ma raramente lo fa in tempo utile.

"Sentenza Mediaset pilotata? La ricostruzione è verosimile". Il presidente dei penalisti: le frasi di Franco non sono assurde. Rischio palude per il ricorso di Berlusconi in Ue. Luca Fazzo, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Magari ha ragione Berlusconi, e le due carte sfoderate dai suoi difensori davanti alla Corte europea dei diritti dell'Uomo - le ammissioni del giudice Amedeo Franco e la recente sentenza del tribunale civile di Milano - sono la dimostrazione finale del complotto politico che nel 2013 ha portato alla sua condanna. O magari, chissà, hanno ragione i suoi detrattori, come Magistratura democratica o il Fatto quotidiano, secondo i quali né una prova né l'altra scalfiscono le prove raccolte contro l'imputato e ritenute sufficienti in tre gradi di giudizio. Per sapere chi ha ragione, basterebbe aspettare la decisione della Corte di Strasburgo. Proprio qui, però, sta il problema. Perché la Corte ha una vecchia, consolidata abitudine: impiegare anni ed anni a emettere le sue decisioni, con il risultato che spesso le sentenze arrivano a cose fatte, quando il condannato ha ormai finito di scontare la pena di cui denuncia l'ingiustizia, o quando le conseguenze che ha patito sono comunque irreversibili. È già accaduto all'ex agente segreto Bruno Contrada, avverrà quasi certamente a Marcello Dell'Utri. Ed è già successo allo stesso Silvio Berlusconi, che vide il suo ricorso contro la legge Severino venire inghiottito dalle brume alsaziane: quando finalmente, dopo un'attesa di cinque anni, venne fissata l'udienza, il Cavaliere aveva ormai finito l'affidamento ai servizi sociali, e preferì rinunciare. Ora ci sono tutti i presupposti perché si ripeta la stessa scena. Oggi come allora, la Corte presieduta dall'islandese Robert Spano non ha alcuna intenzione di concedere corsie preferenziali al nuovo ricorso di Berlusconi, che così resta affogato nella interminabile lista d'attesa. Incredibilmente, dopo sei anni, la Corte non ha nemmeno notificato gli atti al governo italiano; nè si sa se dovrà occuparsene una sezione ordinaria o, come nel 2018, il fascicolo verrà assegnato alla Grand Chamber: e in quel caso, i tempi si allungheranno ulteriormente. I criteri di precedenza della Cedu sono imperscrutabili, nell'udienza del prossimo 7 luglio verranno discussi ricorsi più vecchi di quello del Cav, che porta il numero 8683/14 (come quello di tre poliziotti bulgari che aspettano da quasi dieci anni) ma anche casi ben più recenti, come quello di quattro contadini maltesi contro l'esproprio dei loro terreni (fascicolo 36318/18). Misteri della giustizia europea. E poco conta che le novità poste alla base della nuova memoria siano state giudicate attendibili nei giorni scorsi anche da fonti autorevoli: da ultimo ieri il presidente nazionale delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, che interviene duramente come chi, all'interno della magistratura, pretende che la confidenza del giudice Franco a Berlusconi «debba essere valutata solo nel senso che quel giudice fosse sotto ricatto o corrotto, e non anche che abbia potuto raccontare una clamorosa verità». «Questa storia - aggiunge Caiazza - di una vicenda giudiziaria pesantemente orientata alla eliminazione politica di un protagonista della vita pubblica, nessuno ancora sa se sia vera, ma siamo tutti, ma proprio tutti, certi che sia almeno verosimile. Non c'è una sola persona di buon senso, sia tra gli addetti ai lavori che tra la gente comune che, ascoltata la voce (spregiudicatamente registrata) di quel giudice da tutti apprezzato e stimato, possa sinceramente trasecolare di fronte al quadro ed al contesto politico-giudiziario che il giudice Franco ha delineato, e dire: ma di quale assurda follia costui sta parlando?». Si vedrà se a Strasburgo ascolteranno voci come quella di Caiazza. Ammesso che, prima o poi, si decidano a fissare l'udienza.

·         L’Italia dei Ricorsi alla Corte dei diritti dell’Uomo.

Diritti civili, quando le critiche all’Italia arrivano da Iran, Cina ed Egitto. Secondo Teheran il nostro sistema di giustizia penale crea discriminazioni. Damiano Aliprandi il 6 febbraio 2020 su Il Dubbio. Sovraffollamento delle carceri, gli attacchi alla libertà di stampa, la tratta degli esseri umani, le condizioni dei migranti, difesa delle minoranze. Sono tante le raccomandazioni volte all’Italia sul campo dei diritti umani. Si tratta di un documento del consiglio Onu per quanto riguarda le raccomandazioni degli Stati indirizzate all’Italia a seguito della discussione sull’esame del rapporto italiano nell’ambito della revisione periodica universale sul rispetto dei diritti umani. Il nostro Paese dovrà rispondere presto e il documento finale del Consiglio ONU sarà approvato nel corso della 43esima sessione che si terrà dal 24 febbraio al 20 marzo 2020. Diverse le critiche poste dai Paesi. Ad esempio c’è la Danimarca e la Francia che hanno chiesto all’Italia di allineare la legge 110/2017 alla Convenzione Onu contro la tortura.  Da ricordare che la legge subì già delle critiche dal comitato Onu perché è “incompleta” e soprattutto “crea spazi reali o potenziali per l’impunità”. Molti Stati hanno spinto l’Italia anche verso un maggiore impegno e una maggiore effettività nelle misure per fronteggiare hate speech, razzismo e xenofobia.Ma c’è anche una nota di colore. Tanti, appunto, sono i Paesi che hanno chiesto conto della nostra salvaguardia dei dritti umani. Raccomandazioni giuste e doverose visto che noi non brilliamo per il rispetto di taluni dritti, a partire dal nostro sistema giudiziario e penitenziario. Ma è curioso che a dirlo sono Stati dove vigono sistemi non propriamente democratici. Compare la Cina che raccomanda all’Italia di “promuovere ulteriormente lo sviluppo economico e sociale sostenibile e proteggere i diritti dei gruppi vulnerabili”. C’è anche l’iran, la repubblica islamica che è perennemente condannata dagli organismi dei diritti umani ove migliaia di persone vengono arrestate per aver espresso le loro opinioni e tanti avvocati sono stati lapidati e condannate a pene perpetue. Situazione denunciata recentemente alla Camera dei Deputati anche da Nessuno Tocchi Caino ricordando i 1500 morti durante la repressione. Insomma l’Iran raccomanda il nostro Paese di rafforzare i nostri sforzi “per affrontare le cause profonde della discriminazione nel sistema di giustizia penale”.  Tra i vari Stati compare anche l’Egitto dove ancora scotta il caso di Giulio Regeni, torturato per giorni e poi ucciso, che raccomanda il nostro Paese di lavorare per “la creazione di un istituto nazionale indipendente per i diritti umani nel rispetto dei Principi di Parigi”.

Ricorsi alla Corte dei diritti dell’Uomo, l’Italia è quinta dopo Russia, Romania, Ucraina e Turchia. Damiano Aliprandi il 17 gennaio 2020, su Il Dubbio.  Sono ben 1200 i casi che riguardano l’irragionevole durata dei processi. Nonostante siano diminuite le pendenze dei casi italiani dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il nostro Paese rimane comunque al quinto posto nella classifica degli Stati con il maggior numero di ricorsi. Tra i nostri ricorsi spicca al primo posto, con 1200 casi, il problema dell’irragionevole durata del processo e la mancata applicazione della legge Pinto. Ricorsi che sono però destinati ad aumentare, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018 che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4 della legge n. 89 del 2001, nella parte “in cui preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della durata ragionevole si assume essersi verificata”. Parliamo della relazione relativa all’anno 2018, presentata in Parlamento, in merito all’esecuzione delle sentenze Cedu da parte dell’Italia. Come detto il nostro Paese continua a pesare sul carico di lavoro della Corte di Strasburgo considerato che è al quinto posto nella classifica degli Stati con il maggior numero di ricorsi e che il carico italiano rappresenta il 7% del totale. In vetta c’è la Russia ( 11.745), seguita dalla Romania ( 8.503), dall’Ucraina ( 7.267) e dalla Turchia ( 7.107). Dal documento, risulta che l’Italia migliora la posizione per numero di condanne, con 11 sentenze ( nel 2017 erano state 28) e si colloca al settimo posto preceduta da Russia ( 248), Turchia ( 146), Ucraina ( 91), Romania ( 82), Ungheria ( 38), Grecia ( 35), Moldavia ( 33), Lituania ( 32) e Bulgaria ( 29). L’accertamento delle violazioni ha riguardato l’articolo 3 ( divieto di tortura e trattamenti disumani o degradanti, con 2 violazioni), l’articolo 6 ( diritto all’equo processo, con 5 condanne), il principio nulla poena sine lege ( articolo 7, con 1 violazione), il diritto al rispetto della vita privata e familiare ( articolo 8, con 4 violazioni), il diritto di proprietà ( articolo 1, Protocollo n. 1, con 3 violazioni), il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva ( articolo 13, 1 violazione). È aumentato in modo sensibile, invece, il numero di decisioni di carattere procedurale nei confronti dell’Italia, che passa dalle 49 del 2017 alle 94 nel 2018. Ben 70 decisioni hanno avuto al centro la radiazione dal ruolo dei ricorsi perché è stato raggiunto un regolamento amichevole tra le parti o perché vi è stata una dichiarazione unilaterale del Governo accettata dalla Corte. Nella relazione, tra le varie sentenze di condanna, si richiama l’attenzione sulla sentenza pronunciata per violazione dell’articolo 3 sul ricorso Provenzano c. Italia, presentato dall’ex boss di Cosa nostra sottoposto al 41 bis. La violazione dell’articolo 3 è stata ravvisata nell’insufficienza della motivazione in relazione alla mancanza di una esplicita valutazione del deterioramento dello stato cognitivo del detenuto nell’ultimo decreto di proroga del regime speciale. Secondo la Corte, seppure possa essere necessario sottoporre a restrizioni, rispetto al normale regime carcerario, un particolare detenuto, tali restrizioni devono essere di volta in volta giustificate dall’esistenza di speciali necessità, non potendosi dare per assodata “una volta per tutte” la pericolosità sociale estrema di un soggetto pur condannato per la commissione di gravissimi e reiterati fatti criminosi, ma dovendosi motivare le restrizioni al normale regime e l’esclusione dai benefici previsti per la generalità dei reclusi, per periodi di tempo limitati alle dimostrate esigenze eccezionali. La Corte ha ripetutamente ritenuto che, quando si valuta se la proroga dell’applicazione di alcune restrizioni ai sensi del regime previsto dall’articolo 41- bis raggiunga la soglia minima di gravità richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3, la durata temporale deve essere esaminata alla luce delle circostanze di ciascuna causa, il che comporta, inter alia, la necessità di accertare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni contestate fossero, di volta in volta, giustificati o meno. Secondo i giudici europei deve soprattutto essere smantellato il principio dell’automatismo, per fare in modo che siano i giudici a decidere caso per caso, con riguardo al contemperamento delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica e a quelle di salvaguardia dei diritti della persona detenuta, entrambe meritevoli di considerazione.

·         Quelli che...sono Ministro della Giustizia: “Gli innocenti non finiscono in carcere”.

In Italia 27mila innocenti in cella, ma il ministro Bonafede non lo sa. Redazione de Il Riformista il 25 Gennaio 2020. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è caduto un’altra volta, proprio su una materia della quale dovrebbe essere esperto: la giustizia, il diritto. Lui è ministro, lui è avvocato. Uno pensa: saprà. E invece ha preso una brutta sbandata di fronte alla domanda gentile di Annalisa Cuzzocrea (Repubblica) che magari non sarà esperta come lui, né aggressiva come lui, ma due o tre cose le sa. Cuzzocrea, durante il programma di La7, Otto e mezzo, ha chiesto al ministro se non considera un problema il fatto che in carcere ci vanno molti innocenti. Il ministro ha risposto secco: «In carcere non ci sono innocenti». Cuzzocrea, sbalordita, ha fatto notare che le cifre ufficiali del ministero dicono che dal 1992 a oggi ci sono stati almeno 27 mila innocenti in prigione. Il ministro ha risposto ancora, un po’ farfugliando: «Ma questo è un altro discorso». Poi ha subito cambiato argomento. Non si capisce proprio perché se uno ti chiede cosa ci fanno gli innocenti in carcere, e poi ti spiega che ce ne sono passati 27mila, tu debba considerare le due cose strumentalmente sovrapposte. Convinto che una cosa sono i 27 mila arrestati ingiustamente e una cosa ben diversa i 27mila ingiustamente arrestati…Poi, ieri mattina, qualcuno deve aver detto a Bonafede che aveva fatto una pessima figura. Allora lui ha scritto su Facebook una spiegazione del suo ragionamento che surclassa largamente la brutta figura del giorno precedente. Ha detto che lui quando ha negato la presenza di innocenti in prigione si riferiva agli assolti. Ora, effettivamente, che uno venga assolto in tribunale e poi spedito in prigione è una cosa che succede molto raramente… Ma a parte questa prova di surrealismo politico, c’è un altro elemento di quella dichiarazione che è molto pericoloso: il ministro evidentemente ritiene che una persona possa considerarsi innocente solo dopo essere stata assolta. Prima dell’assoluzione, se ha ricevuto un avviso di garanzia, è colpevole. È ministro, eh: è ministro.

Ennesima gaffe di Bonafede in tv: “Gli innocenti non finiscono in carcere”. Redazione de Il Riformista il 24 Gennaio 2020. Clamoroso scivolone del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ospite giovedì sera della trasmissione di La7 "Otto e Mezzo". Parlando della riforma della prescrizione in vigore da gennaio, che prevede il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, il Guardasigilli ha avuto uno scontro con la giornalista di Repubblica Annalisa Cuzzocrea. La Cuzzocrea ha infatti chiesto al ministro cosa pensa delle persone che finiscono in carcere in attesa di giudizio definitivo e che poi si rivelano innocenti. “Mi chiedo se lei ogni tanto non pensa agli innocenti che finiscono in carcere”, ha incalzato la ‘penna’ di Repubblica. Bonafede, incredibilmente le ha risposto così: “Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere”. La giornalista ha quindi ricordato al ministro i dati sulle persone innocenti incarcerate erroneamente negli ultimi anni: “Dal 1992 al 2018 27mila persone sono state risarcite dallo Stato perché sono finite in carcere da innocenti, quindi gli innocenti finiscono in carcere”, citando id dati diffusi dal sito errorigiudiziari.com. Questa mattina lo stesso Bonafede, finito al centro delle polemiche, ha provato a difendersi con un post su Facebook, spiegando che con la frase “gli innocenti non vanno in carcere” si riferiva “a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’appunto, ‘confermata’ dallo Stato). Ad ogni modo, la frase non poteva comunque destare equivoci perché subito dopo ho specificato a chiare lettere che sulle ipotesi (gravissime) di ingiusta detenzione, “… sono il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare i casi di ingiusta detenzione””.

Otto e mezzo, Alfonso Bonafede: "Gli innocenti non finiscono in carcere". Ma i numeri lo smentiscono. Libero Quotidiano il 23 Gennaio 2020. Momenti di grande imbarazzo a Otto e mezzo per Alfonso Bonafede, che viene letteralmente portato a scuola da Annalisa Cuzzocrea quando si parla di giustizia. Materia che il ministro grillino dovrebbe conoscere bene, nonostante sia il padre dell’abolizione della prescrizione che può rendere i cittadini italiani processabili a vita. La giornalista di Repubblica gli lancia una frecciatina, chiedendogli se “ogni tanto pensa agli innocenti che finiscono in carcere? Perché sono tantissimi”. “Ma cosa c’entrano? Gli innocenti non finiscono in carcere”, è l’irreale risposta di Bonafede che viene subito smentito dalla Cuzzocrea. Quest’ultima, infatti, sfodera un’arma inattaccabile, quella dei numeri: “No scusi, dal 1992 al 2018 27mila persone sono state risarcite dallo Stato perché erano finite in carcere da innocenti. Quindi gli innocenti finiscono in carcere”. Cala il sipario, sperando che Bonafede abbia appreso una preziosa lezione ed eviti in futuro baggianate del calibro di “gli innocenti non finiscono in carcere”.

Secondo Bonafede gli innocenti non finiscono in carcere. Ma i dati dicono altro…Il Dubbio il 24 gennaio 2020. Il Guardasigilli dimentica le 2mila persone l’anno che finiscono in cella per poi essere assolte. “Gli innocenti non finiscono in carcere“.  Parole e musica del ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Una dichiarazione che ha immediatamente provocato la reazione della sua interlocutrice, la giornalista Annalisa Cuzzocrea, la quale ha spiegato al Guardasigilli che dal 1992 al 2018, 27 mila persone sono state risarcite dallo Stato per essere finite in carcere da innocenti. Quindi gli innocenti finiscono in carcere. Di più: secondo i dati di sito errorigiudiziari.com, solo nel 2018 1.355 persone sono state poste in custodia cautelare in carcere e altre 1.025 agli arresti domiciliari per poi, pochi mesi dopo, essere assolte. A stretto giro è arrivato anche il tweet di Gaia Tortora, figlia di Enzo: “Ministro le chiedo di spiegare la sua frase ad Otto e Mezzo "gli innocenti non finiscono in carcere". Grazie”.

Gaia Tortora contro Alfonso Bonafede: "Gli innocenti non vanno in carcere? Ministro mi spieghi questa frase". Libero Quotidiano il 24 Gennaio 2020. Quando si tratta di giustizia, Gaia Tortora non riesce a trattenersi: "Ministro, le chiedo di spiegare la sua frase a Otto e mezzo "gli innocenti non finiscono in carcere". Grazie", scrive la giornalista di La7 in un post pubblicato sul suo profilo Twitter rivolto ad Alfonso Bonafede.  Ieri sera 23 gennaio infatti il Guardasigilli, padre dell'abolizione della prescrizione che può rendere i cittadini italiani processabili a vita, rispondendo alla giornalista Annalisa Cuzzocrea - "ogni tanto pensa agli innocenti che finiscono in carcere? Perché sono tantissimi" - ha detto: "Ma cosa c'entrano? Gli innocenti non finiscono in carcere". Della serie, vallo a dire a Gaia Tortora, con quello che ha passato insieme al padre Enzo.  

La figuraccia di Bonafede sugli innocenti in carcere. Mario Neri il 24 Gennaio 2020 su nextquotidiano.it. Ieri Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia del governo Conte Bis, era a Otto e Mezzo da Lilli Gruber per difendere la sua riforma della prescrizione ed è stato protagonista di questo bel siparietto con Annalisa Cuzzocrea di Repubblica: “Ogni tanto pensa agli innocenti che finiscono in carcere?”, gli ha chiesto Cuzzocrea. “Gli innocenti non finiscono in carcere”, ha risposto Bonafede. E la giornalista ha citato un dato: “Dal 1992 al 2018 27 mila persone sono state risarcite per essere finite in carcere da innocenti”. I dati citati da Cuzzocrea risalgono all’anno scorso e sono quelli di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori del sito ‘errorigiudiziari.com‘, il primo e più grande archivio online con tutti i casi. “Sulla base degli ultimi dati, che vanno dal ’92 alla fine dell’anno scorso, i casi sono oltre 27mila e 200”. Per i risarcimenti lo “Stato ha speso fino a oggi oltre 700 milioni di euro”, pari a circa “28-30 milioni di euro in media ogni anno”. Quando si parla di innocenti in carcere bisogna distinguere tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. “L’errore giudiziario è quello di Giuseppe Gulotta, che è stato condannato con sentenza definitiva, ma alla fine con un processo di revisione è stato assolto”. La stragrande maggioranza di casi in Italia è fatta da ingiuste detenzioni. “Si tratta di persone che finiscono in custodia cautelare, in carcere o agli arresti domiciliari, e poi, invece, risultano innocenti perché archiviati o assolti”. Tra le principali cause troviamo lo scambio di persona. “Si accusa uno al posto di un altro sulla base del riconoscimento da parte delle presunte vittime – fanno notare Maimone e Lattanzi -. L’esempio classico è quello della rapina in banca con il testimone oculare che sbaglia a individuare il responsabile nel riconoscimento fotografico”.

EDIT ORE 9,41: Il ministro Bonafede su Facebook prova a precisare il suo pensiero con questo post: La “precisazione” di Bonafede non tiene conto di un caso specifico: coloro per i quali viene disposta la custodia cautelare in carcere e vengono successivamente assolti. In questi casi si tratta di un “innocente” (come successivamente provato dalla sentenza) che però ha dovuto comunque subire l’umiliazione del carcere. Ecco perché, al contrario di ciò che sostiene il ministro, la frase poteva in ogni caso suscitare equivoci.

Secondo Bonafede gli innocenti non finiscono in carcere. Il Post il 24 gennaio 2020. Lo ha detto ieri a "Otto e Mezzo", e ovviamente si è sbagliato di grosso. Durante la puntata di giovedì di Otto e Mezzo Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia del Movimento 5 Stelle, ha parlato anche della riforma della prescrizione entrata in vigore a gennaio. La riforma prevede il blocco assoluto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado: nessun processo finirà mai in prescrizione se è arrivato almeno a una sentenza di primo grado, sia in caso di condanna che di assoluzione. Finora, invece, che si arrivasse a una sentenza di primo grado o di appello, un reato poteva essere estinto se passava un tempo considerato eccessivo. A questo proposito la giornalista di Repubblica Annalisa Cuzzocrea ha incalzato il ministro chiedendogli cosa pensi di tutte quelle persone che finiscono in carcere in attesa di un giudizio definitivo e che poi si rivelano innocenti. «Mi chiedo se lei ogni tanto non pensa agli innocenti che finiscono in carcere», ha detto Cuzzocrea a Bonafede, che ha risposto dicendo: «Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere». Cuzzocrea ha risposto a Bonafede citando i dati dei casi di persone innocenti incarcerate erroneamente negli ultimi anni: «Dal 1992 al 2018 27mila persone sono state risarcite dallo Stato perché sono finite in carcere da innocenti, quindi gli innocenti finiscono in carcere», secondo i dati riportati alcuni mesi fa da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori del sito errorigiudiziari.com, archivio online dei casi di ingiusta detenzione. Secondo i dati ufficiali, soltanto nel 2018 1.355 persone sono state poste in custodia cautelare in carcere e altre 1.025 agli arresti domiciliari per poi, pochi mesi dopo, essere assolte. Venerdì Bonafede ha chiarito la sua frase scrivendo su Facebook che «nell’intervista di ieri sera, mentre si stava parlando di assoluzioni e condanne, ho specificato che gli “innocenti non vanno in carcere” riferendomi evidentemente e ovviamente, in quel contesto, a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’appunto, ‘confermata’ dallo Stato). Ad ogni modo, la frase non poteva comunque destare equivoci perché subito dopo ho specificato a chiare lettere che sulle ipotesi (gravissime) di ingiusta detenzione, “sono il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare i casi di ingiusta detenzione” […] Aggiungo, infatti, che per la prima volta ho introdotto presso l’Ispettorato in maniera strutturata il monitoraggio e la verifica dei casi di riparazione per ingiusta detenzione, anche in occasione delle ispezioni ordinarie». La prescrizione è una forma di garanzia per gli imputati contro l’eccessiva lunghezza dei processi – visto che i processi hanno costi enormi per gli imputati, anche nel caso poi si concludano con un’assoluzione – ed è uno strumento che lo Stato può utilizzare quando non è più interessato a perseguire alcuni reati (quelli punibili con l’ergastolo, invece, erano già imprescrittibili prima della riforma). La prescrizione serve anche a ridurre gli errori giudiziari, dal momento che più passa il tempo più le indagini e i processi si fanno complicati (le prove si deteriorano, i testimoni muoiono, eccetera). Dopo le molte polemiche che la riforma ha suscitato nella maggioranza, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha presentato una possibile modifica, introdotta nel disegno di legge sulla riforma del processo penale, che prevede il blocco della prescrizione dal primo grado di giudizio solo in caso di sentenza di condanna.

Vittorio Feltri contro Piercamillo Davigo: "Non esistono innocenti? Anche lui rischia di essere scoperto". Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Giustizia e dintorni. Non c'è soltanto Alfonso Bonafede con le sue gaffe sugli "innocenti che non vanno in galera". Ci sono anche le teorie di Piercamillo Davigo, ideologo in tema di giustizia del M5s ultra-manettaro, il quale in buona sostanza ha una concezione secondo la quale gli innocenti non esistono, ma esistono soltanto colpevoli che ancora non sono stati scoperti. Lo disse, chiaro e tondo, tempo fa. Giustizialismo puro. Roba da Davigo, grillini e Marco Travaglio. E contro Davigo, su Twitter, punta il metaforico dito Vittorio Feltri, con il seguente cinguettio: "Davigo sostiene che non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti. Fosse vero, anche lui rischierebbe di essere scoperto", conclude allusivo il direttore di Libero.

Il silenzio degli innocenti. Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’ Unione Camere Penali Italiane, su Il Corriere del Giorno il 26 Gennaio 2020. Non credo dunque che Lei debba giustificarsi, signor Ministro: questa è, semplicemente, la cultura politica che Lei esprime, con il Suo movimento stellato, i suoi Davigo, i Suoi Travaglio, i Suoi Di Matteo, insomma tutta la nota compagnia di giro. È il destino più infame, quello degli innocenti. Si chiamano così perché sono stati, un tempo e per lungo tempo, presunti colpevoli. La storia dell’innocente è dunque una storia di dolore, e assai raramente di completo riscatto. Quando la tua vita viene marchiata dal sospetto, dunque dall’accusa di aver commesso un reato, lo è per sempre. Se poi quel sospetto è stato valutato così grave e fondato da portarti in carcere, non c’è salvezza. Sarai per sempre guardato in un modo diverso e, quel che più conta, ti sentirai sempre guardato in modo diverso. Da presunto colpevole, l’innocente ha vissuto sulla propria pelle i morsi feroci della riprovazione sociale. I vicini di casa ti evitano, il lavoro o è perso o è gravemente pregiudicato, gli amici si dileguano, i figli a scuola dovranno vergognarsi di te. E chissà poi come ti guardano, i figli, cosa pensano davvero. Ecco cosa è, nella realtà, un “innocente”, perfino se non sia passato dalla galera. Ed ecco perché l’innocente preferisce, di norma, il silenzio sul suo passato di presunto colpevole. O sei Enzo Tortora, e trovi la forza di parlare e di lottare per tutti gli altri, o preferisci, piuttosto che far rivivere l’incubo anche solo raccontandolo, tacere e camminare rasente i muri. Lei sa, Signor Ministro Bonafede, che non è mio costume speculare su incidenti altrui, e ridere scompostamente di chi inciampa. Ho anche letto la sua precisazione, che questa volta francamente fatico a comprendere. Ci mancherebbe pure che l’assolto debba poi andare in galera! Ma qui mi preme che Lei comprenda seriamente cosa possano aver significato le sue parole –“gli innocenti non vanno in carcere”- per le decine, anzi le centinaia di migliaia di persone che hanno vissuto quell’incubo. E lasci perdere le condanne per ingiusta detenzione. Davvero pensa che sia quella la contabilità reale di chi ha ingiustamente patito il carcere? Lei è drammaticamente fuori strada, Signor Ministro. Si tratta di una piccolissima parte di quelli che hanno vissuto ingiustamente da colpevoli. Ma lei ama occuparsi di vittime. Come tutti i populisti giustizialisti, Le è più comodo, facile ed utile, senza preoccuparsi se il presunto carnefice possa essere a sua volta la prima e la più tragica delle vittime. Questo d’altronde è esattamente il discrimine tra l’idea liberale e quella populista della giustizia penale. Per i primi, diversamente dai secondi, il prezzo più alto che una società possa pagare non è un colpevole impunito, ma un innocente in galera. In verità, andiamo ben oltre il pensiero liberale. Si tratta di una idea fondativa della civiltà umana, dall’ “in dubio pro reo” del 530 dopo Cristo al contemporaneo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il sistema processuale, signor Ministro, è ab origine concepito per prevenire questa tragedia, l’innocente in galera, l’unica davvero intollerabile. Altro che “certezza della pena”. La facilità con la quale Lei ha potuto dire ed anche ripetere quelle parole non è dunque un incidente, ma la esatta spia del punto di vista politico che Lei esprime. E’ un problema di priorità, di cosa si abbia innanzitutto in testa quando si parla di processo, di sanzione, di pena, di innocenti e di colpevoli. Ed è il punto di vista che ha portato Lei, coerentemente con il risultato elettorale, ad essere Ministro di Giustizia del nostro Paese, ed a firmare le leggi che ha firmato. Leggi per “spazzare via” la corruzione (a proposito, complimenti per i brillantissimi risultati, sotto gli occhi di tutti), e per introdurre la categoria dell’imputato a vita, con la nota abrogazione della prescrizione. Sono leggi che vengono concepite da chi vive letteralmente ossessionato dal colpevole impunito, mai dall’innocente massacrato. Non credo dunque che Lei debba giustificarsi, signor Ministro: questa è, semplicemente, la cultura politica che Lei esprime, con il Suo movimento stellato, i suoi Davigo, i Suoi Travaglio, i Suoi Di Matteo, insomma tutta la nota compagnia di giro. Io anzi preferisco che Lei la esprima quotidianamente, con la massima, inequivocabile chiarezza. Si tratta invece di capire cosa ne pensino i Suoi nuovi alleati di governo; quali misteriose e penose mediazioni si pretenderebbe di concludere con l’idea del diritto e della legge penale che Lei incarna e rappresenta -sia detto a Suo onore- senza equivoci, senza mai nascondersi. Quale indecorosa resa ad esse si stia facendo rovinosamente strada su principi che dovrebbero essere non negoziabili, salvo a volersi iscrivere definitivamente nell’empireo del populismo giustizialista. Ma sia cauto, per il futuro, quando parla di innocenti. Li lasci perdere, almeno. Come ho cercato di spiegare, di norma gli innocenti condannano sé stessi al silenzio. Ma noi avvocati le loro storie le conosciamo, e non abbiamo nessuna intenzione di tacere.

Bonafede, ministro negazionista e ignorantello non è l’unico barbaro. Iuri Maria Prado il 25 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il negazionismo del ministro Bonafede, secondo il quale «gli innocenti non finiscono in carcere», rappresenta più che altro un caso di sfrontata indecenza. Fa abbastanza schifo, come quello che lascia in mare i disperati perché lo sanno tutti che non sono veri profughi ma ragazzoni muscolosi col cellulare fico. Certo, ci sarebbe da trasecolare davanti a un ministro che spaccia roba simile, così violentemente falsa, così insultante, ma si tratta dello stesso che si traveste da secondino e fa il film della giornata indimenticabile col detenuto avviato a marcire in galera. Insomma, questo Bonafede lo conosciamo bene. A far vergogna, tuttavia, a dare scandalo, è che tanti innocenti finiscano in carcere: non tanto il ministro della Giustizia che nega quel fatto inoppugnabile. E a quelli che pur giustamente hanno denunciato la dichiarazione del ministro Bonafede bisognerebbe domandare se il problema della detenzione ingiusta si risolve così, e cioè contestando al ministro il diritto di dire panzane. Perché non è che se il ministro smette di negare che gli innocenti finiscono in galera quelli smettono di finirci. Se sparano ai negri il problema qual è? Che un ministro nega la matrice razzista dell’attentato? Eppure ieri il deputato Pd Andrea Romano si lagnava della “barbarie” di Bonafede, che dovrebbe essere sconfessata dal Movimento 5 Stelle «se davvero vogliamo lavorare ad una prospettiva di alleanza». Ma ci si interroga: nella prospettiva di alleanza di cui parla Romano c’è posto per qualche iniziativa sugli innocenti in carcere? O la questione è risolta con Bonafede che non dice più cretinate? Ne dice e continua a dirne, e lo ha fatto giusto a proposito della propria dichiarazione: spiegando che lui, quando parlava di “innocenti” (che appunto non finirebbero in carcere), intendeva in realtà riferirsi agli “assolti”. E vediamo se qualcuno gli domanda se tra gli assolti (dopo) non c’è qualcuno che (prima) s’è fatto la sua bella galera. Ma si ripete: da questo qui cosa vuoi pretendere? Sono gli altri, alleati e presunti oppositori, a lasciare le cose come stanno e anzi a lasciare che si aggravino, e non è che una politica più grammaticata e presentabile serva a impedire l’ignominia delle carcerazioni ingiuste. Le prigioni sono piene di gente che in prigione non dovrebbe starci, ed è su questo, magari, che bisognerebbe fare qualcosa. È questa la “barbarie”, prima che la boutade tontolona del ministro guardasigilli. Prima e dopo, come detto: perché gli innocenti continuano a finire in carcere, e se è vero che ingiustamente qualcuno ce li manda è anche più vero che qualcun altro, altrettanto ingiustamente, ce li lascia. Ed è, questa, una responsabilità che non s’attenua imbrigliando la disinvoltura giustiziera di un ministro grillino.

Lodovica Bulian per il Giornale il 25 gennaio 2020. Le manette arrivano di notte, all' alba. Le accuse hanno nomi e cognomi, a volte celebri, spesso sconosciuti. Diventano nel migliore dei casi proscioglimenti, nel peggiore condanne che poi si trasformano in assoluzioni attraverso anni di processi, di calvario, di carcere. Clamorosi errori. Innocenti in cella. Ci siamo sbagliati. Fuori con tante scuse e risarcimenti dallo Stato: 27mila persone hanno subito un' ingiusta detenzione dal 1992 al 2018.

1970, apice del successo. Le accuse sono di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Per Lelio Luttazzi, cantante, musicista, volto televisivo, si aprono le porte del carcere: «Per tanto tempo mi sono portato dentro una rabbia senza fine contro il pubblico ministero che mi aveva interrogato e non mi aveva creduto». Il pm non gli aveva creduto. Rimase 27 giorni in prigione prima di essere prosciolto e liberato da un madornale sbaglio giudiziario nato da una telefonata fatta per conto di Walter Chiari. Ne rimase segnato per sempre.

1983, apice del successo. I carabinieri bussano alle 4 del mattino. Poco dopo Enzo Tortora esce in manette. L' accusa è di far parte della nuova Camorra, di essere un corriere della droga. Quel giorno Tortora non condurrà Portobello, finirà a Regina Coeli. Contro di lui ci sono testimonianze di «pentiti» e un' agendina con il suo nome: in realtà vi era scritto Tortona e non Tortora. E i centrini scambiati per partite di droga in verità erano solo centrini di seta inviati dal carcere da un camorrista. Sette mesi in prigione, poi la condanna in primo grado a dieci anni. Eppure «sono innocente - diceva - Lo grido da tre anni. Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». L' assoluzione con formula piena arriva in appello, nel 1986. La fine dell' incubo solo con la Cassazione il 1987, un anno prima della morte per tumore ai polmoni: «Mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro».

2010, apice del successo. Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, viene nominato da Forbes «13esimo uomo più ricco di Italia». L' accusa è di associazione per delinquere finalizzata a una maxi frode fiscale. Il manager rientra dalle Antille con un jet privato nella speranza di poter chiarire subito la sua posizione. Invece: «In due giorni sono passato dalla vacanza su una splendida barca a vela nel mare dei Caraibi alla cella di isolamento. C' era un mandato di arresto per un' associazione a delinquere. Sono rimasto tre mesi in cella». Altri otto ai domiciliari. Nel 2013 assoluzione in primo grado, con formula piena, confermata in appello nel 2017. L' accusa non impugna il verdetto ed è la fine dell' inferno. Quasi otto anni dopo.

2017. A venticinque anni da quella vigilia di Natale del 1992, il giorno del suo arresto per concorso esterno in associazione mafiosa, la corte di Cassazione dichiara «ineseguibile e improduttiva» la condanna a dieci anni ricevuta da Bruno Contrada. Ma l' ex 007 oggi ottantottenne, aveva già fatto quattro anni carcere e quattro ai domiciliari: «Io voglio restituito il mio onore perché sono stato condannato ingiustamente e immeritatamente. Il cognome pulito è l' unica cosa che posso dare ai miei nipoti». Già nel 2015 la Corte europea per i diritti dell' uomo aveva giudicato la sentenza illegittima: all' epoca dei fatti, negli anni Settanta e Ottanta, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, «non era sufficientemente chiaro, né prevedibile da lui. Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso».

Valentina Errante per il Messaggero il 25 gennaio 2020. L'inciampo di Alfonso Bonafede («Cosa c'entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere») tiene banco per tutta la giornata. I numeri raccontano che in tanti sono finiti dietro le sbarre ingiustamente. Tanto da ricevere, poi, un risarcimento per ingiusta detenzione: 1000 casi all'anno dal 1992 al 2018. Ma è una cifra parziale, perché spesso chi è stato arrestato, per poi essere rimandato a casa da una sentenza di proscioglimento o da un'assoluzione, o ancor prima da un'archiviazione delle accuse, non chiede allo Stato di riparare il danno in termini economici. La frase del Guardasigilli fa scoppiare una bufera politica e a intervenire è anche Gaia Tortora, figlia di Enzo, diventato il simbolo di chi ha patito la galera e la gogna senza aver commesso alcun reato. Dall'inizio del 1992 al 31 dicembre 2018 le richieste che si sono concluse con un risarcimento per ingiusta detenzione sono stati 27mila. «Mille all'anno, tre al giorno, uno ogni otto ore», commenta Gian Domenico Caiazza, presidente dell'Unione Camere penali. Da allora gli arresti ingiusti sono costati allo Stato 700 milioni di euro. Nel solo 2018 i casi sono stati 913, con un peso, per le casse pubbliche, di 48 milioni. Per l'Unione camere penali, però, solo una parte degli aventi diritto chiede effettivamente di ottenere un risarcimento, quindi le cifre sarebbero molto più alte. Non solo: non tutte le persone che ne fanno richiesta ottengono la riparazione del danno subito. L'istruttoria è complessa e basta poco per non rientrare tra gli aventi diritto. Ad esempio, la scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere durante le indagini preliminari o durante il processo, potrebbe costituire un pregiudizio: il soggetto in questione, con la sua condotta, avrebbe contribuito a determinare l'errore della magistratura. Secondo le statistiche nel 2017 il 50 per cento dei processi con rito ordinario si è concluso con una sentenza di assoluzione. Nel calcolo non rientrano gli errori giudiziari: l'istituto giuridico che presuppone la sussistenza di una revisione del processo dopo una condanna definitiva. Dal 91 al settembre 2018, si sono verificati 144 casi. Da gennaio a settembre 2018 ne sono stati contati 9. La bufera investe immediatamente il ministro della Giustizia. Ad attaccarlo, oltre agli esponenti dell'opposizione, sono anche i Cinquestelle. Bonafede tenta di raddrizzare il tiro, risponde anche a Gaia Tortora che a stretto giro, su Twitter, aveva chiesto chiarimenti: «Ministro le chiedo di spiegare la sua frase ad Otto e Mezzo gli innocenti non finiscono in carcere. Grazie». Il Guardasigilli spiega su Facebook: «Mentre si stava parlando di assoluzioni e condanne - spiega - ho specificato che gli innocenti non vanno in carcere riferendomi evidentemente e ovviamente, in quel contesto, a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l'appunto, confermata dallo Stato). Ad ogni modo la frase non poteva comunque destare equivoci, perché subito dopo ho specificato a chiare lettere che sulle ipotesi (gravissime) di ingiusta detenzione, sono il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare i casi di ingiusta detenzione». E aggiunge: «per la prima volta ho introdotto presso l'Ispettorato in maniera strutturata il monitoraggio e la verifica dei casi di riparazione per ingiusta detenzione, anche in occasione delle ispezioni ordinarie». La spiegazione di Bonafede accontenta Gaia Tortora, ma non basta alla politica. Il ministro viene travolto da un fuco di fila. Prima e dopo la sua precisazione. In primis Matteo Salvini: «Gli innocenti non vanno in carcere? - tuona il leader della Lega - un ministro così ignorante l'Italia non l'ha mai avuto, questa sciocchezza il signor Bonafede la vada a raccontare ai familiari delle migliaia di cittadini ingiustamente incarcerati. Che si dimetta». Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia, commenta su Twitter: «L'Italia è quel posto in cui i processi sono interminabili e i casi di malagiustizia innumerevoli, ma il ministro della Giustizia Bonafede cancella la prescrizione e dice che gli innocenti non vanno in galera. Gli innocenti, purtroppo, ci vanno eccome. Più di 26.000 in 20 anni». Rincara la dose Enrico Costa, il deputato di Forza Italia che ha tentato di bloccare, con una sua proposta di legge, la riforma della prescrizione: «Bonafede è un ministro che calpesta la Costituzione, nel silenzio del Pd». E invece gli attacchi arrivano anche dai dem: «No caro ministro Alfonso Bonafede, in galera purtroppo possono finirci anche gli innocenti. Per questo la nostra Costituzione prevede la possibilità di ricorrere in Cassazione contro ogni provvedimento, tre gradi di giudizio e la possibilità di revisionare i processi», scrive su Twitter il parlamentare Andrea Orlando. Un ripasso della carta costituzionale è il suggerimento del dem Matteo Orfini. 

Gaia Tortora contro Travaglio: «Finora ho sopportato e sono stata una signora. Mavaff…». Redazione de Il Secolo D'Italia domenica 26 gennaio 2020. Gaia Tortora non ne può più. E in un post pubblicato sul suo profilo Twitter attacca duramente Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano. «”Non c è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere”. Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio..Mavaffanc…o». La giornalista e conduttrice di Omnibus su La7 scoppia dopo aver letto un articolo dal titolo Bonafede e malafede.

Gaia Tortora attacca Travaglio. Travaglio si occupa della figuraccia del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a Otto e mezzo sulla prescrizione. E pontifica. Dopo avere scritto che non «c’è nulla di scandaloso se un “presunto innocente” è in carcere. È la legge che lo prevede». Passa alla prescrizione.  Scrive Travaglio: «L’argomento “innocenti in carcere” non c’entra nulla con la blocca-prescrizione. Che non manda in carcere nessun innocente. Serve solo a buttarla in caciara. Come quando si parlava degli scandali di B.. E i suoi servi strillavano: “E le foibe? Cuba? Stalin? E Pol Pot?”. Stupefatto da un’obiezione così strampalata, Bonafede risponde: “Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere…”. Senza aggiungere ciò che la sua frase sottintende: “…con la blocca-prescrizione”». Si scatenano le polemiche. E Travaglio indossa le vesti di difensore di Bonafede. «Se il dibattito fosse fra persone competenti e in buona fede – scrive – l’equivoco si chiuderebbe lì. Invece si scatena la solita canea politico-mediatica sulla presunta “gaffe” del ministro ignorante. Manettaro e giustizialista. Mentre le lobby avvocatesche chiedono la sua testa. E i giuristi per caso lo sbeffeggiano sui giornaloni tirando in ballo Enzo Tortora. Cioè fingendo di non capire o non capendo proprio».

Gaia Tortora, i commenti del web. Tantissimi i commenti al post di Gaia Tortora. Scrive un utente: «Brava Gaia. È un animale uno che scrive certe cose. I barbari veri». E un altro aggiunge: «Travaglio è il peggio del peggio… Presunzione di innocenza? Si è innocenti fino a prova contraria, tant’è che si parla di presunto colpevole. Questo è attacco allo stato diritto». E c’è chi ricorda Enzo Tortora: «Suo Padre sia benedetto per l’eternità, persona perbene come poche, grande uomo e uno dei migliori professionisti di sempre della tv e dello spettacolo. Un innocente che per la protervia e inadeguatezza dei magistrati dell’epoca è diventato il martire di una giustizia che stenta!».

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 27 gennaio 2020. Ieri ho scritto un' ovvietà, nota a chiunque abbia una vaga idea di diritto penale: "I detenuti in custodia cautelare (arrestati prima della sentenza in base a "gravi indizi di colpevolezza" per evitare che fuggano o inquinino le prove o reiterino il reato), per la nostra Costituzione, sono presunti innocenti. Quindi non c'è nulla di scandaloso se un 'presunto innocente' è in carcere: è la legge che lo prevede. Solo la sentenza definitiva dirà se era colpevole o innocente". L'informazione, essendo corretta, ha molto urtato Gaia Tortora. Infatti la vicedirettrice del TgLa7, anziché spiegare quale sarebbe il mio eventuale errore, ha soavemente twittato: "Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio Mavaffanculo". Le ho scritto via sms di informarsi e studiare prima di insultare. E, siccome la poveretta insisteva imperterrita, le ho brevemente spiegato la differenza fra carcere per custodia cautelare e per espiazione pena. Invano. Allora le ho preannunciato un corso di recupero per ciucci. Infatti subito dopo il circoletto dei giuristi per caso e dei garantisti alle vongole giù giù fino a Renzi ha iniziato a twittare compulsivamente contro di me, solidarizzando con l' insultatrice anzichè con l' insultato. Casomai fossero interessati a qualche informazione vera, comunico che la custodia cautelare riguarda gli indagati e gli imputati a cui i giudici limitano la libertà prima della sentenza definitiva, in presenza di "gravi indizi di colpevolezza", per evitare che fuggano, o inquinino le prove, o reiterino il reato. Quindi, per la Costituzione, sono tutti "presunti innocenti", anche se già si sa che sono sicuramente colpevoli: anche se sono stati colti in flagrante col coltello nella pancia del morto, se la vittima o un testimone li ha visti e denunciati, se hanno confessato, se sono stati filmati o fotografati o intercettati mentre commettevano il reato. Dunque tutti i detenuti in custodia cautelare sono "presunti innocenti". Non lo dico io, ma il Codice di procedura penale (artt. 272-315) e la Costituzione (art. 27 comma1): ora, volendo, la Tortora e i suoi amichetti somari possono mandare affanculo pure quelli.

Da liberoquotidiano.it il 27 gennaio 2020. Continua lo scontro a distanza tra Gaia Tortora e Marco Travaglio in materia di giustizia. Nella mattinata del 26 gennaio la conduttrice di Omnibus su La7 se l'era presa per l'editoriale del direttore del Fatto Quotidiano, secondo cui "non c'è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere". La figlia del noto Enzo Tortora aveva perso la pazienza: "Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio... Mavaffanculo". Nel pomeriggio Gaia ha rincarato la dose con un altro tweet al vetriolo: "Chiedo al Signor Marco Travaglio di ripetere in pubblico ciò che mi sta scrivendo via sms e che custodirò gelosamente. Perché al peggio non c'è mai fine". Che cosa farà adesso il direttore del Fatto?

Da huffingtonpost.it il 27 gennaio 2020. Sembrava essere scemata la polemica sulle parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sugli innocenti in carcere. Il Guardasigilli aveva chiarito con un post su Facebook l’equivoco ma non aveva fermato la polemica politica. A scatenare di nuovo uno scontro è un editoriale di Marco Travaglio, che ha suscitato la reazione indignata di Gaia Tortora. In un articolo intitolato “Bonafede e Malafede”, il direttore del Fatto Quotidiano scrive: “Non c’è nulla di scandaloso se un innocente finisce in carcere: è la legge che lo prevede”. Si riferiva ai detenuti in custodia cautelare, che vengono messi in carcere in attesa di giudizio per il timore che inquinino le prove, scappino, o ricommettano il reato, ma che, come specifica Travaglio, “sono presunti innocenti”. Ma la frase non è piaciuta a Gaia Tortora, figlia di Enzo Tortora, che su Twitter lo ha attaccato: “Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere” finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio..Mavaffanculo”. All’indomani delle affermazioni del Guardasigilli - che aveva detto, “cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere”, riferendosi alle persone assolte - Gaia Tortora aveva smorzato la polemica. “Il Ministro Alfonso Bonafede ha chiarito con un post il malinteso che ritengo tale. Posso avere una idea diversa sulla riforma della giustizia ma conoscendolo non credevo a cosa avevo sentito. Un indispensabile chiarimento. Ora niente gogne.Grazie per la risposta”. Travaglio, però, le ha fatto perdere la pazienza.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 29 gennaio 2020. […] Siamo ai livelli del falso sillogismo di Montaigne: "Il salame fa bere. Bere disseta. Dunque il salame disseta". […] Ps. A proposito di sillogismi, ci sarebbero pure i "giornalisti" e i "politici" che solidarizzano da tre giorni con Gaia Tortora perché ho scritto cose vere senza nominarla né pensarla, lei mi ha mandato affanculo su Twitter, dunque lei è la vittima e io l' aggressore. Ma quella non è né logica né illogica: è cabaret.

Insulti a Gaia Tortora e manette per gli innocenti: fermate Travaglio, ha perso la testa. Piero Sansonetti il 28 Gennaio 2020 su Il Riformista. Gaia Tortora è una giornalista molto seria, estremamente sobria, attenta. La conosco soprattutto come conduttrice in Tv. Non cerca mai di stupirti, cerca solo di costringerti a stare alle cose, a rispettare i fatti. Personalmente la conosco molto poco, non so che tipo sia, professionalmente, è una delle migliori, anche se il suo stile è in controtendenza rispetto al gilettismo vincente. Gaia Tortora è figlia di Enzo Tortora. Tra le sue doti c’è quella di non avere mai fatto per mestiere la figlia di Enzo Tortora. Preferisce essere Gaia e migliorare sempre le sue capacità di giornalista piuttosto che vendersi la memoria di famiglia. L’altro giorno ha compiuto un atto che non assomiglia per niente all’immagine che ho di lei. Ha sbottato. Quando ha letto che Marco Travaglio sostiene che non c’è niente di male a mettere in prigione anche un po’ di innocenti, non ci ha visto più e ha fatto un tweet semplice semplice ma pieno di ragionevole ira: “mavaffanculo”. Travaglio si è molto arrabbiato e le ha risposto citando diversi articoli del codice penale (che lui considera uno dei testi filosoficamente e culturalmente più alti della letteratura italiana) e spiegando che sono proprio le leggi del nostro Paese che impongono, giustamente, di mettere in prigione anche gli innocenti. Allora è bene riprendere tutta la storia dall’inizio. Per due ragioni. Primo, per spiegare a Travaglio alcuni errori che commette per scarsa conoscenza del problema (e suggerirgli di abbandonare Davigo, come consigliere, e trovarne uno più preparato); secondo, per capire qual è la concezione politica di Travaglio, e il suo progetto di società futura, tenendo conto anche del fatto che in questi giorni, dopo le dimissioni di Di Maio, lui, di fatto, ha assunto in modo diretto la guida del Movimento Cinque Stelle. La storia è questa. Il povero ministro Bonafede, quando una giornalista di Repubblica – Annalisa Cuzzocrea – gli pone, assai gentilmente, durante la trasmissione “Otto e Mezzo”, una domanda sugli innocenti in prigione, risponde cadendo dalle nuvole: «Non ci sono innocenti in galera». La Cuzzocrea, sbalordita, gli fa notare che i dati ufficiali del ministero parlano di circa 1000 innocenti all’anno passati per la prigione. E lui – Bonafede – balbetta: «Ma questo è un altro discorso…». E poi cambia argomento e viene salvato dal gong. Il giorno dopo qualcuno probabilmente lo avverte che ha fatto una figuraccia. E allora lui precisa: «Io mi riferivo alle persone assolte, e spiegavo che se una persona viene assolta, in Italia, poi non viene messa in prigione». Dimostrando in questo modo non solo una fede incrollabile nella propria ferrea logica surrealista, ma anche una scarsa conoscenza della Costituzione, che non prevede la necessità di essere assolti per essere considerati innocenti, ma anzi dichiara a chiare lettere che tutti noi siamo innocenti – o comunque non colpevoli – fino alla condanna definitiva. Caso chiuso, ragionevolmente, anche perché nessuno ha tanta voglia di fare polemiche con Bonafede che – questo è noto – sa qualcosa, forse, di matematica e di astrologia, ma non fategli mai domande sul diritto perché non è materia sua. E invece Marco Travaglio, che anche lui non è che ne sappia molto di diritto, il giorno dopo è intervenuto a difesa del suo ministro, coraggiosamente, per spiegare che non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere, e per farci sapere che esiste un solo vero errore giudiziario: quello che avviene quando si scarcerano dei colpevoli. Non so se Bonafede l’ha presa bene, perché in realtà Travaglio non ha scritto che il suo ministro aveva ragione a dire che non ci sono innocenti in carcere, ma ha scritto che è una cosa buona e giusta che ci siano questi innocenti in carcere. Aiuta la società a essere più sana. So però come l’ha presa Gaia Tortora. Che ha giudicato esagerato e oltre i limiti del surrealismo l’amor di forca di Travaglio e si è lasciata andare ritorcendogli contro il grido di battaglia del suo M5S: “Vaffanculo”. Ma la storia non finisce qui. Travaglio inizia – a quanto si sa – a tempestare la Tortora di sms nei quali l’accusa di essere ciuccia e le offre un corso di recupero. Per spiegare che cosa? Che quei 27mila ingiustamente detenuti che hanno ricevuto il risarcimento per ingiusta detenzione, erano in realtà giustamente detenuti perché su di loro pesavano gravi indizi, e perché c’era il rischio di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Ovviamente non è vero. Purtroppo non disponiamo delle cifre ufficiali sulla ingiusta detenzione, perché i ministri della giustizia non si sono mai decisi a fornirle. Però le cose stanno così. Un numero molto grande di ex prigionieri assolti (pare che siano circa 75mila negli ultimi 25 anni) ha chiesto il risarcimento, ma solo 27mila l’hanno ottenuto. Agli altri è stato risposto che non ne hanno diritto, perché pur essendo loro sicuramente innocenti, hanno tenuto però, prima di essere arrestati, comportamenti di scarso livello etico e hanno frequentato persone di pessima reputazione, e in questo modo hanno indotto i Pm all’errore. Per gli altri 27mila invece la magistratura ha accertato che proprio non c’era nessunissima ragione per arrestarli. Capito: nessunissima ragione, mancavano i presupposti. Siccome non esiste la responsabilità del Pm, il Pm che ha commesso l’errore non è tenuto in nessun modo a risponderne (e questo prevede la legge, e dunque, come dice Travaglio, va bene così. Come andava bene così anche quando la legge, che è sempre la legge, prevedeva che i bambini ebrei fossero buttati fuori dalle scuole, e non si capisce bene, se tutto era legale, perché poi si sono fatte tante storie co’ ‘sta storia del razzismo…), tuttavia l’ex carcerato, almeno in questo caso, ha diritto al risarcimento. E lo Stato, gli dice: scusa, la tua carcerazione è stata ingiusta. Dice così: ingiusta. E la parola “ingiusta” (breve ripetizione di italiano con l’aiuto di Zingarelli, è il contrario esatto della parola “giusta”. Ora, per concludere, si pongono tre problemi. Il primo è questo: perché i Pm arrestano le persone pur non essendoci le condizioni di legge per arrestarle? La risposta è semplice: per farle confessare o per indurle ad accusarne altre. Questo – bisogna rendergliene atto – Davigo lo ha sempre ammesso. e non solo lui. Ma questo è massimamente illegale.

Secondo problema: come si può impedire questo scempio? In un solo modo: approvando una legge che dica che i presunti innocenti possono essere arrestati, prima della condanna, solo se sono pericolosi. Altrimenti si giudicano a piede libero. Si tratterebbe di fare un decreto “spazzaingiustizie”.

Terzo problema. Se Travaglio continuerà, quando scrive di diritto, a farsi ispirare da Davigo, sono guai. La cosa migliore è che si rivolga a un esperto. Ce ne sono tanti anche nel campo giustizialista. Persone preparate. Gustavo Zagrebelsky, per esempio, è uno che sa tutto di diritto e di Costituzione. Marco, lascia stare Davigo, che ti frega, citofona a Zagrebelsky.

Gaia Tortora contro Travaglio: "Il vaffa? Non mi scuso". Nuovo capitolo della querelle tra i due giornalisti. La figlia del compianto Enzo al direttore del Fatto: "Mio padre è morto di malagiustizia e pessimo giornalismo". Alberto Giorgi, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Gaia Tortora versus Marco Travaglio, capitolo secondo. La figlia di Enzo Tortora nei giorni scorsi ha sbottato contro il direttore de Il Fatto Quotidiano, commentando un'infelice uscita del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in materia, appunto, di (mala)giustizia italiana. Tutto nasce nello studio di Otto e mezzo, dove il Guardasigilli si lascia andare a una considerazione piuttosto mendace. Quale? Eccola: "Gli innocenti non vanno mai in carcere". Nello studio di Lilli Gruber ci pensa la giornalista (di Repubblica) Annalisa Cuzzocrea a smentire prontamente il ministro del Movimeno 5 Stelle: "Beh, dal 1992 al 2018 sono state ben 27mila le persone risarcite dallo Stato per essere state messe in progione da innocenti. Quindi, ministro, gli innocenti in carcere ci finiscono eccome…". La sparata di Bonafede è stata particolarmente indigesta per Gaia Tortona, visto che suo padre fu condannato a dieci anni di carcere per associazione camorristica e traffico di droga. Il conduttore televisivo fu (ingiustamente) accusato da soggetti criminali e sulla base di tali accuse infondate fu ingiustamente incarcerato. Dopo sette mesi di reclusione, arrivò a condanna a 10 anni e solo dopo un anno Tortora fu scarcerato perché riconosciuto innocente. Per questa brutta storia, il suo nome è legato a doppio filo alla malagiustizia tricolore. Tortora morì un anno dopo la sua definitiva assoluzione. Ecco, quando la sfortunata uscita del Guardasigilli è stata difesa dal direttore del Fatto (che nel suo editoriale ha definito "non scandalosa" l'ingiusta detenzione), la giornalista lo ho attaccato duramente con un tweet al fulmicotone: "'Non c'è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere'. Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio...Mavaffanculo". Ora, intervistata da Libero, la vicedirettrice del TgLa7, non fa nessun passo indietro e anzi torna alla carica: "Travaglio non lo scuso. Anche se legale resta scandaloso che un innocente sia in carcere, anche solo per una notte". E affonda: "Travaglio usa per sostenere le sue tesi gli stessi argomenti dell’ex pm Davigo. Sono il suo cavallo di battaglia, e poi vuol far credere di essere l'unico giornalista in Italia che conosce il diritto; invece non è così, io la giustizia italiana la bazzico dai tempi delle medie, per vicende personali non piacevoli. Ma quello che è ancora più scandaloso rispetto a quel che scrive è che Travaglio per difendere le sue idee insulti i colleghi". Infine, un pensiero al papà morto ne 1988: "Io so che mio padre è morto di malagiustizia, ma anche di pessimo giornalismo. In questo senso è morto invano, perché la sua vicenda ha insegnato poco ai colleghi e ancor meno a parte della magistratura".

Gaia Tortora: ""Travaglio non lo scuso. Anche se legale resta scandaloso che un innocente stia in carcere, anche se solo per una notte". Il Corriere del Giorno il 3 Febbraio 2020. “Travaglio usa per sostenere le sue tesi gli stessi argomenti dell’ex pm Davigo Sono il suo cavallo di battaglia, e poi vuol far credere di essere l’unico giornalista in Italia che conosce il diritto; invece non è così”. “Il dibattito non può fermarsi solo sulla prescrizione E’ il vizio della politica italiana, concentrarsi su un particolare, scatenare un impazzimento generale e non risolvere mai nulla”. La polemica è stata causata dal ministro guardasigilli  Alfonso Bonafede che in un programma televisivo manifestando la sua manifesta limitata conoscenza del settore giustizia ha sostenuto che in Italia gli innocenti non finiscono in carcere (precisando successivamente, “gli assolti“). Nello studio televisivo ci ha pensa la giornalista Annalisa Cuzzocrea (La Repubblica) a smentire prontamente il ministro del Movimeno 5 Stelle: “Beh, dal 1992 al 2018 sono state ben 27mila le persone risarcite dallo Stato per essere state messe in prigione da innocenti. Quindi, ministro, gli innocenti in carcere ci finiscono eccome…”. Subito dopo è arrivato Marco Travaglio con la sua nota spocchia arrogante e la pretesa di dare lezioni ai giornalisti, sostenendo che Bonafede ha ragione, che “non è scandaloso” se qualcuno va dentro anche se innocente, perché lo prevede la legge. A seguito di tutto ciò la giornalista de La7, Gaia Tortora, figlia di Enzo, ha accantonato la pazienza ed ha mandato a quel paese via Twitter il direttore del Fatto Quotidiano, ed intervistata dal quotidiano Libero è tornata sullo scontro dialettico: “Travaglio non lo scuso. Anche se legale resta scandaloso che un innocente sia in carcere, anche solo per una notte”. “Travaglio usa per sostenere le sue tesi gli stessi argomenti dell’ex pm Davigo – ha detto Gaia Tortora-. Sono il suo cavallo di battaglia, e poi vuol far credere di essere l’unico giornalista in Italia che conosce il diritto; invece non è così, io la giustizia italiana la bazzico dai tempi delle medie, per vicende personali non piacevoli, Ma quello che è ancora più scandaloso rispetto a quel che scrive è che Travaglio per difendere le sue idee insulti i colleghi”. Per  Gaia Tortora quindi la questione non è affatto definitiva. Al giornalista che le chiede perché ha deciso di rompere il silenzio con Travaglio, risponde: “L’ho fatto altre volte. Quest’ultima non so, sono cose che ti vengono da dentro. Certo quel “non è scandaloso” mi ha indignato”. Per Gaia Tortora i giornalisti hanno le loro responsabilità, alimentando lo scontro sulla giustizia  tra garantisti e manettari,  tornando sulla vicenda di suo padre ha detto: ” “Io so che mio padre è morto di malagiustizia, ma anche di pessimo giornalismo. In questo senso è morto invano, perché la sua vicenda ha insegnato poco ai colleghi e ancor meno a parte della magistratura”. Nella sua intervista la figlia di Enzo Tortora ricorda quel che suo padre  le raccontava sul carcere, ” ti marchia e agli occhi dell’opinione pubblica, o almeno di una parte di essa, resti comunque un individuo sospetto. La cosa lo faceva impazzire”, aggiunge Gaia. Che ha esternato il suo pensiero sul tema “caldo” che sta mettendo a rischio l’alleanza di maggioranza del governo: la prescrizione. “Il dibattito non può fermarsi solo sulla prescrizione (argomento sul quale Gaia Tortora è favorevole). E’ il vizio della politica italiana, concentrarsi su un particolare, scatenare un impazzimento generale e non risolvere mai nulla”. La sparata di Bonafede è stata particolarmente indigesta per Gaia Tortona, dopo che suo padre fu condannato a dieci anni di carcere per associazione camorristica e traffico di droga. Il conduttore televisivo venne ingiustamente accusato da soggetti criminali e sulla base di tali accuse infondate fu ingiustamente incarcerato. Dopo sette mesi di reclusione, arrivò a condanna a 10 anni e solo dopo un anno Tortora fu scarcerato perché riconosciuto innocente. Per questa brutta storia, il suo nome è legato a doppio filo alla malagiustizia tricolore. Enzo Tortora morì un anno dopo la sua definitiva assoluzione.

La rabbia di Gaia Tortora: “Mio padre morto di malagiustizia e pessimo giornalismo”. Redazione su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. «Mio padre è morto di malagiustizia ma anche di pessimo giornalismo. In questo senso è morto invano, perché la sua vicenda ha insegnato poco ai colleghi e ancor meno a parte della magistratura». A dirlo in una intervista apparsa ieri sul quotidiano Libero è Gaia Tortora, giornalista, vicedirettrice del tg di La7 e figlia di Enzo: una delle più note vittime della giustizia italiana. Nei giorni scorsi Gaia Tortora era sbottata su Twitter indirizzando un sonoro “Mavaffanculo” a Marco Travaglio che in un editoriale sul Fatto aveva sostenuto che «non c`è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere». Travaglio, allora, ha accusato Tortora di essere una ciuccia e le ha preannunciato “un corso di recupero”, perché che un “presunto innocente” possa finire in galera “lo prevede la legge” e “solo la sentenza definitiva dirà se era colpevole o innocente”, ha replicato in un secondo articolo. «Può pensarla così solo chi non si è mai ritrovato accusato di quel che non aveva mai fatto. Sono argomentazioni da azzeccagarbugli», afferma Gaia Tortora nel suo lungo colloquio con Pietro Senaldi su Libero. «Lui (Travaglio ndr) usa per sostenere le sue tesi gli stessi argomenti dell`ex pm Davigo. Sono il suo cavallo di battaglia, e poi vuol far credere di essere l`unico giornalista in Italia che conosce il diritto; invece non è così, io la giustizia italiana la bazzico dai tempi delle medie, per vicende personali non piacevoli. Ma quello che è ancora più scandaloso rispetto a quel che scrive è che Travaglio per difendere le sue idee insulti i colleghi». A proposito di colleghi, Tortora ammette che la vicenda l’ha fatta riflettere anche sulla propria categoria. «Ho ricevuto della solidarietà, ma ho anche constatato che, quando fai certe battaglie e ti esponi, non sono in tanti quelli che ti dicono coraggio, vai avanti. Io sono stata insultata». E ricorda come anche il cattivo giornalismo abbia giocato un ruolo nel calvario del padre Enzo, incarcerato e condannato ingiustamente, esposto alla gogna mediatica e poi assolto: «Non è morto in pace, non si è mai riconciliato con il sistema. Lui poi mi diceva sempre che il carcere ti marchia e agli occhi dell`opinione pubblica, o almeno di una parte di essa, resti comunque un individuo sospetto. La cosa lo faceva impazzire», racconta nell’intervista. Per Gaia Tortora, sul carcere preventivo si potrebbero fare dei cambiamenti, «Ci sono misure alternative. Le carceri scoppiano, e noi veniamo condannati dall`Europa per le condizioni di detenzione ma metà dei prigionieri sono in attesa di giudizio. Non c`è volontà politica di risolvere la situazione», denuncia. E a Senaldi che le chiede se i giudici debbano pagare per i propri errori risponde senza indugio: «Sì, specie quando penso che i responsabili dell`inferno di mio padre hanno fatto tutti ottime carriere». Ma non avviene perché «quella della magistratura è la lobby più potente che c`è in Italia. Uno dei mali della giustizia è proprio che i giudici pretendono di non essere mai messi in discussione. E la politica va loro dietro, asserendo che le sentenze non si commentano». Per lei la prescrizione va reintrodotta, «ma vorrei una riflessione più ampia sulla giustizia» che è «il problema numero uno in Italia, e non solo per gli innocenti in carcere, ma perché la burocrazia e la lentezza e incertezza dei processi sono un freno al lavoro delle imprese di casa nostra e allontanano dall’Italia gli investimenti stranieri». E riguardo al governo dice: «I grillini hanno il giustizialismo nel dna, ci hanno preso i voti, come con il reddito di cittadinanza. Dal Pd però mi aspetterei un ragionamento vero sul tema giustizia. Renzi aveva provato a metterci mano, forse anche per questo ora si ritrova con le inchieste in casa». Secondo la giornalista, il Pd «ha sempre approcciato il problema con troppa timidezza», inoltre «non ha mai fatto del garantismo una propria battaglia». E conclude: «Scontrarsi con la magistratura è difficile. Le sentenze le fanno i giudici e se li attacchi poi spunta sempre fuori qualcosa…».

Gaia Tortora dopo la lite con Travaglio: "Mio padre è morto invano. E il Pd non si sveglia". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. «Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta, Travaglio. Mavaffanculo». Con questa uscita sui suoi social, Gaia Tortora, vicedirettore del tg di La7 nonché figlia di una delle più famose vittime della giustizia italiana, ha fatto irruzione nel dibattito sullo stato del nostro sistema penale una settimana prima dell' inaugurazione dell' anno giudiziario. A farle perdere le staffe, un articolo di Travaglio nel quale il direttore del Fatto Quotidiano scriveva che «non c' è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere». Poiché il carcere preventivo è ammesso dalla legge e anche il peggior assassino è presunto innocente fino al terzo grado di giudizio, la galera anche per chi poi si rivelerà non colpevole è una spiacevolezza funzionale al sistema, è la tesi del miglior amico di Davigo nel panorama della stampa italiana. «Può pensarla così solo chi non si è mai ritrovato accusato di quel che non aveva mai fatto. Sono argomentazioni da azzeccagarbugli» è la replica che Gaia Tortora affida a Libero in questa intervista.

Peggio il Guardasigilli Bonafede che dice che in Italia gli innocenti non finiscono in carcere o Travaglio che accomuna colpevoli e non colpevoli dicendo che in fondo sono tutti presunti innocenti?

«Quella di Bonafede è stata una gaffe, alla quale il ministro ha messo una pezza precisando che si riferiva agli assolti e non agli innocenti. Diciamo che è stato un malinteso, perché vorrei vedere che un assolto finisse in carcere Travaglio invece non lo scuso. Anche se legale, resta scandaloso che un innocente sia in carcere, anche solo per una notte. E i dati ci dicono che ogni giorno in Italia vengono arrestati tre innocenti: neppure questo è scandaloso?».

Anche sabato il direttore del Fatto è intervenuto sulla vicenda. Come mai?

«Lui usa per sostenere le sue tesi gli stessi argomenti dell' ex pm Davigo. Sono il suo cavallo di battaglia, e poi vuol far credere di essere l' unico giornalista in Italia che conosce il diritto; invece non è così, io la giustizia italiana la bazzico dai tempi delle medie, per vicende personali non piacevoli. Ma quello che è ancora più scandaloso rispetto a quel che scrive è che Travaglio per difendere le sue idee insulti i colleghi».

Il primo vaffanculo però è tuo

«Sai che per la Cassazione non è reato, equivale a smettila di importunarmi. Se avessi detto poveretto invece, l' avrei offeso».

Quindi è lui che ha commesso reato?

«Ormai dipende tutto dall' interpretazione personale del giudice che ti tocca in sorte».

Il quale nella sua valutazione può essere influenzato anche da chi offende e da chi è offeso, oltre che dal contenuto dell' offesa?

«Se tutto diventa opinione, il diritto sfuma».

Perché hai deciso di rompere il silenzio sulla giustizia proprio dopo l' articolo di Travaglio?

«L' ho fatto altre volte. Quest' ultima non so, sono cose che ti vengono da dentro. Certo, quel "non è scandaloso" mi ha indignato. Io ho una storia di ingiustizia nota e quando parlo lo faccio per dare voce a tutti quelli che la pensano come me ma non hanno il mio pulpito. La vicenda però mi ha fatto riflettere molto sulla nostra categoria».

Quali colpe abbiamo sulla giustizia?

«Il Paese è già diviso in tifoserie. Se i giornalisti alimentano lo scontro tra manettari e garantisti, tutto diventa più complicato».

Ti abbiamo deluso?

«Ho ricevuto della solidarietà, ma ho anche constatato che, quando fai certe battaglie e ti esponi, non sono in tanti quelli che ti dicono coraggio, vai avanti. Io sono stata insultata».

Anche i giornalisti sono succubi della magistratura come i politici?

«Quando appartieni a una categoria forse hai più difficoltà ad assumere posizioni di rottura. Ma è triste. Io so che mio padre è morto di malagiustizia ma anche di pessimo giornalismo. In questo senso è morto invano, perché la sua vicenda ha insegnato poco ai colleghi e ancor meno a parte della magistratura».

L' assoluzione non lo aiutò a lasciarsi alle spalle il carcere?

«No, quella storia lo cambiò radicalmente e definitivamente. Sono cose che ti restano dentro a vita. Mio padre non è morto in pace, non si è mai riconciliato con il sistema. Lui poi mi diceva sempre che il carcere ti marchia e agli occhi dell' opinione pubblica, o almeno di una parte di essa, resti comunque un individuo sospetto. La cosa lo faceva impazzire».

Il carcere preventivo però è una realtà del nostro diritto, come ricorda Travaglio.

«Questo non significa che non si possa cambiare. Ci sono misure alternative. Le carceri scoppiano, e noi veniamo condannati dall' Europa per le condizioni di detenzione ma metà dei prigionieri sono in attesa di giudizio. Non c' è volontà politica di risolvere la situazione».

Ritieni che i giudici debbano pagare per i loro errori?

«Sì, specie quando penso che i responsabili dell' inferno di mio padre hanno fatto tutti ottime carriere.

Non penso che si debba arrivare a sanzionarli economicamente, se non c' è malafede acclarata, ma negli altri lavori quando uno sbaglia subisce dei rallentamenti nella professione. È normale, e giusto».

Perché non avviene?

«Perché quella della magistratura è la lobby più potente che c' è in Italia. Uno dei mali della giustizia è proprio che i giudici pretendono di non essere mai messi in discussione. E la politica va loro dietro, asserendo che le sentenze non si commentano. Ma perché?».

Se la giustizia va male e i magistrati sono i padroni dei tribunali, non è illogico che pretendano di fornire loro le soluzioni ai problemi che creano?

«Ma questo avviene per tutte le categorie. Prendi la scuola. Gli insegnanti sono i primi a dire che non funziona, poi però se arriva Renzi e vuole inserire criteri di valutazione del lavoro dei professori per migliorare l' insegnamento, questi si ribellano. Tutti difendono il loro orticello, anche se si rendono conto che dà frutti marci».

Hai ascoltato i discorsi dei presidenti dei tribunali all' inaugurazione dell' anno giudiziario?

«Sì. E se l' allarme sulla giustizia e sull' abolizione della prescrizione arriva anche dai magistrati, forse il ministro Bonafede dovrebbe iniziare a riflettere sulla bontà della sua riforma».

Tu sei per la reintroduzione della prescrizione?

«Sì, ma vorrei una riflessione più ampia sulla giustizia. Il dibattito non può fermarsi solo sulla prescrizione. È il vizio della politica italiana, concentrarsi su un particolare, scatenare un impazzimento generale e non risolvere mai nulla. Si perde tempo continuamente».

Cosa pensi della giustizia in generale?

«È il problema numero uno in Italia, e non solo per gli innocenti in carcere, ma perché la burocrazia e la lentezza e incertezza dei processi sono un freno al lavoro delle imprese di casa nostra e allontanano dall' Italia gli investimenti stranieri. La situazione della giustizia mi preoccupa, sono trent' anni che ascolto chiacchiere e non succede mai nulla».

Dubito che un governo M5S-Pd pensi di mettere mano davvero alla giustizia.

«I grillini hanno il giustizialismo nel dna, ci hanno preso i voti, come con il reddito di cittadinanza. Dal Pd però mi aspetterei un ragionamento vero sul tema giustizia. Renzi aveva provato a metterci mano, forse anche per questo ora si ritrova con le inchieste in casa».

L' Italia oggi è più manettara?

«No, lo è meno. Anche dal mio scontro con Travaglio ho potuto notare che il Paese è meno giustizialista di quanto si creda. E anche questo dimostra lo scollamento tra la maggioranza di governo e l' Italia reale».

Cosa imputa al Pd sulla giustizia?

«Non è ben chiaro che idea abbia.

Ha sempre approcciato il problema con forte timidezza, non ha mai messo il disastro della giustizia tra le priorità da affrontare. Ora che ha varato la manovra e vinto in Emilia-Romagna, il Pd cosa vuol fare?».

Probabilmente nulla?

«Il Paese è fermo per colpa delle divisioni dell' esecutivo. Il punto è che nella maggioranza a nessuno conviene andare a votare».

Forse il Pd è in imbarazzo sul tema giustizia perché l' ha cavalcata troppo politicamente.

«Questo è il vizio d' origine. Dai tempi di Tangentopoli, poi con Berlusconi, Renzi, Salvini Il Pd non ha mai fatto del garantismo una propria battaglia».

Non è che il Pd tiene bordone ai magistrati perché gli fanno comodo?

«Io non vedo tutto questo strizzamento d' occhi. Penso più semplicemente che mettere mano alla giustizia comporti una forma di coraggio che i dem non hanno. Specie in questo momento, dove se si rompe e si va al voto vince il centrodestra. Il Pd è cambiato sulla giustizia. Non è più quello di Renzi e del Guardasigilli Orlando».

Si è arreso?

«Scontrarsi con la magistratura è difficile. Le sentenze le fanno i giudici e se li attacchi poi spunta sempre fuori qualcosa».

E poi Travaglio e Davigo sostengono che gli innocenti non devono temere i processi, perché anzi sono un' occasione attraverso la quale possono dimostrare la loro non colpevolezza.

«E ti sembra una teoria seria?». Pietro Senaldi

Da “il Fatto Quotidiano” il 3 febbraio 2020. L' intervista promette bene fin dall' incipit: "È la nostra Jennifer Aniston: un po' fidanzatina d' Italia, un po' anchorwoman, come nella serie 'Morning Show'". Parola di Michele Masneri sul Foglio. Slurp. "Però Gaia Tortora, 50 anni, plenipotenziaria delle news de La7, non ha a che fare con tipi come Brad Pitt ma piuttosto con Marco Travaglio. Al quale ha rifilato un sonoro "vaffa"perché avrebbe "scritto sul Fatto che non c' è niente di male se qualche innocente finisce in carcere" (ha scritto l' opposto, ma fa niente). E, dopo il vaffa, le ha inviato sms con "cose irripetibili". Purtroppo l' interessata dice che non erano niente di che, "non molto diversi da quello che ha scritto sul Fatto". Ahiahi, qui l' intervista si smoscia. Masneri allora domanda: "Sei turborenziana?". E lei, feroce: "Renzi è l' unica persona in grado di fare strategia politica che c' è in Italia, poi staremo a vedere". Accipicchia. Gliele canta chiare. Doppio slurp. Però - avverte - "quando fa delle cazzate glielo scrivo direttamente". Ecco, brava: quando c' è da elogiarlo, lo fa sul Foglio.  Quando c' è da criticarlo, lo fa in via riservata. Travaglio invece lo manda "affanculo" pubblicamente. Intanto, al vertice di Italia viva, i renziani solidarizzano a turno con la povera Gaia contro Travaglio che l' ha vilmente aggredita prendendosi un vaffanculo senza averla mai nominata nè pensata. Triplo slurp. Al cubo. Modello candidatura.

Quello che Travaglio e Bonafede dimenticano di dire nei loro "siparietti" d'avanspettacolo. Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2020. I numeri smentiscono il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che in tv aveva affermato: “Gli innocenti non finiscono in cella”. Dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 30 settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi: in media, 1.007 innocenti in custodia cautelare ogni anno. “Gli innocenti non finiscono in carcere”. E’ ancora oggetto di critiche e discussioni  la frase pronunciata in tv lo scorso 23 gennaio 2020, dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ospite a Otto e mezzo su La7. Il Guardasigilli, “padre” dell’abolizione della prescrizione che può rendere i cittadini italiani processabili a vita, rispondendo alla collega Annalisa Cuzzocrea del quotidiano La Repubblica  che gli aveva chiesto: “ogni tanto pensa agli innocenti che finiscono in carcere? Perché sono tantissimi” ha detto:  “Ma cosa c’entrano? Gli innocenti non finiscono in carcere”. Della serie, vallo a dire a Gaia Tortora, con quello che ha passato insieme al padre Enzo. Quando si tratta di giustizia, Gaia Tortora non riesce a trattenersi: “Ministro, le chiedo di spiegare la sua frase a Otto e mezzo "gli innocenti non finiscono in carcere". Grazie“, scrive la giornalista di La7 in un post pubblicato sul suo profilo Twitter rivolto ad Alfonso Bonafede. A smentire inesorabilmente il Guardasigilli Bonafede, sono soprattutto i numeri: infatti circa 27 mila persone dal 1992 al 2018 sono state risarcite dallo Stato italiano per essere stati mandati  da innocenti in carcere. “Mille all’anno, tre al giorno, uno ogni otto ore”, dichiara il presidente dell’ Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza. “No caro ministro Alfonso Bonafede, in galera purtroppo possono finirci anche gli innocenti. Per questo la nostra Costituzione prevede, la possibilità di ricorrere in Cassazione contro ogni provvedimento, tre gradi di giudizio e la possibilità di revisionare i processi” ha twittato l’ex ministro di giustizia Andrea Orlando (Pd) . “Gli suggerisco di leggere la Costituzione sulla quale ha giurato, evidentemente senza averla nemmeno aperta. E di correggere subito questa sciocchezza” ha aggiunto il dem Matteo Orfini. “Quella di Bonafede non va derubricata a gaffe. È l’ideologia giustizialista” ha commentato su Twitter Davide Faraone di Italia Viva. Ancora più pesante il commento del leader della Lega Matteo Salvini. “Un ministro così ignorante l’Italia non l’ha mai avuto, questa sciocchezza il signor Bonafede la vada a raccontare ai famigliari delle migliaia di cittadini ingiustamente incarcerati. Che si dimetta !“ Il costo per lo Stato, come riporta il quotidiano il Messaggero, è di 700 milioni di euro, di cui ben 48 solo nell’anno 2018. Secondo l’ Unione camere penali, soltanto una parte degli aventi diritto rivendica effettivamente un risarcimento e non tutte le persone che lo richiedono lo ottengono. Bonafede a seguito della sua sprovveduta dichiarazione ha cercato di chiarire con un post su Facebook: “Mentre si stava parlando di assoluzioni e condanne – ha scritto – ho specificato che gli innocenti non vanno in carcere riferendomi evidentemente e ovviamente, in quel contesto, a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’ appunto, confermata dallo Stato). Ad ogni modo la frase non poteva comunque destare equivoci, perché subito dopo ho specificato a chiare lettere che sulle ipotesi (gravissime) di ingiusta detenzione, sono il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare i casi di ingiusta detenzione. Per la prima volta ho introdotto presso l’ Ispettorato in maniera strutturata il monitoraggio e la verifica dei casi di riparazione per ingiusta detenzione, anche in occasione delle ispezioni ordinarie“. Ma analizziamo cosa dicono invece i numeri reali. Il carcere come “misura cautelare”. La Costituzione stabilisce all’articolo 27 (comma 2) il principio di presunzione di non colpevolezza: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva“, che normalmente può arrivare al termine dei tre gradi di giudizio. Sarebbe bene spiegare che qualche penalista spiegasse meglio al Guardasigilli che chi finisce in carcere, non è detto che sia già stato condannato. Può infatti essere un presunto colpevole per cui dopo l’arresto, è stata disposta  la misura cautelare più severa: il carcere, appunto (in questo caso si parla nello specifico di “custodia cautelare in carcere”). Semplificando per i meno esperti di problemi di giustizia, un presunto colpevole può finire in carcere da un lato perché le prove a suo carico, in base alla legge, sono molto convincenti, dall’altro perché , secondo i giudici, lasciarlo libero potrebbe costituire un pericolo , commettendo altri reati, dandosi alla fuga o inquinando le prove. Chi viene riconosciuto innocente al termine del processo  ha diritto In base agli articoli 314 e 315 del codice penale, a ricevere un indennizzo economico che non può essere superiore a circa 500 mila euro da parte dello Stato per “ingiusta detenzione”. Analogo discorso vale per i casi di “errore giudiziario”, che si verificano in quei casi quando un soggetto condannato con sentenza definitiva viene successivamente riconosciuto innocente grazie un processo di revisione (per esempio, si scopre che il vero autore del reato è stato qualcun altro o sono emerse prove che permettono di scagionare il condannato).

Che cosa dicono i numeri ? Come è stato verificato anche in un recente passato, non è semplice reperire  lungo un arco di più anni, dati ufficiali sul numero di persone innocenti che sono finite in carcere. Le statistiche più recenti del Ministero della Giustizia sono state pubblicate ad aprile 2019, quando Bonafede era già titolare del dicastero anche se in un diverso esecutivo, nella “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari”. Qui si leggono dati ufficiali relativi al 2018, anno in cui 1.355 casi di custodie cautelari (il 2,53 per cento sul totale) hanno riguardato persone poi risultate essere innocenti. Per quanto riguarda i dati su più anni, esistono delle stime non ufficiali, ma ritenute affidabili dagli esperti. In questo ambito, il database del sito più noto è quello del progetto chiamato Errori Giudiziari realizzato dei due giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, che si autodefinisce come “il primo archivio su errori giudiziari e ingiusta detenzione“. Sul sito ufficiale del progetto Errori Giudiziari si legge che “Dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 30 settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi: in media, 1.007 innocenti in custodia cautelare ogni anno” “Il tutto per una spesa che sfiora i 740 milioni di euro in indennizzi, per una media di 27,4 milioni di euro l’anno». Più bassi sono invece i numeri per quanto riguarda i casi di errori giudiziari, che sono stati stimati essere 144 dal 1991 al 30 settembre 2018.

Conclusioni. Mentre secondo il ministro Bonafede, “gli innocenti non finiscono in carcere“, i dati sulle ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari dicono ben altro e cioè che le dichiarazioni del Guardasigilli non corrispondono al vero. E’ pressochè impossibile accertare giornalisticamente quanti sono ogni anno i condannati riconosciuti “colpevoli”, che “in realtà” successivamente è stato accertato essere innocenti, in assenza di revisioni dei processi, ma nel 2018 (dati del Ministero della Giustizia) oltre 1.300 casi di “custodia cautelare” (una percentuale molto bassa sul totale) ha coinvolto persone rivelatesi in seguito essere “innocenti”.  I dati sulle ingiuste detenzioni invece hanno riguardato almeno 27.200 persone dal 1992 al 30 settembre 2018, mentre dal 1991 al 30 settembre 2018,  144 persone sono state riconosciute essere “innocenti” dopo un processo di revisione. Concludendo Bonafede più che Guardasigilli merita di essere definito come un vero e proprio “Pinocchio a 5 Stelle”.

Il Governo ammette: nel 2018, 2.380 innocenti era stati posti agli arresti. Natale Salvo  su Fronteampio.it il 28 Giugno 2019. Nel solo 2018, sono state complessivamente 31.970 le persone che sono state oggetto di “Custodia cautelare in carcere” e 23.778 di “Arresti domiciliari”. I dati della “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari” che il Governo ha recentemente presentato alla Camera dei Deputati sono impietosi. Nel solo 2018, 1.355 persone sono state poste in custodia cautelare in carcere e altre 1.025 agli arresti domiciliari per poi, pochi mesi dopo, risultare beneficiarie di una sentenza di assoluzione. In termini percentuali, si tratta del 9,30% di tutti i casi definiti nello stesso anno. Non ultimo il caso dei due immigrati irregolari arrestati e poi assolti dal Tribunale di Trapani, dopo quasi un anno di carcere preventivo.

Costa: si sottovalutano le conseguenze per gli innocenti. L’ingiusta detenzione di persone che sono poi risultate assolte dopo un processo è un «fenomeno gravemente e colpevolmente sottovalutato» per il deputato avvocato Enrico Costa (Forza Italia). Il parlamentare è il primo firmatario di una Proposta di Legge che vuole studiare meglio il fenomeno e gli eventuali abusi. «La maggior parte di queste persone – commenta l’onorevole Costa – viene arrestata in piena notte, condotta in carcere senza troppe spiegazioni, proiettata in prima pagina o sui titoli dei giornali, per poi vedersi dichiarare «ingiusta» la privazione della libertà. La riparazione per ingiusta detenzione non basta, non può bastare. Prima che la vicenda processuale sia conclusa, dopo diversi anni, la vittima spesso ha perso il lavoro, gli amici, qualche volta perfino la famiglia, sempre la credibilità e la fiducia altrui».

Nel 2018, oltre 33 milioni di euro di risarcimenti per arresti di innocenti. Il fenomeno rappresenta pure un costo per lo Stato, ovvero per i cittadini. Lo Stato, infatti, risarcisce queste vittime della Giustizia. Nel 2018, sono state emesse 895 ordinanze definitive di risarcimento per un ammontare complessivo di oltre 33,3 milioni di euro. Le Corti d’Appello in testa per i risarcimenti sono tutte nel centro-sud: in testa c’è Catanzaro (182 casi per 10,3 milioni di euro complessivi) seguita da Napoli (113 casi e 2,4 milioni di euro di risarcimenti) e Roma (96 casi e 3,4 milioni di euro di risarcimenti). Risarcimenti milionari anche a Palermo, Catania, Reggio Calabria, Bari e Salerno. Ma, si domanda Costa: «quale somma potrebbe mai risarcire un’esperienza capace di incidere così pesantemente nella mente e nel corpo, fino a causare conseguenze difficilmente eliminabili?». «La verità – secondo il deputato di Forza Italia – è che taluni magistrati trattano le persone come numeri e non come esseri umani, così facendo gravare sui cittadini i mali e i problemi che affaticano il sistema giudiziario. Nonostante questo, essi non subiscono in alcun modo le conseguenze del loro comportamento, anzi, vengono addirittura promossi, finendo per fare una brillante carriera, come se niente fosse accaduto».

Costa: servono azioni disciplinari contro i magistrati che sbagliano. In conclusione, afferma Enrico Costa, «un primo passo consiste nel riaffermare il binomio potere-responsabilità: non è ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi)». Nella proposta di legge presentata, che si trova in atto all’esame della Commissione Giustizia della Camera, è previsto che «la sentenza di accoglimento della domanda di riparazione per ingiusta detenzione sia trasmessa agli organi titolari dell’azione disciplinare nei riguardi dei magistrati, per le valutazioni di loro competenza».

Magistrati bravi o intoccabili? Nel 2018 solo 11 censurati e 1 ammonito. Nel triennio 2016-2018, secondo la già citata Relazione governativa, solo 41 azioni disciplinari sono state promosse per «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile» del magistrato sulla materia. 11 si sono concluse con l’assoluzione del magistrato, 11 con la “censura” e 1 sola con un “ammonimento”, le altre sono in corso o archiviate per l’avvenuta cessazione dal servizio del magistrato. Non si sanno quante siano i procedimenti disciplinari per «travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile». La proposta dell’onorevole Costa mi appare, comunque, demagogica. La soluzione radicale al problema è nelle mani del legislatore e non nel magistrato. Basta, infatti, ridurre ulteriormente per legge i casi previsti per la detenzione cautelare. Utile mi sembra pure intervenire con riforme procedurali e con depenalizzazioni dei reati minori (si pensi ai casi di diffamazione od oltraggio a pubblico ufficiale) che appesantiscono il lavoro di Procure e Tribunali per giungere in tempi brevi alle sentenze.

In carcere ma innocenti. Gianfranco Di Rago  su Ristretti, fonte Italia Oggi, 17 settembre 2019. Errori giudiziari al top a Catanzaro, Napoli e Roma. Ogni otto ore una persona innocente subisce ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Dal 1991 a oggi lo stato ha speso circa 800 milioni di euro, 56 euro al minuto, come liquidazione dell'indennizzo ai malcapitati. Ogni otto ore una persona innocente subisce ingiustamente la custodia cautelare in carcere. Dal 1991 a oggi lo Stato ha speso circa 800 milioni di euro, 56 euro al minuto, come liquidazione dell'indennizzo ai malcapitati. Catanzaro, Napoli e Roma guidano la classifica delle Corti di appello nelle quali si è verificato il maggior numero di casi nel 2018. Questo il bilancio reso noto nel corso del convegno "Errori giudiziari e ingiusta detenzione: perché non possiamo non parlarne", svoltosi ieri a Milano e organizzato dall'Ordine degli avvocati, registrando una vasta partecipazione da parte del pubblico. Nel corso dell'incontro è stato proiettato il docu-film "Non voltarti indietro", realizzato da ErroriGiudiziari.com, archivio online che raccoglie circa 800 casi di errori giudiziari. Dai dati diffusi dal ministero della giustizia, nel solo 2018 sono state presentate circa mille istanze di riparazione per ingiusta detenzione, delle quali 630 sono state accolte, conducendo alla liquidazione di un indennizzo medio di 37 mila euro a persona e con una spesa complessiva di 23 milioni di euro. Tuttavia, come evidenziato da Enrico Costa, ex ministro e parlamentare membro della Commissione giustizia della Camera, autore di una proposta di legge in materia, solo l'80% dei tribunali ha fornito al ministero i dati relativi all'anno appena trascorso e, infatti, dalle informazioni raccolte dal Mef, nel 2018 risultano invece ben 913 i casi di istanze liquidate. Secondo Costa, su una media 50 mila misure di custodia cautelare all'anno, almeno il 20% di esse non avrebbero dovuto essere state adottate. Inoltre è stato segnalato come il fatto che l'indagato si avvalga della facoltà di non rispondere si trasformi il più delle volte in un boomerang ai fini della liquidazione dell'indennizzo. Ma, allora, come contrastare un fenomeno che, visti i numeri allarmanti, non può più essere definito come semplicemente fisiologico? In primo luogo occorre sensibilizzare l'opinione pubblica. L'Unione delle camere penali ha infatti istituito un osservatorio sull'errore giudiziario, che ha in progetto di procedere alla creazione di una vera e propria banca dati, attingendo informazioni sul territorio, anche mediante l'organizzazione di una serie di convegni itineranti.

Prigione Italia, ogni anno mille innocenti finiscono in carcere. L’Inkiesta il 07 febbraio 2018. In aumento i casi di ingiusta detenzione. Solo nel 2017 sono finite in cella senza colpa 1013 persone. Negli ultimi 25 anni oltre 26mila vittime. Un’emergenza di cui nessuno parla, tantomeno in campagna elettorale. Intanto crescono i risarcimenti: lo scorso anno lo Stato ha pagato quasi 35 milioni. Il 2017 si è chiuso con un aumento sia dei casi di ingiusta detenzione (che hanno raggiunto quota 1.013, contro i 989 registrati nel 2016), sia dell’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti (34.319.865,10 euro). Nel pantheon delle letture degli aspiranti parlamentari ai primi posti ci dovrebbero essere senza alcun dubbio i numeri contenuti in questa analisi confezionata da “Errori giudiziari”, errorigiudiziari.com. Come avviene ogni anno, sono stati elaborati gli ultimi dati disponibili del Ministero dell’Economia: dati che dimostrano come in Italia esiste l’emergenza delle persone finite in carcere senza colpa. Eccome se esiste: il numero di vittime continua a crescere senza sosta, così come il denaro che viene versato nei loro confronti a titolo di risarcimento o indennizzo. Eppure, tutto questo sembra non interessare. Pensate che pochi giorni fa si è svolta l’annuale inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, e il tema degli errori giudiziari e delle vittime di ingiusta detenzione non è stato nemmeno sfiorato. Insomma, secondo giudici e procuratori le 1.000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, rappresentano un “dato fisiologico”, una sorta di “danno collaterale” inevitabile davanti alla mole di processi penali che vengono celebrati ogni anno nelle aule dei tribunali italiani. Ma le conseguenze negative e inestimabili (e impossibili da risarcire) per le persone interessate, e per le loro vite private e professionali distrutte? Ma gli effetti psicologici gravissimi? Niente, come se non esistessero. E non pare importare nemmeno il fatto che più innocenti finiti senza colpa in custodia cautelare vuol dire più soldi spesi dallo Stato in risarcimenti per ingiusta detenzione, cioè denaro speso da tutti noi. Negli ultimi 25 anni 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione, ovvero una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, prima di essere riconosciute innocenti con sentenza definitiva. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Le cifre della vergogna. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito dietro c’è Roma (137), e quindi Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. E nella top ten dei centri dove è più frequente il fenomeno della ingiusta detenzione, hanno "la meglio" le città del Sud: sono difatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Catanzaro e Roma sono anche le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare l’incredibile cifra di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro). Al terzo posto Bari (con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro) sorpassa Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. I dati complessivi. Negli ultimi 25 anni, dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione, ovvero una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, prima di essere riconosciute innocenti con sentenza definitiva. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari in senso tecnico (ossia quelle persone che vengono condannate con sentenza definitiva, ma poi sono assolte in seguito a un processo di revisione perché si scopre il vero autore del reato, oppure un altro elemento fondamentale per scagionarli), il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Si tratta dunque di una media annuale di oltre 1.000 casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. L'emergenza delle persone chiuse in carcere senza colpa non sembra all'ordine del giorno. Solo pochi giorni fa si è svolta l’annuale inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, ma il tema degli errori giudiziari e delle vittime di ingiusta detenzione non è stato nemmeno sfiorato. Il silenzio della politica. I dati che abbiamo riportato sono impressionanti, ma ancora più impressionante forse è l’assenza del tema nella campagna elettorale in corso. Un silenzio assordante e bipartisan. Per chi vuole essere protagonista nella nuova legislatura, la numero XVIII, il problema non sussiste. Il che significa che non si parla delle oltre 25 mila persone che sono finite in carcere da innocenti negli ultimi 25 anni. Che per risarcirle lo Stato ha speso più di 750 milioni di euro. E che il conteggio non si ferma, al ritmo di circa 1.000 nuovi casi l’anno. Dovrebbero spiegarne i motivi per esempio a Fabrizio Bottaro, Daniela Candeloro, Lucia Fiumberti, Vittorio Gallo e Antonio Lattanzi: cinque persone come tante, con giornate scandite da lavoro, famiglia, e amici. Fino a quando le loro vite non sono state travolte dalle manette, da processi interminabili, dal carcere ingiusto. Le loro storie sono al centro del docufilm “Non voltarti indietro” che, attraverso un ritratto a più voci, restituisce la misura incolmabile di autentici calvari consumati tra le celle dei penitenziari, le mura domestiche e i tribunali, per poi trovarsi a fare i conti con la rinascita e il tentativo di mettere alle spalle quell’esperienza che ha lasciato ferite che non si rimargineranno mai. Ma della giustizia che sbaglia non si parla. O poco. Troppo poco.

·         Invece gli innocenti finiscono in carcere. Ma guai a dirlo!

La strategia delle toghe. Chi giudica i giudici? Anche se sbagliano non rispondono mai dei loro atti…Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Che cosa succede se per strada venite derubati del portafoglio? Lo shock per la scoperta della violazione della vostra proprietà (che è un po’ come il vostro corpo), poi una serie di seccature. Attese infinite in qualche stazione di polizia, per sentirvi quasi suggerire di non denunciare lo smarrimento, così loro non sono obbligati a svolgere indagini, che tanto finirebbero in niente. Del resto le statistiche parlano chiaro, il 98% dei furti rimane impunito. A meno che. A meno che non siate un giudice del tribunale di Milano (o di qualsiasi altra città) e magari anche leader di una corrente di magistratura, magari anche di sinistra. Ecco allora che, quasi per magia, nel giro di pochi giorni il portafoglio viene ritrovato e restituito, perfino con i soldi all’interno. Sarà stata sicuramente fortuna. Ma a volte basta far girare un po’ la voce, usare qualche informatore come facevano una volta i bravi poliziotti. Solo che non lo fanno per tutti i cittadini, solo per qualcuno. Qualche anno fa è stata approvata in Italia una legge sul cosiddetto omicidio stradale, una normativa sbagliata e che ha prodotto pochi effetti. Nessuno sulla prevenzione, tanto che i gravi incidenti stradali non sono affatto diminuiti. Ma il risultato d’immagine è stato raggiunto, con annessa un po’ di gogna se ti capita di uccidere una persona mentre sei al volante e magari sei anche una persona conosciuta. Vieni immediatamente sottoposto ai controlli sulla velocità, su assunzione di alcol o sostanze psicotrope e spesso arrestato. Molti finiscono in manette. A meno che. A meno che tu non sia figlio o parente di magistrato, allora vieni immediatamente abbracciato da una cintura protettiva, non vieni sottoposto a nessun controllo né fermo. Nessun giornale (o quasi) si occuperà del tuo caso, al massimo un trafiletto. E qualche tempo dopo potrai patteggiare nove mesi di carcere con la condizionale. Quando si dice la fortuna. Se poi sei un importante esponente istituzionale, e vieni beccato in flagranza di reato mentre sembri quasi istigare un delinquente alla latitanza, ci si aspetterebbe nei tuoi confronti una sanzione immediata e severa. Sono passati quarant’anni, ma rimane indimenticabile il vero processo cui fu sottoposto nel 1980 in Parlamento Francesco Cossiga, presidente del Consiglio in carica che l’opposizione del Pci voleva rinviare all’Alta Corte. Colui che in seguito diventerà anche presidente della repubblica era sospettato sia in sede giudiziaria (procura della repubblica di Torino) che politica di aver rivelato, sulla base di notizie riservate, a Carlo Donat Cattin, vice segretario della Dc, che suo figlio Marco era un terrorista e forse ricercato. Lui negava, ma il processo politico condotto dal Pci e dal relatore Violante fu feroce. I suoi colleghi parlamentari, che pure alla fine lo salvarono a camere riunite con 507 voti assolutori contro 416, non gli risparmiarono nulla. Lui costretto a difendersi, ammettendo di aver incontrato il collega ma non di aver discusso con lui la posizione giudiziaria del figlio, gli altri a credere alle parole del “pentito” Sandalo che lo accusava di favoreggiamento nei confronti di un latitante. Senza avere la pretesa di paragonare la figura di Cossiga a quella dell’ex procuratore generale di cassazione Riccardo Fuzio e scusandoci con Luca Palamara per l’accostamento della vicenda che lo riguarda alla storia di un terrorista, dobbiamo però rilevare come nulla di tragico abbia sfiorato la vita dell’alto magistrato in seguito a un fatto molto grave che lo ha visto protagonista. Mentre il trojan infilato nel cellulare di Palamara faceva il proprio dovere, Fuzio è stato beccato mentre lo informava sulle inchieste aperte nei suoi confronti dalla magistratura di Perugia. Un bel favoreggiamento, forse, oltre alla rivelazione di atti e segreto d’ufficio. E se l’ex presidente del sindacato dei magistrati avesse deciso di scappare come Marco Donat Cattin? Fuzio ha forse rischiato di passare, come quarant’anni fa Cossiga, i cinque giorni più infernali della sua vita, processato del tribunale dei giudici, il Csm? Proprio no. Nessuno mi può giudicare, rimane sempre il principio favorito dai magistrati. Prima di tutto al procuratore Fuzio è stato consentita la pensione anticipata e la conseguente cancellazione di ogni azione disciplinare (converrebbe anche a Palamara, se fosse un po’ più anziano). Quanto all’azione giudiziaria, mentre per Palamara e gli altri indagati venivano chiesti i rinvii a giudizio, la posizione dell’alto magistrato è stata stralciata. E chissà se questo significa che si stia incamminando verso un binario morto. Quello del prepensionamento ad hoc (due anni e mezzo di anticipo) si è rivelato una bella ciambella di salvataggio anche per un altro magistrato molto famoso, l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo. Finito per caso in intercettazioni a strascico che avevano colpito un suo interlocutore, era stato trasferito e degradato, diventando a Torino un semplice sostituto nella procura guidata da un suo ex collega, Armando Spataro. Una delle accuse che gli erano state rivolte riguardava un suo inspiegabile antico conflitto con Gabriele Albertini che, fin da quando era stato sindaco (il più amato e rimpianto, tanto che ancora oggi in molti gli ripropongono la candidatura) era stato preso di mira dal pm per un’infondata questione di “emendamenti in bianco”. Quando, anni dopo, Albertini, ormai parlamentare europeo, si era esposto con dichiarazioni che non erano piaciute al magistrato, Robledo lo aveva denunciato sia in sede civile che penale, per calunnia aggravata. E poi aveva cercato in qualche modo di interferire nel procedimento sull’immunità aperto al parlamento europeo chiedendo informazioni all’avvocato della Lega, Aiello. Quello coinvolto nelle intercettazioni a strascico. E ancora, di fronte all’assoluzione di Albertini, aveva presentato ricorso alla corte d’appello di Brescia, la quale, essendo nel frattempo l’ex sindaco diventato senatore, aveva presentato alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra organi dello Stato. Non ancora pago, il dottor Robledo aveva indossato le vesti dell’agitatore politico, insultando la Giunta per le immunità del Senato, accusandone i membri di voler “salvare la pelle” ad Albertini e di “sguazzare nei loro privilegi” e di attuare “voto di scambio”. Di conseguenza portandosi a casa una bella denuncia per “vilipendio di corpo legislativo”. Ma nel frattempo Alfredo Robledo si è sottratto a qualunque giudizio, è andato in pensione e ha trovato lavoro come presidente in un’azienda per lo smaltimento dei rifiuto, la Sangalli, che in passato aveva anche avuto problemi giudiziari per fatti di corruzione. Ma che, aveva detto l’ex magistrato per giustificare la propria scelta professionale, aveva avuto la capacità di cambiare rotta. Conclusione? Oggi la nuova vita di Alfredo Robledo dovrebbe essere al riparo da incursioni disciplinari o giudiziarie. Il Csm non si ricorda più di lui, ormai ex magistrato, Il suo processo per abuso d’ufficio a Brescia (conseguenza dei suoi scontri con il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati) sonnecchia, e quello di Roma per il vilipendio pare avere il rigor mortis. Mentre è ben vivace quello del conflitto di attribuzione che riguarda Gabriele Albertini. Come disse qualcuno, siamo tutti uguali ma qualcuno lo è un po’ più degli altri. Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu. Se sono un magistrato. O anche un ex.

Errori giudiziari, 14 milioni di risarcimenti alle vittime. Da truenumbers.it il 19 Ottobre 2020. Ingiusta detenzione, Catanzaro in testa. L’ex parlamentare Pittelli agli arresti domiciliari. Arresti domiciliari con braccialetto elettronico per l’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, imputato nel maxi-processo Rinascita-Scott della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Lo ha stabilito il Tribunale del riesame di Catanzaro accogliendo l’istanza presentata dai legali di Pittelli. Per chi non ricorda: Pittelli era uno degli indagati di lusso di una maxi-operazione (una delle più imponenti di sempre) con 479 persone iscritte nel registro degli indagati voluta dal procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Certo, è un passaggio processuale e si dovrà attendere il dibattimento vero e proprio per sapere se, e quanto, Pittelli sia colpevole. Ma si deve anche ricordare che Catanzaro è nettamente la prima città in Italia per persone detenute ingiustamente. Cioè quella che manda più “innocenti in carcere” per usare l’espressione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che nel gennaio 2020 aveva detto che gli innocenti, in carcere, non ci finiscono. Non è sensazione, abbiamo i numeri. Nel 2018, infatti, sono state emesse 182 ordinanze di riparazione per casi di persone sottoposte a custodia cautelare in carcere o ai domiciliari poi prosciolte al momento della sentenza dai tribunali del distretto d’appello di Catanzaro. Sono gli ultimi dati che abbiamo a disposizione. Per essere chiari, il distretto comprende i tribunali di Castrovillari, Catanzaro, Cosenza, Crotone, Lamezia Terme, Paola e Vibo Valentia. E il conto dei risarcimenti pagati dallo Stato in Calabria supera i 10 milioni sui 33 totali in Italia nel 2018.

Il caso Catanzaro e Nicola Gratteri. Il distretto di Catanzaro è ormai da anni in testa alla classifica per ingiusta detenzione. Nel gennaio 2020, tra l’altro, si è acceso di nuovo lo scontro, arrivato in passato nelle aule del Consiglio superiore della magistratura, tra il procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini e il procuratore Nicola Gratteri, magistrato simbolo della lotta alla ‘ndrangheta. Lupacchini ha accusato Gratteri di non averlo informato della maxi operazione della Dda contro la ‘ndrangheta che nella notte tra il 18 e il 19 dicembre ha portato a 330 arresti. Lo stesso Lupacchini aveva dedicato gran parte del suo intervento di apertura dell’anno giudiziario nel gennaio 2019 proprio al problema dell’ingiusta detenzione. E aveva sollevato la reazione del presidente della Corte d’appello, Domenico Introcaso.

Errori giudiziari: i risarcimenti. Allargando lo sguardo a tutta l’Italia, solo nel 2018 lo Stato ha pagato 33.373.832 euro di risarcimenti per ingiusta detenzione e 14.602.224 euro per gli errori giudiziari. Il celebre caso del conduttore televisivo Enzo Tortora, che finì in carcere per 7 mesi per le accuse false di alcuni pentiti della Camorra, risale al lontano 1983 ma lo Stato continua a commettere errori pesantissimi per le vite degli innocenti che precipitano, senza colpe, nel tritacarne della giustizia. Nel 2018 i casi di ingiusta detenzione (le persone ingiustamente in carcere o ai domiciliari prima delle sentenza) sono stati 895, mentre gli errori giudiziari sono stati 18 e riguardano innocenti condannati in via definitiva che hanno ottenuto un processo di revisione. Parliamo, quindi, di indagati tenuti in carcere oppure agli arresti domiciliari che poi vengono prosciolti o di innocenti condannati in via definitiva con clamorosi errori da parte di pm e giudici. E lo facciamo con i numeri sui risarcimenti aggiornati al 2018 da una fonte ufficiale, il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ovviamente, si tratta di casi avvenuti negli anni scorsi, anche lontani nel tempo. Il 2018, però, è l’anno in cui è stata emessa l’ordinanza di riparazione per ingiusta detenzione o errore giudiziario anche se questo è avvenuto anni prima. Errorigiudiziari.com, il primo archivio online dei casi di ingiusta detenzione ed errore giudiziario (curato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, due giornalisti che da oltre 20 anni si occupano di questi temi), ha ottenuto i dati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e ha calcolato che dal 1992 al 31 dicembre 2018 sono stati versati 790 milioni per i risarcimenti: circa 30 milioni in media ogni anno.

Differenza tra ingiusta detenzione ed errore giudiziario. Che cos’è l’ingiusta detenzione? Si verifica quando una persona accusata di un reato, o solamente indagata, sconta un periodo di custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari e, al termine del processo, viene riconosciuta innocente. In sostanza, la vittima è quella persona che è stata sottoposta a custodia cautelare e dopo viene prosciolta per qualsiasi causa. Ma anche quella persona il cui procedimento viene archiviato. In entrambi i casi si ha diritto ad un risarcimento da parte dello Stato. Anche un condannato, comunque, può ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione, nel caso venga riconosciuta la mancanza delle condizioni necessarie per queste misure. L’errore giudiziario, invece, è qualcosa di diverso. Pure in questo caso ci sono uno o più errori di valutazione, ma qui ci deve essere una sentenza definitiva di condanna. Siamo in presenza di errore giudiziario quando un innocente viene condannato in via definitiva e un processo di revisione “ribalta” la situazione.

La classifica degli errori giudiziari. Errorigiudiziari.com sulla base dei dati forniti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ha stilato una classifica delle città italiane in cui i casi di ingiusta detenzione sono stati più frequenti nel 2018. O meglio: è la classifica dei distretti delle corti di appello, gli organi che all’interno dell’ordinamento giudiziario si occupano di risarcire le vittime. Nel grafico in alto si può vedere la graduatoria. Catanzaro stacca nettamente tutte le altre con 182 casi di risarcimento nel 2018. Al secondo posto c’è Napoli con 113, al terzo Roma con 96. Catanzaro è prima anche per quanto riguarda l’entità dei risarcimenti pagati nel 2018: alle vittime sono andati 10.378.317 euro, il 31% di quanto versato da tutti i distretti italiani. In questo caso, come si può notare dal grafico in basso, al secondo posto c’è Roma (3.429.248 euro) e al terzo c’è Catania (2.767.954).

Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, Errorigiudiziari.com

I dati si riferiscono al: 1992-2018 

Errori giudiziari, ogni anno 8mila innocenti finiscono in carcere. Il risarcimento? Un miraggio…Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Agosto 2020. Ogni anno in Italia sono circa 8.000 le persone che chiedono il risarcimento per ingiusta detenzione. A 6.000 di queste persone viene risposto: “Niet“. Uso la lingua russa perché, nell’immaginario, la Russia è il paese europeo più autoritario che c’è. E dove lo Stato vessa i cittadini e calpesta i loro diritti. Qui però parlo dell’Italia. Non solo il magistrato italiano che commette l’errore e rovina la vita a una persona non risponde in nessun modo della sua mancanza di professionalità. Anzi, spesso viene premiato. Sia in termini di carriera sia di tripudio giornalistico. Ma il poveretto finito sotto il potere estremo e incontrollato di quel magistrato, quando sarà riuscito ad avere riconosciuta la sua innocenza, non vedrà neppure una lira di risarcimento. In teoria dovrebbe ricevere una mancia di circa 235 euro per ogni giorno passato in cella, e di 115 euro per i giorni ai domiciliari. Ma di solito la magistratura gli risponde: “Non ne hai diritto“. Perché? Perché hai commesso degli errori nel difenderti e quindi hai tratto in inganno il Pm e il Gip. Non è colpa del giudice che t’ha sbattuto in gabbia, è colpa tua che non hai saputo difenderti. Una delle cause più frequenti del rifiuto del risarcimento è l’utilizzazione del diritto a non rispondere, al momento dell’arresto. Uno dice: ma è un diritto o no? Sì, è un diritto, ma un diritto che ti può costare caro. C’è gente che si è fatta anche quattro o cinque anni di ingiusta detenzione, magari con una sentenza di primo grado sbagliata. Avrebbe diritto a circa mezzo milione di risarcimento. Gli dicono: hai sbagliato a non rispondere al giudice, quel giorno: non vedi una lira. Tutto questo, purtroppo è legale. La legge stabilisce così. In Italia il problema non è solo quello degli abusi dei Pm e dei loro amici Gip (specialmente nella carcerazione preventiva) ma è che tutti questi abusi sono protetti, garantiti e resi impunibili da una legge che assegna all’imputato il ruolo di colpevole e al magistrato il ruolo di Dio.

Le prigioni scoppiano, ma la metà dei reclusi è in attesa di giudizio…Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Ad affollare le celle di Poggioreale e delle altre quattordici carceri campane, inclusi gli istituti penitenziari femminili e quelli per minorenni, ci sono tanti detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva. Corrispondono a circa il 42% della popolazione carceraria presente sul territorio regionale, e se si considera che la media nazionale è del 34,5% e quella europea del 22,4% si capisce che il dato è tutt’altro che trascurabile. L’ultimo report del Ministero della Giustizia rilevava, nel 2019, la tendenza a un ricorso più ampio alla misura cautelare rispetto all’anno precedente, con un aumento delle misure in carcere (2.212 a fronte delle 4.316 complessivamente applicate in un anno) e con un lieve calo di quelle agli arresti domiciliari. Cosa vuol dire? Che in carcere si sono tanti detenuti sottoposti a carcerazione preventiva. Troppi, non solo per i garantisti ma anche per il Consiglio d’Europa che ha più volte bacchettato l’Italia per l’eccessivo numero di reclusi in attesa di giudizio e per le carceri tra le più sovraffollate del continente. La cronaca e le statistiche segnalano eccessi e criticità, mentre all’interno delle mura carcerarie si continuano a consumare piccoli e grandi drammi. L’ultimo ieri mattina. Se non si è contata una nuova vittima è perché un agente della penitenziaria si è accorto in tempo del gesto estremo di un detenuto e con i colleghi è riuscito a intervenire prima che si verificasse l’irreparabile. «Ancora qualche attimo e l’insano gesto avrebbe avuto conseguenze drammatiche», ha spiegato Emilio Fattorello, segretario nazionale della Campania del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, sottolineando l’impegno degli agenti. Napoletano, 55 anni, Ugo (il nome è di fantasia) era nella camera di sicurezza del Tribunale di Napoli Nord, ad Aversa, attendendo il turno dell’udienza del processo in cui è imputato per maltrattamenti in famiglia. Ieri mattina, come altre mattine, si era svegliato presto, gli agenti lo avevano prelevato dalla sua cella nel carcere di Poggioreale e lo avevano scortato fino al blindato. Chissà a cosa pensava mentre percorreva con lo stesso passo i lunghi corridoi del carcere. Chissà a cosa ha pensato mentre, raggiunto il Tribunale, se ne stava seduto nella stanza dove gli imputati vivono le attese più lunghe, quelle delle udienze, quelle delle sentenze. D’un tratto Ugo ha deciso di interrompere quell’attesa: voleva mettere fine anche alla sua vita. Ha sfilato i lacci dalle scarpe, li ha annodati uno con l’altro. Si è assicurato che fossero solidi come un’unica corda e l’ha stretta al collo, come un cappio. Voleva farla finita. Un agente della penitenziaria lo ha notato, ha gridato, è intervenuto. Assieme ai colleghi ha strappato Ugo dall’asfissia che lo avrebbe portato alla morte. Ugo è stato soccorso e portato all’ospedale civile di Aversa: ora non è più in pericolo. Resta la disperazione del gesto. Il suo tentativo di suicidio finirà nell’elenco dei cosiddetti “eventi critici”, quello che serve a fare valutazioni sulle carceri e su come si vive al loro interno, a stimolare dibattiti e a sollecitare ancora una volta interventi che la politica si mostra restia ad adottare. Storie e numeri sono importanti per tracciare la realtà. In Italia il popolo dei detenuti è composto da 53.579 persone, a fronte di una capienza regolamentare di poco meno di 50mila posti. Gli stranieri sono 17.510 (il 32,68%), 102.604 sono i soggetti seguiti dagli uffici di esecuzione penale esterna, 1.348 i minorenni e giovani adulti presenti nei servizi residenziali e 13.279 quelli in carico ai servizi della giustizia minorile. Secondo dati aggiornati al 30 giugno scorso, nelle quindici carceri della Campania (con Poggioreale al primo posto come istituto di pena più grande e più affollato) si contano 6.428 detenuti: 6.130 uomini e 298 donne. Tra questi ci sono 3.764 condannati e sono 2.608 gli imputati, cioè le persone in cella per processi che si stanno celebrando o stanno per cominciare, detenuti, quindi, per i quali la carcerazione preventiva rischia di essere l’espiazione anticipata di una condanna che potrebbe non arrivare mai.

Napoli, una sentenza definitiva su 10 svela un errore giudiziario. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Qual è la sorte dei processi? Quanti dei procedimenti con imputati sottoposti a misura cautelare arrivano a sentenza? E quanti a condanna definitiva, senza perdersi in rinvii e lungaggini che rendono i tempi della giustizia biblici invece che ragionevoli come prevede la legge? Quando si parla di giustizia, provando ad andare oltre la cronaca dei singoli episodi e a ragionare sul sistema nel suo complesso per individuare proposte e superare criticità, ostacoli, intoppi, ritardi, disfunzioni – insomma tutto quello che ci fa dire sempre più spesso che la giustizia non funziona come dovrebbe – viene quasi naturale porsi domande sul futuro delle indagini, di quelle “maxi” con decine, se non addirittura centinaia, di indagati, o di quelle che finiscono giocoforza per condizionare l’andamento della vita pubblica, oltre che le vite private. Le risposte non sempre arrivano facilmente, ma alcune sono contenute nel report che l’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia ha stilato per una sorta di operazione trasparenza inaugurata appena lo scorso anno. Il documento mette insieme i numeri su errori giudiziari, procedimenti per il riconoscimento dell’ingiusta detenzione e statistiche relative all’applicazione delle misure cautelari nei vari distretti giudiziari italiani, analizzando i dati di 117 uffici gip e 116 settori dibattimentali, pari all’86% del totale. I numeri sono aggiornati al 31 marzo scorso e consentono di avere una fotografia attuale dello stato della giustizia sotto il profilo della quantità di misure cautelari applicate e di errori giudiziari commessi. I dati napoletani descrivono una realtà in cui il ricorso alle manette è diffuso, si fa un uso della carcerazione preventiva molto più ampio rispetto alla media nazionale. Qual è, quindi, la sorte degli imputati detenuti a Napoli? Ebbene, nel 45% dei casi questi imputati sono sottoposti a carcerazione preventiva pur in assenza di una sentenza definitiva. E il garantismo? Sembra esistere di più in altre sedi giudiziarie visto che, come emerge dal report ministeriale, la media nazionale è del 34%. E poi c’è un 10% accertato di errori giudiziari commessi e già risarciti e un fiume di processi ancora in corso, i cui esiti potrebbero portare a nuove domande di risarcimento per ingiusta detenzione. Nella relazione si evidenzia che gli uffici giudicanti penali di Napoli hanno applicato in un anno 4.316 misure cautelari e nel 51% dei casi si è trattato di misure in carcere. Delle 4.316 misure emesse nel 2019, inoltre, 3.356 (il 78%) attengono a procedimenti che sono stati iscritti nello stesso anno, mentre 707 sono le misure emesse in procedimenti iscritti in anni precedenti. Nel 10% dei casi i procedimenti sono sfociati in sentenze di assoluzione. E su un totale di 953 procedimenti conclusi con sentenza di condanna non definitiva, la custodia cautelare in carcere è stata applicata 431 volte, pari cioè al 45% dei casi, un dato che supera quello nazionale di più di dieci punti percentuali. Assai ridotta è l’entità delle definizioni con condanna a pena sospesa: appena 29 casi su 431, nell’ambito di procedimenti in relazione ai quali era stata applicata la misura inframuraria. In 309 procedimenti poi, pari al 32% del totale, è stata applicata la misura degli arresti domiciliari. Non decolla invece il ricorso a misure alternative: l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria è stato applicato in 121 casi, pari a quasi il 13% del totale delle misure disposte in procedimenti definiti con condanna non definitiva. Quanto alle sentenza passate in giudicato, su 1.316 procedimenti “cautelati” sono 161 quelli che hanno avuto come esito una condanna definitiva nell’anno 2019: corrispondono al 12% e anche in questo caso Napoli sembra seguire un binario diverso da quello nazionale, il cui dato raggiunge invece il 26%. E sul piano delle misure che limitano la libertà personale, la custodia in carcere, per le condanne definitive, risulta disposta in 37 casi su 161, pari al 23%, mentre la misura degli arresti domiciliari in 64 procedimenti, cioè nel 40% dei casi, seguita dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in 42 procedimenti, e obbligo di dimora in soli 17 casi.

Errori giudiziari, ogni anno in Italia vengono arrestati 1.000 innocenti. Michele Magno su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Scritta tra il 1612 e il 1614, “Fuente Ovejuna” è forse la commedia più famosa di Lope de Vega, drammaturgo tra i più prolifici della letteratura spagnola. È ambientata nella seconda metà del Quattrocento in Andalusia, durante la lotta tra la pretendente al trono di Castiglia, Giovanna la Beltraneja, e i sovrani cattolici Isabella e Ferdinando. Fuente Ovejuna è il nome di un borgo che fa parte di una “commenda” (una specie di signoria) dell’ordine militare di Calatrava. Il suo “comendador” (comandante) è un partigiano della Beltraneja, Férnan Gómez. Despota prepotente e crudele, impone lo “ius primae noctis” a tutte le fanciulle del luogo. Quando imprigiona il giovane Frondoso e rapisce la sua promessa sposa Laurenzia, il popolo si ribella e lo decapita. Vinta la guerra di successione, Isabella e Ferdinando inviano un giudice per istruire il processo contro i rivoltosi. Nonostante le torture, quando vengono interrogati tutti rispondono che a uccidere il tiranno è stato Fuente Ovejuna, ossia i suoi trecento abitanti. Il giudice, non potendo scoprire i veri autori dell’omicidio, allora li assolve per insufficienza di prove. Piuttosto che imprigionare degli innocenti, infatti, preferisce lasciare liberi i colpevoli. Per fortuna, quel giudice era un garantista ante litteram, in un’epoca in cui peraltro non si andava tanto per il sottile con i diritti degli imputati. Ma anche oggi nella patria di Cesare Beccaria non si scherza, sebbene – parola di Alfonso Bonafede– “da noi gli innocenti non finiscono mai in carcere”. Qualcuno ricorda? Il ministro della Giustizia fece questa ardita affermazione in un talk show televisivo, il 23 gennaio scorso. Il giorno dopo la corresse con argomenti che non correggevano nulla. Allora proviamo a rinfrescargli la memoria. Quanti sono gli errori giudiziari in Italia? Quante persone ogni anno subiscono un provvedimento di custodia cautelare, salvo poi rivelarsi innocenti? Qual è la spesa dello Stato per risarcirle? Quante di queste persone ottengono un indennizzo? “Errorigiudiziari.com”, il sito fondato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, il 30 giugno ha pubblicato i dati aggiornati al 31 dicembre 2019 sull’ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari nel nostro paese. Ecco i più significativi. Se sommiamo tra loro i casi di ingiusta detenzione con quelli dovuti a un errore giudiziario in senso stretto, nell’ultimo ventennio i casi totali sono stati 28.893. Sono costati una cifra enorme, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: circa 824 milioni di euro. Tuttavia, è il numero dei casi di ingiusta detenzione che consente di capire meglio le dimensioni inquietanti del fenomeno. Sono proprio coloro finiti in custodia cautelare da innocenti, infatti, a rappresentare la stragrande maggioranza. Dal 1992, cioè da quando ne esiste la contabilità ufficiale presso il ministero dell’Economia, alla fine del 2019 mediamente oltre mille innocenti sono finiti in custodia cautelare ogni anno, per un importo che supera i 757 milioni di euro in indennizzi. Nel 2019 i casi di ingiusta detenzione sono stati un migliaio, per una spesa complessiva in indennizzi pari a quasi 45 milioni di euro. Rispetto all’anno precedente, sono in deciso aumento sia il numero di casi (più 105) sia la spesa (più 33 per cento). Passando agli errori giudiziari veri e propri, dal 1991 al 2019 sono stati 191, per una spesa in risarcimenti di circa 66 milioni di euro. Nell’anno passato sono stati venti, confermando un trend in ascesa nell’ultimo quadriennio. L’unica parziale buona notizia, se non altro per le casse dell’erario, riguarda la spesa in risarcimenti: nel 2019 è stata di quasi quattro milioni di euro, un quarto di quanto è stato versato alle vittime nel 2018. Va però precisato che qui i criteri di definizione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati dalla legge per l’ingiusta detenzione. Questi dati occupano raramente il posto che meritano sulla grande stampa. Tanto più su quei giornali i cui direttori usano la penna come una clava. La loro furia iconoclasta talvolta non conosce limiti. Poiché considerano i princìpi dello Stato di diritto un optional, basta l’annuncio dell’apertura di un’inchiesta, un rinvio a giudizio, la richiesta di arresto per un esponente della “casta” (ormai, quasi un’entità metafisica), e subito scatta il “Tutti in galera!” urlato da Catenacci. Forse i meno giovani se lo ricordano: era lo straordinario personaggio interpretato da un esilarante Giorgio Bracardi in “Alto gradimento”, la leggendaria trasmissione radiofonica degli anni Settanta nata dall’estro di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. A chi gli obiettava che occorrevano le prove, Catenacci rispondeva canzonandolo: “Ma chettefrega?”. Una battuta profetica, che nel tempo presente purtroppo rappresenta l’idem sentire di una parte non trascurabile dell’opinione pubblica, addomesticata dai manipolatori della verità che popolano il mondo della comunicazione.

Costa: “Migliaia di persone arrestate ingiustamente. Ma Bonafede non dice nulla”. Il Dubbio il 5 luglio 2020. “Nel 2019 i casi di ingiusta detenzione sono stati 1000, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 44.894.510,30 euro. Rispetto all’anno precedente, sono in deciso aumento il numero di casi (+105) e soprattutto la spesa (+33%)”. “Persone arrestate ingiustamente, famiglie distrutte, attività lavorative andate in frantumi, ondate di fango sulle persone arrestate, e, soprattutto nessuno che paghi per gli errori commessi. Anzi, spesso chi ha sbagliato è promosso a prestigiosi incarichi”. Lo dichiara in una nota sull’ingiusta detenzione il deputato di Forza Italia e responsabile del dipartimento giustizia del movimento azzurro, Enrico Costa.

Aumentano i casi di ingiusta detenzioni. “Nel 2019 – prosegue – i casi di ingiusta detenzione sono stati 1000, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 44.894.510,30 euro. Rispetto all’anno precedente, sono in deciso aumento il numero di casi (+105) e soprattutto la spesa (+33%). Sul sito “errorigiudiziari.com” – sottolinea ancora Costa – emerge che nel 2019 il record di casi indennizzati spetta a Napoli con 129 seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105, poi Catanzaro con 83 casi, Bari con 78 e Catania con 75. Il record della somma per indennizzi per il 2019 spetta invece a Reggio Calabria con 9.836.000 euro, seguita da Roma con 4.897.000 e Catanzaro con 4.458.000″. “Dal 1992 al 31 dicembre 2019, si sono registrati 28.702 casi: in media, 1025 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera i 757 milioni di euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27 milioni di euro l’anno. A pagare è solo lo Stato, mai il magistrato che ha sbagliato.

Sull’ingiusta detenzione Bonafede non dice nulla. Il Ministro Bonafede sempre così solerte a mandare gli ispettori, quando qualcuno viene, a suo dire, scarcerato ingiustamente, è immobile. Così facendo sostiene implicitamente la tesi davighiana sugli indennizzati per ingiusta detenzione, secondo la quale “in buona parte non si tratta di innocenti, ma di colpevoli che l’hanno fatta franca”. Vite distrutte per chi finisce ingiustamente in galera, situazioni che talvolta rasentano il sequestro di persona, per totale assenza di requisiti cautelari”, osserva. Ma questo, conclude, “è un andazzo che finirà quando verrà approvata la nostra proposta di legge che consentirà di infliggere sanzioni disciplinari a carico di chi abbia “concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stato disposta la riparazione per ingiusta detenzione. Abbiamo chiesto l’urgente calendarizzazione in Commissione giustizia. Vedremo se la maggioranza la affosserà ancora una volta”.

Errori giudiziari in aumento: mille casi nel 2019, 105 in più dell’anno precedente. Simona Musco su Il Dubbio l'1 luglio 2020. Lo Stato ha liquidato quasi 45 milioni per gli errori certificati lo scorso anno. Rispetto all’anno precedente in aumento anche la spesa (+33%) Mille casi di ingiusta detenzione nel 2019: è quanto rilevato da “Errorigiudiziari.com”, che come ogni anno ha analizzato i dati in possesso del ministero dell’Economia e delle Finanze, incaricato dei risarcimenti, stilando una classifica dei casi distretto per distretto. Gli ultimi numeri disponibili raccontano di un incremento dei casi accertati (105 in più rispetto al 2018), con un aumento del 33 per cento della spesa, per un totale di risarcimenti pari a 44.894.510,30 euro. La città con più casi accertati è Napoli, che conta 129 ingiuste detenzioni, seguita da Reggio Calabria (120), Roma (105), Catanzaro (83), Bari (78), Catania (57), Messina (45), Milano e Venezia (42), Palermo (39). Sul piano dei risarcimenti, a guidare la classifica, con la spesa più alta, è Reggio Calabria, dove lo Stato ha dovuto sborsare poco meno di 10 milioni di euro (9.836.865), seguita a gran distanza da Roma (4.897.010 euro, circa la metà), Catanzaro (4.458.727 euro) e poi Catania, Palermo e Napoli (poco più di tre milioni a testa), Bari, con due milioni e mezzo circa, Lecce e Messina (poco meno di due milioni) e infine Venezia, con un milione e 300mila euro.

Dal 1991 ad oggi oltre 28mila casi. Il dossier affonda le proprie radici nel 1991, primo anno di cui sono reperibili dati conservati negli archivi del ministero. Da allora e fino al 31 dicembre 2019 i casi totali di ingiusta detenzione sono stati 28.893, ovvero poco più di 996 l’anno, per un totale di 823.691.326,45 euro spesi dallo Stato, una media di circa 28 milioni e 400 mila euro l’anno. Una cifra altissima, che comprende anche i casi più eclatanti di errori, ovvero quelli che hanno visto innocenti scontare pene per reati mai compiuti prima di essere riconosciuti come tali. Ci sono, ovvero, casi come quello di Giuseppe Gullotta, condannato ingiustamente per la strage di Alcamo, che ha passato ingiustamente 22 anni in carcere, o Angelo Massaro, anche lui recluso per un ventennio per un omicidio mai commesso. Sono questi i casi per cui lo Stato si è ritrovato a liquidare le cifre più importanti: si tratta, dal 1991 a dicembre 2019, di 191 persone, più di sei ogni anno. Errori che sono costati allo Stato 65.878.424,57 euro (2 milioni 271 mila euro circa l’anno).

I casi di «ingiusta» custodia cautelare. Ma il dato più grosso riguarda quello relativo alle persone risarcite per aver trascorso un periodo di custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari per un’accusa che li ha visti uscire assolti. Dal 1992 al 31 dicembre 2019 si contano 28.702 casi (quindi la maggior parte degli errori monitorati dal ministero), con una media di 1025 innocenti in custodia cautelare ogni anno e indennizzi oltre i 757 milioni di euro, ovvero poco più di 27 milioni di euro l’anno.Nel solo 2019, gli errori giudiziari sono stati in tutto 20, due in più rispetto al 2018, «a conferma di una tendenza in continuo aumento negli ultimi quattro anni», appuntano Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di Errorigiudiziari.com. E negli ultimi dieci anni, la somma annuale ha superato i 15 casi l’anno, limite considerato la “soglia psicologica”. «L’unica parziale buona notizia, se non altro per le casse dello Stato, riguarda la spesa in risarcimenti – concludono Lattanzi e Maimone -: nel 2019 è stata di 3.798.586,90 euro, quasi quattro volte in meno di quanto versato alle vittime nel 2018. Ma va detto che i criteri di elaborazione dei risarcimenti sono molto più discrezionali e variabili rispetto a quelli fissati invece dalla legge per l’ingiusta detenzione».

Salvini: «Errori giudiziari, quei numeri sono indegni». Simona Musco su Il Dubbio il 3 luglio 2020. L’ok dell’ex ministro dell’Interno al disegno di legge del collega Ostellari: «Sì alla giornata per le vittime della malagiustizia». Le vittime di errore giudiziario? «Penso il peggio possibile. I numeri sono indegni di una democrazia occidentale sviluppata. La riforma della giustizia con e non contro magistrati è un’urgenza sociale, civile ed economica. Da Bonafede è illusorio aspettarsela. Ed è per questo che è finito il governo Lega–M5s, perché dopo un anno non si era mosso nulla». A dirlo, nel corso di un’intervista a Radio Radicale, è il leader della Lega Matteo Salvini, che ha accolto la proposta di una legge per l’istituzione di una giornata in memoria delle vittime degli errori giudiziari. «Sulla proposta per la loro tutela penso bene – sottolinea Salvini -, ho sentito l’intervento di Emma Bonino che ricordava che sono più di 20mila gli italiani che hanno giustamente chiesto risarcimenti». Tra coloro che hanno presentato un disegno di legge per istituire una giornata in memoria delle vittime c’è anche la Lega, con primo firmatario Andrea Ostellari, presidente della seconda Commissione Giustizia del Senato della Repubblica. «Sono passati trentacinque anni da quel venerdì 17 giugno 1983 in cui i carabinieri di Roma misero le manette ai polsi di un uomo innocente: Enzo Tortora. Nulla più della sua espressione incredula e stordita al momento dell’arresto può essere il simbolo di tutte le vittime degli errori giudiziari – si legge nella proposta -. Da allora è cambiato ben poco. Ancora oggi troppi innocenti finiscono in carcere: in media 1.000 ogni anno, quasi tre al giorno, oltre 26.000 negli ultimi venticinque anni. Lo Stato ha già speso in risarcimenti più di 740 milioni di euro e il conto prosegue al ritmo di 81.000 euro al giorno». L’ultimo report di Errorigiudiziari.com parla chiaro: nel 2019 sono stati mille i casi di ingiusta detenzione nel 2019, con un incremento di 105 unità rispetto al 2018 e del 33 per cento della spesa, per un totale di risarcimenti pari a 44.894.510,30 euro. «Per questo i firmatari del presente disegno di legge hanno deciso di far propria la proposta avanzata dal Partito radicale, dal sito internet Errorigiudiziari.com, dalla Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora, dal Comitato radicale per la giustizia “Piero Calamandrei” e dall’associazione “Il detenuto ignoto” volta a dedicare una giornata nazionale alle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione in Italia – continua Ostellari -. Un modo seppur simbolico di dare dignità e riconoscimento ai protagonisti di storie strazianti, a innocenti accusati dei reati più diversi e tremendi sulla base di prove inesistenti o senza fondamento». Il disegno di legge prevede di proclamare il 17 giugno quale giornata in memoria delle vittime, in occasione della quale «gli istituti scolastici di ogni ordine e grado promuovono, nell’ambito della propria autonomia e competenza nonché delle risorse disponibili a legislazione vigente, iniziative volte alla sensibilizzazione sul valore della libertà, della dignità personale, della presunzione di non colpevolezza, quale regola di giudizio, oltreché quale regola di trattamento, di coloro che sono ristretti in custodia cautelare prima e durante lo svolgimento del processo; sul giusto processo quale unico strumento volto a garantire, entro tempi ragionevoli, l’accertamento della responsabilità penale in contraddittorio tra le parti e davanti a un giudice terzo ed equidistante tra accusa e difesa». Sono previste inoltre manifestazioni pubbliche, cerimonie, incontri, momenti comuni di ricordo dei fatti e di riflessione, «nonché iniziative finalizzate alla costruzione, nell’opinione pubblica e nelle giovani generazioni, di una memoria delle vittime degli errori giudiziari».

Napoli: record di errori giudiziari, ma i magistrati sbagliano e non pagano. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Quando si parla di criticità della giustizia si tende più diffusamente a parlare di rinvii e carenze di risorse focalizzandosi sulla durata dei processi. Per anni l’errore giudiziario è stato considerato un aspetto fisiologico del sistema, quasi un rischio da correre in nome della lotta all’illegalità. Ma con il tempo i numeri sono cresciuti al punto che l’aspetto da fisiologico è diventato patologico. Gli errori giudiziari sono un vero male del nostro sistema giudiziario per rimediare al quale da tempo si discute di un intervento riformista, della necessità di una riforma organica che consenta di intervenire sul sistema nel suo insieme e non solo lavorare sulle urgenze. Nell’1 per cento dei casi l’errore giudiziario riguarda persone ingiustamente condannate, in tutti gli altri si tratta di persone che finiscono in carcere e sotto accusa da innocenti. Napoli detiene il triste primato ed è la città con il più alto numero di errori giudiziari accertati. Stando all’ultimo rapporto del Ministero della Giustizia sull’applicazione delle misure cautelari e sulle riparazioni per ingiusta detenzione, nel 2019 sono stati indennizzati 1000 casi di errori giudiziari con una spesa di circa 27 milioni di euro. A Napoli si sono contati 129 casi in un anno, con indennizzi per oltre 3,2 milioni di euro. In media, più di 24mila euro ad errore. Soldi che non bastano a risarcire veri e propri drammi umani, causati da indagini sbagliate, da piste investigative non sufficientemente approfondite, da arresti che non andavano disposti, da accuse che non hanno trovato conferme. Nel 2018 i casi a Napoli erano stati 113 e il confronto con il 2019 segna un trend purtroppo in aumento. Dopo Napoli, nella classifica nazionale, c’è Reggio Calabria con 120 casi e indennizzi per oltre 9 milioni di euro. Sulla scorta di questi dati, nelle scorse settimane è stata avviata in Senato la discussione per l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari, con la relazione del senatore Dal Mas. Il caso di Enzo Tortora è il più celebre, ma ogni anno nei Tribunali italiani la giustizia commette errori che generano drammi, che a loro volta mietono vittime. E quando il riconoscimento a un indennizzo viene riconosciuto (perché è tutt’altro che frequente che ciò accada), l’indennizzo arriva dopo molti anni dai fatti e per una somma che spesso non è considerata congrua rispetto ai danni e alle sofferenze di una vita costretta a deviare dal suo naturale corso. E nemmeno si è certi di individuare il responsabile dell’errore giudiziario, perché secondo la giurisprudenza di legittimità il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di querela poi rimessa, di prescrizione o derubricazione del reato contestato e il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può essere ritenuto di per sé indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo ingiusto. Una legge del 2006 ha individuato gli illeciti disciplinari in cui i magistrati possono incorrere sia nell’esercizio delle funzioni che fuori da esse. Ma basta leggere i numeri dell’ultimo report dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia per avere un’idea delle proporzioni. A fronte di migliaia di errori giudiziari, nel 2019 sono state promosse in Italia 24 azioni disciplinari nei confronti di magistrati, due delle quali si sono concluse con un non doversi procedere e 22 sono ancora in corso. Dal 2017 sono state 53 in tutto le azioni disciplinari e solo 4 hanno portato alla censura, in 7 casi c’è stata assoluzione e 31 sono ancora in corso.

Napoli, è record di innocenti in carcere: milioni in fumo per risarcimenti per ingiusta detenzione. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Basta una somma di denaro a ripagare una persona che sia stata sbattuta in carcere ingiustamente? Basta qualche migliaio di euro a risarcire chi ha sopportato la privazione della libertà, il sequestro dei beni, magari il fallimento dell’impresa e il discredito agli occhi dell’opinione pubblica? Certamente no, ma intanto la riparazione per l’ingiusta detenzione sembra l’unica “rivincita” concessa a chi sia stato arrestato e poi completamente assolto da ogni accusa. Ma quello stesso istituto giuridico rivela almeno due tendenze: quella a un uso troppo largo della custodia cautelare e quella del mancato controllo dei magistrati sull’operato dei colleghi. Anche nel distretto di Corte d’Appello di Napoli, da anni ai vertici della classifica dei casi di ingiusta detenzione. La conferma arriva dall’ultima relazione predisposta dal Ministero della Giustizia. Nel 2018 le decisioni di accoglimento delle domande di riparazione sono state ben 92. In 54 casi l’istanza è stata accolta perché il richiedente era finito in carcere o ai domiciliari, salvo poi prosciolto in primo grado o assolto in appello o in Cassazione. In altre 38 circostanze, invece, la misura cautelare era illegittima. Per Napoli è un triste record: al secondo posto della classifica dei distretti di Corte d’Appello con più domande di riparazione accolte c’è Reggio Calabria con “soli” 65 casi, poi Roma con 62. Tutto normale? Certo che no. Un numero così alto di riparazioni dimostra che qualche magistrato non ha fatto bene il proprio lavoro. O perché non ha esercitato l’azione penale in modo corretto o perché non ha verificato che le misure cautelari fossero state adottate nel rispetto della legge. In entrambe le ipotesi, qualcuno è stato arrestato ingiustamente con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano patrimoniale e personale. «I casi di riparazione dovrebbero essere eccezionali, invece sono troppi – sottolinea Alfonso Furgiuele, avvocato e docente di Procedura penale dell’università Federico II – È grave che le persone vengano private della libertà con tanta leggerezza». Ma quanto sborsa lo Stato per risarcire i cittadini ingiustamente detenuti? Nel 2018, la somma ha superato i 33 milioni di euro per 895 ordinanze di accoglimento e un importo medio di circa 37mila euro. A Napoli i pagamenti sono stati 113 per un ammontare complessivo di due milioni e 400mila euro. Il dato è allarmante sebbene, in questo caso, il distretto di Corte d’appello partenopeo si piazzi alle spalle di Catanzaro, Roma, Catania e Bari. «La riparazione è stata progressivamente svalutata – aggiunge Furgiuele – Le cifre riconosciute sono ridicole rispetto ai danni causati dall’ingiusta detenzione. E a questi, in molti casi, si aggiunge quello del sequestro che può durare svariati anni e spesso, quando ha ad oggetto un’azienda, porta gli imprenditori al fallimento. Così anche la riparazione diventa inutile». A questo punto la domanda sorge spontanea: il magistrato che abbia ingiustamente spedito in carcere o ai domiciliari un indagato a quali conseguenze va incontro? I dati dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia ci parlano di sole 41 azioni disciplinari promosse in tutta Italia, undici delle quali conclusesi con l’assoluzione. Eppure, in alcuni casi, i magistrati che dispongono ingiustamente la carcerazione sono gli stessi che spendono milioni di soldi pubblici per le indagini. «Se c’è stata una responsabilità anche colposa nell’applicazione di una misura cautelare, un magistrato deve risarcire il danno – conclude Furgiuele – così come trovo necessario un controllo più serio anche a livello disciplinare: la libertà personale non può essere calpestata».

Malagiustizia, migliaia di errori ma pagano solo quattro magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Luglio 2020. I casi di ingiusta detenzione sono un migliaio all’anno in tutta Italia. Le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati sono 53 in tutto, ma in tre anni, cioè nel periodo 2017-2019. Il dato napoletano è tra quelli non indicati nel bilancio dell’Ispettorato del ministero della Giustizia. Resta il fatto che non bisogna essere sofisticati matematici per cogliere una sproporzione tra questi numeri. Se a Napoli, solo nel 2019, ci sono state 129 ordinanze che hanno disposto indennizzi per un totale di oltre tre milioni di euro (3.207.214 a voler essere precisi), vuol dire che ci sono stati 129 casi accertati di ingiusta detenzione. Vuol dire che ci sono state 129 persone che hanno subìto l’arresto e il carcere, senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma sicuramente per disposizione di un magistrato, pm o giudice. E allora viene da chiedersi come mai sono soltanto 53 i magistrati, che in tutta Italia e non solo a Napoli, e in tre anni non in uno solo, sono stati sottoposti ad azioni disciplinari, considerando anche che di questi 7 sono stati assolti, 4 hanno avuto la censura, 9 non doversi procedere e 31 procedimenti sono in corso. Di chi è allora la responsabilità delle centinaia di ingiuste detenzioni risarcite nello scorso anno a Napoli e del migliaio risarcito in tutta Italia? Pur volendo considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il diritto alla riparazione è configurabile anche nel caso di un atto di querela successivamente oggetto di remissione, nel caso di reati in prescrizione o derubricati, resta una sproporzione. Come si spiega? «Vuol dire che c’è un abuso della custodia cautelare», afferma Raffaele Marino, magistrato di lunga esperienza, attualmente in servizio presso la Procura generale di Napoli. «Bisogna distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che è invece patologico. Se un imputato viene assolto in Appello siamo di fronte a un errore fisiologico ma se viene scarcerato dal Riesame e la posizione archiviata si tratta di un errore patologico, a mio avviso». Il procuratore Marino sottolinea tuttavia la singolarità di ciascun caso. «Bisogna valutare caso per caso sulla base delle carte, non si può generalizzare». Ma pur restando distanti da facili generalizzazioni, un problema c’è. «Sta nella mancanza di controlli da parte dei capi degli uffici giudiziari o di volontà di fare controlli – aggiunge Marino – Se, per esempio, l’indagine di un pm viene ridimensionata già al Riesame vuol dire che il pm non ha lavorato bene, e se non ha lavorato bene il pm non deve stare dove sta oppure va controllato. C’è tutto un ragionamento da fare che non viene fatto». Cosa si può fare? «Bisognerebbe introdurre meccanismi di controllo seri, ora invece tutto è affidato al capo dell’ufficio che dovrebbe essere Superman per controllare tutto e tutti». Di fronte ai numeri del report ministeriale, Marino non ha dubbi: «Quando abbiamo numeri di questo genere c’è qualcosa che non funziona nella resa giudiziaria e rispetto alla lesione dei diritti primari dei cittadini, perché chi viene messo in galera subisce danni che sono notevolissimi. Per non parlare del processo penale, che oggi ha un fine processo mai grazie a nostro ministro della Giustizia, ed è di per sé un danno, un danno notevole. Al di là del dato economico, quindi, il costo sociale della giustizia in Italia è enorme e questo Paese non può più sopportarlo». «Ben vengano – conclude il magistrato – proposte come quella di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta che cerchi di capire cosa non funziona e come il progetto di una riforma che parta anche dal Csm per eliminare il potere delle correnti».

Gli assolti hanno diritto al risarcimento da parte dello Stato. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 19 Febbraio 2020. Se vinci una causa civile sarà la parte soccombente a pagare tutte le spese legali affrontate nel processo. Lo stesso accade anche nel giudizio amministrativo, persino nel caso in cui sia la parte pubblica a uscire sconfitta. Non è così nel processo penale, nel quale le uniche forme di equilibrio tra le parti sono il gratuito patrocinio (cui può accedere solo colui il cui reddito non superi gli 11.500 euro) e la riparazione per ingiusta detenzione. Che ha comunque vincoli molto rigidi e tempi eterni. Che ci sia un vuoto legislativo nel nostro ordinamento è evidenziato anche dal fatto che ben 28 Stati nostri “vicini di casa”, dall’Austria alla Francia, al Lussemburgo fino alla Turchia hanno leggi ispirate al principio che, se lo Stato, dopo averti inflitto la pena di un processo che non ti sei cercato, ti ha poi assolto, magari con la formula più ampia, ti deve pagare l’avvocato. Sarebbe il minimo sindacale, verrebbe da dire, ma non è così, in Italia. Ne sa qualcosa l’avvocato Giuseppe Melzi, il quale, non solo ha subito una lunga persecuzione e nove mesi di ingiusta custodia cautelare (per la quale attende da due anni e mezzo il risarcimento), ma ha dovuto chiudere un prestigioso studio a due passi dal Duomo, 500 metri quadri e venti dipendenti, per affrontare le spese di giudizio e potersi riprendere la vita, a settant’anni. È nato a Milano in questi mesi il “Comitato contro l’ingiustizia personale e familiare”, promosso e presieduto da Gabriele Albertini, che non solo è stato forse il sindaco più amato della sua città, ma che da parlamentare, rispolverando quella che lui con civetteria definisce sempre una “modesta” laurea in giurisprudenza, ha affrontato il problema delle ingiustizie anche dal punto di vista economico. Il suo disegno di legge, presentato nella diciassettesima legislatura con l’adesione di oltre il 60% dei senatori, modificava l’articolo 530 del codice di procedura penale impegnando il giudice, nella pronuncia di assoluzione dell’imputato, a condannare lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio. Vasto programma, ambizioso e molto coraggioso. Che lo stesso Albertini, cui non è mai mancata la caparbietà, ha riproposto lunedì scorso nella bellissima cornice di Palazzo Visconti a Milano, con il concreto sostegno di due colleghi parlamentari, Enrico Costa, avvocato e Giacomo Caliendo, ex magistrato, già membro del Csm e presidente dell’Anm, il sindacato delle toghe. Tutti e due hanno presentato disegni di legge sull’argomento, anche se il bandolo della matassa ha diversi punti di partenza. Una cosa è chiara: vietato parlare di “ingiusta imputazione”, se no i magistrati si arrabbiano. Ma il protagonista è pur sempre l’imputato che sia stato assolto con sentenza passata in giudicato perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Ma alla fine, guardando la ratio dei tre disegni di legge, emerge in filigrana il ruolo che i tre, prima di arrivare in Parlamento, hanno svolto nella vita professionale: un imprenditore, un avvocato, un magistrato. È quest’ultimo, ovviamente, il più cauto. Tanto che, laddove Costa nella relazione introduttiva afferma con coraggio che l’esigenza di salvaguardare le finanze pubbliche non potrebbe mai soverchiare il diritto alla difesa e che comunque non potrebbe mai essere un problema di chi ha già sofferto la pena del processo, ecco che Caliendo tende una mano al bilancio dello Stato. E propone un risarcimento senza toccarne le tasche in modo diretto, ma con detrazioni fiscali sul reddito della persona fisica fino alla spesa concorrente di euro 10.500. Ma perché porsi il problema della spesa a carico dello Stato dei casi di “ingiusta imputazione”? Nello Stato di diritto e in un Paese in cui la giustizia funzionasse, dovrebbe essere un problema piccolo, il rimborso delle spese legali. Pure, in una sala in cui sono presenti molti tecnici del diritto, magistrati e avvocati, fanno impressione i dati sciorinati ( e non contraddetti da nessuno) dall’avvocato Augusto Colucci. Ogni anno in Italia si aprono circa un milione e duecentomila procedimenti penali. Di questi, tre su quattro finiscono con dichiarazione di non colpevolezza dell’imputato o di prescrizione del reato. In Germania sono ogni anno 500.000 i nuovi processi, che vengono risolti in tre anni e di cui solo il 14% si conclude con un’assoluzione. Il che significa che i pubblici ministeri (e i gip fotocopia) raramente fanno la mossa di lanciarsi in cause avventate che finiranno con l’assoluzione degli imputati o la prescrizione del reato. Forse in Germania o nei Paesi anglosassoni del common law e della discrezionalità dell’azione penale ha minor peso il circo mediatico, come ricorda il giornalista Maurizio Tortorella, uno dei pochi che abbia saputo sottrarsi alla tentazione di acquattarsi sotto la toga del Pm. C’è un problema irrisolto, ricorda, anche nella normativa sulla riparazione per ingiusta detenzione. Perché c’è un momento, quello dell’arresto, in cui la testa ti va da un’altra parte, e magari ti avvali della facoltà di non rispondere o addirittura cadi nell’autocalunnia perché sei stato torturato, come è capitato a Giuseppe Gulotta, che ha scontato da innocente 22 anni di carcere e non avrà diritto a nessun risarcimento. Ma il problema non ha solo risvolti di tipo economico. C’è un dato culturale, nel nostro Paese, difficile da sradicare. Lo abbiamo toccato con mano negli anni successivi al referendum, quando non si è riusciti a fare una decente legge sulla responsabilità civile. E lo stiamo rivivendo mentre si discute della prescrizione dei reati. C’è un soggetto da sempre irresponsabile o non responsabile: si chiama magistrato ed è l’unica vera Casta. L’unico che può trasformare qualunque cittadino in “ingiusto imputato” o “ingiusto detenuto”. E nessuna riparazione economica potrà mai sanare del tutto una ferita così profonda e così estesa.

Da tv.iltempo.it il 30 gennaio 2020. Il divorzio in Italia dura più della pena per l'omicidio del coniuge. Almeno prima che il legislatore accorciasse i tempi delle separazioni. A misurarsi con la fine arte del paradosso, da gustare con ironia, è Piercamillo Davigo, presidente della II Sezione Penale presso la Corte suprema di Cassazione e membro togato del Csm. Il ragionamento serve a smascherare un sistema giudiziario "criminogeno", sostiene il magistrato: "Per la soppressione del coniuge la pena prevista è trent'anni. Ma vediamo cosa succede. Se uno ammazza la moglie e confessa, porta a casa le attenuanti generiche". Grazie alla sua versione, l'unica, magari si becca anche l'attenuante della provocazione. "E risarcisce il danno che in realtà è il costo della separazione", spiega il magistrato strappando i sorrisi della platea. La somma delle attenuanti più il giudizio abbreviato fanno diventare i 30 anni iniziali quattro anni e quattro mesi. Da scontare in carcere, però. Neanche per sogno! "I requisiti non ci sono. Pericolo di fuga? Si è costituito. Inquinamento delle prove? Ha confessato. Reiterazione del reato? È vedovo!". Un anno e quattro mesi ai domiciliari e poi servizi sociali, e questo è quanto. "E dal giorno dopo può fare la comunione, col divorzio no", conclude Davigo in equilibrio tra ironia e un pizzico di amarezza.

Avvocati contro Davigo: «Non venga ad aprire l’anno giudiziario». Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Inopportuno che mandiate Piercamillo Davigo a rappresentarvi sabato all’anno giudiziario del distretto milanese, azzardano gli avvocati penalisti milanesi al Consiglio Superiore della Magistratura. Offendete l’istituzione e siete censori del pensiero altrui, replica il Csm ai legali. Che ora già meditano una qualche coreografica manifestazione di protesta sabato. Poiché le «esternazioni» di Davigo (consigliere togato Csm, giudice presidente di sezione in Cassazione ed ex pm di Mani pulite) «negano i fondamenti costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo», e «diventano inaccettabili se pronunciate da un consigliere del Csm», allora la Camera Penale di Milano (cioè l’associazione che riunisce 600 avvocati penalisti del capoluogo) «ritiene doveroso rappresentare l’inopportunità istituzionale» e la propria «contrarietà alla partecipazione» di Davigo alla cerimonia sabato, e «auspica una rivalutazione della sua designazione» a rappresentare il Csm. L’inusuale iniziativa prende le forme di una pure inusuale lettera al Presidente della Repubblica (presidente del Csm) e ai vertici giudiziari, e subito si sente rumore di frizione slittata nella scelta dei penalisti di andare oltre il legittimo terreno delle critiche ad alcune discutibili posizioni di Davigo: come nell’intervista evocata dai legali sul Fatto del 9 gennaio, sul gratuito patrocinio ai non abbienti da rivedere perché «molti imputati risultano nullatenenti, così lo Stato paga i loro avvocati a pie’ di lista per tutti gli atti compiuti, e quelli compiono più atti possibile per aumentare la parcella». E difatti puntuale dal Csm arriva la risposta non da questo o quel consigliere, ma al più alto livello, cioè dal Comitato di Presidenza composto dal vicepresidente laico David Ermini e dai presidente (Giovanni Mammone) e procuratore generale (Giovanni Salvi) della Cassazione: «Stupisce che venga proprio da una associazione di avvocati la richiesta di censurare la libera manifestazione del pensiero — premette la nota di certo passata al vaglio del presidente Mattarella —. La richiesta, poi, di revocare la designazione del consigliere Davigo a rappresentare il Csm è irricevibile, sia per i suoi contenuti, volti a sanzionare la libera manifestazione del pensiero, sia perché irrispettosa delle prerogative di un organo istituzionale». Si aggiunge l’Anm nazionale, che nei legali vede una «provocazione che contraddice i valori che predica di tutelare». E si ricompattano anche settori di magistratura che da tempo mal tollerano le iniziative di Davigo, come il gruppo progressista di Area: «Non ci ritroviamo in diverse sue posizioni, che anzi in più occasioni abbiamo confutato pubblicamente», ma «riteniamo inaccettabile discriminare chiunque in base alle opinioni, e ancor più tentare di privarlo del diritto di parola». Nella giornata, e chissà perché proprio ieri visto che il paradosso della convenienza giudiziaria a uccidere la moglie anziché divorziare è una gag (in realtà sganciata dalla realtà dei processi) che Davigo da anni insiste a fare nei convegni e ripetere in tv, un video postato nel marzo 2019 e girato anni prima spopola in Rete e miete critiche. «Vorrei chiedergli — punge il professor Giovanni Flora — se sappia di uxoricidi puniti con l’attribuzione di pena che indica» (16 mesi): «Mai in passato a mia memoria sono state date pene così lievi e l’articolo 577 prevede l’ergastolo».

La Camera penale di Milano contro Davigo: “Non lo vogliamo all’inaugurazione dell’anno giudiziario”. Il Dubbio il 29/01/2020. L’attacco dei penalisti milanesi. La lettera della Camera penale milanese: “Abbiamo preso atto della delibera del Dicembre 2019 con cui il Consigliere Piercamillo Davigo è stato designato a rappresentare il Consiglio Superiore della Magistratura alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nella sede della Corte d’Appello di Milano. La Camera Penale di Milano “Giandomenico Pisapia” ritiene doveroso rappresentare l’inopportunità istituzionale di tale designazione considerate le posizioni ideologiche pubblicamente manifestate dal Consigliere Davigo, tra le quali, solo esemplificativamente, le ultime riportate nella intervista pubblicata su II fatto Quotidiano del 9.1.2020. Si tratta di esternazioni che negano i fondamenti costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’Avvocato nel processo penale, che viene marchiato come soggetto sodale con gli interessi più negativi e lucrativi nell’innestare meccanismi difensivi pretestuosi e dilatori.Tali dichiarazioni pubbliche da parte di un magistrato sarebbero di per sé molto gravi, ma diventano inaccettabili se pronunciate, come nel caso del Consigliere Davigo, da un magistrato che riveste l’alta funzione istituzionale di Consigliere del CSM. Tanto che esse sono già state da altri sottoposte all’attenzione dell’organo titolare dell’esercizio dell’azione per eventuali profili di responsabilità disciplinare.Per queste ragioni, la Camera Penale di Milano esprime la sua contrarietà in ordine alla partecipazione del Consigliere Davigo, quale magistrato designato dal Consiglio Superiore della Magistratura, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nella sede di Corte d’Appello di Milano, auspicando una rivalutazione della designazione a suo tempo effettuata”. 

Gli avvocati milanesi allo scontro con Davigo: “Non lo vogliamo all’anno giudiziario”. Redazione de Il Riformista il 29 Gennaio 2020. Piercamillo Davigo non lo vogliamo. È il senso della durissima lettera  pubblicata sul sito della Camera Penale di Milano con la quale gli avvocati milanesi manifestano la perplessità sulla partecipazione del magistrato consigliere del Csm alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario che si terrà sabato prossimo. La presenza di Davigo viene definita dalla Camera Penale di Milano ‘Giandomenico Pisapia’ “inopportuna” considerate “le posizioni ideologiche pubblicamente manifestate dal consigliere Davigo, tra le quali, solo esemplificativamente, le ultime riportate nella intervista pubblicata su II fatto Quotidiano del 9.1.2020”, nella quale accusa sostanzialmente gli avvocati per i ritardi dei processi, interessati alle dilazioni per maggiori guadagni. “Si tratta di esternazioni che negano i fondamenti costituzionali del giusto processo – si legge ancora nella lettera – della presunzione di innocenza e del ruolo dell’Avvocato nel processo penale, che viene marchiato come soggetto sodale con gli interessi più negativi e lucrativi nell’innestare meccanismi difensivi pretestuosi e dilatori. Tali dichiarazioni pubbliche da parte di un magistrato sarebbero di per sé molto gravi, ma diventano inaccettabili se pronunciate, come nel caso del consigliere Davigo, da un magistrato che riveste l’alta funzione istituzionale di consigliere del Csm. Tanto che esse sono già state da altri sottoposte all’attenzione dell’organo titolare dell’esercizio dell’azione per eventuali profili di responsabilità disciplinare”. “Per queste ragioni – conclude la missiva – la Camera Penale di Milano esprime la sua contrarietà in ordine alla partecipazione del Consigliere Davigo, quale magistrato designato dal Consiglio Superiore della Magistratura, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nella sede di Corte d’Appello di Milano, auspicando una rivalutazione della designazione a suo tempo effettuata”.

IL CSM DIFENDE DAVIGO – Il Consiglio superiore della magistratura rispedisce però al mittente la richiesta di revocare la designazione del consigliere Piercamillo Davigo a rappresentare l’organo di autogoverno delle toghe all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Milano. Una richiesta definita “irricevibile” che va respinta sia “per i suoi contenuti, volti a sanzionare la libera manifestazione del pensiero, sia perché irrispettosa delle prerogative di un organo istituzionale”.

Paolo Colonnello per “la Stampa” il 30 gennaio 2020. Lo scontro è stato latente per anni, perché tra Piercamillo Davigo e gli avvocati i rapporti sono sempre stati tesi. Il fuoco alle polveri però viene dato l' altra sera quando con un comunicato durissimo gli avvocati penalisti milanesi chiedono che il Csm non mandi in propria rappresentanza il consigliere togato Piercamillo Davigo all' inaugurazione dell' anno giudiziario nel capoluogo lombardo. Uno schiaffo senza precedenti, visto che Davigo è un magistrato simbolo di Milano, diventato famoso per le sue inchieste sulla corruzione nel mitico pool di Mani Pulite. A indispettire gli avvocati, l' ultima intervista di Davigo a Marco Travaglio dove in sostanza accusa i legali di avere interesse a tirare in lungo i processi e propone di farli pagare in solido con i loro clienti in caso di ricorsi respinti in Appello e Cassazione. Apriti cielo: il «dottor Sottile», così soprannominato per l' abilità nel maneggiare il codice penale, per l' intelligenza acuta e la lingua tagliente, viene apertamente ripudiato. Il Csm prende prontamente le sue difese («la richiesta dei penalisti è irricevibile») e ricorda come quel comunicato sia «irrispettoso delle prerogative di un organo costituzionale». Nessuno dei consiglieri però, vuole esporsi più di così. Giusto il consigliere in quota ai 5Stelle Gigliotti, firma una nota nella quale prende pubblicamente le distanze dalla posizione degli avvocati milanesi. Davigo tace, ma fa sapere che sabato sarà comunque presente all' inaugurazione, così come il Guardasigilli Bonafede. Il che fa presagire, tra richieste di dimissioni e contestazioni varie, una mattinata pirotecnica. Certo Davigo questa volta deve inghiottire amaro. Mai, nemmeno ai tempi del governo Berlusconi, quando i rapporti tra avvocati e magistrati erano tesissimi, si era arrivati al punto di ripudiare un magistrato del Csm. Per giunta esponente di spicco dell' Anm, che infatti parla di «provocazione», in qualità di capo della corrente di Autonomia e Indipendenza. «Conosco il disagio dell' avvocatura rispetto alle esternazioni di Davigo che criminalizzano gli avvocati approfittando del pulpito del Csm», spiega Vinicio Nardo, presidente dell' Ordine degli Avvocati di Milano. «Capisco il loro risentimento anche per il fatto che dalla magistratura non vi sia mai una presa di distanza per ciò che dice. Davigo ha sempre espresso posizioni dure, solo che criminalizzare gli avvocati e cercare di far passare l' idea che sia loro la colpa per i ritardi della giustizia, è la goccia che fa traboccare il vaso». Il problema è che ci sia un rischio di personalizzazione. «Stupisce - scrive infatti il Csm - che venga proprio da un' associazione di avvocati la richiesta di censurare la libera manifestazione del pensiero». Ma per gli avvocati «le esternazioni» del giudice Piercamillo Davigo «negano i fondamenti costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell' avvocato nel processo penale». Sabato si prevedono faville. 

Il Csm ai penalisti milanesi: “Sostituire Davigo? Proposta irricevibile”. Il Dubbio il 29 gennaio 2020. La camera penale di Milano aveva chiesto di ritirare l’invito dell’ex pm del pool milanese in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Stupisce che venga proprio da una associazione di avvocati la richiesta di censurare la libera manifestazione del pensiero”. Parole dure, parole scritte direttamente dal Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura e indirizzate al  presidente dei penalisti milanesi, Andrea Soliani, primo firmatario della lettara con cui la stessa camera penale chiedeva ai massimi vertici del Csm, a partire dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, di cancellare l’invito di Piercamillo Davigo all’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto di Milano. “La richiesta di revocare la designazione del consigliere Davigo a rappresentare il Csm all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Milano è irricevibile – scrive il Csm –  sia peri suoi contenuti, volti a sanzionare la libera manifestazione del pensiero, sia perché irrispettosa delle prerogative di un organo istituzionale».

Csm show: in 24 ore fucila Lupacchini e paragona Davigo a Mussolini. Piero Sansonetti il 30 Gennaio 2020 su Il Riformista. È permesso criticare un magistrato? Sì, ma non è permesso delegittimare. Che vuol dire delegittimare? Vuol dire criticare. Cioè far notare i suoi errori, o i suoi difetti. Quindi che differenza c’è tra critica e delegittimazione? La critica è libera e può essere rivolta a tutti gli esseri umani, soprattutto ai politici. Quando la critica è rivolta ai magistrati (anzi: ad alcuni magistrati, un’altra volta vediamo bene quali) diventa delegittimazione: e allora ti stango. E se chi critica un magistrato è anche lui un magistrato? Peggio, perché non solo delegittima ma viola l’altra regola sacra che è quella secondo la quale mai un membro della casta può ferire un altro membro della casta. Così il povero Otello Lupacchini, ex Procuratore generale di Catanzaro, che aveva osato criticare il dottor Gratteri per la spettacolarità della sua retata anti ‘ndrangheta (più di 300 arresti e, nei primi giorni, più di 140 scarcerazioni da parte del Tribunale delle libertà), è stato letteralmente messo al muro, con una velocità assolutamente inedita, dal Csm, che ormai funziona pochino pochino come organismo di governo della giustizia ma è formidabile nel suo lavoro di guardaspalle dei membri del partito dei Pm. Lupacchini in quattro e quattr’otto , su richiesta del ministro in persona, è stato processato, condannato, degradato sul campo e mandato in punizione a 1000 chilometri dalla attuale sede del suo lavoro. E gli è stato anche tolto il diritto di pronunciare sabato prossimo il discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, che aveva già preparato e pare fosse critico. Lo hanno trattato, più o meno, come si faceva con un disertore del Carso, durante la grande guerra. Per fortuna non c’è più la pena della fucilazione alla schiena con gli occhi bendati. Vi risulta che qualcuno, in magistratura, abbia mosso un dito per difendere il dottor Lupacchini? Se avete qualche notizia, non dico di rivolta ma di garbato dissenso, fatemela sapere. Poi c’è Davigo. Che imperversa sui social per un film comico che ha girato (copiando il  testo al suo ex collega Bruno Tinti, ma senza citare la fonte) in verità molto divertente ma non altrettanto compatibile con il suo incarico di membro del Csm. Davigo nel filmetto è bravissimo, molto più bravo, secondo me, di Flavio Insinna, solo un po’ più greve, anche perché non so se sia giusto sbellicarsi dalle risate – dicendo diverse imprecisioni – di fronte al fenomeno della violenza sulle donne. Ma non è di questo che voglio parlare. Ognuno vive la propria immagine come gli va, e i livelli di eleganza non sono obbligatori. Voglio parlare invece del putiferio che è successo sull’asse Milano-Roma per l’apertura dell’anno giudiziario. È successo che a Milano l’anno giudiziario sarà aperto, oltre che dal presidente della Corte d’appello e dal Procuratore generale, anche da Piercamillo Davigo, in rappresentanza del Csm, e dal ministro Bonafede. Cioè da due esponenti di punta del partito dei Pm (Bonafede è considerato un Pm aggiunto, fortunatamente fuori dal ciclo produttivo…) tra i più feroci nel chiedere la riduzione ai minimi termini dei diritti della difesa. La lotta di Davigo e Bonafede contro gli avvocati nei giorni scorsi si è intensificata, Davigo ha pubblicato sul suo giornale, Il Fatto Quotidiano, una paginata intera di proposte di destrutturazione del processo, che francamente non si capisce proprio come possano essere considerate compatibili con il suo ruolo di autorità sopra le parti, che dovrebbe essere il ruolo che spetta a un consigliere del Csm. La Camera penale di Milano ha considerato la notizia dell’invio di Davigo (scortato da Bonafede) una vera provocazione. E ha reagito scrivendo al Csm e chiedendogli di ripensare alla sua designazione. Apriti cielo. Il Csm – che il giorno prima aveva proceduto alla fucilazione di Lupacchini, e che quindi, evidentemente, pensa che il compito del magistrato sia quello di parlare poco – ha immediatamente trovato piena compattezza nel respingere sdegnato la richiesta di Milano e nel definire Davigo un Magistrato con la M maiuscola. (Voi sapete che questo simbolo, la M maiuscola, è una vecchia storia della politica italiana che risale a una novantina d’anni fa. Antonio Scurati ha vinto lo Strega con un libro che si intitola proprio così: “M, il figlio del secolo”…). Quindi Davigo andrà a Milano. E anche Bonafede, e l’apertura dell’anno giudiziario, nel luogo più paludato d’Italia, si trasformerà in una dichiarazione di guerra ai diritti della difesa. Bonafede vuole portare a casa la sua prescrizione, Davigo è già pronto alla seconda fase della battaglia: l’abolizione dell’appello. Tutti e due racconteranno la menzogna che la colpa della lunghezza dei processi è degli avvocati azzeccagarbugli. Tu, a questi che dicono degli avvocati azzeccagarbugli,  puoi portargli tutti i dati che vuoi, per dimostrargli il contrario. Loro non rispondono. Ti guardano con l’aria un po’ tonta, e ripetono: ”La lunghezza dei processi è colpa degli avvocati….”. Diciamo che in questo fine settimana il partito dei Pm ha portato a casa un bel uno-due. Che compensa in gran parte il tracollo elettorale del loro gruppo parlamentare. Quello che lascia interdetti è l’assoluta mancanza di reazioni dalla pancia della magistratura. Possibile che non esista un settore liberale nella magistratura italiana? Tutti allievi di Travaglio? Certamente esiste, ma è rincantucciato in un nascondiglio, ha paura, non vuol venire allo scoperto. Perché? Se lo scopriamo, scopriamo uno dei grandi segreti d’Italia. 

Radicali italiani: «Ora diteci quante condanne sono ribaltate in appello». Il Dubbio il 29 gennaio 2020. Lettera aperta al guardasigilli Bonafede: il segretario Iervolino, la tesoriera Crivellini e il presidente Boni chiedono i dati sulle persone condannate in primo grado, seppur innocenti, potenzialmente esposte, in virtù della riforma, al rischio del processo infinito. Di seguito la lettera aperta rivolta da Radicali italiani al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Signor Ministro, nell’osservare l’avanzamento della riforma della giustizia che vede al centro il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio e le attuali ipotesi di modifica che porterebbero il blocco solo in caso di condanna, condividiamo le preoccupazioni espresse da molti giuristi. Sappiamo che in ambito penale quasi una sentenza su due viene riformata in Corte d’appello. In pratica circa il 45% delle pronunce di primo grado è modificato in secondo, in modo parziale o con un ribaltamento dell’esito iniziale. Un dato che già di per sé può essere significativo, poiché ci lascia supporre che una parte delle riforme faccia riferimento a giudizi di condanna per i quali non può essere applicata una reformatio in peius, ossia l’aggravio della pena. Una materia così delicata, tuttavia, non lascia spazio alle supposizioni e riteniamo, dunque, essenziale che questo dato aggregato venga sviscerato e reso fruibile, affinché a parlamentari, studiosi e ai cittadini tutti sia fornito uno strumento utile alla valutazione di un provvedimento che ha polarizzato le opinioni. Tale dato potrebbe raccontarci, per esempio, quante sono le sentenze di condanna che in appello divengono assoluzioni. Quanti, in numeri assoluti, i condannati che in secondo grado sono riconosciuti come innocenti? Cifre che potrebbero indicare quante persone giudicate innocenti, ma che hanno subito in primo grado una condanna, sarebbero potenzialmente esposte al “fine processo mai”, se private di uno strumento di garanzia come la prescrizione. Non siamo i primi a chiederLe di rendere pubblici i dati necessari a una più approfondita analisi degli effetti della riforma. Risale a circa un mese fa la richiesta, rimasta inevasa, dell’Unione delle Camere penali italiane che sollecita la diffusione di percentuali relative alla tipologia dei reati prescritti. Chi meglio del ministero della Giustizia può reperire e diffondere questi dati? I numeri potrebbero riuscire laddove le parole falliscono: nel dimostrare se si tratti o meno di una legge inutile, dannosa e frutto di demagogia. La pubblicità dei dati in un settore cruciale come quello della giustizia consentirebbe di valutare e bilanciare in modo oggettivo le conseguenze positive e negative di una riforma che ha un impatto rilevante su ogni cittadino e sul diritto ad una giustizia giusta che compia il suo corso in tempi ragionevoli. Ancor più se le ripercussioni potranno andare a toccare, negativamente, anche il piano economico, a causa dell’enorme carico giudiziario delle Corti d’appello e del boom di risarcimenti per irragionevole durata dei processi che potrebbero verificarsi con il blocco della prescrizione. Il passo successivo alla pubblicazione è quello della loro diffusione. Già oggi le statistiche sull’amministrazione della giustizia ci dicono molto, ma restano sconosciute ai più. Sulla durata del giudizio di appello, per esempio, buona parte dei quasi due anni e mezzo che esso in media richiede sono imputabili ai cosiddetti “tempi di attraversamento”, che nulla hanno a che vedere con la celebrazione del giudizio: attesa degli atti di impugnazione, avvisi alle parti, trasmissione dei fascicoli alle Corti d’appello. Lo snellimento delle procedure, l’attribuzione di maggiori risorse umane e tecnologiche, unitamente a un migliore utilizzo di esse, potrebbe ridurne drasticamente la durata media. Ciò che domandiamo è la piena trasparenza, una trasparenza dovuta ai cittadini. Questo consentirebbe di creare le condizioni generali per cui le decisioni vengano prese in un confronto pubblico che mutui dal metodo scientifico la condivisione dei risultati e la loro analisi, con l’obiettivo di arricchire conoscenza e consapevolezza pubblica, ingredienti necessari in una democrazia.

MASSIMILIANO IERVOLINO, segretario di Radicali Italiani

GIULIA CRIVELLINI, tesoriera di Radicali Italiani

IGOR BONI, presidente di Radicali Italiani

Ora una “Giornata sugli errori giudiziari”. Tutti d’accordo tranne Pd e 5Stelle. La proposta di legge promossa dal partito radicale. Valentina Stella il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. A seguito dell’affermazione del Ministro della Giustizia Bonafade, secondo il quale “non ci sono innocenti in carcere”, il Partito radicale ha organizzato ieri una Giornata sugli Errori Giudiziari. L’evento dal titolo “Anche gli innocenti vanno in carcere” è stata l’occasione per presentare la Proposta di Legge, promossa dal Partito e sottoposta all’attenzione di tutti i capigruppo, per indire la giornata nazionale delle vittime degli errori giudiziari per il 17 giugno, anniversario dell’arresto di Enzo Tortora. Per ora hanno risposto positivamente Forza Italia, Lega e Italia Viva. Il Partito Democratico invece, nonostante numerosi solleciti alla segreteria del capogruppo Delrio, non si è reso al momento disponibile a sostenere la proposta di legge. Ad aprire la conferenza Maurizio Turco, Segretario del Partito Radicale: “questa iniziativa si inserisce nella lotta per la giustizia giusta iniziata con Enzo Tortora. Da allora sono pochi i magistrati che pagano per gli errori commessi”. Ha moderato poi Irene Teste, tesoriera del Partito: “abbiamo scelto di far raccontare le storie direttamente dai protagonisti per far dire loro cosa significhi perdere mesi e anni in carcere da innocenti, cosa significhi l’infamia di finire sui giornali ed essere dipinti come mostri. Se è vero che Bonafede – ha proseguito Testa –  è stato mal interpretato, credo allora che il Ministro, dopo aver detto di aver avviato un capillare monitoraggio delle ingiuste detenzioni, possa fare di più e con il Movimento 5 Stelle può adoperarsi per far sì che la proposta diventi legge entro il 17 giugno”. Prima firmataria della proposta di legge è Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera: “grazie al Partito Radicale che è sempre in prima linea per queste battaglie. I giornali sono pieni di storie simili a quelle raccontate oggi. Dal 1992 ci sono circa 1000 casi accertati all’anno di vittime di malagiustizia, tre al giorno, uno ogni 8 ore. Lo Stato ha già speso più di 740 milioni di euro in risarcimenti, e il conto continua a crescere di circa 8100 euro al giorno.  La battaglia che portiamo davanti è battaglia di libertà che va combattuta in maniera trasversale. Dobbiamo lottare contro il populismo penale”. Anche la Lega presente con l’onorevole Riccardo Molinari, capogruppo alla Camera: “le scelte erronee fatte dal passato dai partiti possono essere corrette: ogni partito si è macchiato di giustizialismo becero. Nel mio partito in base alla classe sociale della persona che viene toccata, la sinistra lo ha usato per attaccare qualche avversario politico.  Quindi quando è arrivata la proposta di legge l’ ho subito fatta firmare dai colleghi, perché alla base c’è un tema: ragionare su quali sono i valori che non possono essere intaccati a prescindere dalla stagione politica che si sta vivendo”. Per Italia Viva  è intervenuto l’onorevole Roberto Giachetti: “penso che questo Paese sia malato di giustizia come diceva Pannella. Oltre alla responsabilità civile dei magistrati, occorre interrogarsi sulla progressione di carriera dei magistrati che hanno commessi gravi errori in passato. Si tratta di un problema culturale: se qualcuno viene coinvolto in una indagine si pensa che egli debba dimostrare la propria innocenza e invece sono altri che devono provare la colpevolezza. Si crea purtroppo una torsione culturale e giuridica”. Ispiratore della proposta di legge è stato l’avvocato Giuseppe Rossodivita, membro del consiglio generale del Partito Radicale: “non va sottovalutata la portata di questa proposta in termini di informazione e cultura. Ci sono magistrati che sono diventati delle vere star, come il dottor Davigo, che non rappresentano tutta la magistratura. Ormai sono sempre nei salotti televisivi: un magistrato non ha bisogno di fare questo, di cercare potere e consenso popolare. Questo è anche responsabilità della politica che non ha la forza di fare riforme sull’obbligatorietà dell’azione penale, sui magistrati fuori ruolo.La politica non ha il coraggio di nominare neanche gli avvocati nei vertici apicali come nei Gabinetti o al Ministero. La strada è quella di Marco Pannella: non avere scheletri nell’armadio e puntare verso le riforme”. Il senatore leghista Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia, ha annunciato che la proposta di legge è stata depositata ieri mattina in commissione a Palazzo Madama. Ha chiuso gli interventi politici l’onorevole Enrico Costa di Forza Italia, autore del ddl per cancellare la riforma Bonafede sulla prescrizione, e co-firmatario della proposta di legge: “il tema delle ingiuste detenzioni è legata a diverse temi, tra cui il processo mediatico. È inaccettabile l’uso che fanno le procure e gli inquirenti delle conferenze stampa con video, immagini, intercettazioni neanche mai vagliate e periziate. Il rapporto particolare tra stampa e magistratura crea un marchio sugli indagati e la presunzione di innocenza viene vanificata. Parte della responsabilità è anche di alcuni politici che quando sanno che un collega è stato raggiunto da un avviso di garanzia dicono ‘siamo garantisti ma…’: il "ma" non deve esistere. Il tema della ingiusta detenzione è legato anche alla disinvoltura nell’applicare la custodia cautelare”. Durante la conferenza sono stati forniti ai giornalisti alcuni dati: le misure cautelari emesse nel 2018 in 136 tribunali ammontano a 86.697, con un incremento del 16% rispetto al 2017. A seguito degli episodi di ingiusta detenzione, sono state effettuate solo 16 rilevazioni di illecito disciplinare a carico dei magistrati coinvolti, di cui 4 terminate con assoluzione e 7 ancora in corso. Presenti alla conferenza anche la senatrice Stefania Pucciarelli, presidente della Commissione diritti umani, Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di Errorigiudiziari.com, e Francesca Scopelliti, compagna storica di Enzo Tortora che ha concluso: “parlare di innocenti che non vanno in carcere nel Paese di Enzo Tortora significa o non conoscere il proprio Paese o essere in malafede”.

Furia del Csm su Lupacchini: punito per aver parlato di ingiuste detenzioni e risarcimenti? Giovanni Altoprati il 29 Gennaio 2020 su Il Riformista. Perché la Procura generale della Cassazione e il ministero della Giustizia non rispondono alle denunce di Otello Lupachini, l’ormai ex procuratore generale di Catanzaro? Si tinge di giallo il procedimento disciplinare che ha portato il Csm a disporre il trasferimento di Lupacchini alla Procura di Torino dopo averlo “degradato” a semplice sostituto. L’accusa formulata nei confronti di Lupacchini è quella di aver violato, criticando in una intervista l’operato del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, il dovere di imparzialità, correttezza e riserbo che deve contraddistinguere il magistrato. Lupacchini aveva dichiarato, in occasione della maxi-retata anti ‘ndrangheta di dicembre organizzata da Gratteri, di averne avuto conoscenza solo attraverso i giornali e di avere perplessità sulla tenuta in giudizio di molte delle accuse contestate agli indagati. Lupacchini, come riferito dal suo difensore, l’avvocato Ivano Iai, negli ultimi anni aveva ripetutamente segnalato al ministro della Giustizia e al procuratore generale diverse “disfunzioni” all’interno della Procura di Catanzaro. In particolar modo l’assenza, o quasi, del coordinamento info-operativo fra uffici a cui il pg è preposto per legge. L’avvocato Iai aveva chiesto di conoscere quali fossero stati i provvedimenti presi, ricevendo però, sia dalla Procura generale della Cassazione che dal ministero della Giustizia, un secco no. Come mai? Cosa si nasconde dietro questo silenzio? Il “mutismo” di piazza Cavour e di via Arenula lascia spazio alle più disparate interpretazioni. Ad esempio che non sia criticabile, in questo momento storico, un certo modo di contrastare i fenomeni criminali di stampo associativo da parte della magistratura. Ma non solo. Se la Procura generale della Cassazione e il ministero della Giustizia “non rispondono” a un procuratore generale che ha denunciato criticità negli uffici alle proprie dipendenze, figuriamoci quale esito potranno avere le segnalazioni di mala giustizia di un semplice cittadino. La severità del Csm verso Lupacchini ha poi pochi precedenti. Non si contano, infatti, i procuratori che esternano a ruota libera su tutto. E mai nessuno che abbia avuto alcuna contestazione. Un pg arrivò addirittura a definire “eversive” le indagini di un procuratore e venne scagionato dalla disciplinare del Csm. Il trasferimento a mille chilometri da Catanzaro e la degradazione rappresentano un’onta per Lupacchini al termine di una carriera brillante. A luglio il magistrato romano dovrà lasciare la toga per raggiunti limiti di età. Uno smacco che rende dunque ancor più indigesto il provvedimento disciplinare. Il tempismo della decisione del Csm, che è arrivata nella serata di lunedì scorso, ha invece una risposta. Molto concreta. Fra 72 ore si terrà l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Dopo la cerimonia in Cassazione alla presenza del capo dello Stato si svolgeranno analoghe manifestazioni nei vari distretti di Corte d’Appello. Lupacchini, in qualità di procuratore generale, avrebbe dovuto prendere la parola per un intervento sullo stato della giustizia a Catanzaro. Con il rischio dell’incidente diplomatico con Gratteri. Lo scorso anno Lupacchini tenne un intervento durissimo che fece storcere la bocca ai molti magistrati presenti. Evidenziò, dati alla mano, che Catanzaro era il distretto con il più alto numero di risarcimenti per ingiusta detenzione. Chissà cosa dirà invece chi lo sostituirà quest’anno.

Catanzaro, alta tensione negli uffici giudiziari. Il pg Lupacchini: 'Troppe ingiuste detenzioni'. Replica il presidente Introcaso: "Dati riferiti a prima del 2014. Gratteri forte della fiducia della gente, della dedizione dei suoi magistrati e del sostegno dei vertici delle forze dell’ordine: inviati a Catanzaro i migliori investigatori d’Italia". Antonio Capria su Calabria Informa Sabato 26 Gennaio 2019. E’ palpabile il clima di tensione che attraversa gli uffici giudiziari calabresi e a rivelare il peso dei contrasti nell’affollata aula della corte d’assise di Catanzaro, che ospita la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, non sono soltanto gli interventi al vetriolo e le repliche decise, quanto soprattutto le strette di mano tiepide e distratte, gli incontri schivati, gli sguardi che si perdono lontano dall’interlocutore.

Poco è rimasto del contesto di cordialità, autentica o meno, delle cerimonie passate, al cronista sembra di riavvolgere il nastro ad una decina di anni addietro, quando lo scontro all’interno della Procura di Catanzaro e le indagini condotte dalla Procura di Salerno sui colleghi calabresi conquistarono le cronache nazionali costando, alla fine, la toga al pm De Magistris. Se molto diversi sono i protagonisti, ad apparire simile è il contesto, con la Procura che sotto la guida del procuratore Nicola Gratteri ha dato un deciso colpo all’acceleratore, avviando indagini delicate, che coinvolgono la criminalità ma anche “i poteri forti”, la politica e la pubblica amministrazione, sotto la spinta di una ritrovata fiducia da parte dei cittadini che hanno sete di legalità, o forse di semplice normalità in una terra soffocata dalla ‘ndrangheta quanto dagli abusi, dalle ingiustizie, dai privilegi delle caste. Non a caso nel suo intervento il procuratore Gratteri ricorda che il suo ufficio è “inondato di denunce, di esposti e di richieste per essere sentiti”. Negli uffici della Procura la gente comune sa di trovare un interlocutore attento, disponibile, affidabile, tanto da fare la fila per raccontare il proprio dramma personale e chiedere una soluzione: “i calabresi non sono omertosi, i calabresi non sanno con chi parlare”, ricorda Gratteri, che oltre alla fiducia dei cittadini rivendica di avere quella dei vertici delle Forze dell’Ordine, che hanno inviato a Catanzaro il meglio delle intelligenze investigative del Paese, ma anche di poter contare sull’entusiasmo, la professionalità e la dedizione dei suoi magistrati, “dal più giovane al più anziano”. Come a ribadire che la Procura di Catanzaro è una pigna, la cui unità di intenti non può essere scalfita dai tentativi di delegittimazione o dalla confusione inevitabilmente generata dalla diffusione di notizie come quella sui contrasti con il procuratore generale Lupacchini che il Csm si sarebbe affrettato ad archiviare. L’interesse dei giornalisti, e non solo, è inevitabilmente rivolto al contenuto e ai toni degli interventi dei due procuratori, i microfoni dei tg nazionali orientati verso gli altoparlanti per registrare ogni parola. Il procuratore generale non delude le aspettative e, davanti a due rappresentanti del Csm, sceglie di concentrarsi su un unico argomento che è facile leggere come un fendente contro la Procura e l’ufficio del gip: quello degli innocenti colpiti da provvedimenti di custodia cautelare e dei soldi spesi dallo Stato per i risarcimenti per ingiusta detenzione. Un tema delicato, su cui Catanzaro ha un primato negativo, e che, per il Procuratore generale, è il “sintomo di inadeguata ponderazione degli elementi di prova sia da parte di chi chiede l'applicazione della misura sia da parte di chi la misura dispone” o “di preoccupante superficialità” nella valutazione delle condizioni legittimanti l’adozione della misura cautelare, se non addirittura di “un acritico appiattimento del giudicante sulle richieste non adeguatamente ponderate del requirente, in un'inquietante cortocircuitazione, che si risolve  in palese violazione sia della terzietà del giudice sia della parità delle armi tra accusa e difesa”. Parole durissime che richiedono una immediata puntualizzazione da parte del presidente della Corte d’Appello Domenico Introcaso, che ricorda come i dati dei risarcimenti per ingiusta detenzione citati dal magistrato coprono “un arco di tempo che va dal 2010 al 2014-2015” - quindi un periodo precedente all’insediamento del procuratore Gratteri - e che “l’appiattimento” del giudicante “è un fenomeno certamente esecrabile, ma che non può essere limitato al rapporto procura-gip ma è ascrivibile a tutta la dinamica del processo cautelare”.

Il non invidiabile record di Catanzaro, prima in Italia per ingiuste detenzioni. Il caso al centro dello scontro tra il procuratore generale Lupacchini e il procuratore capo Gratteri (che ostenta fair play). di Annalisa Chirico il 29 Gennaio 2019 su Il Foglio. D’accordo, a Catanzaro non ci sarà alcun trasferimento per incompatibilità ambientale, il Csm ha archiviato il fascicolo, eppure il clima resta incandescente. Il duello tra il procuratore generale Otello Lupacchini e il procuratore capo Nicola Gratteri non accenna a placarsi, e l’inaugurazione dell’anno giudiziario si è trasformata nell’ennesimo match. Il primo, Lupacchini, ha menato fendenti dedicando ben dodici delle sedici pagine del suo intervento, al cospetto delle massime autorità locali e di un consigliere del Csm, il laico Fulvio Gigliotti, al tema della ingiusta detenzione e delle ingenti risorse destinate ai risarcimenti. “Il numero delle vittime – ha scandito Lupacchini – continua ad aumentare senza sosta, così come il denaro che viene versato nei loro confronti. E’ purtroppo noto, non fosse per il clamore mediatico da esso suscitato, che il distretto con il maggior numero di casi è quello della Corte d’appello di Catanzaro che per il sesto anno consecutivo si è confermata nei primi tre posti, con 158 persone che nel 2017 hanno subìto un’ingiusta detenzione; seguono i distretti di Roma con 137 e Napoli con 113”. Un triste primato, non c’è che dire, con un bersaglio neanche troppo velato, Nicola Gratteri, lo sceriffo anti ’ndrangheta accusato da certi colleghi di eccessiva disinvoltura nell’uso delle manette (è proprio di ieri la notizia di 25 arresti, su ordine della Dda di Catanzaro, nei confronti di persone vicine alla cosca Mancuso di Limbadi per traffico internazionale di stupefacenti). “Catanzaro e Roma – ha proseguito Lupacchini sotto lo sguardo serafico dello stesso Gratteri – sono anche le città in cui lo stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: in questo distretto, nel 2017, è stata registrata la cifra monstre di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della capitale”. L’analisi del procuratore generale non si è fermata ai numeri: “E’ sicuro sintomo d’inadeguata ponderazione degli elementi di prova sia da parte di chi chiede l’applicazione della misura sia da parte di chi la misura dispone”, e non meno censurabile sarebbe, a suo dire, l’“acrilico appiattimento del giudicante sulle richieste non adeguatamente ponderate del requirente, in un’inquietante cortocircuitazione che si risolve in palese violazione sia della terzietà del giudice sia della parità delle armi tra accusa e difesa”. La replica non si è fatta attendere. Dapprima, il presidente della Corte d’appello Domenico Introcaso ha evidenziato un dettaglio temporale non secondario: “La misura e i risarcimenti coprono un arco che va dal 2010 al 2014/15”, dunque in epoca antecedente all’insediamento di Gratteri, nel 2016, a capo della locale procura. “Per quanto riguarda l’‘appiattimento’ – ha affermato Introcaso – è un fenomeno certamente esecrabile, però il cortocircuito non credo che possa essere limitato e contenuto al rapporto tra gip e procura ma a tutta la dinamica propria del processo cautelare”, tirando in ballo anche il ruolo di Riesame e Cassazione. Il convitato di pietra, Gratteri, ha esibito un fair play anglosassone illustrando, con dovizia di dettaglio, i risultati del suo ufficio (“Quest’anno posso dire con grande soddisfazione che vi è stato un aumento del lavoro in quantità ma soprattutto in qualità”); poi il procuratore capo ha rivolto un vibrante appello ai cittadini calabresi: “Continuate a inondarci di denunce, di esposti e di richieste per essere sentiti. Da due anni e mezzo la procura ha un ufficio in cui tutte le parti offese, gli usurati, gli estorti, possono venire a incontrarmi. Ci sono circa trecento persone che chiedono di essere ricevute, almeno una volta alla settimana, dalle 14 alle 21, io ricevo tutti. E’ importante trasmettere fiducia ai calabresi che non sono omertosi: i calabresi non sanno con chi parlare. Continuate a denunciare, venite a trovarci. Se la gente bussa alla nostra porta vuol dire che spera di poter risolvere il suo dramma, piccolo o bagatellare che sia, ma per loro è la vita”. Gratteri dunque ha schivato i colpi, evitando che il confronto con l’arcinemico si trasformasse in una baruffa di cortile. Meglio parlare con i fatti descrivendo i risultati di un ufficio che, nelle sue parole, “sta combattendo una guerra” in Calabria. Il procuratore, che si è intestato una nuova Primavera per la lotta senza quartiere contro il crimine organizzato, ha ringraziato i vertici delle forze dell’ordine, il prefetto di Catanzaro Francesca Ferrandino, la Guardia di Finanza “che sta triplicando i risultati”, “i quattro questori di Catanzaro, Crotone, Cosenza e Vibo Valentia che hanno la fortuna di dirigere uomini di primissimo piano mandati dal capo della Polizia”. Infine un riferimento ai suoi magistrati che “stanno dimostrando, dal più giovane al più anziano, non solo professionalità ma anche enorme dedizione per l’ufficio”. Che sia tempo di tregua, almeno tra le toghe?

Da Catanzaro a Torino.

"La giustizia è incivile: si processa senza prove". Il capo del tribunale di Torino, Massimo Terzi: "Situazione non conforme ai principi di democrazia", scrive Luca Fazzo, Martedì 29/01/2019, su "Il Giornale". «Non credo di essermi fatto molti amici tra i miei colleghi. Ma ridirei tutto. Perché ho indicato l'unico, vero tema che affligge la giustizia italiana». Massimo Terzi, 62 anni, in magistratura dal 1981, presidente del tribunale di Torino, sabato scorso ha deciso di andare controcorrente. E mentre i suoi colleghi in tutta Italia inauguravano gli anni giudiziari con le solite proteste sulle carenze di mezzi e senza uno straccio di autocritica, lui ha detto che il dramma vero sono i milioni di italiani che in questi anni sono stati mandati sotto processo senza prove, assolti dopo anni di attesa, di angosce e di sacrifici. Così non si può andare avanti, dice «perché non è conforme ai principi di democrazia».

Come l'è venuto in mente?

«Facendo questo mestiere da un po' di anni ho sempre avuto la percezione che questo sistema non rispetta i diritti delle persone. Siccome sono anche un patito di numeri, mi sono procurato le statistiche. E ne sono rimasto scandalizzato. Ogni anno finiscono sotto processo 150mila persone che poi verranno assolte. Significa nei trent'anni dall'entrata in vigore dal nuovo codice questa esperienza è toccata a cinque milioni di italiani. Se non si interviene, nei prossimi trent'anni toccherà la stessa sorte a altri cinque milioni. E cosa facciamo guardiamo a questa prospettiva con nonchalance? Io penso che sia intollerabile».

Cosa si dovrebbe fare?

«Costringere in modo imperativo e stringente, con una modifica di legge, le Procure a portare a processo solo gli imputati la cui colpevolezza è chiara oltre ogni ragionevole dubbio».

Le diranno: il processo serve proprio a capire se ha ragione l'accusa o la difesa. E a decidere alla fine è il libero convincimento del giudice.

«Nella realtà, il libero convincimento del giudice non esiste: nel processo penale le prove ci sono o non ci sono. I casi davvero controversi, quelli in cui la valutazione è soggettiva, sono così pochi da essere statisticamente insignificanti. Il 50 per cento di assolti vuol dire semplicemente che le indagini sono state fatte male, e che la Procura ha portato in aula processi che non stanno in piedi. D'altronde se non ci sono filtri, se le udienze preliminari finiscono quasi tutte col rinvio a giudizio, i pubblici ministeri sono anche poco motivati a fare le indagini come si deve. Aggiungerei una considerazione».

Dica.

«Questo sistema ha generato una montagna di processi che sta soffocando l'apparato giudiziario, con questo trend tra poco si arriverà a un milione di processi e neanche raddoppiando il numero dei giudici si riuscirebbe a smaltirli. Insomma, a rendere inaccettabile il sistema sono tanto i danni che provoca ai cittadini che la sua insostenibilità economica e organizzativa».

E quindi?

«Visto che il governo annuncia un nuovo codice di procedura penale, si abolisca l'udienza preliminare che di fatto non serve a niente. La Procura si prende la responsabilità di mandare direttamente sotto processo gli imputati per cui ha trovato delle prove inoppugnabili. Il processo si fa con rito abbreviato, a meno che non sia l'imputato a chiedere il dibattimento. Si ridurrebbe drasticamente il numero dei processi, e questo permetterebbe di farli meglio e soprattutto più in fretta, rimediando alle lentezze che ci vengono rimproverate dal resto del mondo e che violano il principio costituzionale della ragionevole durata».

Il pg di Torino Francesco Saluzzo risponde al presidente del Tribunale: “Il pm non può cestinare i processi”, scrive il 29 gennaio 2019 torinoggi.it. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario Massimo Terzi aveva criticato l’operato della Procura. “Il pubblico ministero, in presenza di elementi seri, non può “cestinare” i processi. (…) Non esiste e non può esistere una regola di giudizio valida per tutti: la Procura ha una sua regola di giudizio, i giudici ne hanno altre”. È quanto si legge in una lunga nota firmata dal procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, che ha risposto al presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, dopo le dichiarazioni rilasciate in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Il presidente del Tribunale - scrive Saluzzo - sostiene che oltre il 50% degli imputati per reati di competenza del giudice monocratico (quindi, i fatti meno gravi) vengono assolti nel processo di primo grado. E aggiunge: 'le indagini sono state fatte male e…la Procura ha portato in aula processi che non stanno in piedi'. Premesso che nutro per il collega Terzi una stima grandissima per le sue straordinarie doti di organizzatore e la sua capacità progettuale, debbo dire che anche altre affermazioni del presidente Terzi (più volte riprese in questi giorni) mi hanno suscitato perplessità e stupore ed in ordine ad esse manifesto il mio netto dissenso, interpretando anche il pensiero dei procuratori della Repubblica". "Mi riferisco in particolare - spiega il pg - alla pretesa di 'costringere le Procure a portare a processo solo gli imputati la cui colpevolezza è chiara ogni ragionevole dubbio. Si lancia un messaggio - che, nelle intenzioni del Presidente, voleva anche essere di provocazione - assolutamente fuorviante ed ingeneroso nei confronti delle Procure del mio Distretto e di quella di Torino, in particolare. Non esiste e non può esistere una regola di giudizio valida per tutti". "E pur con tutto il rispetto per i giudici, se alla procura si rimprovera di “mandare a giudizio” processi insufficientemente istruiti (per vero, negli articoli si parla di “male istruiti”), si potrebbe in parallelo dire che le regole di giudizio di taluni giudici appaiono, al pubblico ministero, più “generose” rispetto a quelle di altri giudici. Ma non è questo il punto. Nel processo penale non esistono regole “legali” di giudizio (come talune nel processo civile) ed è, quindi, inesatta l’affermazione del dott. Terzi quando dice che “nella realtà, il libero convincimento del giudice non esiste: nel processo penale le prove o ci sono o non ci sono”. Il principio del libero convincimento (del quale il giudice dà conto con la motivazione) - continua il procuratore - è uno dei cardini di un processo equo e garantito". "Proprio per questo nessuno può conoscere (al di là delle valutazioni sulla “tenuta” del processo che è un dovere per il pubblico ministero) quale sarà l’orientamento del giudice. Ma il problema vero è quello dei numeri. Quel 50% ed oltre! Può essere certamente capitato che, per effetto di vecchi schemi organizzativi della Procura di Torino, si sia ecceduto nell’esercitare l’azione penale. Ma sempre in presenza di una base di verifica sulla esistenza del fatto e della attribuibilità ad un imputato". "Poi il giudice potrà aver ritenuto il fatto sì sussistente ma non corrispondente allo schema del reato; potrà aver ravvisato una causa di giustificazione, di non punibilità, potrà aver ritenuto di “largheggiare” nella valutazione favorevole per dare una corrispondenza più concreta alla offensività ed alla pochezza del fatto". "Il pubblico ministero, in presenza di elementi seri, non può “cestinare” i processi. Le persone offese farebbero opposizione alla richiesta di archiviazione e tanti sono, infatti, i casi di cosiddetta “imputazione coatta”. Il pubblico ministero non ha scelta, manda a giudizio e, nella stragrande maggioranza dei casi, il nuovo giudice assolve, smentendo così il precedente giudice. Ma, in realtà, non si tratta di smentita perché il primo giudice ha solo valutato la sussistenza e la sufficienza degli elementi per rinviare a giudizio (come fa il pubblico ministero) ed il secondo valuta se la quantità di prove (che sono richieste in misura molto maggiore e solida) sia sufficiente per condannare". "Il processo è questo, piaccia o non piaccia. Il giudice è libero. Perché libera è la sua valutazione: ed anche il pubblico ministero, almeno sino ad oggi e nel nostro ordinamento, è libero nelle sue valutazioni. Questo non toglie che si possa migliorare il sistema e lo si è già fatto. La Procura di Torino, in questi ultimi anni, ha archiviato ed archivia molto più della metà dei procedimenti per reati di competenza del giudice monocratico, utilizzando anche lo strumento della tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.). Tutto lavoro che non va al giudice". "Ma gli effetti, anche considerando i tempi assai lunghi del processo di primo grado, si vedranno non prima del 2020-2021. E, nel calcolo del presidente Terzi, non si è tenuto conto di tutte le applicazioni, da parte dei giudici, dello stesso strumento che incide significativamente sul numero complessivo di assoluzioni. Ma il Tribunale di Torino sta celebrando processi per i quali il pubblico ministero non aveva potuto applicare l’art. 131 bis, perché introdotto solo nel 2015. Questo dimostra che i numeri non sono del tutto corretti, perché il numero di per sé non vuol dire nulla. Deve essere scomposto e analizzato". "Le Procure si sono, comunque, attrezzate e hanno imboccato una strada più “virtuosa” ma non sarà questo che risolverà i problemi del funzionamento della macchina giudiziaria”.

Il magistrato accusa: troppi innocenti alla sbarra, scrive Il Dubbio il 30 gennaio 2019. L'intervento del Presidente del Tribunale di Torino Massimo Terzi in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. "Al 30 settembre 2018 risultano pendenti in Italia sui Tribunali nella fase dibattimentale, quasi 600mila procedimenti monocratici e 27mila procedimenti collegiali". Il dato è emerso nel corso dell'intervento del presidente del tribunale di Torino, Massimo Terzi, nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ma il presidente del Tribunale, Terzi ha presentato dati ancora più scioccanti: "Ogni anno abbiamo almeno 150 mila indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti non prescritti) all'esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni". E ancora: "Sulla base di questi dati - ha infatti continuato Massimo Terzi dall'entrata in vigore oramai trent'anni fa del codice di procedura penale abbiamo processato ed assolto in primo grado mediamente dopo 4,5 anni quasi 5 milioni di imputati". Si prevede nel 2019 di affrontare la problematica della ragionevole durata del processo penale. Sono molto pessimista sugli esiti perché nonostante i generici allarmi non percepisco vera consapevolezza del livello di criticità; ed in mancanza di vera consapevolezza gli approcci sono velleitari. Per un corretto approccio si deve valutare la febbre dello stato del processo. Lo farò per maggior chiarezza utilizzando il parametro più in voga degli ultimi vent'anni quello delle agenzie di rating: il famoso spread. Mi limito a semplificarvi i dati concreti della parte di cui sono più esperto e cioè la fase dibattimentale del primo grado. Parte che rappresenta comunque il core business intorno al quale ruota il fulcro del processo penale. Da un punto di vista quantitativo i dati nazionali sono. Al 30 settembre 2018 risultano pendenti in Italia sui Tribunali nella fase dibattimentale: procedimenti monocratici n. 596.426. Procedimenti collegiali n. 27.823. Il dato, pur di per sé impressionante, non è in realtà neppure del tutto significativo della drammaticità del trend e della situazione ove non si ponga a mente che i numeri sono questi nonostante le alte percentuali di archiviazione per prescrizione già in sede di indagini preliminari e nonostante gli "accantonamenti" di vario tipo in conseguenza dei criteri di priorità adottati. Sarà il caso di rammentare che i Giudici adibiti al dibattimento penale sono meno di 1500 in tutta Italia. Mi pare pertanto che, con tutta la benevolenza, su questo dato sia corretto fissare lo spread ad oltre 1000 punti base rispetto ad un processo normale. Vediamo quello che si dice l'outlook, la prospettiva. Negli ultimi dieci anni vi è stato un incremento rispettivamente del 35% e del 32%. Con questo trend tra 15 anni saremo vicini al traguardo di un milione di procedimenti monocratici e di cinquantamila procedimenti collegiali. Mi pare indubitabile prevedere un outlook più che negativo. Su queste basi il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirli, in gergo di rating, titoli spazzatura. Analizziamo ora la qualità del dato per verificare quale possa essere intervento efficace. Non avendo a disposizione i dati nazionali faccio riferimento a quelli del Circondario di Torino che non ho dubbi, sia ben chiaro, tendenzialmente potrebbero anche essere migliori di quelli nazionali. Escluse le direttissime, a dibattimento abbiamo avuto nello scorso anno giudiziario il 35% di assoluzioni sui collegiali oltre il 50% di assoluzioni nel rito monocratico non definito con riti alternativi; i riti alternativi conclusi con applicazione pena o condanna in abbreviato nei giudizi incardinati come ordinari sono meno del 10% sulle sopravvenienze. Se questi numeri li proiettiamo in chiave nazionale ogni anno abbiamo almeno 150mila indagati poi imputati che attendono almeno 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti non prescritti) all'esito del primo grado; 1.500.000 ogni 10 anni. Sulla base di questi dati dall'entrata in vigore oramai trent'anni fa del codice di procedura penale abbiamo processato ed assolto in primo grado mediamente dopo 4,5 anni quasi 5 milioni di imputati. Velleitario quindi pensare di affrontare il cuore della problematica quantitativa con soluzioni quale depenalizzazione, aumento di risorse ovvero aggiustamenti della disciplina del dibattimento; modifiche che avrebbero comunque incidenza non significativa. Vero è che, quando un sistema va in crash non si possono rincorrere medicine palliative, ma è necessario un radicale intervento chirurgico. Il primo intervento che può concretamente prestare un pronto soccorso e quantomeno stabilizzare il trend è l'abolizione tout court dell'udienza preliminare; è di tutti i giorni l'esperienza Kafkiana dei Gup che assolvono in abbreviato il coimputato e sono costretti a fissare a dibattimento l'altro coimputato non richiedente l'abbreviato che poi viene quasi sistematicamente assolto a dibattimento. Se poi minimizzassimo seriamente i reati per i quali giudica il Tribunale a competenza collegiale il pronto soccorso sarebbe ancor più terapeutico. Ma l'unico intervento veramente decisivo, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, è un altro e concerne la necessità che il Pubblico Ministero eserciti l'azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna cioè idonee a convincere il Giudice della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Se poi accompagniamo tale criterio con la trasformazione del rito abbreviato semplice quale rito ordinario mantenendo del tutto libero la facoltà da parte dell'imputato e del suo difensore di chiedere la celebrazione del dibattimento saremmo certi dell'oggettivo rispetto di tale criterio".

Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere". Per 17 anni il gip milanese Giuseppe Gennari ha mandato imputati a San Vittore. Ieri per la prima volta lo ha visitato, scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, martedì 19/02/2019, su Il Giornale. Come sono le celle, signor giudice? «Dei buchi maleodoranti di varia umanità accatastata». Per diciassette anni, il giudice Giuseppe Gennari ha riempito di ospiti San Vittore: condanne, ordinanze di custodia, il lavoro consueto di un giudice penale. Ma come è fatta una cella non lo sapeva. Del carcere conosceva solo le salette disadorne degli interrogatori. Del mondo più in là, oltre il quinto cancello, aveva una idea vaga. E come lui non lo sanno le centinaia di magistrati che in Italia applicano la legge penale. Conoscono a memoria i codici e la giurisprudenza. Ma non immaginano quanti passi è lunga una cella. Ieri mattina, per la prima volta in vita sua, Gennari entra nei raggi di San Vittore. E quando ne esce, dice una cosa semplice: «Bisognerebbe che tutti i miei colleghi vedessero quello che ho visto io. Quando emetti una condanna hai una idea astratta, documentale del carcere. Non hai la percezione di cosa significhi in concreto non solo vivere una restrizione, ma viverla in queste condizioni terribili». Terzo raggio, quinto, sesto. Il giudice tocca con mano i tentativi di rendere vivibile il carcere, i piani sistemati di fresco, le celle dei lavoranti, la minoranza che almeno può dare un ritmo alle giornate. Ma visita anche i buchi neri. Le celle dove stanno ammassati detenuti al sessantacinque per cento stranieri, protagonisti di un turnover frenetico - tre mesi a testa di permanenza media - che rende arduo qualunque progetto di socialità o di formazione. Il reparto dei «protetti», un carcere dentro il carcere, dove stanno quelli che gli altri detenuti punirebbero: i trans, i violentatori, gli «infami». Incrocia quelli che qui non dovrebbero neanche starci: i malati di mente che la chiusura dei manicomi giudiziari destinava alle residenze assistite, ma le residenze non ci sono per tutti, e così finiscono in prigione. Al giudice appaiono fantasmi raggomitolati sotto le coperte, o in piedi a battersi il petto e a guardare nel vuoto. Alcuni non hanno il materasso, perché lo farebbero a pezzi e lo mangerebbero. «Non ho mai visto scene così neanche nei reparti psichiatrici degli ospedali dove ho pure messo gente agli arresti», dice Gennari. Mille detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti: «Ma la presunzione di innocenza - dice Gennari - non vale per tutti allo stesso modo. Per il colletto bianco è un baluardo insuperabile, per il marocchino catturato alla stazione vale zero...». E i marocchini sono qua, insieme ai gambiani, agli albanesi, ai georgiani, in questa babele di lingue dove spesso nessuno li capisce. Dovrebbero pensarci i cosiddetti mediatori culturali, ma arrivano solo due giorni alla settimana e per una manciata di ore: «Il fatto che non ci sia un trait d'union culturale e linguistico - dice il giudice - è inconcepibile, hai gente che magari è sbarcata tre mesi fa e che non ha neppure gli schemi mentali per capire cos'è una regola, cosa ci si aspetta da loro in questo luogo». Per garantire a tutti i tre metri quadri di spazio vitale imposti dalla Corte dei diritti dell'uomo, ora le celle sono aperte 12 ore al giorno. La costrizione fisica si allenta, ma in compenso arrivano i furti, le piccole risse, le tensioni tra etnie e tra singoli. Gennari si muove fra le celle, ascolta le proteste eterne di chi spiega di essere qui da tre settimane senza venire interrogato, sente addosso gli sguardi di chi un magistrato qua dentro non lo aveva mai visto. Fa impressione, vero signor giudice? «Sì, fa impressione. Anche perché è chiaro che non serve a niente e chi uscirà sarà esattamente come prima. Serve solo a tranquillizzare chi sta fuori: ma è una tranquillità effimera». Se i suoi colleghi lo vedessero condannerebbero meno a cuor leggero? «Vedete, quando facevo il giudice preliminare avevo almeno la percezione che ciò che decidevo accadeva subito: ordinavo un arresto, e una persona finiva in carcere. Invece chi fa le sentenze sa che la sua decisione diventerà definitiva anni dopo, dopo altri gradi di giudizio: questo distacca molto dalla concretezza del verdetto. Ma ogni condanna è un seme gettato, poi tutto va avanti per inerzia. Sì, penso che i miei colleghi dovrebbero vedere. Devi vedere la conseguenza delle tue decisioni. Poi magari le prendi lo stesso, ma con un'altra consapevolezza».

L'allarme dai tribunali: 150mila innocenti processati ogni anno. All'apertura dell'anno giudiziario toghe turbate per la nuova prescrizione: ingiusta e inefficace, scrive Luca Fazzo, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale". Le consuete lagnanze sulla mancanza di personale. Gli eterni allarmi sulla corruzione che sale, l'attenzione che scende, i soldi che sono sempre troppo pochi. Da un capo all'altro della Penisola, ieri le cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario nelle ventisei sedi di Corte d'appello hanno riproposto con poche variazioni i temi di ogni anno. Con una sola eccezione, che viene da Torino, e che ha rischiato di perdersi nei milioni di parole che hanno sommerso le cerimonie. Ed è un peccato, perché - sfidando l'impopolarità - un giudice ha sostenuto che il vero scandalo non sono i cancellieri che scarseggiano. Il cuore del problema sono i milioni di cittadini che vengono inquisiti e processati pur essendo innocenti, e che devono attendere anni e anni per vedere riconosciuta la loro estraneità alle accuse. Il giudice controcorrente si chiama Massimo Terzi, è presidente del tribunale di Torino, e si è preso la briga di analizzare i dati della giustizia con i criteri con cui si analizza l'economia: e ha raggiunto la conclusione che «il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirsi, in gergo di rating, titoli spazzatura». I dati, dice Terzi, non consentono altra valutazione: 596.426 processi pendenti davanti a giudici monocratici, quelli dei processi più semplici; altri 27.823 davanti a tribunali collegiali. «Salvo corsie preferenziali, dalla data di ipotetica commissione del reato alla emissione di una sentenza di primo grado, mediamente intercorrono 4/5 anni». Tanti, ma non tantissimi, se l'impatto è colpevole. Il problema è che il sistema inghiotte un numero impressionante di innocenti. Terzi utilizza il dato di Torino (35% di assolti dai tribunali collegiali, 50% dai giudici monocratici), lo proietta su scala nazionale e conclude: «Ogni anno abbiamo 150mila indagati poi imputati che attendono quattro anni dalla notizia di reato per essere assolti. Un milione e mezzo ogni dieci anni. Sulla base di questi dati, dall'entrata in vigore del codice di procedura penale, trent'anni fa, abbiamo processato e assolto 4 milioni e mezzo di imputati». Il rimedio? Serve un «radicale intervento chirurgico» ovvero «che il pm eserciti l'azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna, cioè idonee a convincere il giudice oltre ogni ragionevole dubbio». E, prevenendo le critiche: «Se qualcuno volesse portare argomenti di civiltà giuridica contro tali proposte, lo inviterei a riflettere se è conforme a democrazia che nei prossimi trent'anni si continuino a processare, per poi mandarli assolti già all'esito del processo di primo grado, altri cinque milioni di imputati». Una denuncia quasi esplosiva, che ieri invece cade nel nulla. Siti internet e telegiornali raccontano solo gli altri discorsi inaugurali, riproducibili senza modifiche l'anno passato e l'anno prossimo. Unica variante, la valutazione che dai vertici degli uffici giudiziari viene della riforma della prescrizione, varata tra molte polemiche dal governo 5 Stelle - Lega e destinata a entrare in vigore il prossimo gennaio. Una riforma di cui poche voci isolate come Gemma Cucca, presidente della Corte d'appello di Cagliari, mettono in discussione la civiltà («una sanzione inflitta a distanza di anni è sempre ingiusta») mentre più numerosi sono i magistrati che si limitano a dubitare della concreta efficacia. È il caso di Marina Tavassi, presidente della Corte d'appello di Milano, che segnala come la stragrande maggioranza delle prescrizioni, l'83 per cento del totale, sia dovuta non alla lunghezza dei processi ma a quella delle indagini preliminari: e qui la riforma Bonafede, che stoppa il calcolo dopo la prima sentenza, non è destinata a incidere.

Innocenti in cella: indennizzi per 33 milioni. Ma a molti lo Stato nega il risarcimento, scrivono Filippo Femia e Nicola Pinna su La Stampa, 17 febbraio 2019. Oltre 27mila casi di ingiusta detenzione dal 1992: all'erario sono costati 686 milioni di euro. I penalisti: "Troppi arresti facili, serve più cautela". Finire in carcere senza aver commesso il reato. Gridare la propria innocenza, per mesi, e non essere creduti. Fino a convincersi, in certi casi, di essere colpevoli. Quello che sembra un delirio kafkiano è una realtà attuale. Non in un Paese lontano retto da un governo autoritario, ma in Italia: ogni anno mille persone sono vittime di ingiusta detenzione. Dal 1992 ad oggi 27.308 innocenti sono finiti in cella. Errori che sono costati alle casse dello Stato 682 milioni di euro di indennizzi. Ma il dramma spesso dimenticato è quello di chi non riesce neppure a ottenere un indennizzo. Anche nel 2018 gli errori commessi dai magistrati sono stati parecchi. E sono costati allo Stato anche tanti soldi. Il ministero della Giustizia per la prima volta ha deciso di non divulgare i dati, ma tutti i risarcimenti rientrano nei capitoli di spesa del Ministero dell'economia. E così si scopre che i casi sono stati 896 e che gli indennizzi per ingiusta detenzione hanno superato i 33, 5 milioni. Gli anni peggiori restano ancora il 2011 (con il maggior numero di casi: 1.718) il 2004 (record di indennizzi: 55 milioni) sono lontani, ma il fenomeno sembra avere ancora dimensioni preoccupanti. Da tempo la Onlus "Errorigiudiziari.com" cataloga e archivia le storie di ingiusta detenzione in un database unico in Italia. "Dopo aver conosciuto le vittime, lo sentiamo come un dovere civico - raccontano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi. Ti rendi conto delle conseguenze devastanti sul piano personale, familiare e professionale per il periodo passato ingiustamente dietro le sbarre". C'è persino chi stacca il citofono perché il suono rievoca la notte in cui i carabinieri si sono presentati per l'arresto o chi non può stare in casa con porte chiuse, perché tutto riporta alla mente i passaggi da un braccio all'altro del carcere. Le tabelle che raccolgono i dati delle Corti d'appello sono solo la punta dell'iceberg. Perché il numero totale delle ingiuste detenzioni che si verificano ogni anno sono molti di più. Nelle statistiche ci sono solo nomi e cognomi di chi ha avviato un procedimento contro lo Stato e ottenuto un risarcimento. Ma non includono tutti quelli che hanno una sentenza di assoluzione definitiva in tasca e si sono visti respingere la domanda. Quantificarli non è facile, ma secondo le stime di "Errorigiudiziari.com" un terzo dei procedimenti si arena. Un altro capitolo riguarda chi quella domanda non la inoltra nemmeno. "Ottenere il risarcimento è sempre più difficile perché i giudici riescono a far ricadere la colpa dell'errore sulla vittima - denuncia il presidente dell'Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza. Se uno si è avvalso della facoltà di non rispondere viene accusato di non aver contribuito a chiarire l'errore. Sembra che i giudici si facciano carico dei problemi di bilancio dello Stato per non dover pagare". Ma quali sono le cause principali dell'ingiusta detenzione? "In primo luogo le intercettazioni mal interpretate", sostiene Maimone. Per causare un equivoco basta lo scambio di una consonante in un cognome. "La legge, in teoria, prevede tutte le garanzie per prevenire queste situazioni - spiega il professor Leonardo Filippi, docente di procedura penale all'Università di Cagliari - tutto accade quando si sopravvaluta un indizio o una prova. Gli organi giudiziari spesso si allargano". Eppure, i provvedimenti della Sezione disciplinare del Csm nei confronti dei magistrati che hanno ordinato arresti illegittimi sono rari. E su questo tema il Parlamento dovrà votare la proposta di legge del senatore di Forza Italia, Enrico Costa: "Prevede che le ordinanze con il risarcimento vengano trasmesse al Ministero della Giustizia e al Procuratore generale della Cassazione per valutare l'avvio del procedimento". Il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick dice chele misure cautelari affrettate vengono usate "non come estrema ratio ma come prima forma di intervento". E sembra d'accordo con lui Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, il distretto che guida la classifica per casi di arresti ingiusti. "Questa emergenza sembra quasi non interessare gli addetti ai lavori - ha detto nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario - quasi che le vittime costituiscano un dato fisiologico". Il messaggio di Lupacchini sembra rivolto ai colleghi, come una specie di denuncia per "l'inadeguata ponderazione degli elementi di prova". Tradotto: il carcere preventivo va ordinato solo in casi eccezionali.

Come funziona. Lo Stato stabilisce che nei confronti di chi è vittima di un'ingiusta detenzione deve essere versato un indennizzo. A differenza del risarcimento, viene determinato in base a calcoli precisi. L'indennizzo per un singolo giorno passato in carcere ammonta a 235,82 euro, mentre per gli arresti domiciliari è la metà: 117,91 euro. Il limite massimo è stato fissato in 516.450,90 euro, pari a sei anni, il numero massimo di giorni che la legge prevede per la custodia cautelare. Per ottenere l'indennizzo, la vittima deve fare richiesta al ministero della Giustizia e attendere il pronunciamento della Corte d'Appello. Oltre all'indennizzo si può poi chiedere un risarcimento per danno biologico, professionale ecc... derivante dall'ingiusta detenzione.

Le mozzarelle di bufala scambiate per droga. Un'odissea durata 7 anni. Francesco Raiola è uscito dal carcere due volte: il 12 settembre del 2011, il giorno in cui la porta della cella gli si è chiusa definitivamente alle spalle, e il 15 novembre del 2018, quando è tornato nella stessa caserma in cui era iniziato il suo lungo incubo. Ora indossa di nuovo la divisa dell'Esercito e lo Stato, oltre ad avergli versato un risarcimento, gli ha dovuto restituire anche quei "requisiti morali" che gli erano costati il congedo illimitato. Per tornare alla luce ci sono voluti sette anni e nel frattempo ci sono stati 21 giorni dietro le sbarre e altri 120 di arresti domiciliari a Scafati. Quando si ritrova nel tunnel giudiziario, Francesco ha 30 anni e presta servizio a Barletta. Dalle sue telefonate con amici e commilitoni, carabinieri e procura deducono che faccia parte di una banda di narcotrafficanti. Le intercettazioni causano l'equivoco. Mentre lui parla di un televisore, gli investigatori pensano sia un messaggio in codice per indicare un carico di droga. Una partita, di quelle di calcio, viene scambiata per un scorta di cocaina e persino l'acquisto di alcune mozzarelle di bufala, "ti porto io quella roba", finisce per appesantire le accuse. Per il magistrato che coordina l'inchiesta su una banda di 70 presunti trafficanti, basta e avanza per ordinare l'arresto. Dalle missioni di pace all'estero all'accusa di essere un narcotrafficante il passo è breve. Ma per ottenere il proscioglimento non c'è neanche bisogno di un processo. L'accusa "perché il fatto non sussiste" cade durante l'udienza preliminare, anche se 4 anni di battaglia hanno lasciato molte tracce. Dopo altri due anni arriva anche il risarcimento per l'ingiusta detenzione (41 mila euro, addirittura il doppio della cifra richiesta), ma la sfida più difficile è quella per il lavoro. Perché all'Esercito non basta un'assoluzione.

Giustizia ingiusta e manette facili: ogni anno mille innocenti in carcere, scrive Luca Fazzo su Il Giornale, 17 febbraio 2019. La presidente del Senato Casellati: "Vite calpestate, non è più tollerabile". Finora lo dicevano molti avvocati e qualche coraggioso, isolato giudice. Adesso lo dice la seconda carica dello Stato. E il tema della giustizia ingiusta diventa un caso istituzionale. Il presidente del Senato Elisabetta Casellati prende la parola in una cerimonia a Padova e denuncia lo scandalo che giorno dopo giorno si consuma nelle aule di tribunale italiane: i mille cittadini innocenti che ogni anno vengono sbattuti in galera per reati che non hanno commesso. Uno ogni otto ore. Dal 1992, quando Mani Pulite elevò i mandati di cattura a simbolo dell'efficienza giudiziaria, ventiseimila uomini e donne sono finiti in carcere sulla base di prove che non esistevano. "Donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà e la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata", dice la Casellati davanti agli avvocati dell'Unione delle camere penali. È la prima volta che da una carica così alta si sceglie di puntare il dito sulla disinvoltura con cui si utilizzano le manette. "Sono numeri pesanti - ha ammonito la presidente del Senato - che non possono più essere sottovalutati e che ci obbligano a una necessaria riflessione sull'efficacia degli strumenti normativi finora predisposti per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale, preservare il nostro sistema dal rischio di errori suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e le loro famiglie". Sono tragedie, ricorda la Casellati, che non si chiudono con la scarcerazione, perché la vita degli innocenti finiti in carcere non è solo "danneggiata da una cattiva amministrazione della giustizia" ma è "spesso compromessa dalle conseguenze mediatiche di una misura cautelare o di una sentenza di condanna infondate sotto il profilo giuridico ma comunque sufficienti a radicare nella collettività un inestirpabile sentimento di condanna sociale". La sentenza dei talk show è una sentenza senza appello. A sostegno della sua denuncia, la Casellati cita "l'ultima relazione sull'applicazione delle misure cautelari personali elaborata dal ministero della Giustizia". Sono dati che rispecchiano una realtà nota da tempo a chiunque frequenti davvero le aule di giustizia (bisogna ricordare che il presidente del Senato di mestiere fa l'avvocato) ma finora, incredibilmente, considerati tollerabili, come se una simile quota di assoluzioni fosse la fisiologica conseguenza della dialettica tra accusa e difesa. Anche il mese scorso, quando in tutta Italia vennero inaugurati gli anni giudiziari, nelle decine di relazioni degli alti magistrati questa emergenza non veniva citata. Con una sola eccezione: quella di Massimo Terzi, presidente del tribunale di Torino, che si definì "scandalizzato" dal numero di innocenti inghiottiti dal tritacarne giudiziario, "un sistema non conforme ai principi di democrazia". La denuncia di Terzi sembrava caduta nel vuoto. Invece ora la Casellati rilancia l'allarme con tutta la sua autorevolezza. È vero, dice il presidente del Senato, che "nessun ordinamento può dirsi perfetto e immune da errori sul piano processuale", e che "errori possono verificarsi anche indipendentemente dalla sussistenza di profili di responsabilità in capo a chi li commette". I giudici, cioè, possono sbagliare anche in buona fede. Ma proprio per questo la Casellati difende esplicitamente l'attuale struttura della giustizia penale, i tre gradi di giudizio che oggi molti magistrati vorrebbero limitare in nome dell'efficienza: la possibilità dei ricorsi "esprime la necessità di contenere quanto più possibile il verificarsi di tali anomalie e di garantire che il processo possa giungere alla sua conclusione naturale: l'accertamento della verità".

·         Le Confessioni e le Dichiarazioni estorte.

“Io, torturato dallo Stato e costretto a confessare un delitto che non ho mai commesso”. Francesca Spasiano su Il Dubbio l'8 luglio 2020. L’odissea di Gaetano Santangelo accusato di un omicidio che non aveva mai commesso: «Mi hanno perseguitato per 36 lunghissimi anni e nessuno mi ha mai chiesto scusa». Per tutta la vita Gaetano Santangelo si è dovuto difendere dallo Stato. La sua storia ha a che fare con uno dei grandi misteri italiani irrisolti: la strage di Alcamo Marina del 1976 in cui rimasero uccisi due carabinieri trivellati da colpi di arma da fuoco all’interno della casermetta della provincia di Trapani. Dopo oltre quarant’anni, i colpevoli sono ancora ignoti, mentre una lunga vicenda processuale ha restituito alle cronache le vite spezzate di quattro innocenti condannati ingiustamente: Giuseppe Gulotta, Giovanni Mandalà, Vincenzo Ferrantelli e, appunto, Gaetano Santangelo. Vittime di un clamoroso errore giudiziario, gli allora giovanissimi alcamesi sono stati assolti con formula piena in sede di revisione del processo dopo trent’anni dall’arresto. Nel caso di Mandalà, morto nel 1998, la riabilitazione è arrivata troppo tardi: la sua vita è finita dentro una cella. Per raccontare l’incubo di Santangelo, invece, bisogna partire dal 12 febbraio 1976. Nel cuore della notte i carabinieri di Alcamo bussano alla sua porta per trascinarlo in caserma senza fornire alcuna spiegazione. All’epoca Santangelo ha solo 16 anni, con lui in casa ci sono la madre e i fratellini terrorizzati. Nessun mandato di cattura, nessuna accusa formale: il ragazzino viene chiuso in una stanza, semi immobilizzato, mentre quattro carabinieri lo pestano violentemente. Non ha idea di che cosa stia succedendo, l’anima gli viene strappata a forza di pugni. «Sono stato sequestrato dallo Stato», racconta oggi. Dopo ore di interrogatorio la pelle del volto è martoriata, ha una pistola puntata alla testa: «sì, sì, ho partecipato alla strage della casermetta», sospira esausto. Il verbale della presunta confessione viene stilato l’indomani alla presenza di un avvocato d’ufficio. Santangelo non sa chi sia. Nel registro matricole del carcere, compilato al momento dell’arresto ufficiale, c’è ancora traccia di tutta la vergogna di quella notte: «Gaetano Santangelo riporta delle ferite sul corpo perché è scivolato su una buccia di banana». Seguono 58 giorni di isolamento e 27 mesi di reclusione fino alla data del primo processo. Per comprendere quegli anni e la follia che travolse irrimediabilmente l’esistenza di un adolescente di provincia bisogna calarsi nel clima di terrore e sospetto che attraversò l’Italia all’epoca delle stragi e dei delitti eccellenti. Santangelo non apparteneva alla mafia, non venne mai ricondotto ad alcuna organizzazione politica. Al momento dell’arresto la sua vita si svolgeva tra la scuola serale e la campagna di famiglia dove lavorava come contadino. Per stabilire la sua colpevolezza bastarono le parole di Giuseppe Vesco, suo vicino di casa: arrestato per furto d’auto, l’altro giovane alcamese venne trovato in possesso della stessa arma utilizzata nell’agguato alla casermetta.

Fu lui a confessare per primo facendo i nomi degli altri quattro indagati: passarono anni prima di scoprire che anche quella dichiarazione era stata estorta sotto tortura. Dalle lettere di Vesco scritte dal carcere San Giuliano di Trapani si legge: «Fui spogliato fino a raggiungere il costume adamitico. Non opposi alcuna resistenza, non sarebbe servito a niente. Appena denudato vengo sollevato di peso e portato come un oggetto sui bauli alti da terra tra gli 80 e i 90 cm. Per la prima volta nella mia vita mi sento come un animale da squartare. Un agente avvolge uno straccio alle mie caviglie. Qualcuno tiene i miei piedi uniti…poi è la volta delle braccia. Il mio corpo si piega come un arco e un dolore acutissimo ma sopportabile si avverte alle gambe all’altezza dei polpacci, alle braccia, alle scapole e agli anelli della colonna vertebrale all’altezza dei fianchi. Uno mi tira i piedi, l’altro le braccia, un terzo è a cavalcioni, un quarto mi tiene la testa per í capelli con una mano mentre con l’altra tappa il naso in modo da non farmi prendere aria». Di quella sequenza di violenze è Santangelo a parlarci. La sua voce rotta dal pianto non nasconde la rabbia, l’umiliazione: vuole spiegarci quale immenso equivoco ha distrutto la sua vita. Un atto deliberato, un malinteso non casuale, nato probabilmente da una montatura pianificata dagli uomini guidati dall’allora comandante dei carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso dalla mafia. Mentre percorre le tappe della sua storia Santangelo tiene tra le mani dei fogli con delle date annotate. 1981, sentenza di assoluzione in primo grado per insufficienza di prove. Non hanno mai trovato nulla che lo collegasse al delitto.1982, sentenza di condanna in appello a 22 anni di carcere. Il processo si era spostato intanto da Trapani a Palermo: le pressioni sulla Corte sono enormi, ma nel 1984 la Cassazione annulla la condanna e rinvia il giudizio presso la corte d’appello dei minori: il processo si scinde in due tronconi, Ferrantelli e Santangelo vengono giudicati separatamente dagli altri due imputati. A volersi districare nella vicenda giudiziaria durata oltre trent’anni si prova un senso di vertigine. Di tribunale il tribunale, dalla Sicilia a Roma, il destino di quattro uomini resta in attesa di giudizio. Intanto la vita di Santangelo corre parallelamente: l’incontro con sua moglie, il primo figlio, fino al giorno maledetto del 1992.

La Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna emessa un anno prima, che a sua volta riprendeva quella dell’82. Santangelo ormai ha 30 anni, la notizia arriva come una doccia fredda: «Non potevo aspettare che mi venissero a prendere, costringendo la mia famiglia a fare avanti e dietro dal carcere», racconta spiegando la scelta dell’esilio in Brasile. Comincia la sua vita da latitante. Trovato dall’Interpol, il paese Sudamericano nega l’estradizione in Italia perché in base alla normativa brasiliana il reato è caduto in prescrizione. Passano altri 27 anni: la sentenza di assoluzione definitiva arriva nel 2012 con il processo di revisione, ma Santangelo torna in Italia solo lo scorso anno. Nessuno gli ha mai domandato scusa, ha dovuto affrontare una battaglia legale anche per ottenere il risarcimento dello Stato: ingiusta detenzione, danni psicologici, danni patrimoniali. Non un solo centesimo che possa riparare al dolore: «Quando pronuncia il mio nome, lo Stato italiano deve vergognarsi. Mi hanno perseguitato per 36 anni, e una volta riconosciuto l’errore, non si sono neanche interessati a come stessi, come vivessi in un paese straniero».

Ergastolo confermato per Cubeddu. Il superteste: «Dichiarazioni estorte». Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'8 luglio 2020. I difensori di Alberto Cubeddu, Mattia Doneddu e Patrizio Rovelli, hanno presentato una denuncia con un’intercettazione di Alessandro Taras. «I carabinieri mi hanno estorto ammissioni che io non avrei voluto nemmeno fare». A dirlo è Alessandro Taras, il teste fondamentale per l’accusa nei confronti del 25enne Alberto Cubeddu – difeso dagli avvocati Mattia Doneddu e Patrizio Rovelli – dove si è visto da pochi giorni confermare in appello l’ergastolo per l’omicidio di Gianluca Monni avvenuto in Sardegna, a Orune (provincia di Nuoro), e con il sequestro, l’omicidio e la distruzione del cadavere, mai trovato, di Stefano Masala di Nule. Si tratta di un passaggio di un’intercettazione riportata nella denuncia a firma di Cubeddu stesso, da poco depositata alla procura generale di Cagliari, al procuratore di Sassari e al comandante della legione dei carabinieri Sardegna. Non è di poco conto e che apre, di fatto, delle falle all’impianto accusatorio nei confronti di un ragazzo che rischia definitivamente di scontare un ergastolo per dei delitti che probabilmente non ha commesso. Alessandro Taras, di Ozieri, inizialmente è stato accusato, in concorso con Alberto Cubeddu, di aver incendiato l’auto di Stefano Masala. Il pubblico ministero Andrea Vacca aveva concluso la sua requisitoria sollecitando una condanna a 10 mesi per incendio doloso. Ad aprile del 2017 è stato assolto, ma nel frattempo era diventato il superteste dell’accusa.

Cambia versione e diventa il principale accusatore. Dal 18 settembre 2015, data in cui Taras è stato sentito dai Carabinieri della Compagnia di Nuoro come persona informata sui fatti, si sono susseguiti una serie di accadimenti che lo avrebbero motivato nel corso dei mesi successivi a cambiare le proprie dichiarazioni proponendo una diversa ricostruzione dei fatti in chiave accusatoria. Accadimenti che risultano, appunto, dal contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate nel corso dell’attività investigativa svolta e, tra i quali, hanno avuto un peso determinante gli incontri con i familiari dello scomparso Stefano Masala e i molteplici colloqui con gli investigatori. Già dal febbraio 2016 i parenti dello scomparso si sono impegnati a individuare chi fosse la persona indagata insieme ad Alberto Cubeddu per la distruzione della Opel Corsa, nonché quale auto egli guidasse all’epoca dei fatti. I familiari dello scomparso sono riusciti a individuare l’allora coindagato Alessandro Taras. In tale occasione, come si evince dal contenuto delle intercettazioni, Taras ha proposto ai suoi interlocutori una versione di quanto accaduto nella notte tra l’8 e il 9 maggio 2015 assolutamente sovrapponibile a quella offerta agli investigatori quando è stato assunto a sommarie informazioni il 18 settembre 2015. Ovvero aveva escluso qualsiasi responsabilità di Cubeddu in merito ai fatti per i quali qualche giorno fa è stato condannato.

Quei colloqui riservati e non verbalizzati. Ma poi Taras cambia versione, perché? Dalla denuncia presentata ieri, emergerebbe che già a partire da ottobre Alessandro Taras è stato più volte convocato dai carabinieri in modo informale per colloqui riservati, mai verbalizzati né oggetto di relazione di servizio. Incontri segreti dei quali i legali di Cubeddu sono venuti a conoscenza solo attraverso un’attentissima analisi delle intercettazioni telefoniche agli atti del processo. Taras, parlando con i suoi interlocutori nei giorni di ottobre tra cui una sua amica avvocato, alla quale solo in un momento successivo conferirà mandato difensivo e che in quel momento non risultava essere suo difensore (anche perché egli non era ancora iscritto nel registro degli indagati), ha ricostruito dei fatti che secondo la denuncia presentata da Cubeddu sono di estrema gravità. Ossia, subito dopo l’incontro con il Luogotenente e i Carabinieri del Nucleo Investigativo, Taras ha confidato alla stessa che i militari che lo avevano incontrato avevano preteso che modificasse la sua ricostruzione dei fatti dichiarando che Cubeddu non era in macchina con lui la sera tra l’8 e il 9 maggio 2015, bensì alla guida della autovettura dello scomparso Stefano Masala utilizzata per l’omicidio di Gianluca Monni. Gli avrebbero inoltre contestato il percorso, riferito nell’audizione di settembre sulla base della loro ricostruzione, e minacciato di una revoca indebita e ingiustificata del suo porto d’armi e di un aggravamento della sua posizione, ipotizzando – sempre secondo quanto racconta Taras all’amica – un diretto coinvolgimento nell’omicidio di Stefano Masala e Gianluca Monni.Taras ne parla anche con un amico. Dalle intercettazioni emerge la confidenza che il suo racconto gli sarebbe stato fermamente contestato, nonostante lui fosse stato più che chiaro che qualsiasi modifica alle sue dichiarazioni avrebbe significato dichiarare il falso. Nella medesima intercettazione emerge anche un ulteriore dettaglio. Ossia la pretesa da parte dei carabinieri del nucleo investigativo di rivedere quanto dichiarato nella sua prima audizione, che si sarebbe accompagnata alla garanzia e alle rassicurazioni che così facendo non avrebbe patito alcuna conseguenza. Tali incontri con i carabinieri, però non si sarebbero fermati ad ottobre, ma sarebbero continuati nel tempo. Il 24 marzo 2016, Taras confida ad un amico: «Mi hanno fregato i carabinieri che mi hanno fatto dare una deposizione che non si può usare al processo perché non c’era il mio legale» «me l’hanno estorta» «pressandomi me l’hanno.. mi hanno messo in bocca delle parole che io non avrei nemmeno voluto dire».

La denuncia nei confronti dei carabinieri. Nella denuncia da parte di Cubeddu, che ha nominato come difensore l’avvocato Mattia Doneddu, si fa presente – per corroborare un presunto accanimento nei sui confronti – anche l’informativa dei carabinieri ritenuta veritiera per tutte le successive fasi delle indagini fino al processo di primo grado. Nell’informativa, risalente al 9 maggio 2015, c’era scritto che «il ragazzo risulta indagato per tentato omicidio e rapina in concorso con il cugino Paolo Enrico Pinna». Si riferisce a un episodio avvenuto ad Ozieri il 6 gennaio 2014, una sparatoria contro un automobilista che stava facendo benzina con il solo obiettivo di rubare la macchina. I magistrati hanno prestato fede all’informativa e l’hanno ritenuta sufficiente a supportare la custodia cautelare descrivendo Alberto come una persona violenta, dedita alle rapine, pericoloso capace quindi anche di uccidere. Peccato che tale informativa si è rivelata una bufala, smentita alla Procura dei minorenni e e da quella di Sassari che hanno certificato che Cubeddu non è mai stato iscritto per quei fatti.In realtà tali ricostruzioni esposte nella denuncia, in occasione dell’udienza del 5 luglio 2018 presso la Corte d’Assise di Nuoro, erano state fatte presenti dall’avvocato Patrizio Rovelli, chiedendo alla Corte di trasmettere gli atti alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Cagliari al fine di far valutare dall’organo disciplinare i comportamenti della polizia giudiziaria di Nuoro e in modo particolare degli appartenenti al Nucleo Investigativo di Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri. Ma nulla da fare. La Corte d’Assise di Nuoro non ha assunto alcuna determinazione in ordine alla richiesta.Eppure sono elementi che mettono in discussione uno dei pilatri fondamentali dell’accusa e che ha determinato la condanna all’ergastolo del 25enne. Secondo la denuncia, tutti questi fatti troverebbero come unica spiegazione la volontà dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Nuoro di inchiodare Alberto Cubeddu a responsabilità per fatti che non ha mai commesso. Resta sullo sfondo una domanda. Parliamo di intercettazioni che provengono da atti ufficiali del processo, perché non ne hanno tenuto conto per valutare l’attendibilità del superteste Taras? Quando Alberto è entrato in carcere aveva 20 anni e potrebbe trascorrerci gran parte della sua vita. I familiari, in particolare la sorella Gabriella, non si arrendono. La storia come la sua, in fondo, potrebbe riguardare tutti.

·         Storie di Ordinaria Ingiustizia.

Imprenditore assolto dopo due anni ma l’azienda ormai è fallita e il lavoro è perso. Simona Musco su Il Dubbio il 18 dicembre 2020. Francesco Clemente era accusato di associazione a delinquere e traffico di influenze: assolto, ora la sua azienda è fallita. Ammanettato in albergo, trattato da criminale, costretto a rinunciare agli appalti. E ora, a distanza di soli due anni, assolto, mentre l’azienda di cui era titolare è ormai morta. La storia è quella di Francesco Clemente, 53 anni, ingegnere, con un piccolo passato in politica al fianco di Pierferdinando Casini, che lo ha portato a vestire i panni di consigliere provinciale. Clemente, due anni fa, viene arrestato, con le accuse di associazione a delinquere semplice e due imputazioni per traffico di influenza illecita. L’imprenditore rimane ai domiciliari 21 giorni. Tanto basta per ridurre una vita di sacrifici in brandelli. L’assoluzione è stata pronunciata dalla Corte d’appello di Messina mercoledì scorso, nell’ambito del processo ‘ Terzo Livello’. L’accusa è convinta che Clemente faccia parte di un comitato d’affari in grado di fare pressione su uffici comunali o aziende partecipate in modo che le istanze avanzate dagli imprenditori considerati “amici” avessero esito positivo. Il tutto per acquisire consenso anche in prospettiva elettorale. Le accuse sembrano subito abnormi. Anche perché quanto contenuto nelle carte non trova riscontro nei fatti. A partire dalle intercettazioni, in alcuni casi carenti, in altri stravolte nel loro significato. Clemente finisce ai domiciliari a causa dell’accusa di associazione a delinquere. Il giorno dell’arresto, il 2 agosto 2018, si trova a Roma per lavoro. Titolare di un’azienda, si sta occupando di un appalto milionario per il pubblico. Ma lo stesso viene revocato nella stessa giornata, circa sei ore dopo. Quattro agenti della Dia fanno irruzione nella sua stanza d’albergo, per poi essere identificato e ficcato in un’auto per arrivare fino a Messina. Un viaggio lunghissimo, con la lettura dell’ordinanza come unico svago. «Nello stesso giorno – si legge in una nota dei suoi difensori, Nunzio Rosso e Tommaso Autru Ryolo veniva diffusa l’intervista di uno degli investigatori che, tra l’altro, evidenziava trattarsi di un indagine da manuale con metodo poliziesco, manifestando l’orgoglio per indagini così chiare e semplici e la grande professionalità di coloro che avevano fatto luce grazie ad investigatori illuminati». L’interrogatorio di garanzia si volge il giorno dopo. Clemente non ha potuto leggere null’altro che qualche pagina dell’ordinanza di custodia cautelare, piena zeppa di conversazioni inutili o stravolte, e senza aver potuto parlare con il proprio avvocato. Non ha potuto parlare con il suo avvocato e arriva davanti al gip, dunque, completamente impreparato. L’ingegnere si limita a pronunciare molti «non ricordo». Nelle tre settimane ai domiciliari, però, ha tempo di leggere tutto. E di rendersi conto delle stranezze dell’inchiesta. Quelle stranezze decide di portarle davanti al giudice del Riesame, dove si svolge il primo vero contraddittorio. L’esito è esemplare: l’arresto viene considerato illegittimo, perché manca la gravità indiziaria. E la Procura decide di non impugnare la decisione. I giudici, nelle loro motivazioni, parlano chiaro: la ricostruzione della Procura «non appare sostenibile seppur con il grado di qualificata probabilità richiesto dal contesto cautelare». Anzi, più che sottolineare una sua complicità con l’imputata principale del processo, dimostra la sua distanza da tali logiche. Ciò nonostante, il pm decide di chiedere – ed ottiene – il rinvio a giudizio. Il primo grado finisce con un’assoluzione per il reato associativo e da uno dei due episodi di reato contro la pubblica amministrazione per insussistenza del fatto, pronunciando condanna per l’altro. Tocca, dunque, aspettare un nuovo processo. Che si è concluso mercoledì, con il riconoscimento della sua totale estraneità ai fatti. Una gioia, certo, ma nel frattempo la sua azienda è costretta a dichiarare fallimento. E per la sua assoluzione i titoli di giornali sono meno roboanti rispetto a quelli del suo arresto. «Questa è una delle tante vicende giudiziarie dolorose che se da un lato deve consolidare la fiducia nel senso di giustizia ( che alla fine nella maggioranza dei casi viene resa), dall’altro conduce a serie riflessioni sui tempi della giustizia e sulle conseguenze connesse al coinvolgimento in un procedimento penale specie ove siano intervenuti provvedimenti privativi della libertà – commentano oggi gli avvocati -. Nel frattempo, invero, Clemente è stato arrestato ( e non doveva esserlo), processato e condannato ( ed oggi possiamo dire che non era la soluzione corretta). In tali vesti ( arrestato, imputato e condannato) – continuano i difensori – è apparso sui mezzi di informazione con particolare risonanza e clamore; è stato visto in famiglia e nel mondo delle sue relazioni personali e sociali, spesso con qualche forma più o meno velata di distanziamento, travolto nel suo lavoro a causa dei risvolti e dalle conseguenze della esistenza del processo a carico e dell’arresto. Clemente ha pagato tanto, moltissimo, troppo per un debito rivelatosi non esistente».

Il caso. Dopo 5 anni di fango prosciolto Lorenzo Diana. Il Gip demolisce i Pm: “Accuse infondate”. Viviana Lanza su il riformista il 18 Dicembre 2020. Le intercettazioni erano inutilizzabili, la notizia di reato infondata e il presupposto di partenza, utilizzato per inquadrare la vicenda, sbagliato. Eppure per cinque anni la Procura di Napoli ha portato avanti l’inchiesta su Lorenzo Diana, un filone investigativo nato da una costola dell’indagine, poi archiviata, per concorso esterno in associazione camorristica con riferimento a interessi del clan dei Casalesi sulla metanizzazione dell’Agro aversano. Un filone finalizzato a verificare se Diana, posto che non era l’untore mafioso che si era provato a sostenere che fosse, avesse almeno assegnato incarichi per ottenere da un avvocato il certificato che avrebbe consentito al figlio di iscriversi ad un corso per dirigenti sportivi. Un filone che si è rivelato un flop, perché è emerso che Diana non assegnò alcun incarico per favorire interessi propri o di terzi, ed è emerso anche che il reato corruttivo ipotizzato dalla Procura non poteva essergli contestato in quanto da presidente del Caan, il Centro agroalimentare di Napoli, Diana non era da considerarsi un pubblico ufficiale essendo il Caan non un ente pubblico bensì un ente di interesse pubblico ma di natura privatistica, come disposto tra l’altro dalla Cassazione che in via incidentale si era pronunciata su alcune istanze di fallimento. Di mezzo poi, in questa vicenda giudiziaria, ci sono stati rimpalli di competenze territoriali tra gli uffici giudiziari di Napoli e quelli di Nola (per via della sede a Volla del Caan) e la questione dell’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, perché autorizzate in un procedimento diverso e utilizzate per un reato (l’indagine era nata per abuso d’ufficio, poi modificato in un’ipotesi di corruzione) che non le prevedeva. Intercettazioni a strascico, dunque, come quelle che la Cassazione a Sezioni Unite ha definitivamente bocciato con la sentenza Cavallo all’inizio 2020 e che nell’indagine su Lorenzo Diana rappresentavano l’unica tesi alla base dell’ipotesi accusatoria che la Procura ha provato a sostenere: si trattava di conversazioni al telefono raccolte nel corso dell’inchiesta sui presunti rapporti tra imprenditori, vertici di Cpl Concordia e camorra nell’ambito del progetto nella zona agro-aversana, quell’inchiesta dalla quale Diana, per l’ipotesi di concorso esterno in associazione camorristica, uscì prosciolto, il caso archiviato. Di mezzo, inoltre, nella vicenda giudiziaria che riguarda l’ex parlamentare di San Cipriano d’Aversa, ci sono finiti anche i dettagli di attività investigative che portarono i carabinieri del Noe a fare acquisizioni di atti negli uffici del Caan ma anche in casa dello stesso Diana, portando via 60 cartelline, in pratica l’archivio che ripercorreva gli anni dedicati all’impegno politico, a quello di più volte componente della Commissione antimafia e all’impegno contro le mafie, in particolare contro la camorra dei Casalesi, che gli è valso la scorta per le minacce del clan ma anche importanti riconoscimenti, incluso il premio nazionale Paolo Borsellino. Quelle cartelline furono recuperate poi ammassate una sull’altra e ricoperte di polvere come le cose che non si usano. Intanto Diana era già ricoperto del fango mediatico che si genera ogni volta che si crea clamore attorno a un’ipotesi investigativa ancora tutta da dimostrare. Era il 3 luglio 2015: Diana, icona dell’Antimafia, fu raggiunto da una misura interdittiva, caduta subito con le sue dimissioni da presidente del Centro agroalimentare di Napoli, e da un divieto di dimora in Campania, revocato dal Tribunale del Riesame dopo un passaggio di atti tra Napoli e Nola. La conclusione della vicenda giudiziaria, però, è arrivata cinque anni dopo: «Il procedimento in esame non può che essere archiviato» scrive il gip del Tribunale di Napoli, Marco Giordano, disponendo l’altro giorno il proscioglimento di Lorenzo Diana e accogliendo appieno le argomentazioni difensive sostenute dall’avvocato Francesco Picca. «Deve ritenersi infondata la notizia di reato» è la chiosa che boccia del tutto l’iniziativa della Procura. Le argomentazioni difensive sono state evidenti al punto che lo stesso magistrato Catello Maresca (all’epoca pm, ora passato alla Procura generale e in questi giorni al centro dell’attenzione politica e cittadina per i rumors su una sua possibile candidatura a sindaco di Napoli) ha concluso per l’archiviazione. «Questo vuol dire che ci sono giudici che valutano l’operato della Procura e pm che sanno rivedere le proprie ipotesi iniziali, significa che il sistema ha ancora gli anticorpi. Il problema – commenta l’avvocato Picca – è che questi anticorpi dovrebbero essere tarati su tempi che tengano conto dell’impatto che un’indagine ha sul piano umano, sociale, politico, mediatico, economico. La vicenda di Diana – aggiunge il penalista – trascende quindi dal caso specifico perché tutti sono indagabili e non ci sono aree di impunità, ma quando un soggetto viene indagato è auspicabile un’indagine veloce».

Chi ha sbattuto in carcere Diana: da Maresca a Sirignano passando per Sessa e Scafarto. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. L’hanno dipinto prima come un colluso con la camorra e poi come un corrotto. Proprio lui, indicato da un fratello del boss Michele Zagaria come nemico del clan e divenuto ben presto un simbolo della lotta alla criminalità. Dopo un’inchiesta durata più di cinque anni, però, sono stati proprio loro a chiedere che la posizione di Lorenzo Diana venisse archiviata. I pm che hanno messo sotto inchiesta l’ex parlamentare di centrosinistra sono volti noti del panorama giudiziario. Il primo è Catello Maresca, all’epoca in servizio presso la Direzione distrettuale antimafia partenopea e oggi sostituto procuratore generale di Corte d’appello in odore di candidatura a sindaco di Napoli: è lui il magistrato che, alla fine, ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. L’altro è Cesare Sirignano, ex membro della Direzione nazionale antimafia trasferito a maggio scorso dal Csm per incompatibilità ambientale: fatali alcune frasi sconvenienti sui colleghi, intercettate dal trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara. A supportare Maresca e Sirignano sono stati l’ex maggiore dei carabinieri Giampaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa, recentemente rinviati a giudizio in uno dei filoni del caso Consip. Sono loro i protagonisti di un’indagine in cui è stato fatto largo uso di quelle intercettazioni a strascico che, alla fine, hanno portato all’archiviazione. Già, perché risale a gennaio scorso la sentenza con cui la Cassazione ha chiarito come le intercettazioni autorizzate nell’ambito di un procedimento per un determinato reato non possano essere utilizzate in una diversa inchiesta. «Mi hanno colpito gli aggettivi con cui i pm mi hanno descritto – racconta oggi Diana – Hanno parlato di me come di una “persona spregiudicata” e dalla “personalità doppia”, quasi come se avessero un intento moralizzante». Anche per questo motivo, a proposito di Maresca, Diana sottolinea la necessità di «una riforma che impedisca ai magistrati di candidarsi nel territorio nel quale abbiano esercitato le funzioni anche per un solo giorno». L’ex parlamentare mostra perplessità anche sull’operato degli investigatori: «Continuo a interrogarmi sulla grossolanità con la quale sono state condotte le indagini. La polizia giudiziaria, per esempio, ha ipotizzato a mio carico irregolarità nella gestione dei beni confiscati alla camorra, mentre i pm e il gip hanno successivamente riconosciuto la trasparenza della mia condotta. È normale?». Questi elementi, a distanza di anni, spingono Diana a disegnare un ritratto della giustizia italiana per niente lusinghiero: «Qualcuno vuole far credere che tutti i cittadini siano delinquenti e che tutta la politica sia inquinata. Da qui scaturisce quella visione autoritaria della legge, presente in alcuni settori della magistratura e delle forze dell’ordine, che consente di trasformare un cittadino in prima linea contro la criminalità in un soggetto colluso con la camorra, gettandolo in un tritacarne mediatico-giudiziario. Tutto ciò è inaccettabile».

Gli impresentabili? Andate a cercarli in Procura...I politici cacasotto fermino il potere dei magistrati: la banda dei Pm sta facendo a pezzi la democrazia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Dicembre 2020. Ieri è stato prosciolto Lorenzo Diana, settant’anni, vecchio militante politico di sinistra, ex deputato, ex senatore, vicepresidente della Commissione antimafia, vincitore di un premio Borsellino. Prosciolto dalle accuse di corruzione e prima ancora di concorso esterno in associazione camorristica. Prosciolto perché contro di lui non c’era niente. Anzi, c’era un grande equivoco: lui aveva dedicato la vita a combattere la mafia e invece gli hanno detto che era amico della mafia. L’inchiesta l’avevano condotta due ufficiali dei carabinieri dal nome noto. Un certo Gian Paolo Scafarto e un certo Lorenzo Sessa. Chi sono? Quelli che avevano anche combinato qualche guaio nell’inchiesta Consip, presentando una informativa dove c’erano alcune cose false. Che portavano a Renzi. ‘Sti due, probabilmente, hanno qualche problema. L’abitudine a pasticciare un po’ e a capire fischi per fiaschi. Il Pm che aveva condotto le inchieste su Diana, invece, è un certo Maresca, del quale si è parlato parecchio recentemente perché c’è chi lo vorrebbe candidare a sindaco di Napoli. Scafarto è assessore a Castellammare di Stabia. Chissà se è un caso questo intreccio continuo tra investigatori che si occupano di politica e la politica poi praticata direttamente dagli investigatori stessi. Porte girevoli. Certo, se uno guarda le cose in modo un po’ oggettivo, finisce che si fida poco di questi qua… Ieri è stato scarcerato dal Tribunale della libertà l’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria Domenico Tallini, Forza Italia. Ex presidente perché il procuratore Gratteri, in novembre, decise di arrestarlo e di accusare anche lui – come si usa – di voto di scambio e concorso esterno in associazione mafiosa. Questo giornale, all’epoca, scrisse che dopo aver letto tutte le carte e preso visione degli indizi, era arciconvinto della sua totale innocenza. Non c’era niente di niente contro di lui. Tranne le grida del Fatto Quotidiano e di Nicola Morra, il presidente un po’ folkloristico dell’antimafia. Morra rivendicò la sua intuizione: “L’avevo detto che quel Tallini era impresentabile”. Il Fatto risparmiò sui condizionali, evitando ogni ipocrisia e abbondando in indicativi: «Favorì gli interessi delle cosche offrendo farmaci in cambio di voti». Giornali e politici tutti in fila dietro al Fatto, perché su queste cose, si sa, chi conta è Travaglio. Condanna senza appello e per di più condanna morale perché – così si capiva – ‘sto Tallini speculava sulla salute dei malati. Cercammo di spiegare che non era vero, temo inutilmente. O forse no, perché ieri – come dicevamo – il tribunale del Riesame ha dato ragione a noi e torto a Gratteri. Niente contro di lui: scarcerato. Il tribunale del Riesame, a quanto pare, è andato a vedere come era andato Tallini alle elezioni nel collegio di Crotone, dove – secondo l’accusa – avrebbe commesso il reato di voto di scambio. 400 voti, assolutamente al di sotto della media dei voti negli altri collegi. 11 mila in tutto. Un bel tipo, questo Tallini, che fa il voto di scambio e riceve meno voti di quelli che avrebbe preso il matto del paese. I giudici del riesame sono rimasti un po’ stupiti, poi hanno chiesto: ma chi è il Pm? Gli hanno detto: Gratteri. Allora, senza commentare, si son guardati negli occhi, hanno sorriso appena e subito firmato la scarcerazione. Allora, facciamo un po’ di conti. Limitiamoci all’ultima settimana. Prima le donne: Nunzia De Girolamo assolta con formula piena dopo sette anni di crocifissione e la fine della sua giovane e brillantissima carriera politica. Il Pm aveva chiesto per lei appena un po’ più di otto anni. Perché riteneva che fosse colpevole di una raccomandazione. Se invece scoprono che hai stuprato una ragazza, specie se una ragazza straniera, te la cavi con quattro anni. Beh, ma è giusto così: la corruzione è corruzione, eh.  Poi le persone anziane: Lillo Mannino, 80 anni, ex ministro, ex pilastro della sinistra democristiana di Donat Cattin, ex uomo chiave della politica siciliana, assolto pure lui. Credo per la quattordicesima volta. Anni di durata della tortura? Un po’ meno di trenta. Dai primi anni Novanta. Vita distrutta. Imputato a vita e di mestiere. La politica un bel ricordo. L’ultima volta – dico all’ultimo processo – lo hanno accusato di avere brigato con la mafia. I giudici hanno accertato che, al contrario, aveva dato alla mafia guerra senza quartiere. Vabbé, un qui pro quo. Poi, ieri, Diana e Tallini. Ma vi rendete conto? Vogliamo far finta che non ci sia un problema grosso come una casa? Diciamo la verità: i problemi sono due. Uno contingente, uno assoluto. Quello contingente riguarda la scarsa preparazione (ammenoché non si voglia parlare di malafede, ma io non voglio farlo) di una parte significativa e molto esposta della magistratura italiana. Non c’è da scherzarci. È chiaro che molti Pm non sono all’altezza dei compiti loro assegnati e che nessuno li controlla o li giudica. L’altro giorno in Tv il solito Davigo, con la sua arietta di professorino che sa tutto, ha sbattuto in faccia al nostro collega Alessandro Barbano, la verità. Ha detto: guarda che i magistrati sono valutati ogni quattro anni dal Csm, e da questo giudizio dipendono la loro carriera e anche i loro stipendi. Un giudizio negativo frena la carriera. Barbano gli ha chiesto: “Lei lo sa quanti sono i giudizi negativi?” Ecco i dati: 99 per cento di giudizi positivi, e la carriera corre veloce; 0,7 per cento di giudizi incerti (e la carriera non si ferma, ma vale come ammonimento), e lo 0,3 per cento di giudizi negativi. Davigo ha fatto una faccetta un po’ contrita e ha incassato. Questo giornale, recentemente, ha denunciato il fatto che alcuni concorsi per entrare in magistratura erano truccati. Il Csm sta indagando. Con calma. Il problema è serissimo: certo, abbiamo anche ottimi magistrati in Italia, ma poi abbiamo un pezzo di magistratura incompetente. E siccome il lavoro che si chiede è piuttosto delicato, questo è un problema serio per la società. Il secondo problema è più strutturale. L’eccesso assoluto di potere. Un Pm prende e ti rovina la vita. Potrebbe fermarlo il Gip, ma di solito il Gip è il suo amico del cuore, il compagno di merende. Quasi mai lo ferma. E spesso anche il riesame e il primo grado tendono a dargli ragione, così per quieto vivere, per rispetto verso un collega. Spesso, sì, non sempre. Per fortuna esistono anche giudici serissimi, come dimostrano le assoluzioni di Mannino, De Girolamo, Diana e la liberazione di Tallini. Ma dopo quanto tempo – dal momento in cui un Pm mi ha preso di mira – io incontrerò il giudice obiettivo? E poi, sono sicuro che l’incontrerò? Il potere dei Pm è mostruoso. Incontrollato. Un Pm ha più potere di un principe nel vecchio feudalesimo. Ti prende, se vuole, e ti stritola. Senza che tu possa difenderti. Senza che nessuno possa fermarlo. È un vero orrore, uno sfregio nella nostra civiltà dei diritti e dell’uguaglianza: la divinità dei magistrati. I marchesi del Grillo. Ci sarebbero molti modi per fermare questo orrore: dovrebbe intervenire la politica. Ma i magistrati sono potentissimi e i politici, di solito, cacasotto. I magistrati vincono sempre. Anche perché hanno del tutto sottomesso il mondo della stampa. Guardate il caso Tallini. Cercate un giornale che lo abbia difeso, a parte noi del Riformista. Segnalatemelo, per favore.

Vittime di un sistema predatorio. I casi Mannino, De Girolamo e Del Turco ci dicono che siamo vittime di un sistema predatorio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Dicembre 2020. Calogero Mannino esce definitivamente dalla scena giudiziaria dopo trent’anni, trascinando con sé il castello di sabbia del processo “Stato-mafia”, ventiquattr’ore dopo la fine dei tormenti durati sette anni per Nunzia De Girolamo. Due imputati dal comportamento esemplare, secondo il canone di chi crede nella giustizia e nella lineare difesa dentro il processo. Pure tutti e due, e tanti prima di loro, compresi quelli che alla fine sono stati condannati, come Ottaviano Del Turco che di “giustizia” sta morendo, sono stati uccisi molto prima delle sentenze, negli anni di tortura loro erogati prima del processo e anche dal processo stesso. Nel mondo dei Predatori, che non danno scampo. Se c’è la preda, c’è anche il predatore. Proprio come non esisterebbe la caccia se non ci fossero i cacciatori. Ma non si pensi che sia predatore solo chi tiene la propria vittima in una stanza per venti ore. Lo è anche chi tiene sotto sequestro la vita di una persona per anni, magari sette o magari anche trenta. A volte la vita si spegne prima che il predatore abbia terminato l’opera, in un’estrema forma di autodifesa, come ha fatto Enzo Tortora. Altre volte la mente e il corpo della preda si chiudono in un bozzolo di straniamento, una sorta di sedazione che tiene lontano dal dolore, come sta facendo Ottaviano Del Turco. E tutti gli altri? Tutti gli altri sono costretti ad aspettare. Aspettare che il finanziere che ha svegliato all’alba te e la tua famiglia finisca la perquisizione. Aspettare che dai palazzi di giustizia cessino di uscire le carte a valanga destinate a planare nelle edicole e nei tubi catodici. Aspettare che i tuoi figli possano tornare a scuola senza essere colpiti da sguardi peggiori di lame. Aspettare che i vicini di casa smettano di evitarti. E poi aspettare tutto: gli interrogatori, il rinvio a giudizio, il processo, la sentenza. Aspettare quanto tempo e quanti processi? Calogero Mannino è stato assolto quattordici volte. Oggi ha più di ottant’anni, quando è diventato preda ne aveva cinquanta. I cinquantenni oggi vengono spesso considerati ragazzi, chi di loro è entrato nel mondo politico ritiene di avere molto tempo davanti a sé prima di pensare alla pensione: Giuseppe Conte ha 56 anni, Zingaretti 55, i due giovanotti Renzi e Salvini rispettivamente 45 e 47. Provi ciascuno di loro a chiudere gli occhi e a immaginarsi fra trent’anni. Provino a pensare di trascorrerli nel modo che abbiamo sopra descritto, con uno stress continuo che non ti fa dormire la notte, che a tratti è vera paura, perché la vittima non può che temere il suo predatore. Predatore non è la singola persona. Predatore è il contesto. Troppo facile pensare che la perfidia di un pubblico ministero non vada mai a braccetto con un giudice delle indagini preliminari dopo essersi già coricata con un ufficiale giudiziario ed essersi poi accompagnata a un cronista giudiziario o a un direttore di giornale. Era o no predatore, per esempio, quel contesto che si era creato a Palermo quando il direttore del Fatto Quotidiano era sceso appositamente in Sicilia per “fare il guitto” con uno spettacolo teatrale offensivo e ridicolo, per mettere in berlina un imputato mentre tutti i pm cosiddetti “antimafia” erano seduti in prima fila e, come dice Mannino, parevano quasi aver tratto ispirazione, “a parte le sgrammaticature” dallo spettacolo per scrivere la requisitoria? Era o no predatore il contesto vissuto da Nunzia De Girolamo, quando subì una registrazione clandestina nella casa di suo padre dove si svolgeva una riunione politica, in seguito guardata con sospetto, che le costò le dimissioni da ministro e poi un rinvio a giudizio e un pm d’aula che, contraddicendo il suo collega che ne aveva chiesto l’archiviazione, ha auspicato che lei dovesse passare otto anni e passa della sua vita futura all’interno di un carcere? La storia di Calogero Mannino, che oggi del suo predatore dice “Hanno distrutto un Paese”, è storia di caccia grossa. Il contesto di predazione risale addirittura ai tempi dei reati di mafia a Palermo. All’inizio si chiamava “Sistemi criminali”, un fiume carsico che andò dentro e fuori dagli uffici giudiziari, basato su un teorema che vedeva insieme un gruppo eterogeneo di soggetti che andavano dalla massoneria deviata a Cosa nostra, eversione nera e corpi dello Stato, che avrebbero messo in atto un tentativo di destabilizzazione del Paese. Storia folle che non poteva che trovare nella follia della persona più inattendibile che sia mai circolata nelle aule giudiziarie, Massimo Ciancimino, il proprio padrino, il sigillo del contesto, il processo “Stato-mafia”, la Trattativa, la regina dei contesti di predazione. Il patto scellerato che nel corso di tutti gli anni Novanta avrebbe unito ai boss di Cosa Nostra persino un politico come Calogero Mannino che della lotta alla mafia aveva fatto una delle ragioni di vita. L’ex ministro democristiano si è ribellato al progetto dei predatori di processarlo insieme ai mafiosi e ha scelto un rito alternativo e solitario. Mentre altre persone perbene venivano nel frattempo condannate in primo grado (a dimostrazione che nei contesti predatori non esistono solo i pm), lui è stato sempre assolto. E ha avuto la soddisfazione di leggere nelle motivazioni dei giudici d’appello che le indagini preliminari avevano costruito un castello fatto di “incongruenze”, “inconsistenza” e “illogicità” dell’accusa. Il castello è ormai franato, dopo che la cassazione e lo stesso rappresentante dell’accusa hanno ridicolizzato l’estremo tentativo dei procuratori generali Fici, Barbiera e Scarpinato. I quali non avevano più argomenti per il ricorso, se non violando il principio della doppia conforme che consente, in presenza di due sentenze di assoluzione dell’imputato, alla pubblica accusa di ricorrere in cassazione solo con argomenti inoppugnabili. Ed erano quindi ricorsi a una sorta di trucco, chiedendo ai supremi giudici di dichiarare l’illegittimità costituzionale di quella legge che a loro parere legava le mani all’accusa. Volevano il processo eterno. Se trent’anni vi sembran pochi… Vorrebbero processi eterni tutti i predatori del contesto. Ecco perché non è più sufficiente difendersi NEL processo. Il processo, solo in quanto esiste, è già sofferenza e tortura. È un insieme di atti predatori che lasciano la vittima in una continua spasmodica attesa, come l’animale che se ne sta accucciato nella speranza che il cacciatore non lo veda, che il cane non ne riconosca l’odore o che arrivi una pioggia a cancellarne le tracce. È ora che si cominci a imparare a difendersi anche DAL processo. Non per sottrarsi alla giustizia, ma per denunciare il Predatore. Che non è solo quello che tiene la sua vittima prigioniera in una stanza per venti ore. Ma anche quello che sequestra la tua vita per trent’anni. O anche per un solo giorno.

Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2020. Forse, dopo la diciannovesima assoluzione di Antonio Bassolino perché «il fatto non sussiste», bisognerebbe cominciare a stilare un elenco dettagliato delle sentenze di assoluzione che nella Seconda Repubblica hanno scagionato amministratori e politici risultati innocenti dopo essere stati stritolati per anni da inchieste e processi con grande clamore sui media. Scagionati Filippo Penati, figura di rilievo del Pd, l' ex governatore del Piemonte Cota (Lega), l' ex governatore del Lazio Francesco Storace (centrodestra), l' ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo (Pd), l' ex sindaco di Parma Pietro Vignali (Forza Italia) la cui caduta per (ingiusta) via giudiziaria ha spianato la strada alla prima vittoria grillina con il nuovo sindaco Pizzarotti. Assolti Clemente Mastella e la moglie Sandra Leonardo, sottoposta peraltro a forti misure restrittive. Neanche assolto, ma addirittura archiviato prima del processo Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd. Assolto Nicola Cosentino, ex re campano di Forza Italia. Nemmeno indagato l' ex ministro Maurizio Lupi, costretto a dimettersi perché «coinvolto» in un' inchiesta, idem per l' ex ministra Federica Guidi, data in pasto all' opinione pubblica dopo intercettazioni senza nessuna rilevanza penale. Assolto l' ex presidente dell' Emilia-Romagna Vasco Errani. Assolta la ligure Raffaella Paita (Pd). Assolto dopo carcere e lunghi arresti domiciliari subiti ingiustamente l' ex ministro Calogero Mannino. Assolto l' ex assessore fiorentino del Pd Graziano Cioni. Assolto Roberto Maroni, ex leader della Lega ed ex governatore della Lombardia. Assolto l' ex senatore Pd della Basilicata Salvatore Margiotta. Assolto l' ex sindaco di centrosinistra di Roma Ignazio Marino. Assolto Raffaele Fitto, ex presidente di centrodestra della Regione Puglia. Assolto Beppe Sala, attuale sindaco di Milano. Assolto Riccardo Molinari , parlamentare e dirigente della Lega. Assolto Renato Schifani, ex presidente del Senato di Forza Italia. È solo un elenco, certamente non esauriente, che menziona i casi più noti di politici risultati innocenti dalle accuse della magistratura, accompagnate da ampio risalto mediatico e dalla soddisfazione dei politici di opposto orientamento incapaci di fare lotta politica democratica senza l' aiutino dei procedimenti giudiziari.

Solo danni collaterali, il reale racconto di un medico rovinato dai Pm. Angela Stella su Il Riformista il 6 Novembre 2020. “Solo danni collaterali” del romanziere Pier Bruno Cosso (Marlin Editore, pp. 208, 14,90 euro) racconta la vicenda, ispirata a una storia vera ma con l’uso di nomi di fantasia, “di un onesto medico di famiglia vittima di un magistrato in delirio di onnipotenza”. Siamo a Sassari, in un tranquillo sabato mattina: è l’alba e il protagonista, il dottor Enrico Campanedda è ancora a letto con la moglie, mentre la figlia dorme nell’altra stanza. All’improvviso rumori forti arrivano dalla strada, motori di auto al massimo stridono davanti al suo portone, qualcuno si attacca in modo maleducato al campanello. Quel sabato si trasformerà da porto sicuro in un incubo: carabinieri armati di mitra irrompono nell’appartamento per una lunga perquisizione, senza dare spiegazioni e senza mostrare rispetto per le persone e gli oggetti. “Le conviene collaborare” gli dice subito il maresciallo, “lei ha già fatto processo e condanna” gli urla Campanedda. Mentre l’indagato viene trasferito in caserma, la Procura sta già tenendo una conferenza stampa. Il capitano dei carabinieri che accoglie Campanedda per notificargli l’avviso di garanzia con l’accusa di esercizio abusivo della professione lo illumina così: «Il giorno migliore per fare un’importante azione di polizia giudiziaria è il sabato, in modo che poi se ne parli nei giornali di domenica con il massimo risalto. È una fissazione del magistrato Ferdinando Ferdinando che ha curato le indagini». Proprio in quel momento il pm entra nella stanza, mentre il protagonista è frastornato da tutto quello che sta accadendo: «La conferenza stampa è andata benissimo, adesso le redazioni avranno tutto il tempo per trovare il giusto spazio sui giornali». Campanedda finisce ai domiciliari: «privato della libertà per molti mesi, del lavoro, dello stipendio, e infine degli affetti familiari, il medico, aiutato da un’amica giornalista, si lancia in un’indagine serrata per comprendere l’origine delle accuse infondate di cui è fatto oggetto». Si scoprirà, attraverso una trama avvincente tipica di un thriller, un vero e proprio complotto ai danni di Campanedda, ordito da alcuni personaggi insospettabili. Il magistrato, pur se l’inchiesta verrà smontata, otterrà una promozione: il desiderio del protagonista, scagionato perché “il fatto non sussiste”, è quello di portarlo in giudizio in base alla norma sulla responsabilità civile dei magistrati ma il suo stesso avvocato gli sconsiglia di intraprendere quella strada: «Accusare un magistrato è pericoloso e inutile, un giudice darebbe fuoco alla sua toga prima di sentenziare contro un collega».  Il libro verrà presentato sabato 7 novembre alle ore 18:00 sulla pagina Facebook della casa editrice e dell’associazione “Yairaiha Onlus”, che si occupa dei diritti dei detenuti: parteciperanno,con l’autore, l’avvocato e membro del direttivo di Nessuno Tocchi Caino Simona Giannetti, Sandra Berardi e Giusy Torre di “Yairaiha Onlus”. Modererà un nostro giornalista.

La verità per Rocchelli non passa per una condanna ingiusta. Silvja Manzi e Igor Boni su Il Riformista il 4 Novembre 2020. L’assoluzione di Vitaly Markiv rappresenta una vittoria della giustizia. L’unico sconfitto è il teorema che in primo grado l’aveva fatto condannare a 24 anni di reclusione per la morte del fotoreporter Andrea Rocchelli e per il ferimento del fotografo francese William Roguelon. Il grande assente del processo è stato l’altra vittima, Andrej Mironov. Sbrigativamente indicato come l’interprete, era invece un noto dissidente russo e attivista per i diritti umani. Chi scrive lo ha conosciuto, compagno radicale di numerose battaglie dalla fine degli anni ’90. Per questo motivo, per Mironov, abbiamo seguito con attenzione tutto il processo. Per come si è svolto il primo grado, con una sentenza di condanna incredibile – proprio nel senso che non era credibile –, abbiamo deciso di occuparcene, nel tentativo di aiutare a far luce su quello che ritenevamo un gravissimo errore giudiziario. La Corte d’Assise d’Appello di Milano ha corretto quell’errore assolvendo Markiv per non aver commesso il fatto. Il processo di primo grado si basava sulla convinzione che gli ucraini si erano “stufati” dei giornalisti e avevano deciso deliberatamente di eliminarli. Eccolo il teorema. Vitaly Markiv era effettivamente, in quel momento, di turno sulla collina? Non importa. Per la pubblica accusa non era stato importante dimostrarlo con certezza, stava alla difesa dimostrare che non c’era. L’inversione dell’onere della prova. Evviva lo Stato di Diritto! Markiv poteva, con il mirino in dotazione, vedere gli obiettivi e riconoscerli come giornalisti? Non importa. Ricopriva una funzione tale da giustificare il suo ruolo nell’operazione? Non importa. Per la pubblica accusa così si erano svolti i fatti e non era stato importante dimostrarlo con assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nessun dubbio; al punto che la pubblica accusa non aveva ritenuto indispensabile recarsi sul posto per verificare dal vivo e di persona i luoghi, le distanze. Per far condannare una persona a 24 anni è stato sufficiente Google Maps. Poco importa che nel video di Roguelon, quello drammatico che riprende gli ultimi istanti di vita di Mironov e Rocchelli, con i colpi che si sentono e fanno rabbrividire, Andrej Mironov dica “siamo nel mezzo di un fuoco incrociato”. Non è questa testimonianza che, in primo grado, viene presa in considerazione, ma quella del francese che, anni dopo l’evento traumatico, ricorda la “sensazione” che i colpi arrivassero da parte ucraina. E poco importa che il testimone sopravvissuto sia passato in mezzo ai separatisti che, lo dice lui, smettono di sparare. Nella sentenza di primo grado i filorussi non hanno un ruolo attivo, perché sono gli ucraini gli unici ad avere la responsabilità dell’attacco. Nessun fuoco incrociato. Markiv è il colpevole perfetto, oltre a essere l’unico processabile in Italia. Ma il teorema travalica le aule del tribunale di primo grado. Il pregiudizio è una componente esiziale: gli ucraini sono nazifascisti, Markiv è un nazifascista – quindi colpevole per antonomasia – chi lo difende è un nazifascista. Noi, radicali, siamo nazifascisti perché solleviamo dubbi sul processo. E chi solleva dubbi sul processo infanga la memoria delle vittime. Anche noi, che di una delle vittime eravamo compagni di strada. Prendiamo le parole, perfette, del presidente delle Camere penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, che parlando del processo di primo grado, in un appuntamento da noi organizzato in Senato all’indomani di quella sentenza, disse che le idee dell’imputato sono irrilevanti, potrebbe anche essere un fascista, non deve importarci, in un processo penale va accertata la colpevolezza del reato contestatogli, al di là di ogni ragionevole dubbio, non altro. Se siamo ancora in uno Stato di Diritto. Ma la macchina del fango è partita. Il caso ha una componente emotiva troppo forte. Noi stessi abbiamo subito molte pressioni “amiche” che ci invitavano a non occuparcene. Ma non è possibile. Leggere in una sentenza, “in nome del popolo italiano”, strafalcioni storici, siti di propaganda russa presi come fonti attendibili, errori di calcolo marchiani, ci impone di gridare, di invocare giustizia. La morte ingiusta di due persone meravigliose non può essere riscattata con una condanna ingiusta. Anche se il colpevole perfetto sembra meno meraviglioso delle vittime. Ecco perché abbiamo accolto con sollievo la sentenza di assoluzione del processo d’appello per non aver commesso il fatto. Siamo convinti che onorare la memoria di Andrej Mironov e di Andrea Rocchelli significhi cercare la verità, senza pregiudizi, al di là di ogni ragionevole dubbio, senza accontentarsi del colpevole perfetto.

«Il caso Tortora non ha insegnato nulla. Accuse a Markiv inesistenti». Valentina Stella su Il Dubbio il 6 novembre 2020. Omicidio Rocchelli, intervista all’avvocato Della Valle: «Accusa e giudici hanno detto no a quegli accertamenti che potevano fin da subito evidenziare la infondatezza dell’imputazione». La Corte d’Assise di Appello di Milano ha assolto per non avere commesso il fatto Vitaly Markiv, soldato italo- ucraino arrestato nel 2017 a Bologna e accusato di avere contribuito a causare la morte del fotoreporter Andrea Rocchelli e del suo interprete e attivista per i diritti umani Andrei Mironov, cittadino russo. Vitaly Markiv era stato condannato nel 2019, a Pavia, a 24 anni di reclusione. Subito dopo la sentenza di assoluzione è stato liberato dal carcere di Opera dove era detenuto. Da sempre gli avvocati di Markiv, Raffaele della Valle e Donatella Rapetti, i Radicali Italiani, la Fidu, il giornalista d’inchiesta Cristiano Tinazzi, autore del documentario “The Wrong Place” dedicato alla vicenda, hanno sostenuto che la condanna fosse basata non solo su prove indiziarie, talvolta peraltro travisate, ma anche su una ricostruzione dei fatti in distonia con la logica e la scienza.

Avvocato Della Valle, la Corte di Appello ha ribaltato la decisione del Tribunale di Pavia.

«A Pavia hanno condannato Vitaly Markiv a causa di un forte pregiudizio. Noi siamo andati sul luogo del delitto e abbiamo invitato anche il Pubblico ministero a venire con noi per ricostruire dettagliatamente l’accaduto ma non è venuto. Come si vuole accertare la verità, con questo pressapochismo? Non riuscendo a trovare un movente, essendo Markiv amico dei giornalisti, sono arrivati a dire che lui, i suoi commilitoni e parte dell’esercito ucraino erano dei criminali di guerra. Io ho dovuto ricordare che Pavia non è Norimberga. L’accusa si è peraltro basata su quanto frettolosamente scritto dalla giornalista Ilaria Morani a fronte di un brevissimo colloquio telefonico che la stessa avrebbe captato, perché in viva voce, tra Markiv e l’amico giornalista Marcello Fauci appena dopo l’accaduto. Dunque, un articolo/ intervista incredibilmente interpretato/ a quale confessione stragiudiziale, con tanto di imprecisioni, erroneità e deduzioni che avrebbero dovuto portare l’inquirente e la Corte di Pavia a neppure considerarlo/ a quale indizio di colpevolezza».

Dunque un impianto accusatorio inesistente.

«L’impianto accusatorio non stava in piedi: non sono riusciti neppure a dimostrare che Markiv fosse in servizio al momento della sparatoria. Non solo. Ciò che davvero ci ha come difesa rammaricato è stato il rifiuto da parte dell’accusa, ma anche della Corte di Assise di Pavia, di quegli accertamenti che potevano fin da subito evidenziare la infondatezza dell’imputazione a carico del soldato ucraino. Se, infatti, il sopralluogo nel territorio teatro del tragico evento poteva insuperabilmente confermare che Markiv non aveva modo di vedere, dalla sua asserita postazione, la comitiva di giornalisti e il taxi in cui la stessa viaggiava, il test balistico sul fucile in sua dotazione avrebbe potuto confermare l’inefficacia dell’arma a mirare e colpire soggetti a più di 1800 metri di distanza. La Corte di Assise Pavese aveva invece accettato come prova fonti aperte, fake news, video di dubbia attendibilità, non mancando di riportare in sentenza intercettazioni ambientali inesistenti».

La prova regina sarebbe stata una specie di confessione avvenuta in carcere.

«Nella sentenza di condanna si legge che Markiv avrebbe pronunciato in carcere, nel colloquiare con il compagno di cella, la frase “abbiamo fottuto il giornalista”. Ebbene, la trascrizione integrale della telefonata – trascrizione chiesta in appello dal Procuratore Generale in quanto prova fondamentale a carico di Markiv ( sic) – ha dimostrato che le parole del soldato erano di ben altro tenore posto che Markiv non solo attribuiva ad altri l’uccisione di Rocchelli, ma evidenziava altresì il tentativo dell’accusa di incastrarlo per un delitto che non aveva commesso ( “nel 2014 è stato fottuto un fotoreporter, ma loro mi stanno cucendo addosso tutto”)».

Lei è stato lo storico difensore di Enzo Tortora. La giustizia da allora è cambiata?

«Il caso Tortora non ci ha insegnato nulla, anzi la situazione sta peggiorando: ci sono ancora dei magistrati bravi ma la maggior parte di quelli delle Procure fanno i processi basandosi solo su quello che dicono i carabinieri e i poliziotti. Loro invece dovrebbero essere i primi giudici a valutare se quello che gli presentano è credibile. Se una volta la separazione delle carriere era necessaria oggi con una Distrettuale Antimafia che ha i poteri massimi, diventa urgente approvarla. Il vero dramma poi è la stampa che è rimasta silente, fatta eccezione per il Dubbio, Libero e il Riformista. Siamo stati bistrattati processualmente: il direttore di una grande testata ha difeso l’impianto accusatorio ma io non l’ho mai visto in aula né ha mandato mai un inviato. Chi è che detta la linea di quegli articoli? E poi la Procura deve cercare le prove a 360 gradi, non solo quelle di colpevolezza. Lei trova giusto che quando uno viene arrestato si fa una conferenza stampa in cui si schiera il Procuratore della Repubblica, il sostituto, l’aggiunto, il colonnello, il comandante, e nessuno si alza per dire che è ancora tutto da provare? In quel momento è già partito il processo!»

Dopo due anni di tritacarne scagionato completamente: “Così mi hanno rovinato vita e carriera”. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. In questi due anni ha subìto gli arresti domiciliari prima, la misura interdittiva poi, senza dimenticare le accuse, i sospetti e i titoloni sui giornali. Un incubo a cui ora pone fine l’archiviazione disposta dal gip Fabrizio Ciccone del Tribunale di Avellino su richiesta della Procura. «Non sono emersi elementi idonei per un utile esercizio penale nei confronti degli indagati in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti», scrive il giudice, sottolineando che «la richiesta di archiviazione appare interamente meritevole di accoglimento». L’Organizzazione e la Confederazione sindacale dell’Usb avevano presentato opposizione, ma il caso è chiuso: per gip e pm le indagini non hanno confermato le iniziali ipotesi accusatorie. Per Renato Pingue, capo dell’Ispettorato interregionale del lavoro di Napoli e indagato assieme ad altre sei persone tra funzionari pubblici e imprenditori, è la decisione che restituisce dignità e spazza via ogni ombra sul suo operato negli anni in cui era direttore provinciale facente funzioni della sede di Avellino. Difeso dagli avvocati Giuseppe Fusco e Ettore Freda, Pingue ha sempre respinto le accuse e l’archiviazione dell’inchiesta certifica questa sua tesi. «Tuttavia non riesco a gioirne – confida – La mia è stata una vicenda assurda, dolorosa e incomprensibile che ha colpito non solo me ma tutta la mia famiglia in un modo che ci ha resi quasi increduli di come possano capitare certe cose». Pingue, con quarant’anni di onorata carriera alle spalle e la possibilità di ambire alla direzione centrale sfumata a causa della vicenda giudiziaria pendente in questi anni, era accusato di aver commesso un atto contrario ai doveri di ufficio per favorire un imprenditore e ottenere da questi l’assunzione del figlio ingegnere. L’imprenditore in questione è a capo di una società per azioni che opera nel settore della logistica e dei servizi e che alcuni anni fa era coinvolta in una vertenza sindacale mossa da un centinaio di lavoratori e partecipava assieme ad un’altra ditta a un appalto su cui, in quello stesso periodo, gli investigatori stavano indagando per un sospetto caso di corruzione. Proprio su delega della Procura, l’Ispettorato del lavoro aveva avuto il compito di eseguire controlli sulla regolarità del rapporto tra le due società e le cooperative in cui operavano i lavoratori. «Agivamo come ufficiali di polizia giudiziaria, dovevamo riferire al magistrato e non potevamo dire ad altri cosa avevamo accertato», spiega Pingue, motivando quindi la scelta di modificare il testo delle lettere informative indirizzate ai lavoratori omettendo i riferimenti all’aspetto penale. Secondo l’iniziale ipotesi accusatoria, però, proprio quelle omissioni avrebbero portato al reato contestato a Pingue e avrebbero impedito ai lavoratori di conoscere informazioni utili per la tutela dei loro diritti su spettanze e contributi non percepiti. Ma, come sottolineato dal gip nel provvedimento di archiviazione, quelle lettere sono «atti neutri», la cui funzione «è quella di semplice informazione», per cui, premettendo anche che erano una prassi non obbligatoria per gli uffici territoriali, la conclusione del gip è che quelle modifiche «non hanno di fatto privato il lavoratore delle sue tutele giurisdizionali». Il direttore dell’Ispettorato lo aveva spiegato sin dal giorno del suo arresto e, durante le 4 ore e mezza di interrogatorio che seguirono la notifica del provvedimento di arresti domiciliari, aveva ricostruito in ogni dettaglio i fatti. Era novembre 2018. All’esito di quell’interrogatorio il gip tornò sui suoi passi, scarcerò Pingue e sostituì gli arresti con la misura interdittiva della sospensione dai pubblici uffici per nove mesi. La misura fu poi annullata dal Riesame che sostenne la mancanza dei gravi indizi, condividendo appieno la tesi della difesa. E la Cassazione confermò, ritenendo inammissibile il ricorso del pm. La versione del direttore, dunque, aveva retto sin dall’inizio, eppure le indagini si sono protratte per altro tempo ancora, fino all’archiviazione di due giorni fa. «Questa vicenda – conclude Pingue – mi ha segnato profondamente ma continuo a essere un servitore dello Stato perché voglio dimostrare ai miei figli che la magistratura può anche commettere qualche errore ma noi non dobbiamo mai smettere di credere nella giustizia».

 “La mia vita distrutta da pentiti e un’intercettazione”, il dramma di un imprenditore vittima di malagiustizia. Viviana Lanza  su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. «È complicato spiegare quanto quello che è successo ha inciso sulla mia vita e su quella della mia famiglia. Anche solo parlarne mi fa sprofondare in quel senso disperazione che vorrei cancellare dalla mia mente», racconta l’imprenditore di Acerra protagonista di un clamoroso errore giudiziario per il quale ha trascorso 800 giorni in carcere da innocente. Gli era stata contestata l’accusa più grave, omicidio. Sulla scorta delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e di un’intercettazione ambientale male interpretata, la Procura lo aveva indicato tra i responsabili dell’agguato in cui, il 9 dicembre 2006, ad Afragola, fu ucciso un uomo, Luigi Borzacchiello. In primo grado l’imprenditore era stato condannato a 30 anni di reclusione e in secondo grado, quattro anni fa, assolto. Da allora è iniziata la sua battaglia legale per vedersi riconosciuto il danno da ingiusta detenzione e l’altro giorno è arrivata la decisione dei giudici: l’uomo otterrà 188.656 euro come risarcimento per la reclusione da innocente. La somma è ovviamente solo simbolica, non c’è prezzo per i danni che questa vicenda giudiziaria ha causato nella sua vita personale e professionale, per gli stravolgimenti imposti, per le attese e le sofferenze provocate. «Sono stati momenti di incredulità, di confusione, quasi a non voler accettare che stesse accadendo proprio a me», racconta l’imprenditore ripercorrendo l’incubo giudiziario vissuto. «Con la sentenza di condanna a 30 anni credevo fosse finita, ma la mia famiglia non si è mai arresa. Mia moglie, nonostante le difficoltà economiche in cui versavamo, ha deciso di cambiare legale e di rivolgersi all’avvocato Marianna Febbraio, chiedendole di aiutarci e di credere nella mia innocenza. Avevamo bisogno di questo – sottolinea – cioè di qualcuno che credesse in me e nella mia estraneità all’omicidio. E devo dire grazie all’avvocato Febbraio che con ostinazione ha smontato le accuse e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che continuavano a mentire sulla mia partecipazione, con loro, all’assassinio del povero Borzacchiello. E poi c’era quella maledetta intercettazione: l’avvocato ha dimostrato l’impossibilità di utilizzarla come elemento di prova». Il lavoro difensivo è stato determinante in questo processo. Marianna Febbraio è una giovane penalista e, quando le è stato chiesto di assumere la difesa dell’imprenditore già condannato in primo grado a 30 anni di carcere per omicidio, ci ha pensato bene. «Devo ammettere – racconta la penalista – che mi sono presa qualche giorno prima di assumere la difesa. Ma quando ho letto gli atti, il compendio probatorio mi è apparso immediatamente insufficiente per l’emissione di una sentenza di condanna praticamente a vita. Era stato dato credito alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia intrise di contraddizioni, ma la prova granitica per l’accusa, anche nel giudizio di appello, è sempre stata l’intercettazione ambientale registrata poco prima del raid omicidiario». Si trattava di un’ambientale captata poco prima dell’agguato e in cui più voci parlavano dell’organizzazione del piano criminale. Il suo assistito non aveva soldi per una perizia fonica e l’avvocato Febbraio ha comprato un libro su internet per approfondire tutte le tecniche di comparazione delle voci, riuscendo così a mettere in evidenza, davanti ai giudici della Corte di assise di appello, le incertezze delle conclusioni cui era giunto il consulente fonico di parte quando aveva indicato tra le voci captate nell’ambientale anche quella dell’imprenditore. «I giudici della Corte di assise di appello sono stati attenti agli elementi evidenziati dalla difesa – spiega Febbraio – ed è stata la loro attenzione, insieme alla mia determinazione, a rendere possibile il capovolgimento di una sentenza di condanna a 30 anni di reclusione». Il momento dell’assoluzione l’imprenditore non lo dimenticherà mai: «Quando la presidente della Corte di assise di appello di Napoli lesse il dispositivo, io ero in aula, in cella, detenuto da oltre due anni. Fui assolto e immediatamente liberato – racconta – Sento ancora il suono della voce. Piansi e continuai a farlo anche quando, in serata, tornai finalmente a casa». «Ora sono un uomo libero – aggiunge – e passo il tempo da nonno con i miei nipoti, ma quello che è successo non si può cancellare. E allora chiedo che quello che è successo a me non capiti ad altri».

L'ex ministra rischia otto anni. Nunzia De Girolamo è innocente, anzi no! Cambia il Pm e anche il reato, l’ex ministra rischia 8 anni. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Ottobre 2020. Cambia il pm e cambia anche il destino di Nunzia De Girolamo: prima archiviata ed ora a rischio condanna ad otto anni e tre mesi di carcere con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla concussione e alla corruzione elettorale. Il tutto con il medesimo materiale probatorio. E cioè un file audio registrato di nascosto nell’estate del 2012 e poi pubblicato dal Fatto Quotidiano. La maxi richiesta di condanna è stata formulata questa settimana dal pm sannita Assunta Tillo. Un giovane magistrato che quando l’ex ministro delle Politiche agricole del governo Letta venne iscritta nel registro degli indagati della Procura di Benevento doveva ancora diventare magistrato. Tutto inizia a dicembre del 2013 quando quattro imprenditori finiscono in carcere e due dirigenti della Asl di Benevento vengono colpiti da provvedimenti cautelari con l’accusa di truffa aggravata e continuata in concorso e peculato. Personaggio centrale dell’inchiesta è il direttore amministrativo dell’Asl Felice Pisapia, licenziato l’anno prima. Pisapia produce agli inquirenti un audio, registrato di nascosto, dell’incontro, avvenuto a luglio del 2012 a casa del padre di De Girolamo a cui avevano partecipato alcuni collaboratori della parlamentare e manager pubblici. Nella registrazione – poi pubblicata dal Fatto nel gennaio 2014 – emergono pressioni sul direttore generale dell’Asl di Benevento Michele Rossi perché disponga dei controlli al Fatebenefratelli, ospedale religioso convenzionato, e per la gestione, appaltata a una cugina di De Girolamo, di un bar all’interno dello stesso ospedale. Il linguaggio utilizzato dalla ministra, particolarmente colorito, diventa subito virale. Per la guardia di finanza di Benevento, comunque, non ci sarebbero fattispecie “penalmente rilevanti”. Il pm Nicoletta Giammarino chiede allora l’archiviazione per la soddisfazione del ministro che dirama un comunicato in cui sottolinea la «totale estraneità ai fatti, chiarita dalla stessa magistratura inquirente che ha finalmente fatto luce sulle attività illecite presso la Asl di Benevento». Senza omettere una stoccata al Fatto: «Alcuni organi di informazione, anziché parlare dei reati, degli indagati e dell’eccellente lavoro fatto dagli stessi magistrati aiutati dal nuovo management voluto proprio per bonificare il malaffare, concentrano la loro attenzione su stralci di registrazioni abusive fatte dagli stessi incriminati, tese a ledere la mia immagine e onorabilità». La polemica politica, però, non accenna a placarsi e il Pd decide dopo poco di “scaricare” il ministro. Il governo Letta è già traballante, terminerà infatti la sua esperienza qualche settimana più tardi, e non può permettersi tensioni. “Spontaneamente” De Girolamo si dimette da ministro, prima che approdi alla Camera la mozione di sfiducia presentata contro di lei dal Movimento 5 Stelle. A questo punto scatta il colpo di scena. Il gip Flavio Cusani respinge l’archiviazione e dispone l’imputazione coatta. De Girolamo sarebbe stata organizzatrice e promotrice di un “direttorio politico partitico” che avrebbe condizionato gli appalti e le nomine. Cusani usa a tal riguardo parole di fuoco, descrivendo le «modalità a dir poco deprimenti e indecorose di ogni aspetto della gestione della Asl». Il tutto, «in funzione di interessi privati e di ricerca del consenso elettorale». L’ex ministra chiede, senza successo, anche l’intervento del Csm e del ministro della Giustizia: la Procura che aveva chiesto l’archiviazione procede adesso a tappe forzate.  Il processo si trascina per tre anni fino alla conclusione del dibattimento questa settimana con le richieste di condanna del pm per tutti gli imputati. Oltre a De Girolamo, l’ex direttore generale dell’Asl beneventana Rossi, i due collaboratori dell’ex ministro Giacomo Papa e Luigi Barone, l’ex direttore sanitario Gelsomino Ventucci, ed il manager Arnaldo Falato. Chiesta la condanna anche per Pisapia, l’autore dell’audio. De Girolamo aveva provato, senza successo, a far distruggere questo audio invocando le guarentigie parlamentari. Il gip aveva però deciso che non doveva essere distrutto, perché non rientrava «nelle comunicazioni per le quali è necessario chiedere l’autorizzazione alla Camera e non viola la privacy del parlamentare». Il prossimo 15 ottobre prenderanno la parola i difensori dell’ex parlamentare ed ora opinionista del programma Non è l’arena condotto da Massimo Giletti, gli avvocati Domenico Di Terlizzi e Giandomenico Caiazza. Sentenza, presumibilmente, entro fine anno.

Lettera all'ex ministro. Appello a Nunzia De Girolamo: ora però non dimenticare Caino! Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Ottobre 2020. So come ti senti, cara Nunzia, quando dici “sono devastata”. È come se ti fosse passato addosso uno schiacciasassi. Perché se un pubblico ministero ritiene che tu debba essere sbattuta in galera e restarci per otto anni e passa, vuol dire che ti ritiene persona più spregevole di un rapinatore, quasi una capace di uccidere. Va anche detto che in Italia le cose vanno in questo modo: se vieni imputato per un reato associativo, cosa che nei Paesi occidentali e liberali come quelli di diritto anglosassone non è possibile, sei considerato più delinquente di chi rapina e uccide. Credo sia anche per questo che Nunzia De Girolamo, che è avvocato e che è cresciuta alla scuola politica di Forza Italia, cioè liberale e garantista, si sente “devastata”. Perché intuisce che la richiesta di condanna richiesta da quel pm non è solo esagerata e decisamente sopra le righe, ma è anche “politica”, non per motivi di ideologia di un singolo magistrato, ma perché sintomo di una cultura estranea a uno Stato di diritto. Il caso di Nunzia De Girolamo sarebbe da studiare con attenzione. Qui non siamo in presenza solo del solito circo mediatico-giudiziario, ma di un’inedita versione di circo politico-mediatico-giudiziario. In cui si intrecciamo alla storia giudiziaria non solo quella dei soliti trombettieri in toga de Il Fatto quotidiano, ma anche quelle di partiti e di governo. Il suo processo nasce in modo singolare da intercettazioni che non sono state disposte dalla magistratura, ma carpite di nascosto da una persona che ha partecipato a una riunione politica di tipo un po’ tradizionale e un po’ spartitorio. Avevi il Giuda in casa tua, anzi di tuo padre, cara Nunzia. E queste registrazioni furono consegnate al pm e regalate al Fatto, che le accolse a braccia aperte e le pubblicò. Giustamente tu hai recriminato, quando poi un primo magistrato ti scagionò, contro l’uso distorto e forcaiolo di un certo sistema dell’informazione. Avevi pienamente ragione. E avresti avuto altrettanta ragione se tu avessi pubblicamente denunciato l’ingiustizia politica cui fosti sottoposta per quelle “spontanee” dimissioni da ministro all’agricoltura, ruolo cui avevi avuto diritto e che ti eri sudata e guadagnata sul campo. Durante il governo Letta era successa quella cosa strana, per cui dopo la rottura di Berlusconi, chi come te era ministro era rimasto tale e coloro che erano fuori dal governo andarono con Forza Italia all’opposizione. Bizzarrie di un certo mondo. Non capita mai il contrario. Ecco perché, cara Nunzia, la tua vicenda mediatica e giudiziaria è anche politica. Perché dopo che avevi perso il posto al governo e in seguito anche quello di capogruppo dove hai dovuto cedere il passo a Maurizio Lupi, un altro ex ministro “spontaneamente” dimessosi per inesistenti vicende para-giudiziarie, e dopo il tuo ritorno da Berlusconi, sei stata di nuovo vittima di conflitti politici. Dico “vittima” a ragion veduta, perché magari meritavi di essere ancora in Parlamento. Benvenuta nel club. Saresti stata utile in commissione giustizia, per esempio. Non solo perché sei avvocato, e non solo perché sei sempre stata di cultura liberale. Ma anche perché, quando hai sulla pelle bruciature come le tue, mentre un pm ti vuole in galera, è tutto il tuo corpo insieme alla tua mente ad avere quella sensibilità in più, e lo sguardo fisso sulle ingiustizie del mondo. E per sempre. Oggi, Nunzia, tu hai una grande occasione. La vita ti ha portato ad altri mestieri, ad altre strade, che sono importanti quanto quelle della politica. Hai l’occasione di essere protagonista di forme di comunicazione importanti e diverse (anzi opposte) rispetto a quelle di cui sei stata vittima e contro le quali ti sei giustamente ribellata. Le occasioni non mancano, neppure nei luoghi dove la comunicazione pare più leggera, più frivola. Lo abbiamo visto (in negativo) persino a “Ballando con le stelle”, dove qualche personaggetto si è scagliato contro l’ex ministro Matteo Salvini. Ma lo si può fare anche in positivo, e a maggior ragione laddove si fa informazione e dibattito politico-sociale come a “Non è l’Arena”, ormai tuo luogo di lavoro. Mi permetto di indicare, senza aver la pretesa di dare lezioni, due principi importanti, il diritto alla sopravvivenza e il diritto alla salute, che secondo me sono spesso poco valorizzati. E che, soprattutto quando entra in scena Caino (facile stare dalla parte di Abele), vengono calpestati con totale noncuranza. Per fare un esempio, è ovvio che tutti siamo virtuosamente contro il terrorismo e riteniamo che chi è uscito nelle strade con le armi in pugno e le ha usate per ferire e uccidere, debba essere sanzionato. Ma non negheremo mai neanche a la sopravvivenza. Che è la dignità, prima del piatto di minestra. Ecco un’occasione in cui tu avresti potuto fare la parte della gamba diritta del tavolo, nel tuo luogo di lavoro. Quando l’ex magistrato Luigi Saraceni ha speso la propria dignità venendo a umiliarsi anche davanti a gente con la bava alla bocca per difendere il diritto della figlia, ex terrorista (marginale), alla sopravvivenza con il reddito di cittadinanza, una gamba diritta del tavolo sarebbe stata utile. Una sulle quattro gambe storte del tavolo, avrebbe potuto fare la differenza. E altrettanto lo sarebbe sul discorso, ancora aperto e difficile, del diritto alla salute e a piccoli spazi di affettività per tutti i Caini assassini delle nostre carceri. Non occorre essere avvocati, per capire, per far capire. Ma se sei cresciuta a una solida scuola liberale, la stessa che oggi è solidale con te perché sei una delle tante vittime di quelli con la bava alla bocca, saper tendere la mano a un fratello-vittima, anche se lui è un Caino assassino, questo lo potresti fare. Perché vedere e capire, e fare capire agli altri le tante ingiustizie del mondo, può lasciare la tua impronta, può aiutarti a essere la gamba dritta del tavolo. Anche con Massimo Giletti.

Il processo per le consulenze all'Asl di Benevento. Nunzia De Girolamo assolta dopo 7 anni di incubo: “Ha vinto la giustizia”. Redazione su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. Assolti perché il fatto non sussiste. Nunzia De Girolamo e altre 7 persone sono state assolte nell’ambito del processo a loro carico, con l’accusa di associazione a delinquere per la gestione delle nomine nella sanità pubblica di Benevento. La procura sannita aveva chiesto per la De Girolamo 8 anni e 3 mesi di reclusione. Secondo la tesi, la De Girolamo avrebbe fatto parte di un direttorio, in grado di condizionare le nomine ai vertici delle Asl e pilotare gli appalti per raccogliere consenti. Al termine di 3 ore di camera di consiglio, il tribunale ha assolto gli 8 imputati. Oltre a De Girolamo, ex ministro dell’Agricoltura e moglie dell’attuale ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia, sono stati assolti gli ex collaboratori Luigi Barone e Giacomo Papa, per i quali erano stati chiesti 6 anni e 9 mesi, l’ex direttore dell’Asl Michele Rossi, per il quale erano stati chiesti 6 anni e 9 mesi, l’ex direttore amministrativo Felice Pisapia per lui una richiesta di 3 anni e 4 mesi, l’ex direttore sanitario Gelsomino Ventucci (per il quale erano stati chiesti 2 anni e 3 mesi, l’ex responsabile del budgeting Arnaldo Falato (richiesta 2 anni e 8 mesi) e il sindaco di Airola Michele Napoletano, per il quale la Procura aveva chiesto l’assoluzione.

LA REAZIONE DI NUNZIA DE GIROLAMO – L’ex ministro dopo la sentenza di assoluzione ha commentato con LaPresse l’esito del processo: “Non ho mai temuto la magistratura, ma la cattiveria delle persone che mi hanno circondato in questi anni. Oggi la magistratura giudicante di tre donne, mi ha restituito fiducia, e voglia di combattere per battaglie giuste”. De Girolamo, assolta con formula piena, ha ringraziato gli avvocati e la famiglia “ma soprattutto il sorriso di mia figlia che mi ha aiutato a non aprire mai la finestra della disperazione”. “Tante persone subiscono processi ingiusti e prima di distruggere la vita di un personaggio pubblico bisognerebbe essere più cauti”, ha aggiunto l’ex ministro. “Oggi ha vinto la giustizia,  io ho solo perso 7 anni di serenità. Mi sono dimessa da ministro, pur non essendo indagata, per difendere la mia dignità. L’ho fatto sempre nel processo e non dal processo. Oggi le tre donne del Collegio mi restituiscono fiducia e voglia di continuare a combattere per le cose giuste”, ha commentato ancora la De Girolamo.

Non è l'Arena, "ho pensato al suicidio". Nunzia De Girolamo in lacrime: "Il mio incubo lungo 7 anni". Libero Quotidiano il 14 dicembre 2020. Assolta dopo 7 anni. Nunzia De Girolamo, al centro dello studio di Non è l'Arena su La7 ascolta commossa le parole di Massimo Giletti e quella formula, "il fatto non sussiste", con cui è stata scagionata nel processo sulla Asl di Benevento. "È finito un incubo", ammette l'ex ministra con gli occhi lucidi, facendo sua la frase celebre di Enzo Tortora, il simbolo della malagiustizia italiana: "Io sono rimasta a quel gennaio 2014, ero una giovane donna di 37 anni e mamma di una bimba di un anno e mezzo che è cresciuta con questo processo, col fango, con la sofferenza, con l'ingiuria. Per 7 lunghi anni sono stata zitta, sono stata educata ad avere rispetto della magistratura. Mi sono dimessa da persona non indagata. Se sei una persona perbene entri in un tunnel di disperazione. Ho il dovere di dirlo: ci sono stati giorni in cui avrei aperto la finestra, ho pensato anche al suicidio, mi sembrava una cosa impossibile. Mi ha salvata mia figlia". 

Lo sfogo di De Girolamo: «La mia vita saccheggiata per anni, ora i giornali dimenticano la mia assoluzione». Il Dubbio il 13 dicembre 2020. L’ex ministro: «Alcuni dicono che i giornali non si vendono più. O non più come una volta. Ancora vi chiedete il perché?». «Ieri sera, con la testa sul cuscino, in un attimo mi son passati avanti sette lunghi anni. Sette. Non un giorno, ma sette anni. Incredulità, lunghe chiacchierate, paura, incontri con gli avvocati, pianti ininterrotti, sofferenza. Sette anni con un sorriso sempre a metà. Ogni gioia non è mai vera gioia». Il giorno dopo la sua assoluzione l’ex deputata di Forza Italia Nunzia De Girolamo si affida a Facebook per un lungo sfogo-riflessione. Denunciando come quel processo, che l’ha tenuta in sospeso per sette anni, ha cambiato la sua vita, mettendo anche in pausa la sua carriera politica. «Ieri un tribunale mi ha assolta, perché il fatto non sussiste, da accuse infamanti. Io, che ho predicato e praticato sempre umiltà ed onestà, mi sono ritrovata in pochi giorni con accuse e capi d’imputazione molto gravi. Che mai avrei, nemmeno minimante, potuto immaginare. Quelle accuse, nell’ordine, hanno provocato: le mie dimissioni da ministro pur non essendo ancora indagata; la devastazione della mia vita politica e anche personale; il saccheggio sistematico delle mie vicende familiari e finanche intime – scrive De Girolamo -. Ho atteso la sentenza, in silenzio, per rispetto della magistratura. Mai una parola sui social. Mai una parola, anche se spesso sarei voluta essere un fiume in piena». Nel suo post De Girolamo punta il dito anche contro la stampa, che ha relegato la notizia della sua assoluzione in un angolo, contrariamente a quanto fatto quando le sono state mosse le accuse. «Proprio ora, bevendo un buon caffè, sto leggendo sul mio iPad la rassegna stampa della carta stampata. E forse mi spiego tante cose: chi aveva fatto, nel solo mese di Gennaio 2014 ben tredici prime pagine, oggi lo rilega a pagina 10 con sette righe e una fotografia da ingrandire con la lente d’ingrandimento. C’è chi ha fatto anche peggio: dopo mesi anzi anni di articoli infamanti, oggi non spende nemmeno una parola. Nemmeno una riga. Zero di zero. Nulla assoluto. Incredibile! – denuncia -. Se tutto ciò fosse accaduto nella Prima Repubblica, o forse solo venti anni fa, quando non esistevano social o testate giornalistiche online, ancora oggi nel pensiero comune sarei stata una criminale. Una con una sfilza di accuse, poi rivelatesi tutte completamente infondate. Dopo una assoluzione piena, sarei stata considerata con un profilo etico e morale non idoneo e limpido. Ed è la cosa che poi mi avrebbe fatto male. Dopo le mille sofferenze, dopo tutto ciò che ho già detto e scritto. Alcuni dicono che i giornali non si vendono più. O non più come una volta. Ancora vi chiedete il perché?»

Nunzia De Girolamo, ennesimo politico vittima della malagiustizia. Valentina Stella su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. Indagine “esplosa” nel 2013: «Concussione e voto di scambio all’Asl di Benevento». Cadute tutte le accuse, anche per gli altri imputati. La Procura voleva 8 anni di carcere. Nunzia De Girolamo, ex deputata, ex ministro delle Politiche agricole, ha atteso sette anni. «Alla fine ho avuto giustizia, ma ho perso sette anni di vita», sono state le sue sacrosante parole, ieri, subito dopo essere stata assolta “perché il fatto non sussiste” dalle accuse di associazione a delinquere, concussione e voto di scambio. Il pm Assunta Tillo aveva chiesto 8 anni e 3 mesi di carcere. I giudici Fallarino, Rotili e Telaro del Tribunale di Benevento non hanno invece riconosciuto l’impianto accusatorio riguardo quella che per la Procura sarebbe stata una “gestione opaca” del sistema sanitario sannita, con nomine, consulenze e appalti utilizzati per creare consenso elettorale. L’inchiesta Sanitopoli è stata dunque completamente smontata: insieme a De Girolamo sono stati assolti con la stessa formula tutti gli altri sette imputati. L’indagine era partita nel 2012 da una denuncia dell’ex direttore generale dell’Asl di Benevento Michele Rossi contro l’ex direttore amministrativo Felice Pisapia. A parere di Rossi i conti non tornavano, considerando i mandati di pagamento emessi a favore di alcune ditte fornitrici dell’Asl. Rossi prende dunque la decisione di consegnare agli inquirenti un fascicolo che a suo dire avrebbe messo in evidenza una gestione non trasparente delle risorse. Poco dopo il direttore amministrativo viene licenziato e magistrati e finanzieri cominciano a indagare sui conti dell’azienda sanitaria. Un anno dopo, nel 2013, arrivano i primi provvedimenti cautelari che coinvolgono Pisapia, ma anche paradossalmente lo stesso Rossi. Tra gli indagati nel 2014 emerge per la prima volta anche il nome di Nunzia De Girolamo, all’epoca ministro. Secondo i pm, l’ex parlamentare di Forza Italia, passata poi nella fila dell’Ncd di Angelino Alfano, rappresentava l’apice di un direttorio politico che a Benevento gestiva affari, consulenze, e nomine. Il gip di Benevento Flavio Cusani parlò addirittura di “indagini sull’esistenza di un ristretto direttorio politico- partitico, al di fuori di ogni norma di legge”. Alla base delle accuse c’erano soprattutto registrazioni audio, captate segretamente da Pisapia, forse come forma di vendetta per la denuncia presentata nei suoi confronti da Rossi, durante alcune riunioni politiche tenutesi in casa del padre della De Girolamo. Sull’utilizzabilità di quelle registrazioni si consumerà anche uno scontro processuale tra accusa e difesa, ma quei file verranno poi comunque acquisiti come fonti di prova. Il rinvio a giudizio per gli otto indagati arriva a settembre 2016 e il processo comincia due mesi più tardi. Da allora, la vita di Nunzia De Girolamo viene completamente sconvolta. Candidata per Fi, dopo il breve passaggio nel Nuovo centrodestra, non viene eletta alle ultime Politiche e si dedica alla tv, come concorrente a “Ballando con le stelle” e come opinionista a “Non è l’Arena” di Giletti. Ieri, dopo quattro lunghi anni, la sentenza di assoluzione che demolisce l’inchiesta. Assieme alla De Girolamo vengono assolti gli ex collaboratori Luigi Barone e Giacomo Papa, lo stesso Michele Rossi, Felice Pisapia, l’ex direttore sanitario Gelsomino Ventucci, l’ex responsabile del budgeting Arnaldo Falato, e il sindaco di Airola, Michele Napoletano. «Ha vinto la giustizia – ha dichiarato Nunzia De Girolamo – io ho solo perso 7 anni di serenità. Mi sono dimessa da ministro, pur non essendo indagata, per difendere la mia dignità. L’ho fatto sempre nel processo e non dal processo. Le tre donne del Collegio mi hanno restituito fiducia e voglia di continuare a combattere per le cose giuste. Io non ho mai avuto paura della magistratura, ma della cattiveria che mi ha circondato in questi anni. Mi auguro – conclude l’ex ministro – che quei giornalisti, pochi per fortuna, che pensavano che un’indagine o una richiesta di un pm fosse una condanna definitiva, ora diano lo stesso risalto alla notizia della mia assoluzione». A difendere De Girolamo l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali: «Siamo enormemente soddisfatti del risultato e di aver incontrato un collegio di giudici sereni, equilibrati, che hanno saputo restituire dignità a una persona ingiustamente colpita nella sua carriera pubblica, oltre che nella sua vita privata». Insieme a lui nel collegio difensivo anche l’avvocato Domenico Di Terlizzi: «L’assoluzione perché il fatto non sussiste da tutti i reati e per tutti gli imputati deve porre all’attenzione di tutti la patologia di questa iniziativa giudiziaria che ha determinato le dimissioni di un ministro e l’espulsione dalla vita politica di una giovane donna. Questa patologia il legislatore deve eliminarla, potenziando il controllo sulle iniziative infondate dei pubblici ministeri. Qui siamo in presenza di un mero teorema accusatorio, e una parte della stampa, specie quella che ama il populismo giudiziario, farebbe bene a riflettere quando vengono enfatizzate le richieste di condanna a 8 anni. Ovviamente ben diverso è il discorso sugli organi giudicanti, che ancora una volta dimostrano di essere il vero argine allo strapotere delle Procure». A poche ore dalla notizia è giunta anche una nota della presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: «L’assoluzione di Nunzia De Girolamo perché il fatto non sussiste è una notizia bellissima che pone fine a un lungo e immeritato incubo. È doveroso però rimarcare ancora una volta il macigno abnorme che pesa sulla nostra democrazia a causa dell’uso politico della giustizia, che in questo come in troppi altri casi ha determinato le dimissioni di una ministra della Repubblica ingiustamente messa sotto accusa da un’iniziativa giudiziaria infondata».

Spinti all'addio. Lupi e i suoi fratelli. Vittime innocenti dei tagliagole a 5 stelle. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Novembre 2019. Chissà se, quel 19 ottobre 1995 in cui il ministro Filippo Mancuso fu crocifisso nell’aula di Palazzo Madama, il giovane Maurizio Lupi, consigliere comunale a Milano, ha percepito il fatto come un punto di non ritorno e se ha immaginato che esattamente vent’anni dopo sarebbe toccata a lui una simile sorte. E soprattutto se aveva intuito, essendo stato lui eletto in un consiglio comunale risorto sulle macerie di una giunta sterminata da Tangentopoli, che da quel momento in avanti, o si procedeva alla ricostruzione, proprio come quella post-bellica, dello Stato di diritto, o non si sarebbero più contate le vittime del giustizialismo. Anche tra i componenti di un governo. Non ci sono molti modi per cacciare un ministro, nel nostro Paese. Non lo può fare, al contrario di quanto accade in paesi come la Spagna e l’Inghilterra, il presidente del consiglio, né la Costituzione ha previsto il caso della sfiducia individuale. Pure nel 1995, sulla base di un regolamento della Camera (che in seguito la Corte costituzionale dichiarò applicabile anche al Senato), il Pds, che costituiva la maggioranza di sostegno al governo Dini, riuscì a impallinare un grande ministro di Giustizia per “eccesso di garantismo”: il guardasigilli Mancuso aveva osato mandare gli ispettori all’intoccabile pool di Milano e aveva criticato gli incriticabili “professionisti dell’antimafia”. Quello del ministro Mancuso resterà l’unico caso di sfiducia individuale andato in porto. Anche se, da quel momento in avanti, e soprattutto dopo l’entrata in Parlamento del Movimento Cinquestelle, sarà tutta una fioritura di mozioni di sfiducia individuale, in gran parte legate a inchieste giudiziarie, anche se presentate nei confronti di ministri non indagati. Secondo la Banca dati della Camera, dal 1990 al 2017 sono state presentate 58 mozioni di sfiducia individuale, il solo partito di Grillo nella quindicesima legislatura ne ha protocollate 25. Sono armi spuntate, anche perché sono in genere strumenti usati dai partiti di opposizione, che non hanno i numeri per farle votare. Ma c’è un modo molto più subdolo ed efficace da parte degli stessi governi e delle maggioranze per eliminare un ministro quando un’ombra vada a oscurare la sua reputazione, ed è quello di accompagnarlo alle dimissioni “spontanee”. Il caso di Maurizio Lupi è esemplare, ma non è stato il solo, negli anni dei governi di sinistra. Apripista è stata la ministra del governo Letta Josefa Idem nel 2013, per una violazione nel pagamento dell’Ici. Un peccato veniale, la cui penitenza è stata scontata, prima ancora che con l’uscita della ministra dal governo, con una vera lapidazione mediatica ben orchestrata in particolare dal Fatto quotidiano. Seguirà un anno dopo, nel 2014, il caso di Nunzia De Girolamo, ministro dell’Agricoltura dello stesso governo, che verrà intercettata, quindi sbattuta sui giornali senza essere neppure indagata. Cosa che avverrà in un secondo momento. Ma intanto anche lei verrà accompagnata “spontaneamente” alla porta, salvo verificare nel 2017 di esser stata completamente prosciolta. Siamo arrivati al governo Renzi, quando assistiamo al consueto balletto del circo mediatico-giudiziario che coinvolge prima Maurizio Lupi e poi Federica Guidi, mai indagati in due inchieste (Grandi Opere e Tempa rossa) che si sono poi sciolte come bolle di sapone. Anche Matteo Renzi si comporterà come i suoi predecessori, a partire da quel presidente Dini che accompagnò alla porta il proprio ministro Guardasigilli. Non hai il potere di revoca? Lo sostituisci con le dimissioni “spontanee”. Basta che tu presidente del Consiglio lasci ai tuoi parlamentari la libertà di voto a una qualunque mozione di sfiducia individuale che qualche grillino tagliagole avrà sicuramente presentato, ben imbeccato dal suo quotidiano di partito. A quel punto il malcapitato ministro non potrà che dimettersi. Non c’è scampo, come ha ben verificato Matteo Salvini, quando ha cercato di difendere i diritti degli uomini di governo del suo partito. La storia si ripete, da quel 19 ottobre 1995.

E i pm fecero le diagnosi mediche. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 Settembre 2020. L’indagine degli inquirenti si basa esclusivamente sul confronto superficiale tra le varie diagnosi mediche senza l’ausilio di periti. Da taroccatore seriale di referti medici a colonna portante del pronto soccorso dell’ospedale di Civitavecchia. È l’incredibile storia del dottor Giuseppe Di Iorio, coinvolto agli inizi del 2017 nell’indagine “Bad doctor”, la maxi inchiesta della Procura della cittadina sul litorale a nord di Roma che portò in carcere una decina fra medici ed avvocati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al falso. Secondo i carabinieri che avevano svolto gli accertamenti, i medici avrebbero redatto false diagnosi a seguito di sinistri stradali con feriti al fine di truffare le assicurazioni, consentendo in questo modo dei risarcimenti illeciti. Gli inquirenti erano giunti a questa conclusione semplicemente confrontando, senza effettuare alcuna perizia, i referti redatti dai medici del pronto soccorso di Civitavecchia, fra cui quelli firmati dal dottor Di Iorio, e i referti redatti dai radiologi del medesimo ospedale. Ogni differenza nella diagnosi effettuata dal medico del pronto soccorso rispetto a quella del radiologo era stata considerata falsa. Un tesi “innovativa” nella medicina legale in quanto è abbondantemente noto che sia il radiologo che il medico del pronto soccorso possono, eventualmente, incorrere in errori di identificazione con errata attribuzione o errori di non identificazione, senza per questo motivo dover rispondere del reato di falso. La differenza delle diagnosi può, infatti, avere diversi fattori. Un radiologo molto esperto può anche non identificare, ad esempio su un radiogramma di un arto chiari segni di fratture. Questa evenienza viene ad essere amplificata in particolari circostanze quali: turni di lavoro consecutivi, ritmi di lavoro eccessivi, imprecisione delle richieste dei medici curanti, mancanza di possibilità di consultare colleghi più esperti, cattiva organizzazione del lavoro. Lo stesso dicasi per il medico del pronto soccorso sottoposto a turn over incessante. Per fare un paragone, sarebbe come se un magistrato la cui sentenza è stata modificata o annullata in un altro grado di giudizio, venisse indagato per falso. Considerato che circa il cinquanta percento delle sentenze di primo grado viene modificato in appello, sarebbe un’ecatombe di giudici. Dopo aver preso in esame almeno diecimila lastre, i carabinieri giunsero alla conclusione che ben venti di queste avevano referti diversi. Chiesero ed ottennero allora l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare a carico dei professionisti. Dopo aver considerato l’eventuale errore medico come un falso, gli investigatori si erano spinti oltre, ipotizzando, appunto, l’associazione a delinquere. E ciò sulla base non di contatti, stranamente nell’indagine non erano state effettuate intercettazioni telefoniche, ma per rapporti di conoscenza risalenti fra i vari soggetti in questione.

Dopo essere stato arrestato in diretta televisiva, come capita spesso, ed aver trascorso qualche settimana in carcere, il dottor Di Iorio era stato rimesso in libertà ed era rientrato in servizio all’ospedale di Civitavecchia. La direzione generale, evidentemente ritenendo le accuse dei carabinieri alquanto “sopra le righe”, non aveva aperto nei suoi confronti alcun procedimento disciplinare. Anzi, gli era stato chiesto di tornare proprio al pronto soccorso dove aveva svolto quasi tutta la sua carriera, circa trenta anni di servizio. L’udienza preliminare, svoltasi la scorsa estate a tre anni dall’arresto, aveva visto subito scemare l’accusa di associazione a delinquere, restando in piedi solo gli asseriti “falsi” nelle diagnosi. Tutti gli accertamenti patrimoniali svolti avevano poi escluso che il dottor Di Iorio avesse “guadagnato” qualcosa dalle sue diagnosi ritenute non veritiere. Il processo entrerà nel vivo a dicembre. Per quella data si capirà se il giudice, che finalmente ha incaricato un perito di svolgere gli accertamenti di competenza, vorrà insistere con questa “innovativa” teoria medico legale nei confronti dei medici del pronto soccorso. Un precedente che rischia di amplificare la cosiddetta medicina difensiva, con tutte le conseguenze del caso per gli incolpevoli pazienti.

Il caso dell'ufficiale del Ros. Catturò un boss ma Pignatone lo processò: assolto il colonnello Giardina. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. La Corte di Cassazione ha assolto con formula piena dall’accusa di falsa testimonianza il colonnello Valerio Giardina, ex comandante del Ros di Reggio Calabria. L’ufficiale era accusato di aver mentito quando, deponendo al processo “Meta” e in quello contro la cosca Lo Giudice, affermò fra l’altro che la cattura del boss Pasquale Condello, detto “Il Supremo”, avvenne nel 2008 esclusivamente sulla base di un’attività tecnica e senza l’ausilio di fonti confidenziali. Versione che secondo i pm era in contrasto con altre risultanze processuali. Per la Suprema Corte, che ha rigettato il ricorso dell’ex pg di Reggio Calabria Dino Petralia (ora capo del Dap), la falsa testimonianza è inesistente, da qui l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Finisce così definitivamente, dunque, la disavventura giudiziaria dell’ex comandante del Ros di Reggio Calabria, protagonista, insieme al maggiore Gerardo Lardieri, a quel tempo suo vice, della cattura del “Supremo”. L’inchiesta su Giardina e Lardieri era stata avviata dall’ex procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, e dal pm Beatrice Ronchi. Il rinvio a giudizio fu chiesto nel novembre del 2017 dal procuratore Federico Cafiero De Raho e dall’Aggiunto Gaetano Paci, che al solo colonnello contestarono anche l’aggravante mafiosa. In primo grado, poi, la procura reggina, rappresentata dai pm Paci e Stefano Musolino, chiese e ottenne la condanna di Giardina a 1 anno e 8 mesi per falsa testimonianza (ma con l’esclusione dell’aggravante mafiosa), mentre Lardieri (attuale comandante della sezione di polizia giudiziaria della Dda di Catanzaro) venne assolto già in primo grado per l’insussistenza del fatto. In appello, però, nel luglio del 2019, anche Giardina fu assolto “perché il fatto non sussiste” (la procura generale aveva chiesto la conferma della condanna di primo grado). Sentenza confermata ora dalla Cassazione. La cattura di Pasquale Condello da parte di Giardina e Lardieri avvenne sotto il coordinamento dell’allora procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Salvo Boemi, e dell’attuale Aggiunto della Dda reggina Giuseppe Lombardo. E fu proprio quest’ultimo, nel corso di un’udienza del processo “Meta”, ad affermare che «a due carabinieri, Valerio Giardina e Gerardo Lardieri, questa città dovrà sempre dire grazie».

Assolto in appello. Storia di Gaspare Vitrano, messo alla gogna per 10 anni per una mazzetta inventata dai Pm. Giorgio Mannino su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. «Tutta la sofferenza di questi anni me la porterò addosso per sempre. La sentenza d’assoluzione mi riabilita ma quello che è successo non si può dimenticare». Parla lentamente, con la voce ancora increspata dall’emozione, Gaspare Vitrano, ex deputato all’Assemblea Regionale Siciliana del Partito Democratico, assolto due giorni fa con formula piena “perché il reato non sussiste” dalla Corte d’appello di Palermo – presidente Fabio Marino – dall’accusa di induzione indebita a dare o promettere utilità. Nel 2011 le forze dell’ordine lo avevano trovato con una busta contenente diecimila euro. Secondo l’accusa una mazzetta che gli avrebbe dato Giovanni Correro, imprenditore nel settore fotovoltaico. In realtà si tratterà, come dimostreranno gli avvocati di Vitrano, Vincenzo Lo Re e Fabrizio Biondo, di utili di due società del settore. Immediatamente scattò l’arresto a cui seguì una lunga gogna mediatica e dieci anni di passione: un mese di reclusione, tre mesi di domiciliari e cinque mesi lontano dalla Sicilia fino al giorno dell’inizio del processo e fino alle nuove elezioni che hanno ridisegnato l’assemblea regionale: «Non mi sono mai dimesso – dice Vitrano – ero sicuro che non ci fosse motivo e la sentenza della Corte d’appello mi ha dato ragione». Nel 2015 viene condannato in primo grado a una pena di sette anni. Ad accusare l’ex politico del Pd è l’imprenditore Piergiorgio Ingrassia. Il quale raccontò ai pm di Palermo di essere stato costretto da Vitrano a estorcere denaro a Correro. E che, a sua volta, era stato vittima di una concussione commessa da Vitrano e da Mario Bonomo, anche lui ex deputato Pd poi passato al partito “Alleati per la Sicilia”. Nell’articolata ricostruzione di Ingrassia venne fuori che Bonomo e Vitrano erano soci di due società nel settore degli impianti fotovoltaici: la Enerplus 2010 e la Enerplus srl. Entrambe le imprese erano state vendute per 5 milioni di euro e secondo Ingrassia gli imputati avrebbero preteso da lui parte della somma ricavata grazie alla vendita. Denaro che poi sarebbe stato versato in due conti in Svizzera intestati a Ingrassia e Marco Sammatrice, nipote di Bonomo. Anche Bonomo e il nipote, in primo grado, vengono condannati insieme a Vitrano. Il processo d’appello, però, ribalta la situazione. Gli avvocati di Vitrano dimostrano che Ingrassia era socio di fatto dei due deputati e che per questo avrebbe dovuto dividere con loro i soldi della vendita milionaria. Soldi che però non sarebbero mai stati divisi e che l’imprenditore avrebbe trattenuto fingendo di essere vittima di concussione. «La prova – spiega Lo Re – che avevamo già trovato in primo grado era nel portafogli di Ingrassia. Parlo di un foglietto in cui è segnata una ripartizione di utili, cioè 33, 33 e 33 con delle iniziali accanto. Quelle di Vitrano, Bonomo e Ingrassia». Insomma i tre erano in società. Nessuna pressione, nessuna concussione in affari, nessuna interferenza nelle pratiche. Gli avvocati di Vitrano hanno dimostrato che il denaro spettava a Ingrassia in qualità di mediatore dei lavori appaltati a Correro. Che avrebbe versato la commissione per Ingrassia – debitore nei confronti di Vitrano – direttamente al deputato come compensazione, appunto, del debito. Secondo quanto disposto dal collegio giudicante della Corte d’appello che ha assolto Vitrano, Bonomo e Sammatrice, è stata inoltre revocata al deputato Pd la confisca della somma di 80mila euro, così come a Sammatrice è stata revocata la confisca della quota del conto presso l’istituto Credit Suisse Sa di Lugano. Confermate, invece, le sentenze appellate per Ingrassia e Correro che dovranno pagare le spese processuali per questo grado di giudizio. Entro novanta giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza. «Purtroppo non basta avere ragione ma ci vuole qualcuno che riconosca le tue ragioni. Fino a quando il sistema si reggerà sul fatto che chi accusa ha ragione a priori, difficilmente riusciremo a capire chi è colpevole e chi è innocente», dice Vitrano. «Nessuno – aggiunge – mi restituirà questi anni di sofferenza nei quali è stato terribile alzarsi la mattina senza sapere cosa fare perché non sai cosa ti aspetta». La prima cosa che ha fatto alla lettura della sentenza è stata lasciarsi andare in un pianto incontrollato: «È stato uno sfogo. Ora vorrei dire tante cose ma è meglio evitare. Ho la fortuna di avere una famiglia che mi sorregge e di non portare rancore ai miei detrattori». In questi anni in pochi, all’interno del partito, gli sono stati vicino «ma fortunatamente sono stato sostenuto dai miei amici veri». Un’esperienza che ha segnato il suo rapporto con la politica: «È un capitolo chiuso perché quando succedono certe cose ci si rende conto del cannibalismo che c’è in questo mondo», conclude amaro.

L'odissea di un carabiniere napoletano. “Il fascicolo è stato manipolato”, l’odissea di un ex carabiniere condannato per molestie. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Settembre 2020. «Ho depositato per quattro volte i tabulati telefonici, quelli originali che dimostrano le manipolazioni e sostengono la mia tesi, e puntualmente quei tabulati sono spariti dal fascicolo processuale. Li ho depositati due volte in cartaceo, due volte con posta certificata all’indirizzo di posta certificata del tribunale, e li ho depositati poi, di nuovo, anche nel corso delle udienze del processo ma stranamente quei documenti sono sempre andati smarriti. Strano che in un fascicolo si perdano così tanti documenti… Come si fa a decidere in queste condizioni le sorti di una persona e indirettamente della sua famiglia?».

R.C. racconta la sua odissea giudiziaria iniziata a Bologna quindici anni fa. «Ho individuato 24 tabulati mai prodotti nelle indagini seppure richiesti e seppure il sottoscritto sia stato condannato al pagamento delle spese processuali riguardanti anche quei tabulati», spiega. Ritiene di essere stato processato e condannato sulla base di ricostruzioni in qualche modo condizionate dalle anomalie che denuncia, dagli atti smarriti, da tracciati telefonici non corrispondenti agli originali (in alcuni mancano i due sms che smentirebbero la ricostruzione della vittima e di una teste chiave), da atti relativi a indagini difensive depositate ma non confluite nei fascicoli processuali. Coincidenze o cos’altro?

R.C. è convinto della propria innocenza, intenzionato a presentare un ricorso straordinario alla Corte di Cassazione e a chiedere la revisione del processo. Porterà all’attenzione dei giudici di legittimità anche una delle più recenti attestazioni, firmate dalla cancelleria della Cassazione, in cui si scrive che «come certificato il 16 dicembre 2019, tutti i documenti analiticamente indicati nella richiesta depositata presso la cancelleria in quella data non risultano inseriti nel fascicolo e neppure nei faldoni pervenuti al seguito atti come documentazione processuale allegata alla impugnazione proposta al giudice di legittimità».

R.C. sta conducendo da anni questa battaglia legale, e a volte gli sembra di combattere contro mulini a vento. L’ultimo ostacolo lo sta vivendo in questi giorni: «Non trovo un avvocato disposto a rappresentarmi con il gratuito patrocinio nel ricorso in Cassazione», racconta. Lui, ex carabiniere in carriera (ex, perché a seguito di questa vicenda giudiziaria ha dovuto lasciare l’Arma), ora rischia di finire in carcere per via di una condanna divenuta nel frattempo definitiva. Per raccontare la sua storia bisogna tornare indietro fino al luglio 2005, in una piccola caserma della provincia bolognese. R. C. viene dalla Campania e lì, in Emilia, ci finisce per lavoro. È maresciallo capo e in quell’estate i rapporti con il collega che gestisce la stazione non sono dei migliori per motivi legati all’organizzazione del lavoro. R.C. è tra quelli che non ci stanno più a far finta di non vedere quel che accade in ufficio. Sta di fatto che un giorno in caserma viene convocata una donna: bisogna consegnarle una denuncia sporta sei mesi prima («e mai consegnata all’interessata, come accadeva per gli altri civili che accedevano in caserma, tanto che ero io ad affannarmi per consegnare quegli atti», spiega). Quella donna viene ricevuta da R.C. e lo accuserà poco dopo di molestie sessuali. R.C. respinge con forza quell’odioso reato, si difende sin da subito dimostrando che per come è fatta la caserma un episodio del genere non sarebbe sfuggito agli occhi di altri colleghi. C’è poi il dettaglio della relazione sentimentale tra la donna che lo accusa e il collega con cui lui era in contrasto ma, come nel caso di altri elementi emersi dalle indagini difensive, non viene considerato rilevante da chi procede per la sua colpevolezza. R.C. finisce quindi a giudizio e viene condannato. Si becca anche un’accusa di calunnia. Inizia così il suo lungo calvario giudiziario.

 I partiti in balia delle toghe. Quante vite e carriere politiche devastate dalla furia della magistratura. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Indagati e assolti. Qualche volta anche rovinati. Talvolta costretti a stravolgere il corso delle proprie scelte e indirettamente anche quelle di altri. Sicuramente provati e in qualche modo vittime di un sistema giudiziario che prevede tempi sempre lunghissimi per arrivare a una sentenza. La storia giudiziaria napoletana e campana è piena di casi che ripropongono il tema della cosiddetta “giustizia a orologeria” respinta con forza dalla magistratura, di errori giudiziari e inchieste annunciate in pompa magna e ridimensionate nel corso dei successivi step processuali. «Era stata una sentenza importante. Nel processo sui rifiuti pur essendo i reati ipotizzati ormai prescritti i giudici si erano espressi nel merito con una sentenza di piena assoluzione per insussistenza delle accuse. Poi la procura aveva fatto appello per trasformare l’assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione. Oggi la Corte di appello ha dichiarato inammissibile l’impugnazione del pm ed ha confermato la sentenza di primo grado. Ringrazio gli avvocati Krogh e Fusco e le persone che mi sono state vicine in momenti difficili. Per quanto mi riguarda è la conferma che è giusto aver fiducia nella giustizia e che i tempi dovrebbero essere più brevi perché la lunghezza dei processi danneggia gli innocenti e premia i colpevoli». A maggio 2019 Antonio Bassolino commentava così la sentenza che metteva la parola fine a una parentesi giudiziaria durata 16 lunghi anni. L’ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania usciva definitivamente assolto dal processo su presunte irregolarità nella gestione della più grande emergenza rifiuti che la regione abbia vissuto. La Corte di Appello aveva appena dichiarato inammissibile l’appello dei pm della Procura di Napoli, che si erano opposti alla sentenza di primo grado chiedendo che fosse trasformata da assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione, e aveva confermato la piena assoluzione di Bassolino e di altri 26 imputati. L’ombra delle accuse fu definitivamente allontanata, ma gli effetti politici di quegli anni ormai non potevano essere più annullati. Accadde lo stesso per Clemente Mastella. A gennaio 2008, quando era ministro della Giustizia e leader dell’Udeur, fu coinvolto, assieme alla moglie Sandra Leonardo, all’epoca presidente del consiglio regionale della Campania, nell’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere su presunti illeciti nelle nomine Asl. Dopo quasi dieci anni arrivò la sentenza di assoluzione piena per lui, la moglie e altri imputati: «i fatti non costituiscono reato», sostennero i giudici. La sentenza ridiede onore a Mastella e agli altri assolti ma non poté rimediare agli effetti politici di quelle accuse non confermate nel processo: le dimissioni di Mastella, la sfiducia al governo Prodi, le nuove elezioni con la vittoria di Berlusconi. Indagato, esposto alla gogna mediatica e poi assolto: il caso più recente è quello di Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd campano. Il 12 agosto scorso l’archiviazione decisa dal gip di Santa Maria Capua Vetere lo ha scagionato dall’accusa di reati elettorali. Già nell’aprile 2016, proprio alla vigilia delle elezioni amministrative, Graziano fu coinvolto in un’inchiesta con la pesante accusa di concorso esterno in associazione camorristica salvo poi essere scagionato quando, dopo mesi di indagini, la stessa Dda aveva chiesto e ottenuto per lui l’archiviazione. Intanto la gogna mediatica e soprattutto politica aveva già prodotto i suoi effetti.

 “Vita professionale e privata distrutta dai Pm”, assolto dopo 16 anni. Il dramma di Facchi. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Settembre 2020. Nel 2001, quando è chiamato a risolvere l’emergenza rifiuti in Campania, la più grande crisi ambientale che la nostra regione abbia mai conosciuto, Giulio Facchi è un professionista rampante, tra i massimi esperti in materia ambientale, nel pieno della sua carriera e dei suoi anni. Si ritrova a gestire lo smaltimento di tonnellate di rifiuti, fra criticità e difficoltà quotidiane. Qualche anno più tardi arriva la sua iscrizione nel registro degli indagati e con essa i titoloni sui giornali, i sospetti più o meno espliciti di amici e colleghi, gli interrogatori dalle due del pomeriggio alle due di notte del pm che vuole che riveli cose che non può rivelare, semplicemente perché gli illeciti di cui è accusato non li ha mai commessi. Ma ci vorranno 16 anni di processo per dimostrarlo, un’attesa infinita per la sentenza che lo ha assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Formula piena, si sarebbe detto un tempo. «Oggi ho 66 anni – racconta l’ex sub-commissario all’emergenza rifiuti – Sedici su sessantasei sono una bella porzione di vita». In quegli anni Facchi, arrivato da Milano con il suo bagaglio di professionalità e di esperienza nel campo ambientale come in quello politico, perde casa, lavoro, affetti, amicizie. «Mi sono separato, ho perso la casa, non potevo più lavorare nel mio settore. Arrivai a zero, dovetti chiedere aiuto ai pochi amici che mi erano rimasti. È stata dura», ricorda. Oggi è di nuovo in campo e ha un lavoro che lo soddisfa ma in quegli anni «ho vissuto da condannato per sentirmi dire dopo 16 anni che il fatto non costituisce reato». «Ho vissuto in prima persona il mix di logica giustizialista e certa stampa che fa da amplificatore diventando lo strumento per condannarti comunque e a prescindere». L’inchiesta, infatti, stravolge la vita di Facchi, anzi è come se gliela rubasse per costringerlo a costruirsene una nuova. «Avevo una forte passione politica e anche una buona credibilità nel mondo politico: l’ho abbandonata completamente. Fino al giorno della sentenza avevo completamente abbandonato anche il tema su cui ero più preparato, quello ambientale. Non tanto per quello che mi facevano pesare gli altri quanto per come la vivevo io. Vivevo un disagio costante e aver letto le intercettazioni di cinque anni, anche quelle più intime, mi faceva sentire un problema verso tutti. Mi sentivo come un appestato, come un contagiato come si direbbe adesso ai tempi del Covid. E quindi per correttezza limitavo il più possibile le relazioni sociali, le telefonate, e quant’altro». Inevitabili anche le ripercussioni sui suoi affetti più cari. «Mi sono separato da mia moglie per questa situazione e lo posso dimostrare in ogni momento. Mio figlio, che è molto attivo sui social, in quegli anni non hai mai usato il cognome Facchi, aveva uno pseudonimo. Io lo capivo, ero anche d’accordo, ma è una cosa che fa male. Quanto ci ho pianto!» «Poi – aggiunge – dopo la sentenza, mio figlio ha scritto un post bellissimo in cui diceva di essere il figlio di Facchi» ed è l’unico ricordo che riesce a strappargli un sorriso. «La mia vicenda è stata molto particolare anche perché per sette volte il pm ha tentato di coinvolgermi in procedimenti accostandomi ogni volta a questioni o persone diverse e ogni volta la cosa finiva nel nulla ma aveva comunque un’eco sui giornali per cui gli sforzi fatti per buttarmi tutto alle spalle venivano annullati – spiega – Ero finito in un tritacarne mediatico che aveva coinvolto tutta la mia famiglia e la rabbia era che più sapevo di essere innocente e più mi sentivo responsabile di quello che succedeva. Ero un uomo dello Stato che stava cercando di risolvere un problema dello Stato, sapevo di essere in prima fila e che avrei dovuto affrontare problematiche ma quello che ho vissuto ha dell’incredibile. Sentirsi poi letteralmente abbandonato dallo Stato ti pone mille interrogativi». Facchi ricorda quegli anni lunghi e difficili, lo sconforto che si alternava al coraggio, la fiducia alla disperazione. «Era come se si volesse demolire la mia immagine non avendo strumenti concreti per dimostrare le accuse contro di me», dice ricordando articoli di stampa su dettagli di conversazioni intercettate ma assolutamente estranee ai fatti oggetto delle indagini. A gennaio 2019 è arrivata la sentenza di assoluzione. «Mi ha ridato l’onore – osserva ripensando al passato – ma non riesco a viverla come una vittoria».

La brutta avventura di una soldatessa: cacciata dall’esercito per una denuncia infondata. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 22 agosto 2020. La disposizione stride con la presunzione di innocenza: l’imputato è equiparato al colpevole con sentenza definitiva. Una discussione con l’ex proprietario di casa per un paio di lenzuola ed alcune pentole rischia di far perdere il posto ad un militare dell’Esercito. La vicenda inizia nel 2018. N. M. presta servizio da circa dieci anni nell’Esercito con il grado di primo caporale maggiore. N. M. è una delle molte volontarie in ferma prefissata delle Forze armate, una “precaria” con le stellette. Dopo tanta attesa, arriva finalmente il momento desiderato, quello di poter transitare in servizio permanente. Avendo tutti i titoli, N. M. partecipa al concorso che viene bandito dall’Amministrazione militare per il passaggio in sp. N. M. vive in un piccolo appartamento in affitto nei pressi della caserma alle porte di Roma con il proprio compagno, anch’egli un militare. Passano i mesi ed rapporti con il proprietario di casa si fanno sempre più critici. Avvengono discussioni sul pagamento delle utenze, sul riparto delle spese condominiali, sul rinnovo del contratto di locazione. N. M. decide quindi di lasciare l’appartamento dopo aver saldato tutto con l’affittuario. A distanza di qualche settimana, N. M., che nel frattempo ha trovato un altro alloggio, riceve la notifica di un decreto di citazione a giudizio. L’ex proprietario di casa ha presentato denuncia dai carabinieri nei suoi confronti per “appropriazione indebita”. Dall’appartamento mancherebbero, come si legge nel capo d’imputazione, delle lenzuola, delle pentole, uno stenditoio da bagno. Oggetti dal valore di poche decine di euro. Il reato di appropriazione indebita rientra fra quelli di competenza del giudice penale monocratico a citazione diretta, senza il filtro dunque dell’udienza preliminare. Correttamente, N. M. informa subito dell’accaduto la propria scala gerarchia. Quest’ultima inizia allora a dare corso alla procedura di esclusione dal concorso per il servizio permanente per sopravvenuta “mancanza” dei requisiti. Nel bando, infatti, è prescritto che i concorrenti “non devono essere imputati in procedimenti penali per delitti non colposi”. I requisiti devono essere posseduti fino all’approvazione della graduatoria finale che per N. M. non è ancora intervenuta. Ad N. M. cade il mondo addosso: tutte le aspettative di una vita svaniscono all’improvviso e, rassegnata, si mette dunque alla ricerca di una nuova occupazione. Passa qualche settimana e arriva il colpo di scena: l’ex proprietario di casa dopo aver presentato la querela ci ripensa e decide di ritirala. N. M. accetta subito la remissione della querela e ne da immediata comunicazione alla scala gerarchica in modo che la procedura concorsuale possa procedere regolarmente anche nei suoi confronti. La burocrazia militare, però, ha già fatto il suo corso e N. M. riceve la comunicazione formale della intervenuta estromissione dal concorso. Nella graduatoria finale il suo nome non compare. Dopo qualche giorno arriva, a questo punto inutilmente, la sentenza di estinzione del reato per mancanza della condizione di procedibilità da parte del giudice. N. M. inizia un estenuante contenzioso amministrativo per far valere le proprie ragioni: esclusa dal concorso per un reato che non c’è stato. Ad assisterla c’è l’avvocato romano esperto di diritto militare Giorgio Carta. I regolamenti militari non prevedono “l’estinzione” del reato, istituto di diritto penale che come in questo caso non consente di entrare nel merito dell’accertamento del fatto per essere venuti meno in limine litis i presupposti di perseguibilità. L’avvocato Carta solleva altresì dubbi di illegittimità costituzionale di tale disciplina regolamentare. Per di più per quei reati di minore allarme sociale quali sono quelli a citazione diretta laddove lo status di imputato viene acquisito in forza della sola scelta del pm che dispone la citazione senza il vaglio del giudice dell’udienza preliminare. Una disposizione che stride con la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 27 della Costituzione, limitando i diritti del mero imputato equiparato di fatto al colpevole con sentenza definitiva. Il Tar del Lazio respinge il ricorso. Di diverso avviso il Consiglio di Stato che nelle scorse settimane ha accolto la doglianza di N. M., annullando in radice il provvedimento di esclusione dalla graduatoria. L’Amministrazione militare dovrà ora “esaminare in concreto le situazioni relative alla gravità dei fatti ed alla definitività dell’accertamento penale”. Per N. M. rivive il sogno di tornare ad indossare l’uniforme militare.

L’incubo di Marco, 8 anni di processi per aver prestato l’auto all’amico sbagliato. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Luglio 2020. Dieci anni fa l’inizio di un incubo. E solo due anni fa la sua fine. Nel mezzo, sei mesi trascorsi tra carcere, domiciliari e un obbligo di dimora a 300 chilometri dalla propria casa e i propri affetti, e otto anni spesi per dimostrare di essere innocente, affrontando interrogatori e perizie, udienze e processi. La storia di Marco Esposito è la storia di una serie di errori giudiziari. Tutto inizia quando, verso l’una della notte tra il 3 e il 4 giugno, in via Vespucci a Napoli, un’auto travolge lo scooter su cui le sorelle Pasqualina e Valeria Petrone stanno rincasando dopo il lavoro in una pizzeria del centro storico. Pasqualina muore quasi subito, la sorella dopo un anno di sofferenze. Quella stessa notte Marco viene prelevato dalla sua casa e portato nella caserma dei vigili urbani. La Lancia Y che ha causato l’incidente è la sua, ma lui continua a ripetere di averla prestata, ormai da due settimane, all’amico di vecchia data, che è anche il collega con cui lavora. Marco, al tempo, è un consulente finanziario. Ripete la sua verità su quella notte anche al pm ma dopo ore di interrogatorio si ritrova in cella a Poggioreale assieme ad altre nove persone. «Ricordo l’umiliazione delle perquisizioni continue e i lunghi corridoi dove bisognava camminare tenendo sempre le mani dietro alla schiena per non essere ripresi», ricorda Marco. «Ho trascorso 19 giorni a Poggioreale. All’inizio riuscivo a mettere la testa sul cuscino perché ero innocente e sicuro di poterlo dimostrare. Ma dopo la prima settimana e la prima istanza di scarcerazione respinta, iniziai a provare sconforto». I reati contestati a Marco sono duplice omicidio, omissione di soccorso e calunnia. Sì, perché avendo fatto il nome dell’amico a cui aveva prestato l’auto, si prende anche quest’accusa. Pm e investigatori continuano a non credere alla versione che Marco ripete come un mantra perché è l’unica verità che conosce. «Dopo 19 giorni in carcere mi concessero i domiciliari, ma a Pescara dove sono stato per sei mesi. E poi per un anno, dopo la scarcerazione, non ho potuto avere la patente. Inutile dire che tutto questo ha avuto ripercussioni drammatiche sulla mia vita personale e professionale – racconta – Ero sposato e al tempo i miei figli avevano uno e quattro anni. Mi sono separato e ho dovuto cambiare lavoro». Quello che Marco credeva amico, intanto, non si fa più vedere né sentire. Si fa invece avanti uno sconosciuto che dice di essere testimone oculare dell’incidente e accusa Marco senza incertezze. Lo riconosce e dice che altrettanto potranno fare due finanzieri che avevano assistito alla scena dallo stesso bar in cui era lui. In udienza, però, i due finanzieri non confermano. Gli errori, intanto, in questa storia si sommano. Marco, assistito dall’avvocato Cesare Amodio, chiede di poter vedere il filmato delle telecamere che su via Vespucci hanno ripreso lo scontro, ma scopre che il dischetto è stato sovrascritto per sbaglio e riporta le immagini della notte successiva a quella dell’incidente. Allora porta in Procura le immagini delle telecamere della Fondazione di don Luigi Merola, il prete noto per il suo impegno sociale e contro la camorra. Marco abita accanto alla sede della Fondazione e con le immagini della videosorveglianza della sede può dimostrare che la notte dell’incidente non è mai uscito di casa, che è entrato alle 8 di sera del 3 giugno assieme a moglie e figli e ne è uscito solo il giorno dopo, con i vigili urbani al seguito. Ma accade che chi indaga mette agli atti le immagini del cortile della Fondazione e non quelle della strada, e Marco in quelle immagini interne alla Fondazione non può esserci. C’è voluta una lunga battaglia legale per far riconoscere quello e gli errori, e ci sono voluti anni prima di arrivare alla sentenza che ha riconosciuto l’innocenza di Marco, con tante scuse ma ancora senza alcun risarcimento. Intanto chi era alla guida dell’auto che causò l’incidente è stato condannato, in primo grado a quattro anni e in secondo a due. E non farà un giorno di carcere.

 La vita distrutta di Silvestre, 6 mesi in cella ma era innocente. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Otto anni dopo l’arresto e le accuse, dopo il carcere e il rinvio a giudizio, arriva la sentenza che vuol dire assoluzione piena. “Perché il fatto non sussiste”, recita la formula usata dai giudici della settima sezione penale del Tribunale di Napoli per smontare un’inchiesta che nel giugno 2012 aveva avuto grande peso giudiziario e mediatico portando in carcere il titolare di autoscuole con accuse che andavano dall’associazione per delinquere alla corruzione e falso. Ci sono voluti otto anni per arrivare alla sentenza di primo grado e chiudere un processo che ha rischiato di dissolversi nella prescrizione. La sentenza mette un punto ai capitoli di un’inchiesta che ha stravolto vita e lavoro di un imprenditore. Quell’imprenditore si chiama Domenico Silvestre e aveva 42 anni quando, a giugno 2012, fu arrestato come personaggio chiave di un’indagine che travolse come un ciclone giudiziario non solo la sua vita personale e professionale, ma anche quella di funzionari della Motorizzazione civile di Napoli e di sei collaboratori delle sue tre autoscuole tra Napoli, Villaricca e Quarto. Era il 19 giugno 2012. All’alba la polizia giudiziaria bussò alla porta di casa dell’imprenditore di Villaricca. Bastarono pochi attimi per stravolgere tutto: i progetti, il lavoro, le emozioni, la vita. Bastò sentir pronunciare le poche parole con cui gli investigatori notificarono il provvedimento di custodia cautelare, oltre sessanta pagine in cui il suo nome ricorreva in ricostruzioni di episodi e riferimenti a conversazioni intercettate, in cui figurava “quale organizzatore e promotore” di un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al falso. Per l’accusa era un caso di patenti facili, rilasciate dietro mazzette falsificando ad hoc documenti. “In carcere”, era scritto in calce al provvedimento cautelare. Silvestre fu portato in una cella della casa circondariale di Poggioreale. Per uno che nella vita aveva scelto di lavorare, che aveva la fedina penale immacolata, che in carcere non c’era mai stato e non immaginava nemmeno di poterci finire da un momento all’altro, varcare la soglia di Poggioreale fu difficile. In cella, Silvestre, ci rimase per sei mesi. Da giugno a dicembre. Un tempo lunghissimo. Pesanti le accuse. L’imprenditore veniva indicato come colui che avrebbe avuto la capacità di controllare e orientare diversi funzionari della Motorizzazione civile di Napoli per ottenere, con presunte modalità illecite, centinaia di patenti di cittadini italiani e stranieri e organizzando falsi corsi abilitanti e altre certificazioni amministrative ritenute dagli inquirenti mendaci. Sempre secondo l’accusa, con il presunto sistema di corruttela si sarebbe creato un giro d’affari di oltre tre milioni di euro. L’inchiesta coinvolse anche sei collaboratori di Silvestre, oltre a funzionari amministrativi e dipendenti della Motorizzazione civile di Napoli. Attraverso intercettazioni telefoniche e ambientali si definirono reti di rapporti fra Napoli e provincia, Milano e Busto Arsizio e poi alla Calabria. L’indagine nasceva dalla denuncia dell’ex compagno di una donna del Milanese a margine di una relazione troncata tra rancori e accuse reciproche. Sta di fatto che a Napoli il Riesame confermò il carcere per Silvestre. Quindi si andò davanti ai giudici. Nel collegio difensivo dell’imprenditore subentrò intanto l’avvocato Roberto Imperatore e in udienza preliminare crollò una parte delle accuse, quella relativa ai cosiddetti reati fine, corruzione e falso. Rimase in piedi però l’accusa di associazione per delinquere e Silvestre, nel frattempo tornato libero, fu tra gli imputati rinviati a giudizio. La giustizia, si sa, non ha quasi mai tempi rapidissimi e la sentenza è arrivata l’altro giorno dopo otto anni di attesa e di udienze. “Assoluzione perché il fatto non sussiste”, si legge nel dispositivo della sentenza, è la formula più ampia con cui possono crollare, al termine di un dibattimento, le accuse che lo avevano generato. Assolti anche i collaboratori dell’imprenditore, difesi dagli avvocati Antonio Di Marco, Luciano Pesce, Fabio Salvi e Alfonso Trapuzzano. «I giudici hanno pienamente condiviso le tesi prospettate dalla difesa – afferma l’avvocato Imperatore – Sono felice di aver contribuito a restituire libertà, dignità e onore all’imprenditore Domenico Silvestre che all’esito del processo risulta accertato non avesse corrotto nessuno, falsificato nulla e, men che mai, promosso e capeggiato un’associazione per delinquere».

Anarchici arrestati, in manette senza gravi indizi. Frank Cimini su Il Riformista il 13 Giugno 2020. “Dalle indagini è emerso che per sostenersi tre indagati ricorressero attraverso piccoli lavori stagionali in Francia e in Svizzera all’indennità di disoccupazione da rimpatrio e elargita dallo stato per chi viene licenziato all’estero”. È questo per il gip romano Anna Maria Gavoni uno degli eventi a carico di 7 anarchici arrestati ieri a Roma (5 in carcere 2 ai domiciliari) con l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. Il gip ricorda che punto di riferimento ideologico del gruppo è Alfredo Cospito in carcere per la gambizzazione dell’a.d. di Ansaldo, protagonista di uno sciopero della fame contro il blocco della posta per cui era partita una vasta campagna di solidarietà. “C’è il verificarsi di numerosi atti penalmente rilevanti che presentano diverse analogie con le condotte riferibili agli odierni indagati…. se non assurgono a grave indizio tuttavia rafforzano la concretezza del pericolo”, sono le parole del giudice il quale ammette in pratica l’assenza dei gravi indizi necessari per la custodia cautelare in carcere ma procede ugualmente ad arrestare. Ma il gip forse da’ il meglio quando rileva che gli indagati usavano l’Hip Hop. Insomma un’ordinanza musicale. “Da una prima lettura emergono clamorose lacune motivazionali in ordine alla sussistenza della finalità di terrorismo e l’incredibile distanza tra la gravita dei fatti contestati e la realtà” dice l’avvocato Eugenio Losco che assiste uno degli arrestati. Ettore Grenci altro difensore spiega: “Mi pare che l’accusa di associazione terroristica sia del tutto sovradimensionata rispetto alla tipologia di condotte contestate e attribuite agli indagati”. I difensori ricorreranno al Riesame. Gli arresti romani arrivano pochi giorni dopo il flop registrato dalla procura di Bologna. Anche lì 7 anarchici arrestati ma scarcerati dopo tre settimane di carcere dal Riesame per mancanza di elementi utili a giustificare i provvedimenti restrittivi. La logica degli arresti sembra la stessa utilizzata a Bologna “nell’ambito di una strategia di tipo preventivo” come avevano detto gli stessi pm illustrando l’operazione. Insomma problema politico trasformato in penale.

Anarchici scarcerati, Riesame sgonfia l’inchiesta del pm ossessionato dai terroristi. Frank Cimini su Il Riformista il 30 Maggio 2020. Il Riesame di Bologna ha scarcerato i 7 anarchici arrestati il 12 maggio scorso con l’accusa di associazione sovversiva in relazione a un attentato contro due antenne di trasmissione avvenuto nel dicembre 2018. Per decisione del Riesame dei 12 indagati adesso in 6 sono liberi e altri 6 hanno solo l’obbligo di dimora. I giudici hanno accolto le istanze dei difensori anche riqualificando l’incendio in danneggiamento. Sono state cancellate tutte le aggravanti. L’inchiesta condotta dal pm Stefano Dambruoso viene fortemente ridimensionata. La procura aveva puntato sulla pericolosità delle manifestazioni sotto le carceri e contro i centri di detenzione per immigrati in tempi di pandemia. La difesa aveva spiegato che in questo modo si arrivava a negare il diritto al dissenso. Il gip aveva impiegato quasi un anno a decidere gli arresti dal momento che la richiesta del pm era datata luglio 2019. Al momento si conosce solo il dispositivo mentre per la motivazione bisognerà attendere alcuni giorni. Sicuramente il pm ricorrerà in Cassazione impugnando la decisione del Riesame. Per Dambruoso al quale anni fa Time aveva dedicato la copertina come “cacciatore di terroristi islamici” a Milano è una sconfitta clamorosa. Nell’udienza davanti al Riesame c’erano stati momenti di tensione perché il pm aveva dato sulla voce all’avvocato difensore Ettore Grenci il quale usava il termine “ragazzi” in riferimento agli indagati. “No sono terroristi” gridava il rappresentante dell’accusa. Il Riesame ha messo almeno per ora un punto fermo dando ragione ai difensori i quali avevano spiegato che l’attività politica degli indagati era sempre stata alla luce del sole.

Anarchici arrestati: cadono tutte le accuse, flop del Pm Dambruoso. Frank Cimini su Il Riformista il 3 Giugno 2020. L’inchiesta che aveva a favore tutte le forze politiche e il 99 per cento dei giornali oltre all’utilizzo della parolina magica “terrorismo” è stata ridimensionata dal Tribunale del Riesame di Bologna che ha spazzato via l’accusa di associazione sovversiva a carico di 12 anarchici, 7 dei quali finiti in carcere il 12 maggio scorso. Il gip Domenico Panza aveva semplicemente fatto copia e incolla rispetto alla richiesta di arresti datata luglio 2019 e firmata da un pubblico accusatore prestigioso il pm Stefano Dambruoso famoso nel mondo per essere finito sulla copertina della rivista americana Time anni fa come cacciatore di fondamentalisti islamici dalla procura di Milano. Ad un certo punto Dambruoso volava in Parlamento con la Scelta Civica di Monti rendendosi anche protagonista di una baruffa con una collega che lo accusava di averla picchiata. Non rieletto Dambruoso approfittava delle porte sempre girevoli tra magistratura e politica per tornare ad accusare. Sceglieva Bologna perché a Milano non poteva tornare e perché con gli ex colleghi i rapporti si erano deteriorati (eufemismo). E arriviamo all’indagine per due antenne rotte a dicembre del 2018. Una mole enorme di intercettazioni, le immagini di manifestazioni e presidi davanti alle carceri e ai centri di detenzione per immigrati non sono bastate. Il Riesame ha impiegato 5 giorni per dare ragione agli avvocati Ettore Grenci, Daria Mosini e Mattia Maso i quali sostenevano che l’attività degli anarchici si era svolta alla luce del sole usando peraltro toni meno aspri di quelli ormai soliti presso le forze rappresentate in Parlamento. Era stato messo in discussione secondo i legali il diritto al dissenso. Anche perché nella conferenza stampa sugli arresti il 13 maggio gli inquirenti avevano parlato di operazione «nell’ambito di una strategia di tipo preventivo» al fine di evitare strumentalizzazioni nelle manifestazioni di piazza conseguenti alla crisi economica causata dal Coronavirus. Adesso gli indagati sono liberi e solo 5 di loro hanno l’obbligo di dimora. Gli avvocati auspicano che la Procura rivaluti la vicenda riportandola nelle sue giuste dimensioni ma il ricorso in Cassazione del pm appare scontato. Il flop non è di poco conto. Il tentativo della procura era stato quello di presentare l’associazione sovversiva e la finalità di terrorismo come reati di pericolo imitando quello che aveva cercato di fare Caselli a Torino con i NoTav. Fallendo pure lui. È la vecchia storia italiana di trasformare problemi politici in ordine pubblico e processi penali. Stavolta a Bologna come a Berlino c’è un giudice.

Anarchici di Bologna, perché sono stati arrestati un anno dopo? Frank Cimini su Il Riformista il 28 Maggio 2020. La richiesta della Procura di Bologna di arrestare gli anarchici accusati di associazione sovversiva in relazione al danneggiamento di due antenne, risale al luglio del 2019 ed è stata accolta dal Gip solo nei giorni scorsi quindi quasi un anno dopo.  Lo hanno sottolineato gli avvocati della difesa davanti ai giudici del Riesame al fine di evidenziare la mancanza dell’attualità di qualsiasi esigenza cautelare. Gli avvocati Ettore Grenci, Daria Mosini e Mattia Maso spiegano che nel lungo periodo tra la richiesta dei pm e la decisione del Gip «non sono stati segnalati episodi che facciano ritenere concreto e attuale il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie». Inoltre, nello stesso periodo nessuno degli indagati è stato segnalato per la commissione di fatti delittuosi nell’alveo di una azione politica che da anni caratterizza l’attività degli indagati. Attività caratterizzata negli ultimi tempi da produzione di documenti di solidarietà ai detenuti «che assumono toni che non possono essere neppure definiti aspri o radicali. Non sono peraltro gli unici in questo periodo ad assumere posizioni forti per alzare il velo dell’indifferenza collettiva sulle condizioni delle carceri in questo paese, rese più critiche dalla diffusione del coronavirus». «Prendere in esame queste forme di dissenso per valorizzare esigenze cautelari per il reato di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo significherebbe perseguire finalità altre con il rischio di reprimere forme di dissenso e di critica» rilevano i legali che aspettano la decisione del Riesame entro l’inizio della settimana prossima. Insomma, il problema è prettamente politico e non può essere trasformato in penale.

Vittima di una rapina nel 1982, lo Stato risarcisce la famiglia dopo 38 anni. La vedova e i due figli di un camionista di Ferrara ucciso nel 1982, 38 anni dopo sono stati risarciti con 150 mila euro. I killer non avevano i soldi e lo Stato non "aveva capito" una direttiva europea che ha sbloccato la vicenda. Alessandro Ferro, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Lo Stato non ti lascia mai solo, si dice. Semmai "ritarda". Dopo 38 anni, lo Stato italiano ha finalmente risarcito i familiari di Gianfranco Benetti, un camionista ucciso l'8 marzo 1982 in seguito ad una rapina mentre faceva ritorno verso casa. Soltanto oggi, la moglie e i due figli sono riusciti ad ottenere il risarcimento di 50 mila euro a testa che hanno atteso, invano, da chi lo uccise. Oltre al racconto dei fatti, la storia racconta il grave ritardo con il quale la giustizia è arrivata, per la precisione 38 anni dopo i fatti.

I fatti. Come riporta il Corriere della Sera, la vicenda accadde l'8 marzo 1982 ad Acquaviva delle Fonti, vicino Bari. Il 32enne Gianfranco, alla guida di un camion, dalla Puglia stava rientrando verso casa in direzione Ferrara assieme ad un collega dopo una consegna di mobili in vimini per conto di un'azienda ferrarese. A casa, nella sua città, lo aspettavano la moglie Maria e i due figli piccoli. Sulla stessa rotta, direzione nord dell'autostrada Taranto-Bari, era seguito da tre rapinatori disposti a tutto pur di prendergli i soldi appena incassati con la consegna. Lo fecero accostare e fermare ma, a "decidere il suo destino" (così dice la sentenza di primo grado) fu un dettaglio, e cioè il "fatto imprevisto" che Gianfranco, invece di rimanere sul camion, scese dal suo lato sinistro e quindi dalla parte in cui era "visibile ai veicoli in transito". I rapinatori lo considerano "un intralcio non previsto" ed ipotizzarono "reazioni di entrambi gli autisti". Fu così che uno dei banditi fece fuoco uccidendo Gianfranco e, subito dopo, si rivolse all'altro autista con tono minaccioso. "Il tuo amico lo abbiamo ammazzato, se non vuoi fare la stessa fine dacci tutto quello che hai nel portafoglio".

I banditi al verde. I tre banditi furono arrestati poche ore dopo e condannati: Domenico De Matteis, Sergio Galeone e Luigi Merletto (questi i loro nomi) avrebbero dovuto risarcire la famiglia della loro vittima ma le condizioni economiche in cui versavano non hanno mai reso possibile l'esborso della cifra stabilita con la condanna penale. Dal canto suo, la moglie di Gianfranco, con due bimbi piccoli da crescere, non ha mai avviato una causa civile per puntare su possibili espropri o pignoramenti che avrebbero avuto costi molto alti e risultati non meglio precisati.

Una direttiva europea. Sembrava che fosse impossibile rimediare, a livello economico, all'ingiustizia di aver perduto un marito ed il padre dei suoi figli fino a quando, alla fine del 2016, hanno scoperto la possibilità di aprire una nuova causa civile legandola ad una direttiva europea del 2004. I loro avvocati, Ugo e Giorgio Ferroni, hanno avviato il procedimento nel 2017 e soltanto pochi giorni fa il giudice Corrado Cartoni (della Seconda sezione civile del Tribunale di Roma) ha accolto le loro obiezioni. La vedova Benetti ed i due figli hanno ottenuto dallo Stato, formalmente dalla presidenza del Consiglio e dal ministero della Giustizia, un risarcimento pari a 50 mila euro ciascuno. 38 anni dopo.

Il perché del ritardo. Tutto questo perché l'Italia, pur facendo propria la direttiva del 2004 con due passaggi (nel 2007 e nel 2016) non aveva recepito fino in fondo cosa chiedeva l'Europa. In pratica, risarcire le vittime di reati violenti quando chi li ha commessi non ha la possibilità di pagare. Per dirla come l'avvocato Giorgio Ferroni "è una condanna al risarcimento del danno perché lo Stato italiano, essendo stato inadempiente alla direttiva europea, ha leso un diritto soggettivo, cioè quello all' indennizzo".

Al cinema "Il diritto di opporsi", storia di ingiustizia e pregiudizio. Un legal-drama solido, che sensibilizza su certe illogicità giuridiche ai danni della comunità afroamericana e condanna la disumanità della pena di morte. Serena Nannelli, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. "Il diritto di opporsi" racconta una terribile storia vera, importante dal punto di vista umano, politico e sociale. Il film di Destin Daniel Cretton è un legal-drama abbastanza tradizionale, che mette sotto accusa certi abusi di cui si macchia il sistema giudiziario americano e, in particolare, denuncia la barbarie della pena di morte. Nella sua crociata contro il sistema ricorda un po' "Fino a prova contraria" di Eastwood ma è soprattutto nel dipingere come ci si senta nel braccio della morte che la memoria va a titoli quali "Dead Men Walking" e "Il Miglio Verde". Di questi ultimi però non replica la forza emotiva. Il protagonista è un eroe del nostro tempo, ossia un giovane avvocato, Bryan Stevenson (Michael B. Jordan) che, dopo essersi laureato a Harvard, anziché scegliere di fare una brillante e ben remunerata carriera nel Nord degli Stati Uniti, torna nel natio Alabama, deciso a prestare assistenza legale, in gran parte pro bono, a chi non possa permettersela. Tra i suoi primi casi, affrontati col sostegno di un'avvocatessa locale (Brie Larson), ci sono soprattutto persone di colore che non hanno beneficiato di un regolare processo e che quindi, malgrado la condanna, sono a tutti gli effetti dei presunti innocenti. In particolare gli sta a cuore la vicenda di Walter McMillian (Jamie Foxx), cui è attribuito l'omicidio di una 18enne bianca, malgrado l'assenza di prove di colpevolezza e il fatto che l'unica testimonianza contro di lui provenga da un criminale con un motivo per mentire. La peculiarità dell'ambientazione, Monroeville, cittadina dove, viene ricordato a più riprese nel film, Harper Lee scrisse "Il buio oltre la siepe", ci dice quanto poco sia cambiata la situazione rispetto agli anni ’30 raccontati nel romanzo. Il razzismo è qui perpetuato in maniera sfacciata e le autorità sembrano non tanto cercare giustizia quanto far contenta la gente (bianca) e "tranquillizzare la comunità", trovando in fretta un colpevole. La scelta, effettuata spesso sulla base dell'incredibile giustificazione "Basta guardarlo in faccia", ricade quasi sempre su individui afroamericani. Il delicato argomento della pena di morte è affrontato grazie all'angosciante e toccante esecuzione di Herbert Richardson, un reduce di guerra affetto da sindrome post-traumatica di cui viviamo gli ultimi istanti di vita prima della sedia elettrica. "Il diritto di opporsi" è un esempio di cinema sociale, poiché ci rammenta non solo come in alcuni stati i bianchi possano decidere arbitrariamente di usare persone di colore come capro espiatorio, quasi fosse nella loro natura esserlo, ma anche come risultino molti innocenti tra chi trova la morte per mano dello Stato. La narrazione solida, condotta con ritmo lento e costante, mostra le scorrettezze, le falle e gli squilibri di un sistema giuridico dimentico di quanto ogni vita umana sia preziosa, nonché reo di pregiudizi sociali e razziali. Lodevoli non solo le interpretazioni dei due attori protagonisti, ma soprattutto il messaggio, attualissimo, circa la necessità di lottare per chi ha perso speranza e dignità, facendo valere il suo diritto di opporsi a una giustizia pilotata. Un film, in definitiva, in grado di smuovere nel profondo, rammentando cosa siano la pietà e il rispetto per il prossimo, perché, come recita il mantra morale del protagonista, "non importa cosa hai fatto, la tua vita ha ancora valore".

La storia. Dario Di Matteo, ex sindaco Teverola: “Innocente, mi hanno impedito di vedere mia figlia nascere”. Rossella Grasso de Il Riformista il  24 Febbraio 2020. È un incubo durato più di 3 anni quello vissuto da Dario Di Matteo, 42 anni, ex sindaco di Teverola, nel casertano, da giugno 2015 ad agosto 2018. Nel febbraio 2017 Di Matteo venne arrestato insieme a un altro sindaco del casertano con accuse gravissime: induzione alla corruzione per una sponsorizzazione legata alla scuola pubblica, per attività di sensibilizzazione alla raccolta differenziata e di aver usato la sua carica per far assumere alcune persone da lui segnalate dalla ditta che si occupa di raccolta di rifiuti. Scattò l’arresto e 7 giorni in carcere. Ma subito dopo il primo interrogatorio di garanzia i giudici capirono che c’era qualcosa che non andava e che le accuse contro di lui erano infondate. Passò agli arresti domiciliari per altri 7 giorni. Poi fu scarcerato in assenza di prove della sua colpevolezza e dopo 3 anni definitivamente assolto. Tra una decisione dei giudici e l’altra avveniva l’evento più importante della sua vita: stava diventando padre. La sua prima figlia è nata giusto mentre lui era agli arresti domiciliari. Prigioniero di casa sua non potè andare all’ospedale e partecipare a quell’evento che nessuno più potrà restituirgli. “La mia è stata una vicenda assurda e triste che ha connotato il mio mandato di un’esperienza che nessun sindaco innocente dovrebbe mai subire”. Dario Di Matteo ha la voce spezzata nel ricordare e raccontare quei giorni terribili. La notizia volò di giornale in telegiornale, locale e nazionale. “È un’esperienza quella del carcere che lascia una ferita che non si rimarginerà mai più”, racconta l’ex sindaco che finì agli arresti il giorno prima del suo compleanno. “In queste situazioni si crolla ed è difficile affrontare un interrogatorio di garanzia a 48 ore da un’ordinanza di custodia cautelare. È quasi come morire ma devi avere la forza di dimostrare da subito quelli che sono i fatti, difenderti e dare subito le prove della tua innocenza”, racconta e negli occhi gli passano davanti tutti quei momenti drammatici.

LA NASCITA – Il giudice per le indagini preliminari sostenne che c’erano troppe lacune e concesse a Di Matteo gli arresti domiciliari. Si ritiene “un fortunato” perché il suo arresto è durato solo 15 giorni nonostante tutto. Il tribunale del riesame di Napoli ha annullato completamente l’ordinanza di carcerazione. Una misura cautelare che però ha impedito a Di Matteo di vivere il momento più bello della sua vita: la nascita di sua figlia. “Una condanna che non si potrà recuperare mai più – dice l’ex sindaco – Un figlio che nasce è irripetibile. Mi ha fatto rabbia perché era una cosa che si poteva evitare. Perché giusto in quei giorni doveva essere emessa l’ordinanza di custodia cautelare? Perché non la settimana dopo?”. Di Matteo ricorda quei giorni e la solidarietà che soprattutto le mamme di Teverola gli manifestarono. Appesero striscioni per dargli coraggio e fiducia, manifestarono sotto il palazzo del Comune e iniziò una pioggia di messaggi di vicinanza. Soprattutto le mamme non potevano sopportare che al loro sindaco era stato impedito di partecipare a un momento così bello e importante come la nascita della sua bambina.

NUOVE ELEZIONI – Una volta conclusasi la vicenda Di Matteo è tornato a esercitare il suo ruolo di sindaco di Teverola. “Vi posso garantire che non è stato facile ritornare al lavoro dopo tutto quello che era successo – spiega – non avevo più quella serenità, quella tranquillità e quell’equilibrio per poter operare. Anche se sapevo di operare nella legalità, trasparenza e con la coscienza a posto tutto quello che era successo era diventato invalidante”. Poi nel maggio 2019 Teverola è tornata alle urne. Di Matteo si è nuovamente candidato ma la sua vicenda giudiziaria ha pesato con evidenza sul risultato elettorale. “Alcuni miei competitor hanno strumentalizzato la mia vicenda gridando a gran voce che la loro fedina penale era immacolata e la mia no”. L’ex sindaco era infatti in attesa che il processo si chiudesse in via definitiva, cosa che è accaduta tre anni dopo. “Le elezioni poi le abbiamo perse per 200 voti”.

Altamura: assolto da accusa omicidio dopo 5 processi. È Giuseppe Bruno, accusato dell’omicidio di Biagio Genco, scomparso ad Altamura (Bari) nel novembre 2006 e il cui corpo non è mai stato ritrovato. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Febbraio 2020. La Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna a 14 anni di reclusione inflitta dalla Corte di Assise di Appello di Bari nei confronti di Giuseppe Bruno, accusato dell’omicidio di Biagio Genco, scomparso ad Altamura (Bari) nel novembre 2006 e il cui corpo non è mai stato ritrovato. Bruno, difeso dagli avvocati Michele Laforgia e Donato Carlucci, è stato definitivamente assolto «per non aver commesso il fatto» dopo cinque processi. In primo grado, nel maggio 2016, Bruno era stato condannato a 25 anni di reclusione. In appello, un anno dopo, fu assolto e scarcerato dopo aver trascorso 3 anni in cella e uno ai domiciliari. La Cassazione annullò poi con rinvio nel febbraio 2018 e nell’appello bis, un anno fa, la nuova condanna a 14 anni di reclusione per concorso anomalo, ora annullata. Nel processo erano imputate altre quattro persone, il pregiudicato di Altamura Mario Dambrosio, fratello del defunto boss Bartolo Dambrosio, Vincenzo Scalera, Vincenzo Crapuzzi e Giuseppe Antonio Colonna, per i quali la Suprema Corte ha confermato, rendendole definitive, le condanne per i reati, a vario titolo contestati, di associazione mafiosa, usura e armi (8 anni di reclusione per Dambrosio, 7 anni per Scalera e Crapuzzi, 5 anni e 8 mesi per Colonna). I quattro sono stati condannati anche al risarcimento danni nei confronti della costituita civile Città metropolitana di Bari. Con riferimento alla posizione del boss Dambrosio, la Cassazione ha annullato con rinvio la revoca della confisca di alcuni beni immobili intestati a familiari. Questo processo nasceva da uno stralcio dell’inchiesta avviata dalla Dda di Bari più di un decennio fa su un presunto intreccio tra mafia, politica e forze dell’ordine ad Altamura. Il procedimento a carico di militari e amministratori locali si è concluso nel 2013 con tutte assoluzioni.

Arrestato, “esiliato” e infine scagionato. L’odissea giudiziaria dell’ex parlamentare Pino Galati. Simona Musco de Il Dubbio il 19 febbraio 2020. Fu indagato con l’accusa di aver aiutato i clan calabresi, Ma poi la Dda ha chiesto e ottenuto l’archiviazione. Giuseppe Galati non ha aiutato i clan a mettere le mani sull’Asp di Catanzaro. Si è chiusa così la vicenda giudiziaria dell’ex sottosegretario calabrese, per il quale oggi la procura distrettuale ha chiesto e ottenuto l’archiviazione nel procedimento “Quinta Bolgia”, l’inchiesta che a fine 2018 ha travolto l’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro. Una vicenda alla quale il politico è risultato estraneo, così come riconosciuto ora dalla Dda guidata da Nicola Gratteri e prima ancora dalla Cassazione, che aveva stroncato le accuse che lo avevano portato agli arresti domiciliari prima e al divieto di dimora poi. L’inchiesta aveva svelato gli interessi delle famiglie di ‘ndrangheta di Lamezia Terme su ambulanze e onoranze funebri. Un affare coltivato, secondo l’accusa, dagli uomini riconducibili al clan Iannazzo-Daponte-Cannizzaro, grazie anche, secondo la prima prospettazione degli inquirenti, all’aiuto di politici come Galati, ritenuto «al servizio della ‘ndrangheta», secondo quanto scriveva il gip. Che richiamava le dichiarazioni di diversi pentiti, secondo cui «la sua carriera politica è stata resa possibile da sempre per il sostegno delle cosche lametine». Ma la Cassazione, a luglio scorso, ha disarticolato l’impianto accusatorio, accogliendo tutti i motivi di ricorso avanzati dagli avvocati Francesco Gambardella e Salvatore Cerra. L’accusa – turbata libertà del procedimento di scelta del contraente aggravata dal fine di agevolare l’associazione mafiosa – si basava anche su alcune intercettazioni ritenute utilizzabili dal Riesame in quanto «casuali», poiché effettuate nel corso di operazioni nei confronti di altri soggetti, non essendoci, in origine, elementi a carico del politico. Ma quelle intercettazioni, avevano replicato i giudici di Cassazione, sono «inutilizzabili», anche se casuali: sarebbe stata infatti necessaria una successiva richiesta di autorizzazione alla Camera, nel caso in cui fosse stato ritenuto necessario utilizzare conversazioni o i tabulati. Richiesta che non è stata avanzata, rendendo quelle registrazioni «del tutto inutilizzabili». Ma non solo: i giudici parlarono anche di «infondatezza dell’ipotesi di accusa». Mancava, in particolare, un’indicazione chiara su come, materialmente, sarebbe stato consumato il tentativo di turbare la libertà del procedimento di scelta del contraente, dal momento che «all’esito dell’incontro incriminato» – ovvero quello tra un ex consigliere comunale e l’ex direttore amministrativo dell’Asp – «nulla di concreto è stato fatto dai presunti correi e, quindi, non risulta che il Galati abbia fatto nulla di più del mettere in contatto le parti interessate». Insomma, per i giudici «non vi sono elementi che consentano di andare oltre la mera congettura». E non basta, concludevano, la mera conoscenza delle relazioni criminali locali per sostenere l’aggravante della “finalità mafiosa”. La Dda, però, convinta della bontà della propria tesi, aveva notificato all’ex deputato del centrodestra una nuova accusa, contenuta nell’avviso di conclusione indagini, ovvero il concorso esterno in associazione mafiosa. Ma i legali di Galati erano sicuri: «abbiamo sempre e fermamente creduto nelle tesi difensive e soprattutto nell’estraneità di Pino Galati a contesti vicini alla ‘ndrangheta o finalizzati a commettere condotte penalmente rilevanti – aveva sottolineato Cerra al Dubbio -. Dalle carte emerge chiaramente che Galati non avesse avuto contatti con la criminalità organizzata. Ciò che fa è limitarsi a mettere in contatto un consigliere comunale con un dirigente. E questa credo che sia una cosa normalissima per un politico». La decisione di oggi, commentano oggi i legali, «ridà giustizia e dignità all’onorevole le deputato, pur senza lenire la sofferenza e l’amarezza che da quella ordinanza ne erano derivate». Intanto l’ex sottosegretario il 17 luglio dovrà affrontare un altro processo, quello relativo all’inchiesta “Calabresi nel mondo”, dal nome dell’ente in house della Regione Calabria. Per lui l’accusa ipotizza una distrazione di fondi comunitari.

“Non oltraggiò il giudice”. Assolto l’avvocato Valori dopo 5 anni di processi. Il legale chiese di verbalizzare le dichiarazioni di un testimone, ma la giudice “non la prese bene”. Il Dubbio il 19 febbraio 2020. Sette anni sotto processo, solo per aver chiesto al giudice di verbalizzare una testimonianza. Si è conclusa solo due giorni fa una vicenda iniziata nel 2012, quando l’avvocato maceratese Federico Valori è finito a processo con l’accusa di oltraggio al giudice nel corso dell’udienza. Valori è stato assolto perché il fatto non sussiste, ma in primo grado era stato condannato a un anno e quattro mesi, più 5mila euro di risarcimento del danno, dal tribunale de L’Aquila, competente per i procedimenti che coinvolgono magistrati delle Marche. A portare il legale in aula nelle vesti di imputato è stata la frase rivolta al giudice di pace di Macerata Maria Carmina La Iacona: nel corso di un’udienza, Valori aveva sottolineato che «il giudice non sta facendo il proprio dovere», dopo aver più volte chiesto di verbalizzare le parole di un testimone, importanti, secondo il legale, per la difesa del suo cliente. Non bastava, dunque, per Valori il semplice riassunto delle sue dichiarazioni: per “risolvere” quel caso era necessario che sul verbale venissero riportate le esatte parole del testimone, senza tralasciare nulla. Una richiesta che non era stata accolta, provocando, dunque, dopo varie insistenze, la reazione dell’avvocato. «Stavo difendendo una cliente – aveva raccontato Valori a “Cronache maceratesi” -, ho fatto ciò che mi è stato insegnato da mio padre quando si sente un testimone e il giudice fa la verbalizzazione sintetica. Ho detto che verbalizzando mi sarei trovato impedito nella difesa della mia cliente, perché il testimone aveva reso dichiarazioni contraddittorie con cui, se verbalizzate, avrei potuto dimostrare che stava mentendo». Il giudice, per tre volte, ha ribadito che la verbalizzazione sarebbe avvenuta in forma sintetica, per poi disporre la sospensione del procedimento. A quel punto, dunque, Valori ha proferito la frase incriminata, che lo ha fatto finire a processo. «Per me non è oltraggio una critica fatta nell’esercizio della mia professione – aveva aggiunto -. Quello che facciamo è previsto dalla Costituzione: esercitiamo il diritto di difesa».

Da “la Stampa” il 20 febbraio 2020. Qualche anno fa, citando Max Weber, Ágnes Heller disse che «nell'età moderna ci muoviamo in diverse sfere con i loro rispettivi concetti di verità». In politica, spiegava, ognuno è portatore di una verità che un altro può confutare o addirittura falsificare. Non se ne lagnava, ne prendeva atto. E la riflessione non ha tanto a che vedere con le fake news (Heller, ungherese, visse sotto le dittature nazista e comunista, la cui stessa essenza era la menzogna), quanto piuttosto sulla percezione degli eventi e sulla memoria, che non saranno mai condivise. E lo sappiamo bene oggi, su qualsiasi argomento, dall' immigrazione all' eredità del fascismo. Ognuno di noi ha una sua verità ed è tale per quanto ci affascina, non per una scrupolosa analisi dei fatti, di quello che è successo prima e si è precisato dopo. Mi è venuto in mente perché l'altro giorno sono andato a vedere "Gli anni più belli", l'ultimo film di Gabriele Muccino. Fra i protagonisti, Pierfrancesco Favino è un avvocato dedito alla causa dei deboli, sinché non si ritrova a difendere un lercio al cubo, uno che ha speculato sul sangue infetto e ha provocato la morte di decine o centinaia di persone. In pratica, Duilio Poggiolini. Quello coi soldi delle tangenti nel puff, per chi non ricordasse. Poggiolini compare spesso nei film sugli anni Novanta. Fa sempre scena: il mostro senza scrupoli dalle ville opulente e la coscienza di un rettile. Martedì, per quella storia, Poggiolini è stato assolto. Ma tanto nessuna sentenza sarà mai persuasiva come dieci sceneggiature, e i più, anziché la verità processuale, si terranno quella cinematografica.

Da il Fatto Quotidiano il 22 febbraio 2020. Mattia Feltri ne ha combinata un' altra delle sue. Su "Buongiorno", la rubrica di prima pagina della Stampa, con la quale riesce periodicamente a propinare balle ai lettori, l'altroieri ha provato a far passare Duilio Poggiolini come una sorta di martire della barbarie giustizialista alla quale contrapporre il garantismo alle vongole cucinato con la salsa della disinformazione. L' occasione è quella dell' ultimo film di Gabriele Muccino e del personaggio interpretato da Pierfrancesco Favino, il giovane avvocato idealista che si lascia tentare dai soldi e per questo accetta di difendere e far assolvere un imprenditore mezzo losco che si è arricchito col sangue infetto e ha causato dei morti. "In pratica, Duilio Poggiolini. Quello coi soldi delle tangenti nel puff, per chi non ricordasse", scrive Feltri per sgomberare il campo da ogni dubbio. "Il mostro" per antonomasia nei film degli anni 90, secondo il nostro ipergarantista che ricorda che il giovedì precedente Poggiolini è stato "assolto" ma per la gioia dei forcaioli nessuna verità processuale potrà cancellare quelle cinematografiche ormai conclamate e quindi Poggiolini rimarrà un mostro conclamato, maledizione che ingiustizia. E così Mattia Feltri riesce a rifilare ai suoi lettori due balle in una. Anzitutto, e davvero la tempistica appare di difficile comprensione: Poggiolini non è stato assolto pochi giorni fa ma il 25 marzo 2019, e persino i forcaioli del Fatto hanno dato risalto alla notizia, che altri importanti quotidiani hanno sì riportato ma solo il giorno dopo. E soprattutto: Poggiolini è stato assolto a Napoli nel processo per il sangue infetto, vero, verissimo, come tutti gli altri imputati tra ex dirigenti e funzionari del gruppo Marcucci, al termine di un processo iniziato a molti anni di distanza dai fatti e dopo un lungo rimpallo di competenze territoriali. Ma questa assoluzione mica cancella la sentenza di condanna a 4 anni e 4 mesi (e il sequestro di 29 miliardi di lire, più altri 10 alla moglie) passata in giudicato per le tangenti sulla sanità. Ai lettori del "Buongiorno" questo dettagliuccio è stato omesso.

Jennifer, sepolta viva  a 22 anni: negato l’indennizzo alla famiglia. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Fu uccisa incinta dall’amante. Il papà: ingiustizia, ma i soldi non contano. «Secondo lei mi preoccupo dei soldi che indennizzano dopo che mi è stata uccisa una figlia? Certo, questa non è giustizia ma il vero scandalo sarà quando quell’essere uscirà dal carcere. E succederà presto, vedrà. Quello sì che sarà scandaloso». La voce di Tullio Zacconi arriva da qualche luogo in provincia di Venezia, dove vive. È arrabbiato («non mi faccia parlare, va... perché sennò dico cose brutte») e si dichiara arreso: «Tanto i giudici fanno quello che vogliono». E commenta con poche parole la sentenza che ha negato in appello l’indennizzo di 80 mila euro concesso in primo grado a sua moglie e suo suocero. Per raccontare questa storia dobbiamo tornare a un giorno di aprile del 2006 quando Jennifer, la figlia di Tullio, fu massacrata di botte. Era al nono mese di gravidanza e aveva 22 anni. L’uomo dal quale aspettava il bambino — sposato e con due figli — non voleva né responsabilità né interferenze di lei con la sua famiglia. Litigarono, lui la colpì fino a quando lei non cadde inerme. Poi la seppellì in una buca a Olmo di Martellago (Venezia). L’autopsia svelò che la ragazza respirava ancora quando lui la coprì di terra e se ne tornò a casa. Lucio Niero, così si chiama «quell’essere», come lo definisce il padre di Jennifer, è stato poi condannato a 30 anni di carcere e al pagamento di una provvisionale (cioè un anticipo) di 80 mila euro. Ma quell’uomo è nullatenente e quindi non ha mai pagato nemmeno un centesimo di risarcimento. Ed è proprio da quel mancato risarcimento che è nata la causa civile contro la presidenza del Consiglio e il ministero della Giustizia. Perché — era la tesi dei familiari di Jennifer — non hanno applicato la direttiva europea che stabilisce, appunto, indennizzi per le vittime di reati violenti quando l’autore del reato non paga. La direttiva numero 80 in effetti, quando l’autore del reato non risarcisce, dà «alle singole vittime di reati violenti intenzionali il diritto a percepire dallo Stato membro di residenza l’indennizzo equo e adeguato». Ma questo principio, passato in primo grado, è stato negato nella sentenza d’appello. I giudici della prima sentenza avevano stabilito che lo Stato pagasse ai familiari di Jennifer la cifra già fissata con la provvisionale: gli 80 mila euro. Ma adesso la Corte d’appello di Roma li nega. La nuova sentenza dice che la direttiva «in linea generale» è legata «alla finalità di garanzia della libera circolazione». E quindi, proprio per questo tutela soltanto le vittime che non sono residenti nel Paese in cui viene commesso il reato (i transfrontalieri). E ancora: sempre partendo dalla finalità della libera circolazione «ne consegue che nella nozione di vittima contemplata dalla direttiva non possano rientrare i parenti della vittima». «Una decisione incredibile e illegittima» commenta Claudio Defilippi, l’avvocato milanese di Anna Maria e Giuseppe Giannone, madre e nonno della ragazza uccisa. «Vorrei ricordare che l’Europa prevedeva che i singoli Stati si dotassero di un rimedio interno rispetto alla direttiva e che noi l’abbiamo recepita con una legge che prevede l’indennizzo e affida il compito alle prefetture. Con questa sentenza invece ci dicono che tutto questo non vale. Proporrò alla famiglia di fare un ricorso in Cassazione e un altro alla Corte europea dei diritti dell’uomo». Ma il padre di Jennifer si dice «scoraggiato» e «senza nessuna voglia di tornare a ripetere tutto daccapo, pagare altri soldi» per le spese legali. «Quello che so — dice — è che io mia figlia non potrò mai più vederla mentre l’assassino può incontrare i suoi figli. Dei soldi mi importa poco, vorrei indietro Jennifer».

I magistrati sbagliano ma non pagano. Accertate 509 "ingiuste detenzioni" nel 2019: solo 16 azioni disciplinari nei confronti dei giudici. Dario Martini su Il Tempo il 30 gennaio 2020. È di giorni fa la polemica sulle parole del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, secondo il quale gli «innocenti non vanno in carcere». Il Guardasigilli ha cercato di andare oltre spiegando che si riferiva alle persone assolte. Ma c’è un dato di cui nessuno ha parlato. Ed è contenuto nella relazione annuale sull’amministrazione della giustizia presentata martedì in Parlamento dallo stesso ministro. Riguarda le ingiuste detenzioni e il numero di azioni disciplinari nei confronti dei magistrati responsabili. Nel 2018, su 509 ingiuste detenzioni accertate, i magistrati chiamati a rispondere dei loro errori sono stati solo 16. Quindi, ci sono 493 casi (quasi il totale) per cui nessuno pagherà mai. Eppure, nella sua relazione, il ministro Bonafede fa notare quanti passi in avanti siano stati fatti rispetto al passato. Una vera e propria rivoluzione, perché prima si faceva molto poco. È solo negli ultimi anni che è stata avviata una nuova attività di monitoraggio sulla ingiusta detenzione. «È la prima volta che il ministero della Giustizia predispone, in modo strutturale, un simile capillare monitoraggio sulle ingiuste detenzioni - ha spiegato Bonafede in Aula - Su mio diretto impulso, nei primi mesi del 2019 è stato ampliato lo spettro degli accertamenti dell’Ispettorato Generale sulla applicazione e gestione delle misure custodiali, estendendo la verifica a tutte le ipotesi di ingiusta detenzione e non soltanto alle cosiddette scarcerazioni tardive». Proprio così...

I magistrati che sbagliano ma non pagano per gli errori. Nel 2018, sono 509 i casi di ingiusta detenzione, ma solamente 16 magistrati sono stati chiamati a rispondere dei propri errori. Francesca Bernasconi, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. "Gli innocenti non vanno in carcere". La frase, pronunciata dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, aveva sollevato un polverone. Poi, il Guardasigilli aveva cercato di chiarire la sua affermazione, spiegando che intendeva riferirsi alle persone assolte. Ma, come fa notare il Tempo, in tema di ingiusta detenzione, c'è un dato che è passato quasi inosservato. Si tratta del numero dei magistrati chiamati a rispondere dei propri errori, che sono costati il carcere a persone innocenti. I numeri sono contenuti nella Relazione annuale sull'amministrazione della giustizia, presentata in Parlamento qualche giorno fa, ma erano già consultabili anche nella Relazione sull'applicazione delle misure cautelari personali e sui provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, presentata in Senato nel 2019. Qui viene fatto presente che, nel 2018, i casi di ingiusta detenzione sono stati 509, ma solamente 16 magistrati sono stati chiamati a rispondere dei propri errori. Nella Relazione, però, il ministro Bonafede sottolinea i miglioramenti fatti rispetto al passato sulle persone mandate in carcere ingiustamente. "È la prima volta che il ministero della Giustizia predispone, in modo strutturale, un simile capillare monito sulle ingiuste detenzioni - ha spiegato il Guardasigilli - Su mio diretto impulso, nei primi mesi del 2019 è stato ampliato lo spettro degli accertamenti dell'Ispettorato Generale sulla applicazione e gestione delle misure custodiali, estendendo la verifica a tutte le ipotesi di ingiusta detenzione e non soltanto alle cosiddette scarcerazioni tardive". In passato invece si prendeva in considerazione solamente "l'indebita protrazione della custodia cautelare", cioè le scarcerazioni tardive. Gli interessati possono vedersi riconosciuto un indennizzo, in caso di sentenza di proscioglimento o assoluzione o in caso di carenza, in fase cautelare, dei "presupposti di legge". Nel 2018, questi casi sono stati in totale 509: i casi più numerosi si sono registrati a Napoli (92), Reggio Calabria (65), Roma (62) e Catanzaro (48). Ma, nonostante i numerosi errori, solamente in 16 casi si è arrivati alla richiesta di un'azione disciplinare, in 14 casi per volontà del Ministero della Giustizia e in 2 della procura generale e Corte di Cassazione.

I numeri della malagiustizia: 26mila innocenti in carcere, 740 milioni di euro in risarcimenti. Daniele Priori il 30 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Anche gli innocenti vanno in carcere». Le voci delle vittime di errori giudiziari irrompono nel dibattito sulla prescrizione con una proposta di legge che chiede l’istituzione di una Giornata nazionale da celebrarsi ogni anno il 17 giugno nell’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, assolto dopo una condanna in primo grado «che con la legge sulla prescrizione di oggi avrebbe rischiato di morire con il marchio della colpevolezza», fa notare Francesca Scopelliti, compagna storica del conduttore e presidente della Fondazione a lui dedicata. Il testo presentato alla Camera lo scorso 30 ottobre è da ieri anche al Senato, come annunciato da Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama, con l’obiettivo di vedere la legge approvata prima del prossimo giugno. A sensibilizzare e organizzare l’iniziativa in seguito alle recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è stato il Partito Radicale che nella storica sede romana ha messo a confronto i protagonisti del dibattito politico e le persone finite ingiustamente nel tritacarne giudiziario. Tra gli intervenuti i primi firmatari della proposta di legge: Maria Stella Gelmini e Enrico Costa di Forza Italia, Riccardo Molinari della Lega con l’adesione di Italia Viva arrivata in corso d’opera con la presenza di Roberto Giachetti e via sms dall’ex ministra Maria Elena Boschi. Impressionanti i numeri a corredo della proposta di legge: in media mille persone ogni anno finiscono ingiustamente in carcere, quasi tre al giorno, oltre 26mila negli ultimi 25 anni con lo Stato che ha già speso più di 740 milioni di euro in risarcimenti, mentre 150mila sono le persone che finiscono ogni anno sotto processo per essere poi assolte. Per tutte queste ragioni la battaglia sulla giustizia e in particolare sulla prescrizione è una “lotta urgente” come la definisce il segretario del Partito Radicale, Maurizio Turco. «Puntiamo a raggiungere la dichiarazione di incostituzionalità sulle nuove norme per la prescrizione», dice. E per arrivare al risultato «serve un blocco politico pronto ad affermare che in Italia la lentezza della macchina giudiziaria mette in pericolo lo Stato di diritto». Di «populismo penale utilizzato per fare propaganda che mette in discussione principi che non possono essere negoziabili» parla Maria Stella Gelmini su cui «Forza Italia e tutto il centrodestra sono uniti in quella che deve essere la battaglia di tutti i garantisti». Concorde il leghista Riccardi Molinari che definisce la legge Bonafede “un abominio” che deve portare a un «lavoro trasversale per riaffermare la cultura delle garanzie che non può essere messa in discussione». Citando Pannella, l’esponente di Italia Viva, Roberto Giachetti ha definito l’Italia «un Paese malato di giustizia». «Anche il solo pensiero comune e la speranza che un indagato riesca a dimostrare la propria innocenza crea una torsione culturale. In uno Stato di diritto si devono dimostrare le accuse non l’innocenza», ha detto il deputato renziano, tirando in ballo anche il tema dei magistrati fuori ruolo impiegati negli uffici legislativi dei ministeri. Tutto ciò – ha detto Giuseppe Rossodivita, avvocato radicale tra gli autori del testo di legge sulla Giornata dedicata alle vittime della giustizia, è legato al «ricatto dell’obbligatorietà dell’azione penale», un principio italiano che, secondo l’ex deputata radicale Rita Bernardini, «deve essere messo in discussione».

·         Ingiustizia. Il caso dei Marò spiegato bene.

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 17 agosto 2020. Avete presente Pamela Anderson in «Baywatch»? Dimenticatela. Perché la bagnina di cui vi parliamo oggi è, sì, molto bella, è, sì, molto intraprendente ma la pugliese Giulia Latorre è del tutto impermeabile ai marpioni da spiaggia per un motivo tanto semplice quanto chiaro: «Mi piacciono le donne». Ventisei anni, bruna, corpo perfetto e piuttosto popolare sui social (quasi 16 mila follower su Instagram, 31 mila su Facebook), molti la conoscono semplicemente come Giulia e forse non tutti ricollegano quel cognome ad una delle vicende più spinose della nostra storia recente: lei è figlia di Massimiliano Latorre, uno dei due marò (l'altro è Salvatore Girone) arrestati dalla polizia indiana nel 2012 al largo della costa del Kerala nel cosiddetto «caso dell'Enrica Lexie». E al lido di San Pietro in Bevagna, nel Tarantino - dove ha lavorato fino alla fine del luglio scorso -, anche in questo 2020 un po' incerto Giulia ha assistito impassibile sulla torretta al ripetersi occasionale e metodico del rituale agostano del corteggiamento della bagnina.

Come se l'è cavata?

«Ma niente, ci ho riso sopra. Spesso gli approcci sono divertenti. Quando rispondo che amo le donne qualcuno ci resta di sasso, ma pazienza».

Lei però il coming out lo aveva fatto già nel 2016, quando in una lettera aperta pubblicata sulla pagina Facebook di «OmofobiaStop» aveva scritto - difendendo le unioni civili - «Noi omosessuali abbiamo il diritto di essere felici». Ma parlando con lei e guardando le sue foto sui social, viene da pensare che prima di ogni cosa Latorre sia una creatura di mare: foto in barca, foto sulla torretta di salvataggio, foto sulla riva al tramonto, foto in divisa ma più spesso in costume. Da due anni d'estate fa la bagnina ma l'aspirazione reale è un'altra.

«Ho fatto anche la mini-naja nella Marina, mi piacerebbe molto entrarvi, anche se quando penso ai lunghi periodi lontano da terra mi viene una leggera vertigine. Però in testa ho da sempre le Forze Armate: i Carabinieri, per esempio. Faccio concorsi, mi preparo, mi alleno».

Non teme una vita complicata in divisa, dopo il coming out?

«Niente affatto, le cose oggi stanno cambiando per fortuna, c'è molta più intelligenza rispetto agli anni addietro. Quando ho fatto la mini-naja ho avuto occasione di parlare con una psicologa che mi ha messo a mio agio. Io nel mio futuro mi vedo in una famiglia, non amo la solitudine. Sono fatta per la vita militare però la mia socievolezza mi porta a stare sempre con gli altri. Vedremo».

L'istinto «da poliziotta» l'ha aiutata anche nel lavoro in spiaggia. Per dire, nel luglio scorso quando si è fatta tre chilometri a piedi per cercare un bambino di sette anni che era sfuggito al controllo degli zii.

«Quando lo abbiamo trovato, dopo ore di angoscia, mi si è aperto il cuore - racconta -. In spiaggia capita di tutto: dal turista che si cambia il costume quasi senza il telo fino all'ansia dei parenti dei bambini che si allontanano».

Latorre pratica anche paracadutismo e sub, sembra nata per cimentarsi in sport estremi. Quello più estremo di tutti lo ha evitato o almeno per adesso: «Ho anche fatto il provino per il Grande Fratello - racconta - ma alla fine non sono stata presa. A Uomini e donne rinunciai anche per entrare in Marina».

Sembra sospesa tra due destini, quello dello spettacolo e quello della divisa.

«Se mi interessa la televisione? Mi piace l'idea di lavorarci, anche se non cerco pubblicità per me stessa. Io sono una che ama fare sport, scherzare, fare battute, sono una ragazza molto estroversa. Nell'uniforme mi sento bene ma mi sento bene anche in mezzo agli altri, non è una contraddizione. Il cattivo rapporto con mio padre è purissima invenzione, ci sentiamo spesso e sia lui che mia madre hanno sempre appoggiato le mie scelte».

 E il resto di questa estate?

«Cerco lavoro e vado al mare».

Caso Marò, lo sfogo di Latorre: «Io umiliato, ancora sotto giurisdizione indiana». Meloni: «Governo chiarisca». Il fuciliere, «mi sento umiliato come uomo e come militare». La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Agosto 2020. «Mi sento ancora una volta umiliato come militare e come uomo» . Lo scrive in un post su facebook Massimiliano Latorre, il marò che con il commilitone Salvatore Girone è al centro della querelle internazionale con l’India per il caso Enrica Lexie, con l’accusa di avere ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati, al largo del Kerala, nel 2012. Latorre lamenta il fatto di essere ancora sottoposto alle prescrizioni stabilite dalla Corte suprema di Nuova Delhi, malgrado un mese fa la corte arbitrale dell’Aja abbia stabilito l'immunità funzionale dei due militari.

«Il 2 Luglio 2020 - scrive il fuciliere di Marina - la Corte Arbitrale dell’Aja si è espressa attribuendo l’immunità funzionale» ai due marò e «di fatto l’India non ha più alcuna autorità sugli stessi». «Bene - scrive Latorre - in realtà domani 5 agosto dovrò nuovamente recarmi presso i Carabinieri per apporre la firma sul registro e lo stesso sarà inviato alle autorità indiane, attestando di fatto di essere ancora sotto la loro giurisdizione e nonostante da oltre un mese la corte ha sancito l’illegittimità delle pretese dell’India e delle misure da essa adottate ordinandone decadenza immediata , di fatto restano in vigore questa e tutte le altre restrizioni». Latorre aggiunge di essersi rivolto «alla parte politica per chiedere indicazioni sulla linea da tenere e stanco del silenzio e delle assenze, da parte di chi ha divulgato questa sentenza come una vittoria assoluta». «Quindi, domani, - conclude Latorre - essendo un militare ed avendo dato la mia parola, nuovamente eseguirò gli ordini, ma mi chiedo, per quanto altro tempo bisognerà sopportare queste gratuite ingiustizie?».

IL COMMENTO DI GIORGIA MELONI - «Dopo anni di ingiustizie, i nostri Marò ancora costretti a subire umiliazioni da parte dell’India. Condividendo le parole di Massimiliano Latorre, chiedo ufficialmente spiegazioni al governo italiano su quella che sarebbe una vergognosa e inaccettabile sottomissione alle autorità indiane». Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.

"Il governo umilia i nostri marò", e la Meloni ora inchioda Conte. Dopo lo sfogo di Latorre, che spiega come le autorità indiane stiano continuando ad esercitare la propria autorità malgrado la sentenza della Corte permanente di arbitrato, Giorgia Meloni attacca il governo: "Marò ancora costretti a subire umiliazioni". Federico Garau, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Deciso intervento di Giorgia Meloni, che bacchetta duramente il governo prendendo le parti del marò Massimiliano Latorre, finito insieme al commilitone Salvatore Girone al centro del tanto discusso caso dell'Enrica Lexie. Accusati di aver ucciso al largo della costa del Kerala due uomini a bordo di un peschereccio indiano (era il 15 febbraio 2012), i due militari stanno da tempo combattendo una vera e propria battaglia legale che non accenna a concludersi. Lo scorso 2 luglio i giudici della Corte permanente di arbitrato hanno concesso ai militari l'immunità funzionale, in quanto i due soldati, al momento della tragedia, si trovavano impegnati in una missione per conto dello Stato italiano. A quanto pare, tuttavia, i giudici indiani starebbero ancora sottoponendo i marò alle proprie prescrizioni, pur non avendone più l'autorità. A raccontare i fatti, in uno sfogo su Facebook, è proprio Massimiliano Latorre.

Rivincita dei nostri marò: saranno processati in Italia. "Il 2 luglio 2020, la Corte Arbitrale dell'Aja, si è espressa attribuendo l'Immunità funzionale ai 2 #Fucilieri di Marina sul caso #Enrica Lexie, di fatto l'India non ha più alcuna autorità sugli stessi", spiega il marò. "Bene, in realtà domani 5 agosto 2020, dovrò nuovamente recarmi presso i carabinieri per apporre la firma sul registro e lo stesso sarà inviato alle autorità indiane, attestando di fatto di essere ancora sotto la loro giurisdizione e nonostante da oltre un mese la corte ha sancito l'illegittimità delle pretese dell'India e delle misure da essa adottate ordinandone decadenza immediata restano, di fatto, in vigore questa e tutte le altre restrizioni". L'amarezza di Latorre è tanta, ed in preda allo sconforto l'uomo si rivolge direttamente allo Stato italiano. "Mi sento ancora una volta umiliato come militare e come uomo, nonostante mi sia rivolto alla parte politica per chiedere indicazioni sulla linea da tenere, e stanco del silenzio e delle assenze da parte di chi ha divulgato questa sentenza come una vittoria assoluta", continua, "Quindi, domani , essendo un Militare ed avendo dato la mia parola, nuovamente eseguirò gli ordini, ma mi chiedo, per quanto altro tempo bisognerà sopportare queste gratuite ingiustizie?".

Da Bonino a Mogherini: i traditori dei marò ora salgono sul carro. Dopo la sentenza della Corte Arbitrale dell'Aja l'India non ha più autorità sui due soldati, come spiega anche il professore emerito di diritto internazionale all'università Luiss Natalino Ronzitti. "Sarebbe verosimilmente necessario un atto del Governo italiano che ponga fine alle restrizioni", dichiara il dottor Ronzitti, come riportato da "AdnKronos". "La sentenza dell'Aja è immediatamente esecutiva, fa dunque fede e ha valore nell'ordinamento italiano. Credo che sia dunque un problema italiano. Se Latorre continua a firmare cosa stiamo facendo? Non diamo attuazione a questa sentenza? Basterebbe un atto amministrativo per togliere questa incombenza". A schierarsi dalla parte dei due marò la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni: "Dopo anni di ingiustizie, i nostri Marò ancora costretti a subire umiliazioni da parte dell'India. Condividendo le parole di Massimiliano Latorre, chiedo ufficialmente spiegazioni al governo italiano su quella che sarebbe una vergognosa e inaccettabile sottomissione alle autorità indiane", ha scritto infatti la Meloni sulle pagine del proprio profilo Facebook.

Marò Latorre e Girone, il Tribunale dell'Aja: "Giurisdizione del caso all'Italia, ricompensa all'India per i pescatori morti". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Sui marò Salvatore Girone e Nicola Latorre dovrà decidere l'Italia. Il Tribunale arbitrale dell'Aja ha trovato una mediazione tra il nostro Paese e l'India sul caso de due fucilieri di marina in servizio sulla petroliera Enrica Lexie accusati di aver ucciso il 15 febbraio 2012 due pescatori indiani nello Stato del Kerala e detenuti per anni nelle prigioni indiane. La giurisdizione del caso sarà dell'Italia, come chiesto per anni dai nostri governi, perché i due marò avevano l'immunità. ma il Tribunale ha decretato come l'Italia abbia "violato la libertà di navigazione e dovrà pertanto compensare l'India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all'imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell'equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony". "Al riguardo, il Tribunale ha invitato le due Parti a raggiungere un accordo attraverso contatti diretti", rende noto la Farnesina.

Danilo Taino per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2020. Il processo a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i marò accusati di avere ucciso due pescatori indiani nel 2012 durante una missione antipirateria, si terrà, se ci si arriverà, in Italia. Ieri, la Corte Permanente di Arbitrato dell'Aia, alla quale Roma e Delhi erano ricorse, ha affermato che la giurisdizione del caso è italiana. La procura romana ora dovrà condurre le indagini sull'incidente, chiedere il materiale raccolto negli anni dai magistrati indiani, sentire testimoni e decidere se i due militari italiani vanno rinviati a giudizio. La sentenza di ieri accoglie pienamente le posizioni italiane - cioè che Latorre e Girone nel momento dell'incidente erano funzionari dello Stato in missione, godevano dell'immunità funzionale e quindi sono da giudicare in Italia. Con però una piccola ombra che solleva perplessità ma può essere spiegata. Il caso nasce il 15 febbraio 2012, quando due pescatori indiani - Aieesh Pink, 25 anni, e Valentine Jalastine, 45 - furono uccisi nelle acque indiane al largo dello Stato del Kerala. La polizia locale accusò i fucilieri di marina che erano in missione antipirateria sulla nave Enrica Lexie di avere sparato i colpi mortali e arrestarono Latorre e Girone. Da allora si è aperto un contenzioso tra Roma e Delhi che inizialmente ha visto montare lo scontro tra i due governi, con accuse reciproche. Solo quando la Farnesina - ministre prima Emma Bonino poi Federica Mogherini - decise di ricorrere al Diritto internazionale, in particolare al Tribunale del Mare, la disputa politica - che per anni ha rallentato i rapporti diplomatici ed economici tra Italia e India - è andata via via scemando. Ieri, la sentenza dell'Aja ha mostrato che era la strada giusta da percorrere: un caso di scuola di come le differenze politiche possono essere placate dal diritto. Gli arbitri hanno deciso che la giurisdizione spetta all'Italia con una maggioranza ristretta, tre a due. A sostegno delle posizioni di Roma hanno votato i giudici italiano (di parte), russo e sudcoreano, questi ultimi due rispettivamente ex presidente e presidente in carica del Tribunale Internazionale del Mare. Contro hanno votato il giudice indiano (di parte) e quello giamaicano. Curiosamente, però, il collegio arbitrale non si è limitato esprimere un giudizio su ciò per il quale era stato costituito, cioè immunità dei marò e giurisdizione. Si è spinto oltre e ha unanimemente stabilito che Roma deve compensare i danni morali e materiali legati all'episodio del 2012 e la perdita di vite umane in quanto nella circostanza l'Italia ha violato la libertà di navigazione garantita dalla Convenzione Onu sul Diritto del Mare (la Farnesina ha dichiarato che l'Italia è pronta ad adempiere). Come se gli arbitri sapessero cosa successe quel giorno del 2012 prima che un processo sia svolto. Si può immaginare che i giudici abbiano voluto ragionare sullo scenario peggiore che potrebbe risultare dal processo ai due marò, che cioè essi siano colpevoli. E, su questa base, abbiano deciso di fornire garanzie all'India. La cosa certa è che gli arbitri dell'Aja non hanno condotto in proprio alcuna investigazione sul caso: non erano competenti a esprimere un giudizio di merito sui fatti del 2012. Giudizio che in effetti non hanno emesso. Dal punto di vista giuridico, dunque, questa parte della sentenza non avrà conseguenze. Su quello politico non è detto. Ora, l'India deve cessare ogni procedimento contro Latorre e Girone. La Procura di Roma dovrà invece istruire il caso. È un nuovo capitolo che si apre ma di certo non la conclusione della vicenda. Se si dovesse arrivare, come è possibile, al processo, è probabile che si aprirebbe la polemica politica tra chi difende a priori i due marò e chi li condanna con lo stesso metro. Vedremo se anche ricorrere al diritto italiano servirà placare gli animi, come è successo con il diritto internazionale.

Marò, il Tribunale internazionale assegna il processo all'Italia: "Ma Roma dovrà pagare per i pescatori uccisi". Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da Vincenzo Nigro su La Repubblica.it. Il Tribunale internazionale dell'Aja ha preso la sua decisione sul caso dei 2 marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone: il processo viene assegnato all'Italia. Ma Roma dovrà pagare i danni alle famiglie dei 2 marinai uccisi e al capitano del peschereccio bersagliato al largo del Kerala il 15 febbraio del 2012. I giudici internazionali riconoscono “l'immunità funzionale” dei fucilieri di Marina per l'incidente: all'India viene quindi precluso l'esercizio della propria giurisdizione, certificando che i due militari erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nell'esercizio delle loro funzioni. Ma sempre secondo il Tribunale arbitrale, “l'Italia ha violato la libertà di navigazione e dovrà pertanto compensare l'India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all'imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell'equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony”, a bordo del quale morirono i due pescatori. Un comunicato della Farnesina aggiunge che “al riguardo, il Tribunale ha invitato le due Parti a raggiungere un accordo attraverso contatti diretti”, e la Farnesina precisa “l’Italia è pronta ad adempiere a quanto stabilito dal Tribunale arbitrale, con spirito di collaborazione”. Di fatto ammettendo la colpa dell'incidente e preparandosi a versare i risarcimenti. Il Tribunale internazionale era stato costituito all’Aja il 6 novembre 2015, presso la Corte Permanente di Arbitrato, per decidere sulla controversia tra Italia e India sull’incidente in cui i due fucilieri avevano sparato dalla nave “Enrica Lexie” contro il peschereccio "St Anthony". Latorre e Girone erano stati arrestati quando la nave Lexie era stata fatta entrare in porto in India. E avevano poi trascorso molti mesi in detenzione in India, di fatto agli arresti domiciliari. I due sottufficiali di Marina erano poi rientrati in Italia rispettivamente il 13 settembre 2014 e il 28 maggio 2016. Italia e India, dopo una lunga fase di scontro politico e giudiziario, avevano deciso di comune accordo di ricorrere al Tribunale dell'Aja perchè decidesse innanzitutto a chi spettava la giurisdizione. I due paesi si erano di conseguenza impegnati a svolgere il processo una volta attribuito a una delle due Parti. A questo punto quindi secondo l'Aja l’Italia dovrà far ripartire il procedimento penale aperto a suo tempo dalla Procura della Repubblica di Roma. Il Tribunale però ha rilevato anche che "l’Italia ha violato la libertà di navigazione sancita dagli articoli 87 e 90 della Convenzione delle Onu sul Diritto del Mare, e dovrà compensare l’India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano “Saint Anthony”. Il che di fatto riconosce all'Italia la responsabilità dell'incidente.  

Caso Marò, Corte arbitrale: «Il processo spetta all’Italia». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 2 luglio 2020. Ma l’Italia «ha violato la libertà di navigazione» e dovrà pertanto compensare l’India per la perdita di vite umane e i danni fisici, materiali e umani. Era il 15 febbraio 2012 quando i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone furono coinvolti in un incidente al largo delle coste del Kerala in cui persero la vita due pescatori indiani. A distanza di otto anni il tribunale costituito presso la Corte permanente di arbitrato de L’Aja ha stabilito che i due fucilieri della Marina godono di immunità e dunque l’India non può applicare su di loro la propria giurisdizione. Il tribunale ha stabilito inoltre che l’Italia «ha violato la libertà di navigazione sancita dagli articoli 87 e 90 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 10 dicembre 1982» e pertanto dovrà risarcire l’India «per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio». Pur invitando i due Stati a raggiungere un accordo tramite contatti diretti, L’Aja ha dunque accolto la tesi, sempre sostenuta dall’Italia, che i due militari erano impegnati nell’esercizio delle loro funzioni e quindi immuni dalla giurisdizione straniera. L’apice della crisi diplomatica tra Italia e India arrivò nel 2013 quando i due marò, ai quali era stato concesso un permesso di un mese per votare in patria, non fecero ritorno in India. All’ambasciatore italiano a New Delhi fu proibito di uscire dal Paese e in seguito a forti pressioni internazionali Roma decise di far tornare i militari in India. La decisione provocò le dimissioni dell’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, che le annunciò in diretta televisiva «a salvaguardia dell’ onorabilità del nostro Paese, delle forze armate e della diplomazia italiana». Dopo anni di controversie sulla titolarità della giurisdizione arriva ora la decisione de L’Aja, che dà ragione al nostro Paese e per la quale il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, esprime «soddisfazione», ringraziando la Farnesina per l’impegno profuso nella gestione della vicenda. Se il presidente del Consiglio Conte commenta la sentenza come «una buona notizia», il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, parla di «un punto definitivo a una lunga agonia». Sulla stessa linea il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, per il quale si tratta di «un risultato che mette fine a una vicenda particolarmente gravosa per i suoi aspetti umani». Ma la destra è polemica, e per bocca di Ignazio La Russa, senatore di Fratelli d’Italia, attacca: «Oggi sono in tanti a salire sul carro del vincitore: noi abbiamo sempre saputo da quale parte stare». Ora l’Italia dovrà esercitare la propria giurisdizione e riavviare il procedimento penale aperto dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Roma.

Giulio Terzi: “Sui marò una decisione di buonsenso”. Gennaro Grimolizzi il 6 Luglio 2020 su Cultura ed Identità. “La decisione della Corte permanente di arbitrato di devolvere la giurisdizione all’Italia per giudicare i marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre è una vittoria per il nostro Paese su un tema vitale”. Con queste parole pronunciate con equilibrio e cognizione di causa l’Ambasciatore Giulio Terzi, ministro degli Esteri nel 2012, quando accaddero i fatti della Enrica Lexie, commenta il verdetto dei cinque arbitri dell’Aia. A distanza di otto anni iniziano a mettersi dei punti fermi su una vicenda in cui spesso il nostro Paese non ha sempre dimostrato fermezza ad autorevolezza. Terzi, cosa rara in Italia, si dimise in dissenso con il governo Monti nel marzo del 2013, allorquando, dopo il ritorno in Italia, i marò vennero riaccompagnati in India perché accusati lì dell’uccisione di due pescatori indiani a difesa della petroliera Lexie.

Ambasciatore Terzi, l’Italia ha conseguito una vittoria?

«L’Arbitrato obbligatorio, attivato negli scorsi anni, si è pronunciato sulla questione principale, risolvendo il problema della giurisdizione. Sin dal primo momento, quando ero ministro degli Esteri, ho invocato questo strumento giuridico per dirimere il contenzioso tra Italia ed India. A distanza di tempo possiamo dirci soddisfatti sulla definizione della giurisdizione. È stata una vittoria non per me, ma per tutto il gruppo di sostegno per i due marò sorto all’indomani dei fatti accaduti nelle acque internazionali, al largo del Kerala. Un vero e proprio movimento di opinione che ad oltranza ha sostenuto le ragioni di Girone e Latorre, troppo spesso definiti con parole abominevoli».

L’Arbitrato internazionale ha attivato un meccanismo importante non solo da un punto di vista giuridico? Eppure qualcuno non è stato così lineare e coerente come adesso vuole apparire…

«Dopo di me, alla Farnesina, qualcuno ha auspicato una soluzione diversa. Emma Bonino (ministro degli Esteri del Governo Letta per neppure un anno, dall’aprile 2013 al febbraio 2014, ndr) non ha voluto mai sentir parlare di arbitrato. Idea demenziale, a mio avviso. Anzi, il suo vice, Lapo Pistelli, parlava dell’opportunità di una corte speciale in India. Lo dimostrano anche alcuni articoli di stampa dell’epoca. Si volevano giudicare in India i nostri marò in un Paese che voleva la loro testa. A furor di popolo, però, nell’agosto del 2015 con Paolo Gentiloni ministro degli Esteri si decise di avviare la procedura arbitrale anche se lo stesso Gentiloni non era tanto convinto di tale scelta».

La Corte dell’Aia è sempre stata definita da lei, ma anche dai migliori giuristi ed internazionalisti italiani, come la via maestra…

«L’Italia vanta una scuola di diritto internazionale la cui autorevolezza è riconosciuta in tutto il mondo. Penso a Tullio Treves, ad Angela Del Vecchio, a Mauro Politi e a Natalino Ronzitti. Sin dal primo momento si sono pronunciati a favore dell’arbitrato internazionale, motivando con chiarezza questo orientamento. I fatti accaduti in acque internazionali non potevano essere oggetto di giudizio innanzi ad un tribunale indiano. All’Aia sono stati equilibrati nell’indicare la giurisdizione. I marò erano impegnati in una missione internazionale a protezione di una nave italiana».

Gli arbitri però hanno deciso sulla compensazione da parte dell’Italia dei danni morali e materiali arrecati con la morte dei due pescatori indiani. Cosa ne pensa?

«Questa sembra tanto la coda politica della vicenda. Un tema che non c’entra niente. Gli arbitri non dovevano individuare il petitum. Su questo punto si è trovata una via d’uscita per l’Italia e l’India. Vale la pena evidenziare che la decisione della Corte permanente di arbitrato ha fatto emergere un momento molto importante da valorizzare, che deve andare oltre il cosiddetto victory lap. L’Italia e l’India devono dimostrare di essere due Paesi responsabili per dare impulso verso gli arbitrati internazionali anche in materia di diritto del mare. Uno strumento utile in altri casi. Penso alle grandi tensioni tra Cina e Filippine. Da un punto di vista geopolitico l’arbitrato sui marò ha consolidato prassi virtuose nel diritto del mare. Un elemento che purtroppo manca nella narrativa del governo italiano».

Marò, l'ex ministro Terzi: "Letta, Bonino e gli 007". Cosa c'è davvero dietro lo scandalo di Latorre e Girone. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 03 luglio 2020. «Subentrato il governo Letta, con Emma Bonino ministro degli Esteri, la procedura d'arbitrato è finita in un limbo, e ci è rimasta per mesi anche con Renzi. Improvvisamente è nata una grande sfiducia nel ricorso al tribunale dell'Aja, nonostante eminenti internazionalisti come la professoressa Angela Del Vecchio - consulente della Farnesina - l'avessero indicato subito come il percorso vincente. Pare che qualcuno, nell'esecutivo, invece abbia pensato a scorciatoie attraverso i servizi segreti. Si è perso tempo. Si parlava di do ut des».

Giulio Terzi di Sant' Agata è stato ministro degli Esteri da novembre 2011 a marzo 2013. Si è dimesso dopo la decisione del premier Monti di rimandare in India i due marò per la seconda volta. Cosa intende per do ut des?

«Si vociferava di punti d'incontro non dichiarati che consentissero di chiudere la controversia».

Intende che l'Italia era disposta a pagare?

«Non necessariamente. A volte si arriva alla liberazione di prigionieri. Altri Paesi, penso a quelli mediorientali, stringono accordi con organizzazioni criminali per ottenere la restituzione dei corpi».

Il processo a carico di Girone e La Torre è stato assegnato all'Italia dopo più di 8 anni.

«Finalmente è stata affermata la sovranità italiana ai sensi della convenzione internazionale del diritto del mare. È la linea che avevo indicato nel 2012. Poi è stata messa nel sottoscala».

Monti, allora, aveva dichiarato che la decisione di riportare i marò in India era stata collegiale...

«La verità, ed è testimoniata anche dalla lettera che avevo scritto, è che mi sono trovato di fronte al fatto compiuto. Non ho potuto accettarlo. Per me le forze armate devono essere sempre tutelate e rispondere di eventuali reati allo Stato d'appartenenza o a un'istanza internazionale, come in questo caso. Peraltro la scelta di rimandarli in India metteva a rischio, anche sul piano legale, la sicurezza di molti uomini impiegati in operazioni di pace all'estero. In certi casi non si può derogare».

Monti sosteneva che alla base della sua intransigenza ci fosse la volontà di conseguire «altri risultati che magari nei prossimi tempi diventeranno più evidenti». 

«Un'insinuazione immotivata, mi spiace, perché è una persona che rispetto. Chi mi era vicino sapeva che non mi sarei mai candidato neppure ad amministratore di condominio».

Lei è stato ambasciatore in Israele e negli Stati Uniti, due nazioni a dir poco decisioniste...

«Nemmeno lontanamente paragonabili all'Italia: parliamo di galassie diverse. Il rifiuto dell'America di far parte della Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità deriva in larga parte dalla preoccupazione che i loro militari possano essere giudicati da magistrati stranieri. Israele ha una consapevolezza straordinaria della funzione dei propri soldati: la sovranità nazionale, su questi temi, è assoluta».

Oggi Conte e Di Maio rivendicano il successo.

«È come dire che un baobab è diventato tale per merito esclusivo di chi l'ha coltivato negli ultimi anni. Il merito è anche di chi l'ha piantato e curato. Noi ci avevamo visto giusto già nel 2012: le carte ci davano ragione. Era tutto piuttosto evidente. Poi qualcun altro ha deciso di procedere in modo diverso».

Caso Marò, l'arbitrato internazionale: i due fucilieri saranno giudicati in Italia. Girone: «Ora riotteniamo la libertà». Massimiliano Latorre e Salvatore Girone dovranno essere processati in Italia. Riconosciuta immunità. Italia dovrà risarcire l’India. La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Luglio 2020. Il Tribunale arbitrale internazionale sul caso dei marò ha dato ragione all’Italia. I giudici hanno riconosciuto «l'immunità» dei Fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in relazione ai fatti accaduti il 15 febbraio 2012 e all’India viene pertanto precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei loro confronti. Il Tribunale ha riconosciuto che i militari erano funzionari dello Stato italiano, impegnati nell’esercizio delle loro funzioni. Lo rende noto la Farnesina. La giurisdizione del caso Lexie è dunque dell’Italia. Inoltre, secondo il Tribunale «l'Italia ha violato la libertà di navigazione e dovrà pertanto compensare l’India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e altri membri dell’equipaggio del peschereccio indiano Saint Anthony», a bordo del quale morirono i due pescatori del Kerala. "Al riguardo, il Tribunale ha invitato le due Parti a raggiungere un accordo attraverso contatti diretti». «Mi sembra una buona notizia», ha commentato il premier Giuseppe Conte interpellato dai cronisti.

L'ITALIA RIPRENDERA' PROCEDIMENTO SUL CASO -  Sul caso dei due marò, «l'Italia dovrà esercitare la propria giurisdizione e riavviare il procedimento penale sui fatti occorsi il 15 febbraio 2012, a suo tempo aperto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma». Lo riferisce la Farnesina rendendo note le disposizioni del Tribunale arbitrale internazionale sul caso dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, coinvolti nell’incidente in cui morirono due pescatori indiani, scambiati per pirati, mentre si trovavanoa bordo della Enrica Lexie al largo del Kerala. Un eventuale processo ai dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone si svolgerà davanti al Tribunale di Roma. La Procura ha infatti avviato una indagine nel 2012 e, in particolare, il 24 febbraio di otto anni fa, dopo un’informativa inviata dalla Farnesina a piazzale Clodio, rubricò il procedimento come omicidio volontario iscrivendo, come atto dovuto, i due militari. L’incartamento è attualmente affidato al sostituto procuratore Erminio Amelio. In una primissima fase i magistrati romani avevano avviato un fascicolo ipotizzando il reato di tentativo di abbordaggio (pirateria navale) per poi modificare il profilo penale.

LE PAROLE DI SOLLIEVO DI GIRONE - «Sono stato quasi incredulo. Aspettavamo da tempo il verdetto. Il primo pensiero è stato di esclamare un finalmente liberatorio, ma poi volevo conoscere il verdetto nel merito": così il fuciliere di Marina Salvatore Girone dopo il verdetto del Tribunale arbitrale internazionale. «Posso adesso riottenere la mia libertà personale - aggiunge -, purtroppo fino ad oggi vincolata dalle procedure lunghissime determinate dalla giurisdizione indiana». «Siamo felici che ci sia stata riconosciuta l’immunità funzionale e la giurisdizione italiana sul caso. Eravamo da otto anni e mezzo sempre nel limbo di questa vicenda». «Eravamo in Italia da quattro anni - spiega Salvatore Girone -, ma obbligati a rispettare le condizioni dettate dalla Corte suprema indiana». «L'immunità riconosciuta mostra che avevamo dunque l’immunità funzionale dal primo giorno di questa querelle. L’India ha fatto quello che non doveva fare, limitando le nostre libertà e tenendoci anche in prigione. Ho subito una grande ingiustizia da parte degli indiani": questa la considerazione del fuciliere di Marina Salvatore Girone dopo il verdetto del Tribunale arbitrale internazionale. «Adesso so di essere un uomo libero. Mia figlia mi chiedeva sempre di andare a Disneyland, e non potevo mai accontentarla. Adesso potrò farlo»: il fuciliere di Marina Salvatore Girone, barese, commenta così la possibilità di tornare a godere della piena libertà, e il primo pensiero va alla possibilità di esaudire il desidero della figlia di andare nel parco giochi parigino. «A Max faccio tantissimi auguri: mi commuove pensare a lui e a cosa abbiamo vissuto insieme. Dopo la disavventura dell’ictus avuto in India, adesso potrà ritrovare il piacere della vita senza il peso di questa vicenda": il pensiero di Salvatore Girone va anche al commilitone tarantino Massimiliano Latorre, con il quale dal 2012 ha condiviso la sofferenza per le restrizioni della libertà connesse al caso Lexie. 

LA SODDISFAZIONE DI MATTARELLA -  Il Presidente dalla Repubblica - a quanto si apprende - ha espresso «soddisfazione» per la conclusione la decisione del tribunale arbitrale internazionale sul caso dei Marò italiani e ha espresso il «ringraziamento" alla Farnesina per l’impegno profuso nella gestione della complessa vicenda. 

DI MAIO: «UNA NOTIZIA POSITIVA» - «Il Tribunale arbitrale dell’Aja ha stabilito oggi che i due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, dovranno essere processati in Italia. La tesi dell’Italia, dopo anni di lunghe battaglie, ha dunque prevalso. I nostri due militari, funzionari dello Stato italiano, impegnati nell’esercizio delle loro funzioni sono immuni dalla giustizia straniera». Lo scrive il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, su Facbook dopo la decisione del Tribunale sul caso marò. «È una notizia molto positiva, che premia il grande lavoro svolto in questi anni dal team legale a tutela dell’Italia nelle sedi giudiziarie indiane e internazionali, nonché l’impegno diplomatico che il nostro Paese non ha mai fatto mancare alla causa dei due fucilieri di Marina», aggiunge. 

GUERINI: «FINE DI UNA VICENDA GRAVOSA» - Un risultato che accogliamo con soddisfazione, che mette fine a una vicenda che andava avanti da anni, particolarmente gravosa anche per i suoi aspetti umani. Per questo rivolgo un affettuoso pensiero ai nostri due marò e alle loro famiglie per i difficili momenti che hanno vissuto». Questo il commento del ministro della Difesa Lorenzo Guerini sul verdetto del Tribunale dell’Aja che ha accolto la tesi che Girone e Latorre fossero funzionari dello Stato italiano, impegnati nell’esercizio delle loro funzioni e pertanto soggetti

alla legge «di bandiera».

 STATO MAGGIORE CONVOCA MARO' - Lo Stato Maggiore della Difesa ha convocato «immediatamente» i 2 fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone per comunicare loro l’esito del procedimento arbitrale del Tribunale dell’Aja.

Il Tribunale, sottolinea lo Stato Maggiore, «era chiamato a pronunciarsi sulla attribuzione della giurisdizione, e non sul merito dei fatti occorsi il 15 febbraio 2012».

MEDIA INDIANI: «HA VINTO DELHI» -  «L'India ha vinto il caso contro i due marò italiani accusati di aver ucciso due pescatori indiani in Kerala nel 2012 davanti al tribunale internazionale: ha il diritto a risarcimento ma non può processarli». E’ quanto scrive il sito di India today, citando un comunicato del ministero degli Esteri indiano sulla decisione del Tribunale arbitrale. «In base alla sentenza del Tribunale, i due marò hanno violato il diritto internazionale e di conseguenza l’Italia ha violato la libertà di navigazione dell’India», per cui «l'India ha il diritto di ricevere un risarcimento dall’Italia per la perdita di vite subita», prosegue il sito indiano. 

Marò, la soddisfazione di Giorgia Meloni: "Fratelli d'Italia, i primi a battersi per la giurisdizione italiana".

Libero Quotidiano il 2 luglio 2020. Il Tribunale arbitrale internazionale aiuta i Marò e dà ragione all'Italia: "Avevano l'immunità" in India. Una svolta importante sulla giurisdizione dei due fucilieri della Marina, una vittoria importante per il nostro Paese che da anni si batte per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, per poterli affidare ai tribunali italiani. E la decisione viene commentata con enorme soddisfazione da Giorgia Meloni, su Twitter, dove cinguetta: "Il Tribunale arbitrale internazionale ha deciso che la giurisdizione sul caso dei nostri Marò Latorre e Girone spetterà alla nostra Nazione", premette. Dunque, la Meloni sottolinea che "Fratelli d'Italia è stato il primo partito a chiedere venisse riconosciuta la giurisdizione italiana. Oggi come ieri siamo al loro fianco", conclude la Meloni.

Maria Giovanna Maglie sui Marò: "Otto anni di infamia targata Monti. E la sinistra li bollò come assassini". Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. “Otto anni di infamia targata governo Monti, tolto il ministro degli Esteri che si dimise per protesta”. Maria Giovanna Maglie esulta per l’esito dell’arbitrato internazionale sul caso dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Accolta la tesi dell’Italia nella controversia con l’India: è stato stabilito che i due fucilieri di marina godono dell’immunità in relazione all’incidente del 15 febbraio 2012 e quindi all’India viene precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei loro confronti. “La sinistra li bollò come assassini - sottolinea la Maglie - ma l’arbitro dà ragione all’Italia, i marò erano nell’esercizio delle loro funzioni”. La sentenza ripaga anche il gesto nobile di Giulio Terzi di Sant’Agata, che si dimise dal ministro in aperta polemica con il governo presieduto da Mario Monti. 

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

Italiani, popolo di maleducati: non lasciamo passare i pedoni

Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. I conducenti più corretti sono i lombardi. I colleghi romani sono i più indisciplinati, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. È la drammatica media calcolata dall'Associazione sostenitori amici della polizia stradale (Asaps) monitorando 2mila "tentativi di attraversamento" in cinque delle più importanti città italiane. I conducenti più corretti (o meno scorretti, a seconda dei punti di vista) sono quelli lombardi, il 47% dei quali rispetta il diritto di precedenza del pedone, mentre i colleghi romani sono i più indisciplinati: il 45% rispetta i semafori ma solo il 15% le strisce. Per ogni città presa in analisi (Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) l’Asaps ha testato 200 tentativi di attraversamento sulle strisce e 200 in presenza di semaforo. Nel complesso, a Firenze dà la precedenza ai pedoni il 43% degli automobilisti, a Palermo il 39%, a Napoli il 38%, nella Capitale il 30%. Percentuali basse, che calano ulteriormente se si prendono i considerazione i soli passaggi "zebrati": a fermarsi, in questo caso, è appena il 22% dei conducenti milanesi, il 18% dei fiorentini e dei napoletani, il 12% dei palermitani. "Nei momenti del rilevamento - premette Giordano Biserni, presidente dell’Associazione - non erano presenti nelle vicinanze agenti della polizia locale, questo per certificare la spontaneità del gesto". Sarebbe interessante, tuttavia, poter analizzare quante multe vengono elevate a carico di automobilisti che non rispettano la precedenza del pedone. "Secondo l’articolo 191 del Codice della strada - continua Biserni - il conducente di un veicolo che non dà la precedenza ad un pedone che attraversa (o è nell’imminenza di farlo) sulle strisce è passibile di una contravvenzione da 162 a 646 euro e della decurtazione di 8 punti dalla patente". Una sanzione che potrebbe avere un’indubbia efficacia se fosse attuata costantemente. I frequenti investimenti di pedone hanno quasi sempre conseguenze tragiche. Come ricorda l’Asaps, sono 549 i morti e 21.234 i feriti complessivi nel 2013 e quasi il 30% travolti proprio sugli attraversamenti protetti. Mentre nei primi undici mesi del 2014 sono già 43 i morti e 363 i feriti (solo fra i pedoni) causati da pirati della strada.

Se fosse solo quello.

Quei nostri marò, ostaggi degli indiani ma anche di una verità indesiderata. Il caso dei due fucilieri di Marina, "trattenuti" in India, in qualità più di ostaggi che di imputati, si rivela oramai ogni giorno come una miniera di "anomalie", cioè; per parlar chiaro, di porcate. Ed ogni giorno di più il "grido di dolore" per la loro sorte, la parola d'ordine "riportiamoci a casa i nostri marò" si rivelano un espediente ambiguo e truffaldino per coprire situazioni e persone che con tali mezzi sono finora riusciti a tenersi fuori anche dai più naturali interrogativi che il caso prepotentemente propone siano loro rivolti, scrive Mauro Mellini su “Brindisi Report”. La giustizia indiana, lo abbiamo detto, scritto e ripetuto, non sta facendo una gran bella figura in tutta questa vicenda. Anzi, bisogna constatarlo senza che se ne possa trarre, oltre che un auspicio poco confortevole per la sorte di quei due nostri connazionali, e neanche un po’ di sollievo per i paragoni con le cose e lo stato della giustizia nostrana, si sta dimostrando ancora peggiore di quest’ultima. Il che non ha bisogno di commenti. Gli Indiani non sembra che abbiano alcuna fretta ed alcuna voglia di giudicare i due fucilieri di Marina italiani. Sarà magari per le stratosferiche somme incassate per risarcimenti e cauzioni, sarà perché temono di vedersi “sgonfiare” tra le mani un caso che essi hanno sbandierato come un’aggressione alla loro Nazione, un gesto razzista di sopraffazione, certo è che stanno facendo abbastanza per dare l’impressione che, tutto sommato, avrebbero preferito che i due non tornassero in India. E non sembrano troppo preoccupati di lasciar intendere che si tratta proprio di ostaggi e non di imputati in custodia cautelare. Da parte italiana le “anomalie” e le ambiguità sono assai maggiori. Se è vero che il tempo trascorso dal fatto ed il perdurare di quello strano stato di sequestro di persone è scandaloso anche per chi è abituato alle cose italiane, è certo però che, intanto, malgrado il clamore che di tanto in tanto si riaccende sulla vicenda, l’informazione in Italia sulle modalità del malaugurato incidente, sulle questioni e le responsabilità che esso implica, in ordine agli avvenimenti anche successivi alla sparatoria (rientro della nave in acque territoriali indiane, ad esempio, tempestività della notizia dell’accaduto alle diverse Autorità italiane etc.) è assai limitata ed evanescente. Gridare “ridateci i marò”, evitando però di mettere in chiaro di fronte al mondo e di fronte all’ONU, ai nostri alleati ed ai cointeressati alla lotta alla pirateria circostanze essenziali del fatto addebitato ai due militari è cosa a dir poco strana. E stranissima in un Paese come l’Italia in cui la cronaca nera si pasce abitualmente di tutto il materiale probatorio dei processi e formula giudizi e sentenze in fatto ed in diritto fin dalle prime battute delle vicende, che poco o nulla si sappia dei particolari del luttuoso incidente, del comportamento addebitato ai due militari (se vi è un addebito vero e proprio) di quello del capitano della nave e degli altri ufficiali di essa, delle comunicazioni con le Autorità italiane. Per non parlare, poi dei comportamenti successivi. Un’altra considerazione. Una parte notevole delle circostanze, specie successive all’incidente, sono pervenute alla stampa solo perché sottolineate dal Ministro degli Esteri, Ambasciatore Terzi di Sant’Agata, le cui dimissioni, per il “siluramento” della sua iniziativa (l’unica certa e, a quel che ci consta, seria) per “riportare a casa” i due militari sono state scioccamente ed arrogantemente liquidate definendole “irrituali”. Terzi è “rimasto sulla breccia” della polemica che altri sembrava voler eludere a tutti i costi, con il silenzio, le ambiguità e le “coperture” di una retorica rancida. Questo significa che si stanno delineando, oramai, due posizioni: quella che cerca di “tacitare” le vittime, stampa, cittadini che vogliono verità e quella, ancora esigua e che si cerca di far passare per una “impuntatura” di un ministro non confermato nella sua carica, di chi vorrebbe giuocare a carte scoperte. La nostra tesi che molti, specie al Ministero della Difesa, temono più la presenza ed il processo in Italia dei due marò che una conclusione ingiusta e precostituita di un loro processo in India, trova ogni giorno conferma ed indizi. Anzitutto quello del silenzio sulle prescrizioni impartite ai militari. Vorremmo sbagliarci, ma non è facile che ciò possa avvenire. La verità. Come al solito è più difficile da vedere che non il suo contrario. Ma credo che, intanto, possiamo esigere che la stampa non si volti dall’altra parte. Pare che qualcuno si dia un gran da fare a convincere giornalisti, opinione pubblica e, magari, le famiglie dei due militari che non bisogna prendere e portar avanti iniziative, diradare le nebbie dell’ambiguità. Ma rinunziare persino all’intervento della Croce Rossa Internazionale, evitare di “internazionalizzare” il caso. Tutta questa gente, in sostanza, si sta adoperando perché i nostri militari accettando la sorte degli ostaggi, diventino ostaggi, oltre che degli Indiani, di eventuali corresponsabili di Via XX Settembre. Dove pare che si abbia interesse a non affrontare la questione delle regole e delle istruzioni di servizio dei due marò, della loro assenza o inadeguatezza. Doppiamente ostaggi dunque. Come tali, del resto ricevuti beffardamente (purtroppo) al Quirinale. Peggio di questo non sembra che altro possa scoprirsi.

Mauro Mellini, 87 anni, avvocato, è stato deputato e uno dei fondatori del Partito Radicale, e componente del Consiglio superiore della magistratura. Ha fondato la rivista "Giustizia Giusta", e continua ad occuparsi dei grandi temi della società italiana producendo una vasta pubblicistica e saggistica.

Wu Ming: i due marò, quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto, scrive “DielleMagazine”. Una delle più farsesche “narrazioni tossiche” degli ultimi tempi è senz’altro quella dei “due Marò” accusati di duplice omicidio in India. Fin dall’inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti. Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico. A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C’è da chiedersi perché quasi nessun altro l’abbia fatto: in fondo, con Internet, non c’è nemmeno bisogno di vivere in India! Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore…), ma erano e sono celebrate come… eroi nazionali. “Eroi” per aver fatto cosa, esattamente? Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L’articolo che segue – corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate – è il più completo scritto sinora sull’argomento. Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l’impaginazione ottimizzata per la stampa, l’altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo.

Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria. La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali. E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza. In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti. E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi. La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione. Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra». Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi:

1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati. Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.

2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni. Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi.

Qualche esempio di strumentalizzazione? Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale. Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!). L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.

LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”

La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua». Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.

Il capoverso qui sopra è stato molto criticato, ma nella sostanza riassume la posizione dell’India sulla «zona contigua», posizione ribadita ieri dalla Corte suprema di New Delhi: «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Quest’aspetto verrà approfondito nel prossimo post di Miavaldi. Anche in quest’occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l’India l’incidente “non è avvenuto in acque territoriali”, senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l’incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciò non è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella “zona contigua”, sulla quale l’India – intesa come nazione tutta – rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale.

A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica. Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani. Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d. Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane! In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?» Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo. Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie. Di Stefano in persona è intervenuto nei commenti qui sotto… e mal gliene incolse. Oltre a ulteriori, serissimi dubbi sulla sua “analisi tecnica”, ne sono emersi anche sul suo buffo curriculum, sulla sua laurea (si fa chiamare “ingegnere” ma non risulta lo sia), sui suoi trascorsi e su precedenti, non meno raccogliticce “perizie”. Dulcis in fundo: presentato come tecnico super partes, in realtà Di Stefano è un dirigente del partitino neofascista Casapound. Suo figlio Simone è il candidato di Casapound alla presidenza della regione Lazio. Con Casapound, Di Stefano anima un “comitato pro-Marò”. Dopo che la discussione/inchiesta ha portato alla luce queste cose, Di Stefano è stato raggiunto dal Fatto quotidiano e ha ammesso di non essere andato molto più in là di una ricerca sul web, di non aver mai avuto contatti diretti con fonti indiane e di aver ricevuto alcuni dati da analizzare da giornalisti italiani suoi amici, omettendo di verificarli alla fonte primaria. Costui si aggirava da anni al centro o alla periferia di inchieste cruciali (Ustica, Ilva etc.), presentato dai media mainstream e dalle destre (fascisti e berluscones) come “esperto”, senza che nessuno avesse mai pensato di verificarne i titoli, la reale competenza, i metodi impiegati e chi gli dava copertura politica. Eppure non sarebbe stata un’inchiesta difficile, tant’è che per scoprire certi altarini sono bastati due giorni di discussione seria su un blog. Naturalmente, sia Di Stefano sia i suoi amici di estrema destra, dopo aver accusato il colpo, han cercato di rispondere facendo il free climbing sugli specchi e gridando al complotto internazionale ai loro danni.

UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!» 

Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro. Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony. Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo». I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair. A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che:

1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 

2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione.

Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.

La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.

A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India.

La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.

IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI

In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione. Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane. I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile: «I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine. Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio. La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.» Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane. In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio. L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori. Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo». Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori. Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.» Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico. Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava: «[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.» La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.» Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.» In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» –  è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese. Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.» L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese. Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa.

PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE

In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero. Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato. Dopo mesi e mesi di propaganda a senso unico e rintocchi assordanti di una sola campana, quest’articolo è stato un sasso nello stagno. E’ il più “socializzato” della storia di Giap ed è stato ripreso in lungo e in largo per la rete. La discussione qui sotto è partecipata e ricchissima di spunti, approfondimenti, correzioni, precisazioni, conferme, rilanci, rivelazioni, scoperte. “Pare un film di 007″, ha scritto un commentatore sbigottito, riferendosi ai colpi di scena che si susseguivano rapidi. Mentre scriviamo, si sfiorano ormai i 300 commenti, con decine di sotto-discussioni ramificate, compresa la vera e propria inchiesta collettiva su metodi e titoli del dicentesi ingegner Di Stefano. Leggere tutto quanto è appassionante, ma anche impegnativo e non tutti hanno il tempo di farlo. Ci ripromettiamo, noi e Matteo Miavaldi, di preparare e pubblicare un secondo post, che aggiorni, faccia il sunto della discussione, affronti i punti critici, tenga accese le braci di un’informazione diversa sul caso. — fonte: wumingfoundation.com

"Marò sacrificati a interessi economici. Ora ci pensi l'Onu". L’ex ministro Terzi: siamo in una giungla, il governo si rivolga all’Onu, scrive Lorenzo Bianchi su “Il Quotidiano Nazionale”. «L’Italia evita le vie maestre del diritto e sceglie invece i sentieri della giungla. Questa è la mia sintesi sulla questione dei marò». Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore a Washington, ha lasciato la carica di ministro degli Esteri il 26 marzo dell’anno scorso quando si decise di rimandare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in India. L’ex titolare della Farnesina ripete ancora oggi che quella decisione fu presa sulla spinta di interessi economici. «Lo disse chiaramente il presidente del consiglio Mario Monti nel suo intervento del 27 marzo. Cambiammo una posizione enunciata a tutto il mondo con i comunicati dell’11 e del 18 marzo 2013. Furono infatti gli indiani a violare gli affidavit. La Corte Suprema di Nuova Delhi aveva detto che i due paesi dovevano avviare consultazioni sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo, in sigla Unclos, articolo 100. Noi eravamo disponibili. L’India disse che non se ne discuteva neppure».

Invece?

«Il 21 marzo la posizione del governo italiano fu ribaltata nel giro di poche ore».

Come mai non sono state coinvolte le Nazioni Unite?

«Ho informato il segretario generale del Palazzo di Vetro Ban Ki moon a Londra a margine della conferenza sulla Somalia, 8 o 9 giorni dopo il sequestro dei nostri fucilieri. Fu una trappola nella quale caddero la squadra navale e il comando operativo interforze che autorizzarono la Lexie ad andare a Kochi. Fui informato dalla difesa solo 5 o 6 ore dopo».

Come mai?

«Non si è mai capito il motivo del ritardo».

In ogni caso quale fu la risposta di Ban Ki moon a Londra?

«Mi disse: la questione deve essere risolta secondo il diritto internazionale. Me lo ha ripetuto almeno venti volte».

Quindi l’arbitrato internazionale, che l’Italia invece ha lasciato cadere.

«Torniamo all’Unclos, prevede una procedura di 30 giorni per avere misure cautelari, ossia l’affidamento dei marò a un Paese terzo, fino alla decisione della corte di Amburgo sul merito, in due o tre mesi. Su questa base a metà marzo avevamo deciso di trattenere Latorre e Girone in Italia. Invece poi per un anno e mezzo non si è fatto nulla».

Perché?

«Per non smentire l’operato di Monti. La cosa si è trascinata fino al governo di Renzi. È un motivo politico. Il progetto di internazionalizzazione è finito. L’unica volta nella quale Renzi dice di aver parlato dei marò è stato al G 20 di Brisbane in un corridoio con Modi durante una pausa caffè, senza un incontro bilaterale. Avremmo una potenzialità enorme di risolvere il pasticcio».

Come?

«Sollevando la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La lotta alla pirateria è all’ordine del giorno almeno ogni due o tre mesi. In ogni caso l’Italia potrebbe chiedere una discussione dopo un’azione preparatoria con i paesi nostri amici, gli Usa per esempio. Come si fa la lotta alla pirateria senza l’immunità funzionale ai militari che vi partecipano?».

Altre vie?

«Mi risulta che durante il governo Letta sia stata sondata a Ginevra la ex alta Commissaria dell’Onu Navi Pillay. Mi consta che la porta fosse aperta, ma non è stato fatto nulla. Infine c’era un terza possibilità».

Quale?

«L’8 luglio scorso il presidente della Croce Rossa Internazionale Peter Maurer ha inviato una lettera alla presidenza del consiglio e ai ministeri interessati sul caso dei fucilieri di marina. Citava considerazioni umanitarie. Offriva i suoi buoni uffici. Non c’è stata nessuna risposta. Latorre è stato male, si sa di sofferenze psicologiche di Girone. Pensi con quale maggior peso sarebbe sollevata la questione».

Si torna agli interessi.

«Vorrei che qualcuno dichiarasse pubblicamente i motivi per i quali un anno e mezzo fa c’è stata quella decisione».

Arrestate lo Stato, scrive Andrea Cangini su “Il Quotidiano Nazionale”. In una nazione così evidentemente incline al sotterfugio e al reato c’è bisogno anche di un’informazione manettara e moralista, inflessibile in scena e sempre arrabbiata. Un giornale di denuncia, una denuncia giudiziaria. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che lo spirito del «Fatto quotidiano» rappresenta la punta estrema di un sentimento largamente diffuso poiché politicamente corretto. Si è persa la terza dimensione, quella all’interno della quale la politica diventava grande percorrendo col mento all’insù le terre alte del potere, dell’interesse nazionale, della guerra e dello Stato. Ma politica, potere, interesse nazionale, guerra e Stato sono parole cadute in disgrazia, ormai prive di senso o dall’accezione negativa. Non resta allora che il moralismo giudiziario. L’esibita pretesa di schiacciare la politica sul terreno delle buone maniere, della coerenza assoluta, del codice penale e della rettitudine estrema. Rettitudine sconosciuta alle vite degli uomini, e dunque estranea anche alla quotidianità dei suoi profeti. Ma non è certo colpa di Marco Travaglio, di Antonio Padellaro o di Peter Gomez se per avere fatto sesso con una donna consenziente l’uomo più influente del mondo quindici anni fa è finito sotto processo del Congresso americano e di un Tribunale – sempre a favore di telecamere, s’intende – e per l’intera durata di quel duplice giudizio la Storia si è fermata e la cronaca abbondantemente sfamata. Dice: il punto è che Bill Clinton mentì alla nazione. E con questo? Davvero qualcuno pensa che un leader politico, il presidente degli Stati Uniti, addirittura, dica o possa dire sempre e solo la verità? Pretenderlo, è un segno di follia. Un’ossessione evidente. Eppure, solo in pochi colsero l’assurdità del «caso Lewinsky». Lo spirito del «Fatto» è dunque lo spirito del tempo, un tempo la cui letteratura sono i rotocalchi di gossip e i verbali delle procure. Un tempo fatto apposta per sputtanare la politica e svuotare gli Stati. Può anche essere un’idea, ma nessuno, neanche i colleghi del «Fatto», sa indicare alternative possibili. I «tecnici»? Abbiamo già dato. I magistrati? Ne faremmo volentieri a meno. Diciamo che ci sono bastate le avanguardie: i Di Pietro, i De Magistris, gli Ingroia... Se ne esce solo con una retorica politica, e in mancanza d’altro la retorica nazionale va sempre bene: è comunque un appiglio grazie al quale i leader politici possono eventualmente elevarsi. Ma la politica ha bisogno di simboli. Tutti hanno bisogno di simboli, e anche di eroi. La divisa è un simbolo; il soldato in divisa un’annunciazione di eroismo. Non ci vuole molto a capire che da quando sono prigionieri in India «i due marò» hanno cessato di essere due uomini in carne e ossa e sono diventati un unico simbolo, il simbolo della forza e della credibilità dello Stato italiano nel mondo. Ma per quelli del «Fatto», che in questi termini ieri ne hanno scritto, sono solo due italiani «accusati di omicidio». In galera, dunque, mettiamo direttamente in galera lo Stato.

“Il Mercato dei Marò”  è un’opera che narra la gestione di un avvenimento internazionale “tutto italiano”, come lo definisce  l’autore del libro l’Avvocato Mauro Mellini, proponendoci l’analisi di una vicenda assurda, forse unica nella storia moderna di uno Stato di diritto quale dovrebbe essere l’Italia, Patria di antiche tradizioni giuridiche, storiche e culturali, scrive Fernando Termentini su “Libero Reporter”. Un testo che stigmatizza l’assenza dello Stato nell’affrontare eventi  che dopo  più di 1000 giorni ancora presentano punti oscuri…E’  la storia evidente di come l’Italia abbia delegato le proprie funzioni sovrane ad uno Stato Terzo, affidandogli la gestione di un’azione giudiziaria indebita nei confronti di due militari italiani, due Sottufficiali della Marina Militare italiana, Fucilieri della prestigiosa Brigata S.Marco, incaricati dal Parlamento di assolvere compiti di contrasto alla pirateria marittima. Un racconto che ci propone un dramma che coinvolge due cittadini italiani e le loro famiglie e che cela “verità nascoste”, quelle che il 22 marzo 2013 hanno suggerito al Governo Monti di dare corso all’estradizione passiva di due nostri connazionali, consegnandoli nelle mani di un Paese in cui è prevista la pena di morte. Un’azione di “contrasto dissuasivo”, quella dei due Sottufficiali incaricati di garantire protezione anti pirateria ad  un a nave battente Bandiera italiana  ed in navigazione in acque internazionali,  durante la quale sarebbero stati uccisi due poveri pescatori indiani secondo quanto affermato, ma mai provato, dallo Stato Federale indiano del Kerala. Il Mercato dei Marò ci propone pagina dopo pagina questi ed altri dubbi a cui dopo 1000 giorni non è stata data ancora una risposta logica e convincente. Piuttosto confermano come lo Stato stia negando qualsiasi tutela a due suoi cittadini, peraltro titolari di uno  “status” particolare, quello di militari in servizio. Perplessità mai chiarite fin dal giorno successivo ai fatti, il 16 febbraio 2012, quando  un Comando Militare acconsentì che l’Armatore della nave  autorizzasse la petroliera a rientrare  in acque territoriali indiane, consegnando di fatto  i due Fucilieri di Marina  alla giurisdizione indiana.  Un atto di assenso dato sulla linea di Comando Operativo mai chiarito e reso noto solo il 17 ottobre del 2012 dall’allora Ministro della Difesa Gianpaolo Di Paola, Ammiraglio in quiescenza. Un chiarimento ufficializzato dal Ministro dopo  8 mesi dagli eventi, perché costretto a rispondere ad una precisa interrogazione parlamentare. Un testo quello scritto dall’Avvocato Mellini, che propone anche spunti di carattere giuridico che aiutano a comprendere come la vicenda dei due Fucilieri di Marina, nata da disposti legislativi nazionali in parte imprecisi, è portata avanti dalle Istituzioni senza alcun riferimento al Diritto Internazionale ed alle Convenzioni sul diritto del mare. Un’analisi anche delle versione dei fatti, quella indiana e quella italiana, che aiuta  ad individuare  i lati oscuri di una vicenda che coinvolge da oltre 1000 giorni i  due Marò. Una storia assolutamente italiana e peculiarmente italiana nel momento che improvvisamente agli eventi si accavallano notizie di tangenti internazionali. Fatti che coinvolgono, peraltro, un’importante realtà industriale italiana, Finmeccanica e che hanno portato a livello istituzionale di  considerare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone  “merce di baratto” con l’India, con un approccio che l’autore definisce a ragione “un vero e proprio atto di tradimento”. “Il Mercato dei Marò”, non è, quindi, un testo solo narrativo, ma una vera e propria denuncia della scarsa efficacia di come le Istituzioni stanno gestendo una vicenda di risonanza internazionale. Potrebbe essere il testo della scenografia di una tragicommedia  in cui protagonisti e comparse si scambiano i ruoli senza che nulla accada. E’, invece, il resoconto di una storia recente  ancora non terminata dominata dall’ipocrisia con cui è stata gestita la sorte di due nostri concittadini ai vari livelli istituzionali fino ad arrivare ad una non meglio connotata posizione del Presidente Napolitano quale Capo supremo delle Forze Armate. Un testo che denuncia anche l’assenza inaccettabile dell’Europa assolutamente disattenta alla sorte dei due cittadini europei proponendo la triste realtà che una volta “ripartiti i due Marò, restano, invece, “affaristi e cialtroni”. Il Mercato dei Marò è, in sintesi, la storia di un baratto senza fine, dove la merce di scambio non sono i sacchi colmi di grano o le gerle piene di frutta di un tempo. Piuttosto, due uomini, due cittadini italiani colpevoli di servire lo Stato, ma dallo Stato abbandonati per motivi ancora occulti.  Un mercanteggiare che dura ormai da più di 1000 giorni e dopo le dimissioni dell’Ambasciatore Terzi e la fine del Governo Monti si connota, sempre di più, come una “contrattazione di fronte ad un bicchiere di thè”, nelle migliori tradizioni di un Suck arabo.  Qualcosa di unico nella storia moderna e forse irripetibile, dove emergono, come ben delineato nel testo,  figure politiche italiane che riconoscono di fatto la giurisdizione indiana “concordando” una modesta sentenza da scontare in Italia. “Un premio” per i due militari per aver adempiuto al loro dovere nel rispetto delle  “regole d’ingaggio”  e da una necessità di legittima difesa”. Uno scenario fosco in cui emergono possibili interessi  personali anche di ex Ministri il cui parere fu determinante quando fu deciso di restituire all’India Massimiliano Latorre e Salvatore Girone quel fatidico 22 marzo 2013, oggi titolari di cariche di prestigio o prossimi ad assumere leadership politiche. Nel frattempo, Il “mercato” continua a danno della sovranità nazionale italiana e propone al mondo un’Italia sempre più timida nell’affermare i propri diritti ed a tutelare quelli dei propri cittadini. I due Marò sono lontani dalla loro Patria e dalle loro famiglie da quasi tre anni, colpevoli solo di aver detto  “OBBEDISCO” e, questo, non è più accettabile. E’ tempo, invece, che il baratto in corso sia messo in liquidazione e l’Italia si riappropri delle sue tradizioni storiche, culturali e giuridiche, con soluzioni anche suggerite da “Il Mercato dei Marò”. Dobbiamo essere grati all’Avvocato Mauro Mellini per essersi voluto cimentare in un impegno gravoso affrontandolo senza compromessi, ma privilegiando la massima trasparenza ed onestà intellettuale, tipica di coloro che rifiutano il compromesso privilegiando il diritto. Grazie Mauro !

Chi è il Generale Termentini? Ho frequentato l’Accademia Militare e lavorato come Ufficiale dell’Arma del Genio per 40 anni. Ho partecipato a missioni di Peace Keeping in Somalia, Bosnia, Mozanbico e quale esperto nel settore della bonifica dei campi minati e degli ordigni esplosivi in Kuwait, Bosnia, Pakistan per l’Afghanistan in occasione della Operation Salam. Una volta congedato ho fornito consulenza nel settore della bonifica ad ONG ed alle Nazioni Unite.

Napolitano doveva abdicare per dire finalmente la verità su giudici e Marò. Solo ora che va via dal Quirinale alza i toni sui grandi nodi della giustizia, scrive Francesco Carta su “La Notizia Giornale”. Ci ha impiegato otto anni Giorgio Napolitano per togliersi i sassolini dalla scarpa. Anzi, macigni veri e propri, considerando la forza delle parole usate contro un potere, quello della magistratura, per anni immune da accuse o critiche di ogni sorta. Ora, invece, il capo dello Stato, nelle vesti di presidente del Csm, non ha usato mezzi termini davanti al plenum dei magistrati. E allora, sebbene avesse precisato che “non spetta al capo dello Stato” valutare la “riforma della giustizia”, ha poi esordito proprio premendo sulla necessità di riformare il sistema. In modo organico. Dando vita ad un processo innovatore che ridia efficienza alla macchina della giustizia”. Tutto questo, tenendo però fermo un principio: “La politica e la magistratura non devono percepirsi come mondi ostili” e non devono orientare i loro rapporti nel segno del “reciproco sospetto”. Insomma, basta con l’eterna “lotta” tra magistratura e politica. Bisogna tornare a collaborare. E per farlo il primo passo è abbandonare il “protagonismo” di certi giudici. Se infatti da una parte “è fondamentale l’azione repressiva dei pm e della polizia”, è pur vero che “l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario” si garantiscono solo con “comportamenti appropriati“, cioè evitando “cedimenti a esposizioni mediatiche o a tentazioni di missioni improprie”. Cosa che, dice ancora Napolitano, accade spesso, dato che non si possono non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Lo sforzo, dunque, dev’essere indirizzato al superamento di ogni ostilità. Affinchè questo accada, però, è necessario che sia la magistratura per prima a cambiare atteggiamento. A cominciare dalle tante correnti interno al corpo dei giudici che spesso sfiancano la stessa integrità delle toghe. “Le correnti – ha detto infatti il numero uno del Csm – sono state e devono essere ambiente qualificato di crescita, formazione e dibattito, in direzione di un miglioramento complessivo della funzione giudiziaria”. Insomma, formazione, integrità, trasparenza. E imparzialità. Ecco perché è necessario che il sistema giudiziario sia affidato “ad un organo indipendente e imparziale, che garantisce la regole della civile convivenza e la stessa credibilità delle istituzioni democratiche. Questi valori vengono posti in dubbio in presenza di ingiustificate lungaggini, sia in campo civile che penale”. Ecco, allora, che si torna al punto di partenza: è necessaria una riforma. Napolitano lo sa. E ora anche i giudici. L’assicurazione di un processo “rapido e corretto” per i marò ricevuta un anno fa dall’ambasciatore indiano “è rimasta una frase”. Duro l’attacco del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri, in collegamento con il marò, Salvatore Girone, in India. “Ci sono state prove molto negative, scarsa volontà politica di dare una soluzione equa e un malfunzionamento della giustizia indiana che non è solo italiana”, ha aggiunto il Capo dello Stato. Non sono mancati, poi, i plausi e l’elogio nei confronti di Girone: “Sono molto colpito dalla serenità mostrata da lei e dalle vostre famiglie”. Il quale ha contraccambiato immediatamente l’affetto espresso dal capo dello Stato: “Sono ancora fiducioso nelle nostre istituzioni nonostante tutto quello accaduto”.

AD AMBURGO LA PROVA DEI MARO’ TRADITI. Iniziato con anni di ritardo avanti al “Tribunale Internazionale del Mare” l’arbitrato sulla vicenda della Enrica Lexie, dei pescatori indiani uccisi sul peschereccio Saint Antony e dei Marò Italiani tenuti in ostaggio in India, sono subito cominciate ad emergere prove tutt’altro che segrete, di molte delle quali avevamo dato conto con i nostri scritti, di un’incredibile “combine”, nella quale i nostri Marò, anziché il ruolo degli “assassini” (come disinvoltamente sono stati definiti in parecchi documenti indiani) sembra abbiano quello delle “vittime sacrificali”, gentilmente offerte proprio da mani e cattive coscienze italiane a copertura di chi sa quale altro delitto da altri commesso. Un tradimento di fronte al quale aver parlato di “mercato dei Marò” è cosa che sembra doverci rendere responsabili di eccessivo riguardo per chi li ha “forniti” quali, capri espiatori, in cambio di chi sa quali affari. Anche se l’Arbitrato internazionale non dovrà risolvere direttamente problemi di responsabilità ma di giurisdizione, dalle carte esibite proprio dagli Indiani risulta che i due poveri marinai non furono uccisi dalle armi in dotazione ai Marò. Lo avevamo già scritto. Ma chi aveva il dovere di esserne informato assai meglio di noi andava parlando di “non provata innocenza” dei due militari italiani (queste le espressioni di Emma Bonino, una volta militante del garantismo ed ora sostenitrice della necessità di “svuotare le carceri”) mentre qualcun altro parlava di accordi con l’India per una condanna “clemente” a “non più di sette anni di carcere”. Ma l’interrogativo vero ed angoscioso è questo: perché tanto servilismo da parte delle Autorità militari (Ministro delle Difesa, Ammiraglio Di Paola) e diplomatiche (Ministri e vice ministri degli Esteri Bonino, Pistelli, etc.) e dei presidenti del Consiglio (Monti, Letta, Renzi) con un ritardo nella richiesta dell’Arbitrato internazionale ripetutamente e bugiardamente dato come per richiesto? Un ritardo che ha danneggiato per più versi i nostri Marò dando al mondo l’impressione che fossimo noi a doverne temere la decisione e rendendo ancor più gravi le sofferenze dei due nostri Militari. Per non parlare della clamorosa baggianata della revoca della decisione, già annunziata, di non consentire la “restituzione” all’India di La Torre e Girone. Quale “affare” si temeva potesse danneggiare un atteggiamento di piena difesa dei diritti dei Nostri? E quali patti oscuri erano stati combinati con i più corrotti potentati indiani che non consentissero di difendere adeguatamente i nostri Militari? Sono interrogativi angosciosi che tuttavia non possiamo non porci. Mauro Mellini – giustiziagiusta.info su “La Valle dei Templi”.

Marò, le pallottole rinvenute nei corpi dei pescatori incompatibili con le armi di Latorre e Girone. Giulio Terzi: "I risultati delle autopsie consegnati al Tribunale di Strasburgo dimostrano la malafede indiana", scrive “Il Tempo”. Proiettili che hanno colpito a morte i due pescatori indiani non sarebbero quelli in dotazione ai militari in servizio con la Nato e quindi dei due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. È quanto emerge dai documenti dell'autopsia sui due pescatori e consegnati dall'India al Tribunale di Amburgo in occasione dell'arbitrato internazionale. La pallottola estratta dalla testa di una delle vittime indiane, è lunga 31 millimetri, molto più grande delle munizioni calibro 5 e 56 Nato in dotazione ai marò, lungo appena 23 millimetri. L'incongruenza tra le dimensioni dei proiettili fu segnalata nel 2013 anche da Staffan De Mistura in un'audizione presso le commissioni esteri e difesa della Camera e del Senato, ma ora la conferma arriverebbe direttamente dai documenti indiani consegnati al Tribunale di Amburgo, dove è in corso l'arbitrato internazionale tra India e Italia sulla vicenda. Finora in India non è iniziato il procedimento giudiziario a carico dei due fucilieri italiani, a cause dello scontro sulla giurisdizione del caso, prima tra le autorità giudiziarie dello stato indiano del Kerala e quelle federali e poi tra India e Italia. Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono accusati di aver ucciso il 15 febbraio 2012 due pescatori indiani, scambiati per pirati, quando i due fucilieri del battaglione San Marco erano di stanza sulla nave mercantile Enrica Lexie, a largo delle coste indiane. Furono arrestati quando la nave attraccò in India su richiesta delle autorità locali. "Questa ulteriore rivelazione dimostra con ancora più vigore quanto tutta questa macchinazione sulla colpevolezza dei due marò sia stata pretestuosa, strumentalizzata per fini politici e sia stata lasciata passare incomprensibilmente dal governo Letta e Renzi dopo quella disastrosa decisione di rimandare i due fucilieri in India il 22 marzo", dice Giulio Terzi, diplomatico ed ex ministro degli Esteri. "Di fronte a queste prove della malafede indiana l'Italia deve alzare la visibilità su questo caso e dimostrare come siano state utilizzate procedure a nostro danno. Si tratta di un fatto importantissimo - prosegue Terzi - che dimostra come per tre anni l'India abbia tenuto nascosto un documento richiesto più volte dall'Italia contravvenendo a tutte le norme sulla cooperazione giudiziaria. Ma il fatto ancora più importante è che il documento è diventato pubblico solo grazie al Tribunale di Amburgo che lo ha concesso legittimamente, in base alla legge sulla trasparenza, mentre l'India non ha dato seguito alle rogatorie che io stesso e gli altri colleghi di governo avevamo fatto verso l'India affinché mandassero alla magistratura italiana tutte le prove raccolte e le analisi e gli accertamenti fatti su questo caso. Si è celato e non si è dato corso a quello che l'Italia chiedeva, si teneva nascosto un elemento così importante per tenere in piedi una costruzione assurda di colpevolezza nei confronti dei nostri due soldati, che da questo documento dimostrano assoluta estraneità alla cosa - rimarca l'ex ministro. È importante che questo aspetto venga ripreso con grande fermezza dall'Italia nei confronti dell'India, che è contravvenuta a tutte le norme sulla cooperazione giudiziaria".

Marò, ora l'India ammette: "I proiettili non erano loro". E spunta la truffa dei testimoni fotocopia. La perizia: pallottole troppo grandi per essere dei fucilieri. A cui si aggiungono testimonianze fatte con "copia e incolla", scrive Claudio Cartaldo su “Il Giornale”. Che il processo messo in campo dall'India nei confronti dei due fucilieri di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, fosse al limite del ridicolo, non è una novità. Ma dalle carte che i legali indiani hanno consegnato al Tribunale internazionale per il diritto del mare di Amburgo, emergono alcuni dettagli sconcertanti. Non solo quelle testimonianze fotocopia rilasciate da alcuni pescatori sopravvissuti il giorno in cui Valentine Jelastine e Akeesh Pink persero la vita, ma soprattutto l'allegato numero 4 che riporta l'autopsia svolta sul corpo dei due pescatori uccisi. Sembrava essersi persa nei cassetti dei tribunali indiani, e invece è rispuntata ad Amburgo. Nel documento, la prova che i proiettili che hanno colpito a morte i due indiani non sono quelli in dotazione ai marò. Come riporta il Quotidiano Nazionale, in un articolo a firma di Lorenzo Bianchi, le testimonianze di chi avrebbe assistito alla morte dei due pescatori si assomigliano eccessivamente. Come se nell'essere redatte fossero state scritte dalla stessa mano e opportunamente falsificate in modo da dimostrare la colpevolezza di Latorre e Girone. Dopo gli eventi del 15 febbraio 2012 al largo delle coste del Kerala, i testimoni dichiarano che gli assassini sono i "sailors", i marinai, facendo nome e cognome dei due marò. Le testimonianze, allegate tra le carte che l'India ha depositato ad Amburgo, sono contenute nell'allegato 46. A rilasciarle sono il comandante del peschereccio, Freddy Bosco (34 anni), e il marinaio Kenserian (47), i quali dichiaro "onestamente e con la massima integrità" che la loro imbarcazione "finì sotto il fuoco non provocato e improvviso dei marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone della Enrica Lexi". Il primo campanello d'allarme riguarda proprio il duplice errore riportato nei verbali. Entrambi i marinai, infatti, avrebbero sbagliato a pronunciare il nome della nave difesa dai Marò, che infatti si scrive "Lexie". Ora, la cosa più probabile è che entrambe le dichiarazioni siano state scritte dalla stessa persona con una sorta di "copia e incolla" necessario per far coincidere le due versioni. Ma non sono solo queste le corrispondenze. Altri passaggi sembrano scritti con la carta carbone. Secondo i due testimoni, i "tiri malvagi" hanno provocato la "tragica morte dei cari amici e colleghi Valentine, alias Jalestin, e Ajesh Binke". Anche sulle loro condizioni dopo l'evento, la versione coincide in maniera sospetta. I due pescatori avrebbero subito una "indicibile miseria e una agonia della mente, una perdita di introiti. La nostra ordalia non è finita". Secondo Luigi Di Stefano, perito di parte che ha seguito la vicenda di Ustica, l'India non avrebbe dovuto consegnare queste carte al Tribunale di Amburgo. Che non aveva il compito di giudicare le responsabilità dei Marò, ma solo quale fosse il Paese legittimato a tenere il processo. Un modo quindi per ribadire la colpevolezza non dimostrata di Latorre e Girone, mossa che però ha fatto calare un velo di legittima dubbiosità sulla veridicità delle testimonianze. Non è tutto. Perché il più interessante dei documenti consegnati dai legali indiani ai giudici di Amburgo è l'autopsia che l'anatomo patologo K. S. Sasika fece sui due pescatori uccisi. Nella seconda pagina dell'allegato 4, infatti, si legge che il proiettile estratto dal cervello di Jalestine è troppo grande per essere uscito dalle armi dei fucilieri di marina. Quello misurato dal medico aveva un'ogiva di 31 millimetri, una circonferenza di 20 millimetri alla base e di 24 nella zona più larga. Le munizioni in dotazione ai Marò, invece, sono dei calibro 5 e 56 Nato. Il proiettile italiano misura solo 23 centimetri, quindi è evidente che quello estratto dalla testa del pescatore non possa essere stato esploso dai mitra Minimi e Beretta Ar 70/90 di Latorre e Girone. Infine, dalle carte si evince che il Gps del Saint Antony dove hanno trovato la morte i pescatori venne fatto recapitare dal capitano dell'imbarcazione non il giorno in cui attraccò al porto, ma solo 8 giorni dopo. Conservando tutto il tempo necessario a manometterne i dati.

Ecco le prove indiane a favore dei marò. Sul «Giorno» i documenti di Nuova Delhi al Tribunale del mare. Dalle munizioni alle testimonianze, l'accusa non regge, scrive Fausto Biloslavo su "Il Giornale". Gli indiani si incastrano da soli sul caso marò. Fra gli allegati consegnati al tribunale del mare di Amburgo, che ha sospeso la giurisdizione di Delhi sul caso, c'è pure l'autopsia sui due pescatori uccisi. L'India considera Massimiliano Latorre e Salvatore Girone colpevoli, senza processo, di aver sparato deliberatamente. Peccato che la misura del proiettile estratto dal corpo di una delle due vittime, Valentine Jelestin, non corrisponda a quello del calibro Nato dei fucili mitragliatori Beretta in dotazione ai marò. Lo rivela il quotidiano il Giorno grazie agli allegati indiani ottenuti da Luigi Di Stefano, uno dei periti della strage di Ustica, che ha seguito fin dall'inizio l'odissea dei fucilieri di Marina del reggimento San Marco. L'anatomo patologo K. S. Sasikala esaminò i cadaveri e poi fu «silenziato» dalle autorità indiane. Il documento del suo referto è l'allegato numero 4. Nella seconda pagina viene descritto il proiettile estratto dal cervello di Jelestin. Il patologo misura l'ogiva lunga 31 millimetri. L'impatto può averla rimpicciolita, ma si avvicina molto di più al proiettile calibro 7,62 dell'Ak 47, il fucile mitragliatore russo, che è lungo 39 millimetri. Uno schiacciamento di 8 millimetri risulta compatibile. I marò avevano in dotazione il Beretta Ar 70/90 che utilizza pallottole Nato calibro 4,56 di 45 millimetri. Difficile, se non impossibile che il colpo si rimpicciolisca di ben 14 millimetri. La circonferenza del proiettile fatale misurata dall'esperto indiano è di 20 millimetri alla base e 23 nella parte più larga. Anche queste misure sono poco compatibili con le cartucce usate dai marò. Se fosse stato veramente un kalashnikov ad uccidere i pescatori l'accusa ai fucilieri di Marina decade completamente. L'Ak 47 viene usato dalla guardia costiera dello Sri Lanka, che ha più volte sparato e ammazzato pescatori indiani accusati di gettare le reti al di fuori delle loro acque. Altra assurdità sono le deposizioni identiche allegate dagli indiani di due pescatori che erano a bordo con le vittime. Il comandante del peschereccio Freddy Bosco ed il marinaio Kinserian dichiarano senza ombra di dubbio, che alle 16.30 del 15 febbraio 2012 il loro peschereccio «finì sotto il fuoco non provocato e improvviso dei marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone della Enrica Lexi». Ovviamente avevano individuato i marò pistoleri e storpiano il nome del mercantile italiano difeso dai fucilieri per le minacce di attacchi dei pirati alla stessa maniera dimenticando la «e» finale. Un verbale fotocopia, che ribadisce la linea ufficiale: i marò sono colpevoli dei «tiri malvagi» che hanno provocato la «tragica morte dei cari amici e colleghi Valentine, alias Jelastin, e Ajesh Binke». Fra i documenti indiani si scopre che il Gps del St. Anthony, il peschereccio colpito, è stato consegnato dal comandante Bosco alla polizia, assieme ad un computer malridotto, non all'arrivo nel porto del Kerala con i due cadaveri, ma ben otto giorni dopo, il 23 febbraio. A pensar male c'era tutto il tempo per manomettere i dati registrati dall'apparecchio. Non è mai stato chiarito perché lo stesso Bosco, una volta sceso a terra, davanti alle telecamere indiane, abbia dichiarato che la sparatoria era avvenuta alle 21.00, di sera e non alle 16.30, nel mezzo del pomeriggio. Un altro dettaglio interessante, che salta fuori dai documenti, è l'apparizione del vero proprietario del St. Anthony, un certo Prabhu. Il titolare decide di affondarlo perdendo inspiegabilmente una fonte di guadagno. «Misteri ed incongruenze sono tanti - spiega Di Stefano a il Giornale - In sole 5 paginette la polizia del Kerala dimostra, dopo aver ispezionato la petroliera italiana, il peschereccio colpito e visto le salme, che Latorre e Girone hanno sparato e ucciso. Questo è un castello di carte». Fra gli allegati ufficiali indiani non manca la fantasiosa ricostruzione della presunta fuga e caccia alla nave fantasma, che ha sparato ai pescatori. In realtà la Lexie aveva fatto subito marcia indietro verso il porto di Kochi quando gli indiani l'hanno richiesto. Il risultato è che i marò subiscono questa odissea da «1.300 giorni», come ha twittato ieri il deputato di Forza Italia, Elio Vito. Un' «ingiusta e illegale detenzione da parte dell'India - scrive - alla quale i vari governi italiani che si sono succeduti, da Monti a Renzi non hanno saputo mettere fine. Vergogna! Vergogna! Vergogna! #marò liberi».

Marò, il sospetto sui proiettili: arrivano dallo Sri Lanka? Scrive “Libero Quotidiano”. A quasi quattro anni dall'inizio del caso Marò, spunta una prova che potrebbe rivelarsi l'elemento chiave per risolvere, una volta per tutte, la questione che divide India e Italia. Il tutto ruota attorno a un proiettile. Come scrive Il Mattino, l'autopsia condotta dal dottor Sasika sui corpi dei due pescatori morti, ha aperto una nuova e cruciale pista che verte tutta sulla balistica. Il proiettile che è stato trovato nel cervello di Jalestine, uno dei due pescatori, è lungo 31 millimetri. E, proprio per questo dettaglio, si può dedurre che a spararlo non furono i nostri marò, che hanno in dotazione proiettili calibro 5.56x45 Nato, lunghi 23 millimetri, otto in meno del proiettile analizzato dunque. L'ipotesi Sri Lanka - Da dove viene allora quella pallottola? I proietti di quel genere e di quella lunghezza sono sparati solo da un tipo di arma: la Pk, una mitragliatrice kalashnikov usata soprattutto dai russi. L'arma è molto comune, tant'è che è stata usata in molti conflitti passati alla storia, dal Vietnam all'Afghanistan. E, oggi, a usarla ci sono, fra gli altri, anche le truppe indiane e la Marina dello Sri Lanka. I due paesi sono in conflitto per la gestione delle zone di pesca dei tonni, zone in cui proprio quel fatidico giorno, i due pescatori uccisi, stavano pescando. Dettaglio questo, che diventa ora cruciale. Pochi margini di errore - Da sottolineare, inoltre, che le armi in dotazione ai marò, anche se modificate, non avrebbero mai potuto sparare quel tipo di proiettile. Potrebbe essere dunque proprio da questa rigorosa, e con pochissimi margini di errore, perizia balistica che dipenderanno le sorti dei nostri fucilieri, nelle mani ora della corte di Amburgo. Tutto, o quasi, dipende da quegli 8 millimetri e da quello che i fori sui corpi dei due pescatori rivelano. Dal tipo di pallottola, al colpo sparato da molto, molto lontano, operazione quasi impossibile per i marò e per il tipo di armi che avevano con loro, sembra che siano arrivati gli elementi tanto attesi per provare la loro innocenza.

Il giallo dei Marò e la pista dei proiettili che porta alla Marina dello Sri Lanka, scrive “Il Messaggero”. Otto millimetri che fanno la differenza e che potrebbero aprire la strada al riconoscimento dell’innocenza dei due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Gli otto millimetri sono quelli di un proiettile di cui si sa anche chi lo ha prodotto e da quale arma è stato sparato. Dati con un margine di errore minimo emersi dall’autopsia che il dottor Sasika compì sui corpi dei due pescatori morti il 15 febbraio del 2012 e ora consegnata dall’India ai giudici del Tribunale di Amburgo. Nella seconda pagina dell'allegato 4 si legge che il proiettile che venne estratto dal cervello di Jalestine presenta un’ogiva di 31 millimetri e una circonferenza di 20 millimetri alla base e 24 nella parte più larga. A sparare quel colpo non possono essere stati quindi i nostri marò. Per un motivo molto semplice: i proiettili che avevano in dotazione i fucilieri di Marina sono dei calibro «5.56x45» Nato e la loro lunghezza è di 23 millimetri. Otto millimetri in meno, appunto, del proiettile ritrovato nella scatola cranica dell’indiano. C’è invece un unico proiettile che è compatibile con la lunghezza di 31 millimetri ed è il calibro «7,62X54 R». Proiettile utilizzato per la PK, la mitragliatrice Kalashnikov, arma prodotta in Russia ed entrata in servizio nel 1961 ma anche per la più moderna PKM fabbricata da Russia, Jugoslavia e Cina che la produce nella versione Tipo 80. Ad utilizzare questo tipo di arma sono i Paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’ex Patto di Varsavia, dell’ex Jugoslavia e decine di altri nel mondo ma anche i contractors che si occupano di maritime security. Una mitragliatrice abbastanza comune quindi che è stata utilizzata in innumerevoli conflitti: in Vietnam, Cambogia, Afghanistan, Cecenia ma anche in Iraq e Libia. Oggi anche l’Isis se ne serve. Sono armi poco costose, di facile manutenzione e semplici da riparare in quanto i pezzi di ricambio si trovano facilmente in tutto il mondo. Le Forze Armate italiane non utilizzano munizioni di quel calibro, tantomeno del calibro più piccolo «7,62x39», quello che viene utilizzato per gli AK47 per intenderci. Quel giorno a bordo dell’Enrica Lexie vi erano solo Minimi e Beretta AR 70/90 che, come è risaputo, utilizzano proiettili calibro 5,56 x45 Nato, molto più piccoli del 7,62x54 R rinvenuto sul cadavere dell’indiano.

Ecco i documenti dell'autopsia che scagiona i nostri marò. Il documento prova che i proiettili in dotazione ai due fucilieri non sono compatibili con le ferite dei pescatori uccisi, scrive Giuseppe De Lorenzo su “Il Giornale”. Non sono stati loro. E' questo ciò che emergere dall'autopsia sui pescatori uccisi in India realizzata dal medico legale indiano, l'anatomo patologo K. Sasika. Non sono stati i marò. I documenti resi pubblici oggi da Dagospia, arrivano in soccorso di quanto già scritto nei giorni scorsi. I legali indiani, infatti, hanno consegnato al Tribunale di Amburgo il documento che fino ad ora era rimasto nascosto nei cassetti delle aule giudiziarie indiane. Nella seconda pagina dell'allegato 4, si legge chiaramente che il proiettile estratto dal cervello del pescatore Jalestine non è di quelli dati in dotazione alle truppe italiane. E' troppo grande. Il proiettile misurato dall'anatomo patologo, infatti, ha una ogiva di 31 millimetri, misura una circonferenza di 20 millimetri alla base e nella zona più larga arriva fino a 24 millimetri. Dalle armi dei Marò, invece, possono essere esplosi solo i colpi calibro 5 e 56 Nato, che misurano 23 millimetri appena, ben 8 millimetri in meno di quelli che hanno ucciso i pescatori. Impossibile dunque non capire che chi ha ucciso Jalestine non poteva usare i mitra Minimi e Beretta Ar 70/90 che invece portavano con loro Latorre e Girone. Quello che rimane da chiedersi, è come sia possibile che l'Italia, i suoi legali, i governi Letta e Renzi non siano riusciti ad ottenere prima l'accesso a questi documenti. Che arrivano a scagionare i Marò a 3 anni dall'inizio della loro ingiusta detenzione.

Proiettili troppo lunghi, marò, somali e cingalesi: cosa non torna, scrive Matteo Miavaldi su “Eastonline”, blog di controinformazione di cui doverosamente ne riportiamo la posizione. La scorsa settimana il Quotidiano Nazionale, con un articolo firmato da Lorenzo Bianchi, ha lanciato il "nuovo" scoop dei proiettili che scagionerebbero i marò. Bianchi, in realtà, si appoggia alle teorie di Luigi Di Stefano, perito di parte civile nel caso Ustica, che da anni sostiene l'innocenza e l'estraneità dei fucilieri di Marina nel caso di omicidio di Ajesh Binki e Valentine Jelastine, i pescatori morti a bordo del St. Anthony il 15 febbraio del 2012. Niente di nuovo, in verità, ma questa volta grazie allo zelo di Di Stefano abbiamo a disposizione parte dei documenti inviati dai legali di parte indiana al Tribunale del Mare di Amburgo, che il perito (grazie!) si è fatto spedire via mail direttamente da Amburgo. Si tratta di una documentazione molto densa e interessante, per chi segue il caso, che merita un'analisi fatta senza fretta per capire meglio cosa ci sia di "nuovo". Ma per ora, sulla storia dei proiettili, un paio di cose le possiamo dire. Di Stefano basa i suoi calcoli sui dati recuperati dal referto dell'autopsia compilato dal dottor K. Sasikala, medico legale di Thiruvananthapuram (Kerala), la persona che ha esaminato i corpi dei due pescatori. La parte che non torna a Di Stefano è contenuta nel referto che interessa Valentine Jelastine. Sasikala scrive di aver trovato nel cranio di Jelastine un proiettile lungo 3,1 cm. Troppo lungo, secondo Di Stefano, considerando che i proiettili in dotazione ai fucilierisarebbero solo calibro 5.56 per i fucili Beretta (6) e le mitragliatrici Minimi (2) che hanno in dotazione. Le ogive dei 5.56, dice Di Stefano, sono troppo piccole per combaciare col proiettile nel cranio di Jelastine; più probabile sia un calibro 7.62, che però i marò non possono sparare siccome, quoto dall'intervista a Di Stefano pubblicata recentemente sul Quotidiano Nazionale: «È una cartuccia molto diffusa in quell'area. È il proiettile dei mitra usati dai pirati della Somalia e dalla guardia costiera dello Sri Lanka sugli Arrow Boat. Gli italiani non hanno armi in grado di sparare pallottole così grosse». Un inciso prima di proseguire. Lo smontaggio probatorio di Di Stefano (e di chi lo riprende sui media nazionali, a quanto pare in molti) si basa su un solo proiettile tra quelli ritrovati tra i corpi delle vittime (nel corpo di Binki/Pink – diversa traslitterazione, ma è sempre lui – Sasikala ne trova uno lungo 2,4 cm, ad esempio); inoltre, l'esame balistico condotto dalla scientifica indiana (alla presenza di personale militare italiano mandato dalla nostra scientifica in qualità di osservatore) ha dato come esito la compatibilità di due delle armi da fuoco in dotazione ai fucilieri di Marina a bordo della Enrica Lexie. Più precisamente, il rapporto della balistica - ripreso poi nel rapporto dell'Ammiraglio Piroli consegnato alla Marina Italiana e pubblicato più di due anni fa in esclusiva da Repubblica - dice che le armi che hanno ucciso Binki e Jelastine hanno la matricola dei sottufficiali Andronico e Voglino, non di Latorre e Girone. E questo è un bel problema che, quando si aprirà il processo, dovranno sbrogliare le parti in causa. Anche il problema del proiettile troppo lungo, considerando i dati che abbiamo a disposizione, al momento rimane irrisolto. Qui non siamo esperti di balistica e se qualcuno che legge questo blog volesse dare un contributo scientifico sul discorso del proiettile troppo lungo – un secondo parere oltre a quello di Di Stefano - questo spazio è a totale disposizione. In presenza però di dati parziali- mancano, ad esempio, tutte le indagini successive condotte dalla National Investigation Agency (Nia), la polizia federale che ha preso in mano il caso dalla polizia del Kerala - prima di parlare di "prove definitive che scagionano i marò" sarebbe meglio aspettare almeno la pubblicazione completa dell'impianto accusatorio se non, pazza idea, il processo (quando e dove mai si aprirà). Per ora, è interessante notare come durante l'ispezione dell'Enrica Lexie, alla presenza del console generale Cutillo e dei maggiori italiani Fratini e Flebus, la polizia del Kerala nella cabina 405 trova – oltre ai fucili Beretta e alle mitragliatrici Minimi – anche una mitragliatrice 7.62 e una scatola da 250 munizioni per la suddetta mitragliatrice. Un'altra scatola di munizioni da 7.62 mm viene ritrovata anche nella cabina numero 329, assieme a munizioni da pistola di 9 mm. Quindi non è vero che a bordo della Enrica Lexie ci fossero solo armi e munizioni da 5.56 mme, come minimo, non si può escludere del tutto che i marò interessati nello scontro a fuoco (e a questo punto chissà se sono stati davvero Latorre e Girone o altri due fucilieri) non abbiano sparato anche dei proiettili calibro 7.62. Ammesso che quel proiettile «troppo lungo» sia effettivamente di un calibro 7.62. Abbiamo abbastanza dati per escluderlo? No. Ha senso incaponirsi, a distanza di tre anni, su dati parziali che escono alla spicciolata, senza aver accesso a tutto il materiale probatorio (che il Tribunale del Mare, rispondendo alla richiesta di Di Stefano, ha deciso di occultare parzialmente siccome alcuni documenti sono «confidential»)? Credo di no. Ha senso urlare allo scandalo, al complotto indiano, in presenza di documentazione parziale e sottendendo tra l'altro che gli indiani siano così imbecilli da consegnare al Tribunale del Mare di Amburgo dei documenti che gli si ritorcerebbe contro? Per chi scrive, no. Dopo una prima analisi superficiale dei documenti resi pubblici da Di Stefano - al quale, nonostante ci "confrontiamo" da tre anni in disaccordo più o meno su tutto ciò che riguarda il caso Enrica Lexie, va il mio ringraziamento per aver condiviso materiale sul quale lavorare -alcune cose non tornano nemmeno a me: ad esempio, non si capisce come mai la mitragliatrice 7.62 non sia stata provata durante l'esame balistico della scientifica del Kerala, e, mi pare, non figuri nemmeno tra le prove repertate. Non dobbiamo dimenticare che i documenti che abbiamo visionato finora si riferiscono esclusivamente alla prima parte delle indagini, condotte dalla polizia del Kerala; nel gennaio del 2013 il caso passa alla Nia, che conduce ulteriori indagini. Dell'operato della Nia, ad oggi, non sappiamo ancora assolutamente nulla. Infine, due parole e un disegnino sullo Sri Lanka e la Somalia. Di Stefano e chi lo riprende, ormai da oltre tre anni, insistono nell'incolpare dell'omicidio di Binki e Jelastine o i «pirati della Somalia» o la guardia costiera cingalese, che entrambi – in massa – popolerebbero le acque del Kerala «infestate di pirati». Come già ripetuto a questo punto centinaia di volte – e per chi vuole, lo ribadiscono anche gli avvocati di parte indiana ad Amburgo – i pirati somali in Kerala NON CI SONO. La Somalia è dall'altra parte dell'Oceano Indiano, a migliaia di chilometri di distanza dall'India, ed episodi di pirateria somala in India non se ne sono riscontrati. Per quanto riguarda il possibile coinvolgimento della guardia costiera dello Sri Lanka, come avevo già scritto sul blog Giap anni fa, trattasi di «panzana grottesca, considerando che le coste del Kerala affacciano ad Ovest mentre lo Sri Lanka si trova a Sud-Est rispetto ad un altro stato indiano, il Tamil Nadu! Gli scontri per le acque di pesca si verificano da anni tra il golfo di Mannar e la baia di Palk, le acque che dividono lo Sri Lanka dal Tamil Nadu. Il Kerala non c'entra nulla». Dove siano Kerala, Tamil Nadu e Sri Lanka lo potete vedere su Google Maps.

La vergogna dei marò traditi e abbandonati. Domani sono 36 mesi di calvario Errori a ripetizione e scelte sballate Così il nostro Paese si copre di ridicolo, scrive Antonio Angeli su “Il Tempo”. Domani, 15 febbraio 2015, scocca il terzo rintocco della vergogna italiana per i due marò Latorre e Girone, accusati in India di aver fatto il loro dovere di militari e di italiani. Tre anni fa, il 15 febbraio 2012, il mai chiarito incidente in acque internazionali e, poco dopo, il loro arresto. In qualunque parte del mondo una condanna a tre anni è dura per gli imputati e per le loro famiglie. Tanto più in Italia, dove i colpevoli di gravi crimini vengono denunciati a piede libero. Loro: Massimiliano Latorre, attualmente in convalescenza nella sua Taranto, e Salvatore Girone, agli arresti domiciliari nell’Ambasciata italiana di Nuova Delhi, tre anni di detenzione li hanno già scontati, con le loro famiglie. Ma non sono colpevoli. Colpevole è invece una politica ondivaga e incerta, portata avanti da tre presidenti del Consiglio, un commissario straordinario, tre ministri della Difesa più cinque degli Esteri, uno dei quali (Emma Bonino) arrivò perfino ad affermare che noi italiani non sapevamo se i marò sono colpevoli o innocenti. E a ben poco è servita la determinazione dell’attuale esecutivo unita a quella del Capo dello Stato che, appena eletto, ha messo i nostri marinai del San Marco in cima alle priorità del Paese. Perché le cose cambiano anche in India e il «nuovo interlocutore», il premier Narendra Modi, che ha stravinto le elezioni la scorsa estate, ha ora preso una sonora bastonata nelle locali, ma importanti, consultazioni a Nuova Delhi. Così oggi il ministro Gentiloni, che confidava nella «trattativa riservata», ha di fronte un uomo sconfitto. Tanto che Narendra Modi ha gelato i suoi sostenitori, a pochi giorni dall’inaugurazione di un tempio e di una statua consacrate in suo onore, che lo levavano a rango di semidio, a Rajkot, nel Gujarat, stato nel quale il premier è stato per anni primo ministro. Ora si è detto «costernato» e ha pregato i suoi sostenitori di dedicare quel tempio a qualche altra divinità. Cose che accadono in India. E in Italia, nonostante lo sdegno di big della politica come Elio Vito (FI), Ignazio La Russa (FdI) e l’ex ministro e ambasciatore Giulio Terzi, la vita prosegue come sempre, tanto che giusto ieri l’Ice, l’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione delle imprese italiane all’estero, ha siglato un accordo di rappresentanza in Italia della manifestazione fieristica indiana «Everything About Water», l’esposizione specializzata dedicata al settore del trattamento delle acque, un «big business» del futuro. «Sono passati tre anni - commenta il Cocer, il sindacato delle stellette - da quando i nostri connazionali, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono stati trattenuti in India. Oggi, a tre anni di distanza, la situazione è ancora incredibilmente indefinita». E mentre l’Italia continua, in qualche modo, a partecipare alle missioni internazionali, la compagna di Latorre dà voce alla speranza di tutti gli italiani: «L’unica cosa che mi sento di dire, l’unica parola che vorrei dire, è la parola fine». Grazie a Paola Moschetti: l’unica parola che vorremmo sentire su questa vicenda è: «Fine».

Il blitz per liberare i marò? Grasse risate con Libero, scrive Mazzetta su “Giornalettismo”. In un sondaggio tra i lettori ieri Libero ha chiesto: «sareste favorevoli a un blitz militare per liberarli?». Perfetto accoppiamento con il piano redatto all’epoca dall’esperto Gianandrea Gaiani. Libero si segnala ancora una volta per le esibizioni finto-patriottiche sul caso marò, roba che sembra ispirata ai diari di Galeazzo Musolesi, ma che al lettore-tipo del quotidiano sembra piacere moltissimo. Dopo le «rivelazioni» di un giornalista del QN, Lorenzo Bianchi, su perizie delle quali si sarebbe accorto solo ora e solo lui, Libero ha deciso che i marò sono palesemente innocenti e quindi che la loro vicenda è divenuta ancora di più insopportabile per l’orgoglio nazionale. Ecco allora spuntare il sondaggio, al quale più dell’80% dei rispondenti ha detto sì (c’è stato anche chi l’ha fatto a sfottere), ideale complemento dell’articolo dell’esperto che spiegava come si potrebbe fare il blitz. Una «provocazione» è segnalato a margine, non sia mai che qualcuno accusi la testata di fomentare odio contro gli indiani o di chiedere davvero un blitz militare contro un paese che ha più di un miliardo e duecento milioni di abitanti ed è una superpotenza nucleare. Gianandrea Gaiani si è già occupato di marò, ma senza brillare. È riuscito anzi a validare sul Sole 24ore la buffa perizia del sedicente ingegnere di Casapound, Luigi Di Stefano. Anche in questo caso si rivela parecchio deludente, ecco il suo piano: Gli uomini dell’intelligence militare non hanno avuto difficoltà ad affittare una piccola imbarcazione da pesca sportiva senza dare troppo nell’occhio in un’area come quella di Kochi visitata da numerosi turisti stranieri. Nella tarda serata all’Embarkation Jetty, l’imbarcadero a nord dell’isola di Willingdon, non c’è mai molta gente e nell’oscurità nessuno ha fatto caso ai quattro uomini arrivati a bordo di un furgoncino Tata che aveva percorso tutta la Malabar Road per salire a bordo del piccolo motoscafo. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone hanno lasciato le loro camere all’albergo Trident, nell’isola di Willingdon ad appena 500 metri dall’aeroporto militare, utilizzando un ingresso di servizio nascosti all’interno di due carrelli utilizzati per il trasporto della biancheria. Gli agenti della polizia indiana che sorvegliano con discrezione e in abiti borghesi i movimenti dei due fucilieri da quando hanno ottenuto la libertà su cauzione li credono nelle loro camere (dove due militari della delegazione italiana tengono luci e televisione accesa) e non fanno caso a un furgone Tata che si dirige a nord lungo la Bristow Road. Segue un breve tragitto in barca fino al nostro sottomarino Scirè, che a Gaiani piace tanto e che ne dovremmo essere orgogliosi in quanto esempio d’italico ingegno, anche se è un progetto tedesco. Sottomarino che poi fila rapido e invisibile verso casa. Un piano di una pulizia esemplare, anche se forse c’è da ripensare la mossa del cesto della biancheria che è un po’ troppo inflazionata e forse banale, se non fosse che Gaiani mostra di non essere a conoscenza di fatti che lo rendono irrealizzabile. Prima di tutto in India c’è un solo marò, perché Salvatore Girone è in Italia, ma ancora prima c’è che quando abbiamo ipotizzato di non far tornare i marò dalla licenza loro concessa in Italia, l’India ha minacciato di trattenere altri italiani, cominciando dal nostro ambasciatore. Il problema non è quindi nel come farli venire via, ma nel far venire via tutti o nel farli venir via i marò senza irritare l’India. E l’idea di un blitz militare non sembra proprio la più adatta allo scopo. Poi c’è anche che il marò rimasto in India, Massimiliano Latorre oggi non sta più all’albergo Trident di Kochi da un bel pezzo, si trova infatti nella capitale, ospite da tempo della nostra ambasciata insieme al commilitone ora in licenza. Da tanto tempo che già sono emersi problemi di convivenza con la moglie dell’ambasciatore. A differenza di Kochi e dell’abergo Trident, l’ambasciata di New Delhi dista circa un migliaio di chilometri dal mare, un po’ troppi per pensare che l’uso dello Scirè resti un’opzione praticabile o che sia una buona idea quella di trasportare attraverso tutta l’India Latorre, l’ambasciatore e la famiglia (quantomeno) all’interno di cesti per la biancheria. Che poi l’ambasciata non è un albergo, servirebbe proprio un altro trucco al posto dei cesti. Fatti rilevanti e considerazioni che Gaiani che ha mancato. Un vero peccato. E pensare che in fondo all’articolo Gaiani pregusta addirittura il successo di cotanta beffa e volge il ricordo commosso alle imperiture gesta dei nostri eroici marinai: Per questo l’unica risposta che l’Italia può dare a Nuova Delhi è riportare a casa Latorre e Girone con l’astuzia e un colpo di mano che rinnoverebbe (senza sparare un colpo e senza affondare una sola nave), le gesta degli incursori che nella Prima guerra mondiale violarono la base navale austriaca di Premuda e nella Seconda quelle britanniche di Alessandria e Gibilterra. Una beffa che darebbe una lezione all’arroganza dell’India e qualche punto all’orgoglio nazionale di un’Italia che oggi più che mai ha bisogno di eroi. Sul bisogno d’eroi non m’esprimo, ma è mia opinione che buffonate del genere non facciano il bene del paese e neppure quello dei marò. Purtroppo non finirà qui, attorno ai maro’ si è raccolto un circo di patrioti da operetta, perfettamente allineato a Libero per stile e qualità. Lo spettacolo continuerà e non mancheranno altre esibizioni del genere.

I due Marò abbandonati e traditi da due governi, la Bonino fa melina, Letta non chiede l'arbitrato internazionale, scrive Fernando Termentini su “Veritalia”. Il Temporeggiatore tiene lontano Annibale da Roma! Tra poche ore sapremo il destino dei nostri Fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, o meglio NON  sapremo il loro destino, vi sono molti strani indizi che lasciano pensare che domani la corte suprema indiana rinvierà ulteriormente la decisione su questo sequestro che si trascina da due anni con la complicità di due governi Italiani vergognosi, che per motivi oscuri lasciano il pallino del gioco in mano indiana e non si attivano con l' unica procedura che il diritto internazionale prevede, l' arbitrato internazionale, uno strumento per dirimere le controversie fra stati. Da tanto tempo denunciamo il non fare da parte della signora Ministro Bonino e del Presidente Letta che da novelli Ponzio Pilato, hanno incaricato il bellimbusto già scelto dal Governo Monti Staffan De Mistura per ... " non fare niente " , ascoltando le notizie provenienti dai ridestati media ci rendiamo conto che sta per andare in scena l' ennesima truffa verso i cittadini da parte di questo scellerato Governo, hanno avuto oltre 10 mesi per agire, ma tolto il sintetico commento di Enrico Letta il giorno dell' insediamento " i Marò sono una priorità di questo esecutivo ", si è scelto di seguire  la linea raccontata da Livio nel famoso verso " Fabius quoque movit castra... " La cosa assurda è che questa tattica usata da Quinto Fabio Massimo passato alla storia come il Temporeggiatore, non impedì ad Annibale di distruggere l' esercito Romano l' anno seguente nella battaglia di Canne in Puglia,  (la più grande disfatta mai subita dai Romani ). Continua a serpeggiare il dubbio che questa vicenda sia legata a doppio filo alla vicenda delle tangenti versate a personaggi vicino a Sonia Gandhi per la fornitura degli ormai famigerati elicotteri, e guarda caso nel momento in cui il governo Indiano ha cancellato la commessa a Finmeccanica l'arbitrato internazionale è stato prontamente richiesto. Ipotizziamo a questo punto, e nemmeno dobbiamo sforzarci di fantasticare tanto che:

1) La sentenza è già concordata, si tratterrà di una pena inflitta dal tribunale indiano che dovrà sembrare una vittoria per l'opinione pubblica Italiana, dopo che è stato fatto terrorismo mediatico paventando la pena capitale per i due Fucilieri.

2) si ritarderà ulteriormente il processo, facendo in moto che la fine del processo slitti a dopo le elezioni indiane, (a tal riguardo segnaliamo le proteste dei pescatori orchestrate con perfetto tempismo in Kerala a due giorni dalla decisione della corte suprema).

3) in virtù dell'accordo tra i due stati per far scontare le pene ai condannati nel paese d' appartenenza firmato dal governo Monti, ci sarà il rientro in Italia dei Fucilieri, ma da condannati.

4) l' unico esponente di un certo livello che ha sempre ribadito che l' unica via percorribile per far tornare in Italia Max e Salvo è l' ex Ministro degli affari Esteri Giulio Terzi di S. Agata che con un moto di orgoglio diede le dimissioni dall' incarico poichè non si sentiva di avallare il sequestro dei Fucilieri con la compiacenza del caro Monti e le pressioni dei gruppi economici portate da Corrado Passera nel vergognoso consiglio dei ministri in cui fu deciso il rinvio in India di Max e Salvo.

5) circola in rete da poco tempo una perizia alquanto fantasiosa che sicuramente è stata richiesta dai poteri forti per far passare l'accaduto come una fatalità, e quindi ammettere la versione indiana che a nostro avviso in qualsiasi tribunale porterebbe ad una assoluzione per insufficienza di prove.

6) a conferma dei punti precedenti vi è l' intenzione indiana di istituire un processo in base ad una legge speciale che porta l' imputato a dover dimostrare la propria innocenza, cosa alquanto inaudita e fuori da ogni correttezza tipica da un tribunale che normalmente dovrebbe basare tutti i procedimenti sulla presunzione di innocenza lasciando che sia la pubblica accusa a presentare le prove, non a caso questa legge, la famigerata Sua Act è usata contro i terroristi ed ha una polizia speciale incaricata delle indagini.

7) ultimo punto... ricordiamo ai lettori l' appello lanciato ai giornalisti presenti all' ambasciata Italiana in occasione della visita della delegazione parlamentare a Delhi da Massimiliano Latorre, " raccontate la verità ", ed eccola la verità, i nostri uomini sono innocenti e saranno processati e condannati per favorire le due caste, quella indiana arcinota e quella Italiana occulta, di seguito il contributo video che non manchiamo di sottolineare, e un interessante scritto del Gen. Fernando  Termentini, uno dei pochi a condannare vivamente questo sequestro indiano e la " ammuina " italiana. Il comandante in seconda della nave Enrica Lexie, dice ai microfoni di Radio Capital le seguenti parole " non sono stati i Marò a colpire i pescatori" ed ecco l'interessante articolo da leggere a fondo: Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, cosa accadrà il 10 febbraio. Domani, 10 febbraio 2014, la Corte Suprema indiana dovrebbe emettere il verdetto decisivo su come procederà sul piano giudiziario nei confronti dei due nostri Fucilieri di Marina ceduti dall’Italia all’India per un’indebita azione penale e contro ogni dettato del diritto internazionale e di quello pattizio. Una storia dai connotati molto oscuri che trova origine da due atti fondamentali. L’assoluta disattenzione indiana del Diritto internazionale e della Convenzione del Mare (UNCLOS) per quanto attiene alla collocazione di dove dovrebbero essere avvenuti gli eventi, 20,4 miglia dalla costa, assolutamente in acque internazionali. La totale noncuranza italiana per non aver preteso l’applicazione del diritto di immunità funzionale riconosciuto dal diritto pattizio a tutti i militari del mondo, se coinvolti in eventi gravi in occasione dell’espletamento del compito loro assegnato dallo Stato di appartenenza. Prerogativa peraltro riconosciuta dall’India ai suoi militari anche nel caso di reati volontari come avvenuto recentemente in Congo dove due soldati inquadrati nel contingente di pace Onu hanno stuprato una donna. Una data fondamentale il 10 febbraio, dopo 24 mesi di gioco delle tre carte gestito da un’India disattenta alle regole, poco rispettosa dell’Italia, ma molto sensibile alle pressioni interne esercitate da caste potenti, qualcuna forse vicina anche alle organizzazioni malavitose locali complici della pirateria marittima. Cosa deciderà la Corte Suprema indiana non è facile prevederlo, qualsiasi ipotesi potrà essere sconfessata considerata la elasticità di interpretare ed applicare le leggi in vigore nel Paese, come è fino ad ora avvenuto. Un esempio fra tutti, la decisione del 18 gennaio 2013 della Suprema Corte che pur ammettendo che i fatti fossero avvenuti in acque internazionali, decideva di instituire un Tribunale Speciale con un giudice monocratico al quale affidare il caso incaricando la NIA di svolgere le indagini. Siamo arrivati ad oggi passando da una serie di rinvii di giudizio non sempre motivati, accompagnati però da parole di estremo ottimismo di molti rappresentanti istituzionali italiani. Per costoro tutto sarebbe dovuto terminare entro dicembre 2013 e Massimiliano e Salvatore avrebbero trascorso liberi il Natale a casa. Certezze avvalorate da affermazioni di condivisione dell’approccio indiano alla vicenda, come quelle ufficializzate a maggio u.s. dal Vice Ministro agli Esteri Pistelli quando, pur male informato sullo status dei due Fucilieri di Marina da lui chiamati “Lagunari”, ci riferiva di “Regole di ingaggio” condivise e sottoscritte con l’India.  Il tutto accompagnato dalle continue assicurazioni del dott. Staffan de Mistura sulla sicurezza di un processo equo e rapido, completamente mutuate in più di un’occasione dal Ministro degli Affari Esteri Emma Bonino, in verità, però, sempre molto distaccata dal caso forse perché allergica alla foggia delle uniformi militari. A qualche ora dalla decisione che tutti aspettiamo dall’India la notizie si accavallano e, come di consueto, molte sono in contraddizione tra loro con lo scopo di portare avanti l’azione di disinformazione in corso da 24 mesi focalizzata a ribadire la colpevolezza dei nostri Marò e nello stesso tempo a presentare al mondo “un’India comprensiva e pronta a concedere”. Domani, quasi sicuramente, la Suprema Corte ci dirà che i due Fucilieri di Marina saranno giudicati non più per atti di terrorismo, ma perché colpevoli di un atto di violenza in mare, un reato che prevede un ampio ventaglio di sanzioni, compresa la pena di morte. Pena capitale che, però, non sarà applicata dalla “magnanima India”, prevedendo solo dieci anni di carcere. Ieri sera una serie di notizie da Delhi confermano queste ipotesi. L’opinionista Siddharth Varadarajan, Accademico ed ex direttore Hindu dichiara “Quando il processo nei confronti dei marò comincerà, la questione della giurisdizione indiana potrà essere contestata dall'Italia", come peraltro contemplato nella sentenza della Corte suprema del gennaio 2013. La difesa italiana - ha aggiunto - potrebbe presentare un secondo ricorso anche presso la stessa Corte suprema che un anno fa aveva sottratto il caso alla polizia del Kerala”, ma in questo caso “i tempi si allungherebbero notevolmente". ''The Asian Age'' ricorda che dopo avere dato il via libera alla Nia di perseguire Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sulla base del Sua act, adesso il Ministero dell’Interno ha rivisto la sua posizione e i due fucilieri di Marina saranno processati con una legge che prevede un massimo di reclusione di 10 anni e una multa.  The Times of India sostiene che il ministero dell'Interno ha mantenuto l'uso della Legge per la repressione della pirateria (Sua Act del 2002) disponendo che sia applicato l’art.3 comma 'a' che prevede che chi "commette un atto di violenza contro una persona a bordo di una piattaforma fissa o una nave e che mette in pericolo la navigazione sicura di essa sarà punito con la prigione per un periodo che può giungere fino a dieci anni ed è sottoponibile a multa". The Indian Express, da parte sua, ribadisce che contro Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sarà applicata la sezione 302 del Codice penale indiano che implica una possibile condanna a morte, anche se “la possibilità per gli imputati di essere condannati alla pena capitale - conclude il giornale - è' davvero bassa”. Nessun giornale indiano ci dice però come New Delhi intenda uscire da questa nuova situazione estremamente confusa, lasciando in sospeso l’importantissima decisione a quale agenzia sarà affidato il caso, con un sicuro e scontato allungamento dei tempi. Il dott. de Mistura, da parte sua, rilascia un’intervista al quotidiano Il Tempo nella quale ci ricorda che “Lunedì sarà il giorno della verità” e che “Ora l'accusa deve scoprire le sue carte e per ognuna di queste abbiamo pronte le contromosse”. Parole rassicuranti, ma poco concrete. Infatti se la Corte indiana deciderà di applicare la SUA pur derubricando il reato da evento terroristico ad atto di violenza, l’accusa non sarà tenuta a scoprire alcuna carta perché l’ordinamento giuridico indiano con riferimento alla SUA prevede che chi dovrà scoprire le proprie carte deve essere la difesa dei due Marò per affermarne l’innocenza. ll dott. de Mistura precisa, anche, che lunedì 10 non potrà essere considerato come  "il giorno del giudizio", ma dimentica di chiarirci se il giudice potrebbe accogliere l’istanza della pubblica accusa sulla revoca dell’affidamento giudiziario all’Ambasciata italiana  dei due Fucilieri, nel qual caso si potrebbe prospettare l’arresto dei due. Conclude l’intervista con la frase “Ora dobbiamo riportare a casa con onore Girone e Latorre”. Non possiamo condividere queste conclusioni perché non si può accettare che si parli di onore dopo aver riconosciuto all’India l’indebito diritto di giudicare ed emettere una sanzione detentiva di dieci anni. Sicuramente se tutto ciò avvenisse la vicenda non verrà conclusa con un “soluzione onorevole” anche se in molti si impegneranno per dimostrala tale. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone appartengono alle nostre Forze Armate e sono stati catturati e detenuti in modo assolutamente illegittimo dall'India mentre erano in missione antipirateria nell'interesse di tutta la Comunità internazionale. Latorre e Girone devono essere restituiti all'Italia "con onore", come ha sottolineato lo stesso Capo dello Stato e quindi rimandati in Patria senza alcuna condanna nei loro confronti e non “portatori di condanne concordate” attraverso non meglio definite regole di ingaggio di cui si è parlato, per poi essere restituiti all’Italia in base all’accordo bilaterale dell’agosto 2012 sulla gestione dei condannati italiani o indiani. Qualsiasi cosa sarà decisa domani non sarà un episodio che riguarderà solo Latorre e Girone. Ogni decisione diversa da un immediato rimpatrio dei Fucilieri di Marina senza alcun addebito nei loro confronti, rappresenterebbe, infatti, un precedente aberrante e pericolosissimo per tutti i nostri soldati impegnati in missione all'estero. Se accettato dall’Italia, sancirebbe la rinuncia esplicita alla Sovranità nazionale sulle sue Forze Armate con una ricaduta assolutamente negativa sul ruolo internazionale del Paese e soprattutto sulla sua credibilità nel tutelare all'estero i nostri connazionali e le nostre imprese. Alla luce di quanto noto, invece, domani con ogni probabilità si attuerà quanto condiviso e sottoscritto fin dall’inizio fra Italia ed India come ci ha raccontato a maggio u.s. il Vice Ministro Pistilli, magari con una postilla aggiuntiva all'accordo: i Fucilieri una volta condannati rientreranno in Italia solo dopo che esponenti del governo indiano verranno esclusi da qualsiasi coinvolgimento con le vicende giudiziarie di Finmeccanica. Un altro pezzo importante della storia della nostra Nazione gestito con frettolosa segretezza senza il coinvolgimento dell’opinione pubblica e del Parlamento. La storia si ripete, accadde anche il 10 novembre 1975 quando Italia e Yugoslavia firmano un Trattato per trasferire alla Yugoslavia la sovranità statuale sulla Zona B del Territorio libero di Trieste. Forse proprio anche a questa tradizione tutta italiana si riferiva il Ministro degli Esteri Bonino quando più volte in questi mesi si è richiamata ad una “secret diplomacy” di kissingeriana memoria ed ha sempre invocato la massima riservatezza. Quello stesso Ministro che ora si indigna se l’India decidesse di applicare comunque la Sua Act, come ha dichiarato ieri sera alla stampa dicendo, "Talune anticipazioni che provengono oggi da New Delhi sull'iter giudiziario del caso dei nostri fucilieri di Marina mi lasciano interdetta e indignata”.  Forse Signora Ministro la sua indignazione non sarebbe tale se si fosse esposta per caldeggiare la sorte dei due militari italiani. Piuttosto, la sua scelta di rilanciare al Premier l’onore della decisione in una questione di politica internazionale di primaria importanza non le danno il diritto di indignarsi. Piuttosto, almeno si impegni perché martedì si dimetta chi fino ad ora ha confidato in soluzioni “eque, rapide e giuste” e sia dato immediato corso alla costituzione di una Commissione di inchiesta Parlamentare che accerti le responsabilità oggettive di chi ha deciso il 22 marzo 2013 di restituire i nostri militari all’India, i motivi che hanno indotto a tale decisione e perché non sia stato avviato l’Arbitrato Internazionale.

Terzi: "Monti ha tradito i nostri marò", scrive Maria Giovanna Maglie su “Libero Quotidiano”. «Sì, lo confermo: nel mese di luglio il presidente della Croce Rossa Internazionale ha offerto al governo italiano i buoni uffici dell’organizzazione, e non ha mai avuto risposta. È profondamente sbagliato immaginare la risoluzione di una vicenda seria e grave di politica estera attraverso la scorciatoia di una malattia o di un malore pur seri, ma se quell’offerta fosse stata presa in considerazione come doveroso, oggi riportare a casa i marò sarebbe più semplice. Sottolineo anche che nel contenzioso su Finmeccanica, nonostante la contrarietà degli indiani, un arbitro internazionale è stato nominato per decisione del presidente della Camera di Commercio internazionale: a dimostrazione che, se si tratta di affari, decisioni anche conflittuali si prendono in sedi internazionali. Ma per due militari che hanno compiuto il proprio dovere la debolezza è micidiale, le chiacchiere nauseanti. Sono passati 523 giorni e tre governi: è una macchia indelebile sulla nostra dignità di nazione». Se c’è uno che la storia dolorosa di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone la conosce nelle pieghe, nelle miserie, nei retroscena, è Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri del governo Monti fino al giorno di clamorose e pubbliche dimissioni in risposta all’imbroglio della riconsegna all’India dei due marò. Terzi è una figura rara di public servant, una carriera brillante culminata come ambasciatore in posti chiave come Israele, le Nazioni Unite, Washington, prima della nomina alla Farnesina. Per un anno si è beccato con stile accuse e insulti, anche i miei, perché lavorava silenziosamente a un arbitrato internazionale che consentisse di non far rientrare i due marò in permesso in Italia senza violare alcun accordo né commettere scorrettezze. Gli era riuscito, poi ha capito quale gioco sporco si stesse giocando. E ha deciso per il beau geste, la denuncia pubblica. Trasformandosi in testimone scomodo per chiunque si provi a ciurlare nel manico, a fare annunci muscolari a cui seguono solo inerzia e complicità.

«Appena ho avuto notizia di questo incidente, avvenuto fuori dalle acque territoriali indiane, e della richiesta della Guardia Costiera indiana di far invertire la rotta alla Enrica Lexie per indirizzarla verso il porto di Kochi, ho subito detto che la nave non doveva lasciare le acque internazionali. Dovevamo tenere la nostra nave e i nostri militari in sicurezza: in acque internazionali la giurisdizione italiana sulla propria nave di bandiera era incontestabile. La risposta che mi arrivò mi sorprese e irritò: mi riferirono che l’incidente si era verificato diverse ore prima, e che la nave aveva già invertito la rotta, eseguendo ordini e indicazioni del ministero della Difesa: perciò, nel momento in cui mi era stata fatta la prima comunicazione, si trovava già circondata da unità della Guardia Costiera indiana, e molto vicino al porto di Kochi. Chiesi subito copia di tutte le comunicazioni tra Unità di Crisi della Farnesina e Autorità militari, e dovetti constatare con estremo disappunto che il ministero della Difesa aveva informato l’Unità di Crisi della Farnesina soltanto parecchie ore dopo».

Veniamo ai giorni dello scandalo. Lei annunciò la decisione di trattenere definitivamente i marò che per la seconda volta erano in permesso in Italia, ma dopo qualche giorno furono costretti a ripartire per l’India, e lei si dimise. Che cosa accadde?

«Il primo ritorno dei nostri sottoufficiali in Italia, il “congedo natalizio” a fine 2012, lo avevo ottenuto personalmente a seguito di una conversazione con il mio omologo indiano Salman Khurshid, come gesto simbolico di distensione dell’India nei confronti dell’Italia per il prosieguo di questa vicenda. Lo ottenemmo sulla base di un affidavit, che poi venne replicato anche per la licenza elettorale del febbraio-marzo successivo. Nell’affidavit avevamo inserito una clausola importante: il governo italiano s’impegnava, tramite l’ambasciatore a Nuova Delhi, a fare “tutto il possibile” per far tornare i marò in India a fine licenza. Ciò significava che se la magistratura italiana, presso la quale erano aperti da inizio novembre 2012 due procedimenti penali per l’incidente che veniva addebitato a Latorre e Girone (uno presso la Procura militare e uno presso quella ordinaria), avesse trattenuto il passaporto ed emanato misure cautelari, impedendo che i due ripartissero dall’Italia per tutto il periodo delle indagini e del processo, nessuno avrebbe potuto dire nulla». «Al primo rientro dei due marò chiesi al presidente del Consiglio Monti di sollecitare la Procura di Roma, come avvenuto in altri casi, ad esempio quelli di Lozano e Baraldini. Quando Latorre e Girone tornarono per votare, in febbraio, vi era peraltro stato un nuovo importante sviluppo. Il 18 gennaio la Corte Suprema indiana aveva emanato una sentenza sul ricorso inoltrato dai legali di Latorre e Girone: per la Corte Suprema l’incidente nel quale era incorsa la Lexie configurava un’azione antipirateria avvenuta al di fuori delle acque territoriali indiane, e quindi era coperta dall’articolo 100 del Trattato UNCLOS (la Convenzione Onu sul Diritto del mare). Poteva allora entrare in campo l’arbitrato, previsto quando le consultazioni bilaterali non hanno dato esito. L’arbitrato può essere di due tipi: consensuale se i due Paesi nominano di comune accordo i loro arbitri; obbligatorio se una delle due parti non accetta l’arbitrato. La nazione che accetta l’arbitrato, a discapito di chi lo rifiuta, può chiedere la nomina d’ufficio e procedere comunque. In quel febbraio del 2013, dunque, dopo consultazioni interministeriali approfondite, si decise di chiedere formalmente all’India l’attivazione di un arbitrato consensuale. L’India rispose che non voleva saperne, reiterò questa risposta negativa ripetutamente. A quel punto il governo italiano annunciò di voler trattenere in Italia i marò fino a che l’arbitrato obbligatorio, che parallelamente stavamo attivando, non avesse stabilito quale Paese avesse giurisdizione. Tutti eravamo d’accordo, facciamo un comunicato del governo in due occasioni diverse, a distanza di una settimana, e lo inviamo a 150 sedi su tutta la rete diplomatica. I toni indiani ovviamente montano, comprese le dichiarazioni di Sonia Gandhi, ma era scontato».

Non mi pare che ci fossero dei pericoli, la vicenda veniva finalmente riportata sui binari del diritto internazionale. Certo, si apriva formalmente una controversia fra due grandi Paesi, ma c’erano tutti gli estremi per gestirla in modo civile. Invece...

«Invece il 21 marzo parte una convocazione del presidente del Consiglio per una riunione riservata dei ministri più interessati alla vicenda. Il giorno precedente alla convocazione avevo ricevuto un paio di telefonate nelle quali mi si allertava che un collega di governo si stava agitando freneticamente perché temeva per gli interessi economici in India, e riteneva che i due marò dovessero essere rispediti indietro immediatamente. Mi preparai a sostenere con il dovuto vigore la validità di una linea che era stata sino a quel punto fortemente condivisa soprattutto dai ministri della Difesa e della Giustizia, oltre che dal premier. Ma, con profonda tristezza, mi resi conto che ero rimasto solo. Nonostante la mia netta opposizione ci si rivide la mattinata successiva, e lì la decisione era stata presa. Il giorno dopo, il ministro della Difesa Di Paola e il sottosegretario de Mistura andarono a convincere Latorre e Girone affinché ripartissero. Fornirono garanzie che tutto si sarebbe risolto in poche settimane: sappiamo che non ce n’erano. Ecco perché decisi di dare le dimissioni. Provai un grande dolore nel constatare di dover rappresentare nel mondo un Paese che si comportava dando così scarso valore alla propria sovranità e interesse nazionale». «Quel politico che si agitava era Corrado Passera, ma evidentemente Monti, Di Paola e gli altri erano d’accordo. A me risulta che Di Paola e de Mistura, oltre che dare garanzie, minacciarono pesantemente i due marò. Non solo non hanno pagato, hanno avuto vistose ricompense. È passato un anno e mezzo da quei momenti, prima c’è stato un inutile governo Letta poi un bellicoso Renzi, che appena insediato chiamò i marò e promise azioni efficaci. Che cosa è stato fatto?». Non è stato fatto assolutamente nulla.

La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Qualche tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l'invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni. Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. "Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa". Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo. Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano. Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò. Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano. Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene. Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro. Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico. Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano. Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto. Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.

MM.DE GIORGI: CALUNNIE, QUERELO STAMPA. Tweet 12 aprile 2016 22.17. "I fatti riportati sui giornali e nei servizi televisivi, attribuiti alla mia persona, sono del tutto infondati e ledono l'onore ed il decoro del sottoscritto. Sentito il mio avvocato, non ho potuto esimermi, per la mia posizione pubblica, dal querelare gli autori". Così in una nota il capo di stato maggiore della Marina, De Giorgi, sul dossier anonimo nei suoi confronti. "La cosa mi amareggia, per il mio ben noto rispetto verso gli organi di stampa e verso la libertà di informazione. Auspico l'individuazione dei calunniatori".

“Coprì le carte sui marò”: ecco le nuove accuse nel dossier su De Giorgi. L’anonimo insinua: tangenti per appalti milionari e feste allegre. La difesa dell’ammiraglio annuncio un contro esposto per individuare la gola profonda: “Solo fantasiose illazioni”. Spregiudicato al punto di «ripulire le carte che avrebbero danneggiato l’ammiraglio Binelli nell’inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone». «Arrogante e dittatore» verso i colleghi che non si piegavano al suo volere, tanto da esasperare un collega fino al suicidio. Malignità e attacchi gratuiti? È impietosa la ricostruzione dello stile disinvolto del capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, fornita dal dossier anon...continua Grazia Longo.

Nuove ombre su De Giorgi: ​"Ha coperto le carte sui marò". La mano dell'Ammiraglio De Giorgi avrebbe ripulito le carte che incastravano il collega Binelli sulla responsabilità che portarono alla consegna dei marò Latorre e Girone alle autorità indiane, scrive Gabriele Bertocchi, Mercoledì 13/04/2016, su "Il Giornale". "Solo fantasiose illazioni" così la difesa De Giorgi cerca di annegare le accuse contro l'ammiraglio. Ma tra i festini, le allegre signorine e gli elicotteri usati a suo piacimento viene a galla anche un retroscena che coinvolge i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Nel dossier anonimo spedito, tra gli altri, alle procure di Roma e Potenza, il Capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi viene descritto come un dittatore, arrogante e spregiudicato a tal punto di "ripulire le carte che avrebbero danneggiato l'ammiraglio Binelli nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone". Un retroscena, riportato da La Stampa, che viene fuori dal progetto per i finanziamenti della flotta navale. Una situazione a cui l'ammiraglio dovrà rispondere dopodomani davanti ai pm di Potenza che lo hanno indagato per abuso di ufficio nel filone dell'inchiesta al Porto di Augusta. La gola profonda che ha steso il dossier scrive, a proposito dei finanziamenti, "in Marina è nota come la tangente De Giorgi-Passarella". Quest'ultimo è il dirigente pensionato della Ragioneria dello Stato piazzato al Mise come consulente dell'ex fidanzato di Federica Guidi, Gianluca Gemelli. L'anonimo inoltre rivela che "i toni delle critiche in seno allo stato maggiore della difesa erano talmente alti - Aeronautica ed Esercito avevamo maldigerito ammodernamento della flotta - che l'Ammiraglio Binelli, pur riconoscente nei confronti di De Giorgi per avergli ripulito molte carte che lo avrebbero danneggiato nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei marò Latorre e Girolamo, si affrancò dall'impresa suggerendo a De Giorgi di evitare di andare oltre". Nonostante le dettagliate accuse la Marina bolla i "fatti contenuti nel dossier come inesistenti".

"Ecco le carte per liberare marò snobbate da governo e Difesa". Presto alle stampe un libro con la dettagliata perizia che dimostra l'innocenza di Latorre e Girone. Presentata al ministero della Difesa nel 2013, non è stata poi debitamente considerata, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 20/04/2016, su "Il Giornale". Un documento che, a detta degli autori, sarebbe esaustivo per escludere "l'illecità del comportamento dei due marò". Tradotto: Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono innocenti. Ci sono le carte, ma il governo e la Difesa le hanno in qualche modo ignorate. Continuando a mantenere una linea che ha prolungato sine die la detenzione dei marò. Gli autori del rapporto "nome in codice DREADNOUGHT", Diego Abbo (Capitano di vascello) e Alfredo Ferrante, ne sono certi: la loro ricerca, che presto diventerà un libro, mette in risalto con dettagliate analisi dei dati la manifesta non colpevolezza dei fucilieri italiani. Ma non solo. Il loro lavoro permette anche di "identificare, senza tema di smentita, delle condotte istituzionali che potrebbero essere penalmente rilevanti". Lo studio non è una novità. Non lo è per i vertici militari. Nel 2013, infatti, il rapporto venne presentato al delegato dell'allora ministro della Difesa, Mario Mauro. L'autore fu chiamato a conferire agli alti gradi della Marina, ma della relazione non se ne fece nulla. Abbo mise a disposizione il suo operato "senza però essere mai contattato". Gli autori hanno sviluppato la loro ricerca con una analisi duale. "Da un lato - si legge nel rapporto - è stata analizzata la componente dinamica in cui vengono ricostruite le rotte dell’Enrica Lexie e del St. Anthony". Dall'altro, sono state ricostruite le "traiettorie delle raffiche partendo dalla distribuzione dei colpi sulla tuga del St. Anthony e sulla loro velocità di impatto stimata". Infine, basandosi sugli atti presentati dall'India, è stata realizzata una "accurata analisi di balistica forense". Ciò che emerge da questi studi è che "la teoria dello spiattellamento (rimbalzo dei colpi sull’acqua) pone le basi per l’esclusione dell’illiceità del comportamento dei fucilieri di marina". Quindi, i marò avrebbero effettivamente sparato quei colpi, ma in acqua. Fatto che esclude la natura dolosa o colposa dell'atto. Seguendo questa linea si sarebbe potuti arrivare rapidamente alla sentenza di "non perseguibilità" di Latorre e Girone. E di evidenziare così la "buona fede" dei marò. Le istituzioni italiane, in particolare i ministeri di Difesa, Trasporti e Esteri, si sarebbero macchiate di "comportamenti omissivi" riguardo al "non adempimento di ben 8 inchieste obbligatorie per legge: 1) l’inchiesta sommaria e quella formale (previste dal codice della navigazione); 2) l’inchiesta di sicurezza (prevista dalla normativa discendente dalle direttive dell’Unione europea); 3) le inchieste sommaria e formale (previste dal Testo Unico dell’Ordinamento Militare); 3) l’inchiesta per infortuni sul lavoro (prevista dalla normativa antinfortunistica); 4) le due inchieste dello Stato di bandiera (la prima prevista dalla Convenzione di Montego Bay e la seconda in ottemperanza alla Convenzione internazionale volta a tutelare la sicurezza della navigazione mercantile)". Violazioni che peseranno sull'immagine dell'Italia e anche sul futuro dei fucilieri di Marina. Tra le istituzioni finite sotto accusa c'è però anche l'Europa. "Vengono individuati - si legge - dei comportamenti dell’Unione Europea non conformi alla sua stessa normativa afferente la sicurezza marittima". L'Ue, infatti, per bocca del Commissario Europeo per i Trasporti, Violteta Bulc, si era lavata le mani sulla vicenda marò, affermando che "le questioni militari ricadono nell’area di responsabilità degli stati membri". L'Europa sarebbe dovuta intervenire, richiamando il governo italiano all'ordine e spingendolo ad avviare tutte le necessarie inchieste. In sostanza, concludono gli autori, "l’atteggiamento dell’UE oltre a rappresentare una responsabilità extra contrattuale configura una violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in merito al diritto alla vita alla libertà e alla sicurezza".

I documenti ci sono. Ma i governi hanno fatto finta di nulla.

"Grazie giudici, li arrestiamo noi". Così l'Italia ha difeso (male) i marò. Dalle motivazioni del verdetto emerge la linea morbida del nostro governo e una lettera ossequiosa alle autorità indiane che 5 giorni dopo sbatteranno dentro i soldati, scrive Fausto Biloslavo, Domenica 20/01/2013, su "Il Giornale". La Corte suprema indiana ammette che nel tratto di mare dove i marò hanno sparato c'erano stati attacchi dei pirati e il peschereccio delle presunte vittime dei fucilieri di marina non poteva navigare in quella zona non essendo regolarmente registrato. Lo riporta, nero su bianco, l'ordinanza di venerdì sul caso di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Oltre cento pagine firmate dai giudici Altamas Kabir, presidente della Corte suprema, e J. Chelameswar, che svelano diverse «chicche» dell'imbarazzante vicenda. Il lungo testo dell'ordinanza della Corte suprema, in possesso del Giornale, si apre con l'ammissione che la zona dell'incidente è a rischio bucanieri. «Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un acuto incremento degli atti di pirateria in alto mare al largo della Somalia - scrivono i giudici - e anche nelle vicinanze delle isole Minicoy che formano l'arcipelago di Lakshadweep». Territorio indiano di fronte alla costa sud occidentale dove si trova lo stato del Kerala, che per quasi un anno ha illegalmente trattenuto i marò, secondo la Corte suprema di Delhi. Al punto 29 dell'ordinanza si scopre che il peschereccio St. Anthony, di circa 12 metri, scambiato dai marò per un vascello pirata, risulta registrato solo nel Tamil Nadu, un altro stato indiano. Però «non era registrato secondo l'Indian Merchant Shipping Act del 1958 (la normativa che regola la navigazione mercantile ndr) e non sventolava la bandiera dell'India al momento dell'incidente». L'importante requisito del rispetto della normativa del 1958 avrebbe permesso al peschereccio di navigare «al di là delle acque territoriali dello Stato dell'Unione (il Tamil Nadu ndr) dove l'imbarcazione era registrata». Questo significa che il 15 febbraio il St. Anthony non poteva far rotta nel tratto di mare dove ha incrociato i marò imbarcati sul mercantile italiano Enrica Lexie. Al punto 6 dell'ordinanza viene sottolineata l'apertura dell'inchiesta della procura di Roma contro Girone e Latorre e la pena prevista: «Per il crimine di omicidio è di 21 anni almeno di reclusione». Forse ai marò conviene rimanere in India. L'ordinanza cita ripetutamente l'avvocato Harish N. Salve, che si batte per la giurisdizione. «La Repubblica italiana ha un diritto di prelazione nel processare» i marò. Il legale chiama in causa due convenzioni internazionali, il Maritime Zones Act e l'Unclos, ambedue riconosciuti dall'India. L'articolo 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) sancirebbe che l'India non può processare i marò e tantomeno arrestarli per «un reato commesso a bordo di una nave straniera in transito». L'articolo 97 specifica che può procedere solo «il paese di bandiera della nave o lo stato di nazionalità delle persone coinvolte». Un altro cavallo di battaglia dell'avvocato Salve è l'articolo 100 dell'Unclos che invita «tutti i Paesi a cooperare nella massima misura alla repressione della pirateria al di là della giurisdizione dei singoli Stati». Una chicca riportata nell'ordinanza è la nota verbale 95/553 dell'ambasciata italiana inviata il 29 febbraio scorso al ministero degli Esteri indiano. Undici giorni prima, Girone e Latorre erano stati prelevati dalla polizia a bordo del mercantile Lexie fatto rientrare con un tranello nel porto di Kochi. I nostri diplomatici ribadiscono la giurisdizione italiana e l'immunità dei fucilieri di marina, ma «accolgono con favore le misure prese dal chief Judical Magistrate di Kollam per la protezione della vita e dell'onore dei militari della marina italiana». Peccato che cinque giorni dopo Girone e Latorre sono stati prelevati dalla guest house della polizia che li "ospitava" agli arresti e sbattuti in galera.

Non solo Girone. Oltre tremila gli italiani detenuti all’estero, scrive Damiano Aliprandi il 20 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Caso emblematico è quello di Giuliano Provvisionato, recluso in Mauritania da più di otto mesi, che ha scritto un appello al Presidente della Repubblica. Se per il marò Salvatore Girone è finita l’odissea della detenzione indiana, ce ne sono altri 3000 italiani detenuti all’estero che si stanno confrontando con sistemi legali che non contemplano nemmeno i più elementari diritti e garanzie. Con la differenza che non hanno nessun riflettore mediatico puntato. Il caso più recente riguarda il milanese Cristian Giuliano Provvisionato che da più di otto mesi vive recluso nel carcere della Mauritania. Recentemente ha scritto al Presidente della Repubblica per chiedergli “con tutto il cuore un intervento per farmi rientrare in Patria il più presto possibile”. Nella lettera l’uomo ricostruisce la sua vicenda, spiegando di essere tenuto agli arresti per reati mai commessi. Provvisionato racconta di essere stato mandato in Mauritania nell’agosto scorso dall’azienda per cui lavorava, che opera nel campo delle investigazioni private, per sostituire un altro italiano che doveva rientrare in Italia. Il compito doveva essere quello di fare una dimostrazione di alcuni prodotti di una società straniera al governo mauritano. In realtà, scrive, “sono stato mandato con l’inganno per togliere da una brutta fine l’altro italiano”, perché la società straniera aveva probabilmente truffato il governo mauritano. Ma, si legge nella lettera, “il governo mauritano si ostina a tenermi in detenzione anche davanti all’evidenza che sono parte lesa come loro in questa vicenda. È un fatto gravissimo: sono l’unico agli arresti mentre tutti i veri responsabili di questa truffa sono liberi. Provvisionato sottolinea che, nonostante tutti gli sforzi della Farnesina e dell’ambasciata italiana di Rabat, “c’è un muro da parte delle autorità mauritane che non vuole cedere”. E invoca quindi l’intervento di Mattarella “contro questa gravissima ingiustizia”. E finisce con una supplica rivolta al capo dello stato: “La prego di fermare tutto questo prima che si trasformi in una tragedia, ho già perso 25-30 kg, non posso curarmi come dovrei, non posso sostenere le giuste visite mediche per il diabete, inizio a temere seriamente per la mia salute”. I dati dei detenuti italiani all’estero sono inquietanti. Il ministero degli Esteri ha messo a disposizione gli ultimi riguardanti l’anno 2015. Risulta un totale di 3.309 reclusi all’estero di cui 2.602 in attesa di giudizio, 671 stati condannati e 36 in attesa di estradizione. Il dato più curioso è che il record della detenzione degli italiani all’estero ce l’ha la Germania: un totale di 1.229 detenuti, tra i quali ben 1.087 sono in attesa di giudizio e 123 condannati definitivamente. Nel resto del mondo, il maggior numero dei detenuti si trova in Brasile con 75 italiani reclusi in condizioni a dir poco degradanti; al secondo posto ci sono gli Usa con un totale di 68 detenuti. Dal dossier emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla "Convenzione di Strasburgo" del 1983 e da diversi "Accordi bilaterali" nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è negata l’assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e frequentemente le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi un’idea dettagliata del processo. C’è il caso emblematico avvenuto in India. Ovvero quello riguardante Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all’ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare l’anno scorso in Italia. Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell’hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell’autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d’asma. Quando poi venne chiesto un secondo esame autoptico, non fu possibile eseguirlo perché l’obitorio era infestato dai topi e così il corpo di Montis venne cremato. I due vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico Ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani sono stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: i barak, ospitano circa 140 detenuti con temperature che arrivano a 50 gradi. Costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno. Solo quest’anno la sentenza della Corte suprema li ha scarcerati perché dichiarati innocenti. Negli Usa c’è il celebre caso di Enrico Forti, condannato all’ergastolo con l’accusa di omicidio. Il suo calvario inizia la mattina del 16 febbraio del 1998 quando, in una spiaggia della Florida, viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike. Di questo omicidio viene accusato Forti, che era in trattativa con il padre di Dale per l’acquisto di un albergo. Nonostante si sia sempre dichiarato innocente e le prove a suo carico siano inconsistenti, la giuria americana lo ha condannato all’ergastolo affermando che “La Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l’istigatore del delitto “. E non mancano i casi di morte sospetta come la terribile storia di Mariano Pasqualin, un giovane di Vicenza arrestato per traffico di droga nella Repubblica dominicana nel giugno del 2011. Dopo pochi giorni dal suo arresto, è stato ritrovato morto in circostanze molto sospette. La famiglia aveva richiesto di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che svelasse le cause del decesso, ma le autorità della Repubblica dominicana avevano, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. E la possibilità di fare luce sul caso è svanita definitivamente. Altro terribile caso di morte è la storia di un italiano che era recluso in Messico. Si tratta del bancario leccese Simone Renda che morì nel 2007 in una cella di Cancun, dopo essere stato arrestato per un banale episodio di ubriachezza molesta. Dapprima ricattato dalla polizia, fu rinchiuso poi in una cella rovente senza possibilità di accedere ad alcuna assistenza né legale né medica. Morì per disidratazione dopo due giorni di privazioni e violenze. Si era tentato di fare un processo in Italia per omicidio nei confronti del giudice, il responsabile dell’ufficio ricezione del carcere, tre guardie carcerarie, due vicedirettori del carcere e due agenti della polizia turistica, tutti messicani. Ma a causa della loro irreperibilità il processo ancora non è partito. Non mancano gli italiani reclusi per il reato di immigrazione clandestina. Ci sono Paesi - con rigide norme contro l’immigrazione - dove gli italiani non solo rischiano di essere espulsi, ma rischiano l’incriminazione proprio come avviene nei nostri confini in esecuzione della legge 94 del 2009: la metà circa degli italiani reclusi per immigrazione clandestina si trova in carceri europee, il 25% in America e il 22% in Asia e Oceania.

·         Ingiustizia. Il caso di Vallanzasca spiegato bene.

 “Anche Renato Vallanzasca ha diritto a non marcire in galera”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 luglio 2020. L’avvocato di Renato Vallanzasca chiede la libertà dopo 50 anni passati in galera: “Lo Stato non può torturalo”. «Per la prima volta dopo oltre trent’anni di attività forense sono costretto a rinunciare alla difesa di un cliente», afferma l’avvocato milanese Davide Steccanella, difensore di Renato Vallanzasca, appresa la notizia che il Tribunale di sorveglianza del capoluogo lombardo ha nuovamente rigettato qualche giorno fa sia la domanda di liberazione condizionale che quella per il ripristino del regime della semilibertà per l’ex bandito della Comasina. «Rinunciare alla difesa di un cliente è un gesto doloroso che metto tra le esperienze più avvilenti e frustranti», prosegue Steccanella che fra i suoi assistiti annovera anche il terrorista Cesare Battisti. Nell’ultimo provvedimento di rigetto, il Tribunale di sorveglianza scrive che ogni richiesta è prematura in quanto è necessario «un percorso graduale» e manca «la prova del ravvedimento».

La storia di Renato Vallanzasca. Vallanzasca, classe 1950, dopo una iniziale detenzione al Beccaria e in altri istituti di reclusione minorile, venne arrestato la prima volta a 19 anni nel 1969 e una seconda volta agli inizi del 1972, rimanendo in stato di detenzione fino alla prima evasione del luglio del 1976.Riarrestato a febbraio del 1977, è poi rimasto ininterrottamente, tranne per i 20 giorni all’ulteriore evasione del luglio del 1987, in situazione di carcerazione totale, fino alla concessione della semilibertà ad ottobre 2013. Quindi per 36 anni. La semilibertà si interruppe a giugno del 2014 quando Vallanzasca venne arrestato in flagranza a seguito di un taccheggio in un supermercato a Milano.«E’ un arco temporale detentivo di 47 anni che va dal 1972 al 2019, con un intervallo complessivo di meno di un anno per le due evasioni degli anni Settanta e di otto mesi di semi-libertà: un record italiano», aggiunge Steccanella, ricordando che quando Vallanzasca iniziò la detenzione «presidente Usa era Nixon e dell’URSS Breznev, era in pieno corso la guerra del Vietnam e due Paesi confinanti col nostro (Grecia e Spagna) vivevano ancora sotto il giogo di dittature militari di stampo fascista».Vallanzasca è stato condannato a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione. Fra i reati, concorso in omicidio, evasione, sequestro di persona, furto, detenzione e uso di armi, tentato omicidio, lesioni, rapina, associazione per delinquere.

L’odissea giudiziaria di Renato Vallanzasca. «Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano (Giovanna Di Rosa, già componente del Csm, ndr) gode della mia massima stima, ma quanto accaduto nel caso in oggetto dimostra l’assurdo di un sistema organizzativo», puntualizza Steccanella, sottolineando in particolare come il continuo turn over fa si che «ogni singolo magistrato che si trova quel giorno in udienza adotti decisioni che quello successivo disattende, risultando quindi incomprensibili». «Il primo volle il rapporto carcerario, il secondo manco lo citò, il terzo rinviò per l’alloggio, il quarto volle una sentenza vecchia di 45 anni e il quinto ne suggerisce la rinuncia e io mi arrendo», il laconico commento del penalista milanese.«Ho assolto per oltre quattro anni con il massimo impegno e senza alcun compenso al solo fine di consentire per una persona che aveva trascorso 50 anni in carcere il rispetto della nostra Costituzione che, contrariamente alla vulgata, non prevede che si debba “marcire in galera” per un tentato furto di biancheria intima di sei anni fa», aggiunge l’avvocato di Vallanzasca. «Vallanzasca è sopravvissuto alla propria leggenda malvagia, non ridiamogli lustro creando un simbolo della detenzione, tornare alla normalità è la sua richiesta e concedergliela è la vera vittoria di uno Stato democratico, che non può e non deve aggrapparsi alle leggende: un Paese civile premia il sopravvissuto a 50 anni di galera», conclude quindi Steccanella. E il diretto interessato? «Voglio essere utile ai giovani, mandatemi in una comunità»: così pochi giorni prima del rigetto delle istanze Vallanzasca aveva scritto ai giudici milanesi. E a chi gli contestava di non aver mai chiesto perdono alle vittime o ai parenti di queste, «io dico per l’ ennesima volta, la mia è una decisione mirata proprio perché trattasi del Silenzio Che Si Deve Come Il Massimo Rispetto Per le Vittime». Scritto proprio così, con le maiuscole.

Milano, Vallanzasca e io. Rapine, sequestri, omicidi. Era la Banda della Comasina, guidata da uno dei banditi più mediatici d’Italia. Il suo ex braccio destro, Rossano Cochis, racconta quegli anni di sangue e follia: «Bische, night club, coca, auto, donne e mitra. Eravamo una miscela esplosiva», scrive Piero Colaprico il 23 marzo 2017, su "L'Espresso". Ancora scuote la testa e ride, Rossano Cochis, al ricordo: «C’era un pugile, uno che ha vinto la medaglia alle Olimpiadi e ha conquistato anche il titolo mondiale, e lo portavo io in macchina a una bisca. Era così contento, in quel periodo, che s’è messo a ridere e a gridare dal tettuccio aperto della Porsche il suo slogan e il suo programma. «Per tre cose vale la pena vivere, la coca, la figa e la malavita», così continuava a ripetere nel vento. Eh, insomma, a volte penso che sia un po’ la sintesi di quei nostri anni. Il bandito più carismatico di Milano era Francesco Turatello, Francis Faccia d’Angelo, ed era lui, prima degli incontri di questo pugile, che faceva passare la voce, così nessuno poteva dargli nemmeno un grammo, e non si sgarrava, guai con il Francis». Erano gli anni Settanta, che per Cochis e i suoi compari si chiusero con sei mesi vissuti da mucchio selvaggio. Era il tragico ’76, consumato tra evasioni dalle carceri, sparatorie mortali, sequestri di persona, guerre di gang. Con lui, Renato Vallanzasca e gli altri della banda della Comasina trasformati in un «pericolo pubblico». Oggi, dopo trentasette anni di detenzione, «venticinque sempre in cella», Cochis, detto Nanun, è tornato nelle strade e ha accettato d’incontrarci nello studio del suo avvocato, Ermanno Gorpia.

Arrivato ai settant’anni d’età, l’ex rapinatore conserva la faccia di uno con il quale sarebbe meglio non litigare. Un piccolo dettaglio aiuta a capire: da semilibero era stato mandato a lavorare in una comunità di recupero. Là era facile che qualche parente si presentasse con un paio di amici, per riprendersi i figli fermati per furto. Da quando è toccato a Cochis aprire la porta della comunità agli estranei, quelle scene sono radicalmente cessate. La notizia ci era arrivata da un magistrato di sorveglianza e gli chiediamo se corrisponde al vero: «Sì, andava così, gli spiegavo chi ero, gli motivavo perché insistere non sarebbe servito e che era meglio pensare al bene dei ragazzi, quindi se ne andavano. Strano che proprio uno come me dovesse fare l’uomo d’ordine, eppure…».

Eppure, è un sopravvissuto. Gli altri del gruppo originario? «Ormai», risponde, «sono tutti morti, a parte me e Renato», il bel René, tornato clamorosamente dietro le sbarre per una storia di mutande rubate in un supermercato. E come cominciò la loro storia funesta? «Ero nel carcere di Lodi, in attesa di giudizio, per una rapina che non avevo commesso, e grazie alla legge Valpreda, che stabiliva un tetto massimo alla carcerazione preventiva, uscii. Ero stato rappresentante di un grissinificio vicino a Bergamo, provai a tornare, ma mi dissero “Ti riprendiamo, però niente stipendio, solo provvigioni, se ti va”. Non era un ricatto? Decisi di trasferirmi a Milano e con un altro conosciuto in carcere, Vito Pesce, frequentavo il bar gelateria Adriana, in via Padova. C’erano anche Pino Digirolamo, Franco Cornacchini, Antonio Rossi, Enrico Merlo, insomma, una batteria di rapinatori. Tramite un altro, che è vivo e non nomino, facemmo qualche colpo a Milano, a Vimodrone, poi la Edilnord di Brugherio, la banca del Monte dei Paschi di Siena a Milano 2, che poi rifeci con Renato Vallanzasca nel ’76, appena evaso, e tutt’e due le volte c’erano in cassa esattamente dieci milioni di lire. A proposito, mentre nel ’76 tornavamo nel nostro imbosco, che era a Milano San Felice, ci facemmo al volo anche un’altra banca a Pantigliate e il giorno dopo sul giornale c’era un titolone: “Arrestati tre minorenni, li hanno riconosciuti”. Uhè Renato, leggi, e che cosa facciamo?, dissi. Quando ci presero, chiamammo il giudice Gatti. “Quando l’impiegato è scappato è caduta la macchina per scrivere, in paese c’era un funerale”, insomma gli spiegammo che eravamo stati noi a colpire, così i minorenni vennero scarcerati e noi ci prendemmo 14 anni, anche perché era stata ferita una guardia giurata. Avevamo portato con noi uno che ripeteva “Non me la sento, non me la sento”, sudava freddo, allora gli ho detto di smetterla e di non preoccuparsi, che avremmo fatto tutto noi. Bastava che lui tenesse sotto tiro “il” guardia e stesse calmo. Infatti, ha puntato la pistola e gli ha tirato, e l’ha preso alla gamba, ma si può? Che gente…».

Più si ascolta il flusso di parole di Cochis, più fluisce il magma incandescente di quell’epoca di morte perennemente in agguato. Sembra quasi incredibile confrontare le epoche, ripensare a quanto alto fosse il tasso di violenza quotidiana, spicciola o mortale, comunque inevitabile: «Io fui arrestato per il sequestro e l’omicidio di Carlo Saronio, ma non c’entravo nulla, e lo sanno tutti. Quello che se la cantò, il suo amico, il Fioroni, lo disse espressamente a verbale. “Ho incontrato Cochis insieme con Carlo Casirati, che ha ucciso Saronio con l’iniezione sbagliata, e gli abbiamo proposto di fare il sequestro con noi, ma ha rifiutato”. Chiaro, no? Invece mi mandò a chiamare il magistrato Gerardo D’Ambrosio. “So che lei sa tutto, perciò se lei parla, esce con me da San Vittore stasera stessa. Se invece fa l’omertoso, le spicco il mandato di cattura per sequestro e omicidio”, disse. Beh, gli ho scaraventato addosso la scrivania e m’hanno portato in isolamento sotto il Primo Raggio. Il giorno dopo mi consegnano davvero il mandato di cattura. Allora m’arrabbio e vado sui tetti del carcere, quando mi acciuffano, mi portano a Pisa, poi alla Capraia, poi alla Spezia, da dove evado d’estate, con le lenzuola. E così, aprendo una macchina posteggiata grazie alla chiave della scatoletta del tonno, arrivo a Voghera, poi a Milano, dove ritrovo Vito Pesce e, con lui, Renato Vallanzasca. L’avevo già conosciuto in carcere, per la rapina che aveva fatto al supermercato di via Monterosa. Così, da evaso, andai a dormire con lui, che allora stava con Patrizia Cacace, dividevamo il lettone matrimoniale. E lì per lì, con Marco Carluccio, con Antonio Colia detto Pinella e un bergamasco, Silvio Zanetti, di cui adesso posso fare il suo nome, ho saputo che è morto, nacque l’anima della banda Vallanzasca, quelli che io chiamavo i muli, perché tiravamo gli altri. In questi ultimi anni è apparsa sui giornali Antonella D’Agostino, che poi ha sposato Renato, ma nessuno di noi sa chi è. Anzi la prima volta che l’ho vista era il ’90, o il ’91, ed era la donna di un certo Cicciobello».

Rapine e sparatorie si moltiplicano, un delirio di proiettili circonda la banda come un nugolo di mosche circonda i cadaveri. Oggi si ascoltano non pochi politici straparlare di «città della paura» o commentare il ruolo dei giornalisti, ed è come se si fosse smagnetizzata la memoria: «Noi non evitavamo il conflitto a fuoco, tutto qui». In che senso, Cochis? La spiegazione è brutalmente lineare: «Non c’era uno studio, un piano, niente. Noi arrivavamo su macchine rubate di grosse cilindrata, in cinque. Due uomini che entrano in banca, uno fa la cassaforte e l’altro i cassetti. Due che stanno in strada, con i mitragliatori, e uno fa da palo sulla porta. Sapessi quante volte arrivava una pattuglia e faceva velocemente inversione, noi tiravamo bene, in via Serra a Milano, quando andammo a fare le buste paga dell’Alfa Romeo, io e Mario Carluccio bloccammo da soli sette macchine della questura, e non so quanti caricatori abbiamo sparato. Sì, se penso a molte delle nostre azioni provo rammarico. E poi, guardami, è passata la mia vita, ma come è passata? In una gabbia, ecco come».

Una gabbia rimasta sotto i riflettori. La banda della Comasina, nonostante siano passati i decenni, non viene dimenticata: «L’avvocato Rosica, uno che ci difendeva, ci chiese un favore. Andammo dalle parti di piazzale Corvetto, dove abitava, e Renato rilasciò un’intervista a un giornalista amico dell’avvocato, uno che mi pare lavorava al “Corriere d’Informazione”. Ecco, Renato con le parole ci sa fare» e, da quel momento, diventa uno dei banditi più mediatici d’Italia, di quell’Italia in cui l’Anonima sequestri mette angoscia alle famiglie, il terrorismo incalza, Cosa nostra fa affari al nord (Luciano Liggio, capo della mafia, viene arrestato nel 1974 a Milano, in via Ripamonti) e si muore ammazzati in pieno centro, come accadde in piazza Vetra: «Era il novembre del ’76, eravamo andati là solo per un sopralluogo. L’obiettivo erano le esattorie comunali, ma non da fare quel giorno stesso. Infatti Franco Careccia cammina disarmato, c’eravamo resi conto che un’irruzione armata rischiava di diventare una carneficina, che era meglio filare il furgone Mondialpol e attaccare dopo che caricano le valigie, piazzando dietro il cinema Alcione una macchina di copertura. Dunque, per il sopralluogo ci sono Careccia, Carluccio e un marsigliese. I tre entrano nel bar all’angolo, che è di fronte a una banca e un impiegato chiama la questura, segnalando facce sospette. Così arrivano due volanti e l’agente Ripani scende e spara, colpisce Mario Carluccio al fianco, ma Mario spara a sua volta e centra Ripani con sei colpi, e nel frattempo un altro poliziotto, Zanetti, spara e prende Mario in fronte, e cade accanto a Ripani, sono lì, uno accanto all’altro, e in via Molino delle Armi riesco a caricare Pinella, il migliore di tutti noi, e Renato, e me li porto via. Renato diceva sempre che con me dietro e con Colia davanti sarebbe andato contro chiunque. Colia aveva carisma, lui aveva la batteria della Comasina, io quella di via Padova, Mario Carluccio i rapinatori della Brianza. Ci consideravamo un’élite, ma eravamo una miscela esplosiva. Renato era brillante, divertente, quando si lavorava era molto deciso, anche perché la sua megalomania era troppo forte, non lo faceva arretrare su niente. Tant’è vero che siccome ero stato nei paracadutisti avevamo pensato di attaccare la caserma a Pisa, per prenderci i Fal, non se n’è fatto niente perché avevamo troppa carne al fuoco».

Messi in cima alla lista dei ricercati, cominciano anche con i sequestri di persona. Il più citato è quello di Emanuela Trapani, che aveva sedici anni: «S’è detto anche troppo, lei stessa sa che non è stata trattata male. Una volta, per esempio, s’è lamentata che nella stanzetta dov’era chiusa vedeva la tv in bianco e nero, allora Renato l’ha portata dove stavano gli altri, davanti alla tv a colori e tutti si sono messi in testa il cappuccio per non essere riconosciuti, lei era l’unica a vedere il programma a volto scoperto». Possibile? Una scena che sembra tratta da un quadro di Magritte? «Oppure, un’altra volta s’è lamentata mangiava da schifo, e voleva la pizza, ma solo quella che fanno vicino casa sua. Renato ha detto va bene, ma ai tri or de not soo andà mii in quella pizzeria».

A Milano non s’è mai capito come nacque la guerra tra la banda Vallanzasca e la banda Turatello. Non si davano ombra, frequentavano gli stessi locali, uno del Lello Liguori in corso Europa, uno in piazza Santa Tecla, poi il famoso Derby del cabaret milanese di via Monterosa, un teatrino in Porta Romana dove si esibiva Gianni Magni, il William’s, il New Gimmy, che era di Turatello, e per ballare si andava al Parco delle Rose, ma solo in estate. Perché dunque spararsi addosso? Semplicemente perché esistono notti difficili che non si dimenticano: «Ero con Vito Pesce, venivamo via dalla latteria che aveva in corso Lodi Lia Zennari, era tardissimo, ma andammo giù al night che Francis Turatello aveva in piazza Cantore, a fianco della gelateria Pozzi. Dentro c’erano già Tigre e Spaghettino, io ero con le stampelle e avevo lasciato all’Isola la mia auto, con un mitra nel cofano. Non sapevo che c’era un casino in corso, perché Spaghettino aveva assaltato una bisca di Francis e il mio amico Vito nella stessa bisca aveva cambiato un assegno da 25 milioni per perdita di gioco. Quindi, poteva sembrare che c’entrasse, comunque li lascio a discutere, sono tutti amici, e vado tranquillamente a prendere la macchina, ma quando torno c’è Vito che esce tutto sballato. “Guarda”, ed è pieno di sangue. Allora tiro fuori il mitra e glielo do, lui corre alla porta del night e mitraglia verso le scale, poi salta su in macchina e filiamo. Mi dice che Francis ha acchiappato Spaghettino, gli ha aperto la gola e ha detto al Tigre di bloccare Vito, ma quello ha preso il coltello per tagliare il pane e gliel’ha infilato nella schiena. La lama gli era rimasta dentro, l’ha estratta, è tutta storta. “Rossano, mi dice, non farmi morire, vendicami”. Sono tornato indietro e ho sparato anch’io, sfiorando Turatello».

Da allora, le bande s’inseguono per farsi fuori, anche se nel night sia Pesce sia Spaghettino s’erano salvati: «Una volta ci arriva dritta che portano a Turatello i soldi delle bische, allora io, Renato e Tonino Furiato, che poi morirà nella sparatoria al casello di Dalmine, gli fottiamo tutti i soldi, e non ci siamo tenuti 5 lire, li abbiamo fatti arrivare ai detenuti: “Dite a Francis che stavolta prendo soldi, la prossima volta la pelle”, è il messaggio che lascia Renato. E quasi ci riusciamo in via Mac Mahon, quando vediamo due auto ferme davanti al bar della sorella dell’attrice Agostina Belli e riconosciamo Gianni Scupola e Spedicato. “Se ci sono loro, c’è anche Francis”, allora torniamo indietro, nel frattempo si sono spostati, ma li affianchiamo, Renato si sporge dal finestrino e gli tira due cannonate con la 357 Magnum e filiamo. E l’unico che salta giù dalla macchina chi è? Francis, con la mitraglietta Skorpion, e ci corre dietro. All’altezza di via Caracciolo sento un colpo alla testa, “Renato forse è finita” dico, invece erano pezzi di vetro. La strada fa un saltino, quello mi ha salvato. La sera ho contato tutti i buchi che aveva fatto nella carrozzeria, pareva un gruviera. Quando abbiamo fatto pace, Francis voleva sapere, “Ma chi era quell’autista della madocina?”».

La banda Vallanzasca finisce la sua corsa nel febbraio del ’77: «Renato era andato nella bergamasca per curare un nipote del miliardario Pesenti e io, con Tonino Rossi e Merlo a Torino, per un nipote di Pirelli. Volevano mettere a segno due sequestri e scappare dall’Italia. Renato quando guidava faceva lo scemo, sorpassa a destra, cambia corsia, così qualcuno segnala un auto con tre drogati a bordo e la polizia va a bloccarli al casello. Un agente tiene il mitra puntato, Renato scende dalla macchina e invece dei documenti, come faceva sempre, prende un libretto d’assegni, l’agente istintivamente abbassa il mitra e lui gli spara al volo, centrandolo al cuore. Scende anche Furiato, che spara all’agente a terra, ma dall’altra auto rispondono. Furiato muore, Renato che cercava di prendere il mitra all’agente morto viene centrato al sedere. Riesce a scappare a piedi e vado io a prenderlo. Lo portiamo a fare le lastre in un centro diagnostico di Milano, poi a Roma, dove abbiamo un contatto con un medico. Ma il destino è strano».

Saranno presi tutti, ma non grazie alle indagini: «Ci sono due sorelle che hanno ciascuna un amante, una sta con il medico che cura i criminali, e l’altra con un colonnello dei carabinieri, capito che intreccio? Poi il medico è morto, l’hanno riconosciuto solo dallo stetoscopio, ma non siamo stati noi».

Quel «noi» della Comasina s’è perso. Antonio Colia, uscito dal carcere, è morto in un incidente di moto, e Cochis non è potuto andare al funerale: «Ho il divieto di frequentare pregiudicati e là, per salutarlo, c’era tutta la Milano di quegli anni», dice e, per quanto possa apparire strano a chi non conosce la mala, Cochis diventa talmente triste che smette di parlare.

Vallanzasca sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. In una lettera dal carcere alla madre del Pirata, la tesi del giro di scommesse truccate gestito dalla criminalità, scrive “Il Corriere della Sera”. Renato Vallanzasca, martedì, ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. A differenza del silenzio davanti al pm di Trento Bruno Giardina e alla mamma di Marco Pantani, il «bel René» — che fu capo della banda della Comasina — ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito su delega del pm di Forlì-Cesena, Sergio Sottani: sua la decisione di riaprire il caso, archiviato, sul presunto complotto ordito ai danni del Pirata per alterarne le analisi del sangue del 5 giugno ‘99 a Madonna di Campiglio ed escluderlo dal Giro d’Italia che stava dominando. Dal fitto riserbo che circonda l’indagine forlivese si è appreso solo che le indagini cercano i primi riscontri alle nuove dichiarazioni di Vallanzasca. Vallanzasca sostenne all’epoca di essere stato avvicinato in carcere a Opera (Milano) da uno sconosciuto sedicente membro di un clan di camorra. Il quale lo avrebbe invitato a puntare milioni sul Giro d’Italia ma non su Pantani. «Non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara». Suggerimento insistito, anche mentre il Pirata dominava il giro. Il 5 giugno 1999, l’affondo: «Visto? Il pelatino è stato fatto fuori. Squalificato». Secondo Vallanzasca, dunque, dietro la morte del ciclista ci sarebbe stato un complotto: è quanto scritto anche nella lettera spedita dal carcere alla signora Pantani: «Quattro o cinque giorni prima che fermassero Marco a Madonna di Campiglio — le parole del malavitoso contenute nella missiva — mi avvicinò un amico, anche se forse lo dovrei definire solo un conoscente, che mi disse: “Renato, so che sei un bravo ragazzo e che sei in galera da un sacco di tempo. Per questo mi sento di farti un favore”. Ero in vero un po’ sconcertato ma lo lasciai parlare. “‘Hai qualche milione da buttare? Se sì, puntalo sul vincitore del Giro! Non so chi vincerà, ma sicuramente non sarà Pantani”». La tesi di Vallanzasca è che le scommesse clandestine sulla vittoria finale del Pirata erano talmente tante da poter «sbancare» chi le gestiva. E poiché si trattava della criminalità, era stato più facile eliminare il campione dalla competizione. Esattamente la tesi sulla quale sta indagando la Procura di Forlì.

Il capitolo Pantani si arricchisce sempre più di nuovi capitoli. L'ultimo e forse più importante in ordine di tempo è l'ulteriore interrogatorio sostenuto da Renato Vallanzasca in carcere, nel quale l'ex malvivente avrebbe confessato di aver identificato il detenuto che nel 1999 gli consigliò di non puntare sulla vittoria del Pirata, scrive “TGCom 24”. All'interno del carcere di Bollate, infatti, a Vallanzasca sono state sottoposte dieci diverse fotografie di detenuti tra i quali, alla fine, si trovava il camorrista che gli annunciò l'esclusione di Pantani al Giro. Il "bel René" dunque, ha riconosciuto l'uomo, che ora si trova dentro il carcere di Novara.  Anni fa invece, l'ex boss si rifiutò di fornire qualsiasi tipo di commento sulla vicenda, per poi spedire una recente lettera alla mamma di Marco, nella quale confidava di aver ricevuto la seguente soffiata: "Non posso dirti quello che non so, ma è certo che 4 o 5 giorni prima di Madonna di Campiglio sono stato consigliato vivamente di puntare contro il tuo ragazzo".

Pantani, si riapre il caso Giro ‘99: tra camorra, scommesse e Vallanzasca, scrive  Francesco Ceniti  su “La Gazzetta.it”. A inizio settembre, la Procura di Forlì ha aperto un fascicolo per “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Il ruolo del famoso bandito milanese. Associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva. Dieci parole per riportare l’orologio indietro di oltre 15 anni. La Procura di Forlì ha aperto a inizio settembre un fascicolo a carico d’ignoti con questa ipotesi di reato in relazione all’esclusione subita da Marco Pantani il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, durante il Giro d’Italia. In poco più di un mese le inchieste sul Pirata si sono raddoppiate: a fine luglio c’è stata la riapertura del caso sulla morte (s’indaga per omicidio volontario) da parte della Procura di Rimini. Campiglio e Rimini. Rimini e Campiglio. Per anni la famiglia del Pirata, i tantissimi tifosi del campione rimpianto e molti sportivi hanno ripetuto come un mantra il nome delle due località: "È stato prima fregato e poi fatto fuori". Adesso gli interrogativi, i dubbi, i tanti sospetti saranno chiariti (si spera) dagli inquirenti. A Forlì l’indagine è condivisa dal Procuratore capo Carlo Sottani (da sostituto a Perugia si è occupato di vicende scottanti come le inchieste sulle Grandi opere e il G8) e dal pm Lucia Spirito. Già affidata la delega per gli interrogatori: il pool è coordinato dal maresciallo Diana dei carabinieri. Da loro bocche cucite, ma una cosa è filtrata da Forlì: ci sono tutti gli elementi per andare fino a fondo a uno dei punti più controversi della vita di Pantani. L’inizio della fine, per molti. Compresa mamma Tonina: "Senza Campiglio non ci sarebbe stato mai Rimini". Difficile sostenere il contrario. Ma perché Forlì ha deciso d’indagare 15 anni dopo? E perché l’ipotesi parte con una inquietante associazione per delinquere? Domande che hanno una risposta e rimandano a un cognome che ha segnato la cronaca nera della storia italiana: Renato Vallanzasca. Le indagini — Da settembre a oggi, gli inquirenti hanno già ascoltato diverse persone informate sui fatti. Quali fatti? Quelli legati all’esclusione dal Giro di Pantani: una vicenda che secondo l’accusa potrebbe avere dei mandanti pericolosi (clan della camorra) e degli esecutori sul posto. Di certo, chi è sfilato in Procura ha raccontato di un clima tesissimo durante la corsa rosa, con continue minacce anonime che arrivavano a chi stava intorno al Pirata. Minacce chiare: non doveva concludere la gara. E si arriva all’episodio di Cesenatico. Il Giro d’Italia arriva a casa del Pirata il 25 maggio 1999. La mattina dopo, i giornalisti sono allertati: "Pantani è fuori, ha saltato il controllo del sangue". Non sarà così, il capitano della Mercatone Uno passa quel test, ma i commissari dell’Uci lo vorrebbero lo stesso squalificare per un ritardo di circa 20’ sull’ora prevista per il prelievo. Alla fine tutto si risolve, ma l’ispettore dell’Unione ciclistica internazionale, Antonio Coccioni, lo ammonisce pubblicamente: "La prossima volta non te la caverai". Ecco, per Forlì l’ipotesi di reato inizia quel giorno. Nel senso che la criminalità organizzata aveva già deciso che Pantani non doveva giungere a Milano. Certo, è tutto da dimostrare che le parole di Coccioni siano legate a questa volontà. Possono essere solo una coincidenza, ma chi indaga ha le idee chiare: la storia è legata alle scommesse clandestine ed è stata già narrata da Vallanzasca.Pantani, nel film lo choc di Madonna di Campiglio Il banco a rischio sbanco — Nel 1999 in Italia le scommesse sul ciclismo non esistono. Meglio: sono clandestine, le gestisce la criminalità organizzata. Quando la camorra si rende conto di aver accettato troppe puntate su Pantani vincente, è troppo tardi. Lui si dimostra il più forte. Si parla di decine di miliardi di lire, il banco rischia di saltare. C’è un solo modo per evitare il flop, trasformandolo in un affare d’oro: non far trionfare Pantani. Ma il Pirata straccia gli avversari e la sfortuna sembra aver cambiato direzione. Sembra. In realtà per gli inquirenti la camorra pianifica per tempo la cacciata di Pantani. E qui arriviamo a Vallanzasca: il bel Renè nel 1999 si trova nel carcere di Opera (Milano) per scontare uno dei 4 ergastoli rimediati per le scorribande negli Anni Settanta. È avvicinato da un altro detenuto che non conosce. Dice di essere un affiliato a un importante clan della camorra e gli suggerisce di puntare tutti i risparmi sui rivali di Pantani. Vallanzasca strabuzza gli occhi: "Sai chi sono?". Risposta disarmante: "Certo, non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara". Il Giro è iniziato da poco: nelle tappe successive Pantani domina. Vallanzasca è scettico, ma l’altro insiste: "Fidati". E il 5 giugno il detenuto dalla dritta giusta va all’incasso: "Hai sentito? Il pelatino è stato fatto fuori, squalificato". Vallanzasca ha raccontato questo episodio nella sua autobiografia, uscita a fine 1999. E nei mesi successivi è stato sentito da Giardina, p.m. di Trento, titolare di un fascicolo dopo Campiglio. Fascicolo che all’inizio vedeva Pantani parte lesa (gli avvocati ipotizzavano lo scambio di provette), ma poi fu lui a finire indagato per frode sportiva. L’accusa finirà nel nulla, come quelle delle altre sei Procure che lo misero nel mirino per lo stesso motivo, inseguendo un reato che non esisteva (fu introdotto nel 2000). Vallanzasca non rispose a Giardina: troppo paura, il clan era pronto a vendicarsi. Vallanzasca 2014 — Adesso le cose potrebbero cambiare: nei prossimi giorni il procuratore Sottani andrà a Milano per interrogare Vallanzasca una seconda volta, ma questa volta gli investigatori hanno già un’idea sull’identità di quel detenuto e quindi del clan a cui era affiliato. Le deduzioni sono state fatte ricorrendo ai registri penitenziari del tempo e grazie ad alcune acquisizioni di filmati tv recenti, dove Vallanzasca a telecamere spente racconta dei particolari inediti. Non solo, tra le persone sentite anche giornalisti, gente vicina a Pantani e soprattutto medici che hanno spiegato come era possibile e semplice alterare l’ematocrito di quel 5 giugno (trovato a 51,9). Il sangue sarebbe stato deplasmato e la firma di questa operazione si troverebbe nel valore delle piastrine, piombate a livelli di un malato. Piastrine che invece erano normali (come l’ematocrito: sempre a 48) la sera del 4 giugno, quando il ciclista si fece l’esame del sangue nella sua stanza d’albergo per verificare se era nella norma (50 il valore consentito dall’Uci), e il 5 pomeriggio, quando si fermò a Imola per fare un test prima di arrivare a casa e iniziare la sua lenta discesa verso Rimini. Questa ipotesi ipotizza un complice in grado di operare sulla provetta (che non era sigillata). Ecco perché saranno interrogati anche i dottori che hanno effettuato il prelievo al Giro e l’ispettore Coccioni. L’inchiesta è all’inizio. Il procuratore Sottani ha informato da settimane il collega Giovagnoli che indaga sulla morte di Pantani, segno che nulla si può escludere: neppure una correlazione diretta tra i due fatti. Campiglio e Rimini sono distanti 414 chilometri e meno di 5 anni. Da ieri viaggiano fianco a fianco nel nome di Marco.

·           Ingiustizia. Il caso di Mesina spiegato bene.

Resa dello Stato a Mesina: "Un latitante inafferrabile". L'ennesima fuga di "Grazianeddu", il bandito che scappa da 50 anni: scomparso da 24 giorni. Nino Materi, Domenica 26/07/2020 su Il Giornale. C'è un'angosciante «grandezza» in questa, ultima, ennesima, fuga di Graziano Mesina. È la «grandezza» di un bandito che anche ora, all'alba degli 80 anni, riesce a farsi beffe di uno Stato - il nostro - che ha sempre avuto nei suoi riguardi una specie di «complesso di inferiorità». Per oltre mezzo secolo lo abbiamo inseguito, catturato, fatto evadere, ricatturato, rifatto evadere, graziato (nel 2004, presidente Ciampi) e nei pochi momenti in cui era un uomo libero (o semilibero) gli abbiamo perfino chiesto aiuto per risolvere oscure vicende (vedi il rapimento del piccolo Farouk Assam, nel 1992). Ora Grazianeddu è un vecchio, ma pure da vecchio seguita, esattamente come faceva da giovane, a prendersi gioco del suo Paese, che forse è l'Italia, forse la Sardegna, o forse entrambe; o più, probabilmente, nessuna delle due. Chissà se dal 2 luglio, giorno in cui non si è presentato più a firmare nella caserma dei carabinieri di Orgosolo, Mesina si nasconde nella propria terra, quel Supramonte del quale è stato, è, e sarà sempre, il re. «Primula rossa»: ieri, come oggi. Le «Istituzioni democratiche» che Grazianeddu disprezza (ma con cui a flirtato per tornaconto personale, e non solo) si rassegnino: tornerà a farsi prendere solo se lo vorrà lui. Mesina è infatti protetto dalla sua gente che, se pure non lo stima, non sarà mai disposta a tradirlo. Difficile però che il bandito si rifaccia vivo. Ad attenderlo ci sarebbe infatti in carcere a vita dopo che la Cassazione ha confermato la sua condanna a 30 anni per traffico internazionale di stupefacenti. Un'infamia, la droga, per un personaggio sempre ammantato da un'aurea di «onore». Mentre, si sa, che la droga è roba per uomini che hanno tutto, meno che l'onore. Fatto sta che dall'altroieri, dopo 21 giorni di «irreperibilità», la Corte di Appello di Cagliari ha dichiarato Graziano Mesina «ufficialmente latitante». E così anche lo Stato è come se si fosse «ufficialmente» arreso, con tanto di decreto notificato ai legali del 78enne «neo» latitante, in realtà latitante «storico». Quando lo scorso 2 luglio i carabinieri si sono presentati per eseguire l'arresto nella casa della sorella, dove Mesina viveva dopo la scarcerazione per decorrenza di termini nel giugno 2019, di lui non c'era più traccia. Una caccia all'uomo durata tre settimana. Nel suo paese, ma non solo: al setaccio pure le case in Gallura, dove vivono i nipoti; e poi blitz pure in Goceano, in Ogliastra e nel Cagliaritano nella spernaza - vana - di snidarlo magari in qualche rifugio messogli a disposzione da «amici fidati». Gente che non dimentica i «bei tempi» delle rapine e dei sequestri. «Subito dopo la fuga - ha riportato la stampa - si era parlato di una trattativa tra gli inquirenti e i difensori di Mesina per assecondare le sue richieste: una pena più mite o una somma in denaro, come ricompensa per la sua consegna alle forze dell'ordine. Notizia che però non ha mai trovato conferme ufficiali». Gli inquirenti, si trincerano dietro la retorica delle frasi fatte, ma si vede lontano un miglio che è solo per salvare la faccia: «Oltre alla Sardegna seguiamo anche altre piste». Fonti non ufficiali giurano: «Mesina potrebbe essere sbarcato in Corsica già la notte tra il 2 e il 3 luglio, oppure aver fatto rotta sulla Tunisia». Ma chi lo conosce bene non ha dubbi: «Grazianeddu è in Barbagia. Al sicuro». E lui non ha certo in programma nuove «sfide». Non ci sarebbe gusto. Quelle con lo Stato italiano le ha sempre vinte. Tutte.

Sardegna, sparisce dopo la condanna il bandito Graziano Mesina. Pubblicato venerdì, 03 luglio 2020 da La Repubblica.it. A poco più di un anno dalla sua liberazione Graziano Mesina, l'ex bandito sardo di 78 anni, dovrà tornare in carcere. Lo stabilisce il verdetto della Cassazione pronunciato ieri sera: rigettato il ricorso dei suoi legali e confermata la condanna a trenta anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Questa l'accusa con cui nel 2013 era stato arrestato in Sardegna con un blitz all'alba: era considerato a capo di due bande criminali attive tra l'isola e la penisola. Non solo droga: estorsioni, minacce e anche il piano per un sequestro di persona. Mesina da allora aveva trascorso sei anni in cella, dopo la revoca della grazia concessa dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2004. Poi di nuovo la libertà dal carcere nuorese di Badu'e Carros – a giugno 2019 – e il rientro nella sua Orgosolo, con il solo obbligo di firma e di trascorrervi la notte. Una svolta inaspettata dovuta a un passaggio tecnico: era scattata la decorrenza termini e non erano state depositate in tempo le motivazioni della sentenza d'appello. Ma ora, proprio nel suo paese, secondo quanto riporta l'Unione sarda, da ieri sera Grazianeddu (questo il suo nomignolo) si è reso irreperibile. Ed è dunque, ancora, ricercato. Nella sua lunga carriera ci sono rapine, omicidi e rapimenti che gli sono valsi quarant'anni nelle carceri della penisola (da Regina Coeli a Roma a Lecce fino a Terni e Vercelli). E ancora fughe, evasioni rocambolesche e lunghi periodi di latitanza con tanto di taglie poste sulla sua cattura. A quattordici anni il primo arresto per porto d'armi abusivo, a oltre 70 l'ultimo. Nel 1992 fece da mediatore per il sequestro del bambino Farouk Kassam, in Costa Smeralda, e dopo la grazia si era reinventato come guida turistica del Supramonte che ben conosceva. Durante l'ultimo processo si è sempre dichiarato innocente, dopo la condanna di primo grado aveva detto: "È stato come se mi avessero dato la pena di morte".

Nicola Pinna per ''La Stampa'' l'1 agosto 2020. Al bar di fronte alla basilica di San Simplicio, nel centro di Olbia, non c' è il giornale e Farouk Kassam non sta dietro ai ritmi della cronaca. La prima domanda dunque la fa lui: «È ancora in fuga Mesina? Come ha fatto a sparire così?». Da quando l'eterno latitante ha organizzato la sua undicesima evasione è già passato un mese e la caccia all' uomo in Sardegna prosegue anche nel cuore della caotica stagione turistica. Nella mente dell' ex bambino rapito, che nel frattempo è diventato adulto, ripassa tutto in un solo istante: il dramma di un sequestro durato 177 giorni e i misteri mai chiariti sulla liberazione.

Dopo così tanti anni, ha capito finalmente che ruolo ha avuto Graziano Mesina nella fine del rapimento?

«No, ma diciamo che non sono ossessionato da questa idea. Mio papà non mi ha mai raccontato tutto nei minimi dettagli. È restio a parlare di quelle storie e io sono andato avanti».

Il carattere è più o meno identico a quello del padre e per questo anche Farouk ha scelto di parlare il meno possibile dell'incubo mai dimenticato del sequestro. Il flashback riparte dal 15 gennaio del 1992. Il figlio maggiore di Fateh e Marion, albergatori arabi oramai di casa a Porto Cervo, non ha ancora compiuto 8 anni. Un commando di incappucciati si presenta nella villetta di famiglia all' ora della cena: un blitz di pochi minuti è l' inizio di un dramma che tiene l' Italia col fiato sospeso. Il piccolo Farouk diventa il figlio di tutti: lenzuoli bianchi compaiono nelle finestre delle case, da Torino a Napoli, da Trento a Cagliari. Lui affronta giornate fredde, drammatiche e con tante lacrime, sempre dentro una grotta, in un anfratto irraggiungibile della Barbagia. I rapitori gli fanno credere che a consegnarlo a loro sia stato il padre e per costringere la famiglia a pagare il riscatto decidono di tagliargli un pezzo d' orecchio. Lo spediscono a casa per posta e così il caso diventa rischiosissimo. Le forze dell'ordine non riescono a sbloccare la situazione e così scende in campo Graziano Mesina, a suo dire chiamato in causa dai Servizi: lo storico nemico dello Stato si offre per riportare a casa Farouk. Cosa abbia fatto, con chi abbia trattato e se abbia davvero incassato una somma di denaro non è mai stato chiarito. Ma di certo c'è che il primo a sapere della liberazione, l' 11 luglio, è stato proprio lui: vuole offrire a tutti la prova di essere il mediatore e vende l' esclusiva della notizia al principale tg della Rai. Quel bambino sempre sorridente, che giocava a sparare con i poliziotti che lo avevano appena riportato a casa, ora ha 36 anni e un po' di barba bianca. Si sposta da una parte all' altra del mondo per curare il patrimonio immobiliare di grandi investitori: da Dubai a Roma, passando sempre per la Sardegna. La stagione dei sequestri sembra archiviata definitivamente, ma di tanto in tanto certi nomi tornano d' attualità.

«Trovo incredibile che dopo tutti questi anni certi personaggi facciano ancora parlare di sé. Mesina ha avuto la fortuna di ottenere la grazia e si ritrova sempre in queste situazioni: certa gente non cambia pelle. A conti fatti quest' uomo poteva giocarsi un po' meglio le opportunità che lo Stato gli ha dato».

Che effetto fa risentire i nomi dei suoi sequestratori o di chi allora ha agito nell' ombra?

«Sarò onesto: ogni volta mi faccio una risata. O ne hanno combinata un' altra o si sono cacciati nell' ennesimo guaio. È più forte di loro, evidentemente».

Cosa rappresenta Mesina nella sua vita?

«Se dopo quasi 30 anni si continua ad associare il suo nome alla mia liberazione direi che almeno un ruolo mediatico allora se l' era ritagliato. Non è chiaro se il suo intervento abbia migliorato o peggiorato la situazione».

Vi siete mai incontrati?

«Mai, se mi fosse capitato credo che l' avrei riconosciuto. Ma sono certo che non gli avrei rivolto la parola: d' altronde cosa avrei da dirgli?».

Sente di aver perdonato i rapitori e tutti quelli che hanno avuto un ruolo nel sequestro?

«Più precisamente direi che li ho fatti sparire dalla mia vita. Sono andato avanti per la mia strada. Anche se è vero che sono personaggi che non potrò cancellare. Credo che abbiano pagato per quello che hanno commesso e forse è giusto che abbiano ritrovato la loro libertà».

Matteo Boe, principale accusato del suo sequestro, è tornato al suo paese qualche anno fa. Mesina, che nella sua storia un ruolo lo ha avuto, è stato a lungo fuori dal carcere e ora è latitante. Che cosa prova oggi a quel bimbo che ha sofferto così tanto?

«Penso che questo sia il senso vero della giustizia. Nonostante quello che ho subito non direi mai che devono marcire in galera. Credo che ognuno debba avere una seconda chance. Mi fa piacere pensare che lo Stato abbia restituito la libertà anche a persone che l' hanno rubata agli altri. Sulla latitanza certo non posso esprimere giudizi. Spero solo che Mesina non faccia del male a nessuno».

Alcuni componenti della banda che organizzò il suo rapimento non sono mai stati individuati. È una ferita aperta?

«Direi che questa cosa mi preoccupa, perché penso che può capitare di trovarmi affianco a queste persone senza saperlo. Non è una bella sensazione».

Di quei 177 giorni in prigionia cosa le torna alla mente più spesso?

«Il momento in cui mi hanno tagliato l' orecchio, quando sono svenuto e mi sono svegliato pieno di sangue. Le giornate dentro la grotta, con un solo punto di osservazione e sempre al buio, non si possono dimenticare facilmente. Ma ciò che ha lasciato ferite più profonde è stata la privazione dei diritti più elementari, quelli che fanno parte della quotidianità di tutti noi. A iniziare dal momento dei bisogni».

Ripensa spesso a quel periodo?

«Tutte le volte che mi guardo allo specchio mi ricordo che è successo qualcosa. Ma tutta questa storia fa parte della mia vita, ho superato serenamente quella fase. Da bambino mi vergognavo di quell'orecchio mutilato, ma ora mi sembra una caratteristica estetica su cui nessuno esprime giudizi. D' altronde tutti abbiamo qualche difetto fisico: questo è il mio».

Michela Proietti per "corriere.it/sette" l'8 agosto 2020. Ci sono due date nella vita di Farouk Kassam che vengono ignorate nel calendario: il 15 gennaio e l’11 luglio, il giorno del suo sequestro e quello della sua liberazione. «Il primo è un lutto, l’altro è un avvenimento che in famiglia tutti evitano di ricordarmi e soprattutto di festeggiare», dice Farouk, che oggi ha 36 anni e vive tra Roma e Dubai, dove si occupa di investimenti immobiliari e finanziari. Due date: il 15 gennaio 1992 il suo volto di bambino è diventato famoso in tutta Italia, e non solo, dopo il sequestro nella villa dei genitori a Porto Cervo organizzato dal bandito Matteo Boe. Per il suo rilascio venne pagato uno dei riscatti più alti mai visti per un sequestro di persona, si parla di 5 miliardi e 300 milioni di lire (cifra più volte smentita, al ribasso), nonostante durante la prigionia i banditi gli ricordassero come per i genitori lui non contava nulla e preferivano tenersi stretti i loro soldi. Le parole pronunciate dal padre Fateh Ali Joseph all’epoca, «io non pago per ciò che è mio», con l’intento di abbassare le pretese dei sequestratori (fu fatta una richiesta iniziale di 15 miliardi di lire), inasprirono la situazione.

«Ho pensato spesso che sarei morto». «I sequestratori leggevano tutti i giornali: a 7 anni non avevo la percezione chiara di cosa stesse succedendo ma ho pensato spesso che sarei morto, perché ogni tanto veniva pronunciata la parola “uccidere”. Forse non parlavano di me, ma ero certo che a fare una brutta fine sarei stato io». Farouk Kassam è un ragazzo sorridente ed elegante: è l’evoluzione coerente di quel bambino con gli occhi vispi e il neo sulla guancia destra. Come tanti altri ragazzi della sua età sta trascorrendo le vacanze in Sardegna con un gruppo di amici. Ma l’isola, per lui, ha ovviamente un significato in più: «Questo posto è casa mia, non ho mai commesso l’errore di rinnegare la Sardegna per quello che è accaduto. Non è stata questa terra a ferirmi, è solo il luogo dove si è consumato un fatto grave: ma non posso dimenticare la bellezza che mi ha dato e la dolcezza dei primi anni di vita».

La prigionia nel bosco, l’escursionismo da libero. Oggi Farouk vive tra Dubai, Roma e la Sardegna: dopo gli studi alla l’École française di Roma si è laureato in Economia aziendale e ha frequentato a Los Angeles un master in Trade and Commerce, per poi lavorare a New York. Cinque anni trascorsi negli Stati Uniti, nel mezzo la parentesi di un bar aperto tra il 2007 e il 2009 ad Olbia, perché la Sardegna è rimasta una costante della vita di Farouk. «Sono sempre tornato, tranne quando ero negli Stati Uniti per via del visto: qui ho tanti amici, amo questa natura e appena arrivo faccio lunghe gite in gommone e passeggiate nei boschi, con il mio drone per fare riprese dall’alto». È proprio in un bosco che il piccolo Farouk si risveglia all’indomani del rapimento. Il suo sequestro avviene nella villa dei genitori a Pantogia, la collina sopra Porto Cervo, dove la famiglia gestisce l’hotel Luci di la Muntagna.

Mamma e papà legati con il filo di ferro. Quando Farouk viene strappato dalla sua famiglia griderà: «Non portatemi via, voglio stare con il mio papà». Papà Fateh e mamma Marion però sono immobilizzati, legati alla sedia della cucina con il filo di ferro. «Quella è la scena che ho rivisto per tanto tempo davanti ai miei occhi: uomini armati che si avvicinano in passamontagna al mio lettino, mentre ero già sotto le coperte e in pigiama», ricorda Farouk. «Tutto velocissimo e al tempo stesso al rallentatore. I sequestratori mi hanno preso sulle spalle, poi hanno puntato una pistola alla tempia di mio padre e hanno detto: “Vedi di vendere tutto ciò che hai, solo allora rivedrai tuo figlio”». Quando l’automobile si allontana Fateh Kassam riesce ad azionare il comando dell’allarme collegato con la centrale dei vigilantes. Le guardie giurate, i carabinieri e la polizia che si precipitano nella villa incontrano un’auto bianca che procede in direzione contraria alla loro, ma non sanno che lì dentro ci sono Farouk e i suoi rapitori.

Narcotizzato e portato in una grotta. «Sicuramente sono stato narcotizzato, perché in macchina ho dormito. Il momento in cui ho cominciato a rendermi conto di qualcosa è stato all’indomani, quando abbiamo cambiato l’auto e siamo saliti su un furgone». La grotta di Lula, dove Farouk trascorrerà i suoi 177 giorni di prigionia, è in cima a una montagna, un pertugio lungo 18 metri, rivestito di calcare per la grande umidità. Il letto preparato per lui è un giaciglio di foglie: solo una volta liberato si scoprirà che le gambe esili come grissini sono dovute a mesi di immobilità. «Dovevo stare sdraiato e voltato da una parte: mi era concesso un unico campo di visione». Le violenze dei suoi aguzzini sono purtroppo confermate. «Non credo fosse legato al fatto che mio padre è musulmano, ma l’unico cibo che mi veniva offerto era il porceddu, carne di maiale, che peraltro io mangio ma che per un bambino di 7 anni è molto pesante: i miei rifiuti venivano ricambiati con frustate sulla schiena».

«Mi hanno dato una pistola scarica per giocare». Nessuno svago: giornate interminabili ingannate disegnando con un sassolino sulla parete una casa. Probabilmente quella dove sognava di tornare. «A un certo punto mi hanno dato una pistola scarica, quello è diventato il mio gioco: ricordo giornate intere a maneggiare quell’arma tra le mani». E poi i topi, tanti, grandi. Quando Farouk viene liberato chiede alla madre di comperare tante trappole per topi, da tenere in casa. Poi, quando già si sono trasferiti a Nizza, esprime il desiderio di poter avere un hamster, uno di quei criceti che girano nella ruota. «Mia mamma era incredula: ma prima o poi credo che le persone debbano affrontare le proprie fobie e conviverci. L’unica cosa che ancora oggi mi dà un po’ di ansia è il campeggio: ai miei amici dico “Ok ragazzi, ma non più di una notte fuori”».

Credevano fosse parente dell’Aga Khan. Perché è successo proprio a me? Anche Farouk si è fatto più volte la domanda che le persone si pongono quando la propria vita viene travolta e devastata da una malattia o un fatto grave. «Fu un errore di valutazione che portò a confondere il grande legame tra la mia famiglia e l’Aga Khan con una parentela». Il nonno di Farouk, gran visir della religione ismailita, ha sempre curato gli interessi di Karim, dapprima in Costa Smeralda, poi in Costa d’Avorio e in Pakistan. «L’Aga Khan diede a mio nonno il terreno dove abbiamo costruito l’hotel, ma non eravamo quei nababbi che tutti immaginavano: quando venne disposto il blocco dei beni i miei genitori hanno avuto difficoltà a fare benzina e anche la spesa al supermercato». Mesi tragici, con la madre Marion che appare alla Messa solenne di Pasqua ad Orgosolo, patria del banditismo sardo. «Sono la mamma di Farouk, a voi e a tutte le mamme di quest’isola lancio il mio grido perché so che voi potete capirmi», dice in lacrime sull’altare, sfidando le regole della società barbaricina. Un gesto che muove l’opinione pubblica e di cui Farouk verrà a conoscenza molti anni dopo.

«Lungo recupero, ma la vera cura è stata la famiglia». «No, non ho mai ringraziato mia madre per questo gesto coraggioso. In fondo non ho ringraziato nessuno: però, la mia massima riconoscenza va proprio alla mia famiglia per quello che ha fatto dopo la mia liberazione. Ho fatto dei lunghi percorsi di recupero, ma è stata la famiglia la mia vera cura». Farouk si sposta i capelli, folti e mossi. «Ecco, anche se non ci pensassi più, questo mi ricorderà ogni giorno quello che è accaduto. Ma ormai fa parte del mio identikit». Mentre mostra l’orecchio sinistro mutilato con una forbice da Matteo Boe, ricorda il dolore e un forte calore che lo fanno scivolare in un sonno profondo. «Al risveglio sentivo un battito forte su tutta la parte sinistra della testa». L’efferatezza che rivolta lo stomaco e la coscienza italiana viene consegnata all’altezza di una pietra miliare di una strada del Nuorese, avvolta in una busta da pacchi gialla e che, a chi lo raccoglie, sembra l’incarto di un sigaro.

Orecchie tagliate e riempite di colla. Le orecchie sono tragicamente prese di mira. Quando Farouk viene liberato vengono impiegate diverse ore per ripulirle: i sequestratori le hanno riempite di colla, una specie di Bostik, per impedire al bambino di ascoltare i loro discorsi. Ci vorranno diverse ore a mollo in acqua calda per togliergli di dosso la sporcizia. «Avevo i vestiti incollati indosso, non sono stato mai cambiato, le mie unghie erano artigli». Gianmario Orecchioni, l’amico gallurese di famiglia che diventa il tramite tra i Kassam e i sequestratori, è presente al momento del rilascio: il suo ricordo del tanfo del piccolo Farouk è indelebile e costringerà a percorrere chilometri di strada con i finestrini dell’auto abbassati. Proprio a Gianmario, compagno di tiro al volo e di caccia al cinghiale di papà Fateh, Farouk consegna uno dei primi desideri: «Dammi un bazooka laser, quelli che “mi hanno rubato” da casa hanno tante armi e dobbiamo difenderci».

I danni fisici, i mesi di silenzio e il futuro. Ossa decalcificate e difficoltà di parola: i medici che sentono parlare Farouk dopo mesi di silenzio obbligato parlano di miagolio. Quando mesi dopo tornerà nella grotta con gli inquirenti, nonostante il pieno recupero della capacità verbale ed espressiva, lascerà tutti di sasso: Farouk, una volta dentro, ricomincerà a miagolare. Il perdono è un processo lungo, ma in questo caso impossibile. «Non potrò mai perdonare e lo dico senza rabbia, ma con la consapevolezza che non è nelle mie capacità. Non desidero incontrare nessuno di loro, non ho mai provato un senso di vicinanza a queste persone: oggi hanno saldato il loro debito con la giustizia, quello morale è un’altra cosa. Boe ha 60 anni ed è libero: mi auguro che spenda la tanta vita che ha davanti per fare cose migliori». Una freddezza che investe il latitante Graziano Mesina, uomo chiave nella trattativa. «Mediaticamente è stato molto abile a inserirsi nella mia vicenda, ma credo che l’abbia semplicemente usata per qualche suo tornaconto: non credo che all’epoca sia uscito di prigione per salvare Farouk. Oggi l’indifferenza è purtroppo la mia unica risposta».

Graziano Mesina e la fuga dal carcere a vita. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Luglio 2020. Gratzianeddu s’avanza sul corso Garibaldi, l’ombra lunga, spropositata, sulla strada, a dispetto di un’altezza scarsa compensata dal magnetismo di uno sguardo che annulla ogni altra parte del corpo. Occhiate complici, che si scambiano con i ribelli tratteggiati sui murales. Orgosolo sa di Messico, di rivoluzioni inutili che si susseguono non per risolvere ingiuste sconfitte sociali, ma al solo fine di perpetuare il conflitto: fra lo Stato e uno spirito pagano, irredento e irredimibile. Graziano Mesina è la prova evidente che il carcere sia una afflizione che non serve, se il fine non sia la pacificazione fra l’individuo e la collettività che lo costringe a limare le proprie libertà, anche i propri vizi. Gratzianeddu ha trascorso in galera la maggior parte dei suoi 78 anni, si incontra e divorzia dal carcere da quando aveva 14 anni e fu sorpreso con un fucile da caccia rubato. Fughe e carcerazioni, che si sono alternate col respiro corto, che ancora una volta si affrontano. Ma ora lo scontro è quello definitivo: la Cassazione ha reso irrevocabile una condanna a trent’anni per traffico di droga. La Grazia che gli era stata concessa nel ‘92, in concomitanza con la liberazione di Faoruk Kassam, decade. Sarà prigione per sempre, fino alla morte, se vince lo Stato. Così, il giorno in cui la sua pena diventava definitiva in Cassazione, Mesina non ha attraversato il corso Garibaldi, per andare a firmare il registro nella caserma dei carabinieri, come faceva da un anno, da quando era uscito dal carcere per la scadenza dei termini di custodia cautelare. I carabinieri sono corsi inutilmente a casa di Peppedda, per trovare il fratello Graziano. Sul corso Garibaldi sono rimasti, a corona, gli sguardi dei vecchi, coevi di Gratzianeddu, che per anni lo hanno visto solo nelle sue ore di libertà. Hanno occhi murati, puoi guardarci dentro quanto vuoi, non lo si trova un indizio di verità, né se della fuga siano contenti o meno, o se l’abbiano odiato o amato Graziano. Sono occhi, però, che questa storia l’avrebbero potuta raccontare prima che accadesse, prima dell’ultima fuga, prima del primo arresto. Storie così da queste parti galleggiano nell’aria che arriva dalle grotte del Gennargentu. Storie così hanno il sapore dei lecceti, delle sugheraie del Supramonte, sanno del rancido del formaggio di pecora che il pastore si trascina dietro, per sfamarsi, nelle transumanze infinite che da queste parti avvincono uomini e bestie. Chissà cosa sceglierà Gratzianeddu: la libertà montana del latitante, fatta di cambi continui di ovile, di solitudine che toglie il fiato, grotte umide e sudore che si attacca al velluto delle eriche? O quella libertà a termine delle comodità di paese, cittadine? Se sceglierà la civiltà primordiale e intonsa della Barbagia, o un obiettivo da cine giornale, per recitare un’ultima volta la parte del bandito romantico?

Massimo Gramelli per il "Corriere della Sera" il 4 luglio 2020. La prima volta in cui Graziano Mesina venne arrestato a Orgosolo per un fucile rubato era il 1956. I Beatles, per dire, non esistevano ancora, i sovietici si accingevano a occupare l'Ungheria e uno sconosciuto Tomasi di Lampedusa stava finendo di scrivere «Il Gattopardo». La prima volta in cui evase da una caserma dei carabinieri correva l'anno 1960, quello delle Olimpiadi di Roma e di John Kennedy alla Casa Bianca. E la prima volta in cui lessi un articolo di Montanelli che ne tesseva un po' provocatoriamente le lodi, dovevo avere appena finito il liceo. Così, quando ieri ho saputo che Mesina era di nuovo uccel di bosco, per un attimo ho sperato che si trattasse di un nipote o di un omonimo. Invece era proprio lui, Graziano Mesina detto Gratzianeddu, di anni 78. Il dubbio fascino e la sicura dannazione del nostro Paese è questo eterno ripetersi del sempre-uguale. Un Supergiorno della Marmotta dove c'è sempre un governo che sta per cadere, un magistrato sotto accusa, una situazione economica sull'orlo del collasso e un pensionato di lungo corso che compie gesti per i quali non ha più l'età. Ammettiamolo: prima che a quelle dello Stato, un settantottenne alla macchia è una sfida alle leggi della natura. Neanche nel banditismo sardo siamo riusciti a garantire un ricambio. L'ultimo che hanno arrestato ieri, tra l'altro per sbaglio, è un ex compare di Mesina e ha 77 anni. Sarebbe ora di lasciare un po' di spazio ai giovani, almeno lì.

Mesina di nuovo in fuga sparito dopo la condanna.  Valentina Errante per "Il Messaggero" il 4 luglio 2020. IL CASO ROMA Giovedì, per la prima volta dopo un anno, non si era presentato alla stazione dei carabinieri di Orgosolo per firmare. La decisione della Cassazione, che ha rigettato il ricorso dei suoi legali, rendendo definitivi l'annullamento della grazia concessa nel 2003 e una condanna a trent' anni, ha tardato ad arrivare. Erano le 22.30, ma Graziano Mesina, a quell'ora, aveva già imboccato il sentiero che meglio conosce: quello della fuga. Di nuovo latitante a 78 anni. E così quando i carabinieri del Reparto operativo del comando provinciale di Nuoro si sono presentati in casa della sorella, per eseguire l'arresto di Grazianeddu e scortarlo di nuovo in carcere, la donna ha alzato le spalle: è sparito. Ancora una volta. La caccia a quell'uomo che negli anni è diventato un mito è partita immediatamente. Orgosolo, ieri, si è svegliata sotto assedio. Lo cercano anche nelle grotte del Supramonte, dove Mesina si è nascosto tante volte, durante le lunghe latitanze e dove, quando fingeva di aver cambiato vita, accompagnava i turisti. Una parentesi cominciata dopo la grazia del 2004 e durata per più di nove anni, fino a quando, nel 2013 la Dda di Cagliari ha scoperto che Grazianeddu era a capo di due associazioni criminali. E riforniva di droga tutta la Sardegna.

IL PROFILO. In tanti erano certi che, dopo 40 anni di carcere fosse cambiato. Roberto Castelli che, da ministro della Giustizia del governo Berlusconi, aveva controfirmato il provvedimento di clemenza concesso da Carlo Azeglio Ciampi non ha difficoltà a dire che per lui Mesina è stato «la più grande delusione dell'esperienza di Guardasigilli. E aggiunge: «Sembrava che la sua storia criminale fosse definitivamente chiusa, sembrava che si fosse messo sulla retta via. Ricordo anche che gli parlai direttamente e gli dissi mi raccomando, ora non deludermi e non tradire la fiducia del Presidente della Repubblica e lui mi rispose tranquillo!». La primula rossa del banditismo sardo viene cercato in paese, casa per casa, nelle campagne attorno e in tutta la provincia di Nuoro. Il comando dei carabinieri ha mobilitato tutto il personale disponibile: dagli uomini della stazione di Orgosolo ai militari del Reparto operativo, passando per le otto squadriglie in forza al comando. Impegnata nei rastrellamenti anche la polizia di Stato con gli agenti del Commissariato del paese e il personale della Squadra mobile e delle volanti di Nuoro. Di Mesina però nessuna traccia. Secondo alcune indiscrezioni avrebbe già iniziato una trattativa con le forze dell'ordine per la sua resa, ma la notizia non trova conferme. Per Mario Guerini giornalista, scrittore e studioso del banditismo, Mesina «resterà nascosto finché non si attenueranno le restrizioni per il Covid-19, poi cercherà di lasciare la Sardegna».

LA SENTENZA. Era stato scarcerato tra le polemiche il 7 giugno dell'anno scorso e aveva fatto ritorno a Orgosolo, suo paese natio, dopo sei anni trascorsi nel carcere nuorese di Badu e Carros. Liberato per decorrenza dei termini di custodia cautelare a causa del mancato deposito delle motivazioni della sentenza di condanna in appello a 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga. Le motivazioni erano arrivate a ottobre: 174 pagine scritte dal presidente della Corte d'appello di Cagliari, Giovanni Lavena. Mesina era stato arrestato il 10 giugno 2013, in un blitz che aveva portato in carcere i componenti delle due organizzazioni criminali che dirigeva: 26 affiliati in tutto, tra Orgosolo, Cagliari e la penisola. Secondo la ricostruzione degli inquirenti i contatti con un clan di calabresi che operavano a Milano avrebbero garantito anche carichi di 15 chili di eroina per ogni viaggio.

La saga di Grazianeddu i sequestri, le evasioni la liberazione di Farouk. Valentina Errante per “Il Messaggero” il 4 luglio 2020. Di certo quel giovane pastore di Orgosolo, ultimo di undici figli, arrestato per la prima volta nel 56, non immaginava di diventare un simbolo per intellettuali come Giangiacomo Feltrinelli, protagonista di film e canzoni. Oggi Graziano Mesina, il bandito, aggiunge un'altra pagina alla sua saga: un omicidio, tanti sequestri, intervallati da rocambolesche evasioni. L'ultimo balente ha trascorso in carcere 40 dei suoi 78 anni di vita, ha occupato le pagine dei rotocalchi che hanno raccontato le avventure da latitante, quando, camuffato, riusciva ad entrare allo stadio di Cagliari per seguire Rombo di tuono, Gigi Riva. Ma è la presunta mediazione per la liberazione del piccolo Farouk Kassam a renderlo ancora più famoso.

LE EVASIONI. Ventidue tentate evasioni, dieci andate a segno. La prima volta a 16 anni, quando forza la porta della camera di sicurezza dove lo hanno rinchiuso. Nella sua lunga carriera, salterà da un treno, durante un trasferimento per partecipare a un processo, si calerà dalla finestra di un ospedale lungo un tubo dell'acqua, nel quale rimarrà nascosto per tre giorni. Nel 66 la fuga più sorprendente: con il compagno di prigionia, Miguel Atienza, disertore della Legione Straniera, scalerà il muro del carcere di Sassari, alto 7 metri, gettandosi poi nella centrale via Roma. La prima vittima dei sequestri messi a segno da Mesina è il proprietario terriero Paolo Mossa, liberato dopo aver promesso che avrebbe pagato il riscatto. Poi tocca a Peppino Cappelli. Grazianeddu e Atienza, travestiti da poliziotti, lo fermano a un finto posto di blocco. Il commerciante di carni sarà rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di 18 milioni di lire. Nel 77 Grazianeddu partecipa al sequestro dell'industriale Mario Botticelli. Nel 91 Indro Montanelli è tra i primi a battersi perché Mesina ottenga la grazia, la buona disposizione dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga viene però stoppata da Giovanni Falcone all'epoca direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia.

FAROUK. Un anno dopo il nome dell'ultimo balente compare nel misterioso rapimento del piccolo Farouk Kassam: Mesina questa volta non ha un ruolo, racconta, però, di avere mediato con i sequestratori, favorendo la liberazione dell'ostaggio, costata alla famiglia un miliardo di lire. Una circostanza da sempre negata dalla polizia e dal governo dell'epoca. Nel 2003 Grazianeddu ci riprova e questa volta ottiene la grazia. A firmarla, un anno dopo, è il presidente Carlo Azeglio Ciampi che gli apre le porte del carcere di Voghera. Torna ad Orgosolo, diventa guida turistica nella Barbagia. Nel 2013 torna in carcere con le nuove accuse che gli costano un'altra condanna e la grazia. Adesso è di nuovo in fuga.

“Graziano Mesina ha passato 40 anni in carcere, ora lasciatelo vivere…”. Il Dubbio il 5 luglio 2020. Tra le strade di Orgosolo, Dove Grazianeddu Mesina è un mito popolare. Di lui nessuna traccia, non vuole passare gli ultimi anni della sua vita dietro le sbarre. Graziano Mesina intuiva che stavolta non sarebbe andata liscia, che quella condanna, l’ennesima, a 30 anni per associazione per delinquere, sarebbe stata confermata in Cassazione. Così l’ex ergastolano si era preparato a lasciare la casa della sorella Peppedda, che si affaccia sulla strada principale di Orgosolo (Nuoro) il suo paese, prima dell’arrivo dei carabinieri. A 78 anni, sebbene stanco e rassegnato, l’ex Primula Rossa del Supramonte ha un’unica certezza: dopo oltre 40 anni di carcere, non vuole tornare dietro le sbarre. Viene descritto come un uomo solo, molto cambiato rispetto a quella scintilla e quel furore che hanno alimentato il suo mito di bandito, conteso dai media, fra i protagonisti di una quarantina di tesi di laurea in criminologia.

Nelle strade di Orgosolo. Nelle strade di Orgosolo, in un giorno di fresco maestrale dopo una settimana di caldo infernale, il primo fine settimana di luglio si incontrano soprattutto turisti, anche stranieri, incantati dai circa 350 murales cui il paese deve la sua fama. Gli oltre 4 mila abitanti sono ormai abituati ai visitatori, sanno stupirli con un’ospitalità d’altri tempi e temono che a causa del Covid-19 arriverà solo una minima parte dei 150 mila turisti che ogni anno, in media, si fermano nel paese, anche per godere della natura selvaggia dei dintorni. Ci si imbatte in qualche giovane nei tanti bar coi tavolini all’aperto e negli anziani seduti a chiacchierare in piazza, a pochi passi dalla casa di Corso Repubblica dove Grazianeddu ha trascorso l’ultimo anno dopo che sono scaduti i termini di scarcerazione. "Tzia" Peppedda non abita più con lui, da tempo: malata, è stata portata a Nuoro da una figlia che se ne prende cura. Anche alle altre sorelle, Antonia e Rosa, che vivono assistite da una figlia, nel centro del paese, non lontano dalla casa di Peppedda e di Graziano, la vecchiaia e gli acciacchi hanno portato il bisogno di ritirarsi e proteggersi, anche dall’ombra ingombrante del fratello e dei suoi guai con la giustizia. Il taccuino della cronista di riempie di storie, di frammenti della personalità sfaccettata di "Grazianeddu", racconti tutti rigorosamente anonimi, se si vuole comprendere davvero cosa rappresenti davvero Mesina per la sua comunità. Fermo e gentile, non si lascia scappare niente neanche il parroco, don Salvatore Goddi, originario di Orune (Nuoro), tornato da tre anni a Orgosolo, dove aveva trascorso i suoi primi cinque anni da giovane sacerdote, dopo la sua ordinazione. Ha una parrocchia gioiello, in cui luccicano le più numerose fra le sempre più scarse vocazioni del territorio. Invece, Orgosolo fa eccezione, con un diacono e giovani che si iscrivono alla facoltà di Teologia o in seminario.

Il  mito di Grazianeddu Mesina. Parla, invece, il sindaco, Dionigi Deledda, che preferirebbe soffermarsi sulla bellezza, indiscutibile, e sulle potenzialità del suo paese, più che ritrovarsi da giorni assalito dai giornalisti sulla storia del residente piu’ conosciuto di Orgosolo o interpellato sul duplice raid vandalico che in una settimana ha messo fuori uso le telecamere della videosorveglianza davanti alla piazza principale del paese, a pochi passi dalla casa di Mesina. Ma non si sottrae: “Umanamente è una vicenda che dispiace, ma la giustizia deve fare il suo corso”, spiega il primo cittadino, paziente e disponibile con tutti, sintetizzando le due anime del paese. C’è chi vuole bene a Grazianeddu per la generosità di cui molti hanno goduto e c’è chi gli rimprovera di essere stato un cattivo maestro e di aver portato solo guai. Sono tutti d’accordo, invece, sul carisma del personaggio, sul fascino che ha sempre esercitato sugli altri, anche se si era affievolito dopo che si era giocato la grazia ricevuta nel 2004 dal presidente della Repubblica quando, neanche 10 anni dopo, si era scoperto che era tornato a delinquere. “Ha avuto la sua occasione, l’ha gettata via”, si rammaricano i suoi compaesani, che nell’ultimo anno lo incontravano tutti i pomeriggi mentre attraversava Corso Repubblica, la strada principale del paese, per raggiungere la caserma e firmare. Mesina non l’ha fatto il giorno della sentenza, non si e’ presentato dai carabinieri e non si è fatto trovare nella casa che condivideva con un nipote. Quando i militari sono andati da lui per notificargli l’atto che confermava la condanna a 30 anni, Grazianeddu si era rifugiato altrove. Le forze dell’ordine lo cercano ovunque, soprattutto in paese e nei dintorni, dove qualcuno potrebbe averlo ospitato. L’ex ergastolano non guida, si faceva accompagnare da amici e conoscenti che poi spesso gratificava con denaro o pranzi in ristorante prima di ritrovarsi di nuovo inguaiato. Nel suo periodo d’oro, dopo la grazia, era spesso invitato e mangiava gratis nei locali, forte della sua notorietà dovuta alle molteplici interviste, ai libri che parlavano di lui, alle tantissime conoscenze, anche fra persone che contano e fra i politici della Sardegna.

Rischia ancora il carcere. Ma ora, nell’ultimo anno, Grazianeddu non era più lo stesso: emerge da tutti i racconti. Gli piaceva ancora stare al centro dell’attenzione, ma ora aveva preso a fermarsi a parlare con gli anziani in piazza, cosa che prima di essere arrestato di nuovo, nel 2013, non faceva. Rientrato dal carcere, dopo la grazia, si era circondato anche di giovani, faceva la guida per gli escursionisti nel Supramonte che conosceva così bene e poi, come hanno scoperto le indagini, anche affari loschi che hanno portato alla condanna a 30 anni. Dal giugno 2019 Grazianeddu si poteva muovere esclusivamente in paese, aveva l’obbligo di dimora, si fermava a parlare con cordialità per strada, con tutti, perchè a Orgosolo, anche quando c’è risentimento non sia mai che non ci si saluti o non ci si offra un caffè. Al sindaco qualche tempo fa aveva segnalato un palo rotto. “Dionigi, guarda qui”, gli aveva segnalato, perchè il primo cittadino provvedesse. Chi lo conosce bene dubita che possa togliersi la vita, come qualcuno aveva ipotizzando: è convinto, invece, che Grazianeddu sia nascosto da qualche parte, non lontano da Orgosolo (se non addirittura in paese), e che voglia trattare prima di consegnarsi, per non dover tornare in cella, per scontare la pena con un’alternativa al carcere. Di questo negoziato non ci sono conferme. Polizia e carabinieri, che presidiano il territorio con pattuglie e posti di controllo agli ingressi del paese, si sono chiusi in un riserbo assoluto, concentrati sulle ricerche dell’ex ergastolano. Il suo mito è sbiadito, molti a Orgosolo hanno dimenticato le ragioni per cui è stato condannato e c’è chi arriva a pensare che sia il caso, alla soglia di 80 anni, di lasciarlo in pace, perchè più di metà della sua vita l’ha trascorsa in carcere.

G. Solinas e R. Secci per agi.it il 3 luglio 2020. Graziano Mesina è in fuga dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dai suoi legali, rendendo così definitiva la condanna a 30 anni di reclusione. Ne dà notizia il quotidiano L'Unione Sarda. "Ora per l'ex primula rossa si riaprono le porte del carcere con un provvedimento che potrebbe arrivare in queste ore, anche se lui al momento risulta irreperibile", scrive il giornale. Dopo la condanna in appello per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, Mesina era tornato libero per decorrenza dei termini. Mesina, che vive a Orgosolo non possiede telefono e non è reperibile. "Non abbiamo ricevuto alcun documento da parte della Cassazione, nessun documento ufficiale. Nessun ordine di esecuzione". Così l'avvocato di Graziano Mesina, Maria Luisa Vernier, raggiunta telefonicamente dall'AGI. Il legale ha spiegato di non aver avuto contatti recenti con Mesina: "Vive a Orgosolo e non ha telefono", ha detto. L'ex primula rossa del banditismo sardo, alla veneranda età di 82 anni e con qualche problema di salute, famoso per le sue spericolate e avventurose evasioni, si è reso irreperibile alla vigilia del pronunciamento della Cassazione che rende definitiva la condanna a 30 anni di carcere. Mesina sarebbe "sparito" da Orgosolo la notte tra mercoledì e giovedì scorsi. Si ipotizza che si sia rifugiato a casa di qualche amico: appare infatti poco probabile una latitanza in campagna, vista l'età e le condizioni fisiche. Da quanto si apprende nelle ricerche sono mobilitate tutte le forze dell'ordine anche se non è scattato il piano regionale anticrimine. I controlli, al momento, sono concentrati nel Nuorese, anche se sono stati messi in stato di allarme i comandi dei carabinieri e le questure di tutta l'isola.

In libertà da giugno 2019. Mesina era tornato in libertà il 19 giugno del 2019 dopo sei anni di carcere a Nuoro per decorrenza dei termini di carcerazione. L'ex primula rossa del banditismo sardo, che scontava una condanna a 30 anni per traffico internazionale di droga, era rientrato a Orgosolo accompagnato dai suoi legali. Mesina era stato condannato dalla Corte d'appello di Cagliari a 30 anni di reclusione con la revoca della grazia concessa nel 2004 dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Era stato arrestato il 10 giugno del 2013. Era in custodia cautelare in attesa delle motivazioni della sentenza. Decorsi i sei anni è tornato libero per scadenza dei termini. Mesina si era sempre proclamato innocente.

La storia di Grazianeddu. Ex ergastolano, Graziano Mesina era tornata libero nel 2004, dopo aver trascorso quasi 40 anni da detenuto. La sua 'carriera' di bandito era iniziata quand'era giovanissimo e il carcere l'aveva conosciuto presto, dopo una prima condanna per omicidio. Nato il 4 aprile del 1942 a Orgosolo, penultimo degli undici figli di Pasquale Mesina, pastore, e Caterina Pinna, "Grazianeddu" era stato arrestato la prima volta a 14 anni per porto abusivo d'armi. Poco dopo era fuggito compiendo la prima delle evasioni che l'avrebbero reso celebre. La seconda fuga risale al maggio del 1962, quando durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari si era lanciato da un treno in corsa. La libertà era durata poco: Mesina era stato catturato dopo un lungo inseguimento. Dello stesso anno è la terza evasione, questa volta dall'ospedale di Nuoro dov'era ricoverato. Per sfuggire alla cattura Mesina era rimasto nascosto due giorni e due notti in un grosso tubo nel cortile del presidio. La quarta volta Grazianeddu era evaso dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Mesina, assieme all'ex legionario spagnolo Miguel Atienza, si era lasciato cadere dal muro di cinta del carcere. Da allora era rimasto alla macchia fino al 20 marzo del 1968 quando era stato catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale nei pressi di Orgosolo. Ancora un'evasione dal carcere di Lecce nel 1976, con una latitanza durata quasi un anno. Dopo essere stato rinchiuso nel penitenziario di Porto Azzurro per scontare l'ergastolo Mesina aveva di tenere un comportamento irreprensibile per ottenere il riesame della sua vicenda processuale. Nel 1985 si era allontanato dal carcere per una 'fuga d'amore' ma era stato rintracciato e catturato. Le sue fughe e la sua latitanza sono diventate mitiche in Sardegna e si racconta che spesso tornasse a Orgosolo per incontri con donne innamorate di lui. Dopo un periodo di relativo silenzio, l'ex primula rossa del banditismo sardo era tornato alla ribalta nel 1992 quando era rientrato in Sardegna per occuparsi del sequestro di Farouk Kassam. La vicenda aveva suscitato polemiche sul ruolo di Mesina nella liberazione del bambino. L'anno successivo era stato rinchiuso definitivamente in carcere dopo che furono ritrovate alcune armi in un cascinale di San Marzanotto d'Asti, dove "Grazianeddu" viveva. Era stato condannato dalla Corte d'appello di Cagliari a 30 anni di reclusione con la revoca della grazia concessa nel 2004 dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Poi era stato arrestato il 10 giugno del 2013, per traffico internazionale di droga. Tre anni più tardi Mesina era stato condannato a 30 anni di carcere per associazione a delinquere specializzata nel traffico di droga. Il verdetto della seconda sezione penale del tribunale di Cagliari era stato più pesante della richiesta del pubblico ministero, che aveva chiesto la condanna a 26 anni di carcere. Nel 2018 la pena gli era stata confermata in appello. Mesina, che si e' sempre proclamato innocente, era tornato in libertà il 10 giugno dell'anno scorso dopo sei anni di carcere a Nuoro per decorrenza dei termini di carcerazione.

Graziano Mesina, assieme ad altre 26 persone di varie parti della Sardegna, è stato arrestato il 9 giugno 2013 dai carabinieri di Nuoro nell'ambito di un'operazione che ha condotto allo smantellamento di due associazioni dedite al traffico di stupefacenti, ma anche a rapine e furti, scrive “Il Corriere della Sera”. In progetto c'era anche un sequestro di persona. Nel corso delle indagini, infatti, gli investigatori hanno scoperto che Mesina aveva già fatto un sopralluogo e fornito dettagli precisi sull'ostaggio ai suoi sodali, così come è emerso dalle intercettazioni. Per diversi mesi infatti, dal 2009 al 2010 Mesina e complici programmarono il sequestro dell'imprenditore di Oristano Luigi Russo «e compirono una serie di atti preparatori tra cui almeno due sopralluoghi nell'abitazione del sequestrando» si apprende dall'ordinanza del Gip. Le indagini che hanno portato all'operazione, condotta dall'Arma provinciale in collaborazione i colleghi di Milano, Cagliari, Oristano, Sassari e Reggio Calabria, dai Cacciatori di Sardegna e dai militari del decimo nucleo elicotteri di Olbia, sono iniziate 5 anni fa. Mesina doveva infatti già finire in carcere nel maggio dello scorso anno per traffico di sostanze stupefacenti, ma l'arresto è stato differito dalla procura di Cagliari per non compromettere le indagini. L'ex ergastolano ha continuato ad essere monitorato fino a questa notte quando sono stati eseguiti i provvedimenti di misura cautelare anche nei confronti di altre 25 persone delle due organizzazioni scoperte dai carabinieri. I militari hanno colpito gli appartenenti a due organizzazioni dedite al traffico di droga ed altro. Dalle indagini è emerso che Graziano Mesina sarebbe stato a capo di quella più pericolosa. Tra i più famosi banditi sardi del dopoguerra, il 71enne è accusato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Mesina è stato sorpreso nel sonno a casa della sorella Antonia, ad Orgosolo. Non si è mostrato affatto sorpreso ed ha mantenuto la calma seguendo i Carabinieri in caserma a Nuoro. Poi sarà portato nel carcere di Badd'e Carros. Dopo l'arresto ha contattato il suo legale «storico», il penalista nuorese Giannino Guiso, con studio a Milano, già difensore dell'ex primula rossa. L'avvocato Guiso, 70 anni, in passato, ha difeso il leader socialista Bettino Craxi, ma anche il brigatista Renato Curcio e il sindaco socialista di Milano Carlo Tognoli. Mesina, secondo gli inquirenti, sarebbe stato capo carismatico di una organizzazione che aveva base a Orgosolo, con disponibilità di armi, e che non si occupavano solo di stupefacenti, ma anche, come detto, di rapine, furti e sequestri. Capo dell'altra organizzazione sgominata dai carabinieri, con base nel cagliaritano, è ritenuto Gigino Milia, con il quale Mesina ha una amicizia risalente nel tempo (sono stati coimputati e condannati rispettivamente per sequestro di persona e ricettazione il 23 giugno 1978 dal Tribunale di Camerino). Graziano Mesina e Gigino Milia, fino al 2010, sfruttando le loro conoscenze ed il credito riconosciuto loro dagli esponenti della criminalità isolana e della penisola, hanno acquistato grosse partite di droga - eroina, cocaina, marijuana - rivendendole a gruppi minori e persone dediti allo spaccio nelle province di Cagliari, Sassari e Nuoro. In seguito, Mesina - sempre secondo gli inquirenti - ha proseguito le sue attività illecite utilizzando canali autonomi di approvvigionamento. Conosciuto per le sue numerose evasioni (ventidue, di cui dieci riuscite) e per il suo ruolo di mediatore nel sequestro del piccolo Farouk Kassam, Mesina, dopo aver scontato 40 anni di carcere e aver trascorso cinque anni da latitante e 11 agli arresti domiciliari, era tornato libero il 25 novembre 2004, avendo ottenuto la grazia dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La lunga storia dei conti di Graziano Mesina con la giustizia comincia nel 1956: «l'ultimo balente» aveva 14 anni e venne arrestato per porto abusivo di pistola e oltraggio a pubblico ufficiale. Ottenne il perdono giudiziale. Da alcuni anni era tornato nella sua Orgosolo, dove aveva avviato l'attività di guida turistica, accompagnando centinaia di persone nelle zone più impervie della Barbagia, luogo delle sue fughe rocambolesche. Sgomento e incredulità ad Orgosolo per l'arresto di Graziano Mesina. Nessuno nel paese barbaricino, a 25 chilometri da Nuoro, si aspettava che l'ex primula rossa del banditismo sardo finisse di nuovo in carcere. «Sono sorpreso, ho appena appreso la notizia dell'arresto e non ho nessun elemento per fare commenti - dice all'Ansa il sindaco Dionigi Deledda - Prendo atto della notizia ma essendo le indagini ancora in corso è meglio non entrare nei particolari della vicenda, non ne conosco i risvolti». Deledda, sindaco in carica dal 2010, ci tiene però a descrivere Orgosolo come un paese tranquillo e Mesina come una persona, da quando era tornato nel suo paese d'origine dopo la grazia, gentile e disponibile con tutti.

Graziano Mesina

• Orgosolo (Nuoro) 4 aprile 1942. Ex bandito. Graziato nel 2004 da Ciampi. «Nessuna delle persone che ho rapito si è mai costituita parte civile ai processi. Ci sarà un motivo. Con alcuni poi sono diventato persino amico».

• «Piccolo, robusto, agilissimo, penultimo di 10 figli, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fai da te» (Alberto Pinna), a quattordici anni fu arrestato per il furto d’un fucile (se la cavò con il perdono giudiziale), a diciotto, a conclusione della festa dei coscritti della classe di leva 1942, distrusse a fucilate un lampione di Orgosolo, il suo paese. «I carabinieri lo presero per la collottola e lo portarono in caserma. Se la sarebbe cavata con poco se non avesse avuto la dissennata idea di darsela a gambe. La “Prima evasione”, nella mitologia mesiniana. Sette mesi di galera, nella realtà della vita del giovane deviante. Il salto definitivo nella grande criminalità ha il più classico dei movimenti. È il 1962 e uno dei dieci fratelli viene assassinato per vendetta. Il ventenne Graziano irrompe in un bar di Orgosolo e spara contro quello che ritiene il responsabile dell’omicidio. Scoppia una rissa. Mesina viene tramortito con un colpo di bottiglia sulla testa. Finisce in ospedale e, non appena si riprende, fugge. Seconda evasione. Alla fine saranno in tutto nove. Quindi i sequestri di persona, le interviste esclusive a viso scoperto, col mitra in mano, e una corte di complici incappucciati attorno. Una sparatoria in campagna, un nuovo arresto. Nel 1968 il mito di Mesina è consolidato. Raggiunge Giangiacomo Feltrinelli che crede di poterne fare il Che Guevara sardo. La trattativa, come era ovvio, non porta a nulla. Ma contribuisce ad alimentare la leggenda e anche la paura quando, nel 1976, Grazianeddu evade dal carcere di Lecce con alcuni terroristi. In realtà della politica non gliene è mai importato niente. Quando, nel 1991, ottiene la libertà vigilata e partecipa alla trattativa per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, s’invischia in una partita pericolosa con i servizi segreti. Poco dopo, nella villetta dell’astigiano dove si è stabilito, irrompono i carabinieri e scoprono un piccolo arsenale: un kalashnikov, due pistole automatiche, un revolver, due bombe a mano, cinquemila cartucce. “Una trappola”, accusa. Ma perde nuovamente la libertà» (Giovanni Maria Bellu).

• «Ero il latitante più ricercato d’Italia ma andavo alle partite del Cagliari nell’anno dello scudetto (1970). Sono entrato allo stadio, sempre travestito, anche da donna». (Alberto Pinna, Corriere della Sera 11/6/2013)

• «Piace tanto a Indro Montanelli, uno dei primi a battersi perché gli venga concessa la grazia. In un giorno del luglio del 1992 il grande giornalista si ritrova faccia a faccia con il bandito. Lui gli racconta aneddoti della sua vita (“Da bambino pescavo le trote con le mani, poi purtroppo fui costretto a usarle per altri scopi”), delle sue fughe “Mi portavano sempre in carceri di massima sicurezza ma non ne esiste uno incompatibile con l’evasione”), di se stesso (“Ero un po’ ribelle, scintilloso come si dice da noi: colpa dei soprusi dei proprietari terrieri e dei giudici”) e poi confessa: “Avrei potuto sparare a Saragat (l’ex presidente della Repubblica), ogni tanto ci facevo un pensierino. Saragat venne otto volte a Orgosolo, sempre per invitare la gente a farmi prendere. Sapevo esattamente dove sarebbe passato l’elicottero e a quale balcone si sarebbe affacciato. Volendo, lo tiravo già come un piccione». (Attilio Bolzoni, la Repubblica 11/6/2013)

• Ha tentato poi l’avventura nel campo del turismo (agenzia 11 Mori): «Voglio far vedere la Sardegna che conosco meglio, la zona di Orgosolo, i sentieri più nascosti, gli scorci più incredibili» (a Gianluigi Nuzzi).

• Nel 2009 una mancata partecipazione all’Isola dei Famosi di Simona Ventura, annullata all’ultimo per «motivi di opportunità». Spesso presente a dibattiti sul banditismo. A Gorizia, nel maggio 2013: «Non voglio mescolarmi con la delinquenza di oggi, senza regole e senza coscienza».

• All’alba del9 giugno 2013 è stato arrestato, insieme ad altre 24 persone, con l’accusa di avere «promosso, costituito, diretto e organizzato un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti». La banda, composta tutta da fedelissimi di Mesina, si sarebbe rifornita di droga in Calabria e a Milano grazie ai contati con la ’ndrangheta e la malavita albanese, per poi rivenderla a gruppi di spacciatori in Sardegna. Sullo sfondo, secondo gli inquirenti, anche l’idea di tornare ai rapimenti.

Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015, scheda aggiornata al 11 giugno 2013.

Mesina story tra evasioni e fughe d'amore. Dopo la grazia, pareva fosse diventato un uomo tranquillo, scrive “Televideo Rai”. Era a capo di una banda di trafficanti di droga. Una vita tormentata, quella di Graziano Mesina, fatta di periodi latitanza, lunghe detenzioni in carcere, molte evasioni, qualche fuga d'amore, e anche tanta notorietà che rischiava persino di farlo diventare una star televisiva. Dopo la grazia, sembrava che fosse diventato un uomo tranquillo, che vivesse di ricordi da raccontare ai turisti che andavano a visitarlo, e invece è tornato, a 71 anni suonati, dietro le sbarre di una cella. Mesina, detto "Grazianeddu", iniziò la sua "carriera" di bandito giovanissimo e giovanissimo finì in carcere. Nato il 4 aprile del 1942 ad Orgosolo, penultimo di dieci figli di Pasquale Mesina, pastore, e Caterina Pinna, fu arrestato la prima volta a 14 anni per porto abusivo d'armi. Poco dopo, fuggì compiendo la prima delle evasioni che lo resero celebre. La seconda fuga risale al maggio del 1962, quando durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari si lanciò da un treno in corsa. La libertà durò poco: venne catturato dopo un lungo inseguimento. Nello stesso anno realizzò la terza evasione, questa volta dall'ospedale di Nuoro dove era ricoverato. Per sfuggire alla cattura rimase nascosto due giorni e due notti nel cortile dentro un grosso tubo. La quarta evasione di "Grazianeddu" fu quella dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Mesina assieme all'ex legionario spagnolo Miguel Atienza si lasciò cadere dal muro di cinta dell'istituto di pena. Da allora rimase alla macchia fino al 20 marzo del 1968 quando venne catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale nei pressi di Orgosolo. Trasferito nella Penisola fece parlare ancora di sé per le sue fughe spericolate. Evase, ancora una volta, dal carcere di Lecce nel 1976 e rimase latitante per quasi un anno. Dopo essere stato rinchiuso nel penitenziario di Porto Azzurro per scontare l'ergastolo, l'ex primula rossa del banditismo sardo decise di tenere un comportamento irreprensibile per ottenere il riesame della sua vicenda processuale. Nel 1985 di allontanò dal carcere per una "fuga d'amore" ma venne rintracciato e catturato. Le fughe e i periodi di latitanza di Graziano Mesina contribuirono a costruire il mito del bandito indomabile, un mito che crebbe anche fra le donne e si racconta che spesso si recasse a Orgosolo per incontri con ragazze innamorate di lui. Dopo un periodo di relativo silenzio, Graziano Mesina tornò alla ribalta nel 1992 quando rientrò in Sardegna per occuparsi del sequestro del piccolo Farouk Kassam. La vicenda suscitò polemiche in particolare sul ruolo di Mesina nella liberazione del bambino. L'anno successivo venne rinchiuso definitivamente in carcere dopo che furono ritrovate alcune armi in un cascinale di San Marzanotto d'Asti, dove "Grazianeddu" viveva. Finì di nuovo in carcere sostenendo di essere stato "incastrato" e proclamando la sua innocenza. Dopo un lungo periodo di detenzione arrivò la grazia concessa da Ciampi, dopo diversi appelli, il 24 novembre del 2004. L'ex primula rossa del banditismo sardo tornò alla ribalta della cronaca per le polemiche suscitate dall'annuncio della sua partecipazione, nell'ottobre del 2009, all'"Isola dei famosi", il reality show condotto allora da Simona Ventura. In molti giudicarono inopportuna la sua partecipazione a una trasmissione televisiva di grande ascolto e perciò venne escluso. Mesina rimase quindi in Barbagia a fare la guida turistica e a tutti sembrava che la vita movimentata del bandito fosse per lui solo un ricordo. E invece, i carabinieri hanno bussato ancora una volta alla sua porta.

L'ex capo dell'Anonima in manette per spaccio di droga. E progettava anche di rapire un imprenditore, scrive Gian Marco Chiocci  su “Il Giornale”. L'ultimo ritratto giudiziario dello «zio», come il celeberrimo Graziano Mesina viene rispettosamente chiamato dai presunti complici più giovani, è quello di un uomo «dall'indole violenta», a dispetto dei 71 anni, «eccezionalmente pericoloso» e con una grande leadership criminale. Per la Dda di Cagliari, il bandito gentiluomo che ha fatto la storia dell'Anonima sarda facendosi trent'anni di galera inframezzati da decine di evasioni (ottenne la grazia dal presidente Ciampi) avrebbe allacciato e mantenuto i rapporti con i trafficanti calabresi trapiantati a Milano per importare e spacciare in Sardegna decine di chili di eroina e cocaina, finanziando lo stesso acquisto degli stupefacenti e regolando direttamente i rapporti commerciali coi corrieri. Accuse pesanti quelle riportate nelle carte della procura sarda. Accuse che lasciano perplessi gli addetti ai lavori perché Mesina, la droga l'ha sempre lasciata fuori dai suoi giri criminali. «Oh, tre viaggi: manco uno ne ha pagato... lo sai chi li ha pagati? Io. Ma pagati dalla tasca», dice Grazianeddu intercettato in ambientale mentre si lamenta del tiro mancino che il suo socio Gigino Milia gli ha giocato. Non si presenta agli appuntamenti e non anticipa i soldi per le spese vive, il vecchio amico con cui è stato condannato per un sequestro di persona anni addietro. Con lui, a un certo punto, Mesina decide di rompere. La droga che gli procura fa schifo - scrivono i carabinieri - è di pessima qualità. «Tutta roba che non valeva, era da buttare», ringhia Mesina. Che, a un certo punto, osservano gli inquirenti, medita il grande salto. Come? Mettendosi direttamente in contatto coi grandi narcos sudamericani. Ha già il passaporto in tasca, s'è pure informato sul costo della sostanza («dice che lì la vendono a 5mila euro al chilo», sussurra un complice). E per i viaggi in Sudamerica, ha pensato pure a un alibi di ferro. I viaggi transoceanici, annota il gip, «che non sarebbero certo passati inosservati, egli contava di giustificarli con visite ad un amico, il fotografo Antonello Zappadu (quello degli scatti nella villa di Berlusconi a Villa Certosa) che si era trasferito in Colombia». Ma il progetto naufragherà. L'inchiesta (30 indagati, 25 in carcere e il resto ai domiciliari) si regge quasi esclusivamente sulle intercettazioni. La voce di Mesina esce di continuo dalle attività di monitoraggio delle utenze telefoniche e dalle cimici piazzate nella sua Porsche Cayenne. Ore e ore di conversazioni in dialetto in cui spuntano parole considerate sospette, che gli inquirenti associano al traffico di stupefacenti: «foraggio», «cagnolino», «fieno». Lo stesso ex ergastolano viene ascoltato mentre si lamenta che «la vitella non è tanto grassa e in più ne mancano quattro». Con la droga addosso, però, Grazianeddu non è mai stato trovato. Così come i fucili mitragliatori che spuntano qua e là nelle intercettazioni, che sarebbero nella disponibilità di Mesina. La sua organizzazione, si legge nell'ordinanza d'arresto, si sarebbe estesa presto ad altre attività criminali se ne avesse avuto il tempo. Pare progettasse addirittura un sequestro di persona nei confronti di un uomo che «Mesina programmava di tenere in cattività per un anno prima di iniziare le trattative proponendosi come emissario». E, per chi non onorava i debiti, la vendetta dello «zio» sarebbe arrivata inesorabile come quando avrebbe costretto il figlio piccolo di un uomo che gli doveva dei soldi «a telefonare a suo padre per dirgli che aveva rotto i coglioni ed era ora di pagare». La cosa curiosa è che il notoriamente accorto Mesina, al telefono, straparlava senza alcuna cautela. Forse perché «se avesse trovato qualcuno che metteva delle microspie nella sua vettura l'avrebbe immediatamente ucciso». Eppoi, rimarcano il gip, non avrebbe esitato ad aprire il «fuoco sui carabinieri» se si fosse trovato al posto di alcuni rapinatori di Orgosolo, messi in fuga prima del colpo. Altro che «barbaricino taciturno», Grazianeddu si «è mostrato piuttosto loquace» rivelando ai propri interlocutori «dettagli che essi non conoscevano». E che pure i carabinieri ignoravano.

Orgosolo attende la verità su Mesina. "Il nostro è un paese come un altro". La precisazione di Antonia Mesina al microfono del Tg di Videolina ("Mai offerto un caffé alla polizia") continua a far discutere nelle strade di Orgosolo. L'arresto di Grazianeddu ha riacceso i riflettori, ma tra il dedalo delle viuzze illuminate dai murales vivono la vicenda con disincanto. Emerge anche dall'articolo sull'Unione Sarda di Piera Serusi. Un paese orgoglioso, "ma come tutti gli altri", è un commento quasi unanime. Nel corso, al bar, nel dedalo delle viuzze abbellite dai murales, nel piazzale della chiesa, ti aspetti musi lunghi alla vista del cronista ma, nella maggior parte dei casi, così non è. Orgosolo si conferma un paese ospitale anche quando, suo malgrado, si sono riaccesi i riflettori. L'arresto di Graziano Mesina e di altri compaesani ha messo a rumore il paese che, con un disincanto che non ti aspetti, appare sereno, "in attesa che giustizia sia fatta". Emerge dall'articolo pubblicato sull'Unione Sarda di oggi, a firma di Piera Serusi. Ed è emerso dal reportage dell'inviata del Tg di Videolina Mariangela Lampis, in onda in tutte le edizioni del tg. Quanto all'inchiesta, che ha portato in carcere 26 persone con l'accusa - in particolare - di traffico di droga, va avanti con gli interrogatori. Graziano Mesina, l'altro giorno a Badu e' Carros, si era avvalso della facoltà di non rispondere. Ieri a Buoncammino l'avvocato Corrado Altea, coinvolto nell'inchiesta, ha detto: "Ho fatto solo il mio lavoro con clienti che conosco da quasi vent'anni".

Antonia Mesina parla in esclusiva al microfono di Mariangela Lampis. Ecco l'intervista rilasciata al tg di Videolina. Orgosolo. Il paese è ancora frastornato. Gli anziani parlano dell'arresto di Grazianeddu, i giovani si esprimono sulle "loro" piattaforme. Hanno già postato i loro commenti sulla Rete e detto la loro sui social network. In fondo, l'arresto di Graziano Mesina è stato anche un modo per riaffermare una identità forte, troppo forte. In certi momenti storici dileggiata, ma sempre temuta. Orgoloso è più che un Paese. Sono passati appena tre giorni dall'arresto del fratello e forse per Antonia Mesina, lunedì mattina, è stato come rivedere un vecchio film.

(D: domanda. R: risposta)

«Lei si è spaventata quando ha visto le Forze dell'Ordine?», chiede la giornalista di Videolina.

R. «Non lo so se mi sono spaventata o che cosa, vedere tutta quella Giustizia...».

D. «Raccontano però che lei ha preparato il caffè e i biscotti».

R. «E' bugia. Io caffè non ne ho fatto. Io la polizia non la posso vedere neanche. Non mi potevo neanche alzare com’ero. Stia tranquilla che io caffè non ne ho fatto: è bugia quello che hanno scritto».

D. «Cosa è successo allora?»

R. «Io ero seduta nel divano, mio fratello si è alzato mentre hanno frugato la casa. Io non mi sono neanche alzata».

D. «Cosa l'ha infastidita di più di questa vicenda?»

R. «Quello che hanno ordito, è una cosa che hanno ordito».

D. «Lei non ha parlato con nessuno?»

R. «Con nessuno. Non ho scambiato parole con mio fratello».

D. «Lo chiamavano per vendere terreni...».

R. «Certo. Lo chiamavano. Per esempio, hanno fatto la tesi molte ragazze (sul banditismo e sulla figura di Graziano Mesina), sono venute qui a leggerle».

D. «Lui cosa le ha detto prima di essere portato via?»

R. «Mi ha detto di stare tranquilla. Nient’altro».

D. «Ha sentito l'avvocato nel frattempo?»

R. «Ho sentito adesso l’avvocato, che è andato ieri. Poi non l’ho più sentito».

Il legale Corrado Altea, accusato di far parte della banda di trafficanti diretta dall'ex primula rossa, davanti al Gip: "Mesina inferocito è una tigre". L'avvocato Corrado Altea risponde alle domande del giudice per le indagini preliminari Giorgio Altieri e del pubblico ministero Gilberto Ganassi, secondo quanto scrive “L’Unione Sarda”. Il 13 giugno, a Buoncammino, racconta: "L'ultima volta che vidi Graziano Mesina, mi pare fosse la quarta, era terribilmente trafelato. Lo ricordo come fosse oggi: era fine estate del 2009, il 14 agosto. Venne ai Pini, l'ultimo lido del Poetto. Ci mettemmo in un tavolo, bevemmo una birra, mangiammo qualcosa. Mia moglie era terrorizzata, perché Mesina se lo guardate negli occhi quando è inferocito sembra una tigre. Sembra abbia gli occhi anche dietro. Mi disse che aveva questioni con Gigino. Lo voleva uccidere subito". Gip e pm gli chiedono dei rapporti con Gigino Milia, Leone Bruzzaniti, Antonello Mascia, Guido Brignone, Christian Mancosu e gli altri (presunti) affiliati orgolesi, cagliaritani, albanesi e calabresi della banda di trafficanti che, in Sardegna, aveva al vertice l'ex primula rossa. Secondo le accuse, Altea aveva un ruolo importante nel gruppo capeggiato dall'ex ergastolano. Ancora, su Mesina dice: "Lo conoscevo di fama". Il primo incontro è del 2008: "Avevo fatto un processo a Tempio o Sassari e al rientro, sulla Carlo Felice, mi chiamò Gigino. Vieni a pranzo che sono con un amico , mi propose. Era a Zeddiani, lo trovai appartato con questa persona che riconobbi subito. Mi disse che Gigino gli aveva parlato bene di me e che aveva avuto in carcere contatti con alcuni miei clienti che avevano fatto altrettanto, così mi chiese: se malauguratamente ho bisogno, tocchiamo ferro, posso rivolgermi a lei? Io accettai, ritenevo prestigiosa la sua difesa". Poi vi fu l'episodio del Poetto a Cagliari, quello della tigre inferocita. Graziano Mesina voleva ammazzare Gigino Milia, considerato il capofila della banda parallela di trafficanti di droghe, scrive “La Nuova Sardegna”. Il bandito di Orgosolo ce l’aveva con lui, voleva farlo fuori subito. Era l’estate del 2009 e il bandito di Orgosolo cercò con insistenza Corrado Altea, l’avvocato finito in carcere nell’inchiesta della Dda con trenta arrestati e nuovi indagati in vista. Ed è stato proprio il penalista originario di Arbus a raccontare, nel corso di un’esame di garanzia durato quasi cinque ore, quell’incontro dai contenuti forti avvenuto al chioschetto i Pini, sulla spiaggia del Poetto: «Mia moglie Silvia era terrorizzata - ha riferito Altea al gip Giorgio Altieri e al pm Gilberto Ganassi - perché Mesina, se lo guardate negli occhi quando è inferocito, sembra una tigre». Il contenuto del colloquio lascia poco spazio alle congetture: «Mesina - ha raccontato il legale - mi disse che aveva questioni con Gigino. Te ne parlo perché sei il suo avvocato, disse, io lo devo ammazzare. Dimmi dov’è, perché quando mi viene a trovare viene con la moglie e i figli, che mi mette davanti come scudo e io non posso ammazzarlo». Altea, così ha raccontato, cercò di mantenere il controllo: «Mi chiedeva dove si trovasse e io ho gabbato, ci siamo bevuti una o due birre, ho cominciato a dargli del tu, una cosa per avvicinarlo. Graziano, gli ho detto, io non voglio sapere che questione avete voi due, però se è una questione di interesse, soldi o altra cosa non grave se ne parla, capperi! Avete fatto quello che avete fatto insieme, si può risolvere». Altea ha fatto riferimento a una rapina compiuta negli Anni Settanta, Mesina e Milia insieme, a una bisca del temibile boss milanese Francis Turatello: «Ci vollero dei pazzi come loro... lo seppi perché me lo disse il portinaio di corso Sempione, la bisca era piena di stecche di sigarette e il portinaio, un po’ più furbo di loro, sapeva dove tenevano l’oro e gli orologi, lasciati in pegno dai giocatori. Fecero man bassa». Tornato al presente, Altea ha illustrato la sua opera di paciere: «Calmati un attimo, se sei disposto a ragionarci su ti porto Gigino dove vuoi, però risolvetela pacificamente, la questione». Sarebbe stato questo, secondo Altea, l’ultimo incontro con Mesina: «Da allora non l’ho più visto, né tantomeno ha ammazzato Gigino. Si è calmato, non so come abbiano risolto i loro rapporti». I magistrati gli hanno chiesto di precisare le ragioni di quella lite finita senza sangue. La risposta: «Mesina mi ha detto solo che erano questioni di tanti soldi che lui avanzava da Gigino». Fin qui il rapporto Altea-Mesina, che per la Dda e per il gip Altieri è ampiamente provato come sodalizio d’affari tutt’altro che puliti. Ma nel corso di un monologo che copre undici delle venticinque pagine del verbale dell’esame di garanzia, l’avvocato - assistito dai colleghi Giuseppe Duminucu, Daniele Condemi e Jacopo Ruggero Porcu - ha cercato di chiarire uno per uno ciascuno dei rapporti sospetti che gli vengono attribuiti nell’ordinanza d’arresto. Con un dato generale di partenza: «Se tu vuoi essere l’avvocato dei grossi traffici (di droghe, ndr) ti devi prestare a questo gioco qui... io non mi sono prestato, ero un po’ ingolosito ma ho detto basta». La tesi difensiva è semplice: Altea era l’avvocato storico di Gigino Milia, trafficante conosciuto e temuto. Attraverso Milia il legale, arrivato in Sardegna dopo una lunga e lucrosa attività professionale in Lombardia, ha conosciuto altri personaggi della mala locale e nazionale. Da allora lavora borderline ma lavora e basta, segue le vicende giudiziarie per rimediare denaro, perché i clienti scarseggiano: «Ero arrivato a Cagliari a novembre del 1999 con un miliardo e centomila lire sul mio conto, me li sono fulminati». Poi sono arrivati i guai («subornato da Luigi Lombardini») e le conseguenti difficoltà: «Mi hanno veramente avvelenato - ha ricordato Altea, davanti ai due magistrati - poi ho superato questa forma di avvelenamento, dallo psicanalista non ci sono andato e ho cercato di reinserirmi chiedendo a Gigino. E guardate che cosa ho avuto». Quindi vittima del suo stesso cliente storico, di chi gli ha aperto la strada nei tribunali sardi per poi trascinarlo - così ha fatto capire - nella zona grigia tra professione e malavita: «Adesso ho capito - ha detto Altea ai giudici - dalla lettura dell’ordinanza ho capito che Gigino, approfittando della familiarità che aveva con me, mi ha strumentalizzato». Ma in realtà il rapporto era solo professionale: «Emerge chiaramente - ha sostenuto l’avvocato Condemi - che il collega non si è arricchito nell’attività, emerge che sia stato strumentalizzato e sia vittima di queste persone. Lui ha dato biglietti da visita, era certo di aver svolto attività di difensore».

In carcere per 40 anni, poi la grazia. Grazianeddu: "Ora dovrò fare qualcosa". Mesina venne scarcerato a Voghera nel novembre del 2004: ecco il racconto di quelle ore fatto dal giornalista Giorgio Pisano su L'Unione Sarda dell'epoca. Il 25 novembre del 2004, il giorno dopo la grazia concessa dal presidente della Repubblica Carlo Atzeglio Ciampi, Graziano Mesina tornava a essere un uomo libero dopo essere stato rinchiuso per anni nel penitenziario di Voghera. Ecco l'articolo di Giorgio Pisano che su L'Unione Sarda del 26 novembre di quell'anno racconta i momenti successivi alla scarcerazione.

L'altro mondo è a un passo, oltre la cancellata di sette metri, oltre gli agenti della polizia penitenziaria, oltre la vigilanza armata. Graziano Mesina, le braccia piegate da tre enormi bustoni di plastica, si guarda intorno sperduto. Porte aperte, anzi spalancate: ma lui sta fermo. Passetto avanti e uno indietro. Fuori lo aspetta un esercito di telecamere e fotografi. Affamati. Tentenna per un secondo, poi si ricorda d'essere un balente di Barbagia e avanza lentissimo. Sono quasi le tredici. Intorno al carcere, la nebbia agli irti colli buca il cielo piombo. Fa freddo, c'è umido, si respira facendo le nuvolette di vapore. Graziano è perplesso. Ciccìa di lana scura, giaccone a vento marca Passport, jeans e naso che cola. «Scusate, sono raffreddato». Per quanto possa sembrare banale e deludente, sono le sue prime parole da uomo libero. Ballore, il fratello maggiore, gli è venuto incontro al volante d'una vecchia Punto: vorrebbe portarlo via saltando la stampa. Vetri appannati e finestrini rigorosamente serrati, finge di non vedere il grappolo di microfoni toc toc, finge di non sentire l'inviata di Studio Aperto che accentua le labiali nella speranza di essere notata: Studio Aperto. Stu-dioAper-to, capisce signor Ballore? No, che non capisce. Intanto la retroguardia cede: al momento di aprire il baule per gettarci dentro le sue valigie vuoto a perdere, Graziano viene chiuso in angolo. E adesso, che gli piaccia o no, deve parlare. Certo che è contento, no che non se l'aspettava, sì che gliel'avevano annunciato, no che non vuole ringraziare. «C'è tempo per quello». Due parole per Ciampi? «Poi». Per il ministro Castelli? «Poi anche lui». Prospettive? «Non ne ho. Per il momento vado a salutare dei parenti». Dove? Interviene Ballore, strategia preventiva, filo di voce: «Destinazione ignota». Bugia: lo sanno tutti che la meta provvisoria è Crescentino (per pranzo), salutare cognata e nipoti, transito a Milano per un replay ad altri parenti e tappa conclusiva a Orgosolo. E dopo? «Questo è tutto un altro discorso». Pressato da altre domande-chiave («E' contento?, si sente felice?, qual è il primo pensiero che le è venuto in mente?»), Mesina intuisce che i giornalisti non hanno più niente di serio da chiedergli e si prepara alla fuga: «Se adesso mi volete scusare...».Scusato, ma non è finita. E' solo la conclusione del primo tempo, in attesa di interviste lunghe, racconti in esclusiva, reportage sulla primula rossa di Barbagia. Che appare, a dirla tutta, un po' ingrigita al di là dell'anagrafe (sessantadue anni). E appesantita da una vita, giocoforza, sedentaria. La giornata d'attesa, dopo la concessione della grazia firmata dal presidente della repubblica e controfirmata dal ministro della Giustizia, è cominciata presto. Alle 8. Sotto un freddo a cinque gradi, il primo nucleo s'è appostato davanti all'ingresso del carcere (garitta blindata, sbarra abbassata e nessuno osi avvicinarsi): c'era la certezza che di lì a poco Graziano Mesina sarebbe apparso, finalmente libero dopo quarant'anni di galera. Al suo posto si fa vivo il nipote, Tonino Pisanu, 35 anni, orgolese silenzioso e discreto. Vorrebbe non parlare. Vorrebbe. «Ringraziamo il capo dello Stato e Castelli per aver consentito che Graziano, dopo una breve e vecchia parentesi di libertà, possa definitivamente tornare a casa. Gli ultimi dieci anni trascorsi in carcere sono stati molto, molto più pesanti dei trenta precedenti». Mentre si chiacchiera infiorettando episodi della sua vita da fuorilegge, giusto per rinverdire l'epopea di Sardegna perché banditi, arriva un macchinone scuro. Ne viene fuori l'avvocato Enrico Aimi, che saluta con affabile cordialità e promette: torno subito. S'infila in guardiola e scompare dietro un portone blindato. Quasi tre ore più tardi, eccolo che torna. Palesemente turbato, anzi proprio infuriato. Solenne come un notaio davanti a uno stuolo di eredi, dichiara gelido: «Graziano Mesina è ufficialmente libero. Pochi minuti e lascerà il carcere. Questo è tutto quello che abbiamo da dire». Passo e chiudo. Salta in macchina e fa per andarsene fino a quando un cronista non gli blocca la strada come un ribelle cinese in piazza Tienamen di fronte ai carri armati. Scusi, non è che ha litigato con Mesina? «Quando mai». Allora perché non lo aspetta, perché se ne va? «A più tardi». L'avvocato Aimi non vuol raccontare quel che è accaduto quando s'è presentato alla guardiola della casa circondariale. Incaricato da una signora sardo-modenese (Greca Deiana) di occuparsi del caso, è entrato a passo di bersagliere: nel momento sbagliato. Ha chiesto del suo cliente: «Voglio vederlo». Manco per sbaglio: l'ordine di scarcerazione non era ancora arrivato e dunque niente visite. In seconda battuta, visto che gli agenti non sembravano solidali e commossi, ha proposto sicuro: «Vabbé, passatemelo al telefono». Quando si è sentito dire no per la seconda volta, ha vacillato. A seguire, s'è offeso. E senza aspettare cliente e scarcerazione, se n'è andato. I registri di Voghera dicono che non risulta essere «difensore di fiducia» e che ha avuto con Mesina due colloqui: uno nel 2001 e l'altro nel 2003. Insomma, c'era e non c'era. Mentre il suo avvocato sgommava nel desolante vialetto dell'addio, Graziano Mesina - secondo braccio, cella singola numero cinque - è stato informato alle 9,35 in punto dello straordinario regalo di Natale piovuto da Roma: la grazia. Nello stesso istante, è stato informato anche della gente che aspettava fuori. Sos. Ha chiesto di telefonare a Ballore: «Vieni a prendermi per favore». Ballore, che arriva molte ore dopo da Crescentino, avrebbe voluto entrare fin dentro il cortile, oltre le sbarre, ma gli viene impedito: vietato l'accesso agli estranei. Così, resta lì, di fronte all'ingresso, proprio in mezzo: tra Graziano e i giornalisti. Tanto vale, a quel punto, subire qualche minuto di supplizio. Ressa, spintoni intorno alla macchina,urla: Mesina vieni a dirci una cosa. Mesina tace. Allora si cerca un sardo per ripetere l'appello in limba, lessico familiare: chiamatelo in dialetto, magari risponde. Difatti lo sventurato saluta timidamente con la mano. E aspetta, sorrisetto di circostanza, la prima domanda: ha dormito stanotte? «E' da quattro notti che non chiudo occhio». Ansia per la liberazione? «No, influenza. Ho il naso tappato». Ma ansia niente niente? «Beh, un po' sì: in questi casi capita sempre, no?» Quando ha saputo? «Ieri. E ho detto: vediamo, se è vero, dovranno scarcerarmi». In realtà, Mesina era al corrente della faccenda da almeno una settimana, cioè da quando il direttore del carcere gli ha fatto sapere (ufficiosamente) che il ministro Castelli aveva espresso parere favorevole alla concessione della grazia. Voce baritonale nella calca: scusi Mesina, ma la grazia non l'avevano respinta? Domanda non raccolta, non è l'ora dei veleni questa. E nemmeno dei programmi per il futuro: «Un lavoro? Qualcosa dovrò fare, sicuro. Ma non so cosa». Tornerà a vivere ad Orgosolo? «Non ne ho idea. Sono appena uscito, datemi il tempo di pensare». Anche questa è una piccola omissione: aspettando la grazia (senza sperarci troppo perché in cella l'illusione può uccidere), Graziano ha programmato da tempo la sua prima settimana da uomo libero. «Appena possibile, voglio andare in campagna. Sentirne gli odori. A forza di stare in carcere, mi stanno uscendo dalla memoria: e questo mi dispiace». Inseguito da una cascata di parole, mostra stanchezza e s'immerge in macchina. Ultimo ciao e via, braccato da una pattuglia di inviati che spera (inutilmente) di bloccarlo lungo l'autostrada. Il freddo resta, il piazzale si spopola. Rimangono, divertiti e soli, dieci agenti: hanno perso il detenuto più importante di una galera che conta 250 ospiti e nemmeno un nome famoso. Quanto a Mesina, che dire? «Brava persona. Era qui da cinque anni, mai un verbale». E nemmeno un permesso premio, a voler essere precisi. Fino al giorno dei giorni.

Il vero volto di Graziano Mesina. Il Mesina boss emerso da questa inchiesta non è diverso dal Mesina brigante che aveva affascinato molti intellettuali: Grazianeddu appartiene ancora anche oggi a un mondo - quello della Barbagia - in cui i valori sono capovolti, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Emerge dalla notte dei tempi il volto segnato e antico di Graziano Mesina e fa quasi tristezza. Comincia bandito, finisce boss. Ma in fondo il bandito è tale, bandito buono o bandito sociale secondo la mitologia che appartiene a tutte le latitudini e a tutti i tempi, anche quando perde l’autenticità delle sue radici popolari e nelle cronache giudiziarie acquista il volto scontato dei furfanti ordinari. Mesina è tornato dietro le sbarre per traffico di quella droga che da bandito buono diceva di odiare. È stato in galera per più di 40 dei suoi 71 anni, 9 ai domiciliari o in libertà vigilata, e 5 di latitanza con le ben note parentesi giornalistiche degl’incontri nel profondo della Sardegna con il campione dei giornalisti, Indro Montanelli, cinicamente affascinato da briganti, dittatori e guerriglieri. Mesina boss non è diverso dal Mesina bandito, dal Mesina amico degli 007, dal Mesina mediatore nei sequestri di persona dopo essere stato sequestratore, dal Mesina che rivendica (anche in questo caso in aderenza a un immaginario banditesco consolidato) un senso suo di giustizia e ingiustizia che gli fa ammazzare un assassino per vendicare non solo la vittima ma gli innocenti condannati al suo posto, dal Mesina che libera il figlio di un sequestrato infilandogli in tasca mille lire per prendersi un gelato. Il boss, la parte cattiva, la faccia disgustosa della medaglia, fa parte dell’uomo. Il bandito buono è cattivo. Il bandito cattivo è buono. Mesina è un reduce, appartiene a quel mondo in cui i valori sono capovolti ma sono valori. Al mondo contadino. Al mondo della Sardegna che è un mondo a parte. Duro. Terreno. Terreo. La cronaca ci riserva ogni tanto queste parentesi di letteratura. Banditi che sono protagonisti di romanzo. Anche se lo squallore incalza pure lui. Ecco perché non mi piace il modo facile di tanti di raccontare la degenerazione del bandito in boss. Fu geniale da parte sua inventarsi una seconda vita da guida per i turisti tra Barbagia e Gennargentu. Sarò forse “montanelliano”, ma non riesco a vedere il boss. Io vedo ancora, dietro il volto invecchiato (male) dell’ex brigante, un “balente” della Sardegna. L’ultimo bandito.  

Quel giorno che  Mesina mi sequestrò per scherzo, scrive Gianluca Nicoletti su “La Stampa” del 6/luglio/2005. Una giornata di otto anni fa per le montagne di Orgosolo. Come guida Grazianeddu allora da poco uscito di carcere. Graziano Mesina, assieme ad altre 26 persone di varie parti della Sardegna, è stato arrestato  all'alba dai carabinieri di Nuoro nell'ambito di un'operazione che ha condotto allo smantellamento di due associazioni dedite al traffico di stupefacenti, ma anche a rapine e furti. In progetto c'era anche un sequestro di persona. Otto anni fa era stato da poco graziato quando lo intervistai per “La Stampa”. Mi fece visitare per una giornata intera i luoghi segreti della sua epopea di bandito. Allora sembrava davvero che per lui quello fosse un capitolo chiuso...  

La montagna è subito fuori da Orgosolo, saliamo tra i lecci e il ginepro, il viottolo termina sullo spuntone di roccia. Graziano Mesina si gira e dice serio: “signori ho una notizia per voi, siete sequestrati!” Nemmeno un istante dopo scoppia a ridere. Un fuoristrada appare dal tornante, riconoscono Grazianeddu, i due pastori salutano e lui insiste: “li ho sequestrati, non dite niente a nessuno!” Quelli proseguono muti. Oggi la Primula Rossa del Supramonte ci scherza sopra, ma quelle gesta gli hanno fatto passare quarant’ anni di vita dietro le sbarre. “Ecco lì sotto mi ero fatto un mio poligono di tiro, dovevo pur esercitarmi per stare in allenamento!” E i soldati che la braccavano? “Sentivano, sentivano, ma restavano la sotto, andremo a vedere-dicevano- ma domani.” L’ indomani certo lui non ci sarebbe stato più. Capace, come dice, di camminare senza fermarsi mai sette giorni e sette notti di seguito: “Mangiavo camminando, venivo qui da Nuoro in due giorni e mezzo, poi continuavo, con trenta chili sulle spalle di armi e munizioni.” Una semplice gita con amici sardi tra boschi e placidi armenti? No, piuttosto un sopralluogo sul terreno di battaglia decenni dopo la fine di una grande guerra, nemmeno tanto eroica. Da una parte rastrellamenti e violenti arresti in massa, dall’ altra famiglie sgrassate e ostaggi che, se tornavano liberi, erano larve umane, umiliati fino all’ inverosimile.  Per l’ antico capo dei briganti ogni cespuglio offre lo spunto per evocare un ricordo. Tra amnesie strategiche e reticenze racconta di fughe nella notte, sparatorie, marce forzate, ostaggi nascosti o da rapire. Il suo fisico è appesantito rispetto ai tempi in cui era il fuorilegge inafferrabile, il re di Orgosolo. Da quando è stato graziato, sei mesi fa, però ha già perso dieci chili e conta di mettersi presto in forma: “nulla fa dimagrire come correre tra gli alberi di notte -e indica un orrido scosceso fitto di rovi e tronchi. Poi si arrampica veloce sulle pietre e vorrebbe che lo seguissimo fino al cucuzzolo che ci si para davanti. E’ Monte Novo S.Giovanni, una torre di pietra dove in passato si celebrava la festa di Santu Juvanne ´e sos sordadeddonos. Sembra un castello frastagliato di merli, in alto volano silenziosi i corvi con le ali distese e il sole al tramonto infuoca le montagne: “Su questa roccia spesso vedo turisti in difficoltà. Arrivano a metà, poi il vento che soffia forte mette loro paura. Una volta ho chiesto a una coppia se volevano aiuto, ma mi hanno riconosciuto e non sapevano che dire.” Da quelle parti si parla da tempo di fare un grande parco nazionale, naturalmente la gente di Orgosolo non è d’ accordo. Me ne ero accorto vedendo in paese un murale che rappresentava avvoltoi: “questi sono gli animali che proteggerà il parco!” chiosava minaccioso. Anche Mesina è contro il parco e questo basti: “Non serve, qui è già tutto protetto!” Ride, ma fa capire che su quel territorio c’ è già lui come salvaguardia, nessuno ci provi a sostituirlo.  Quel paesaggio lo ha reso invulnerabile, a quattordici anni restava solo per mesi nello stazzo in mezzo alla neve, gli servirà poi a sopportare l’ isolamento, le celle di rigore, a saltare mura scardinare sbarre, tornare illeso dopo una sparatoria:” una volta avevo due buchi nel cappuccio, una pallottola aveva rotto il cinturone, un’ altra si era infilata in una scarpa…” Conosce ogni arbusto e sa tutto di ogni animale, vegetale e minerale che incontriamo per strada. Incrociamo una mandria di maiali scuri e setolosi che pascolano liberi: “questi secondo loro dovevano essere abbattuti tutti, per un solo caso di peste suina. Non è giusto.” Poi racconta dei mufloni, delle vacche, delle piccole trote che si pescano con le mani nei torrenti. Gli avvoltoi giganteschi che non si vedono più, i falchi che sono stati tutti catturati per essere venduti nei paesi arabi dove li usano ancora per cacciare. Sa ogni segreto di quella montagna, anche perché ci si è nascosto e ci ha nascosto dentro tanta gente: “Quello lo avevo messo in compagnia, giocava a carte e stava bene, poi un giorno gli ho fatto uno scherzo. Gli ho detto oggi puoi ordinare tutto quello che vuoi da mangiare, chiedi e te lo portiamo. E così fu, tutto quello che più gli andava lo abbiamo portato, mangiava soddisfatto quando sul più bello gli dico: tutto questo però costa caro, vorrà dire chiederemo alla tua famiglia cinquanta milioni in più di riscatto! Gli è andato il boccone di traverso, ha cominciato a strillare e a dire che non voleva più mangiare…” Già, ma chi era il fortunato? Tra i tanti a cui ha chiesto il riscatto questi era Giovanni Campus, possidente di Ozieri sequestrato il 7 marzo 1968, dieci giorni dopo per “fargli compagnia” a lui si aggiunse anche Nino Petretto, rapito in un agguato. I due erano talmente provati dall’ esser trascinati per le montagne che a un certo punto non ce la facevano più e nella disperazione dissero ai rapitori di volersi suicidare per non continuare con quello strazio: “Volete ammazzarvi? Ecco la pistola- racconta Graziano- ma quei due dicevano fallo prima tu! No fallo tu! Insomma non si decidevano mai, dissi che se volevano li avrei aiutati con il mio mitra, ma avevo capito subito che non avevano nessuna voglia di morire.”  I vicoli di Orgosolo sono pieni di gente che fotografa tutto, le ragazze del posto hanno l’ ombelico di fuori come nel resto del mondo, ma i pullman di turisti ancora vengono per conoscere il paese dei banditi, soprattutto ora che è tornato lui. Tutta la promozione locale vorrebbe puntare su gastronomia e folklore, ma la gente che arriva chiede di vedere la casa dove è nato Mesina. Lui si rende conto di essere un monumento vivente, mi porta sulla terrazza belvedere. Oltre lo strapiombo il teatro dei peggiori scontri a fuoco tra le forze dell’ ordine e i banditi. Graziano come un generale in pensione illustra le posizioni delle truppe: “laggiù nel 67 c’ erano seimila baschi blu, un vero esercito e io li guardavo dall’ alto.” Era il mese di giugno e i reparti speciali avevano circondato il paese, ci fu quella che chiamarono “la battaglia di Osposidda”. Mesina si salvò riempiendo di pietre lo zaino e facendosene scudo: “io da solo avrò sparato otto-novecento colpi e tirato almeno venti bombe a mano.” Fu uno scontro epico, le cronache raccontano che i proiettili dei mitragliatori dei soldati arrivarono fino alle prime case del paese, la gente di Orgosolo guardava il combattimento affacciata ai balconi. Due militari restarono stesi sul campo, la nostra guida ricorda ogni particolare: ”Lassù furono uccise le due guardie, me le attribuirono, ma era stato uno di loro a sparagli contro per sbaglio. Invece dietro quella collina hanno ferito lo spagnolo...” Fu la volta che il suo luogotenente Miguel Atienza ci lasciò la pelle. Era un ex soldato franchista fuggito dalla Legione Straniera, Mesina se lo era portato dietro quando evase dal carcere di Sassari nel 66.  A Osposidda quando lo vide ferito se lo caricò sulle spalle fino alla montagna: “Poi la notte sono sceso in paese a sequestrare un dottore per curarlo, ma non servì a nulla morì due giorni dopo.” Graziano non ha mai nascosto il suo debole per le donne, anche se non si è mai sposato: “venivano a trovarmi in carcere, erano spesso bellissime e anche ricche, dicevano che mi avrebbero aspettato, ma cercavo di far capire a tutte di lasciar perdere, io non avevo futuro, ero un ergastolano. Per starmi accanto una di loro voleva comprare una villa vicino ad Asti dove io ero recluso.”Sono leggendarie le migliaia di lettere che riceveva da femmine di tutto il mondo, ci fu chi cercò di acquistarle per farne un fotoromanzo, ma quelle Graziano non le ha mai volute dare a nessuno: “Poco tempo fa a casa di mia sorella ne ho ritrovata una cassa piena, lettere ancora mai aperte, erano arrivate trenta e più anni fa, io non c’ ero e me le avevano messe da parte.” Chissà che fine avranno fatto le maliarde che negli anni 60 da tutto il mondo si struggevano per il bel bandito barbaricino. Mandavano richieste di fuoco e …denaro, come se la passione avesse un prezzo: “C’erano marchi, dollari, piccoli oggetti d’ oro, ma le turiste straniere venivano anche fino a casa mia, soprattutto tedesche, chiacchieravano con mia madre e parlavano di futuri figli. Lei rispondeva che ne aveva avuti undici, che erano una bella cosa.” Fino a che un giorno la mamma capì che era il suo Graziano che le vichinghe avrebbero voluto come fecondatore. Nessuno si scandalizzi, ma la provetta era ancora da venire, si trattava di arcaica carnale follia, per cui da bandito a eroe il passo è sempre assai breve.  

Quando Mesina disse a Cagliari: "Con i sequestri e le cazzate ho chiuso". Ma cosa succede in Sardegna. Cosa combina Grazianeddu o meglio cosa avrà combinato per l'ennesima volta? Si chiede Marcello Polastri. Ex primula rossa dell'anonima sequestri, incarna il carattere schivo ma anche vendicativo di una certa Sardegna. Poi divenne un bandito redento. Ed ora l'ennesimo arresto. Lui che, graziato da Ciampi e quindi perdonato dall'Italia, per i tanti reati di una gravità assoluta, entrando nel bene e nel male (più nel male che nel bene...) a far parte della storia d'Italia, rifinisce in manette. Lo incontrai in un bar di Cagliari, a due passi dalla Torre dell'Elefante e mi disse "con i sequestri e le cazzate ho chiuso, mi dò al turismo e alla comunicazione colta". Per un attimo, mentre lo intervistavo, sono stato colto da un grande sospetto: e se mi piglia per il sedere? Poi mi chiese un obolo per l'intervista che mi rilasciò, e la mia reazione è stata: non se ne fa nulla, ciao a Mesina, addio all'intervista che ancora conservo e che forse mai pubblicheremo. Ed ora un nuovo sospetto esternato dai Carabinieri. Stava per davvero progettando un nuovo sequestro? Padre pastore e madre casalinga, Mesina subì il suo primo processo all'età di soli 14 anni. Il resto è storia risaputa permeata anche dalla leggenda. Lui che, dopo il carcere duro, da qualche anno è divenuto anche sotto i riflettori che non ha mai amato, una guida, in senso turistico, della sua Orgosolo. Rilasciò qualche intervista mentre accompagnava la gente alla scoperta di quel paradiso terrestre a due passi da Oliena e da Dorgali, nella Barbagia delle grotte e dei dirupi. Poi è divenuto, sempre di recente, conferenziere in tanti colti eventi sulla criminalità. La criminalità che Mesina conosceva evidentemente  bene. Lo hanno visto nel convegno di Gorizia: è intervenuto sul processo di Farouk Kassam. In quell'occasione, era il 27 del mese scorso, Grazianeddu ha asserito di esser stato lui a dare un indispensabile contributo alla liberazione del piccolo Farouk, evitando un conflitto a fuco con la polizia dal quale, diciamolo chiaramente, possiamo ipotizzare che Mesina ne sarebbe uscito disteso. La Polizia lo ha lasciato fare, forse. Allora come oggi. E come sappiamo, la giustizia, prima o poi, ti presenta il conto. Così, uscito dal carcere, sorvegliato speciale con quell'intelligente strumento di prevenzione e spionaggio dell'intercettazione telefonica, è stato pizzicato in fallo. Ancora una volta. Ed è finito in manette. Già. Sarà l'ultima volta? Intanto via a un nuovo processo, ad una nuova valanga mediatica. Ne riparleremo.

Perché fa così scalpore che Mesina torni in cella? Si chiede Giorgio Dell'Arti. Pensare che appena due settimane fa Graziano Mesina era a farsi intervistare al Festival della Storia di Gorizia, quest’anno dedicato ai banditi, e faceva la parte del malavitoso di charme, che però l’ha fatta finita con la vecchia vita e adesso porta i turisti a passeggio per la Barbagia. Invece l’hanno arrestato, lo accusano di traffico di droga e di aver progettato un sequestro di persona. In pratica sarebbe un capo-banda.

Ma quanti anni ha?

Settantuno. È nato a Orgosolo (in provincia di Nuoro) il 4 aprile del 1942.

E a settantun anni…?

Infatti il sindaco della città, Dionigi Deledda, s’è detto «molto sorpreso, anche se non voglio entrare nel merito della vicenda». Ora, i carabinieri dicono che l’indagine durava da cinque anni, è stata una grossa operazione, trecento uomini mobilitati, intercettazioni. I militari e il magistrato che li guida raccontano che in Sardegna operano due organizzazioni dedite al traffico di droga con il continente e Mesina sarebbe il capo della più importante delle due. Il tramite sarebbe l’avvocato Corrado Altea, di anni 62, che tirava fuori i primi soldi per la droga e, approfittando del suo studio, raccoglieva informazioni che poi passava a Mesina e al suo alleato Gigino Milia. C’è poi la storia di una progettato sequestro di persona, di cui avrebbe dovuto essere vittima Luigi Russo, imprenditore dell’abbigliamento all’ingrosso e accessori. Secondo i carabinieri, uomini del duo Mesina-Milia andarono anche a fare sopralluoghi nei dintorni della casa del sequestrando. E c’è una telefonata di due anni fa in cui tale Giovanni Filindeu e Mesina parlano della possibilità «di portare via la moglie e i figli» a una persona di cui non si fa il nome. Nella retata di ieri sono state messe in carcere 25 persone. Aspettiamo gli sviluppi per saperne di più. Mesina, intanto, s’è rivolto per la sua difesa all’avvocato Giannino Guiso, sempre sui giornali un tempo, perché, oltre a difendere lo stesso Mesina, s’era preso cura di Craxi, del brigatista Renato Curcio e dell’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli.

Il fatto è che questo Mesina, che fa tanto clamore, emerge da un passato lontano, sono certo che la maggior parte dei nostri lettori, gente giovane, abbia al massimo una vaga idea della persona di cui stiamo parlando.

Beh, l’ultima volta le cronache se ne sono occupate all’epoca del sequestro Kassam. Sa di che si tratta?

Veramente…

Farouk Kassam di sette anni, figlio di Fateh Kassam, un belga di origine indiana che gestiva un grande albergo di Porto Cervo. Il 15 gennaio del 1992 i banditi fecero irruzione nella casa dei Kassam e portarono via il bambino. Detenzione di quasi sette mesi, durante la quale i sequestratori, per mostrare che facevano sul serio, tagliarono al piccolo la sommità dell’orecchio sinistro. Il 10 luglio, finalmente, la liberazione, grazie proprio all’intermediazione di Mesina (messo da poco in libertà vigilata), che quella volta si mise in rete con i nostri servizi segreti e fu terminale di una trattativa di cui non s’è mai saputo granché. Il capo dei sequestratori era Matteo Boe, poi condannato a 20 anni. L’Italia riscoprì allora questo lato di Mesina, facendosi l’idea che fosse un bandito ravveduto, come abbiamo del resto creduto fino a ieri, anche se era finito in galera un’altra volta per via di un deposito d’armi che i carabinieri gli avevano trovato nella villetta dell’astigiano dove era andato a vivere. Per quel deposito, s’è sempre proclamato innocente («m’hanno incastrato»). Alla fine, nel 2004, Ciampi lo ha graziato.

Ma perché è tanto famoso?

Soprattutto per le evasioni. È scappato nove volte. I carabinieri lo conoscevano già, perché a 14 anni aveva rubato un fucile e se l’era cavata col perdono giudiziale. Ma a 18 anni, al termine di una festa, si mise a sparare su un lampione, distruggendolo, e i militari lo portarono in caserma. Probabilmente gli avrebbero fatto poco o niente, ma Graziano fece la scemenza di scappare (prima evasione), finì dentro per sette mesi e lì si rovinò per sempre. Quando gli ammazzarono il fratello, andò a farsi giustizia da sé, spalancò la porta del bar di Orgosolo dove si trovava il presunto assassino e lo riempì di pallottole. Aveva vent’anni. Da allora è stato un viavai nelle carceri di tutt’Italia, inframezzato da evasioni, sequestri, interviste ai giornali, storie d’amore con le solite donne che vanno pazze per i mascalzoni, tutto quello che ci vuole per farne una figurina italiana. Lui di se stesso ha detto: «Nessuna delle persone che ho rapito si è mai costituita parte civile. Ci sarà un motivo. Con alcuni sono diventato persino amico». Era il penultimo di dieci figli, Alberto Pinna lo ha descritto come «piccolo, robusto, agilissimo, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fa da te». Credevamo che fosse andato in pensione. Chissà.

In Barbagia un etnocidio culturale, anche grazie al falso mito Mesina, scrive Nicolò Migheli. Un bel pezzo di analisi su cultura, territorio e identità del cuore della Sardegna. Mesina è un mito urbano, dice il sociologo e scrittore Nicolò Migheli. Bisogna aver avuto sedici anni nel 1966 ed aver visto lo sguardo disperato di un tuo amico a cui avevano sequestrato il padre. Averlo visto quel povero corpo in decomposizione, buttato sotto un macchia di rovo e avere memoria del lezzo di cadavere che ti resta nelle narici per settimane. Bisogna essere stati ragazzi in quegli anni tremendi; a mezzo servizio tra scuola ed ovile, tra sogni di riscatto civile e il peso di una delinquenza cinica che uccide ogni aspirazione. Andare in campagna con lo sguardo rivolto da un'altra parte per paura di vedere cose che non dovrebbero essere viste. Bisogna aver stampato in mente carabinieri e poliziotti che controllavano i bollettini di proprietà, o di custodia, del bestiame, e una decina di tuoi compaesani che in ferri di campagna venivano condotti al confino. Ricordarsi dei manifesti con le taglie affissi nei muri del municipio. Esperienze come queste ti possono dare chiavi interpretative che superano ogni analisi sociologica, anzi costituiscono il filtro che demitizza le letture semplicistiche. Il banditismo sardo è stato una delle maggiori leve di distruzione della pastoralità, è stato l'alibi per un etnocidio culturale. Basta rileggersi le conclusioni dell'inchiesta parlamentare del senatore Medici, dove l'unica modernizzazione possibile era lo sradicamento di un modello economico antico in favore di una effimera industrializzazione. Togliere l'acqua ai pesci. Il pastoralismo come arte criminale. Come se il delinquere fosse legato ad una professione e non a comportamenti riproducibili in ogni ambito sociale. Una operazione così sofisticata aveva però bisogno di un immaginario forte, costruito in una ambigua positività. Il mito di Mesina è stato funzionale a tutto questo. Ha trasformato il banditismo in manifestazione ribellistica di giuste rivendicazioni, facendone di lui un fenomeno mediatico, con interviste nella latitanza, peregrinazioni di editori in cerca di un Che per la Cuba del Mediterraneo. Donne attratte dal fascino ambiguo del latitante con il contorno di agenti dei servizi. Una riproposizione in salsa barbaricina del mito del siciliano Salvatore Giuliano. Il bandito mafioso funzionale alla repressione del movimento di occupazione delle terre, all'assassinio di sindacalisti e politici di sinistra. Certa sinistra urbana che in Sardegna in quegli anni, sui fenomeni delinquenziali ebbe un comportamento ambiguo, anche essa soggiogata dal mito del ribelle, senza capire che quel fenomeno era una via facile verso l'arricchimento personale. Il reinvestimento in tanche allora, in narcotraffico oggi. Un mito etero imposto che ha finito per imprigionare Orgosolo. Quel paese è stato abile nel rovesciare lo stigma in opportunità, facendone una delle principali attrattive turistiche. Conosco bene gli orgolesi, per sapere che da tutto ciò vorrebbero liberarsi e le decine di associazioni che combattono per un paese normale, debbono fare i conti con un passato che non passa, con chi li appesantisce di continuo con i suoi comportamenti. Eppure il nuovo arresto di Mesina, se le accuse verranno provate in sede di giudizio, può essere il colpo mortale per questa mitopoiesi della vittima delle contraddizioni sociali, di chi non ebbe, secondo quella vulgata, altre possibilità se non la delinquenza, il sequestro di persona, l'omicidio. E' finito il tempo della facile giustificazione perché quell'uomo ha toccato l'intoccabile. Mentre il sequestro di persona, nonostante il suo abominio, poteva essere visto come una redistribuzione del reddito, del "ricco" che paga ed altri che ne godono, la droga tocca tutti. Distrugge famiglie e patrimoni, nega il futuro a generazioni intere; non conosce differenziazioni di classe e di reddito. Nonostante la Sardegna non sia indenne da questa piaga, non vi è nessuna ambigua giustificazione sociale per chi si arricchisce in questo modo. Ecco dove Mesina ha sbagliato, se è veramente così. Con le sue frequentazioni carcerarie ha creduto che sistemi di altre realtà fossero riproponibili qui da noi. Non è stato così, ed in questo modo ha ucciso l'immagine di redenzione, non solo sua, che altri gli avevano costruito addosso. Una sconfitta per tutti. Chie naschet corbu no si che mudat in columba. Chi nasce corvo non diventa colomba. Recita così un proverbio pessimista e determinista. Ci sono momenti che non si vorrebbe che quell'adagio avesse ragione. Nonostante tutto, questo è uno di quelli. La speranza che si possa cambiare è l'ultima a morire. Cominciamo però a liberarci dell'immagine eroica e giustificazionista del bandito. Questo tocca a tutti noi. Il resto verrà.

Roberto Castelli, l'ex Ministro della Giustizia che nel 2004 controfirmò la grazia concessa da Carlo Azeglio Ciampi a Graziano Mesina, è incredulo. «Spero proprio che non sia vero» esordisce al telefono con “Panorama” ricordando come fu lui a insistere con l'allora capo dello Stato perché gli desse la grazia. «Se l'impianto accusatorio fosse confermato sarebbe, per me, una grande delusione»  ripete l'ex Guardasigilli, ricordando come attorno alla primula rossa della Barbagia «c'era allora una sorta di aurea di benevolenza: aveva scontato quasi quarant'anni di carcere per essersi voluto vendicare, giovanissimo, per uno sgarro che la società gli aveva fatto. Lo consideravo sì un delinquente, ma anche un bandito che rispettava un proprio codice, con una propria dignità» racconta per spiegare le ragioni che lo indussero a insistere con Ciampi per la soluzione della grazia. «Il banditismo sardo era il contrario dei mafiosi col 41 bis». Poi aggiunge, con amarezza: «Se fosse vero che è coinvolto nel traffico di droga, avrebbe tradito - oltre alle persone che hanno creduto in lui - anche la sua sardità, il suo codice». Ma lei crede alle accuse dei magistrati? «E come faccio a sapere se siano vere o no?» risponde, ricordando anche un episodio di famiglia che gli è stato raccontato da suo suocero. «Lui, che ha sposato in seconde nozze una ragazza di Arabatx, mi ha raccontato che lo ha incontrato qualche settimana fa a Orgosolo e che Mesina gli ha detto: mi saluti il ministro». «Fosse vero - ripete, ancora una volta - sarebbe una grande delusione: anche perché io credo nel potere redentivo della pena. Vede, nella mia attività, ho incontrato moltissimi carcerati. E, salvo i mafiosi del 41 bis, devo dire che la gran parte di quelli che stanno nelle patrie galere sono ragazzi giovanissimi che  hanno sbagliato ma possono trovare la loro strada» continua, spiegando anche come, quando incrociò Mesina negli studi di Porta a Porta, si congedò da lui dicendogli dopo aver controfirmato la grazia con un Mi raccomando, non mi deluda».

Prima i sequestri, ora la droga. Dubbi e segreti di Graziano Mesina. Pino Scaccia, inviato del tg1 e profondo conoscitore dell'ultimo "bandito", a Carmelo Caruso su  “Panorama”  dice che non crede alle accuse di spaccio contro il malvivente sardo. “A volte i testimoni si screditano. La colpa di Graziano Mesina? Forse non aver mai dimenticato il ruolo che ebbe lo Stato nel sequestro del piccolo Farouk Kassam tanto da ribadirlo solo pochi giorni fa di fronte a me in un incontro avvenuto a Gorizia”. Diceva che si fidava di lui perché non usava taccuini (“Sei l’unico che non li usa, i taccuini mi ricordano i carabinieri”) poi lo scelse per dare la notizia in anteprima della liberazione del piccolo Kassam, “Stanotte sarà libero”. E adesso non riesce a crederci Pino Scaccia - inviato del Tg1, a cui il monarca della Barbagia, Graziano Mesina, consegnò lo scoop della liberazione - che quell’anziano bandito che ha ottenuto la grazia nel 1994 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi sia un trafficante di droga. “Eravamo insieme a Gorizia per parlare del banditismo sardo solo dieci giorni fa, era ancora considerato una star. Chi gli chiedeva l’autografo, chi lo voleva fotografare. E’ rimasto Graziano Mesina non il sequestratore ma l’evaso per eccellenza. La sua fama si deve alle 22 evasioni, alcune per amore diceva lui, sempre rocambolesche, sempre progettate da una mente arguta”. Quarant’anni di carcere, di questi 16 in isolamento e adesso l’accusa di essere un narcotrafficante. “Mi sorprende, se ne sa poco e nutro qualche dubbio. Sarebbe stupido e Mesina non è stupido. Di certo è anomalo che dopo aver sollevato i soliti dubbi sul ruolo che ebbero i Servizi e lo Stato nel sequestro Kassam, Mesina sia stato arrestato con l’accusa di essere il capo di un cartello di narcotrafficanti. A volte i testimoni si screditano”. Addirittura screditarlo? “Sia chiaro, non conosco la vicenda, ma ho un ricordo nitido di solo dieci giorni fa. Sa cosa diceva: I latitanti famosi sono coperchi buoni per tutte le pentole. Parliamo di un uomo che è stato accusato anche di sequestri che mai aveva realizzato. Intorno a Mesina si era creata un’aurea sinistra. In realtà si macchiò di un solo omicidio: la morte dell’assassino del fratello”. Per i sardi è stato simile a Salvatore Giuliano, il mito contemporaneo tutto lupara, campagna, solitudine e amanti. Eppure si deve a Graziano Mesina, lo stesso uomo che oggi è stato arrestato dai carabinieri che lo ritengono ancora “un soggetto pericoloso”, se nel 1992, lo stato riuscì a liberare il figlio di Fateh Kassam, uomo vicino all’Agha Khan. Spedito con il pretesto di un permesso per partecipare al matrimonio della nipote (concesso dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli) Mesina in realtà ebbe il ruolo d’intermediario con i sequestratori che liberarono il bambino dietro il pagamento di un riscatto di 5 miliardi di lire. Ed è su quel riscatto che mai si è fatta luce e su cui si è avanzata la partecipazione diretta dei Servizi. “Seicentomilioni li diede la famiglia e gli altri?”, chiede Scaccia a cui Mesina rivelò in anticipo la notizia della liberazione. Ed è considerato un mito vivente a Orgosolo, ancora oggi, il paese dei banditi e del regista Cesare De Seta. “Ad Orgosolo si era cimentato nel ruolo di guida turistica, accompagnava e riceveva turisti che venivano dalla Svezia, dal Belgio e tutto per conoscerlo, conoscere l’ultimo bandito”. Era cambiato secondo Scaccia che adesso ricorda l’abbraccio che Mesina scambiò con un carabiniere che ebbe modo di arrestarlo in uno delle sue tante fughe. “Per parlare di Mesina bisogna immaginare un Robin Hood, ha impersonato questa figura per i sardi. Diceva sempre che si era dato al banditismo per colpa dello Stato. Era la Barbagia di che si opponeva allo sfarzo della Costa Smeralda, ai soprusi dei padroni, è l’essere barbaricino, un miscuglio di violenza e primitivismo. Voleva studiare, sognava di studiare Giurisprudenza, e anche in carcere chiedeva libri. La cosa che mi chiedeva era di trovare un lavoro per il nipote per portarlo via da lì”. E la grazia? “Aveva svolto il ruolo d’intermediario nel 1992 in cambio della grazia che gli venne concessa subito dopo. E mi anticipò la notizia, facendo fallire il blitz dei carabinieri proprio perché temeva di essere ucciso. E’ una vita legata a troppi misteri”. Misteri che secondo Scaccia non sono stati fugati anche per l’ostinazione con cui Mesina ha parlato del denaro che servì a liberare Kassam. “Sappiamo che 600 milioni erano stati dati dalla famiglia Kassam, ma la rimanete parte? Forse la sua colpa è non avere dimenticato. La mia impressione è di una persona tranquilla che fra l’altro non aveva bisogno di denaro. Certo, non era ricco, ma non viveva nell’indigernza”. Per alcuni semplicemente violento, per Scaccia invece un uomo diffidente. “Con il solito borsello in mano e il dolore di non aver avuto figli. Soffriva per questo. Del resto diceva sempre: i bambini non si toccano. Non era per intenderci un Vallanzasca”. Ma la Sardegna è ancora quella dei Mesina? “No, anche quella è cambiata, non si fanno più sequestri perché non sono remunerativi e non ci sono più latitanti. Adesso il crimine più frequente è l’assalto ai furgoni. Non è più la Sardegna di Mesina”.

·         Ingiustizia. Il caso di Johnny lo Zingaro spiegato bene.

FLAMINIA SAVELLI per il Messaggero il 12 novembre 2020. Un piano ben studiato. Con l'appoggio non solo della compagna ma anche dell'ex compagno di cella e di altri due detenuti. Dopo 66 giorni dalla fuga dal carcere Bancali di Sassari durante un permesso premio, e a poco meno di due mesi dalla sua cattura, gli investigatori hanno ricostruito la latitanza di Giuseppe Mastini, Johnny lo zingaro l'ergastolano di 60 anni che tra gli anni 70 e 80 seminò il terrore nella capitale. Ieri mattina, con l'accusa di procurata evasione, gli agenti della squadra Mobile di Sassari e della polizia Penitenziaria, hanno arrestato anche la moglie e tre ex detenuti.

LE INDAGINI. Secondo quanto ricostruito la moglie Giovanna Truzzi, di 61 anni - subito ascoltata e che si era detta estranea alla fuga - per i primi due giorni della latitanza non si era mai separata dallo Zingaro. Erano insieme nell'appartamento nel centro di Sassari, messo a disposizione da Cristina Loi, 34enne pregiudicato di Sassari. Che Mastini aveva conosciuto in carcere. A inchiodarli, sono state le telecamere di video sorveglianza. Ma il piano era ben organizzato e lo Zingaro, una volta arrivato nel covo dove poi è stato arrestato la mattina del 15 settembre, ha avuto bisogno di altri appoggi. La cascina era infatti isolata: incaricato del trasferimento dall'appartamento e poi di procurargli le scorte di cibo, era Gabriele Grabesu, anche lui 34enne di Sassari con diversi precedenti. E che con Mastini aveva diviso la cella per alcuni mesi. Un quarto complice, era stato infine incaricato di fornire telefonini e schede: Roberto Fois, un sassarese di 42anni conosciuto pure lui al Bancali.

IL BANDITO. La settima fuga di Mastini era iniziata il 5 settembre quando non era rientrato nel carcere di Sassari, dopo un permesso premio con la moglie. Per dieci giorni polizia e carabinieri hanno sorvegliato ogni angolo della cittadina sarda. Poi la svolta e la cattura, in una cascina alla periferia della città. Già tre anni prima era fuggito dal penitenziario di Fossano, a Cuneo, approfittando pure in quel caso di un permesso premio con la moglie. Ma Mastini, figlio di una famiglia sinti di giostrai e originario di Ponte San Pietro a Bergamo, ha iniziato la carriera criminale a Roma. Era giovanissimo, appena dieci anni quando si trasferisce con la famiglia nella Capitale. Allestiscono il luna park al Tiburtino dove, nel giro di pochi mesi diventa Johnny lo Zingaro. Ha la passione per le auto, un talento a guidarle e a rubarle. Così conosce i piccoli delinquenti di zona. La svolta arriva con l'omicidio di Vittorio Bigi, un impiegato dell'Atac di 38 anni. Ucciso a Pietralata per un orologio e poche lire da Mastini insieme a un complice la notte del 31 dicembre del 1975. Lo Zingaro finisce così in carcere minorile a Casal del Marmo. Da lì in poi alterna latitanze e fughe. Nel 1987 durante un permesso premio scappa e riprende la sua vecchia vita: rapine e furti d'auto. Per 50 giorni è latitante poi i poliziotti lo fermano e lo arrestano dopo una sparatoria in cui un agente resta ucciso. «Una fuga per amore», dirà. Per quel delitto viene condannato all'ergastolo e destinato al carcere a Sassari. Dove però, per l'ennesima volta, è riuscito a scappare.

Finisce la fuga di “Jhonny lo Zingaro”. Il Dubbio il 15 settembre 2020. Giuseppe Mastini, noto come “Johnny lo Zingaro”, evaso dieci giorni fa dal carcere di massima sicurezza di Sassari, è stato catturato dalla polizia in Sardegna. Giuseppe Mastini, noto come “Johnny lo Zingaro”, evaso dieci giorni fa dal carcere di massima sicurezza di Sassari, è stato catturato dalla polizia in Sardegna, a quando apprende l’Adnkronos. Johnny lo Zingaro, 60 anni, non era tornato in prigione dopo un permesso premio. Era rinchiuso dal 2017 nel carcere di massima sicurezza di Sassari, dopo la precedente evasione avvenuta dal penitenziario di Fossano ( Cuneo) il 30 giugno 2017. Anche in quella occasione era uscito godendo di un permesso premio e non aveva fatto rientro.Era rimasto latitante per circa un mese, tempo che ha trascorso con in un’alcova con il suo amore di gioventù, Giovanna Truzzi, conosciuta quando avevano solo 11 anni. Lo catturarono le forze dell’ordine coordinate dall’attuale capo della Squadra Mobile di Napoli Alfredo Fabbrocini. Commentando i fatti nella trasmissione “Commissari – Sulle tracce del male” condotta da Giuseppe Rinaldi su Rai 3 Mastini disse: «Quei 25 giorni sono stati i più belli della mia vita, grazie all’affetto della mia famiglia. Sapevo che ci avrebbero trovati e le dicevo: spero che capiranno se sono persone che hanno umanità e sentimenti». Le forze dell’ordine lo stanno cercando ovunque, ma difficile se non impossibile sarà lasciare l’isola. Intanto è partita la macchina mediatica contro la magistratura di sorveglianza e il ministero della Giustizia, dicono fonti di via Arenula, ha delegato l’ispettorato generale per svolgere accertamenti preliminari e verificare la correttezza dell’iter seguito dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari nella concessione del permesso premio.

Da ilmessaggero.it il 16 settembre 2020. Torna in carcere Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro. E' durata poco la latitanza dell'ergastolano fuggito dal penitenziario di massima sicurezza di Sassari la mattina del 6 settembre. Gli uomini dello Sco e della squadra mobile di Sassari e Cagliari, coordinati dal direttore del Dac, Francesco Messina, lo hanno individuato mentre si nascondeva in una villetta di Sassari. Al momento dell'arresto era solo. Non era con lui Giovanna Truzzi, la donna per la quale era scappato già nel 2017. Ma alla polizia avrebbe detto: «Volevo stare con lei, sono scappato ancora una volta per amore. Ho fatto una grossa fesseria, lo so». Capelli biondo platino e sfumatura alta: così Mastini aveva tentato di rendersi irriconoscibile, ma gli uomini della Squadra mobile di Sassari, coadiuvati da quelli della scientifica e da alcuni agenti di polizia penitenziaria, l'hanno immediatamente riconosciuto. Si trovava all'interno di un immobile di campagna nella zona rurale di Taniga, utilizzato come deposito o per qualche spuntino, di proprietà di un quarantenne sassarese con qualche piccolo precedente, Lorenzo Panei, 51 anni, che è stato arrestato per favoreggiamento. La pm di Sassari Enrica Angioni ritiene che sia stato proprio lui a far sparire Johnny lo zingaro poco dopo aver firmato in Questura alla fine del permesso premio, a poco più di un'ora dall'orario in cui era previsto il suo ingresso in carcere. Johnny aspettava che le acque si calmassero per lasciare la Sardegna e ricongiungersi con la compagna, partita dalla Sardegna la sera stessa in cui Mastini non è rientrato nel carcere di Bancali, a Sassari.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 15 settembre 2020. Giuseppe Mastini, detto Johnny lo zingaro, è stato arrestato a Sassari. Gli uomini del Servizio centrale operativo della Polizia hanno compiuto l’operazione nella mattinata di martedì, dopo aver individuato il latitante in una villetta isolata nelle ore scorse. «La fuga è sempre per amore», ha detto agli agenti. La compagna di Mastini non si trovava con lui al momento dell’arresto, e non sarebbe in Sardegna. I due si parlavano, al telefono, in sinti stretto. In carcere da anni per tre omicidi — gli ultimi delitti risalgono alla fine degli anni Ottanta — era evaso sette volte: l’ultima dieci giorni fa, al termine di dieci giorni di «licenza».

FLAMINIA SAVELLI per il Messaggero il 15 settembre 2020. La caccia a Giuseppe Mastini, conosciuto come Johnny lo zingaro l'ergastolano che tra gli anni 70 e 80 seminò il terrore nella capitale, è serratissima: dopo tre anni rinchiuso nel Bancali, il penitenziario di massima sicurezza di Sassari, la mattina del 6 settembre non è rientrato da un permesso premio ed è diventato un fantasma. Proseguono le ricerche e si allunga la lista delle segnalazioni. Al commissariato di Sassari ne arrivano almeno sei al giorno: «Alcuni testimoni dicono di averlo visto con un passeggino ai giardini del centro». Altri, avrebbero raccontato di averlo visto addirittura seduto in un bar. A queste, si sommano le tante che arrivano ai carabinieri: l'ultima, verificata martedì, in cui il fuggitivo stava camminando nei giardini pubblici.

I SOSPETTI. E se in un primo momento il sospetto era che lo zingaro fosse riuscito a lasciare la Sardegna con una nave, direzione Corsica, ora la pista calda sta portando gli investigatori altrove. E neanche troppo lontano dalla comunità in cui ha trascorso le ultime ore da recluso: «Crediamo - dicono - che si stia nascondendo in città, a Sassari. Ora ci sono i controlli ai porti e negli scali aeroportuali». Ma gli indizi sono pochissimi per questo. Intanto la moglie, che lo aveva accompagnato nell'ultima fuga nel 2017, è tornata in Toscana. Con il cerchio delle indagini che continua a stringersi intorno alle poche amicizie che l'ergastolano aveva stretto sull'isola.

IL COLLOQUIO. Il suo avvocato, Enrico Ugolini, è stato uno degli ultimi a parlare con il fuggitivo: «Sono il legale di Mastini ormai da tre anni - precisa - quando abbiamo parlato l'ultima volta era molto sereno, circa dieci giorni prima della fuga. Questo permesso premio lo avevamo richiesto più volte e quando ci è stato accordato lui era soddisfatto». L'avvocato non aveva alcun sospetto del piano di fuga dello zingaro. Anche se: «Bisogna tener conto del fatto che Giuseppe è stato in carcere per 40 anni - sottolinea - per lui il tempo è come se si fosse fermato. Non ha avuto la possibilità di vivere una vita normale, di integrarsi. Questo permesso forse, per lui è stata un'occasione per riprendersi un po' della libertà che non ha mai avuto». L'avvocato Ugolini infine sottolinea: «Il mio assistito non mi ha cercato nè ha provato a mettersi in contatto con me. Non sono stupito, è un criminale in fuga. Ma spero che ci ripensi». L'allarme era scattato poco dopo mezzogiorno domenica sei settembre. Quando gli agenti non lo hanno visto rientrare dopo aver trascorso alcune ore in permesso premio con la moglie, Giovanna Truzzi, sposata a 13 anni con una cerimonia sinti.

LA MOGLIE. I poliziotti quando l'hanno rintracciata, poco dopo la notizia della fuga, era sorpresa e sconvolta: è stata ascoltata a lungo e ha lasciato l'isola mercoledì, mostrandosi collaborativa. Quella di Mastini è già la settima evasione: nato a Bergamo nel 1960, si era trasferito a Roma insieme alla famiglia di origini sinti che gestiva un luna park tra la Rustica e il Tiburtino. Nella capitale si era fatto presto un nome tra i delinquenti del quartiere. Dai furti, alle rapine fino al primo omicidio nel 75 quando ha ucciso, per un orologio di poco valore e diecimila lire, un operaio di 38 anni impiegato Atac, Vittorio Bigi. Ma è nel 1987, durante un'altra fuga, che uccide un agente. Per quel delitto viene accusato di omicidio. 

Le polemiche dopo la nuova fuga di Johnny lo zingaro. Travaglio e i suoi ragazzi non stanno dalla parte della magistratura, ma solo dei Pm. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Settembre 2020. Non è vero che Marco Travaglio e la sua truppa del Fatto quotidiano stanno dalla parte della magistratura. A loro piacciono solo i pubblici ministeri, cioè quelli che in Italia –unico Paese del mondo occidentale- indossano indebitamente la stessa toga del giudice. In realtà c’è addirittura una categoria di giudici che quelli del Fatto proprio non sopportano, e sono i tribunali di sorveglianza. Non perdono occasione per tirar loro palate di fango, un materiale che in quella redazione conoscono bene. Capita che evada, non rientrato da un permesso premio, Johnny lo Zingaro, un vero papillon, habitué delle fughe, spesso d’amore. Sarebbe scappato (o non rientrato) da qualunque istituto di pena, se gli fosse girato così. Ma era detenuto a Sassari, e i giudici della città sarda hanno proprio una brutta reputazione agli occhi di Travaglio e dei suoi ragazzi (e ragazze). Sono quelli che, dopo aver invano chiesto al Dap il trasferimento in un centro clinico adeguato per un detenuto gravemente malato, gli hanno poi accordato, mentre era in corso l’allarme per il Covid-19, un differimento della pena per pochi mesi, perché potesse avere cure adeguate a una grave forma di tumore. Quel detenuto si chiamava Pasquale Zagaria, non aveva mai ucciso né rapinato, si era consegnato spontaneamente nel 2007, aveva poi ammesso i suoi reati, e soffriva di un «carcinoma papillifero di basso e focalmente alto grado della vescica». Era stato operato e necessitava di cure specifiche. Non era considerato pericoloso almeno dal 2011, come dichiarato nel 2015 dalla corte d’appello di Napoli. Pure era finito nel tritacarne della canea, che ancora nei giorni scorsi aveva latrato dalle colonne di Repubblica, che polemizzava sui «boss scarcerati». Pasquale Zagaria è in un ospedale lombardo, non scoppia di salute. Non rientrerà in carcere benché lo chiedano ossessivamente i pubblici ministeri napoletani, come già aveva fatto Catello Maresca, quello che lo aveva arrestato e che non si dà pace, perché i “cattivoni” giudici di Sassari hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale contro il decreto Bonafede dell’ 11 maggio. Quello che nominava i pubblici ministeri “antimafia” come badanti dei giudici di sorveglianza, minandone l’autorevolezza e l’autonomia. Con grande disappunto del Fatto, persino di una giornalista come Antonella Mascali che pure si era fatta le ossa, da giovane, alla scuola di Radio Popolare, fondata da un garantista come Piero Scaramucci.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2020. Le prime quattro evasioni le organizzò scappando da riformatori e carceri dov' era stato rinchiuso da minorenne o poco più; per le altre tre gli è bastato non tornare in cella dopo un permesso. L' ultima volta sabato scorso, al termine di dieci giorni di «licenza» dopo la firma in questura. È così che Giuseppe Mastini detto Johnny lo zingaro, sessant' anni compiuti a febbraio, è diventato più noto per le sue fughe che per le gesta criminali (compresi tre omicidi) commesse in gioventù. Delitti ormai sbiaditi dal tempo, ancorché crudeli; gli ultimi risalgono al 1987. L' insofferenza per la prigione e le sue regole, seppure allentate dalle misure alternative, è invece rimasta intatta. Nonostante i magistrati di sorveglianza fossero tornati a dargli fiducia, e dopo tanta galera intravedesse il traguardo della semilibertà, udienza fissata a febbraio. Ha deciso di fare da solo, ma con la polizia alla calcagna. «È una scelta inspiegabile» dicono all' unisono don Gaetano Galia, direttore del Centro salesiano che aveva accolto Johnny nell' ultimo anno e mezzo di permessi, e l' avvocato torinese Enrico Ugolini. «Io non sono deluso per il tradimento della fiducia - aggiunge don Gaetano - ma perché temo che il suo percorso di reinserimento sia definitivamente concluso; ormai il suo destino è la fuga o il carcere, dal punto di vista del recupero è come se fosse morto». Già, perché se e quando lo riprenderanno, sarà difficile trovare altri giudici che gli consentiranno di uscire. Dopo il mancato rientro in prigione del 1987 al termine del primo permesso - al quale seguirono rapine, sparatorie e due omicidi che gli sono valsi l' ergastolo - Mastini era riuscito a ottenere il lavoro esterno in capo a quasi trent' anni di buona condotta. Era la fine del 2016, ma una sera di giugno 2017 non si ripresentò al penitenziario piemontese di Fossano. Per ritrovarlo la polizia impiegò gli specialisti del Servizio centrale operativo e tecniche d' indagine degne della caccia a un capomafia, con intercettazioni, telecamere e microspie; la spuntarono seguendo le orme di una donna, Giovanna Truzzi, origini nomadi come le sue e piccoli precedenti penali, che Johnny lo zingaro aveva sposato a 14 anni con il rito sinti; poi ognuno aveva preso la sua strada, lei messo al mondo cinque figli con un altro uomo, finché il marito-bambino non è tornato a conquistarla da adulto. Proprio perché l' evasione del 2017 «per quanto assolutamente censurabile, si è risolta in una dimensione esclusivamente intima e privata, senza comportare alcuna condotta illecita verso terzi né atteggiamenti di aggressività del condannato, neppure al momento dell' arresto», due anni più tardi una magistrata di sorveglianza di Sassari (dove c' è l' istituto di massima sicurezza a cui era stato destinato) gli ha concesso un nuovo permesso. C' erano le relazioni positive degli esperti e il parere favorevole della direzione del carcere, mentre il comitato per l' ordine e la sicurezza pubblica aveva riferito: «Non si può escludere che Mastini sia ancora pericoloso o abbia legami con la criminalità». Dopo i primi tre giorni nella casa famiglia di don Gaetano nel febbraio 2019, Johnny ha ottenuto altri 12 permessi durante i quali coltivava l' orto dei salesiani e gli affetti nelle ore di libera uscita. Incontrava regolarmente Giovanna, che aveva affittato una casa in Sardegna per stare vicino al suo uomo e durante l' ultima «licenza» ha potuto dormire con lui nella comunità. «Fa parte del percorso di recupero», spiega don Gaetano. Al quale Mastini aveva confidato di voler rimanere sull' isola, aprendo una bottega di prodotti agricoli. Ma a volte appariva stanco dell' attesa, e forse all' idea di dover aspettare almeno un paio di mesi per il prossimo permesso, causa dilatazione dei tempi dovuta all' emergenza Covid, ha scelto ancora una volta la scorciatoia dell' evasione. Come per un richiamo irresistibile. Sabato pomeriggio Giovanna ha avvertito don Gaetano che Johnny non era tornato in cella; dopo la firma in questura le aveva chiesto il telefono per chiamare l' amico che doveva riaccompagnarlo al carcere e se n' è andato. Quel telefono risulta spento da due giorni, e dai primi accertamenti sembra che Giovanna si sia imbarcata per il continente nella stessa serata di sabato. Tracce di Mastini non ce ne sono, ma il sospetto di una fuga pianificata in coppia è forte. Lo Sco della polizia è di nuovo in azione, mentre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha attivato gli ispettori per verificare la regolarità delle procedure nell' ufficio di sorveglianza, lo stesso che a maggio ha concesso gli arresti domiciliari al boss camorrista Pasquale Zagaria; ma si tratta di situazioni e magistrati diversi. L' opposizione politica ha già fatto partire i suoi attacchi, da Salvini in giù, e don Gaetano si rammarica: «In 7 anni abbiamo ospitato 400 detenuti, e finora erano evasi in 3, Johnny è il quarto. Significa che il sistema funziona bene, ma quando c' è di mezzo un nome famoso rischia di travolgere tutto. Lui lo sa, ma ha pensato solo a sé».

Sei le fughe del carcere. Storia di Johnny lo Zingaro, dall’omicidio strafatto di coca all’evasione con l’amante. David Romoli su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Johnny lo Zingaro è evaso. Non è rientrato da un permesso premio nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Lo cercano con gran dispiego di forze e mezzi sull’isola e sul Continente e ormai è quasi un’abitudine. È la sesta evasione e nel 1987 la caccia coinvolse centinaia di agenti, paralizzò la Capitale ed entrò a pieno titolo nella leggenda noir di Roma. Sono passati 23 anni da quella notte brava, fra il 23 e il 24 marzo 1987, che trasformò Giuseppe Mastini, Johnny lo Zingaro, allora di 27 anni, in uno dei protagonisti assoluti della Roma criminale. Era latitante da poco più di un mese, da quando, alla fine di un permesso premio di 8 giorni, il primo dopo 12 anni di carcere, non era rientrato in prigione. Nel corso di quel mese aveva messo a segno una serie di rapine, bar, benzinai, automobilisti. Sono rapine frettolose, quasi sgangherate: quando gli capitano fra le mani una ventina di milioni in un borsetto, Johnny, strafatto di coca e di alcool, neanche se ne accorge e molla la borsa ancora piena. La notte di follia inizia col furto di una macchina: pistola puntata e richiesta secca al guidatore di smammare. Con Mastini c’è Zaira Pochetti, vent’anni, figlia di una famiglia poverissima di Passoscuro. Sono pescatori: Zaira è la prima ad arrivare all’università, l’orgoglio della famiglia. Ha conosciuto l’evaso da qualche settimana ed è diventata la Bonnie delle borgate romane. Bel ragazzo, nato a Bergamo da una famiglia di giostrai Sinti. Si trasferisce a Roma con tutta la famiglia nel ‘70. Abitano una roulotte e di scuole neanche a parlarne: Giuseppe, non ancora Johnny, manda avanti la giostra e ancora quasi con i calzoni corti inizia a rubare macchine. Però non rivende i pezzi come fanno tutti. Gli piace guidare. Adora correre. A 11 anni si ritrova coinvolto in uno scontro a fuoco con la polizia. Nessuna vittima, ma viene colpito e gli resta in eredità un piede claudicante. Nel 1975 una rapina da due soldi, 10mila lire che erano ben poche anche allora, finisce con la morte del rapinato, un autista di tram, Vittorio Bigi. Il corpo viene occultato e ritrovato solo dopo una settimana. La testimonianza di un taxista incastra Mastini e un coetaneo. “Lo zingaro” negherà sempre quel delitto, è lui stesso del resto a costituirsi, ma viene lo stesso condannato a 11 anni. Pochi giorni ed evade dal carcere minorile di Casal del Marmo. Lo riprendono subito, ma l’anno seguente evade di nuovo e stavolta è lui stesso a consegnarsi dopo qualche giorno. Nel 1981 nuova evasione, ma stavolta senza ripensamenti. Resta libero un paio d’anni, poi lo trovano. Torna in carcere e diventa un’altra persona, tanto da arrivare a un passo dalla semilibertà e da ottenere il permesso premio che gli costerà l’esistenza nel 1987. Perché non rientra in carcere, pur sapendo di avere la libertà a portata di mano? «Colpa della cocaina», spiegherà lui. «L’ultimo giorno di permesso avevo deciso di rivedere i vecchi amici. Una cena, poi qualcuno propone una botta, poi una seconda botta e con la cocaina non ragioni più». Forse il colpo di testa è davvero colpa del mix di coca e alcol. Forse invece è il carattere di Johnny: uno che scappa e corre per natura. La notte del 23 marzo, oltre alla macchina, Johnny e Zaira si portano via anche un ostaggio: Silvia Leonardi, bella e anche lei giovanissima. Le versioni divergono. Secondo Mastini la ragazza, paralizzata dal terrore, era rimasta nella Lancia. Lei afferma il contrario, dice di essere stata costretta a rimanere con i sequestratori. Nella corsa scoppia una gomma. I sequestratori e l’ostaggio continuano a piedi, poi fermano un’altra macchina, una 128, e pistola alla mano Johnny se ne impadronisce. Non è ancora una tragedia. Lo diventa quando un’auto della polizia in borghese inizia a tallonare la 128. Johnny spara, uccide un poliziotto della sua stessa età, Michele Giraldi, ne ferisce gravemente un altro. Si difenderà, al processo, dicendo che ad aprire il fuoco erano stati i poliziotti. Le perizie balistiche lo smentiscono. Il poliziotto sopravvissuto lo accuserà anche di essersi avvicinato al collega già ferito per dargli il colpo di grazia. In questo caso sarà la testimonianza di Silvia, l’ostaggio, a confutare le truce versione. Dopo la sparatoria la fuga continua. Johnny vede una macchina come piacciono a lui, una che corre davvero. È di un carabiniere e nella seconda sparatoria non ci scappa un secondo cadavere solo per miracolo. Alla fine lo Zingaro rinuncia. Dopo un po’ lascia libera la ragazza, non prima di averci provato con le maniere forti: «Aveva allontanato Zaira e voleva stuprarmi, ma lei è tornata e ha rinunciato». La caccia all’uomo è di quelle che a Roma si contano su una mano sola. Centinaia di auto. Posti di blocco ovunque. Titoloni sparati a tutta pagina. Il 24 marzo la prima a essere presa è Zaira. Johnny, rifugiatosi in un capannone, si arrenderà qualche ora dopo. Zaira Pochetti non si riprenderà più. Finisce in un vortice di depressione a anoressia grave. Il giudice concede i domiciliari, ma non serve a niente. Morirà nel dicembre 1988. C’è un terzo omicidio di cui Giuseppe Mastini deve rispondere: quello del console italiano in Belgio Paolo Buratti, ucciso nel corso di una rapina nella sua casa di Sacrofano durante le sue settimane di latitanza. La moglie indica Johnny come l’assassino, ma fa confusione col colore dei capelli e in casa, nonostante il rapinatore abbia rovistato dappertutto, nessuna impronta digitale coincide con quella dello Zingaro. Col tempo, in carcere, finisce sotto indagine anche per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Era amico di Pelosi, “Pino la Rana” e di alcuni degli altri sospettati. Lo scagionerà lo stesso Pelosi, prima di morire. Ci vuole un ventennio perché lo Zingaro esca per la prima volta di nuovo. Gli permettono di assistere a un concerto dei Prodigy, dato che, entrato in carcere analfabeta, sta studiando da giornalista musicale. La direzione del carcere la prende male. Gli contesta irregolarità di poco conto commesse nel corso di quelle ore di libertà. Lo Zingaro ottiene la semilibertà ma, incorreggibile, il 30 giugno 2017 non rientra in prigione. Un’evasione romantica. È rientrato in contatto con la sua prima fidanzatina, Giovanna Truzzi, che peraltro si trova anch’essa ai domiciliari, si sono rimessi insieme dopo decenni, coordinano la fuga d’amore. Li ritrovano dopo 25 giorni in casa della sorella di lei, a Taverne d’Arbia. Ieri Johnny lo Zingaro è scappato di nuovo. I Gang, nella canzone che gli avevano dedicato nel 1991, cantavano: «Johnny non si arrenderà. Né finestre né mura né celle mai potranno fermare la sua libertà». Forse avevano ragione.

Rapine, evasioni e due omicidi: la storia di Johnny lo Zingaro fino alla beffa dell'ultima fuga. C'è anche un grande amore nella vita di Mastini, l'ergastolano scappato dal carcere di sicurezza di Sassari durante un permesso premio. Si chiamava Zaira Pochetti, una ragazzina mite e minuta che diventerà sua complice ma che morirà in ospedale. Flaminia Savelli il 07 settembre 2020 su La Repubblica. Sette evasioni, due omicidi, un rapimento, 25 rapine e un grande amore: la storia criminale dell'ergastolano Giuseppe Mastini, fuggito ieri dal carcere di massima sicurezza di Sassari, inizia a Roma negli anni '70. Nato nel 1960 a Ponte San Pietro, Bergamo, si trasferisce a dieci anni a Roma con la sua famiglia e una carovana di famiglie sinti della Lombardia. La  roulotte è parcheggiata in via Riccardo Balsamo Crivelli, al Tiburtino dove in pochi mesi Mastini diventa per i criminali del quartiere "Johnny lo zingaro". Lavora nel parco giochi di famiglia ma la sua vera passione sono le auto: è un talento a guidarle e a rubarle. Così si fa un nome tra i piccoli delinquenti e inizia la sua carriera criminale. Nel 1971 partecipa a una rapina insieme a una banda del Tiburtino, scoperto dalla polizia preme il grilletto per la prima volta, spara poi scappa e si salva. Fa sul serio all'alba del 31 dicembre del 1975 quando ammazza - per un orologio di poco valore e diecimila lire - un operaio di 38 anni impiegato Atac, Vittorio Bigi, insieme all'amico Mauro Giorgio, anche lui quindicenne.  Hanno trascorso la notte in giro per piazza Mastai poi usciti da un locale hanno avvicinato un tassista, Domenico Ialungo, chiedendogli un passaggio fino a Lunghezza. Una volta arrivati lo hanno aggredito e derubato. Calci, pugni, spinte e sono andati via con la sua macchina a tutta velocità. Raggiungono via dei Monti di Pietralata dove incontrano Bigi che ha appena staccato il turno dal deposito dell'Atac al Portonaccio ed è da poco salito in macchina, una fiat 128. È diretto a casa, alla Bufalotta dove non arriverà mai. Mastini e il complice lo fermano con una scusa, montano sulla sua lo fanno guidare fino a via delle Messi d'Oro a Pietralata dove lo costringono a scendere: lo zingaro gli punta una calibro 22 alla testa e quando Bigi accenna la fuga, non esita e spara due colpi. Uno alla testa e uno alla schiena. La polizia troverà il corpo una settimana dopo con i due delinquenti che si sono lasciati alle spalle molte tracce e tanti testimoni, tra cui il tassista Ialungo. La caccia ai giovani assassini è aperta: il 14 gennaio i poliziotti rintracciano il complice a casa, in via Diego Angeli a Casal Bruciato. Il ragazzino non appena vede gli uomini in divisa crolla, confessa ma dell'omicidio accusa Mastini che intanto ha fatto perdere le sue tracce: "Il risvolto di questo caso è drammatico - commenterà il questore Ugo Macera - poiché vediamo autori del delitto coinvolti due bambini". Le accuse per i due sono pesantissime: concorso in omicidio volontario pluriaggravato e rapine. Lo zingaro è ancora latitante, alla fine si arrende e si costituisce agli agenti di Casal del Marmo.

Ragazzi di vita. C'è un altro caso che si lega alle indagini dell'omicidio Bigi, l'operaio dell'Atac. Appena un mese prima (la notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975) a finire ammazzato in un campo sterrato all'Idroscalo di Ostia è l'intellettuale Pier Paolo Pasolini. Per quell'omicidio viene ritenuto responsabile Pino Pelosi, detto "la Rana", 17 anni e reo confesso, accusato e condannato per omicidio volontario in concorso con ignoti. E il destino vuole che le strade della Rana e dello Zingaro si incrocino prima fuori le alte mura di Casal del Marmo e poi dentro il riformatorio. Quando gli investigatori iniziano a indagare sulla morte dell'operaio dell'Atac, individuano i responsabili ricostruiscono il loro giro di amicizie. Subito salta fuori che Giuseppe Mastini, Mauro Giorgio e Pino Pelosi erano amici già da tempo: frequentavano le stesse bische e gli stessi bar tra la stazione Termini, la Rustica e la Tuscolana. Stesse vite difficili. A un certo punto, appena Johnny viene preso per l'assassinio Bigi salta fuori che l'anello ritrovato nell'auto di Pasolini apparterrebbe a lui. Ma la pista del coinvolgimento di Mastini nell'omicidio dello scrittore non regge e le loro strade si divideranno presto: Pelosi sconterà la sua pena mentre Mastini scriverà altre pagine nere di cronaca criminale. La prima mentre è ancora in attesa che si apra il procedimento penale: il 2 febbraio, appena 15 giorni esserci costituito, fugge. Nel cuore della notte uno dei "camerotti" - sono 5 cinque in tutto - chiama una guardia carceraria perché, dice, deve andare in bagno. Come l'agente apre le sbarre viene aggredito, picchiato e spintonato. Ferito giace a terra mentre i ragazzi prendono il mazzo di chiavi e lo chiudono dentro. Aprono le altre celle e tutti i detenuti escono, tra loro anche Johnny e Mauretto. Una fuga brevissima perché appena 24 ore dopo, Mastini e Giorgio si ripresentano volontariamente a Casal del Marmo: "Sono stati gli altri a organizzare l'evasione, noi abbiamo trovato la porta aperta e siamo scappati. Così per scherzo" diranno poi. È la prima delle cinque fughe dello zingaro.

Le fughe. È ancora in attesa di giudizio Mastini - per l'omicidio Bigi - e passa da un carcere all'altro. Trascorre qualche mese all'Ucciardone di Palermo e nel 1977 è nel carcere minorile dell'Aquila. Ma è un irrequieto per natura, è uno che fa quello che vuole e la vita del carcere gli sta stretta: il 24 settembre scappa ancora. È la seconda volta. Con un piano ben organizzato: per evadere insieme ad altri cinque detenuti usa un crick, del quale si impossessa chissà come. Le guardie in servizio nel braccio sono state distratte da un falso malore accusato da un detenuto quindi Johnny e un suo compagno hanno approfittato dell'assenza per forzare le sbarre del cancello della loro stanza. Usciti hanno raggiunto i due agenti, e li hanno aggrediti, legati e imbavagliati. Sfondano il fragile soffitto del carcere e una volta sul tetto si calano all'esterno con la classica corda di lenzuoli. Polizia e carabinieri sono stati avvertiti soltanto due ore dopo: il sorvegliante di notte di guardia al pian terreno non ha sentito alcun rumore mentre i fuggitivi, prima di abbandonare il reclusorio, hanno pensato anche di troncare il filo del telefono, in modo da impedire che le ricerche scattassero subito. Da quanto ricostruiscono gli inquirenti, hanno appoggi esterni. Ne sono sicuri. La caccia è aperta ma Mastini e gli altri 5 fuggiaschi sembrano scomparsi nel nulla. Ci vorranno dieci giorni per riprenderlo. Viene trovato a Roma, per caso, il 5 ottobre: tra via Palmiro Togliatti e via del Mattatoio Nuovo una pattuglia del nucleo speciale di polizia giudiziaria sta eseguendo controlli ordinari sulle auto in circolazione quando fermano una macchina. Fermano anche quella di Johnny e lui mostra una carta d'identità falsa: il documento è contraffatto in maniera grossolana e questo insospettisce gli agenti che a quel punto portano lui e gli amici al commissariato del Prenestino. Qui è facile riconoscerlo. In una manciata di ore il diciassettenne à di nuovo in carcere, questa volta a Regina Coeli in attesa di essere destinato in maniera fissa, a una nuova casa di pena. Il 30 ottobre, dopo quattro ore di camera di consiglio, i giudici del Tribunale dei minori stabiliscono la pena per l'assassinio Bigi:  undici anni, poi ridotti a otto, a Mastini mentre la corte ritiene "immaturo" il complice Giorgio Mauro, e lo condannato a tre anni di riformatorio solo per la rapina. Giuseppe Mastini viene destinato a Pianosa, un'isoletta vicino Livorno. Considerato uno dei carceri più sicuri. E invece dopo aver fatto calmare le acque lo zingaro - insieme ad altri cinque detenuti - ci riprova e scappa per la terza volta: è il 24 novembre del 1981.

L'inseguimento. È bravo Johnny a far perdere le sue tracce, a nascondersi, a sfuggire. Tutta l'isola di Pianosa viene battuta palmo a palmo ma i sei fuggiaschi sono svaniti nel nulla: Mastini è, ancora una volta, un latitante. Però questa volta non si costituisce, non torna indietro. È ancora in fuga quando il 20 giugno del 1983, due anni dopo, viene rintracciato. Gli agenti del capo della mobile Gianni Carnevale, notano una targa sospetta di una Fiat 132 all'ingresso del casello di Roma nord e intimano l'alt. La macchina invece di fermarsi, rompe il blocco fa inversione di marcia e va in direzione del Gra. Scatta l'allarme e un inseguimento d'altri tempi. Come in un film, c'è un elicottero della polizia che monitora dall'alto la macchina in fuga e coordina le volanti a terra. Il bandito ormai braccato abbandona la macchina e scappa a piedi armato di pistola. Non è solo, c'è un altro uomo che esce dall'auto: cercano di scappare tra i campi del raccordo. Ma la corsa dura poco e nel giro di pochi minuti sono stati circondati e ammanettati. Per gli investigatori Mastini si stava dirigendo in Veneto per unirsi a una grossa organizzazione dell'Anonima Sequestri. Nell'auto vengono trovate armi, munizioni, divise della Guardia di Finanza, passamontagna e nastro adesivo. L'occorrente insomma, per portare a termine un rapimento. Ammanettato, Jonny lo zingaro torna dietro le sbarre. 

Il grande amore. Ha deciso di rigare dritto: di non attirare più l'attenzione. In carcere a Regina Coeli vuole solo stare tranquillo, scontare la sua pena e poi uscire. Per oltre 4 anni non si sentirà più parlare di lui. Tanto che nel 1987, ha ormai 27 anni, ottiene un permesso premio di otto giorni. Esce dal carcere e non farà più ritorno. Riprende la sua vecchia vita: rapine e furti d'auto. Una sera, in un locale della periferia, incontra Zaira Pochetti: minuta con i capelli neri e lo sguardo mite. È una ragazzina di 20 anni appena che frequenta l'università. I suoi genitori sono pescatori e vivono a Passo Scuro, una famiglia difficile ma Zaira è sempre stata lontana dai guai. Lo Zingaro lo incontra in un bar vicino all'università, si innamora, lo segue: questione di attimi. Lei si innamora subito lo segue in due settimane di follia e amore. Diventa sua complice anche nel rapimento di una giovane, Silvia Leonardi. È il 24 marzo, la vittima era seduta in macchina con il fidanzato quando, sulla via Tuscolana, Mastini si è avvicinato armato di pistola ha costretto il giovane a consegnargli la macchina. Impietrita dalla paura non è riuscita a muovere un muscolo ed è rimasta nell'auto che schizzava via. I tre  vengono subito intercettati sulla. Un inseguimento quindi, e infine la sparatoria: una pioggia di proiettili da una 357 magnum cade sull'asfalto della città insieme al sangue di un agente: Michele Giraldi è morto, un altro, Bruno Nolti rimane ferito e miracolosamente scampa alla morte. Ma la fuga è appena iniziata: trascinandosi dietro l'ostaggio riescono a fuggire in direzione Tor Lupara dove rubano un'Alfa 2000. Si dirigono verso Mentana, attraverso via Palombarese. Le ore passano e la mattina successiva, nei pressi di Monterotondo, a Santa Colomba, la ragazza rapita, riesce a fuggire.  Viene ricoverata all'ospedale locale ma sta bene. Racconterà di aver approfittato di un momento di distrazione dei suoi sequestratori: Giuseppe e Zaira infatti, si sono fermati ai bordi di un burrone per gettare l'auto della fuga. Nel frattempo le ricerche continuano con un dispiegamento di forze degno dei più efferati criminali: si contano più di 500 uomini tra poliziotti e carabinieri, oltre a unità cinofile ed elicotteri. La zona tra Settebagni e Settecamini, tra via Salaria e via Nomentana, è  sotto assedio. Alle 18.30 a Santa Colomba di Settebagni, i carabinieri riescono a fermare e identificare Zaira che non oppone resistenza. Johnny, invece, riesce a fuggire nella boscaglia e si rifugia in una baracca, inseguito dalle forze dell'ordine. Per Lo Zingaro si avvicina la fine, oramai è circondato. Inizia quindi a parlare con gli agenti, guidati dal capo della squadra Mobile Rino Monaco. Gli agenti impiegano più di due ore per farlo uscire dalla baracca. Lo ammanettano: è finita davvero.

L'ultimo bandito. Dopo 27 anni di vita vissuti all'insegna del crimine e del sangue, si arrende. Il pericoloso bandito viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli è accusato di omicidio volontario pluriaggravato, tentativo di omicidio, sequestro di persona, violazione della legge sulle armi e furto d'auto. Su di lui pesano anche i sospetti di diverse rapine di cui una sfociata nel sangue ma di cui non viene ritenuto responsabile. Zaira viene ritenuta sua complice, l'accusa è di concorso in omicidio, tentato omicidio e sequestro di persona. Dunque, dal giorno dell'arresto è rinchiusa nel carcere di Rebibbia, ai militari che la fermano quella notte dice: "È colpa sua. Johnny mi ha costretta a seguirlo, mi minacciava, non potevo sottrarmi". E aggiunge che è proprio quello il vero motivo per cui ha deciso di arrendersi: "Preferisco che mi prendano loro piuttosto che mi ammazzi tu". La fidanzata dello Zingaro però non arriverà mai in aula. Il 20 dicembre del 1988 muore in un letto d'ospedale con una flebo attaccata al braccio. Dal giorno in cui viene rinchiusa in carcere si ammala di anoressia nervosa, si lascia morire giorno dopo giorno. Perde 20 chili prima che le vengano concessi gli arresti domiciliari. Non si salva:"Tutto quello che mangiava lo vomitava. Non dormiva la notte. Aveva gli incubi. Per quattro volte il nostro avvocato, Alessandro Cassiani, aveva chiesto la libertà provvisoria. E per quattro volte l'avevano rigettata", denuncerà il papà Giuseppe. Una volta in carcere invece Mastini confessa che in quelle settimane di libertà ha commesso 25 rapine per un bottino di 100milioni di lire. Il "Mastino", così come ora lo chiamano gli agenti, solo apparentemente però è domato. Il 14 giugno del 1987 ci riprova ancora, è sotto strettissima sorveglianza quando prima si taglia le vene con una scheggia di vetro poi svuota una bottiglietta di barbiturici. Portato d'urgenza al Policlinico, viene medicato e curato. Appena il tempo di riprendersi e cerca di scappare. Ancora una volta viene braccato, fermato e riportato in cella a Rebibbia. Il processo inizia il 16 febbraio del 1989, il 10 aprile è condannato al carcere a vita per l'omicidio dell'agente Girladi, il tentato omicidio del carabiniere Bruno Nolti, il sequestro di Silvia Leonardi e una lunghissima sequenza di rapine. L'anno dopo, è il 12 febbraio del 1990, viene trasferito al carcere di Voghera poi a Fossano a Cuneo dove nel 2017 ancora una volta scappa via durante un permesso premio. Viene rintracciato e arrestato ancora una volta e trasferito, a Sassari. Da cui ancora grazie a un permesso premio, è fuggito ieri mattina.

Rinaldo Frignani per corriere.it il 7 settembre 2020. «Una volta vorrei vendicarmi di questa società che mi ha maltrattato». Giuseppe Mastini lo disse prima di un permesso premio a un compagno di detenzione. Protagonista di omicidi, rapine, furti, inseguimenti mozzafiato con le forze dell’ordine, il 60enne meglio noto alle cronache come Johnny lo Zingaro ha insanguinato la Capitale negli anni Ottanta. Ieri a mezzogiorno non si è presentato da un permesso premio nel carcere di Bancali, in provincia di Sassari. La seconda evasione in tre anni, dopo quella - analoga - dal penitenziario di Fossano (Cuneo). Adesso le note di ricerca di Mastini sono state diramate in tutta Italia, alle frontiere e soprattutto ai porti della Sardegna. «Autore di numerose rapine a mano armata, coinvolto nel processo per l’omicidio di Pierpaolo Pasolini condannato per altri due omicidi, tra cui quello dell’agente Michele Giraldi del commissariato romano X Tuscolano, oggi Giuseppe Andrea Mastini, detto Johnny lo zingaro, ancora una volta non è rientrato da un permesso premio. Eppure questo ergastolano durante un permesso premio nel 2014 si era già reso responsabilità di irregolarità e nel 2017 aveva fatto esattamente la stessa cosa». Così Vincenzo Chianese, segretario generale di Es Polizia, commenta l’evasione di Mastini. «La normativa che consente di uscire dal carcere anche a persone che palesemente non dovrebbero poter circolare va assolutamente cambiata e non solo per evitare che i familiari delle vittime ogni volta che accadono certe cose avvertono di nuovo lo stesso dolore, ma anche perché la sensazione di impunità che c’è nel nostro Paese mina profondamente la credibilità dello Stato».

La carriera criminale. Originario di Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, Mastini appartiene a una famiglia di giostrai di etnia sinti che si sono trasferiti a Roma con la loro roulotte all’inizio degli anni Settanta. A undici anni, dopo essere già entrato a quell’età nel giro della malavita del Tiburtino, il «biondino», altro suo soprannome, viene coinvolto in un conflitto a fuoco con la polizia. Ferito a una gamba, ne porterà le conseguenze nel camminare. Ma Johnny deve soprattutto la sua notorietà criminale a quanto accaduto a Roma la notte del 23 marzo 1987 quando venne catturato nei pressi di Fiano Romano dopo un rocambolesco inseguimento da parte di polizia e carabinieri al termine di rapine, omicidi e sequestri di persona. Allora Mastini e la sua compagna di allora — Zaira Pochetti, 20 anni, di Passoscuro, sul litorale romano, già studentessa di Scienze politiche alla Sapienza e residente in un convento di suore — furono intercettati in auto, una Fiat, da un’autoradio del commissariato Tuscolano all’incrocio fra via Quintilio Varo e la circonvallazione Tuscolana, al Quadraro. L’uomo era ricercato per una serie di rapine, oltre al fatto di essere evaso dal carcere minorile di Casal del Marmo (primo allontanamento), anche allora per un permesso premio per buona condotta, dove era stato rinchiuso con una condanna a 12 anni per l’omicidio di un tranviere, Vittorio Bigi, ucciso per rapina al Tiburtino. All’alt della polizia, Johnny spara con una 357 Magnum uccidendo all’istante l’agente Michele Giraldi e ferendo gravemente il collega di pattuglia, Mauro Petrangeli.

«Tanto non mi prenderanno mai». In viale Palmiro Togliatti è invece un carabiniere in borghese a cercare di fermare la coppia: altro conflitto a fuoco, con il militare dell’Arma miracolosamente illeso in una cabina del telefono crivellata di proiettili dove si era rifugiato per chiamare rinforzi (gli smartphone non c’erano, ovviamente). In via Nomentana l’auto della coppia si ferma e Mastini rapina la Lancia Gamma a una ragazza che si trova con il fidanzato, Silvia Leonardi, che viene presa in ostaggio e rilasciata qualche ora più tardi alla Bufalotta. «Tanto non mi prenderanno mai», sussurra alla giovane che qualcuno ipotizzò fosse addirittura rimasta in qualche modo ipnotizzata del suo rapitore. Fatto sempre seccamente smentito dalla diretta interessata. A Fiano poi, dopo una lunga caccia nelle campagne -20 ore che tennero tutta la Capitale con il fiato sospeso, un’emozione terribile lunga un giorno, simile forse a quella provocata da Luciano Liboni, detto il Lupo, a fine luglio 2004 -, fra torrenti e anfratti, la cattura di Mastini e Pochetti, con la donna che morirà nel 1988 dopo essere stata assolta. Una giovane di origini umili, figlia di un pescatore del borgo a una quarantina di chilometri da Roma, con una vita complicata, due fratelli morti (uno ucciso da un altro fratello ancora e l’altro annegato in una battuta di pesca), affascinata però da quel ragazzo così ribelle, spietato e deciso a portarsi via tutto a colpi di pistola. «Tanto non lo prenderete mai», disse a chi l’aveva bloccata, mettendo da parte la timidezza con la quale era stata descritta, forse da chi non la conosceva bene, senza sapere che il suo idolo era già in camera di sicurezza.

Il coinvolgimento nel caso Pasolini. L’anno successivo Johnny lo Zingaro viene condannato all’ergastolo ma assolto dall’omicidio del console italiano in Belgio Paolo Buratti, ucciso a colpi di pistola nel corso di una rapina nel 1987 nella sua villa a Sacrofano. In quell’occasione l’imputato nega, come ha fatto sempre, di essere anche il responsabile della morte del tranviere. Nel frattempo Mastini era stato anche coinvolto nelle indagini sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, del quale si è sempre dichiarato estraneo ai fatti, dopo aver conosciuto a Casal del Marmo Pino Pelosi, condannato per quel delitto e deceduto nel 2017 a Roma. In particolare fra i sospetti su Johnny, quello per un anello perso da Pelosi all’Idroscalo di Ostia, luogo dove fu ucciso il regista e scrittore, che si disse gli fu regalato proprio da Mastini.

Il sindacato della Penitenziaria: ma chi gli ha permesso di uscire? E mentre in Sardegna da oltre due mesi proseguono le ricerche di Graziano Mesina, 78 anni, già primula rossa del banditismo sardo, soprannominato Grazianeddu, sparito dalla sera del 2 luglio scorso non appena avuta la notizia della conferma in Cassazione della condanna a 30 anni per traffico internazionale di droga (forse per andare in Corsica o Tunisia), le evasioni come quella di Mastini sono tra le «conseguenze alle quali si va incontro con lo smantellamento delle politiche di sicurezza dei penitenziari e delle carenze di organico della polizia penitenziaria, che ha 7mila agenti in meno. Quel che accade ogni giorno nelle carceri del Paese ci preoccupa», come spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. «Verrebbe da porsi l’interrogativo: ma i permessi premio vengono concessi previa preventiva adeguata valutazione del soggetto da parte di chi è preposto a tale compito? Viene davvero valutata la pericolosità del soggetto, l’appartenenza, i contatti che lo stesso ha con ambienti malavitosi?», continua Capece. «È necessario operare una decisa inversione di rotta nella concessione dei permessi premio a taluni soggetti detenuti - aggiunge -; occorre una stretta, in termini di rigidità, soprattutto nei confronti di quei soggetti che si sono macchiati di reati di grave pericolosità sociale. A nostro avviso, occorre un urgente tavolo tecnico di tutti gli attori in causa, magistratura, autorità penitenziarie, polizia penitenziaria per mettere in campo, con la competenza e il contributo di tutti, una strategia comune, capace di rispondere in maniera più incisiva alle esigenze di sicurezza delle strutture e anche del territorio, dal momento che taluni detenuti che non rientrano dal permesso, di sicuro rientrano nel loro territorio a delinquere. E questo, per una società civile, non è ammissibile, tollerabile». «Le nostre denunce rimangono senza risposte ed adeguati provvedimenti. Gli agenti di polizia penitenziaria devono andare al lavoro con la garanzia di non essere insultati, offesi o – peggio – aggrediti da una parte di popolazione detenuta che non ha alcun ritegno ad alterare in ogni modo la sicurezza e l’ordine interno. Non dimentichiamo che contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria. E sarebbe davvero il caso di pensare di affidare al corpo di polizia penitenziaria il controllo dei soggetti detenuti ammessi a misure alternative, area penale esterna, permessi premio”, conclude Capace.

L’ultima fuga è durata meno di un mese. Dopo l’ultima evasione dal cuneese - approfittò di un permesso di lavoro per andare alla Scuola di formazione e aggiornamento della polizia penitenziaria di Cairo Montenotte, vicino Savona - Mastini è stato ripreso a Taverne d’Arbia, in provincia di Siena, con la sua ultima compagna, Giovanna Truzzi, anche lei evasa dai domiciliari a Pietrasanta, vicino Lucca. La polizia ha impiegato meno di un mese per trovarli, dopo aver intercettato i parenti di lei, e dopo aver ricostruito le fasi della fuga di Mastini, in taxi fino a Genova. A insospettire gli investigatori l’ordine da parte dei familiari della donna di un materasso che doveva servire per i nuovi ospiti da nascondere in casa. Qualche giorno più tardi Johnny lo Zingaro, ha chiesto la grazia spiegando che quell’evasione di tutti e due era per amore. Adesso una nuova fuga dopo aver passato in carcere una lunga parte della sua esistenza, passando da Casal del Marmo a L’Aquila e poi ancora da Pianosa (Livorno) a Rebibbia, quindi a Volterra. Poi altri penitenziari, compreso quello sardo di Badu ‘e Carros (Nuoro) e quelli di massima sicurezza, proprio come Bancali. Il gruppo Gang gli ha dedicato una canzone che in una strofa dice: «Johnny non si arrenderà, nè finestre nè mura nè celle mai potranno fermare la sua libertà».

Non è rientrato in carcere dopo un permesso premio. Chi è Johnny lo Zingaro, l’ergastolano evaso tre volte: il primo omicidio a 15 anni. Giovanni Pisano su Il Riformista il 7 Settembre 2020. E’ evaso per la terza volta. Era in permesso premio ma alle 12 di sabato 5 settembre non è rientrato in carcere. Giuseppe Mastini, 60 anni, è ricercato da 24 ore dopo l’ennesima fuga dal carcere. Conosciuto come Johnny lo Zingaro (soprannome legato alle sue origini sinti), stava scontando l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, ha delegato l’ispettorato generale del ministero della Giustizia a svolgere accertamenti preliminari sull’evasione di Mastini. L’intento è verificare la correttezza dell’iter seguito dal Tribunale di sorveglianza di Sassari nella concessione del permesso premio nei confronti del detenuto. E’ quanto si apprende da fonti di via Arenula.

UNA DOZZINA I PERMESSI – Stando a quanto appreso dall’agenzia AGI, Johnny lo Zingaro ha beneficiato dal febbraio 2019 ad oggi di una dozzina di permessi premio sempre su decisione del tribunale di sorveglianza sardo. Una media di uno al mese. Mastini non ha lasciato il carcere soltanto nel periodo caratterizzato dal lockdown adottato dal governo per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Proseguono intanto le ricerche che vedono impegnate tutte le forze dell’ordine Alla sua ricerca sono impegnate tutte le forze dell’ordine dopo il mancato rientro da un permesso premio alla casa famiglia “Don Giovanni Muntoni” gestita dai salesiani a San Giorgio, una borgata di Sassari.

LE EVASIONI PRECEDENTI – Già nel 1987, quando sfruttò un permesso premio per buona condotta, e nel 2017, all’epoca lavorava durante la giornata all’esterno del carcere, era riuscito a fuggire venendo poi arrestato nell’arco di poche settimane.

LA STORIA – Lo Zingaro, nato nel 1960 a Ponte San Pietro, comune in provincia di Bergamo, era rinchiuso da luglio del 2017 nel carcere di massima sicurezza di Sassari, dopo la precedente evasione avvenuta il 30 giugno del 2017 dal penitenziario di Fasano (Cuneo).

Mastini ha alle spalle una lunga scia di sangue dalla fine degli anni Settanta. Il suo primo omicidio risale a quando aveva appena 15 anni, il 28 dicembre 1975: era in compagnia di un amico, Mauro Giorgio, quando cercò di rapinare un’autista di un tram. Qualcosa però va storto e i due giovani sparano uccidendo l’autista e occultando il cadavere che verrà ritrovato dopo una settimana. Condannato a 12 anni di carcere, nel 1987 sfrutta un permesso premio per darsi alla macchia. In quell’occasione conosce Zaria Pochetti, 20 anni, e si rende protagonista di una serata di ordinaria follia. Era il 23 marzo del 1987 quando il latitante Mastini e la fidanzata vengono fermati da una pattuglia della polizia a Roma. Nasce un conflitto a fuoco in cui viene ucciso un agente (Michele Giraldi) e ferito gravemente un altro (Mauro Petrangeli). Lo Zingaro riesce a scappare insieme alla Pochetti ma dopo poco viene intercettato da un carabiniere in borghese. Ne scaturisce un nuovo conflitto a fuoco: all’indirizzo del miliare una raffica di proiettili che per fortuna non vanno a segno. Mastini scappa nuovamente ma il carabiniere riesce a lanciare l’allarme attraverso una cabina telefonica. La fuga della coppia non si ferma nemmeno quando l’auto sulla quale viaggiavano vai in panne. Lo Zingaro, dietro la minaccia di una pistola, sottrae la vettura a una coppia. In questa circostanza la ragazza che si trovava in auto, terrorizzata, non riesce a scendere in tempo e viene temporaneamente sequestrata dalla coppia Mastini-Pochetti prima di essere liberata successivamente. Nel giro di alcune ore i due vengono arrestati dalla polizia. Quasi due anni dopo, nel dicembre del 1988, Zaira Pochetti morirà dopo essere caduta in uno stato di catatonia e di anoressia. Dal carcere venne trasferita agli arresti domiciliari ma le sue condizioni di salute degenerarono fino al decesso cui seguirono le proteste della famiglia contro il trattamento subito in carcere dalla giovane donna. “Per un anno intero – raccontò il padre a Repubblica – le sono stati fatti ingurgitare, giornalmente, una decine di prodotti farmaceutici. Tutto quello che mangiava lo vomitava. Non dormiva la notte. Aveva gli incubi. Quando il magistrato si è reso conto che le sue condizioni erano critiche ha concesso gli arresti domiciliari. Ma non è mai stata fatta una perizia psichiatrica”.

IL CONCERTO – Nel 1989 Mastini venne condannato all’ergastolo. Nel corso degli ultimi anni, il 12 marzo 2014, ha usufruito di un permesso premio di alcune ore al fine di partecipare al concerto del gruppo britannico The Prodigy presso l’evento Rock in Roma. La concessione è stata ottenuta grazie all’impegno del detenuto in un programma di reinserimento sociale, percorso studiato dai volontari dell’associazione Nessuno tocchi Caino.

L’OMICIDIO PASOLINI E LE SMENTITA – Johnny lo Zingaro era stato coinvolto anche nell’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini avvenuto nella notte tra il l’1 e il 2 novembre 1975 sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. All’epoca Mastini aveva 15 anni e pochi mesi dopo avrebbe compiuto il suo primo omicidio. In una intervista rilasciata a Repubblica nel 1998, ha dichiarato: “Sono tutte scemenze. E’ vero, conoscevo Pino la Rana (Giuseppe Pelosi, condannato per il delitto dell’ Idroscalo n.d.r.) ma con quella storia non c’ entro… Anche Pelosi lo ha confermato”.

L’avvocato di Johnny lo Zingaro: «Dopo 40 anni in carcere ha vinto la voglia di libertà». Valentina Stella su Il Dubbio l'8 Settembre 2020. Giuseppe Mastini, detto “Johnny lo Zingaro”, l’ergastolano condannato per una serie di rapine, sparatorie e omicidi, non ha fatto ritorno in carcere dopo un permesso premio. Era rinchiuso dal 2017 nel carcere di massima sicurezza di Sassari. Nel momento in cui scriviamo non si conoscono ancora le sorti di Giuseppe Mastini, detto “Johnny lo Zingaro”, l’ergastolano condannato per una serie di rapine, sparatorie e omicidi che non ha fatto ritorno in carcere dopo un permesso premio. Era rinchiuso dal 2017 nel carcere di massima sicurezza di Sassari, dopo la precedente evasione avvenuta dal penitenziario di Fossano ( Cuneo) il 30 giugno 2017. Anche in quella occasione era uscito godendo di un permesso premio e non aveva fatto rientro. Era rimasto latitante per circa un mese, tempo che ha trascorso con in un’alcova con il suo amore di gioventù, Giovanna Truzzi, conosciuta quando avevano solo 11 anni. Lo catturarono le forze dell’ordine coordinate dall’attuale capo della Squadra Mobile di Napoli Alfredo Fabbrocini. Commentando i fatti nella trasmissione “Commissari – Sulle tracce del male” condotta da Giuseppe Rinaldi su Rai 3 Mastini disse: «Quei 25 giorni sono stati i più belli della mia vita, grazie all’affetto della mia famiglia. Sapevo che ci avrebbero trovati e le dicevo: spero che capiranno se sono persone che hanno umanità e sentimenti». Le forze dell’ordine lo stanno cercando ovunque, ma difficile se non impossibile sarà lasciare l’isola. Intanto è partita la macchina mediatica contro la magistratura di sorveglianza e il ministero della Giustizia, dicono fonti di via Arenula, ha delegato l’ispettorato generale per svolgere accertamenti preliminari e verificare la correttezza dell’iter seguito dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari nella concessione del permesso premio. Il suo legale, l’avvocato Enrico Ugolini che lo assiste dal 2014, si dice preoccupato: «Non so cosa possa essere successo, la notizia mi ha lasciato abbastanza sconcertato anche perché mi aveva telefonato circa dieci giorni fa e non aveva dato alcun segnale. Spero che stia bene e che non gli sia successo nulla». Sullo stato d’animo del suo assistito ci dice: «Era sereno, peraltro mi aveva comunicato lui stesso che aveva ricevuto la fissazione a febbraio di una udienza al Tribunale di Sorveglianza di Sassari per valutare l’istanza di semi libertà che aveva presentato. Si rammaricava solo per le tempistiche a suo dire lunghe ma gli ho spiegato che a causa del covid le udienze sarebbero dovute essere riprogrammate». Chiediamo all’avvocato come sono trascorsi questi tre anni dopo l’ultima evasione: «Ha patteggiato al Tribunale di Cuneo una pena ad otto mesi per quanto accaduto con l’accordo della Procura della Repubblica: infatti era emerso da tutti gli atti che non c’era il rischio di recidiva e che la fuga di fatto era stata compiuta perché era rientrato in contatto con la donna con cui aveva avuto una relazione sentimentale da giovanissimo. Non è andato a fare rapine». E dopo? «A un anno dall’evasione non gli era stato concesso alcun beneficio. Aveva ripreso i contatti con gli assistenti sociali, con gli educatori e poi aveva ricominciato a godere di diversi permessi premio. Non essendo un ergastolano ostativo il percorso che si pensava di fare era quello di un cospicuo periodo di semi libertà per poi chiederne la sostituzione con la libertà controllata». Giuseppe Mastini era stato infatti affidato alla Comunità Don Muntoni di don Gaetano Galia, cappellano del Carcere, che ci racconta: «Giuseppe era stato accolto dalla nostra comunità da due anni. Faceva attività di volontariato, agricoltura e giardinaggio. Lo stavamo aiutando a riprendere in mano la sua vita, aveva anche dei progetti futuri qui in Sardegna, voleva aprire una attività gastronomica. Nelle sue ore di libertà coltivava anche la sua relazione affettiva con la compagna che aveva preso una casa in affitto qui sull’isola. Lo abbiamo visto due mattine fa alle 9 perché aveva dormito qui, e poi abbiamo saputo che non ha fatto rientro in carcere a mezzogiorno. Vorrei anche aggiungere una cosa: ora si scateneranno le polemiche contro il magistrato che ha concesso il permesso premio. Scaricare tutta la responsabilità sui magistrati è un discorso populista: quando prendono tali decisioni non lo fanno con superficialità, tengono in considerazione tutte le relazioni delle persone del carcere: criminologi, assistenti sociali, etc. Mi auguro che il ministro Bonafede non trovi in quanto accaduto l’occasione per qualche provvedimento ad hoc». Dello stesso parere anche l’avvocato Ugolini: «Ribadisco quello che avevo già detto tre anni fa. Tra i vari ruoli giudiziari quello più difficile è quello del magistrato di sorveglianza: ci si basa su una osservazione portata avanti da una equipe di persone all’interno del carcere. Sinceramente l’operato della magistratura mi sembrava limpido e lineare. Giuseppe Mastini in carcere è sempre stato un detenuto modello: è un soggetto che partecipa alle attività, che per quanto mi risulta in anni di detenzione non ha mai ricevuto un rapporto disciplinare, né ha assunto un atteggiamento scorretto con detenuti e agenti». E allora come mai questo gesto? «L’opinione pubblica deve considerare il fatto che è un soggetto che sta da 40 anni in carcere e ne sono trascorsi oltre 30 dagli episodi gravi per cui è stato condannato. Bisognerebbe invece interrogarsi sul fatto di rimanere così tanto tempo in carcere. Per questo avevamo intrapreso anche il percorso per chiedere la grazia. Lui forse ha questi momenti in cui l’anelito di libertà senza secondi fini prevale sul rispetto delle regole. Bisogna anche tener presente che siamo di fronte ad una persona di 60 anni che ne ha trascorsi 40 o forse più in carcere. Giuseppe Mastini è un uomo che ha vissuto una vita estremamente difficile sotto vari aspetti, iniziando la galera da minorenne». Infatti l’uomo, figlio di giostrai sinti, già a 14 anni viene accusato del delitto, di cui si è sempre detto innocente, di un tranviere, Vincenzo Bigi, ucciso dopo una rapina: Mastini viene portato nel carcere minorile di Casal del Marmo, da dove però riesce a fuggire, prima di essere nuovamente arrestato. Nel 1987 esce in permesso premio dal carcere, ma non rientra: in quei giorni, secondo le accuse, ‘ il biondino’, altro modo in cui veniva soprannominato, prima entra nella villa dei coniugi Buratti a Sacrofano, uccidendo il marito e ferendo gravemente la moglie, poi ruba un’auto e sequestra una ragazza di 20 anni, Silvia Leonardi. Ancora fughe, inseguimenti, scontri a fuoco. In uno di questi resta ucciso l’agente Michele Girardi. Il 24 marzo del 1987 viene arrestato dopo un’imponente battuta di caccia. Il suo nome riemerge anche nel processo sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, secondo una pista investigativa che però non trovò riscontri.

·         Ingiustizia. Il caso Manduca spiegato bene.

Caso Manduca, la Cassazione accoglie il ricorso degli orfani. Non dovranno restituire il risarcimento. Bocciata la sentenza della corte d'appello di Messina che parlava di "delitto inevitabile". La donna fu uccisa dall'ex marito dopo dodici denunce rimaste inascoltate. Ordinato un nuovo processo. Salvo Palazzolo su La Repubblica l'8 aprile 2020. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso dei figli di Marianna Manduca, la donna uccisa dall'ex marito nell'ottobre 2007 a Palagonia (Catania) dopo dodici denunce rimaste inascoltate. Per la corte d'appello di Messina, non c'era stata alcuna "negligenza" da parte della procura di Caltagirone, perché il "delitto era inevitabile, l'uomo era comunque determinato ad ucciderla". Ora, la Suprema Corte boccia questa tesi e ordina un nuovo processo, che si celebrerà alla corte d'appello di Catanzaro. La sentenza della corte d'appello di Messina aveva anche imposto agli orfani di restituire il risarcimento stabilito in primo grado. Oggi, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha depositato la sentenza. E il caso Manduca si riapre, si torna a discutere della drammatica vicenda di una donna che rimase sola, nonostante le ripetute denunce presentate ai carabinieri. La procura di Caltagirone non si attivò. "Negligenza inescusabile", scrisse il tribunale di Messina. Tesi ribaltata in secondo grado, a sostenerla nelle scorse settimane era stata anche dalla procura generale della Cassazione, che aveva chiesto di confermare la sentenza d'appello di Messina. "È una sentenza storica - dice l'avvocato Alfredo Galasso, che ha seguito gli orfani e il loro tutore con la collega Licia D'Amico - una sentenza che finalmente fa giustizia e dice cos'è un femminicidio. Marianna venne abbandonata dalle istituzioni che dovevano invece proteggerla". "Finalmente i tre orfani di Marianna Manduca hanno una speranza di giustizia", dice Mara Carfagna, vice presidente della Camera e deputata di Forza Italia. "Il risarcimento di 259 mila euro era stato contestato dall'Avvocatura dello Stato in nome di tutti gli italiani. Non credo però che ci siano italiani che si siano sentiti rappresentati da una tale iniquità".

Caso Manduca, accolto il ricorso degli orfani: non dovranno restituire il risarcimento. Il Dubbio l'8 Aprile 2020. La decisione della Cassazione. La donna è stata uccisa dall’ex marito nell’ottobre 2007 dopo 12 denunce rimaste inascoltate. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dei figli di Marianna Manduca, la donna uccisa dall’ex marito nell’ottobre 2007 a Palagonia (Catania) dopo dodici denunce rimaste inascoltate. La Corte d’appello di Messina non aveva ravvisato alcuna “negligenza” da parte della procura di Caltagirone, definendo quel delitto come «inevitabile», in quanto il marito «era comunque determinato ad ucciderla». Una tesi ora respinta dalla Suprema Corte, che ha ordinato un nuovo processo, che verrà celebrato davanti alla corte d’appello di Catanzaro. Solo dopo la tragedia l’omicida era stato finalmente arrestato, per poi essere condannato a 21 anni di carcere. Ma prima, i pm di Caltagirone avevano ignorato ben 12 disperate denunce della donna. I suoi tre figli, tuttora minorenni, hanno fatto causa allo Stato per la responsabilità civile dei magistrati. In primo grado avevano ottenuto circa 300mila euro di risarcimento. La Corte d’appello ha invece dato ragione alla Procura che, secondo la sentenza, avrebbe “giustamente” sottostimato la pericolosità del marito- assassino. I figli di Marianna, Carmelo, Salvatore e Stefano, furono stati accolti da subito dal cugino Carmelo Calì, dalla moglie Paola Giulianelli e dai loro due figli che li hanno adottati e vivono dal 2007 con loro a Senigallia. Ai tre ragazzi era stato riconosciuto un risarcimento di 259mila euro, oltre gli interessi, con il quale la famiglia Calì ha aperto un bed& breakfast che garantisce un reddito. Ma la Corte d’appello di Messina a marzo dello corso anno ha annullato quel risarcimento dando ragione alla Presidenza del Consiglio, che aveva fatto ricorso sostenendo che i magistrati di Caltagirone fecero il possibile considerata l’assenza all’epoca di una legge sullo stalking. Una decisione che la difesa della famiglia di Marianna ha impugnato in Cassazione, che oggi ha dato ragione ai tre orfani.

Per la magistratura il caso Manduca era “inevitabile”, come se i femminicidi fossero destinati. Angela Azzaro de Il Riformista il 9 Aprile 2020. La Cassazione ieri ha riportato un po’ di luce in una vicenda che non fa onore alla magistratura inquirente: ha stabilito che i tre figli, orfani di Marianna Manduca, non debbano restituire i soldi allo Stato. Li avevano avuti dopo una prima sentenza che riconosceva la responsabilità civile di due pm che operavano nella procura di Caltagirone. Nonostante, la donna avesse denunciato per 12 volte il marito violento, non avevano fatto nulla, nelle loro facoltà, per fermarlo. Il 3 ottobre 2007 la donna viene uccisa dal marito e i tre figli vengono adottati da un cugino. Poi la denuncia nei confronti della procura e il risarcimento. Fino all’Appello, quando i giudici di Messina stabiliscono che quel delitto era “inevitabile”. Volevano forse dire che anche se la magistratura fosse intervenuta, il marito avrebbe agito lo stesso e che allora c’erano meno strumenti di legge per bloccarlo? Ma è comunque un’ammissione che pesa come una resa dello Stato rispetto ai propri compiti. Pesa come uno stigma nei confronti delle donne che sono state uccise dai mariti: e come se il giudice dicesse che l’essere uccise dall’uomo che dice di amarti è un destino già scritto. E come se dicesse che non c’è scampo, che devi arrenderti, che la tua vita sarà sempre in balìa di quel “mostro” che ha le chiavi di casa. È un’ammissione che lascia di stucco, basite, anche un bel po’ arrabbiate perché una si immagina che lo Stato, rappresentato, in questo caso, dalla procura, debba far valere i tuoi diritti. Non scriviamo appositamente il nome dei magistrati che in primo grado erano stati ritenuti responsabili: sono ancora tanti i rappresentanti delle istituzioni che considerano la violenza normale. Molte cose, è vero, sono cambiate, ma molti pregiudizi restano intatti. Un nome però lo vogliamo fare, quello di Mario Fresa, il pg della Cassazione, che ha chiesto di levare il risarcimento agli orfani. Nel frattempo Fresa è stato accusato di violenza dalla moglie, una vicenda ancora in corso e per la quale il pg è stato sospeso (se fosse stato un politico, sarebbe stato cacciato a calci…). Anche lui ha avvalorato la tesi del delitto inevitabile. Anche per lui la violenza è normale? Non traiamo nessuna conclusione, restiamo garantiste. Resta l’amaro in bocca per una vicenda che dimostra quanto ancora bisogna battersi perché la lotta alla violenza sulle donne non sia considerata una cosa normale. Ora la parola passa alla Corte d’Appello di Catanzaro. I tre orfani di Marianna Manduca sperano di non dover restituire 259 mila euro. Noi con loro.

Il cugino di Marianna Manduca: «Credo nella giustizia, così come ci credeva lei». Franco Insardà  Il Dubbio il 9 aprile 2020. Parla Carmelo Calì, il cugino di Marianna Manduca, nel giorno in cui la Cassazione ha accolto il ricorso dei figli della donna uccisa dall’ex marito. «Marianna è viva, anche se non c’è più da tredici anni. Oggi ne ho avuto una ulteriore dimostrazione. Alla notizia della decisione della Cassazione sono stato letteralmente inondato di messaggi, telefonate e testimonianze di affetto e di vicinanza, anche da parte di persone che non conosco. Credo nella giustizia, così come ci credeva Marianna e oggi i giudici lo hanno confermato. È sentenza importantissima, non solo per la nostra famiglia ma per tutte quelle persone che hanno denunciato e non hanno avuto giustizia». Sono le prime parole di Carmelo Calì, il cugino di Marianna Manduca, nel giorno in cui la Cassazione ha accolto il ricorso dei figli della donna uccisa dall’ex marito nell’ottobre 2007 a Palagonia ( Catania) dopo dodici denunce rimaste inascoltate. La Corte d’Appello di Messina non aveva ravvisato alcuna “negligenza” da parte della procura di Caltagirone, definendo quel delitto come “inevitabile”, in quanto il marito “era comunque determinato ad ucciderla”. Una tesi ora respinta dalla Suprema Corte, che ha ordinato un nuovo processo, che verrà celebrato davanti alla Corte d’Appello di Catanzaro. «Quando abbiamo avuto la notizia – continua Carmelo, raggiunto a Senigallia mentre era al supermercato per fare la spesa per la sua famiglia – ci siamo guardati negli occhi con i ragazzi e i nostri sguardi si sono incrociati. Non c’è stato bisogno di dire nulla. La nostra felicità è tangibile». Carmelo, Salvatore e Stefano, i tre figli di Marianna, sono stati accolti da subito dal cugino Carmelo Calì, dalla moglie Paola Giulianelli e dai loro due figli che li hanno adottati e vivono dal 2007 con loro a Senigallia. Ai tre ragazzi era stato riconosciuto un risarcimento di 259mila euro, oltre gli interessi, con il quale la famiglia Calì ha aperto un bed& breakfast che garantisce un reddito. La storia di Marianna e dei suoi figli è raccontata da Andrea Porporati nel film “I nostri figli”, con Giorgio Pasotti e Vanessa Incontrada, trasmesso da Rai1. Il 6 dicembre 2018 in prima tv, era stato visto da 5.440.000 spettatori La famiglia Calì è seguita in questa battaglia dagli avvocati Alfredo Galasso e Licia d’Amico: «Anche loro mi hanno chiamato ed era molti soddisfatti della sentenza della Cassazione. Purtroppo non è finita. Ora bisognerà attendere la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro e speriamo di mettere la parola fine a tutto e di continuare a portare avanti il messaggio di mia cugina con l’Associazione “Insieme a Marianna”, impegnata sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne». Su questo tema è da sempre impegnata Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia: «Il risarcimento di 259 mila euro era stato contestato dall’Avvocatura dello Stato in nome di tutti gli italiani. Non credo però che ci siano italiani che si siano». E la senatrice Pd, capogruppo in commissione diritti umani, Valeria Fedeli ha aggiunto: «I ragazzi potranno finalmente sperare di avere giustizia e di sapere che il femminicidio della loro mamma, come di ogni altra donna, non è affatto un destino ineluttabile bensì una violenza che ogni volta colpisce tutto il Paese, inaccettabile sempre e ovunque compresi i tribunali e che sempre, ovunque e da tutti, va contrastata e prevenuta». «Purtroppo in questo periodo è tutto fermi – continua Carmelo – ma la decisione della Cassazione ci dà una buona iniezione di speranza. Speriamo che presto il nostro Paese possa ripartire e “Casa Calì” ( il B& B della famiglia ndr.) possa di nuovo ospitare tante persone. Forse gli stranieri saranno di meno, ma spero che vengano tanti italiani. Noi saremo qui ad accoglierli come sempre».

Marianna Manduca, il pg della Cassazione agli orfani: ridate indietro i soldi. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. La richiesta va respinta. Mario Fresa, procuratore generale della Corte di Cassazione, ieri mattina ha chiesto ai giudici di respingere, appunto, il ricorso dei figli di Marianna Manduca. Loro, invece (due minorenni e un maggiorenne) chiedono di non dover restituire allo Stato i soldi che lo Stato Stesso gli aveva concesso in primo grado come risarcimento per l’omicidio della loro mamma, Marianna Manduca. La decisione della suprema Corte sarà nota più avanti. Quello che è già chiaro, invece, è la linea del procuratore generale, che ha difeso i colleghi magistrati facendo suo il ragionamento della sentenza d’appello. Per capire meglio dobbiamo tornare alla sintesi della storia e al verdetto di primo grado. La sintesi è drammatica: Marianna Manduca, 32 anni, vita e famiglia a Palagonia, in provincia di Catania, il 3 ottobre del 2007 fu uccisa da suo marito, Saverio Nolfo, poi condannato a 21 anni di carcere. Non fu un’esplosione di violenza unica e imprevedibile. Fu l’epilogo di un dramma che Marianna visse giorno dopo giorno per anni. Botte, minacce, umiliazioni anche davanti ai suoi tre bambini. Lei lo denunciò non una ma dodici volte. Dodici. E però non bastarono a scongiurare il peggio. Non era ancora in vigore la legge sullo stalking, è vero. Era più difficile arrivare alla misura del carcere per i reati che ogni volta la povera Marianna denunciava. Ma non furono presi provvedimenti nemmeno quando lui le mostrò un coltello a serramanico con il quale finse di pulirsi le unghie. Niente. Quella scena non fu considerata minaccia a mano armata, reato per il quale (quello sì) anche all’epoca sarebbe stato possibile arrestarlo. Detto questo: finì che lui la uccise davvero e i genitori adottivi dei tre figli di Marianna avviarono una causa contro lo Stato (formalmente la presidenza del Consiglio) che a loro dire non era stato capace di proteggere una donna disperata che chiedeva aiuto. Il tribunale del primo grado stabilì che sì, era proprio così. La magistratura (in quel caso la procura di Caltagirone) non disponendo «alcun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati» e «non adottando nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Nolfo» aveva commesso «grave violazione di legge con negligenza inescusabile». In sostanza la sentenza diceva: i magistrati hanno sbagliato, quindi i figli di questa donna vanno risarciti. E invece no. I giudici di secondo grado hanno ribaltato tutto. Perché, dice in sostanza la loro sentenza, l’uomo era così determinato nel voler uccidere Marianna che l’omicidio non poteva essere evitato. «Dato il radicamento del proposito criminoso e la facile reperibilità di un’arma simile», hanno scritto, non avrebbero avuto effetto né l’interrogatorio di lui, né una perquisizione a casa sua per scovare il coltello: «Ritiene la Corte che l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato». «E le minacce di morte a mano armata dove le mettiamo?» se la prende Licia D’Amico, uno dei due avvocati della famiglia di Carmelo Calì, l’uomo che con sua moglie Paola ha adottato i figli di Marianna. «Vorrei fare la prova», dice la legale. «Andare per strada con un coltello a serramanico e minacciare il primo che passa: sono certa che nel giro di pochi minuti mi arresterebbero. La verità è che quando lui la minacciò con quel coltello la storia cambiò passo e però nessuno fece niente lo stesso». Per convincere i giudici della Cassazione che ora dovranno decidere se i figli di Marianna devono o no restituire i soldi (259 mila euro più interessi), l’avvocatessa D’Amico ha parlato di Paola, la loro nuova madre. «In questi anni — ha detto — Paola è stata la magistratura perché ha insegnato a questi ragazzi il senso della giustizia. Sarebbe bello se avessero la giustizia che si aspettano». I soldi del risarcimento sono stati investiti nell’acquisto di un bed & breakfast, oggi unica fonte di reddito della famiglia Calì. Ogni tanto in quel B&b da’ una mano anche Carmelo, il figlio maggiorenne di Marianna. «So che se in Cassazione va male, dovremo restituire tutto - dice -. E con quei soldi se ne andrebbe la possibilità per me e i miei fratelli di continuare a studiare e di continuare a vivere dignitosamente. Nessuno ha ascoltato mia madre, nessuno ha impedito che venisse assassinata, e adesso anche questo... Mi sembra ingiusto».

“L’ex marito uccise Marianna, ora lo Stato vuol togliere il risarcimento ai suoi tre figli”. Franco Insardà su Il Dubbio il 5 marzo 2020. Parla il cugino di Marianna Manduca, la donna uccisa che ha adottato i tre ragazzi: «Aveva presentato dodici denunce per le minacce e le violenze subite, ma non l’hanno ascoltata». «L’obbligo dello Stato di tutelare l’incolumità dei cittadini è affermata come priorità, per esempio dalla Corte europea dei Diritti umani, tanto più in presenza di una evidente vulnerabilità», scrive Luigi Manconi su Repubblica, commentando, in attesa del pronunciamento della Cassazione, la sentenza della Corte d’Appello di Messina, che un anno fa ha annullato il risarcimento ai figli di Marianna Manduca, uccisa nel 2007 dall’ex marito, dopo che aveva presentato ben dodici denunce per le minacce e le violenze dell’uomo. Carmelo, Salvatore e Stefano, i tre figli di Marianna, sono stati accolti da subito dal cugino Carmelo Calì, dalla moglie Paola Giulianelli e dai loro due figli che li hanno adottati e vivono dal 2007 con loro a Senigallia. Ai tre ragazzi era stato riconosciuto un risarcimento di 259mila euro, oltre gli interessi, con il quale la famiglia Calì ha aperto un bed& breakfast che garantisce un reddito. In questi giorni, però, i cinque ragazzi, Carmelo e Paola stanno vivendo ore di trepidazione in attesa della sentenza della Cassazione che dovrà pronunciarsi sul ricorso contro l’annullamento del risarcimento. «Sono ore difficili, – dice Carmelo Calì – viviamo sospesi tra la possibilità che ci possano togliere tutto e la speranza di mettere, finalmente, fine a questa vicenda per poter vivere tutti insieme una vita tranquilla».

Crede ancora nella giustizia e nello Stato italiano?

«Sì. Così come ci credeva mia cugina Marianna. Era talmente sicura che lo Stato l’avrebbe aiutata che ha avuto la capacità e la dignità di rivolgersi sempre in maniera educata alle istituzioni. La sentenza di primo grado che ha riconosciuto la “negligenza inescusabile” dei magistrati è stata la prima nel nostro Paese. Una sentenza storica. Purtroppo siamo passati dalla “negligenza inescusabile” riconosciuta dai giudici di primo grado al “delitto inevitabile” secondo la Corte d’Appello. E il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di respingere il nostro ricorso. Mi sembra tutto così assurdo. Esistono leggi contro lo stalking, fondi per le vittime e i loro figli e poi lo Stato se ne lava le mani. Una situazione incomprensibile per chi ha vissuto queste tragedie. Come si fa a non capire che questa cosa non è sana per nessuno».

In che senso?

«Se questa è la realtà chi andrà mai a denunciare violenze o minacce subite, quando poi la risposta della giustizia non è conseguenziale alle leggi? Mi rendo conto della difficoltà dei giudici che si trovano a dover decidere su errori di loro colleghi, ma le leggi esistono e vanno rispettate. Nella vicenda di mia cugina Marianna le responsabilità sono chiare».

L’appello lanciato al presidente della Repubblica Mattarella ha sortito effetti?

«Non abbiamo avuto notizie. Avevamo già chiesto un incontro al presidente Mattarella in attesa della decisione di primo grado, probabilmente non lo ha neanche saputo. Questa volta gli abbiamo lanciato l’appello attraverso le pagine di Repubblica, chiedendo il suo intervento anche in qualità di presidente del Csm».

Anche l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dopo la sentenza di primo grado si era espresso.

«Sul sito dell’associazione “Insieme con Marianna” c’è la nota del presidente Gentiloni con la quale invitava l’Avvocatura dello Stato a non appellarsi alla sentenza di primo grado. In pratica a lasciarci in pace. Purtroppo il suo invito è rimasto inascoltato e l’Avvocatura dello Stato ha proposto l’appello».

Il bellissimo film di Andrea Porporati, “I nostri figli”, con Giorgio Pasotti e Vanessa Incontrada, ha fatto conoscere la storia di Marianna e la vostra. Trasmesso da Rai1. il 6 dicembre 2018 in prima tv, era stato visto da 5.440.000 spettatori ( share 24,48%), martedì 25 febbraio è stato riproposto, sempre su Rai1, e visto da 3.223.000 spettatori ( share 12,96). Ormai tutti vi conoscono.

«Direi proprio di sì. Tenga presente che il 25 febbraio è andato in onda in contemporanea con la partita di Champions Napoli- Barcellona. Mi fa piacere che sia passato il messaggio: esistono famiglie capaci di fare questo. Ho ricevuto migliaia di messaggi di solidarietà dopo la messa in onda del film, sia la prima volta che la seconda. Ormai sono tanti che seguono la nostra vicenda e sperano insieme a noi che quest’ultimo incubo finisca presto e nel migliore dei modi».

Ci sono delle leggi che prevedono sostegni economici per l’assistenza sanitaria e psicologica e per lo studio per gli orfani in caso di femminicidio. Avete avuto qualche aiuto pubblico in questi anni?

«In teoria non ne abbiamo diritto, dal momento che ci è stato riconosciuto un risarcimento. Ed è giusto così. La somma che abbiamo ricevuto equivale ai mancati stipendi di mia cugina Marianna dalla sua morte fino alla sentenza di primo grado. Purtroppo con quello che si sta prospettando in questi giorni potremmo essere costretti a far ricorso a quei fondi…»

Senza considerare i costi della vostra battaglia legale.

«Gli avvocati Alfredo Galasso e Licia d’Amico ci hanno contattato all’inizio della vicenda e si sono messi a nostra disposizione chiarendo subito che non volevano soldi, ma a loro interessava portare avanti questa battaglia di civiltà giuridica. Li ringrazio pubblicamente per tutto».

Lei e la sua famiglia siete diventati il simbolo di un’Italia buona, accogliente e solidale. Incontrate studenti e cittadini: che cosa vi danno e cosa riuscite a trasmettere?

«Andiamo soprattutto nelle scuole, accompagnati da professionisti seri, per parlare con gli studenti di violenza soprattutto in famiglia. I ragazzi sono molti attenti e sensibili al tema. Con l’associazione “Insieme a Marianna” siamo presenti a Palagonia, Marano di Napoli, al Liceo Majorana di Roma, a Fondi e in due scuole di Senigallia».

Che legami hai con Palagonia, il suo paese d’origine?

«Adoro Palagonia. Ci ho vissuto da piccolo, ma ho dei ricordi bellissimi. Era il fulcro della Sicilia: tutti passavano di lì per la famosa arancia rossa. Ci sono ritornato nel 2007 per la prima volta e mi è sembrato di fare un tuffo nel passato. Quello che mi ha colpito, però, è che la gente è cambiata, si è incattivita».

E adesso avete anche il B& B, “Famigli Calì”: quindi l’accoglienza l’avete nel sangue?

«Sono stato definito da una delle attrici del film “I nostri figli”, rimasta legata a noi e alla nostra associazione tanto da diventarne testimonial, un “adottatore seriale”. A casa di mia madre, come avviene in tutto il Sud, tutte le persone che arrivavano erano sempre ben accolte e la mia vita è sempre stata caratterizzata da questo insegnamento. Quando accolgo una persona, sia che lo faccia per lavoro sia per amicizia, quello che conta è che stia bene. Con tanti clienti del B& B si è creato un rapporto molto intenso, mi chiamano e mi dicono che vogliono ritornare quest’estate. Speriamo di poterli accogliere ancora…»

Si avvicina l’ 8 marzo cosa si sente di dire ai tanti che, tra ipocrisia e retorica, spenderanno parole per le donne, ma in pratica poi fanno poco?

«La sensibilità e l’attenzione nei confronti delle donne non può ridursi a un giorno. È assurdo che si festeggi la donna l’ 8 marzo e poi? Così come il 25 novembre è la giornata mondiale della violenza contro le donne, ma ogni giorno ci sono violenze e omicidi. Queste giornate per me sono molto tristi, non c’è nulla da festeggiare e le donne in quelle giornate non sono felici. Tutto questo mi sa di ipocrisia».

Sua cugina Marianna non l’ha conosciuta. Ma non hai avuto alcuna esitazione ad accogliere i suoi figli.

«Certo. Mi è scattata una molla dentro, che sarebbe scattata anche se non ci fosse stato alcun legame di sangue. Fa parte del mio essere. I ragazzi ce li siamo sentiti subito nostri figli. È stata una scelta di cuore mia e di mia moglie. Prima di tutto ci siamo preoccupati del futuro dei tre ragazzi».

La comunità di Senigallia vi è stata vicina?

«Non finirò mai di ringraziare la precedente amministrazione e anche l’attuale. Mi hanno sempre detto: “Se hai bisogno chiama, noi ci siamo”. I servizi sociali ci sono sempre stati vicini e ancora oggi ci aiutano».

Si è fatta tanta speculazione sull’affidamento dei minori, poi per fortuna succedono cose come quelle capitate a voi.

«Molto è dipeso dalla nostra volontà di non dare in pasto al circo mediatico i nostri figli. Ancora oggi siamo noi a esporci, loro li tuteliamo in tutti i modi possibili. Quando mi sono presentato ai servizi sociali ho parlato di tutti i miei figli e di tutte le situazioni simili. Non me ne frega nulla di chi vuole speculare su queste vicende, penso che bisogna sempre avere chiaro l’obiettivo primario: l’interesse dei minori».

Il primo figlio di tua cugina ha il tuo stesso nome: ti fa strano?

«Mi viene da sorridere quando qualcuno chiama Carmelo e ci giriamo tutti e due. Ma per me e mia moglie tutti e cinque i nostri figli sono uguali».

I ragazzi che cosa dicono e pensano della loro madre?

«Questo è sempre stato il nostro cruccio. Marianna gli era stata descritta in maniera cattiva e violenta, loro in pratica non la conoscevano. Mia moglie Paola e io abbiamo dovuto ricostruire l’immagine di questa donna che era una brava persona, come hanno confermato tutti quelli che l’hanno conosciuta. In questi giorni mi ha contattato l’assessore Francesca Barbara Ventimiglia di Palagonia, che è anche un’avvocata, per comunicarmi che l’associazione palagonese ogni anno organizza una raccolta fondi e per il 3 maggio vogliono donarli alla associazione “Insieme a Marianna”. Aggiungendomi che hanno pensato di fare qualcosa in ricordo di Marianna, perché mia cugina ha lasciato un segno indelebile e tutti la conoscevano e la apprezzavano. Un ulteriore gesto che restituirà la memoria di Marianna ai ragazzi».

Prima del B& B che lavoro facevate?

«Avevo una impresa edile. Mia moglie faceva la commessa ancora oggi quando può continua a farlo, perché il B& B da solo non basta. Speriamo di poter continuare in questa attività che, come dicevo prima, rappresenta una fonte di reddito, ma anche un simbolo della nostra famiglia, al punto che l’abbiamo chiamato “Casa Calì”».

Marianna uccisa dal marito dopo averlo denunciato 12 volte, ora lo Stato rivuole 250mila euro dai suoi orfani. Redazione de Il Riformista l'11 Febbraio 2020. Marianna Manduca aveva solo 36 anni quando la sera del 3 ottobre del 2007 Saverio Nolfo, l’ex marito, la uccise a bastonate e coltellate in una via di Palagonia (CT). I due avevano insieme tre bambini bambini di 3, 5 e 6. Oggi quei bambini rimasti orfani per la follia omicida del padre attendono una “risposta di giustizia forte” dal tribunale. I tre orfani, in un iter processuale complesso, hanno visto riconoscersi in primo grado un risarcimento di 250mila euro dopo che era stata ravvisata la responsabilità civile dei magistrati: Marianna aveva denunciato per 12 volte quel marito violento ma nessuno l’ascoltò. Saverio dopo averla uccisa si costituì alla polizia portando con se il coltello con cui aveva già più volte minacciato di morte l’ex moglie. La Corte d’appello di Messina lo scorso marzo ha annullato quel risarcimento attribuito agli orfani in Primo Grado dando ragione alla Presidenza del Consiglio che aveva fatto ricorso sostenendo che i magistrati di Caltagirone fecero il possibile considerata l’assenza all’epoca di una legge sullo stalking. Una decisione che la difesa della famiglia di Marianna ha impugnato in Cassazione e oggi nell’udienza davanti alla terza sezione civile il pg ha chiesto il rigetto del ricorso. “Ora attendiamo la decisione dei giudici della Cassazione. Abbiamo raccontato la storia di Marianna, che non è stato solo l’assassinio di una donna ma la storia di una richiesta d’aiuto rimasta inascoltata – ha detto all’Adnkronos l’avvocato Licia D’Amico legale difensore dei figli di Marianna al termine dell’udienza – Agli atti restano le sue denunce, dodici, tutte circostanziate e le ultime scritte tutte in maiuscolo: era il suo grido d’aiuto”. La storia di Marianna, spiega ancora il legale, a cui è stata dedicata un’associazione ‘Insieme a Marianna’ “è stata costellata da decine di reati ‘sentinella’. All’epoca non c’era la legge sullo stalking ma il codice penale sì. E se c’è una sentenza come quella della Corte d’Appello che ha negato il risarcimento ai tre figli di Marianna e che dice che questo femminicidio non poteva essere evitato allora va spiegato che senso ha dire alle donne di denunciare”. Un delitto efferato che “ha lasciato tre orfani in caso di un verdetto negativo potrebbero dover restituire quel risarcimento che gli ha permesso di mettere su un bed and breakfast. Chi ne aveva facoltà – sottolinea l’avvocato D’Amico all’Adnkronos – poteva rendersi conto che la vicenda di questi ragazzi non è una storia come le altre e poteva aiutare questa famiglia con cinque adolescenti. Ma si è scelta la via dei ricorsi. E l’unico aiuto in questi anni è arrivato dalla stampa che ci ha sostenuto dando voce a questa storia. Una vicenda che in ogni caso non potrà chiudersi qui e siamo pronti, se l’esito non sarà favorevole, ad arrivare fino alle corti europee”.

·         Ingiustizia. Il caso Luttazzi spiegato bene.

Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2020. Per quelli che negano le malefatte della giustizia ingiusta, per chi, magistrati con l' incanto della manetta facile e giornalisti che suonano il piffero dell' accusa e non ascoltano mai la difesa, ha la spudoratezza di dire che non ci sono innocenti in galera, proponiamo di ricordare una vittima dell' ingiustizia organizzata, non di un errore giudiziario, ma di un orrore giudiziario. E cioè di Lelio Luttazzi, morto esattamente dieci anni fa, un grande dello spettacolo italiano, un eccellente musicista, un direttore d' orchestra, un regista e scrittore, un uomo garbato e intelligente che nel 1970 fu sbattuto in galera per una vicenda in cui non c' entrava niente da magistrati dall' arresto facile. Di magistrati che hanno distrutto non solo la carriera, ma anche la vita di Lelio Luttazzi, mentre loro non hanno pagato per il loro clamoroso errore, ma anzi la loro carriera è andata speditamente avanti, non osiamo immaginare con quante sofferenze patite da altri innocenti in galera di cui, privi della notorietà di Luttazzi, non sappiamo assolutamente nulla, come del protagonista Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy. «Stavo in galera, chiuso in una celletta d' isolamento piccolissima. Bugliolo. Secchio. Come le bestie», scriverà Luttazzi in un libro struggente come Operazione Montecristo (editore Mursia). 33 giorni di angoscia, di paura, di umiliazioni che non saranno mai risarciti, di cui nessuno, nella magistratura, pagherà le conseguenze. Ma Luttazzi, che era un signore, scrisse ancora nel suo libro: «Per tanto tempo mi sono portato dentro una rabbia senza fine contro il Pubblico Ministero che mi aveva interrogato, e non mi aveva creduto«, però «il rancore si è stemperato negli anni» anche se «per l' ingiustizia ho ancora parecchio fastidio». «Fastidio» per un' ingiustizia colossale, devastante, destinata a segnare gli anni a venire. Sarebbe una buona cosa, ma non avverrà, se, a dieci anni dalla sua morte, ci si ricordasse pubblicamente e solennemente di Lelio Luttazzi, delle nefandezze compiute ai suoi danni da una giustizia iniqua e spietata. Chiedere scusa, certo, sarebbe troppo per chi pensa che il rispetto per la magistratura non sia qualcosa da conquistare giorno per giorno ma un obbligo indiscutibile. Il rispetto per Lelio Luttazzi, piuttosto: quello è ciò che dovrebbero imparare.

·         Ingiustizia. Il caso Gulotta spiegato bene.

La battaglia di Giuseppe Gulotta, torturato da uomini in divisa e 22 anni in carcere da innocente. Giorgio Mannino de Il Riformista il 14 Febbraio 2020. Il caso della strage di Alcamo Marina, nella quale il 27 gennaio 1976 furono uccisi i due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, è approdato martedì scorso per la prima volta, a distanza di quarantaquattro anni, sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra.  Un fatto storico che riaccende i riflettori su una pagina ancora buia della storia italiana, gravida di buchi neri e soprattutto rimasta senza colpevoli. A Palazzo San Macuto è stato ascoltato – insieme al giornalista Nicola Biondo che ha raccontato in un libro la sua storia – Giuseppe Gulotta, considerato dai giudici di due corti, uno degli autori della strage. Ma i processi che lo hanno condannato insieme a Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, erano viziati – come ha stabilito trentotto anni dopo una sentenza di Cassazione – da prove false e abusi di ogni genere. Una frode processuale che ha consegnato all’opinione pubblica una verità preconfezionata, scritta a tavolino, in un truce inganno di sangue, ancora tutto da chiarire, capace di stritolare la vita di quattro ragazzi alcamesi finiti all’ergastolo poco più che maggiorenni. Mandalà morì di morte naturale nel 1998, Santangelo e Ferrantelli si rifugiarono in Brasile. A pagare il prezzo più alto è stato Gulotta, 61 anni. Ne ha trascorsi più della metà nelle aule dei palazzi di giustizia e ben ventidue dietro le sbarre, da innocente. «Mi venne offerto, all’epoca, di fuggire con un nuovo passaporto ma decisi di restare per non dare la sensazione di essere colpevole». La sua confessione è stata estorta in caserma «dopo una notte – prosegue Gulotta in Antimafia – di sevizie e torture». Le stesse che subì il suo accusatore, Giuseppe Vesco, un ragazzo considerato vicino agli anarchici, arrestato un mese dopo l’eccidio, dai carabinieri guidati dal colonnello Giuseppe Russo, che poi sarà ucciso dai corleonesi il 10 agosto 1977. «Russo la notte delle torture che ho subito era lì, in divisa», racconta Gulotta. «In molti contestano questa cosa perché si dice che il colonnello non portasse quasi mai l’uniforme, ma io riconosco Russo molti anni dopo su una foto apparsami su internet. Dopo quella notte non lo vidi mai più». Le manette a Vesco costituiscono il primo atto del depistaggio. Otto mesi dopo l’arresto, Vesco cerca di scagionare i nomi urlati sotto tortura ma verrà trovato impiccato nella cella di detenzione nonostante avesse una mano sola, l’altra l’aveva persa anni prima in un incidente. Morti Vesco e Russo, Gulotta sembra arrendersi all’ingiusta condanna, ma nel 2009 – tre anni dopo la cattura dell’ultimo boss corleonese Bernardo Provenzano – Renato Olino, un ufficiale dei carabinieri testimone di quelle torture, rompe il silenzio e racconta la verità. Per Gulotta è la fine di un incubo. «Ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni, ho continuato ad averla nonostante tutto. Purtroppo oggi non c’è ancora verità per i familiari dei due carabinieri uccisi. Ho ottenuto la mia giustizia ma siamo di fronte a una verità a metà. Sarei felice se questo caso si potesse riaprire», ha detto Gulotta rivolgendosi ai membri dell’organo parlamentare. Seduto al suo fianco, il giornalista Nicola Biondo ha fornito alcuni spunti per provare a dare una risposta a quelle domande che restano ancora aperte: «Dovete chiedervi perché e chi ripete il metodo Alkamar (così veniva chiamata la piccola caserma, ndr) e fino a dove arriva. Ci sono tre casi in Sicilia in cui investigatori eccellenti, come lo erano Giuseppe Russo o Arnaldo La Barbera, usano la tortura, da cui nasce solo la menzogna per coprire la verità. Bisogna ripartire dalla scena del delitto. La procura di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo per strage, fatevi ritrovare dalla procura le foto dell’assalto alla casermetta, gli atti che sono coperti da segreto. I testimoni ci sono ancora». Input che, come confermato dal presidente Morra, saranno raccolti «per aprire uno squarcio su una vicenda oscura in terra di mafia che non possiamo ignorare». Intanto per Gulotta la battaglia contro lo Stato che lo ha lasciato solo non è finita: dopo l’ottenuto risarcimento di sei milioni e mezzo di euro ha chiesto 66 milioni di danni all’Arma dei carabinieri e ai ministeri della Difesa e dell’Interno. L’Avvocatura dello Stato però si è opposta, parlando di “lite temeraria” e precisando che “non ci sono prove degli abusi”.

 “Io, innocente in galera, ho perso lavoro, famiglia e libertà…”. Valentina Stella il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Le terribili storie di chi ha passato anni in prigione salvo poi essere assolto per non aver commesso il fatto. La storia di Giuseppe Gulotta racconta al momento il più grande errore giudiziario del nostro Paese. In conferenza ha rivissuto la tragica esperienza di 22 anni in carcere da innocente: “ho perso tutto, il lavoro, la libertà ma non ho perso la mia famiglia che mi è stata sempre accanto. Se ripenso alla mia vicenda credo sia aberrante quanto ho sentito da Davigo tempo fa. Mi chiedono se lo Stato si è scusato ufficialmente: non lo ha fatto, qualcuno in privato sì. Quello che mi auguro è che si possa riaprire il caso per i due carabinieri uccisi, perché quelle famiglie attendono ancora giustizia”. Ma insieme a lui, come raccontato durante la conferenza del Partito Radicale per istituire la Giornata nazionale degli Errori giudiziari, ci sono 27000 persone finite in carcere da innocenti dal 1992 al dicembre 2018. Tra questi Angelo Massaro, arrestato il 15 maggio del 1996 con l’accusa di omicidio, ha passato 21 anni in carcere. Condannato a 24 anni in primo grado, confermati in appello e Cassazione. Gli investigatori che lo hanno intercettato hanno interpretato male una parola in dialetto e hanno pensato che trasportasse un cadavere. (“tengo stu muert”, che in pugliese vuol dire morto, al posto di “muers”, che invece significa oggetto ingombrante.)  Quando è entrato in carcere aveva 29 anni, si era appena sposato e aveva un bambino appena nato. Anche Massaro se la prende con Davigo: “egli  tradisce la Costituzione quando dice che non ci sono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti. Allora anche lui è un colpevole ancora non scoperto?. Non voglio la vostra pietà ma desidero che vi indignate per quello che succede in Italia. L’Italia è stata la culla del diritto, ora è la tomba della giustizia”. Diego Olivieri imprenditore nel settore dei pellami, accusato di far parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio di denaro per 600 milioni di dollari e insider trading. Dopo il carcere a Vicenza, viene trasferito a Roma e rinchiuso a Rebibbia dove passa 12 mesi in cella in 41 bis con gli ergastolani. Tutto comincia il 22 ottobre del 2007. Ha subito tre processi, sempre assolto. Durante il dibattito ha puntato il dito contro tutti i giornali che lo hanno sbattuto in prima pagina e ha aggiunto: “con Gulotta e Massaro siamo stati ricevuti l’anno scorso dal Ministro Bonafede, ci ha accolto con garbo e ha ascoltato le nostre storie. Non si è mai espresso, cercava lo sguardo di un magistrato presente all’incontro, ci ha solo ascoltati con la promessa che avrebbe fatto qualcosa. Sono rimasto però deluso da quanto ho sentito ultimamente”. Antonio Lattanzi l’ex-assessore ai lavori pubblici di Martinsicuro (Teramo) arrestato per tentata concussione e abuso d’ufficio quattro volte nel giro di due mesi nel 2001, passa 83 giorni in carcere da innocente. Nel 2006 il Tribunale di Teramo lo assolve: una sentenza confermata successivamente in tutti i gradi di giudizio al termine di un iter giudiziario durato in tutto dieci anni. Bruno Lago è stato agli arresti domiciliari 11 giorni da innocente e è stato totalmente prosciolto. Sulla base della legge Vassalli appena riformata, ha deciso di citazione della Presidenza del Consiglio. Daniela Candeloro, commercialista, ex collaboratrice di Danilo Coppola, immobiliarista in ascesa, nel 2007 finisce in carcere con le accuse di bancarotta fraudolenta, riciclaggio, associazione a delinquere, appropriazione indebita. Trascorre sette mesi in cella e altri quattro mesi agli arresti domiciliari. Dopo 6 anni e 2 mesi è assolta da ogni accusa.

Giuseppe Gulotta chiede 66 milioni di risarcimento per 22 anni in carcere da innocente. Valentina Stella il 29 gennaio 2020 su Il Dubbio. Giuseppe Gulotta ha ottenuto 6,5 milioni di euro per danno derivante da ingiusta detenzione. Nella nuova richiesta vengono invece conteggiati i danni esclusi dal precedente risarcimento. Giuseppe Gulotta, che ha trascorso da innocente 22 anni in carcere, ha chiesto un risarcimento di 66 milioni di euro. Aveva 18 anni quando nel 1976 è stato accusato di aver ucciso due carabinieri che dormivano nella caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Fu arrestato e costretto sotto tortura a confessare il reato. Al processo di primo grado è stato assolto per insufficienza di prove, ma dopo vari gradi di giudizio è stato definitivamente condannato all’ergastolo nel 1990. Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione dell’ex brigadiere Olino: l’assoluzione arriva nel 2012, dopo 36 anni dall’inizio di tutto. Nel 2016 Gulotta ha ottenuto un primo risarcimento di 6,5 milioni di euro per danno derivante da ingiusta detenzione. Nella nuova richiesta, pari precisamente a 66.247.839,20 euro calcolati in base alle Tabelle del danno del Tribunale di Milano, vengono invece conteggiati tutti i danni esclusi dal precedente risarcimento e che sono imputabili ai carabinieri che, come ci spiega l’avvocato Baldassare Lauria, «hanno commesso fatti illeciti producendo prove false, sulle quali si è basato il giudice che è caduto in errore. Mi riferisco alle torture subite, ai maltrattamenti, al verbale di arresto falso. Per questo abbiamo presentato una azione di responsabilità civile verso i carabinieri ancora in vita e soprattutto verso l’Arma dei Carabinieri in quanto ente di appartenenza». L’esposto è stato presentato a Firenze dove risiede Gulotta. Il Tribunale di Firenze ha già respinto l’eccezione di incompetenza che le parti convenute avevano sollevato. Oltre ai carabinieri «un secondo pilastro dell’azione di responsabilità civile – continua Lauria – riguarda la presidenza del Consiglio a causa dell’omessa protezione del cittadino per la mancata codificazione nel corso degli anni del reato di tortura». Le prossime tappe le illustra l’altro legale di Gulotta, Pardo Cellini: «Ora dobbiamo riprodurre in sede civile tutta l’attività istruttoria svoltasi in sede penale: prove documentali e testimonianze. I tempi saranno lunghi. La difficoltà è quella di dare un valore al danno biologico da trauma psicologico subito da Gulotta. Il nostro passo successivo sarà quello di invitare il sistema giudiziario a valutare il danno da errore giudiziario come qualificazione di un danno complessivo sotto tutti i profili: esistenziale, morale, biologico, patrimoniale». Sul tema oggi nella sede del Partito Radicale a Roma si terrà alle 12 un dibattito per presentare la proposta di legge per indire la giornata nazionale delle vittime degli errori giudiziari per il 17 giugno, anniversario dell’arresto di Enzo Tortora. Sarà presente anche Giuseppe Gulotta insieme ad altre vittime di ingiuste detenzione.

·         Ingiustizia. Il caso Ligresti spiegato bene.

Giulia Ligresti, il carcere, l’assoluzione e ora una mostra dedicata all’amore. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Pollo. Solo un paio di anni fa erano quattro sedie, oggi è una mostra personale, ricca e articolata, in una delle gallerie d’arte contemporanea tra le più influenti a Milano. Giulia Ligresti e la sua «Love» è oggi una bella storia da raccontare (e vedere) negli spazi del gallerista e collezionista Glauco Cavaciuti in via Vicenzo Monti. Alle seggiole si sono aggiunte panche, consolle, tavolini, troni e oggetti: in ferro e bronzo e ottone e alluminio. Dettagli in velluto. Tutto fatto a mano, in Italia. Pezzi unici: come l’amore. Mai uguale. «Love: è il fil rouge che ha sempre percorso la mia vita. Un mantra di qualsiasi situazione che ho vissuto», racconta l’imprenditrice-artista. «Era un sogno nel cassetto al quale ho dedicato anima e corpo. Volevo qualcosa che durasse nel tempo, che entrasse nella vita delle persone per restarci. Come una semplice sedia che può anche seguirti tutta la vita, casa dopo casa, città dopo città, emozionandoti come nell’attimo esatto in cui l’hai scelta per far parte di te. Un ricordo, un momento, un pezzo di puzzle che lì deve stare e in nessun altro luogo». Messaggio, chiaro, senza bisogno di interpretazione. Love, in tanti ci hanno creduto, prima di lei: «Scontato forse, ma spesso, oggi, dimenticato. Mi sono guardata attorno, a casa mia, e ho capito che tutto quello che mi circondava raccontava qualcosa di me, della mia famiglia, dei nostri sentimenti. Amore, appunto, tanto. Perché non scriverlo, allora? E ho cominciato. All’inizio timidamente per me, poi le prime esposizioni durante la settimana del designer». Sentimenti positivi, dopo tante vicissitudini: dal carcere sino all’assoluzione definitiva dalle accuse legate al caso Fonsai, l’azienda che era stata del padre, l’ingegnere Salvatore Ligresti: «Non sono mai stata una persona vendicativa. La rabbia non mi è mai appartenuta e con questo mio modo di essere sono riuscita superare delle sfide importanti». Importanti, dice. Non terribili o impossibili o difficili o ingiuste. Non c’è traccia in questa donna di voglia di rivalsa. Il frutto di un lavoro sul vissuto, di un controllo sulle reazione? «Credo si nasca così. Non ho dovuto fare alcun lavoro. Sono cresciuta sempre in un contesto di affetto, immenso. Ho cercato di dare amore alle persone che mi sono vicine, ai miei figli, ai miei amici». Il futuro? «Andare all’estero con la mostra». Progetti per rendere i pezzi più commerciali (una sedia mediamente costa sui 2.700 euro, la consolle 7 mila, i tavolini 950 euro)? «Ci ho riflettuto e ho deciso che no, sono oggetti preziosi, unici, come lo è l’amore. Non c’è ragione di industrializzarli». Significa che c’è una Giulia Ligresti che dipinge e piega i metalli? «Assolutamente sì. M’imbratto e mi taglio le mani pur di ottenere quello che ho nella mente e nel cuore». E quel «fuck» in alcuni pezzi? «Lo chiamano odio, a me piace pensarlo come momento costruttivo di un amore vero. Fatto di tensioni. E di riavvicinamenti». Da aprile (quando fu assolta) ad oggi Giulia ha promesso e fatto: andare avanti senza voltarsi indietro. Questa collezione e poi i suoi bambini, in India e in Siria con l’onlus» sport e resilienza». E il sostegno alle donne in carcere? «Fra poco saremo pronte per raccontare il progetto al quale stiamo lavorando con una giovane fotografa». Nessuna scommessa, però. O rivalsa, appunto. Ma una dedica, questo si. «A mio papà che sarebbe stato orgoglioso di me e del fatto che fossi qui a Milano, la città per la quale ha fatto tanto e che ora, ovunque parla di lui, dei suoi sogni. Vedo in ogni progetto che stanno cambiando questa città la sua visione. Ed è bellissimo». E La firma? «G.L». Giulia Ligresti. Grande Love.

Lucia Esposito per “Libero quotidiano” il 30 gennaio 2020. Giulia Ligresti arriva avvolta in un lungo cappotto bianco, gli occhi azzurrissimi ingiustamente coperti dagli occhiali da sole. L'appuntamento è per l'ora di pranzo alla Galleria Glauco Cavaciuti in via Vincenzo Monti a Milano, dove in serata l' imprenditrice presenta la sua prima mostra personale intitolata "Love", una collezione di oggetti di design interamente realizzata a mano. Giulia Ligresti ha voluto celebrare l' amore, un approdo sicuro e mai certo, esposto ai venti della passione, ai turbamenti dell' anima e allo scorrere del tempo. Eppure una necessità, un grido dirompente. «È il più alto dei sentimenti ma è anche il più imperfetto. Talvolta scivola via sinuoso e liscio, altre volte è complicato, difficile, come una strada in salita. Allo stesso modo le sedie, le consolle, i divanetti, i tavoli e le sculture realizzati in ferro, alluminio, ottone e bronzo rappresentano la solidità ma anche l' imprevedibilità. Il velluto, per esempio, è un tessuto morbidissimo ma, se toccato in senso contrario, è anche ruvido». Il risultato è una collezione di pezzi unici, vere e proprie opere d' arte che da oggi sarà possibile ammirare presso la Galleria Cavaciuti.

Lo stupore. Giulia passeggia tra i suoi oggetti ed è quasi stupita, come se ammirasse le sue creazioni per la prima volta. È orgogliosa come una mamma davanti ai propri figli. «Sono davvero contenta. È bella, vero?», dice accarezzando la consolle dorata dove campeggia la scritta "Love". «Di questa collezione mi ha folgorato la capacità della Ligresti di trasformare oggetti d' uso comune, come un tavolino o una sedia, in opere d' arte. Queste creazioni trasmettono gioia e guardandole è scattata in me, come spesso accade davanti al bello, la voglia di possesso», spiega il gallerista Glauco Cavaciuti. Ci aspettavamo di trovare una donna incazzata col mondo. Con i giudici che ti sbattono in galera anche se sei innocente. Con i giornali che, invece, ti sbattono in prima pagina. Credevamo di trovare una donna distrutta per aver perso l' azienda di famiglia, schiacciata da un guaio giudiziario lungo sei anni e da due accuse pesantissime e infondate: falso in bilancio e aggiotaggio. Invece no. Giulia Ligresti, durante l' incontro, ripete più volte che non vuol passare da vittima, né intende discutere di malagiustizia. Anzi, di quella vicenda che coinvolse tutta la sua famiglia e che si è conclusa con la piena assoluzione, preferirebbe non parlare affatto. Tuttavia, per capire le sue opere e la potenza di quel "Love" che rimbalza dalla sua collezione, non si può prescindere da ciò che è successo un giorno d' estate del 2013 quando è stata presa e portata in una cella d' isolamento nel carcere di Vercelli. «La prigione è stata per me una prova durissima, però ne sono uscita più forte di prima. Sono felice anche se non riesco a non pensare a tutti quelli che si trovano in una situazione simile a quella che ho vissuto io», si lascia sfuggire. Non sappiamo come sia possibile tutto ciò, ma la Ligresti, figlia di Salvatore, re del mattone, fondatore della galassia Fonsai, scomparso nel maggio del 2018, non nutre odio né ha sete di vendetta. «La vera vendetta è la mia felicità. L' amore è il fil rouge della mia vita. Sono stata molto amata. Da mio padre, prima di tutti». Fa una pausa brevissima e poi continua: «E poi dagli uomini, dai miei figli, dagli amici. Sono stata inondata da questo bene e a mia volta ho amato molto. Intensamente», confessa e poi le si accende il ricordo di una frase che ha letto la prima sera che è arrivata in carcere a Vercelli. Era firmata da una detenuta di nome Lucia. Giulia la recita come una poesia: «Ringrazio tutti coloro che mi odiano perché grazie a loro ho imparato ad amare di più. Queste parole mi hanno dato la forza. A San Vittore ripetevo tante volte al giorno "unbroken", che vuol dire "non farti spezzare"». Si è laureata a pieni voti in Economia aziendale alla Bocconi, ha frequentato corsi di Business Administration al Queen Mary College di Londra, ha ricoperto ruoli dirigenziali che hanno sempre fatto prevalere il suo lato logico e pragmatico. «Con questa mostra ho voluto dare voce alla mia creatività che, a dire il vero, non ho mai silenziato».

Lo sport. La secondogenita di Ligresti non è mai bastata a se stessa. Giulia ha tre figli ormai grandi, ma si occupa anche tutti i bambini della Vanaprastha Children' s Home a sud di Bangalore che aiuta a distanza, in più ha un progetto per i piccoli siriani: raccogliere fondi per comprare attrezzature sportive. «Lo sport salva. L' ho provato in carcere, ogni giorno correvo per chilometri lungo il quadrato del cortile di San Vittore, era un modo per scaricarmi e allo stesso tempo per trovare nuove energie. Vorrei dare una mano a tutte le donne vittime di ingiustizia nel mondo. Ho in mente qualcosa, ma ne parlerò a suo tempo. Sono riuscita a difendermi, ma non tutte hanno la possibilità di farlo. Voglio fare qualcosa di concreto per queste persone, perché purtroppo so cosa si prova». Giulia Ligresti spinge avanti il tempo e parla al futuro, ha davvero chiuso i conti col passato. Ha vinto lei. E lo si capisce pure dalle sue opere, quando in mezzo a tanti "Love", appare una poltroncina con la scritta "Fuck" in nero. Vaffanculo. È un urlo silenzioso. A chi è rivolto? Giulia scoppia in una grandissima risata.

·         Ingiustizia. Il caso Carminati spiegato bene.

Accolta l'istanza dei suoi legali. Massimo Carminati torna libero, scarcerato dopo quasi sei anni di reclusione: Bonafade invia gli ispettori. Redazione su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Massimo Carminati tornerà libero. Uno dei principali protagonisti dell’inchiesta Mafia Capitale lascerà il carcere di Oristano dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione per scadenza dei termini di custodia cautelare. Gli avvocati del “cecato”, come era chiamato Carminati, ex membro dei Nar che perse un occhio durante uno scontro a fuoco con la polizia, avevano già presentato tre istanze di scarcerazione, tutte rigettate. L’ultima, col meccanismo della contestazione a catena, è stata quindi accolta dai giudici del Tribunale della Libertà. Parlando all’Adnkronos l’avvocato Cesare Placanica, che insieme all’avvocato Francesco Tagliaferri difende Carminati, ha spiegato di essere “soddisfatto che la questione tecnica che avevamo posto alla Corte d’Appello e che tutela un principio di civiltà sia stata correttamente valutata dal Tribunale della libertà”.

IL PROCESSO A CARMINATI – Carminati era considerato dai pm romani il capo e organizzatore dell’associazione mafiosa al centro dell’inchiesta ‘Mondo di mezzo’, per questo chiesero la condanna a 28 anni di carcere. Nel luglio 2017 Carminati viene condannato a 20 anni di reclusione dal tribunale ordinario di Roma per associazione a delinquere, mentre nel settembre dell’anno successivo l’ex membro dei NAR vede la terza sezione della Corte d’Appello di Roma ripristinare il disposto dell’articolo 416bis riconoscendo la sussistenza del “metodo mafioso”. La Corte d’Appello di Roma condanna quindi Carminati e il suo braccio destro Salvatore Buzzi rispettivamente a 14 anni e 6 mesi e 18 anni e 4 mesi di reclusione. Nell’ottobre 2019 quindi la Cassazione non riconosce il “metodo mafioso” annullando il 416bis senza ulteriori rinvii e disponendo la celebrazione di nuovo processo in Corte di Appello per la rimodulazione delle pene in base alla nuova sentenza.

BONAFEDE INVIA GLI ISPETTORI – Secondo quanto si apprende da fonti di via Arenula, il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha delegato l’ispettorato generale del Ministero della Giustizia a svolgere i necessari accertamenti preliminari in merito alla scarcerazione di Massimo Carminati.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 17 giugno 2020. Cinque anni e mezzo fa, a fine 2014, l’avevamo visto entrare in galera dopo una cattura da film d’azione: macchina bloccata, fucili puntati e lui, Massimo Carminati, che tranquillizzava i carabinieri offrendo i polsi alle manette. Martedì 16 giugno l’abbiamo visto uscirne con una borsa a tracolla e la stessa aria dimessa (ma con un stato d’animo diverso, immaginiamo), salire su un taxi e dirigersi verso l’aeroporto. Da solo, come un qualsiasi passeggero. È racchiusa in questa doppia e contrapposta immagine la sintesi di una vicenda che continua a creare clamore e sconcerto, oggi come allora. All’enfasi dell’arresto dovuta ad accuse pesanti e inedite — associazione mafiosa per l’ex terrorista nero Massimo Carminati — fa da contraltare quella di oggi, con annesse polemiche. Ma la scarcerazione del principale protagonista e imputato del cosiddetto «Mondo di mezzo» non è altro che la conseguenza della sentenza pronunciata dalla Cassazione nell’ottobre scorso. Quel verdetto ha cancellato «Mafia capitale», riducendo la più rumorosa vicenda giudiziaria romana degli ultimi anni a un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Di grandi dimensioni, con funzionari asserviti e una «collusione generalizzata, diffusa e sistemica», ma pur sempre corruzione. Che secondo le norme in vigore prima della riforma cosiddetta «Spazzacorrotti» (e quindi al tempo dei reati commessi da Carminati e da tutti gli altri condannati) prevedeva una pena massima di otto anni; che comporta, in assenza di sentenza definitiva, un tetto per la carcerazione preventiva di cinque anni e quattro mesi.»

Quattro anni di 41 bis. Anche per Carminati, «l’uomo nero» indicato come uno dei più pericolosi e ambigui criminali, che in custodia cautelare ha scontato 5 anni e sette mesi. «E quasi quattro anni di 41 bis ingiustificato!», ha ricordato al suo difensore. Perciò è tornato un uomo libero in attesa che il giudizio finale determini la pena da scontare: «Mi hanno riconosciuto questo diritto, hanno applicato la legge». È una storia complessa ma semplice, seppure controversa; che fa scalpore per il nome del condannato messo fuori, ma dove non c’entrano né il ministro della Giustizia Bonafede (immediatamente chiamato in causa dall’opposizione politica) né probabilmente gli ispettori di cui lo stesso Guardasigilli ha subito annunciato l’invio, per controllare lo svolgimento dei fatti. Nemmeno un più celere deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha escluso il reato di mafia (arrivate con cinque mesi di ritardo) avrebbe cambiato l’esito della storia. E fino a quel punto i tempi sono stati rispettati alla lettera: tre gradi di giudizio in meno di cinque anni per un processo con decine di imputati sono quasi un record.

Reati e misteri. La scena della scarcerazione di Carminati stride con quella del 2014 perché nell’immaginario collettivo quel criminale passato dall’estremismo nero dagli anni Settanta alla criminalità comune degli Ottanta, muovendosi tra grande malavita, colpi clamorosi (come il furto al caveau nei sotterranei del palazzo di giustizia di Roma) e alcuni dei più grandi misteri italiani (dall’omicidio Pecorelli al depistaggio sulla strage di Bologna) e uscendone quasi sempre giudiziariamente indenne, è qualcosa di più di ciò che dice la fedina penale. È diventato ed è rimasto, per tutti o quasi, un depositario di segreti, l’uomo dai rapporti con i boss di tutte le mafie e i servizi segreti, sebbene proprio l’ultima sentenza della Cassazione abbia escluso o minimizzato queste relazioni. Facendo cadere anche per questo il reato di mafia: «Un’associazione per delinquere che tra i suoi partecipi o capi annoveri un soggetto di riconosciuta fama criminale non diventa, per ciò solo, un’associazione di tipo mafioso». La fama di malvivente Carminati non l’ha mai respinta, i legami con gli apparti dello Stato sì: «Per uno come me è un’offesa», disse nella deposizione al processo, quando rivendicò il suo passato nero: «Sono un vecchio fascista degli anni Settanta, e sono contento di essere così. Non sono una mammoletta, ma non c’entro niente con Romanzo criminale, il Samurai e tutte quelle puttanate...». Lo raccontava pure nelle intercettazioni alla base del processo; le stesse in cui insieme a Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative rosse con il quale s’era messo in affari e che gestiva i suoi soldi, pianificava corruzioni e strategie per vincere o truccare le gare d’appalto.

Le altre mafie. Anche se presumibilmente un giorno dovrà tornare dietro le sbarre per finire di scontare la pena, Carminati ha vinto la sua battaglia perché l’ultima sentenza ricalca l’immagine che lui ha voluto dare di sé. Declassando (o ignorando) i rapporti documentati con altri criminali di grosso calibro, dal boss Michele Senese a esponenti del clan Casamonica, o le intimidazioni e minacce emerse nel processo. Tuttavia se il malvivente multiforme torna libero, non significa che a Roma e dintorni non ci siano le mafie. Carminati è stato scarcerato nel giorno di altri venti arresti per l’associazione mafiosa contestata ai Casamonica; pochi giorni dopo una sentenza che a Viterbo ha riconosciuto la stessa accusa a una banda calabro-albanese (contestata sempre dalla Procura di Roma); a qualche settimana dalla conferma in Cassazione della mafiosità del clan Pagnozzi, «i napoletani della Tuscolana». Realtà criminali che resistono anche senza «Mafia capitale».

Scarcerazione Carminati ineccepibile, è Bonafede a non aver capito. Giorgio Spangher su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Quella che passerà nell’opinione pubblica sarà l’idea che un criminale è libero. Non è così. Sono scaduti i termini massimi della custodia cautelare per i due reati per i quali Carminati era in carcere, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 304 comma 6 del codice penale, nel rispetto del dettato costituzionale – e più precisamente dell’articolo 13 – e nel rispetto della giurisprudenza in materia di contestazioni a catena. In altri termini Carminati resta imputato in attesa che il giudice di rinvio definisca la pena che dovrà scontare dopo che la Cassazione – che non poteva definirla perché non è un giudice di merito – aveva escluso l’aggravante mafiosa ma ne aveva riconosciuto la colpevolezza. Carminati non poteva restare in carcere in attesa di questa decisione perché il tempo massimo previsto per la custodia cautelare era scaduto. Quando il processo di rinvio rideterminerà la pena per i reati pendenti Carminati sconterà l’esecuzione cui sarà condannato salvo una possibile valutazione medio temporale di esigenze cautelari. Anche la stampa dovrebbe dunque farsi garante di un’informazione che non calchi sul pedale dell’emotività. Anche la nuova politica si sta misurando con l’autonomia della giurisdizione e rinverdisce i vecchi strumenti. Si mettono in campo rispetto ai provvedimenti che non si condividono – ancorché non definitivi e suscettibili quindi di successivi controlli – i tradizionali strumenti distorsivi. Il riferimento va in questo caso all’invio degli ispettori. Già sperimentati con il Tribunale di sorveglianza di Sassari, sono riproposti per il tribunale della Libertà di Roma. Ma prima di lasciarsi andare a valutazioni sommarie sarebbe opportuno leggere i provvedimenti. Se mi è consentito esprimermi, quello romano è pienamente condivisibile: sfido un non esperto non solo a leggerlo – cosa che dubito succederà – ma anche a chi conosca la materia a confutarlo nel merito. Si tratta difatti di una materia di un tale approfondimento che solo un esperto del tema delle misure cautelari può comprendere fino in fondo. Invece è facile prevedere che ci si farà travolgere dal circuito mediatico e dall’ideologia punitiva e dalla polemica politica dalla quale un ministro dovrebbe restare lontano rispettando nei fatti e non solo a parole l’autonomia della magistratura. È facile prevedere anche che si batteranno le strade delle modifiche delle leggi come già successo per le famigerate “scarcerazioni dei boss” rischiando che la fretta confezioni norme ad alto rischio di illegittimità costituzionale come nella vicenda Zagaria. E che si tenterà il ripristino del carcere per i condannati assegnati agli arresti domiciliari. Senza tener conto della decisione della Corte costituzionale sulla legge spazzacorrotti e della sentenza della Corte europea sul caso Viola, che rigettando il ricorso del governo ha confermato che non c’è compatibilità tra il cosiddetto ergastolo ostativo previsto dall’art. 4 bis della Legge sull’Ordinamento penitenziario e l’articolo 3 della Convenzione. La magistratura ha sicuramente dei limiti e può commettere errori, ma un profondo respiro prima di prendere qualche decisione e soprattutto dopo aver ben valutato i suoi provvedimenti può non essere inopportuno.

Carminati scarcerato come previsto dalla legge. Bonafede non sa nulla della Giustizia anche se è ministro. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Massimo Carminati è stato scarcerato e la cosa ha provocato grande scandalo. Tra i giornalisti e tra i politici soprattutto. Il ministro Bonafede ha mandato gli ispettori a Oristano per capire come possa essere successa una cosa così terribile e che in modo sanguinoso offende il sentimento nazionale (il sentimento nazionale, per capirci, è molto semplice: tanta più gente sta in prigione meglio è…). La decisione di Bonafede, in realtà, dimostra solo una cosa: Bonafede non sa niente delle leggi e della Giustizia della quale è ministro. Avrebbe bisogno di un ripasso alla scuola serale. Massimo Carminati è stato scarcerato per una ragione semplicissima: perché così prevede la legge, senza eccezioni. Vediamo. Carminati (ex esponente della lotta armata fascista) è stato condannato per il reato di corruzione e per associazione a delinquere di stampo mafioso nella sentenza d’appello del processo cosiddetto “Mafia Capitale” (il fiore all’occhiello della Procura romana di Pignatone e di alcuni importanti giornali). La Cassazione ha stabilito che la mafia era una invenzione pura e semplice della Procura e ha rimandato tutto in appello per rideterminare la pena senza più associazione mafiosa. Carminati, dunque, è un detenuto in attesa di giudizio che ha scontato 5 anni e 4 mesi di prigione (dei quali 4, ingiustamente, al 41 bis). Siccome il reato più grave per il quale è stato condannato (corruzione) prevede una pena di 8 anni, e siccome la legge dice che la carcerazione preventiva non può mai e poi mai superare i due terzi della pena massima prevista per il delitto più grave, e siccome i due terzi di 8 anni sono 5 anni e quattro mesi, Carminati è automaticamente e giustamente scarcerato. Avrebbe dovuto essere scarcerato prima probabilmente, ma la scarcerazione gli è sempre stata negata. Ora, superato il limite massimo, non si può più. C’è uno scandalo? Sì: l’ingiusto 41 bis, la mancata scarcerazione in questi mesi, l’incredibile impreparazione del ministro.

«La scarcerazione di Carminati è giusta e l’ispezione decisa da Bonafede espone i magistrati». Valentina Stella su Il Dubbio il 18 giugno 2020. Intervsita all’avvocato Cesare Placanica: «Quello di Bonafede è un messaggio privo di serietà, rivolto ai naviganti, a coloro che non hanno cognizioni giuridiche: le ispezioni si fanno, non si annunciano. I magistrati così subiscono il linciaggio dell’opinione pubblica». La scarcerazione di Massimo Carminati ha riempito le pagine di tutti i giornali e suscitato molte polemiche. Ieri la Procura generale della Corte di Appello ha disposto l’obbligo di dimora nel comune di Sacrofano. «Una decisione che fatico a comprendere» commenta il suo difensore Cesare Placanica, che lo assiste insieme al collega Francesco Tagliaferri. Ne parliamo con il suo difensore Cesare Placanica, che lo assiste insieme al collega Francesco Tagliaferri.

Avvocato Placanica tanto clamore per nulla, in fondo si è solo rispettata la legge?

«Determinate sensibilità nell’opinione pubblica spesso prescindono dai dati concreti. Quello che si è verificato è in realtà l’esplicazione di un principio generale non solo del nostro ordinamento giuridico ma di tutti quelli caratterizzati da un alto tasso di democrazia che prevedono un limite alla carcerazione preventiva. Tra l’altro in Italia questi limiti sono estremamente ampi, molto più degli altri Paesi. Qui la carcerazione preventiva è afflitta da un abuso».

Molti hanno legato la decorrenza dei termini della sentenza “Mondo di mezzo” con la scarcerazione di Carminati.

«Se c’è un caso in cui la decorrenza dei termini è assolutamente priva di ogni responsabilità è “Mafia Capitale” perché sotto il profilo della tempistica i giudici sono stati molto celeri. Io sapevo che Carminati sarebbe uscito dal carcere quando è stata emessa il 22 ottobre 2019 la sentenza della Cassazione: era impossibile evitare la scarcerazione. Il mio assistito, cadendo l’accusa di mafia, resta imputato per fatti che non possono consentire una custodia preventiva oltre i 5 anni e 4 mesi. In quella data ne aveva scontati quasi 5 e sapevo che era impossibile in 4 mesi pubblicare le motivazioni della Cassazione, trasmettere gli atti alla Corte di Appello, celebrare il giudizio di appello bis, trattarlo, scrivere le motivazioni e dare i termini alle parti per impugnarle».

Però il ministro Bonafede ha inviato gli ispettori.

«Questo sistema di mettere all’indice i magistrati che fanno il proprio lavoro non giova per niente alla giurisdizione. In qualche modo può condizionare e intimorire il giudice, messo nelle condizioni di avere una dote che nessun Paese civile può pretendere da un giudice: il coraggio. Io ho dedicato gran parte della mia discussione dinanzi al Tribunale del Riesame nel dire ai giudici: “verrete criticati aspramente se applicherete la legge ma so che il vostro senso del dovere non può fare a meno di rispettarla” nel disporre la scarcerazione di Carminati. Quello di Bonafede è un messaggio privo di serietà, rivolto ai naviganti, a coloro che non hanno cognizioni giuridiche: le ispezioni si fanno, non si annunciano. I magistrati così subiscono il linciaggio dell’opinione pubblica, perché appaiono non solo come ingiusti ma anche collusi con un fantomatico sistema che vuole farla fare franca a Carminati. Spero che l’Anm faccia sentire la proprio voce».

Alfonso Sabella in una intervista al Corriere della Sera ha detto: "come spiegare ad un cittadino comune che, con quel curriculum criminale, Carminati adesso resti a casa sua?".

«Sabella ha premesso che Carminati è uscito per rispetto delle regole del codice. Però Sabella fa il giudice ma ogni volta che parla non nasconde la sua natura di pubblico ministero. Credo che la sua sia una visione assolutamente partigiana che parte da un dato: Carminati è l’uomo nero, il manovratore di tutte le trame occulte d’Italia e quindi è ingiustificato che sia libero. Tuttavia uno è un uomo nero, un mafioso, un omicida solo se è scritto negli atti processuali: se lui mette in discussione ciò non fa altro che mancare di fiducia alla valutazione della giurisdizione».

La Procura generale della Corte di Appello ha disposto ieri l’obbligo di dimora per Carminati, che non potrà spostarsi dal Comune di Sacrofano.

«Fatico a comprendere questa decisione perché voglio ricordare che nel processo per l’omicidio Pecorelli Carminati si era presentato davanti al carcere per costituirsi qualora fosse stato ritenuto colpevole ed era consapevole che rischiava l’ergastolo; mi sembra difficile che adesso si dia alla fuga».

Enrico Bellavia su Repubblica ha scritto: "Se le mafie si evolvono e cambiano pelle, anche la giurisprudenza dovrebbe adeguarsi offrendo strumenti per qualificare incisivamente ciò che appare come un grado più sofisticato di consorteria mafiosa".

«Mi sembra un discorso illiberale, da difesa sociale tipico di uno Stato totalitario. Adeguare al fatto concreto l’effettiva valenza di una norma è una prassi tipica della giurisprudenza. Ma bisogna tenere presente che tutti i reati associativi sono già reati estremamente difficili da inquadrare sotto il profilo della condotta. L’essenza di ogni sistema penale democratico è che il fatto vietato deve essere descritto nei particolari».

L’arresto di Carminati è finito in tutte le televisioni. La sua scarcerazione anche. C’è sempre il solito problema della giustizia show?

«Nutro grande rispetto per il diritto di informazione che come tutti i diritti deve incontrare un limite che è quello del rispetto della dignità dell’uomo. Riprendere e pubblicare l’arresto di una persona, che è un momento di estrema delicatezza, significa violare l’intimità e i diritti essenziali dell’uomo. Nel nostro ordinamento è esplicitamente vietato questo: è una norma introdotta dopo la pubblicazione di alcune immagini di cui il nostro Paese si deve vergognare, come l’arresto di Enzo Tortora».

Da mio padre a Carminati, in 37 anni questo Paese non è cambiato. Gaia Tortora su Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2020. Il 17 giugno 1983 l’arresto di Enzo Tortora. “Ho sentito in questi anni politici garantire una riforma della giustizia che ancora non si è vista. L’Italia culla del diritto è stata troppe volte soffocata sul nascere. Io non dimentico. La storia non si dimentica”. 17 giugno. Apro gli occhi. Oggi ci sono gli esami per tanti ragazzi. Che emozione. Penso ai miei di esami quel 17 giugno 1983. Anche di quella emozione mi hanno privato. Per buttarmi a 13 anni all’inferno.

Biglietto di sola andata. Quella mattina qualcosa non andava, lo sentivo da qualcosa di strano in casa. Voci basse a sussurrare. Il telefono che squillava interrottamente dalle 6. Andai a scuola. Ero la quarta in ordine di convocazione. Diventai la prima. Strano. Un esame veloce poi fui portata di corsa di nuovo a casa. Nessun festeggiamento.

Fine di un ciclo. Inizio di un incubo. Avevo 13 anni oggi ne ho 51, le cicatrici le porto dentro. Trentasette anni sono passati, ma nulla è cambiato. Apro velocemente i giornali e le parole di Massimo Carminati mi colpiscono: “Io trattato come il diavolo”. Mi chiedo… ma allora cosa abbiamo raccontato? Quanto abbiamo sperato che davvero quel “mafioso” fosse la teoria processuale vincente? Ma noi chi? Beh, noi informazione. Cavolo, Gaia tu ti svegli e passi da tuo padre a Carminati, ma sei scema? Ecco, se lo dico, questo può venir fuori. Ma la riflessione è altra. Arriva un altro flash, quei brevi istanti del momento in cui Carminati lascia il carcere. Pochi passi. Lo sguardo fuori dal cancello dove lo attendevano i cronisti. Pochi attimi di indecisione, quasi a voler trovare un’uscita secondaria. Ancora un flash, mio padre venne costretto e, lo ripeto con forza, costretto, a sfilare ammanettato davanti a fotografi e Tv. Appunto, eravamo già all’inferno. Alcuni giornalisti iniziarono a scrivere senza sapere nulla, senza sapere i fatti. Al limite solo quello che gli imbeccava la Procura. In fondo si ammanetta qualcuno nel cuore della notte se ha fatto qualcosa. Sono passati trentasette anni da quel 17 giugno e questo Paese non è cambiato un granché. E mi fa male dirlo perché io combatto, ho combattuto e ci ho creduto. È diventato il Paese dei “derby” (campionato inaugurato proprio con la vicenda di mio padre, di qua gli innocentisti, di là i colpevolisti) delle teorie, di alcuni giornalisti schierati per compiacere il consenso legato al proprio target, Quotidiano magari.  Ho sentito in questi trenta anni politici garantire una riforma della giustizia che ancora non si è vista. Ma che per una campagna elettorale va bene, fa sempre il suo effetto. L’Italia culla del diritto è stata troppe volte soffocata sul nascere. Mio padre, si sa, è stato ucciso da certa magistratura e da certa stampa. Passano gli anni e alla fine rischi di sentirti solo una rompipalle. Le senti quelle voci bisbigliare alle tue spalle.. “dai basta però con questa storia… Guarda avanti…” Qualche anno fa ero in uno studio tv con Ilaria Cucchi. Parlavo con lei che stava per fare un’intervista. A un certo punto un collega le disse “dai, Ilaria, ora però pensa alla tua vita. Fai come lei” indicando me. Io e Ilaria ci guardammo. Già, fai come lei aveva detto… Ecco ho messo insieme mio padre, Carminati e Cucchi. Sarà difficile o fin troppo facile oggi posizionarsi nella curva giusta. Ma al 17 giugno 2020 io la testa non la abbasso. Parlo. Combatto. Non ho paura delle etichette o di essere estromessa dal “circoletto” di parte della categoria. Io non dimentico. La storia non si dimentica. Gaia Tortora, giornalista, figlia di Enzo Tortora.

Massimo Carminati ha scontato 5 anni al 41bis senza motivo. Giusto che esca. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Se un comune detenuto, condannato per un fattaccio di corruzione, uscisse di prigione per decorrenza dei termini della custodia cautelare dopo aver passato quasi cinque al regime di carcere duro, senza alcun motivo, essendo alla fine stato assolto con formula pienissima dall’accusa di essere a capo di un’associazione mafiosa, nessuno ci troverebbe nulla di strano. Se un comune detenuto, condannato per un fattaccio di corruzione, uscisse di prigione per decorrenza dei termini della custodia cautelare dopo aver passato quasi cinque al anni 41bis, il regime di carcere duro, senza alcun motivo, essendo alla fine stato assolto con formula pienissima dall’accusa di essere a capo di un’associazione mafiosa, nessuno ci troverebbe nulla di strano. Sui giornali la notizia comparirebbe forse in qualche trafiletto. Di certo il ministero della Giustizia non spedirebbe con la rapidità del fulmine i suoi ispettori a verificare le ragioni per cui il Tribunale del Riesame ha deciso di rispettare i diritti di quel detenuto. Se a varcare ieri le porte del carcere di Oristano, senza obbligo di domicilio né di firma, fosse stato solo un tal Carminati Massimo, condannato a 14 anni e mezzo ma in attesa di ridefinizione della pena sproporzionata una volta caduta l’accusa di essere il Totò Riina della Capitale, le cose andrebbero effettivamente così. Ma a uscire ieri dal carcere è stato invece il Nero, popolarissimo coprotagonista del più fortunato noir italiano di tutti i tempi, il Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo, una trasposizione sul grande schermo e due stagioni di una serie tv che ha aperto la strada a una quantità di epigoni. A andarsene libero come l’aria dal carcere di Oristano è stato il Samurai, protagonista del romanzo Suburra e del seguito La notte di Roma, entrambi dello stesso De Cataldo e del giornalista di punta di Repubblica Carlo Bonini. Anche in questo caso film e poi serie tv che ancora spopola sono seguiti a stretto giro. Soprattutto, lascia la galera l’uomo che nel 2012 era stato descritto dal giornalista dell’Espresso Lirio Abbate come uno dei “quattro re di Roma”, i boss che secondo l’inchiesta tenevano in pugno Roma. Gli altri tre erano tutti nomi notissimi, boss del calibro di Carmine Fasciani o Peppe Casamonica, Il vero oggetto dell’inchiesta era il quarto uomo, l’ex nar ed ex banda della Magliana che nessuno sospettava essere diventato nel frattempo un padrino. Un articolo profetico: due anni dopo l’inchiesta della Procura di Roma nota alle cronache come Mafia Capitale confermava. Massimo Carminati era il vero boss della Capitale. Anche se a suo carico non comparivano fatti di sangue, anche se a intimidire i politici, secondo l’atto di accusa, non erano minacce formali ma solo il temuto nome. Anche se il quartier generale non era la villa dei Corleone a Long Island ma una stazione di servizio su Corso Francia e se la sua cosca erano vecchi camerati, amici e sodali dagli anni’70, dediti soprattutto al “recupero crediti”. Cravattari, come si dice a Roma. La sentenza di Cassazione ha smontato quel fantasioso impianto. Le motivazioni, uscite appena cinque giorni fa, la hanno letteralmente polverizzata. La biografia del supposto padrino avrebbe dovuto far suonare campanelli d’allarme sin dal primo momento. Carminati ha frequentato davvero sia i Nar sia la banda della Magliana, soprattutto in virtù del forte legame con il fondatore e forse unico vero capo, Franco Giuseppucci, “er Negro”. Ha commesso crimini, compiuto rapine, secondo i pentiti si è reso colpevole di un omicidio ma le sentenze non hanno confermato. E’ stato processato per l’omicidio di Mino Pecorelli ma assolto. Sia nei Nar che nella banda era una specie di compagno di strada o fiancheggiatore, partecipe, rispettato ma esterno. La rapina al caveau del palazzo di giustizia della Capitale, nel 1999. Fu un colpo grosso che fruttò 50 mld di lire. Ma l’ipotesi che il vero bottino fossero documenti segreti che gli avrebbero poi permesso di ricattare buona parte dei togati della capitale è invece frutto di quella stessa fantasia sbrigliata che ha reso un malavitoso certamente temibile ma di medio calibro una leggenda del crimine. La sentenza di Cassazione dice a tutte lettere che Massimo Carminati non è mai stato il capo della mafia romana. Non si tratta di negare l’esistenza di organizzazioni mafiose a Roma. Solo di chiarire che la banda dedita al recupero crediti di Corso Francia e il gruppo di corrotti e corruttori che si dava da fare intorno al comune di Roma non erano né mafiose né collegate tra loro, nonostante la presenza di Carminati all’interno di entrambe. Ma quella è la realtà di Massimo Carminati e non sarà mai tanto forte e potente quanto la leggenda del Nero e del Samurai. O la bufala del “quarto re di Roma”.

Estratto dell’articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. […] Massimo Carminati […] ha lasciato il carcere di Oristano, dove era stato trasferito dopo un periodo di detenzione al 41 bis a Tolmezzo. Il re del Mondo di mezzo […] è tornato a casa: libero, in attesa che la Corte d'appello ridetermini la pena a suo carico, come chiesto dalla Cassazione. Il motivo della scarcerazione è tutto tecnico: dopo 5 anni e 7 mesi trascorsi in prigione, sono scaduti i termini di custodia cautelare e, a causa delle lungaggini della giustizia, non c'è ancora stata una sentenza definitiva. Ma adesso il timore è che Carminati possa fuggire. Per questo motivo, la Procura generale ha intenzione di chiedere il divieto di espatrio e l'obbligo di dimora, per l'ex estremista nero e per tutti gli altri scarcerati. Il ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale della libertà non è infatti scontato: una recente sentenza delle Sezioni Unite sposa in pieno la tesi dei legali dell'ex Nar. Dopo tre rigetti da parte della Corte d'appello, l'istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri è stata infatti accolta: nel caso di Carminati, non vale il meccanismo della contestazione a catena, che permette il prolungarsi dei termini di detenzione cautelare. Tradotto: l'ex Nar è stato arrestato la prima volta nel dicembre 2014, mentre nel maggio 2015 a lui e agli altri imputati è stata notificata una seconda misura. Per il Riesame - e per le Sezioni Unite - per calcolare i termini di custodia cautelare bisogna considerare la prima ordinanza. E conta anche il reato. Caduta l'accusa di associazione mafiosa, la contestazione più grave per l'ex Nar è la corruzione, che all'epoca dei fatti aveva una pena massima di 8 anni. Significa che Carminati, dal momento dell'arresto, ha già scontato i due terzi del massimo edittale e quindi può tornare a piede libero. Il Cecato, come tutti gli altri assolti dall'accusa di 416 bis, non dovrà essere processato nuovamente: il reato non potrà essere riqualificato. Dovrà solo essere ricalcolata la pena. E con ogni probabilità sarà più bassa dei 14 anni e mezzo che i giudici di secondo grado gli avevano inflitto, aggiungendo erroneamente al suo curriculum criminale anche la definizione di mafioso. Una decisione stroncata dalla Cassazione. A quattro giorni di distanza dal deposito delle motivazioni che smontano punto per punto la sentenza di secondo grado, è arrivata anche la scarcerazione. E un ruolo lo hanno avuto anche quelle stesse motivazioni: depositate dopo tantissimo tempo, a quasi otto mesi di distanza dalla sentenza. Fissare un appello ed arrivare alle pene definitive in pochi giorni sarebbe stato impossibile. La scarcerazione, quindi, era praticamente inevitabile. […]

Estratto dell’articolo di Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. […] Alla fine, dopo anni di indagini e di processi, dopo tre rigetti da parte della Corte d'appello, a rimetterlo fuori è stata la scadenza dei termini. I suoi avvocati, Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri, hanno avuto la meglio basandosi sul meccanismo della contestazione a catena (che permette il prolungarsi della misura in carcere). E che in pratica certifica due concetti: la condanna di Carminati non è ancora definitiva, ma sebbene sia così, è scaduta perché la Corte di cassazione ha impiegato ben otto mesi per depositare le motivazioni della sentenza. Ed è questo il vero problema. […] Succede, infatti, che il 22 ottobre scorso la Cassazione emetta una sentenza che smonta l'intero processo di Mafia Capitale: decade l'aggravante mafiosa e gli imputati principali diventano tutti criminali semplici e volgari corruttori. A quel punto gli ermellini stabiliscono che l'Appello dovrà rimodulare le condanne, e rinviano nuovamente al secondo grado di giudizio. Fino a quel momento, Carminati doveva scontare 14 anni di pena. Ne ha già fatti 4 al regime duro del 41 bis. E altri nel carcere di Oristano. La nuova situazione, però, prevede che i termini della carcerazione scadano il 30 marzo del 2020. Nel frattempo, interverrà la ridefinizione della condanna, è la speranza di tutti. Ma così non va, perché la Cassazione impiega otto mesi per scrivere le motivazioni della sentenza. Indubbiamente una sentenza difficile da spiegare, anche se il cui solco era già stato in parte tracciato. Si arriva alla fine di marzo, e delle motivazioni neanche l'ombra. Sei giorni fa vengono depositate e scardinano l'intera inchiesta e il primo grado di giudizio. I difensori dell'ex Nar, a quel punto, affilano le armi e presentano l'ultima istanza di scarcerazione. C'è da dire che anche se piazza Cavour avesse impiegato qualche mese di meno, la situazione sarebbe andata ugualmente così. Perché, da fine ottobre a marzo passano poco più di sei mesi, con i tempi della giustizia italiana difficilmente in quello stesso periodo si sarebbe potuto trasferire il fascicolo, istruire il processo in Appello, emettere la condanna, scrivere le motivazioni e dare i termini alle difese. I difensori hanno valutato che il massimo edittale per il reato di corruzione va dai 4 agli 8 anni di pena, ed è su quello che hanno basato la richiesta. Carminati, infatti, ne aveva già scontati due terzi, e dunque aveva le carte per tornare libero. «Il mio assistito - spiega l'avvocato Placanica - non ha superato i termini, ma ha superato il termine massimo di carcerazione». «Una scarcerazione - aggiunge l'altro legale, Francesco Tagliaferri - che non consegue per un cavillo ma è l'applicazione pedissequa del codice di Procedura penale. Bonafede facesse le inchieste che vuole. Ho letto che sarebbe stata disposta un'ispezione al carcere di Oristano, ma spero sia un errore, sarebbe ai limiti del comico». 

Nicola Pinna per “la Stampa” il 17 giugno 2020. Il tassista Andrea cerca subito il modo di fare amicizia col suo nuovo cliente. Arriva quattro minuti in anticipo e sa già benissimo chi è l'uomo che dovrà accompagnare in aeroporto: «Avrà anche sbagliato ma adesso lasciatelo in pace», dice ai fotografi assiepati davanti al cancello del carcere. Massimo Carminati gli parla sempre con gentilezza, mentre agli altri, i cronisti che provano a fare le solite domande, l'ex regista del «Mondo di mezzo» non rivolge neppure uno sguardo. E men che meno una risposta. Di attraversare il grande piazzale davanti al penitenziario non ha nessuna fretta: cammina piano, per far vedere a tutti che è un uomo libero. La teoria su Mafia Capitale l'hanno già smontata i giudici e lui stavolta si prende un'altra rivincita: torna a casa senza alcun vincolo di custodia cautelare, perché dietro alle sbarre ha già passato più dei due terzi del tempo previsto dalla pena massima che gli potranno infliggere durante il processo bis. La prima giornata fuori dalla cella per Carminati si fa lunga: più di un'ora di viaggio in superstrada verso l'aeroporto e poi l'attesa del volo, l'ultimo della serata. In quelli prima non era rimasto neanche un posto e così la permanenza in Sardegna si è prolungata più del dovuto. Durante la trasferta il tassista Andrea risponde alle chiamate dei giornalisti fingendo di parlare con un call center: «Non sono interessato, non voglio comprare nulla». Nel frattempo anche lo spietato descritto dalle indagini e dalle lunghe intercettazioni si fa sfuggire qualche parola: «Non sono quello che hanno sempre descritto, mi hanno trattato come un diavolo». Durante il viaggio c'è tempo per qualche telefonata. La prima è per l'avvocato: «Grazie per avermi fatto tornare un uomo libero. Non solo non sono più un mafioso ma adesso sono anche un uomo libero». Una sentenza definitiva in verità ancora non c'è, ma la scarcerazione sembra avere - almeno per lui - il sapore di una prima parziale vittoria: «Se sono fuori un motivo c'è, la storia non è come è stata raccontata». L'uomo che esce dal carcere poco dopo le 13 non sembra assomigliare a quello senza scrupoli che aveva rapporti con la Banda della Magliana e che gestiva insieme a Salvatore Buzzi una rete capace di piegare politici, pubblici funzionari e imprenditori. Camicia blu semiaperta, jeans talmente larghi da far vedere a tutti persino le mutande grigie. Smagrito e cordiale, ma deciso a non rispondere a nessuna domanda. Prima di chiudere lo sportello della Renault si fa sfuggire solo quattro parole: «Grazie, grazie mille, arrivederci». Gli agenti della penitenziaria vorrebbero proteggerlo da tutti quegli obiettivi che sono puntati oramai da ore. Qualcuno dei poliziotti pensa addirittura di far passare il taxi oltre il cancello, ma il comandante è perentorio: «Non si può fare». Il «Nero», l'uomo che secondo i magistrati ha gestito per anni il malaffare romano, non può sottrarsi alla passerella inaspettata e il tassista lo aiuta come può. Un agente gli apre il portabagagli dell'auto e lui carica il suo borsone blu e la busta della spesa in cui ha rimesso insieme tutto quello che teneva in cella. Nella casa circondariale di Massama, dove non c'è l'area per il 41 bis, l'ex Nar arrestato nel 2014 era arrivato dopo un periodo passato tra Rebibbia, Tolmezzo e Parma, all'interno del penitenziario dei boss. Con il crollo del castello accusatorio di «Mafia Capitale» per Carminati è finito il periodo del carcere duro ed è stato disposto il trasferimento in Sardegna. Da qui, dove è recluso anche l'ex latitante Cesare Battisti, ha esultato quando la Cassazione ha smontato la teoria dell'associazione mafiosa e fiducioso, così almeno lo descrivono alcuni agenti, ha atteso che il tribunale di sorveglianza accogliesse l'istanza di scarcerazione. Il tassista che lo saluta con un arrivederci davanti all'aeroporto torna a casa tardi e non ha intenzione di raccontare le sue impressioni: «Io non giudico nessuno, accompagno spesso a casa le persone che escono dal carcere». Ma forse prima di presentarsi al cancello di Massama, ieri mattina, aveva fatto una ricerca sul web e ha trovato le frasi che «il Nero» pronunciava al telefono mentre parlava con un dipendente di una compagnia telefonica che non riusciva a risolvere un problema di connessione per il suo smartphone: «Forse non hai capito con chi stai parlando, cerca su internet Massimo Carminati e poi vedi di sbrigarti a risolvere la situazione».

Alessia Marani per “il Messaggero” il 17 giugno 2020. Vasile parla un buon italiano e si destreggia ancora meglio con le cesoie: cura le piante, fa attenzione che tutto sia perfetto per il ritorno a casa di Massimo Carminati, sullo sfondo si scorgono i cavalli. «Se Massimo verrà qui? E perché non dovrebbe, è un uomo libero», risponde secco il factotum della dimora prima di eclissarsi nel verde. Più che un giardino è un enorme parco quello che si apre allo sguardo davanti alla cancellata di ferro battuto di via Monte Cappelletto, nelle campagne di Sacrofano, poco a nord di Roma. Oltre il cancello sovrastato da una enorme telecamera fissa, la strada di ciottoli bianchi si arrampica fino alla sommità della collina. Dietro c'è la villa acquistata formalmente nel maggio 2014 dalla compagna del Nero, Alessia Marini, per cinquecentomila euro. Ma dal viottolo nemmeno si intravede. L'affare fu proposto dall'amico imprenditore edile e socio, nonché ex assessore comunale, Agostino Maurizio Gaglianone, dopo che Carminati ebbe bisogno di lasciare un'altra villa, sempre sulla stessa strada, presa in affitto dal commercialista Marco Iannilli, e gravata da un sequestro conservativo conseguente alla bancarotta milionaria della Arc Trade srl. Oggi quella villa, al civico 12 di via Monte Cappelletto, è stata effettivamente acquisita dallo Stato attraverso l'agenzia regionale per i Beni confiscati e assegnata al Comune di Sacrofano per un progetto di assistenza sociosanitaria. Nessun provvedimento giudiziario, invece, ha scalfito l'immobile in cui Carminati e Alessia si erano trasferiti. Il Nero è stato assolto dall'accusa di estorsione avanzata dalla Procura proprio in merito alla compravendita di quell'abitazione: nessun motivo, dunque, per intaccare il bene. Ed ora, da «uomo libero», come ricordava il suo fedele operaio, può godersi il buen retiro in attesa del processo d'Appello, non distante dagli amici di sempre, come Riccardo Brugia, che a novembre aveva guadagnato i domiciliari, o lo stesso Gaglianone, assolto definitivamente dalle accuse di Mondo di Mezzo a ottobre. Tutto torna come prima, come se il tempo si fosse fermato a quel 2 dicembre del 2014, quando i carabinieri del Ros lo fermarono a bordo della Smart bianca appena uscito di casa. Tasto rewind. All'improvviso il sole si adombra e lascia spazio a un'acquazzone sul centro di Sacrofano, nove chilometri più avanti. La sindaca Patrizia Nicolini è impegnata in riunioni-fiume all'interno del palazzetto comunale e non ha tempo per parlare. Una volta qui comandava Tommaso Luzzi, ex sindaco passato per il Msi, quindi in An e poi nel Pdl. «Tommaso me serve lì», diceva l'ex Nar Carminati in una intercettazione. Indagato per associazione a delinquere nell'inchiesta romana, anche Luzzi, nel 2016, venne prosciolto su richiesta della Procura. I pochi cittadini in strada si interrogano. Nessuno vuole esprimersi con nome e cognome. «L'ha fatta franca un'altra volta, ha protezioni», commenta un commerciante. «Se eravamo noi al suo posto, per molto meno ci saremmo rimasti a vita in galera», gli fa eco un altro. Una signora non nasconde lo stupore: «Ma non gliel'avevano confiscata la casa?». «Se riesce a lasciare pure l'Italia, cade il Governo», un altro commento da bar. C'è chi prova a guardare a un lato positivo: «Sarà un caso, ma nei paesi intorno gira molta droga, c'è più degrado, qui a Sacrofano invece stiamo tranquilli, forse nessuno osa pestare i piedi a un uomo tanto potente e alla sua cricca». Bocche cucite al bar-gastronomia di Borgo Pineto, la frazione dove si trova via Monte Cappelletto. Qui l'ex terrorista nero si fermava a fare colazione prima di incamminarsi verso Roma e Corso Francia, suo quartier generale. «Preferiamo non commentare», tagliano corto. Alessia Marini aspetta notizie da Massimo da un momento all'altro. Risponde al telefono: «Mi scusi, ma non gradisco parlare, questa conversazione si conclude qui». Micaela, la sorella di Carminati è ancora più risoluta: «Dimenticateci, dimenticatevi di noi».

La parabola del Nero. Ritratto di Massimo Carminati, perseguitato perché un mito. David Romoli su Il Riformista il  17 Giugno 2020. Massimo Carminati è tornato libero ieri, dopo 5 anni e sette mesi di carcere, molti dei quali passati in regime di 41 bis. Solo che per i reati riconosciuti come tali con sentenza definitiva dalla Cassazione quegli anni di carcere duro erano immeritati: Mafia Capitale non era mafia e anzi non era proprio. Le motivazioni della Cassazione, rese note pochi giorni fa, confermano quel che era già chiaro a chiunque avesse occhi per vedere sin dalla prima ordinanza di arresto: le organizzazioni erano due, distinte e diverse nonostante la presenza in entrambe del malavitoso probabilmente più famoso d’Italia. Ma nessuna delle due aveva niente a che vedere con la criminalità organizzata. Corruzione. Recupero crediti. Rapporti con vecchi neofascisti, non le cosche o le ‘ndrine. Caduta l’accusa più pesante, quella di associazione mafiosa, e avendo il condannato già scontato due terzi del reato più grave, Carminati doveva essere scarcerato per scadenza termini nel processo Terra di mezzo bis. La stessa condanna a 14 anni e mezzo dovrà del resto essere rideterminata sulla base della sentenza di Cassazione. Tuttavia per 3 volte la Corte d’appello aveva rigettato l’istanza di scarcerazione, senza obbligo di dimora né di firma, accolta invece ora dal Tribunale del riesame. «Quando si tratta di carminati, perché siano riconosciuti i suoi diritti bisogna sempre ingaggiare lotte furibonde», ha dichiarato Francesco Tagliaferri, con Cesare Placanica legale del “Nero”, come era stato ribattezzato Carminati nel fortunatissimo Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo. È una frase che definisce da sola l’intera parabola di Carminati, che sconta, oltre a effettivi crimini, l’aggravante pesantissima del suo stesso mito, della leggenda nera costruita intorno al suo nome e alla sua biografia. L’ordinanza sulla quale si basava il teorema di Mafia capitale, smantellato sin nelle fondamenta dalla Cassazione rivelava infatti che l’intero impianto poggiava su una base sola, la “straordinaria caratura criminale” di Carminati. Se c’era lui di mezzo, non poteva che trattarsi di mafia. Anche senza fatti di sangue, senza minacce, senza ricatti. Quella che sembrava, ed era, una fra le tante vicende di corruzione e mala amministrazione diventava la versione moderna di Cosa nostra in virtù della presenza del Nero. Se c’era lui, doveva per forza essere mafia. Se c’era lui, non erano necessarie le minacce: bastava il nome. Per la medesima ragione, uno stuolo di cronisti esperti e scafati che in circostanze diverse non avrebbero probabilmente mancato di avanzare almeno dubbi su un impianto che chiamarlo azzardato era poco, accettarono a scatola chiusa, nel dicembre 2014, la tesi-bomba della Procura, quella che avrebbe portato di lì a poco alla caduta imposta dall’allora segretario del Pd Renzi del sindaco Marino. Quella senza la quale oggi Virginia Raggi non sarebbe prima cittadina della Capitale e l’intera storia di Roma, ma probabilmente anche d’Italia, non sarebbe la stessa. Come spesso capita in Italia, la leggenda di Carminati, poi portata al parossismo da giornalisti e scrittori, deriva più dalle frequentazioni che dai crimini accertati. Giovane neofascista milanese trasferitosi con la famiglia a Roma, alla fine degli anni 70 costeggia sia i Nar, la principale banda armata di destra nella storia dell’Italia repubblicana, che la celeberrima banda della Magliana. Non fa parte a pieno titolo né degli uni né dell’altra. Tra neofascisti e banditi comuni i rapporti erano stretti, perché molti ragazzi in armi di estrema destra, come lo stesso Carminati o Alessandro Alibrandi, altro nome di primo piano dei veri Nar, subivano la fascinazione di una vita al di fuori della legge e perché molti criminali, come lo stesso primo capo della Magliana, Franco “er Negro” Giuseppucci, erano fascisti. Carminati costeggia entrambe le aree, partecipa ad alcune azioni, come la grande rapina alla Chase Manhattan Bank portata a termine dai neofascisti romani (non solo Nar) nel dicembre 1979. Secondo i pentiti si incarica anche di un’esecuzione per conto di Giuseppucci, il vero e quasi unico tramite con la banda della Magliana. Gli attribuiscono un omicidio eccellente, quello del giornalista Mino Pecorelli, dopo aver tentato invano di addebitarlo a Valerio Fioravanti. Verrà assolto e al processo contro la Banda risulta a tutti gli effetti un imputato minore. Calato il sipario su Nar e “bandaccia”, Carminati torna agli onori della cronaca nera per il colpo al caveau del palazzo di Giustizia di Roma del luglio 1999. Grazie all’appoggio di complici interni, i rapinatori si portano via quasi 150 cassette di sicurezza e 50 mld di vecchie lire. Ma cronisti e reporter favoleggiano sull’appropriazione di documenti che permetterebbero a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. Nel 2012 un’inchiesta dell’Espresso lo incorona come uno dei “quattro re della Roma” criminale. Gli altri tre, Michele Senese, Peppe Casamonica e Carmine Fasciani, sono pezzi da 90, noti e conosciuti come tali senza bisogno di scomodare lo scoop. La clamorosa rivelazione, tanto clamorosa da non richiedere alcuna prova, in certi casi basta la parola, riguarda il ruolo di carminati. Un paio d’anni e l’inchiesta più deflagrante fallimentare dell’ultimo decennio arriva a supportare la tesi ardita, salvo totale sconfessione da parte della Cassazione. Ma la vicenda di Massimo Carminati è lontana dall’essere chiusa. Se si trattasse solo di un imputato o di un condannato sarebbe almeno alle ultime battute. Ma con un mito e un simbolo è un’altra cosa…

Il profilo. Chi è Massimo Carminati, da quarant’anni coinvolto nei misteri italiani. Redazione su Il Riformista il 16 Giugno 2020. “Il Nero”, “il Guercio”, “Er Cecato”, “il Pirata”, il “Samurai”. Massimo Carminati ha molti soprannomi. Alcuni plasmati dalla realtà, dal sottobosco criminale di gruppi eversivi di destra e organizzazioni che ha frequentato; altri partoriti da opere di fiction nelle quali è comparso, alcune di queste anche di notevole successo negli ultimi anni, come le serie Romanzo Criminale e Suburra. Certo è che ognuno di questi nomi è indissolubilmente legato a certi anni. Quegli anni ’70 del terrorismo, degli estremismi di destra e di sinistra, di stragi e depistaggi, di agguati. Fino ai tempi del cosiddetto “Mondo di Mezzo”. Carminati è stato scarcerato oggi dopo 5 anni e 7 mesi di detenzione. Accolta l’istanza di scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri. Alle 13:30, il principale imputato del processo “Mondo di Mezzo” – la Cassazione ha deciso lo scorso ottobre che non si trattava di mafia, e quindi non più “Mafia Capitale” – è uscito dal carcere di Massama di Oristano. Classe 1958, Carminati nasce a Milano, ma si trasferisce negli anni sessanta a Roma. È solo un adolescente quando comincia a frequentare la sezione dell’MSI di Marconi e del Fuandi a via Siena. Partecipa anche ad Avanguardia Nazionale. La sua fama negli ambienti di estrema destra comincia a crescere in quegli anni. Perde l’occhio sinistro al confine tra Svizzera e Italia, a un posto di blocco. I poliziotti sparano al varco usato abitualmente dagli estremisti neri per passare clandestinamente nella Federazione elvetica. Quella sera gli agenti si aspettano di intercettare Francesca Mambro, tra i fondatori dei NAR. Nell’auto ci sono invece Carminati e altri due camerati disarmati. Anni prima, si lega in particolare a due compagni di liceo l’istituto paritario Federico Tozzi del quartiere di Monteverde: Alessandro Alibrandi, figlio di un noto giudice della Capitale, Franco Anselmi, ex missino e fondatore dei Nar, e Valerio Fioravanti, poi condannato in via definitiva per la strage della stazione di Bologna. Il loro punto di ritrovo diventa il bar Fungo, al quartiere Eur, frequentato anche dalla malavita organizzata della Capitale. Il 27 novembre 1979 il gruppo compie la prima rapina: alla Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi all’Eur. I traveller cheques rubati vengono affidati al boss della Banda della Magliana, Franco Giuseppucci. Nei primi anni ’80 è in Libano con  altri componenti dei NAR a sostenere i falangisti cristiano-maroniti di Kataeb nella guerra civile contro i filo-palestinesi. Con la malavita i gruppi terroristi hanno un’altra cosa da condividere: le armi. Alcune vengono trovate in un garage nei sotterranei del ministero della Sanità a Roma. E poi ancora su un treno Taranto-Milano. Carminati viene accusato nel processo per depistaggio che coinvolge due esponenti dei servi segreti. Assolto.

È assolto anche per molti altri processi nei quali viene coinvolto, soprattutto per le deposizioni dei testimoni che lo accusano. Assolto anche per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il 20 marzo 1979, direttore del settimanale Osservatorio Propaganda (Op) iscritto alla P2 e legato ai Servizi Segreti. Un’azione che sarebbe stata un favore e un gesto di alleanza con Cosa Nosta. Condannato per ricettazione nel 1988, la condanna viene cancellata per indulto nel 1991; stessa sorte per condanne del 1991 per rapina, detenzione illegale di armi e munizioni, porto illegale di armi. Nel 1998, nel processo alla Banda della Magliana, Carminati è condannato. La pena a causa del cumulo di condanne arriva a 11 anni e 9 mesi, in parte già scontati. Nel 2006 il magistrato di sorveglianza revoca la libertà vigilata. Dopo aver lasciato l’Italia per un po’ di tempo torna a Roma e comincia il periodo che viene definito di “Mafia Capitale”. Agli imputati viene contestata l’appartenenza o la gestione di associazioni a delinquere dedite all’estorsione e a un’attività di corruzione verso funzionari e politici dell’amministrazione comunale romana.

Federica Angeli e Simona Casalini per ''la Repubblica - Roma'' il 12 giugno 2020. C'è voluto quasi un anno per comprendere i  motivi per cui la Cassazione nell'ottobre del 2019 decise che l'organizzazione capeggiata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non era mafia. smontando l'impianto accusatorio della procura di Roma. In mattinata, a 8 mesi dal verdetto degli Ermellini, è finalmente arrivato il deposito delle motivazioni. Le pagine a sostegno della tesi della suprema corte sono 379. "L'associazione mafiosa non è un reato associativo puro - scrivono i magistrati nelle carte - e per la configurazione del reato di 416bis è necessario che il gruppo abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice "dolo" di farvi ricorso: occorre che il sodalizio dimostri di possedere detta forza e di essersene avvalso". Al netto quindi di singolo episodi in cui Carminati, ad esempio, minaccia l'ad di Eur spa Riccardo Mancini di farlo strillare come un'aquila se non avesse assecondato i suoi desiderata i quelli di Buzzi, la maggior parte dei politici e dei funzionati implicati nell'inchiesta, non hanno avuto bisogno di essere intimiditi. Bastava corromperli per ottenere in cambio l'appalto o la delibera costruita ad hoc. La Corte ha escluso il carattere mafioso dell'associazione contestata agli imputati e ha riaffermato l'esistenza, già ritenuta nel processo di primo grado, di due distinte associazioni per delinquere semplici: l'una dedita prevalentemente a reati di estorsione, l'altra facente capo a Buzzi e Carminati, impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell'amministrazione comunale romana ovvero in enti a questa collegati. "Non era Mafia Capitale, ma i clan nella Capitale ci sono", sottolineano gli Ermellini. Nel sistema criminale emerso nel processo Mondo di mezzo, la Cassazione "senza negare che sul territorio di Roma possano esistere fenomeni criminali mafiosi" rileva che "i risultati probatori hanno portato a negare l'esistenza di una associazione a delinquere di stampo mafioso". Quel che è stato appurato "è un quadro complessivo di un sistema gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione". La complessa sentenza ha ripercorso le fasi del processo ed esaminato i numerosi motivi di ricorso, fissando alcuni principi di diritto sia in tema di associazione mafiosa, sia nella materia dei reati contro la pubblica amministrazione. Dure le parole della Cassazione nei confronti dei giudici dell'Appello. "La decisione della Corte di appello di riformare in peius (in senso peggiorativo) la sentenza del tribunale - scrivono - e di ritenere esistente un'unica associazione mafiosa richiedeva innanzitutto una motivazione "rafforzata". Obbligo della motivazione rinforzata si impone per il giudice dell'appello tutte le volte in cui ritenga di ribaltare in senso peggiorativo la decisione del giudice di primo grado". La Corte, senza affatto negare che sul territorio del Comune di Roma possano esistere fenomeni criminali mafiosi, ha spiegato che i risultati probatori hanno portato qui a negare l'esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l'utilizzo del metodo mafioso, né l'esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l'associazione possedesse una propria e autonoma "fama" criminale mafiosa. Quello che è stato accertato è "un fenomeno di collusione generalizzata, diffusa e sistemica, il cui fulcro era costituito dall'associazione criminosa che gestiva gli interessi delle cooperative di Buzzi attraverso meccanismi di spartizione nella gestione degli appalti del Comune di Roma e degli enti che a questo facevano capo. Ciò ha portato alla svalutazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di accaparramento a vantaggio di privati". I fatti "raccontano" anche di imprenditori che hanno accettato una logica professata da Buzzi e dai suoi sodali, basata sugli accordi corruttivi, intercorsi tra funzionari pubblici e imprenditori, convergenti verso reciproci vantaggi economici. In questo modo si è limitata la libera concorrenza e ciò è avvenuto attraverso forme di corruzione sistematica, ma non precedute da alcun metodo intimidativo mafioso".

 “Mafia Capitale”, i giudici: «Non c’è traccia di metodo mafioso». Simona Musco su Il Dubbio il 12 giugno 2020. Le motivazioni della sentenza: «un “sistema” gravemente inquinato dal mercimonio della pubblica funzione. ma senza alcuna forma di intimidazione». Affermare che “Mafia Capitale” non sia stata un fenomeno mafioso non vuol dire negare l’esistenza della mafia sul territorio romano. Bensì significa che «i risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa». È quanto affermano i giudici di Cassazione nelle motivazioni della sentenza “Mafia Capitale”, depositate oggi. Un’inchiesta, quella condotta dall’allora capo della Procura Giuseppe Pignatone, che ha di fatto ha cambiato le sorti della politica capitolina, spianando la strada al M5S. Ma stando a quanto scrive la Cassazione, la parte fondamentale di quella teoria accusatoria era infondata. L’errore della Corte d’Appello, scrivono i giudici, è soprattutto essersi richiamata alle decisioni della Cassazione in sede cautelare, «affermando apoditticamente la identità dei fatti». Una valutazione «gravemente erronea», in quanto «non solo non risulta la disponibilità di armi, ma neanche sono state dimostrate nel giudizio le strette relazioni con altri gruppi mafiosi», escluse dalla stessa motivazione della sentenza d’appello, mentre lo sfruttamento della forza d’intimidazione «è circostanza che questa Corte di Cassazione, nelle sentenze citate, basava su di un determinato materiale indiziario, ma che il Tribunale, sulla scorta dell’istruttoria dibattimentale, che certo non è stata di mero completamento di prove formate in fase di indagine, ha smentito». Insomma, i fatti che avevano portato la Cassazione a confermare la necessità del carcere per gli imputati «non sono affatto i medesimi emersi in dibattimento ed accertati dal primo giudice». Ovvero le indagini avevano fornito un quadro di gravità poi smentito dalle prove. «La complessa sentenza – affermano i giudici – ha ripercorso le fasi del processo ed esaminato i numerosi motivi di ricorso, fissando alcuni principi di diritto sia in tema di associazione mafiosa, sia nella materia dei reati contro la pubblica amministrazione». E le evidenze probatorie hanno portato ad escludere il carattere mafioso dell’associazione contestata agli imputati, riaffermando l’esistenza, già ritenuta nel processo di primo grado, «di due distinte associazioni per delinquere semplici: l’una dedita prevalentemente a reati di estorsione, l’altra facente capo a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell’amministrazione comunale romana ovvero in enti a questa collegati». A processo c’erano 32 imputati, di cui 17 condannati a vario titolo dalla Corte d’Appello di Roma, a settembre del 2018, per associazione a delinquere di stampo mafioso, con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno. L’accusa avanzata dalla procura di Roma era quella di aver costituito una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. Si tratta, invece, di «un fenomeno di collusione generalizzata, diffusa e sistemica, il cui fulcro era costituito dall’associazione criminosa che gestiva gli interessi delle cooperative di Buzzi attraverso meccanismi di spartizione nella gestione degli appalti del Comune di Roma e degli enti che a questo facevano capo. Ciò ha portato alla svalutazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di accaparramento a vantaggio di privati». Un quadro non meno grave di quello delineato dall’ipotesi accusatoria, che però aveva attribuito alle due associazioni caratteri tipici della criminalità organizzata di stampo mafioso, le cui modalità di azione non emergono però, secondo la sentenza, dalle indagini svolte.  Ciò che emerge è «un “sistema” gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione. Una parte dell’amministrazione comunale si è di fatto “consegnata” agli interessi del gruppo criminale che ha trovato un terreno fertile da coltivare». Alcuni imprenditori hanno «accettato una logica professata da Buzzi e dai suoi sodali, basata sugli accordi corruttivi, intercorsi tra funzionari pubblici e imprenditori, convergenti verso reciproci vantaggi economici. In questo modo si è limitata la libera concorrenza e ciò è avvenuto attraverso forme di corruzione sistematica», che, però, non sono state precedute «da alcun metodo intimidativo mafioso». Confermata la responsabilità penale di quasi tutti gli imputati per una serie di gravi reati contro la pubblica amministrazione, oltre che per la partecipazione alle associazioni criminali, ribadendo sotto questi profili le precedenti decisioni di merito. Per alcuni è necessario tornare in appello per un nuovo giudizio sulla responsabilità per reati contro la pubblica amministrazione, mentre nella maggioranza dei casi per una rideterminazione della pena a seguito dell’esclusione del carattere mafioso delle due associazioni criminose.

Mafia Capitale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione "Mafia Capitale" è un termine usato per definire un sistema criminale presente a Roma, soprannominato anche "Mondo di Mezzo", dalle parole di Massimo Carminati, uno degli imputati.

Le indagini. Il 2 dicembre 2014 vengono arrestate 28 persone, tra le quali Massimo Carminati, un ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari e Salvatore Buzzi. Le indagini riguardano corruzione, estorsione, usura e riciclaggio.

Il processo.

La sentenza di primo grado. Il 20 luglio 2017, in primo grado non viene accolta l'accusa di associazione di stampo mafioso, ma solo quella di corruzione. In seguito a questo, Massimo Carminati viene tolto dal regime di carcere duro, il 41 bis, riservato ai detenuti mafiosi e al quale era sottoposto dal dicembre del 2014.

Il processo d'appello. Il 6 marzo 2018 inizia il processo d'appello. I PM sostengono ancora che si tratta di un'associazione di stampo mafioso. L'accusa chiede la detenzione a 25 anni per Buzzi e 26 anni per Carminati, inoltre chiede il ripristino dell'articolo 416bis. L'11 settembre 2018 la terza sezione della Corte d'Appello di Roma ripristina il disposto dell'art. 416 bis c.p., riconoscendo la sussistenza del "metodo mafioso". La Corte d'Appello di Roma condanna Buzzi e Carminati a 18 anni e 4 mesi di reclusione per il primo e 14 anni e 6 mesi per il secondo.

Roma e la sua mafia che c'è e non c'è, scrive il 16 giugno 2018 su "La Repubblica" Raffaella Fanelli - Giornalista e scrittrice. Ascoltare il male, toccarlo, annusarlo. Lo faccio danni, da sempre.  Con un registratore e un mestiere che mi ha permesso e mi ha imposto di stare in mezzo ai fatti. Di raccontarli. Anche attraverso la voce di stragisti, di mafiosi, di pentiti e figli di boss, incensurati o condannati come i loro padri.  Perché sono loro a conoscere la verità. Loro a sapere i nomi dei mandanti. Per questo li ho cercati. E per questo ho cercato Maurizio Abbatino, l'ex boss della banda della Magliana. Perché il Freddo non è semplicemente un ex capo o un ex pentito, è l'ultimo boss vivente di un'associazione mafiosa che ha governato, ucciso e deciso. E non solo a Roma. Perché la Banda della Magliana non è stata soltanto una gang criminale ma la struttura importante di un'organizzazione ben più vasta che godeva di inquietanti protezioni in Italia e all'estero grazie ai rapporti con i servizi segreti, la mafia e la massoneria. Ne "La verità del Freddo", il libro intervista pubblicato da Chiarelettere, l'ex boss si racconta. Rivela fatti accertati e altri che meriterebbero nuove indagini. Come quelli svelati sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini, sul sequestro di Aldo Moro, sulla morte di Franco Giuseppucci, sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.  Il Freddo della Banda della Magliana racconta la mafia a Roma nonostante sentenze passate e recenti abbiano fatto a gara per negarla: "Tutte le organizzazioni mafiose presenti sul territorio nazionale hanno da sempre interessi nella capitale. La mafia a Roma c'è, e c'è sempre stata".  Questo mi dichiara Maurizio Abbatino. Le sue confessioni si intrecciano con verbali e ricerche, con la storia di un uomo che sa e che risponde a domande non concordate né patteggiate. Mi sono seduta di fronte a lui e ho ripercorso la sua vita all'inizio con la sola ansia di sapere. Di farmi dire il più possibile. Perché da subito, per la giornalista, è stata l'ennesima sfida, l'ennesima ricerca di nomi e di verità che vuoi assolutamente scoprire. E il Freddo non è il vigliacco ex brigatista o il coniglio mafioso, l'ex boss pentito non ritratta, piuttosto omette, "perché di ogni cosa che scriverai ti verrà chiesto conto". Non credo che si riferisse a proiettili imbustati o peggio a lupare fumanti, ma a querele. Perché oggi un giornalista che scrive di fatti veri e verificabili, ma scomodi, non viene minacciato ma querelato.  Mi sono imposta di analizzarlo in freddezza, col bisturi, come ho sempre fatto, e davanti alle immagini di un passato di sangue ho visto l'indifferenza e la ferocia di un giovane boss mentre nella voce di chi raccontava ho toccato la delusione e la rabbia di un collaboratore di giustizia "scaricato" da uno Stato che avrebbe dovuto tutelarlo e proteggerlo. Questi erano i patti. Con le rivelazioni di Abbatino, il giudice Otello Lupacchini (che firma la postfazione de "La verità del Freddo") nel 1993 smantellò la banda della Magliana attraverso l'inchiesta "Operazione Colosseo". Il magistrato scrisse un fascicolo grosso come un elenco telefonico: cinquecento pagine zeppe di date, di nomi e di prove che consentirono di ridisegnare la mappa dell'organizzazione malavitosa romana e di stabilire con precisione ruoli e responsabilità dei vari componenti.  Dopo 22 anni il giudice Otello Lupacchini torna a scrivere di Abbatino. E' l'unico ad esporsi quando nel settembre del 2015 il collaboratore viene estromesso dal programma di protezione. Non perché abbia commesso dei reati, semplicemente perché per lo Stato Abbatino può reinserirsi nel tessuto economico e sociale, trovarsi un lavoro onesto, affittarsi una casa, tutto ovviamente col nome di Maurizio Abbatino, 63 anni, ex boss ai domiciliari per malattia. Una decisione che arriva quando a Roma è in corso il processo per Mafia Capitale con imputato Massimo Carminati, un uomo che Abbatino conosce benissimo. Fu il Freddo ad accusarlo dell'omicidio Pecorelli, sempre lui ad accusarlo di aver depistato le indagini sulla strage di Bologna... Da queste accuse Carminati è stato assolto, ancor prima del suo illustre coimputato, Giulio Andreotti. E quando Carminati il 3 aprile del 2017 ricorda il suo ex amico nell'aula bunker di Rebibbia nessuno muove un dito. Nessuno chiede e si chiede il perché il Nero abbia ancora così tanto astio nei confronti dell'ex boss, così tanta rabbia da ipotizzare un assurdo complotto ai suoi danni, ordito proprio da Abbatino. Non solo a chi scrive di mafia anche ai magistrati è ben chiaro l'importante ruolo dei collaboratori. Vanno tutelati. Non vanno lasciati alla mercé di chi hanno contribuito a mandare in carcere. I   pentiti sono stati fondamentali per la lotta alla mafia, e i magistrati questo lo sanno bene.  Giovanni Falcone lo ammise pubblicamente dopo aver messo nero su bianco le dichiarazioni di Tommaso Buscetta: " Prima di lui, non avevo - non avevamo - che un'idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro". Ad Abbatino è stata rifiutata anche la richiesta di mantenere la sua identità di copertura, gli hanno tolto anche il nome che è stato suo per quasi trent'anni, che gli ha permesso di allontanarsi dal Freddo e da quello che faceva prima. E lo hanno fatto quando Carminati lo ha ricordato nell'aula bunker di Rebibbia, durante il processo Mafia Capitale. Una inquietante contemporaneità che emerge dalle pagine de "La verità del Freddo" insieme a fatti e prove di una mafia che ha messo le sue radici anche a Roma. Il libro: “La verità del Freddo. La storia. I delitti. I retroscena. L'ultima testimonianza del capo della banda della Magliana”, Chiarelettere.

Tutte le mafie portano a Roma, scrive Andrea Palladino su "La Repubblica" il 17 ottobre 2017. Ha la forma di una raggiera, con divisioni in assi di potere. Non solo zone, ma corridoi che, alla fine, convergono tutti verso Roma. Partono dal litorale, dove gli stabilimenti balneari sono turbine che fanno girare milioni di euro. Dal sud pontino, con i locali à la mode, dove tra cene con vista sul Circeo si stringono alleanze imprenditoriali e criminali. Tavolini a tre o quattro gambe, accordi di spartizione. Dai Castelli romani, chiamati qualche anno fa la “porta del Venezuela”, il varco spalancato alle droghe. E, come dice il proverbio, alla fine tutte le strade portano a Roma. Sarebbe un errore pensare alle mafie del Lazio come ad uno scenario a macchie, con isole infelici e zone stagne. Lo cosche sono, da sempre, fluide, mobili, opportunistiche. Quando nel 2009 scoppiò il caso Fondi – la città in provincia di Latina che il prefetto Bruno Frattasi voleva sciogliere per mafia – l'allora pm antimafia della Dda di Roma Diana De Martino stava sviluppando l'indagine Damasco. Pochi anni dopo seguirono i sequestri dei beni, da leggere come una sorta di mappa economica. Se segui i soldi, trovi che gli investimenti arrivavano fino nel cuore borghese della capitale, con villette ai Parioli. Fondi era – e in parte ancora è – la tappa obbligata dei tour elettorali per le elezioni regionali. Qui i candidati del centrodestra passavano per i bagni di folla, controllati a vista da improbabili agenzie di security. E, tra Latina e Frosinone, nel sud del Lazio, dove comandano le cosche di 'ndrangheta e camorra si contano i voti decisivi per decidere chi governerà la regione. Se il cuore della 'ndrangheta che parla romano è sul litorale tra Anzio e Nettuno, il mercato della coca gestito dalle cosche calabresi segue la via delle grandi borgate della zona est della capitale. San Basilio, Alessandrino sono lo scenario dove si sono saldate alleanze storiche tra i Gallace – a capo della Locale nel sud della provincia di Roma – e la famiglia Romagnoli, romani doc. Scambi di favore, alleanze, cartelli per la gestione delle piazze di spaccio. Questa è “Cosca capitale”. Un omicidio apparentemente di periferia, che occupa poche righe sulle pagine di cronaca, può essere la spia di movimenti importanti. Era accaduto nel 2009, a Velletri, sessantamila abitanti, sede del secondo Tribunale per importanza del Lazio. Alle otto di sera un motorino avvicina Luca De Angelis, detto Tyson, noto spacciatore della zona. Uno tosto, scafato, che cambiava cellulare in continuazione, raccontano gli investigatori. Pochi colpi sul volto e cade a terra. Si scoprirà solo anni dopo che quell'omicidio era nato in un contesto mafioso ben chiaro. Era l'inizio di una lunghissima scia di sangue, con altri agguati, in una escalation che finirà solo molti mesi dopo. Ancora Velletri, 2013. Sempre una moto, sempre un’agguato, questa volta contro un giovane commerciante di verdure. Uno dei killer era un romano, Carlo Gentili, catturato questa estate in Kenia dopo una lunga fuga, con sulle spalle una prima condanna della corte di Assise per quell'omicidio. Il mandante era un trafficante albanese, pronto a far uccidere chi poteva contrastare la sua ascesa da pusher di alto livello. Episodi che mostrano come i confini territoriali sono labili, appena linee sulla carta. Se questo è il mondo di sotto, lo strato alto è la vera mafia romana e laziale. Le cosche sono sbarcate con il cemento, seguendo l'espansione edilizia partita negli anni '70. Parte della manovalanza era insediata da tempo, arrivata con le migrazioni del dopoguerra, in viaggio verso la capitale, occupando le aree periferiche con baracche di fortuna. A Roma arrivano i boss di peso, da Pippo Calò fino ai capi della 'ndrina dei Gallace-Novella. Sbarcano a Fondi i Tripodo, figli dal capobastone Mico, uscito perdente dalla prima guerra di mafia a Reggio Calabria. E, negli anni '80, i Bardellino aprono la via verso la futura Svizzera dei Casalesi, la zona tra Formia e Gaeta dove anche Cipriano Chianese inizierà ad investire. A Cassino la camorra punta alla creazione di una banca, bloccata dalle indagini della Criminalpol. Nella capitale la banda della Magliana – e soprattutto quella dei Testaccini, guidata da De Pedis – partono all'assalto della diligenza. Sono loro ad inaugurare la lunga stagione delle alleanze tra le famiglie mafiose sbarcate nella capitale con le batterie criminali autoctone. Il vero patto, però, è con il sistema Roma. Commercialisti, circoli esclusivi, logge massoniche molto coperte e difficili da stanare, pezzi importanti delle forze di polizia, funzionari di banche e ministeri. Un melting pot del potere. Una macchina burocratica e amministrativa volutamente lenta, impermeabile, dove tutti conoscono tutti, dove accedi solo se invitato. E poi la politica. Tutta indistintamente. Perché Roma assorbe, ingloba, smussa differenze, stimola le alleanze più improbabili. Cresce quell'area grigia, la borghesia mafiosa che oggi è in grado di muovere centinaia di milioni di euro, pezzi di Pil. Dalla capitale a Fondi, dalle vie di San Basilio ai bar di Anzio e Nettuno. Un'unica “Cosca capitale”.

Mafia Capitale, nel processo d’appello il giudice che nega i clan. Partirà a marzo il secondo grado del processo. Fra i giudicanti anche Claudio Tortora che definì «semplici criminali» i Fasciani di Ostia, versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione, scrive Ilaria Sacchettoni il 16 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". La data non è ancora stata fissata, ma l’avvio del processo d’appello per Mafia Capitale è previsto a marzo. Quanto al collegio giudicante qualche certezza c’è già. Assieme al presidente della Terza sezione Claudio Tortora siederanno Raffaella Palmisano e Patrizia Campolo. Ma è Tortora il nome che infonde qualche ottimismo nello sterminato collegio difensivo del cosiddetto Mondo di mezzo: già presidente della seconda sezione il magistrato era a capo del collegio che, nel 2016, aveva escluso l’esistenza di una mafia a Ostia, sostenendo che difettasse «la prova della pervasività del potere coercitivo del gruppo Fasciani», versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione. Ora, la sfida argomentativa della procura riguarda proprio la lettura del fenomeno mafioso. Non c’è mafia nella Capitale avevano concluso i giudici di primo grado il 20 luglio scorso, pur distribuendo condanne pesanti a Massimo Carminati (20 anni), Salvatore Buzzi (19) e agli altri imputati che avrebbero dato vita a una semplice organizzazione criminale. Per i pm romani invece, la città non è immune dal contagio mafioso. Basta guardare oltre gli stereotipi di una mafia «con la coppola e la lupara che spara e uccide, ovvero che parla calabrese o siciliano» per rintracciare un’organizzazione autoctona con poteri di intimidazione altrettanto efficaci di quelli di altre organizzazioni. Nel ricorso sul Mondo di mezzo l’aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli invitano i giudici «a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza della Cassazione» e a rivalutare, ad esempio, le testimonianze esitanti o apertamente reticenti di alcuni imprenditori terrorizzati all’idea di deporre su Carminati. A margine di un dibattito pubblico estivo il procuratore capo Giuseppe Pignatone aveva detto la sua: «Carminati otteneva il controllo con il metodo mafioso in quanto aveva la disponibilità della violenza. Tutti lo sapevano: aveva alle spalle un pedigree noto a Roma. Riteniamo che ci fossero le condizioni per il riconoscimento del carattere mafioso».

La rivincita di Pignatone. Sentenza d’appello: «La mafia a Roma c’è». I giudici della Corte d’Appello di Roma ribaltano la sentenza di primo grado sul Mondo di Mezzo: l’associazione per delinquere che fa capo a Buzzi e Carminati è di tipo mafioso. Ma le pene vengono ricalcolate e ridotte, scrive Giulia Merlo il 12 Settembre 2018 su "Il Dubbio". L’associazione mafiosa c’è, ma le pene vengono ridotte. I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Roma, Presidente dr. Claudio Tortora hanno letto ieri nell’aula bunker di Rebibbia (presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi) il dispositivo di una delle sentenze più attese degli ultimi anni, riuscendo di fatto a dare ragione sia all’accusa che alla difesa. La mafia a Roma c’è, ha stabilito il collegio ribaltando la decisione del luglio 2017 Tribunale Ordinario di Roma X sezione penale, III Collegio Presidente Rosanna Ianniello, Renato Orfanelli, Giulia Arcieri (che aveva riconosciuto solo l’esistenza di due associazioni per delinquere, che avevano i riferimenti in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi). Eppure, anche condannando gli imputati per un diverso e più grave titolo di reato (dal 416 c. p. al 416 bis, ovvero l’associazione mafiosa), le pene sono state ridotte. Il manovratore del “Mondo di Mezzo” Carminati, condannato in primo grado a 20 anni, si è visto ricalcolare la pena a 14 anni e sei mesi. Il “ras delle coop” Buzzi doveva scontare 19 anni, ridotti a 18 e 4 mesi. I due hanno seguito la lettura del dispositivo in videoconferenza dai penitenziari di Opera e di Tolmezzo e non hanno voluto essere ripresi dalle telecamere. I giudici, inoltre, hanno riconosciuto l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’aggravante mafiosa o il concorso esterno anche per 18 dei 43 imputati. L’esito della camera di consiglio, se da una parte ha sposato la linea dell’accusa di chiedere il riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’altra non ha invece accolto la richiesta di pena: 26 anni e mezzo per Carminati e 25 anni e 9 mesi per Buzzi (in primo grado, invece, la richiesta era stata di 28 anni per Carminati e per Buzzi di 26 anni e 3 mesi). «Massimo Carminati è un boss, così lo chiamano i criminali nelle intercettazioni, riconoscendolo come capo, obbediscono a lui perché riconoscono il suo potere criminale», aveva spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini nella sua requisitoria dello scorso 29 marzo. E ancora, «non si tratta di stabilire se a Roma c’è la mafia ma se questa organizzazione criminale rientra nel 416bis, se ha operato con il metodo mafioso che si riconosce dall’uso della violenza e intimidazione, dall’acquisizione di attività economiche e dall’infiltrazione nella pubblica amministrazione», ha spiegato la Procura, che nell’atto di appello aveva contestato solamente il mancato riconoscimento del 416 bis e dell’aggravante del metodo mafioso e dunque chiedeva una diversa lettura giuridica dei fatti ( riconoscendo non due divese associazioni per delinquere semplici ma una unica e di stampo mafioso) e non la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Linea che ha convinto la Terza Corte D’Appello. Ora ai difensori non resta che attendere il deposito delle motivazioni, per valutare gli estremi per un ricorso in Cassazione.

IL PRIMO GRADO. Nel luglio dello scorso anno, la Decima sezione penale del Tribunale di Roma aveva ritenuto che esistessero due associazioni: una coordinata da Carminati e dedita ad usura ed estorsioni; la seconda composta sempre da Carminati ma insieme a Salvatore Buzzi, che invece si occupava di corrompere funzionari per ottenere appalti in favore delle coop dello stesso Buzzi. Al termine del dibattimento, le condanne erano state 41, con 5 assoluzioni. Nelle motivazioni – rovesciate nella decisione d’Appello – si leggeva che «la mafiosità» individuata dalla procura nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo non è quella «recepita dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione». Non solo, il tribunale non aveva individuato «per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose» e «le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità autonoma». Nessun margine di equivoco, almeno per i giudici del primo grado, riguardo la non “mafiosità” delle condotte. Gli stessi giudici, però, avevano scelto una linea di severità nell’indicazione delle pene: 20 e 19 anni per Carminati e Buzzi e a nessuno dei 46 imputati il riconoscimento di alcuna attenuante generica. Tanto che l’avvocato di Carminati, Giosuè Naso, aveva parlato di «Pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato dato alla procura» nel non riconoscere l’associazione per delinquere di stampo mafioso. La Corte d’Appello, invece, sembra aver optato per la linea opposta: riconosce l’associazione mafiosa, ma ricalcola le pene in senso favorevole agli imputati.

LE REAZIONI. «Le sentenze vanno rispettate. Lo abbiamo fatto in primo grado e lo faremo anche adesso. La Corte d’Appello ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso». Questo il commento a caldo del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, al quale ha fatto eco il Procuratore generale Giovanni Salvi, definendo la sentenza «il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell’esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie». Opposte, invece, le reazioni dei difensori dei due principali imputati, che in primo grado avevano ottenuto la vittoria dell’esclusione della “mafiosità” delle condotte. «È una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese», ha commentato il difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, sottolineando il fatto che «i magistrati hanno avuto l’atteggiamento di Ponzio Pilato, quello del “mezza prova mezza pena”. Siccome sanno benissimo che il fenomeno mafioso nei fatti non è minimamente configurante si sono messi una mano sulla coscienza riducendo dove hanno potuto i trattamenti sanzionatori». Ancora più duro il difensore di Carminati, Bruno Giosuè Naso, che ha definito «una sorpresa» la sentenza: «L’insussistenza dell’accusa mafiosa mi sembrava inattaccabile: mi sbagliavo. Se persino questo collegio, che è uno dei migliori della Corte d’Appello, ha riconosciuto l’aggravante mafiosa o io dopo 50 anni di attività professionale non capisco più nulla di diritto, oppure è successo qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza». Plauso per la decisione del giudici d’appello, invece, è stato espresso dal mondo politico, in particolare dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. «Questa sentenza conferma che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. È quello che stiamo facendo», ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, presente in aula. «È una sentenza storica che certifica l’esistenza di un’organizzazione criminale tollerata dalla vecchia politica capitolina», ha aggiunto Giulia Sarti, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio. Tra i dem, il primo a ringraziare la procura «per il grande lavoro» è Matteo Orfini. Il senatore Franco Mirabelli, invece, ha sottolineato come «dopo tanti anni il negazionismo di chi ha sostenuto che a Roma non ci fosse la mafia è stato sconfitto».

Roma, Mafia Capitale: era davvero mafia! La sentenza d'appello ribalta il primo grado: riconosciuta l'associazione a stampo mafioso, anche se pene ridotte per Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, scrive l'11 settembre 2018 Panorama. A Roma c'era davvero un'organizzazione mafiosa che ha controllato il territorio per anni, con infiltrazioni nel mondo istituzionale. Questo secondo la sentenza della Corte d'appello di Roma sull'inchiesta sul "Mondo di Mezzo - Mafia Capitale", che ribalta la sentenza di primo grado. Dimezza le pene ma riconosce l'aggravante mafiosa. Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, la cupola del sistema delle cooperative romane, sono condannati riconoscendo loro il 416 bis, cioè l'associazione mafiosa.

La sentenza d'appello. Il processo d'appello è iniziato il 6 marzo 2018. L'11 settembre 2018 la terza sezione della Corte d'appello di Roma, presieduta dal giudice Claudio Tortora, riconosce l'accusa di metodo mafioso, ancora rivendicata dai pm. Per alcuni degli imputati viene riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso, prevista dall'articolo 416 bis del codice penale. Massimo Carminati è condannato a 14 anni e sei mesi (invece dei 20 anni in primo grado), Salvatore Buzzi a 18 anni e 4 mesi (invece dei 19 anni in primo grado). Oltre che per Carminati e Buzzi, i giudici hanno riconosciuto l'associazione a delinquere di stampo mafioso, l'aggravante mafiosa o il concorso esterno, a vario titolo, anche per Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). Condannati anche Paolo Di Ninno (6 anni e 3 mesi), Agostino Gaglianone (4 anni e 10 mesi), Alessandra Garrone (6 anni e 6 mesi), Luca Gramazio (8 anni e 8 mesi), Carlo Maria Guaranì (4 anni e 10 mesi), Giovanni Lacopo (5 annu e 4 masi), Roberto Lacopo (8 anni), Michele Nacamulli (3 anni e 11 mesi), Franco Panzironi (8 anni e 4 mesi), Carlo Pucci (7 anni e 8 mesi) e Fabrizio Franco Testa (9 anni e 4 mesi). Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha così commentato la sentenza su Twitter: "Criminalità e politica corrotta hanno devastato Roma, responsabili giusto che paghino. Noi proseguiamo il nostro cammino sulla strada della legalità".

Il primo grado. Il 20 luglio 2017, invece, la decima Corte del tribunale di Roma in primo grado aveva fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa: una vicenda di mafia, in cui la mafia non c'era. Aveva condannato a 20 anni di reclusione comminata Massimo Carminati, l'ex membro dei Nuclei armati rivoluzionari considerato ai vertici dell'organizzazione che, secondo la Procura romana, per anni ha condizionato le istituzioni capitoline. A Salvatore Buzzi, il suo braccio destro, accusato di corruzione e turbativa d’asta con l’aggravante del metodo mafioso, 19 anni di carcere. 11 anni sia per Luca Gramazio che per Riccardo Brugia. A Franco Panzironi, accusato di corruzione aggravata dall’aver favorito la associazione mafiosa, 10 anni. Dure condanne, ma che non confermavano l'accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un'organizzazione criminale di stampo mafioso. Il processo era iniziato il 5 novembre 2015.

Come nacque l'indagine Mafia Capitale. Era fine 2014 quando partì il blitz. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo a essere bloccato nell'operazione "Mafia Capitale", il 2 dicembre, era stato il capo del clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana. Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra le 36 persone arrestate c'era Salvatore Buzzi, considerato il braccio destro di Carminati. Nel tempo l'indagine ha coinvolto anche Gianni Alemanno, sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Il 7 febbraio 2017 era stata archiviata l'accusa nei suoi confronti di concorso esterno in associazione mafiosa. Erano rimaste in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine. 

Mafia Capitale: sentenza Appello su Mondo di Mezzo. Le critiche: “Carminati e Buzzi? Cambiato il reato...” Mafia Capitale, oggi sentenza d'Appello: ultime notizie, ribaltate condanne per Carminati e Buzzi. Ridotti gli anni di carcere ma c'è "associazione a delinquere di stampo mafioso", scrive l'11 settembre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Secondo Massimo Bordin, giornalista ed ex direttore di Radio Radicale, quanto avvenuto con la sentenza di Secondo Grado per Mafia Capitale è uno di quei dispositivi destinati a fare giurisprudenza. E non in positivo: «il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”», scrive Bordin in un primo commento a caldo sul Foglio. È come se fosse stato “cambiato” il reato di mafia e dunque, riducendo tutto alle massime estremizzazioni, si potrebbe dire che d’ora in poi “tutto può essere mafia”. In conclusione Bordin sottolinea ancora un punto, «Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto». 

ECCO PERCHÈ LO SCONTO DI PENA PER CARMINATI E BUZZI. Come abbiamo accennato nel dare la notizia della sentenza in Corte d’Appello, le pene per i due massimi imputati nel processo Mondo di Mezzo, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, sono state ridotte nonostante sia stata provata la loro “mafiosità”. Il motivo è semplice, come spiega l’Huffington Post dopo aver sentito gli avvocati Vasaturo (avvocato di Libera, costituitosi parte civile) e Diddi (legale di Buzzi): «Oltre a quello disciplinato dal 416 bis gli imputati erano accusati anche di una serie di altri reati, alcuni dei quali legati alla corruzione. Nel processo di primo grado l'accusa di associazione a delinquere era caduta mentre, invece, erano rimaste in piedi alcune delle altre. Il cumulo delle pene di quei reati, quindi, aveva portato a una condanna più pesante rispetto a quella dell'Appello, almeno per Buzzi e Carminati». Per quanto riguarda le altre condanne, riconosciuto l’associazione a delinquere di stampo mafioso anche per Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi per l’ex braccio destro di Carminati), Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). 

LEGALE DI CARMINATI: “O NON CONOSCO DIRITTO O SENTENZA STRAVAGANTE”. Dopo la sentenza della terza sezione della Corte d'Appello di Roma, presieduta da Claudio Tortora, che ha riconosciuto l'aggravante mafiosa nell'indagine "Mondo di Mezzo" meglio nota come Mafia Capitale, a mostrare perplessità è l'avvocato difensore dell'ex Nar Massimo Carminati. Come riportato da La Repubblica, il legale Giosuè Naso ha dichiarato: "L'insussistenza dell'associazione mafiosa mi sembrava inattaccabile, mi sbagliavo. Questo collegio ha invece riconosciuto la sussistenza della mafia. Se anche questo collegio, che è uno dei migliori della corte d'appello, ha riconosciuto l'aggravante mafiosa e la mafiosità di questa associazione o io dopo 50 anni di attività professionale non conosco più nulla di diritto, il che ci può stare benissimo, oppure c'è qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza". Sul procedimento ha poi ribadito: "E' un processetto". (agg. di Dario D'Angelo)

L'avvocato di Buzzi: "Da oggi pericoloso vivere in Italia": "Quanto accaduto è grave, è un fatto assolutamente stigmatizzabile l'aver riconosciuto in questa roba la mafia. Vedo che per molti cittadini da oggi è molto pericoloso vivere in Italia, è una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese". Così l'avvocato difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, parlando a margine della lettura del dispositivo della sentenza d'appello. Diddi ha poi aggiunto: "Il collegio ha riconosciuto la associazione di stampo mafioso, ma ha ridotto il trattamento sanzionatorio che era stato applicato in primo grado. Noi abbiamo da sempre sostenuto che il tribunale fosse andato con la mano pesante su diverse condotte". Francesco Salvatore per repubblica.it 11 settembre 2018

RAGGI CONTRO IL PD. «La Corte d'Appello di Roma ha accolto l'impugnazione della Procura generale e della Procura della Repubblica di Roma e ha riconosciuto il carattere mafioso dell'associazione. Questo è il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell'esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie, che devono necessariamente essere accompagnate dalla crescita della coscienza civile e dal risanamento della struttura della pubblica amministrazione»: così ha spiegato il procuratore generale Giovanni Salvi dopo la sentenza d’Appello dal carcere di Rebibbia. Molto polemica invece il sindaco di Roma, Virginia Raggi, che senza “citarli” attacca a testa bassa il Partito Democratico della Capitale: «Questa sentenza conferma la gravità di come il sodalizio tra imprenditoria criminale e una parte della politica corrotta abbia devastato Roma», ha dichiarato la prima cittadina M5s che era presente ala lettura della sentenza. Non solo, «Conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. E' quello che stiamo facendo e continueremo a fare per questa città e i cittadini».

PM SODDISFATTI. La sentenza odierna della Corte d’Appello segna un punto importante nella vicenda giudiziaria conosciuta come Mafia Capitale dato che, rispetto al primo grado, c’è stato un vero e proprio ribaltamento, con gli imputati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi che, pur vedendosi ridotte le pene, si sono pure visti attribuire l’aggravante mafiosa per le proprie condotte: “La Corte ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso” ha detto soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini circondato da un nugolo di giornalisti. “Un nostro successo? Non ho una visione agonistica dei processi” si è schernito invece il pm Luca Tescaroli a proposito di quello che è un successo dei pm in merito al processo a quello che nella vulgata giornalistica oramai era conosciuto come il Mondo di Mezzo che imperava a Roma: e facendo eco al suo collega si è detto pure lui soddisfatto che i giudici dell’Appello “abbiano riconosciuto il lavoro che abbiamo svolto”. (agg. di R. G. Flore)

Mafia Capitale, Pignatone: "Roma non è Palermo, il problema più grave resta la corruzione". "Sì, era mafia ma Roma non è Palermo". "Il problema più grave resta la corruzione". Così il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sulle sentenza d'appello per Mafia capitale in due interviste a Il Corriere della Sera e a La Repubblica. Pur essendo il "Mondo di mezzo" "un gruppo che utilizzava il metodo mafioso, questo come gli altri gruppi inquisiti o condannati per associazione mafiosa, dai Fasciani agli Spada, ai Casamonica, non sono paragonabili a Cosa nostra, alla 'ndrangheta o alla camorra. E Roma - ha affermato parlando con il Corriere - non è Palermo, né Reggio Calabria né Napoli. L'abbiamo sempre sostenuto, anche nel parere contrario allo scioglimento del Comune per mafia", ha detto il procuratore. Quello che contraddistingue la mafosità del gruppo di Carminati e Buzzi "non è il controllo del territorio, ma il controllo di un ambiente sociale, di alcuni settori dell'imprenditoria". "La nostra elaborazione avanzata dell'associazione mafiosa era già basata su alcune pronunce della Corte suprema, che poi l'ha ribadita in altre sentenze. La corte d'appello ne ha preso atto e ha individuato un condizionamento di tipo mafioso". "Non tutti i traffici di droga si possono considerare mafiosi, così come non tutti le corruzioni. Ci dev'essere un condizionamento derivante dal vincolo associativo, ed è necessaria la "riserva di violenza" riconosciuta all'esterno. Detto questo, anche dopo questa sentenza, ripeto che a Roma il problema principale non è la mafia". E qual è? "Credo che si possa individuare in quell'insieme di reati contro la pubblica amministrazione e l'economia che va sotto il nome di corruzione ma comprende le grandi bancarotte, le grandi frodi fiscali, le grandi turbative d'asta e fenomeni correlati. La cifra di una metropoli come Roma è la complessità, anche sotto il profilo criminale. Mafia capitale è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato". "Io fui il primo - ha detto Pignatone a Repubblica - dopo gli arresti, a esprimere parere contrario allo scioglimento per mafia dell'assemblea capitolina. Proprio perché sostenevo che la peculiarità di Mafia Capitale era tale che si poteva ritenere cessata l'associazione mafiosa nel momento in cui era stata disarticolata". Come è possibile che la Corte di Appello, pur riconoscendo il reato più grave di mafia, abbia poi ridotto le pene? "Le pene per il 416 bis sono state modificate in senso più afflittivo successivamente agli arresti del dicembre 2014. Noi abbiamo ritenuto che le nuove pene, più alte, potessero applicarsi perché ritenevamo che l'associazione a delinquere, formalmente, dovesse essere considerata "attiva" fino al pronunciamento della sentenza di primo grado. L'Appello, al contrario, penso abbia ritenuto che Mafia Capitale sia cessata al momento degli arresti e dunque che il calcolo delle pene andasse fatto con le vecchie norme". Agi 12 settembre 2018

 RICONOSCIUTA "AGGRAVANTE MAFIOSA". La sentenza è stata ribaltata ma le pene sono state ridotte: così il processo d’Appello si conclude con le importanti decisioni di questi minuti dall’aula bunker del Carcere di Rebibbia. Massimo Carminati condannato in Appello a 14 anni e sei mesi. Salvatore Buzzi 18 anni e 4 mesi: sono queste le prime condanne in Appello al processo per Mafia Capitale-mondo di mezzo che hanno due punti cruciali da segnalare subito. A differenza del Primo Grado, in questa sentenza viene riconosciuta “l’aggravante mafiosa” mentre le pene sono state ridotte, come ha spiegato l’avvocato di Carminati, perché sono state eliminate alcune recidive passate. «Nel primo processo l'aggravante mafiosa cadde perché, come si leggeva nelle motivazioni, l'applicazione letterale del 416bis non era possibile», scrive Repubblica: per le decisioni di oggi invece bisognerà attendere le motivazioni tra 100 giorni, ma intanto le rispettive difese di Buzzi e Carminati continuano a ribadire, «questo è un processino cui però vengono condannati con pene mostruose, altro che alte, i nostri assistiti». 

ATTESA PER BUZZI E CARMINATI. L’hanno chiamata Mafia Capitale fin da subito, eppure dopo le condanne in Primo Grado quell’appellativo andava abolito visto che i giudici della III sezione di Roma avevano esclusa l’aggravante del metodo mafioso e dell’associazione a delinquere di stampo mafioso per tutti i 41 condannati (sui 46 imputati, ndr). Nel 2017 venne riconosciuta l’esistenza di due associazioni a delinquere “semplici” che avevano in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi i due punti di riferimento. Per l’ex Nar i giudici avevano sentenziato 20 anni di reclusione per “corruzione” ma non per “aggravante mafioso”; per il “re delle cooperative romane” invece il magistrato decise di condannarlo a 19 anni di reclusione per associazione a delinquere “semplice”. I giudici ora, dopo il Processo di Appello tenuto nell’ultimo anno, sono riuniti in Camera di Consiglio nell’Aula bunker del Carcere di Rebibbia: alle 13 è attesa la sentenza che potrebbe, viste le richieste dell’accusa, ribaltare completamente la decisione del Primo Grado.

MAFIA CAPITALE: LE RICHIESTE DELL’ACCUSA. Mafia Capitale-mondo di mezzo: bisognerà decidere a quale dei due “ambiti” appartengono gli imputati. Se infatti il terrorista “nero” Carminati e il ras delle cooperative avevano messo i piedi una organizzazione mafiosa, allora si concretizzerà la richiesta della accusa: per l'ex Nar il pg Pignatone ha chiesto una condanna a 26 anni e mezzo, mentre per Buzzi 25 anni e 9 mesi. Se invece viene confermata la tesi del Primo Grado, allora non si può parlare di “mafia capitale” ma di grande organizzazione criminale senza le aggravanti di rito, e senza dunque anche il regime di carcere duro (41Bis) per i condannati. Come riporta bene l’Ansa in attesa della sentenza d’Appello, «Secondo l'accusa negli anni il gruppo un tempo guidato dal solo Carminati sarebbe cresciuto, passando dalle semplici estorsioni al controllo di attività economiche, appalti e bandi pubblici. Dopo l'incontro con Buzzi, avvenuto nel 2011, ci sarebbe stato un'ulteriore salto di qualità, che avrebbe permesso all'organizzazione di condizionare politica e pubblica amministrazione». Oggi si attendono novità sulla presenza o meno di una “nuova mafia” che agiva nella Capitale.

Il fatto alternativo di Mafia capitale. Una bolla di fatti alternativi non la puoi sgonfiare, e così nel processo d’Appello si è deciso di convertire il senso di condanne già erogate nel significato simbolico che le bolle richiedono. Stavolta la mafia c’è. Ma la bufala resta lì ed è sempre grande, scrive Giuliano Ferrara l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Mafia capitale è un classico “fatto alternativo”, un caso di scuola, la bolla informativa al posto del contenuto di fatto. Anche i bambini hanno capito quel che non era difficile divinare a tutta prima e che nessuna sentenza potrà mai smentire: due o tre associazioni per delinquere a scopo di lucro (appalti, corruzione della pubblica amministrazione e della politica capitolina per segmenti, prestito a strozzo) furono smantellate da indagini giudiziarie che, per comodità e aura mediatico-politica, furono condotte con ...

E’ stato cambiato il reato di mafia, e adesso tutto può essere mafia. La sentenza pronunciata dalla Corte di appello sul cosiddetto processo Mafia Capitale contro Massimo Carminati e l’associazione a delinquere, scrive Massimo Bordin l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Ci sarà tempo per valutare più analiticamente il dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di appello che ha accolto il ricorso della procura romana sul processo Mafia Capitale, ma il cuore del problema, l’elemento che ha spostato il giudizio nel suo secondo grado sta probabilmente nell’analisi del fatto piuttosto che nella sistemazione degli elementi e dei precedenti in punto di diritto. Qui si era avvertito il lettore, all’inizio del processo d’Appello, che, dalla sentenza di primo grado, le cose in Cassazione erano mutate sul tema della utilizzabilità del reato di mafia per associazioni a delinquere attive anche lontano dai luoghi tradizionali dell’insediamento mafioso e non necessariamente connotate da pratiche esplicitamente violente. Più di una sentenza definitiva della Suprema Corte aveva convalidato decisioni di alcune Corti di appello, non solo romane, che avevano applicato estensivamente il famoso articolo 416 bis anche a piccole associazioni criminali, in più di un caso formate neppure da italiani. La giurisprudenza della Cassazione, insomma, si era mossa in controtendenza rispetto alla sentenza del tribunale su Carminati e soci. Naturalmente nella discussione il fenomeno è stato valorizzato dalla pubblica accusa e analizzato criticamente dalle difese, che hanno cercato di sganciarlo dal merito del processo romano. Qui arriviamo al punto vero che non è, o almeno non è solo, una dotta disquisizione giuridica, ma principalmente è l’interpretazione dei fatti processuali. In soldoni il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”. Non si diceva esplicitamente che anche la procura in fondo la pensava così, ma alla fine l’interpretare come artificiosa l’unificazione operata dall’accusa alludeva proprio a questo. Siccome ogni processo è fatto di persone, di storie, di comportamenti e intrecci, per parlare con cognizione di causa di questa sentenza occorre davvero aspettare di leggere come la Corte di appello li ha interpretati e combinati per contraddire sul punto di fatto decisivo la sentenza di primo grado. Comunque dal dispositivo si capisce nitidamente anche un’altra cosa. Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto.

Mafia Capitale, 20 anni a Carminati e 19 a Buzzi: la lettura della condanna. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso.

Mafia Capitale, il procuratore Ielo: ''Sentenza ci dà in parte torto, ma la delusione non ci appartiene''. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo commenta la sentenza della decima sezione del Tribunale di Roma del Processo Mafia Capitale che non ha riconosciuto le accuse di associazione mafiosa.

Mafia Capitale, legale Carminati: ''Sconfitta di Pignatone, sono solo quattro cazzari''. "Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi". Lo ha detto l'avvocato di Massimo Carminati, Bruno Giosuè Naso, commentando la sentenza del processo a Mafia Capitale nell'aula bunker di Rebibbia. Interrogato poi da una giornalista, l'avvocato conferma quanto detto tempo fa in merito a quella che lui stesso definisce "la banda del benzinaro": "Sono solo quattro cazzari".

Mafia Capitale, legale Buzzi: ''Provata l'inesistenza della mafiosità''. "Né Salvatore Buzzi né Massimo Carminati sono mafiosi. Questa è una pietra miliare, una lezione di diritto della quale qualcuno dovrà prendere atto". A dirlo è Alessandro Diddi, l'avvocato di Salvatore Buzzi, al termine della lettura della sentenza di Mafia capitale che ha condannato il ras delle cooperative a 19 anni di reclusione. "Erano i pubblici ufficiali a rivolgersi a Buzzi, e non lui a intimidirli", ha sottolineato il legale.

L'avvocato di Massimo Carminati Giosuè Naso, al termine della sentenza che ha visto decadere l'accusa per associazione mafiosa del suo assistito, nell'aula bunker di Rebibbia ingaggia una lite con un funzionario di polizia e viene portato via. La figlia Ippolita, anch'essa avvocata, chiede ironicamente se il padre sia stato arrestato. Contattato successivamente al telefono, l'avvocato Naso ha fatto sapere che si sarebbe trattato di "sciocchezze", senza fornire ulteriori spiegazioni.

Roma. “Mafia Capitale”…anzi no! Adesso bisognerà cambiare nome…?!? Scrive il 20 luglio 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caduta l’associazione mafiosa richiesta dalla procura romana. E’ stata vana la inutile passerella del Sindaco di Roma Virginia Raggi. La decisione della 10ma sezione penale del Tribunale di Roma è la sconfitta delle etichette della informazione “forcaiola” e serva della pessima politica. Nella sentenza è stata esclusa sia la natura del sodalizio mafioso ex art 416 bis del codice penale, sia la presenza dell’aggravante del “metodo mafioso” prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991 convertita con Legge 203/1991. In definitiva si è trattato il processo a due associazioni a delinquere semplici. Al termine del processo il Tribunale di Roma ha condannato Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione, 20 anni per Massimo Carminati, 11 per Luca Gramazio, ex capogruppo del Pdl in Comune. Caduta quindi l’accusa di associazione mafiosa a 19 imputati del processo a mafia capitale, tra cui i presunti capi Carminati e Buzzi. Per l’ex presidente dell’assemblea Capitolina Mirko Coratti la corte ha stabilito una pena di 6 anni di reclusione. Luca Odevaine, ex responsabile del tavolo per i migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi. Undici anni per Ricardo Brugia il presunto braccio destro di Carminati, 10 per Franco Panzironi l’ex Ad di Ama. L’ex minisindaco del municipio di Ostia, commissariato per infiltrazione mafiose, Andrea Tassone è stato condannato a 5 anni. Su 46 imputati tre sono stati assolti. Si tratta di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, per i quali la Procura aveva chiesto 16 anni di carcere, e l’ex dg di Ama Giovanni Fiscon, per il quale erano stati chiesti 5 anni. Secondo l’accusa Rotolo e Ruggiero avrebbero garantito i contatti tra “Mafia Capitale” ed ambienti della ‘ndrangheta. I giudici della decima Corte presieduta da Rosanna Ianniello hanno inflitto oltre 250 anni di carcere, dimezzando di fatto le pene rispetto alle richieste della Procura che aveva proposto per tutti gli imputati 5 secoli di carcere. I giudici hanno detto che “la mafia a Roma non esiste, come andiamo dicendo da 30 mesi” ha dichiarato soddisfatto l’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati. “La presa d’atto della inesistenza dell’associazione mafiosa – ha aggiunto – ha provocato una severità assurda e insolita. Mai visto che a nessuno di 46 imputati non venissero date attenuanti. Sono pene date per compensare lo schiaffo morale dato alla procura”. I giudici della X sezione del Tribunale di Roma sono stati chiamati a giudicare i 46 imputati del processo denominato “Mafia Capitale”, l’associazione che avrebbe condizionato la politica romana, guidata da l’ex Nar Massimo Carminati e dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi. Il presidente della Corte Rosanna Ianniello, prima di entrare in camera di consiglio, ha ringraziato il “personale amministrativo” del tribunale, “senza il quale non sarebbe stato possibile portare a compimento il processo” e i tecnici, che hanno “lavorato con competenze e dedizione”. Un ringraziamento, da parte del presidente, anche alla procura, in particolare al pm Luca Tescaroli, che “si è contraddistinto per la professionalità” ed agli avvocati difensori.

Mafia Roma: pm Ielo, sentenze si rispettano – “Questa sentenza riconosce un’associazione a delinquere semplice, non di tipo mafioso. Sono state date anche condanne alte. Rispettiamo la decisione dei giudici anche se ci danno torto in alcuni punti mentre in altri riconoscono il lavoro svolto in questi anni. Attenderemo le motivazioni”. Lo afferma il procuratore aggiunto Paolo Ielo dopo la sentenza della X sezione penale del Tribunale di Roma.

Carminati a legale, “avevi ragione tu, sono soddisfatto” – “Avevi ragione tu, sono soddisfatto”. Queste le parole pronunciate da Massimo Carminati parlando con la sua legale Ippolita Naso, commentando la sentenza che lo condanna a 20 anni, anziché a 28 anni, non essendo stata riconosciuta l’associazione mafiosa. L’avvocato era convinto che l’associazione mafiosa non sarebbe stata riconosciuta e così è stato. “Avevi ragione tu”, le ha quindi detto Carminati. “Ora mi devono togliere subito dal 41 bis”. E’ la prima richiesta che Massimo Carminati ha rivolto al suo avvocato subito dopo la lettura delle sentenza della X sezione penale del tribunale di Roma che non ha riconosciuto l’esistenza dell’associazione mafiosa. “Non me lo aspettavo – ha aggiunto l’ex Nar al telefono con l’avvocato – avevi ragione tu ad essere ottimista”. “Carminati temeva – ha detto l’avvocato Naso – che le pressioni mediatiche avessero portato ad un esito negativo per lui”.

Buzzi a legali, ora quando esco da carcere? – “Ora quando esco?”: questo il primo commento di Salvatore Buzzi dopo la lettura della sentenza per i 46 imputati di mafia capitale, esprimendo felicità per l’esito del processo. “Mi auguro – ha aggiunto parlando con il suo avvocato – che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire”. Condanne esemplari per tutti gli imputati per alcuni anche superiore alle richieste del pm ma non si tratta di un’associazione mafiosa. In 41 sono stati condannati e in 5 assolti.

Ecco tutte le condanne: Massimo Carminati 20 anni; Salvatore Buzzi anni 19 anni; Riccardo Brugia 11 anni; Fabrizio Testa 11 anni; Luca Gramazio 11 anni; Franco Panzironi 10  anni; Cristiano Guarnera 4 anni; Giuseppe Ietto 4 anni; Claudio Caldarelli 10 anni; Agostino Gaglianone 6 anni e 6 mesi; Carlo Pucci 6 anni; Roberto Lacopo 8 anni; Matteo Calvio 9 anni; Nadia Cerrito 5 anni; Carlo Maria Guarany 5 anni; Paolo Di Ninno 12 anni; Alessandra Garrone 13 anni e 6 mesi; Claudio Bolla 6 anni; Emanuela Bugitti  6 anni; Stefano Bravo 4 anni; Mirko Coratti 6 anni; Sandro Coltellacci 7 anni; Michele Nacamulli 5 anni; Giovanni De Carlo 2 anni e 6 mesi; Antonio Esposito 5 anni; Giovanni Lacopo 6 anni; Franco Figurelli 5  anni; Claudio Turella 9 anni; Guido Magrini  5 anni; Sergio Menichelli 5 anni; Marco Placidi  5 anni; Mario Schina  5 anni e 6 mesi; Mario Cola 5 anni; Daniele Pulcini 1 anno; Angelo Scozzafava 3 anni; Andrea Tassone 5 anni; Giordano Tredicine 3  anni; Luca Odevaine  6 anni e  6 mesi; Pierpaolo Pedetti  7 anni; Tiziano Zuccolo  3 anni e 3 mesi; Pierina Chiaravalle  5 anni.

Questi gli assolti: Giovanni Fiscon assolto; Rocco Rotolo assolto; Salvatore Ruggero assolto; Giuseppe Mogliani assolto; Fabio Stefoni assolto.

Mafia Capitale non esiste. 20 anni per Carminati ma è un "delinquente abituale". Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette la parola fine al maxi processo durato due anni. Condanne pesanti ma non per 416 bis. Nervi tesi per l'avvocato Naso che dà in escandescenze e viene portato via dalla polizia, scrive Giovanni Tizian e Federico Marconi il 20 luglio 2017 su "L'Espresso". Mafia Capitale non esiste. La storia si ripete. Come ai tempi della banda della Magliana, per il tribunale di Roma non esiste organizzazione mafiosa locale nella città eterna. Svanisce in mezz’ora, il tempo della lettura del verdetto. La Corte d’Assise ha condannato Massimo Carminati a 20 anni e Salvatore Buzzi a 19 ma non per 416 bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette così la parola fine al maxi processo durato due anni e 240 udienze. I giudici riconoscono due associazioni, semplici, con a capo Carminati. In una di queste hanno confermato il ruolo centrale di Salvatore Buzzi, braccio economico della “banda”. Secondo i giudici, inoltre, il “Cecato” è un delinquente abituale. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso. La sentenza è arrivata poco dopo le 13, in un aula gremita di giornalisti. Nelle gabbie di Rebibbia una decina gli imputati detenuti. Tre, tra cui Carminati, erano collegati dal 41 bis in videoconferenza. In fondo all’aula parenti e amici degli imputati. Tra loro Il fratello di Massimo Carminati, Sergio, e il leader di Militia Maurizio Boccacci. Alla lettura delle prime pesanti condanne alcune donne hanno pianto, altre hanno gioito per le assoluzioni. Tra i banchi delle parti civili, invece, era presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “È una giornata importante” ha commentato la sindaca appena entrata in aula, una ventina di minuti prima dell’ingresso della Corte. Raggi che oggi scopre di governare una città in cui la mafia non c’è mai stata. Dai tempi della Banda della Magliana, nessun processo ha mai riconosciuto l’associazione mafiosa ai gruppi criminali imputati. Tra i 41 condannati, pene pesanti anche per Alessandra Garrone (13 anni e 6 mesi), Fabrizio Testa (12), Luca Gramazio (11), Luca Brugia (11), Franco Panzironi (10), Luca Odevaine (8), Mirko Coratti (6 anni) e Giordano Tredicine (3). Condannato, inoltre, Andrea Tassone, ex presidente del municipio di Ostia, poi sciolto per mafia, e Luca Odevaine, il regista del business dei migranti, a 8 anni complessivi. La pena di 9 anni è stata inflitta a Matteo Calvio, detto “Spezza pollici”, ritenuto il tirapiedi del capo dell’associazione Massimo Carminati. Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ha dichiarato: «La sentenza in parte ci dà torto ma aspettiamo di leggere le motivazioni». Era evidente la delusione negli sguardi di chi ha condotto le indagini sul gruppo Carminati. Le difese, invece, nonostante le pene comunque alte, si ritengono soddisfatte della decisione della corte. Alcuni degli imputati a piede libero hanno esultato, uno di loro rivolgendosi all’inviato di Repubblica ha chiesto: «E mo che vi inventate?». Mezz’ora dopo la lettura della sentenza, la tensione non è calata. Nervi tesi per l’avvocato di Carminati, Domenico Naso. Dopo la soddisfazione per il verdetto che cancella il reato di mafia, l’avvocato ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono accesi e c’è stato un battibecco con l’agente, che ha chiesto a Naso di seguirlo al posto di polizia. L'avvocato Naso, legale di Carminati va in escandescenza alla fine della sentenza. Ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono esasperati e l'avvocato è stato portato al posto di polizia. Alla fine il dirigente della polizia ha calmato la situazione.

Perché "Mafia Capitale" è stata archiviata. Tra i 113 prosciolti anche Alemanno e Zingaretti. Ecco chi erano gli indagati e perché sono stati scagionati, scrive l'8 febbraio 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama.  Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi "elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio" e così la posizione di 113 indagati nell'inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste. L'ex sindaco Gianni Alemanno, scagionato. L'ex amministratore delegato di Eur S.p.A, Riccardo Mancini, scagionato. E scagionati anche gli avvocati Michelangelo Curti, Domenico Leto e Pierpaolo Dell'Anno. Idem per il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro. Disposta in camera di consiglio la restituzione degli atti al pubblico ministero di Salvatore Forlenza, Salvatore Buzzi, Carminati e Giovanni Fiscon, all'epoca direttore generale della municipalizzata, dell’ex presidente della commissione Bilancio del comune, Alfredo Ferrari e dell’ex consigliere comunale della lista civica “Marino sindaco” Luca Giansanti. L'elenco è lungo, i nomi si sprecano. Le accuse, no. Il blitz era partito nel 2014 con gli arresti delle prime 37 persone. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo ad essere bloccato infatti nell'operazione "Mondo di mezzo" era stato il già citato capo del Clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana, sotto processo per il 416bis, e ora invece scagionato dalla contestazione di associazione per delinquere finalizzata a rapine e riciclaggio (come per Ernesto Diotallevi e Giovanni De Carlo, che erano sospettati di essere a Roma i referenti di Cosa Nostra, oggi salvi). Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra quei nomi c'era anche quello di Gianni Alemanno. In particolare per l'ex sindaco di Roma le accuse erano più di una: corruzione e illecito finanziamento. Ma nei suoi confronti dell'ex sindaco i pm contestavano anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, appunto, e quello di aver ricevuto somme di danaro per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, attraverso la fondazione Nuova Italia di cui era presidente. In ballo, 125 mila euro per i fondi illeciti ricevuti tra il 2012 ed il 2014. Alemanno poi avrebbe preso anche 75 mila euro camuffati da finanziamento per cene elettorali, 40 mila euro che gli sarebbero stati erogati per la Nuova Italia, più altri 10 euro ma senza una causale. Ma, se di mafia non si può più parlare, per lui restano ancora in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine per cui andrà a processo a maggio prossimo. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, era saltato fuori invece come indagato per sospetto concorso in corruzione per due episodi risalenti 2011 e nel 2013 e per turbativa d'asta a causa delle dichiarazioni di Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa di ex carcerati “29 Giugno” a capo anche lui di un’organizzazione di tipo mafioso. Principale imputato nell'inchiesta, Buzzi avrebbe raccontato alla magistratura ciò che c'era dietro il nuovo palazzo della Provincia dell'Eur, ossia che l'amministratore Zingaretti avrebbe acquistato prima della sua costruzione. In archivio alcune accuse anche per Maurizio Venafro, indagato per corruzione, la ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi, indagata per concorso in corruzione, l'ex consigliere comunale della lista Marchini, Alessandro Onorato, anche lui indagato per concorso in corruzione, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, per turbativa d'asta, e per l'ex delegato allo sport della Giunta Alemanno Alessandro Cochi. Nell'elenco dei prosciolti figurano anche i nomi degli imprenditori Luca Parnasi, Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak e Gianluca Ius, e poi Leonardo Diotallevi, figlio di Ernesto, l'allora capo della segreteria personale di Alemanno Antonio Lucarelli e l'ex consigliere di Roma Multiservizi Stefano Andrini. Resta accusato di mafia invece il consigliere regionale di Forza Italia, Luca Gramazio che il gip Flavia Costantini, nell'ordinanza che ha portato al suo arresto nel 2015 sosteneva: "Mette al servizio dell'organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l'organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Testa, Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell’associazione". Niente mafia insomma, o quasi. Perché, come scrive Andrea Feltri su La Stampa, la Piovra che ha stritolato Roma è solo un moscardino.

L'insano sollievo. L'editoriale di Mario Calabresi del 21 luglio 2017 su “La Repubblica". La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa. Quando la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura. Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti. Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali. Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi. Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso. Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.

Mafia Capitale da oggi è Mazzetta Capitale: la sconfitta della Procura e l’esultanza dei condannati. La sentenza di primo grado stabilisce che non si è trattato di associazione mafiosa, ma di associazione «semplice». Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni, l’apporto dell’ex estremista nero Carminati al sistema corruttivo del rosso Buzzi, scrive Giovanni Bianconi il 20 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Non era un’associazione mafiosa, bensì un’associazione per delinquere «semplice». Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l’altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l’ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta capitale. Un sistema nel quale più dell’assoggettamento e dell’intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali. Un «mondo di mezzo» diverso da quello disegnato dall’accusa, che aveva sommato la «riserva di violenza» garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più «normale», accettabile e digeribile da una città come Roma. È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent’anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l’impostazione dei pubblici ministeri. Ma la vera posta in gioco era un’altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c’è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l’avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l’esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l’arma principale a disposizione di una nuova mafia. Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento e 250 udienze, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (probabilmente a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sofficiente a configurare neanche quel «metodo mafioso» che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni. Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e ’ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa. Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l’ex estremista nero all’associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la «riserva di violenza» negata dai giudici. Nell’attesa, ci si dividerà tra l’esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient’altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una «mafia all’amatriciana» inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un’occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate. Divisioni inevitabili di fronte a un’accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l’avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s’è presentata in aula per assistere personalmente all’ultimo atto). Ma è evaporata in meno di un’ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite. Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pubblici ministeri — parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio — restano l’importanza e il peso di un’inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma. Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l’assoluzione dall’accusa di mafia, dall’altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell’ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 10 per l’ex presidente del Consiglio comunale con la giunta Marino. Sintomo di un’infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l’amministrazione della Capitale d’Italia.

Cari giudici di Mafia capitale, è l’ora di rileggere Sciascia, scrive Tommaso Cerno venerdì 21 luglio 2017 su "L'Espresso". «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». Abbiamo risentito la frase italiana per eccellenza: la mafia non esiste. Quella dei tempi d’oro. Quando la politica mangiava con loro e i giornalisti venivano ammazzati. Lo dicono ridacchiando mentre uno ‘Stato cecato’ ha inflitto oltre 280 anni di carcere a un’organizzazione criminale guidata da er Cecato vero, Massimo Carminati. Con una sentenza che ripulisce Roma dal lordume. Fra le risatine di avvocati entusiasti per avere mandato in galera i loro assistiti. Ridono perché questa è una sentenza pesante, ma che mostra una visione vecchia della mafia. E fa sembrare loro dei giuristi. Mentre ripetono quello che i mafiosi dicono dal carcere: la mafia non c’è. Un limite culturale dello Stato. Pur con sostanziali passi avanti rispetto agli anni delle assoluzioni choc, degli indulti a comando. Diciamo che qualcuno dovrebbe rileggersi Leonardo Sciascia. Se si ricorda chi sia. Denunciava già nel 1961 questa tendenza italica, quella di non sapere o volere adattare alla modernità la criminalità organizzata che cambia metodi e modi con maggiore velocità rispetto al codice penale: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». A distanza di mezzo secolo da questa profezia, il tribunale infligge pene severissime ai criminali che avevano messo le mani su Roma, ma non cancella la parola “Forse” dalla più celebre citazione de “Il Giorno della Civetta”. E la mafia certamente ha ascoltato dalle sue lorde tane e dalle sue latitanze. Perché può stare certa che in un Paese come il nostro, invischiato in decine di scandali e omicidi, attovagliato spesso con loschi figuri, affermare in nome del popolo italiano che non solo non siamo riusciti a sconfiggere le mafie storiche, ma siamo stati capaci di farne crescere una nuova, nel cuore di Roma, già graziata ai tempi della Banda della Magliana, è roba troppo grossa per il nostro Stato. Lo sappiamo da anni. Una cosa buona c’è. L’organizzazione criminale di er Cecato, di quel Massimo Carminati, ex terrorista nero, viene smantellata da una condanna pesantissima. È un passo avanti. Ma non basta. L’organizzazione messa sotto i riflettori dall’Espresso nel 2012, quando Roma faceva finta di non conoscere quel signore che se ne stava seduto in un distributore di benzina facendo piedino a un pezzo di politica di tutti i colori, con lo stesso sguardo immobile che tenne durante il processo Pecorelli al fianco di Andreotti, va dietro le sbarre. Va detta una cosa: in Italia erano in molti a volersi levare di torno Carminati, come è stato, ma a non voler scoperchiare il marcio che nasconde quel suo mondo di mezzo. Sembra che la giustizia vada avanti, però a piccoli passi. Stavolta le pene ci sono, ma c’è pure l’ennesimo rinvio della grande questione che tiene impalata l’Italia. Siamo in grado di capire che la mafia non porta più la coppola, non usa i pizzini né carica la lupara? Non è facile. Per questo dico senza paura che questa condanna non è il migliore regalo di Stato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’anniversario delle stragi. E ci costringe a rileggere parole che risuonano come una oscura profezia, anche se stentano a prendere vita dentro un’aula di giustizia. La mafia non è un demone, è normalità. Non è sangue, è aria che respiriamo: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza». Lo scrisse Sciascia, appunto, nel 1957. Quando quei giudici erano bambini o nemmeno erano nati. Lo scrisse in nome suo. Incurante di loro. Prima o poi lo riscriveranno anche i giudici in una sentenza. In nome del popolo italiano. Quello che può vincere contro gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraqua. «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sul giornale gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma». Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961

Non era Mafia Capitale (e qualcuno osò dirlo). Dure condanne ma nessuna conferma del 416 bis. Già nel 2015 Panorama aveva sollevato dubbi sulla coerenza giuridica dell'associazione mafiosa, scrive Maurizio Tortorella il 20 luglio 2017 su Panorama. Fin dal gennaio 2015, quando ormai da un mese in tutte cronache giudiziarie aveva fatto la sua comparsa quel nome impegnativo e sinistro, “Mafia Capitale”, Panorama aveva mostrato qualche perplessità tecnica sulla coerenza giuridica della principale accusa rivolta contro una sequela d’indagati e arrestati nell’inchiesta romana su corruzione e appalti pubblici. Oggi il processo si è concluso in primo grado con dure condanne, ma senza che la decima corte penale del Tribunale confermasse l’accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un’organizzazione criminale di stampo mafioso.

Quindi non è mafioso il neofascista Massimo Carminati, che pure è stato condannato a 20 anni di reclusione, e non lo è nemmeno Salvatore Buzzi, l’ex ergastolano per omicidio, poi redentosi e divenuto alfiere di alcune cooperative sociali (rosse) che a Roma e circondario facevano affari d’oro con gli immigrati (19 anni di carcere). Tra i condannati, sebbene anch’egli assolto dall'imputazione di mafia, compare anche Luca Odevaine, già capo di segreteria del sindaco Walter Veltroni e poi divenuto responsabile del “tavolo per i migranti”: 6 anni e 6 mesi di reclusione. Adesso, come sempre in questi casi, dovremo aspettare le motivazioni della sentenza per capire dove e perché gli inquirenti hanno sbagliato, o esagerato prospettando una specie di "416 bis alla romana". Certo, oggi tornano alla mente le parole del difensore di uno dei condannati, il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio (11 anni); intervistato da Panorama nell’ottobre 2015, l’avvocato Giuseppe Valentino aveva negato tutte le accuse, ma sull’associazione mafiosa si era inalberato con forza particolare: “Che mafia è quella che non usa le pistole ma il denaro per persuadere e corrompere? Qui c’è tutt’al più un sottobosco romano, un autentico suk, dove pullulano chiacchieroni e millantatori”. È evidente che l'avvocato Valentino almeno su quel punto aveva ragione: di certo, Cosa nostra, la 'ndrangheta e la camorra napoletana, cioè le associazioni mafiose che tutti noi purtroppo conosciamo, usano mezzi intimidatori molto più violenti di quelli utilizzati dagli imputati di Mafia Capitale. Ma oggi, dopo l'assoluzione da quell'accusa, tornano alla mente anche i fischi con i quali alcuni giornali-bandiera del populismo giudiziario avevano accolto quanti (su Panorama, ma anche sul Foglio o sul settimanale Tempi) a suo tempo mostravano perplessità per l’ipotesi “mafia a Roma”. Contro chi aveva osato scrivere che “l’associazione criminale che gravitava attorno a Salvatore Buzzi e a Massimo Carminati non può essere neppure lontanamente paragonata alla mafia. Non ci sono le pistole, l’omertà, l’organizzazione verticistica, il vincolo associativo…”. Nessuna polemica. Leggeremo le motivazioni. Solo il tempo di ricordare che in un altro primo grado, il 3 novembre 2015, c’era stata una sentenza anticipata, pronunciata in uno stralcio di processo per un imputato minore della grande inchiesta Mafia Capitale: Emilio Gammuto, accusato dalla Procura di Roma di corruzione e di associazione mafiosa, era stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per entrambi i reati. In quel caso, i giornali-bandiera di cui sopra avevano brindato alla condanna, sbeffeggiando i garantisti d'accatto che si ostinavano a non vedere quanta mafia ci fosse nell'inchiesta. Gammuto era stato processato in anticipo rispetto al gruppone dei suoi colleghi imputati perché aveva scelto la formula del procedimento abbreviato. E la sua condanna (arrivata quasi un anno dopo l’emersione dell’inchiesta) era parsa confermare in pieno l’impianto accusatorio. Invece, lo scorso gennaio, in Corte d’appello Gammuto era stato assolto dal 416 bis. Si vedrà per tutti in Cassazione. Si vedrà anche se domattina, su certi giornali-bandiera, la sentenza della decima sezione penale di Roma verrà "rispettata e non criticata": sarebbe una delle auree (ed eccessive) leggi del populismo giudiziario. Ma si sa come finiscono certe cose...

L'eroe della sesta giornata. Mafia capitale e quegli esponenti del Pd rimasti immobili di fronte a anni di malaffare, scrive Giorgio Mulè il 12 dicembre 2014 su Panorama. Non ho letto tutti i documenti giudiziari a sostegno dell’operazione Mafia capitale. Ne ho letti a sufficienza, però, per farmi un’idea piuttosto circostanziata della vicenda. Dirò subito che, avendo compulsato decine di ordinanze di custodia cautelare su Cosa nostra, mi lascia molto perplesso l’attribuzione del marchio di mafia ai soggetti arrestati o indagati. Ci sono alcune vicende che fanno a cazzotti con la pretesa di avere a che fare con un’organizzazione sovrapponibile a Cosa nostra o che si vorrebbe pericolosa tanto quanto gli efferati delinquenti siciliani: a Roma, secondo quanto contestato nei capi di imputazione, ci sono presunti boss che si agitano per recuperare due assegni scoperti da 300 e 600 euro, addirittura colui che si vorrebbe come braccio destro di Massimo Carminati mette su un putiferio per far saldare un debito da 670 euro. Ora, va bene che c’è la crisi e siamo disposti a credere che il quartier generale di Mafia capitale sia presso un benzinaio, però c’è anche un minimo di dignità criminale da salvaguardare se bisogna dar retta alle stime che indicano in oltre 10 miliardi il fatturato di Mafia spa: insomma, Leoluca Bagarella (braccio destro di Totò Riina) non rischiava di finire in galera e sputtanare la "famiglia" per 670 euro, suvvia. L’avrebbero ucciso i suoi stessi compari per questa leggerezza. Transeat, i tempi cambiano e magari sono io a dovermi aggiornare. C’è però un punto del ragionamento degli inquirenti che mi appare così debole da non poter credere che abbia avuto l’avallo di una toga espertissima come il procuratore Giuseppe Pignatone. I magistrati sostengono infatti che Mafia capitale sia una sorta di gemmazione della Banda della Magliana, la stessa finita al cinema e in televisione con la superba trasposizione di Romanzo criminale. Ma stabilire in un atto giudiziario alla base di decine di arresti un nesso diretto tra lo share e la realtà significa conferire alla fiction carattere di verità oggettiva, il che a mio giudizio è una follia oltre che un pericolosissimo vulnus in sede di valutazione degli indizi da parte dei giudici. Eccoci a pagina 33 dell’ordinanza di custodia cautelare: "Il collegamento con la Banda della Magliana è, infatti, solo uno degli elementi su cui si fonda la forza di intimidazione della organizzazione che ci occupa (Mafia capitale, ndr), che si avvale di quella derivazione come strumento di rafforzamento della caratura e della immagine criminale dei suoi associati, sfruttando anche il 'successo mediatico' di quella organizzazione, successo che ne ha indubitabilmente sancito, almeno nell’immaginario collettivo (che però è ciò che conta in questo tipo di delitti), il carattere di mafiosità". Dopo aver letto questo ragionamento, per assurdo, un pubblico ministero particolarmente su di giri potrebbe perfino formulare un’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di sceneggiatori, registi e attori di Romanzo criminale che con la loro opera avrebbero dato un contributo occasionale a questa Cosa nostra all’amatriciana. Sopportata questa dissertazione giuridica, è il caso di fare altre considerazioni intorno alla vicenda. I reati contestati, i soggetti coinvolti e le dimissioni a catena seguite all’esplosione degli arresti all’interno della giunta di Roma imporrebbero un atto unilaterale di dignità politica da parte del sindaco Ignazio Marino: le dimissioni. Perché è questa l’unica strada percorribile rispetto all’ipotesi accusatoria (difficile da smontare in quanto a ruberie e deviazioni finanziarie) secondo la quale Carminati & c. facevano il bello e il cattivo tempo all’interno del Comune di Roma contando perfino sull’asservimento del funzionario che il sindaco aveva voluto come cerniera con il commissario Anticorruzione. Intendiamoci, sarebbe possibile anche uno scioglimento d’autorità da parte del ministero dell’Interno. A scorrere i decreti che dal Piemonte alla Sicilia hanno portato in un recentissimo passato a spazzare via giunte e consigli comunali senza tenere minimamente conto della presunzione di innocenza, non si comprende in verità come e perché Roma dovrebbe godere di un regime specialissimo di valutazione degli indizi. In realtà lo sappiamo perfettamente ed è questione squisitamente politica. Di opportunismo politico, meglio. Come potrebbe mai il Pd di Matteo Renzi accettare questo schiaffo planetario? Siamo alle comiche, ne converrete: c’è un sindaco che fino al momento della grande retata era bollato (giustamente) come inadeguato dai massimi dirigenti del suo partito, il Partito democratico, al punto da essere stato commissariato su due piedi. Scoppiata la bufera, pur di tenerlo in vita e non andare a elezioni, lo stesso Pd ha la faccia tosta di commissariare il commissario con un nuovo commissario. Inarrivabili. D’altronde ci tocca vivere il tempo degli eroi della sesta giornata, quello in cui – ricordate le Cinque giornate di Milano? – gli opportunisti mostrano il petto accaparrandosi meriti che non hanno. Come Marino, appunto. E come Renzi, il quale, pur di non prendere atto del fallimento di un partito che non ha saputo rifondare dal Veneto alla Sicilia, butta la palla altrove. Sarà allora arrivato il momento, dopo aver letto le malefatte contestate a Roma al cooperatore Salvatore Buzzi così coccolato dall’ex capo della Lega delle cooperative e attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti, di accendere un faro in tutta Italia sul business della misericordia sociale. E cioè su questo enorme calderone in cui – nel nome di un fine nobile come l’accoglienza degli immigrati, l’assistenza dei nomadi o il reinserimento dei detenuti – le coop la fanno da padroni. Si verifichino le convenzioni, le procedure di appalto, i contributi elargiti alle feste di partito e a manifestazioni di "impegno sociale". Il Pd si è dimostrato incapace di fare pulizia al suo interno nonostante sei mesi fa Renzi avesse invitato i suoi a denunciare il malaffare, a "salire i gradini dei palazzi di giustizia". La verità e che in quei palazzi molti esponenti del Pd i gradini li salgono, ma solo dopo che il malaffare è stato scoperto. E spesso per rispondere ad accuse gravissime. Infamanti, direi. Non solo per un partito, ma per una intera classe politica. 

Mafia Capitale non esiste: e questa è la condanna senza appello per la politica romana. E così scopriamo che la politica romana è stata messa sotto scacco non dalla versione romana del Padrino, ma da una banale associazione di trafficoni. Serviva la procura per fermarli? O bastavano occhi aperti e un po’ di coraggio? Ci fossero stati, forse Roma non sarebbe nello stato in cui è ora, scrive Flavia Perina il 21 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". Approfitta dei tassi più bassi dell'estate. Tuffati nell'offerta speciale che celebra i 40 anni di Mercedes-Benz Financial: TAN fisso di 0,90% o 1,90%, TAEG variabile a seconda del modello e un anno di RC Auto incluso.... Adesso lo sappiamo per sentenza: era Febbre da Cavallo, non il Padrino. E così, il verdetto di primo grado al processo di Mafia Capitale (che d'ora in poi converrà chiamare Non-Mafia Capitale) ha tra i suoi primi effetti collaterali la necessità di riconsiderare il rapporto tra la città di Roma, i principali partiti cittadini e le bande affaristiche che si muovevano (si muovono?) negli uffici capitolini. Qualificare queste bande come “mafia” ha salvato, in qualche modo, tutti quelli che a vario titolo si sono distratti davanti ai traffici di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La mafia è cattivissima, la mafia uccide, contro la mafia fior fiore di classi dirigenti si sono squagliate perché nessuno è tenuto ad essere eroe: naturale che alti dirigenti, signori delle tessere, persino sindaci, a Roma come in passato a Palermo, si siano girati dall'altra parte e abbiano fatto finta di non vedere per non trovarsi – chissà – un Luca Brasi alla porta. Ma se non era mafia, se erano solo Mandrake, Er Pomata e Manzotin, il discorso cambia. Ed è molto più difficile spiegare perché ci siano voluti i magistrati per levare di mezzo questa ordinaria, banale associazione di trafficoni, provocando il terremoto che sappiamo. Non erano così spaventosi e minacciosi, quelli di Non-Mafia Capitale. E nemmeno così ricchi da potersi permettere le famose offerte “che non si possono rifiutare”. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” (98 milioni in dieci anni, tra il 2003 e il 2013) con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per un solo filone degli scandali milanesi di Expo, l'imprenditore vicentino Enrico Maltauro ha denunciato la richiesta di un milione e duecentomila euro di mazzette (poi ne versò 600mila). Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Insomma, Mandrake, Er Pomata e Manzotin, all'approdo del processo di primo grado, non solo risultano poco temibili ma anche piuttosto modesti nelle loro possibilità corruttive. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Ora che il tribunale ci ha restituito nelle giuste proporzioni il ritratto delle bande affaristiche del Comune di Roma, due sono le considerazioni. La prima riguarda la Procura romana che ha perseguito fino in fondo la “pista mafiosa”, e la scansiamo: ne parleranno altri, più esperti in questioni giudiziarie. La secondachiama in causa il sistema politico capitolino, tutto, la destra, la sinistra e pure il M5S, perchè le redini di questa città negli anni d'oro della coppia Buzzi&Carminati le hanno tenute tutti, da posizioni di governo o di opposizione, e col senno di poi è naturale chiedere: ma davvero vi siete fatti mettere nel sacco da questi? Davvero serviva la Procura per fermarne, o quantomeno denunciarne, i modesti traffici? Siete scemi o cosa? La città ha pagato un prezzo altissimo per lo scandalo e tutto ciò che ne è seguito. Il commissariamento del Pd, la fuga di molti suoi militanti disgustati, e dall'altra parte lo sputtanamento della destra con un analogo distacco di chi ci aveva creduto, il suo declino elettorale, l'eclissi politica di uno come Gianni Alemanno, che pure in città contava qualcosa. E poi, i nove mesi di calvario di Ignazio Marino, i cui uffici furono devastati dall'indagine e dagli arresti. L'imbarbarimento del confronto politico in città, la revoca della fiducia al sindaco da parte della sua maggioranza, il caos che ne è seguito con la parallela e inarrestabile ascesa del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto proporsi come unica forza di moralizzazione in una Capitale che a un certo punto sembrava la Palermo di Ciancimino, o la Miami di Scarface. Non era vero. Era la solita Roma di sempre. La Roma dei «politici pezzenti», come Vittorio Sbardella chiamava i sottopanza che si sporcavano direttamente le mani con gli affari. La Roma del «Fra' che te serve», nella geniale sintesi di Franco Evangelisti, che pre-esiste a qualsiasi formula di governo cittadino e che è stata il sottotesto inespresso di ogni amministrazione. La solita Roma nella sua versione più basic, più elementare, la «mafia del benzinaro» come ha detto Massimo Carminati in aula, con il modesto potere di scambio di qualche spiccio per la campagna elettorale, di qualche centinaia di tessere comprate per vincere un congresso. Che la destra e la sinistra capitoline non siano riusciti a fermare neanche questi modesti delinquenti, a liberarsene, a tenerli nella regola in qualche modo, fa cadere le braccia. Per molti versi, sarebbe stato più consolatorio immaginarle distrutte da Don Vito Corleone piuttosto che da Er Pomata.

«Sì, li condanniamo, però non era mafia», scrive Simona Musco il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio".  L’ex sindaco Marino attacca: “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Ma Orfini: “Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”.

IL PROCESSO. Non c’era mafia a Roma, ma solo due associazioni a delinquere che si sono presi la città con corruzione e malaffare. Il processo “Mafia Capitale” dunque regge a metà: 41 le condanne e cinque le assoluzioni, ma con l’esclusione del metodo mafioso, quello che ha dato il nome all’intero processo. Il calcolo finale delle pene dimezza così il complessivo chiesto in aula dai magistrati. Quelle più alte sono andate ai due protagonisti dell’inchiesta: Massimo Carminati, l’ex Nar, condannato a 20 anni, contro i 28 chiesti dall’accusa, e Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, condannato a 19 anni a fronte dei 26 richiesti. L’ex vicepresidente della sua cooperativa, la “29 giugno”, Carlo Guaray, per il quale avevano chiesto 19 anni, è stato condannato a cinque. Il X collegio penale presieduto da Rossana Ianniello ha iniziato a leggere la sentenza alle 13, dentro un’aula bunker stracolma di giornalisti, dopo una camera di consiglio durata 4 ore. In aula anche i parenti degli imputati, assiepati dietro la ringhiera. Il grande assente, poi definito dai legali lo «sconfitto», è stato il procuratore capo Giuseppe Pignatone. A presidiare l’aula c’erano i tre pm che hanno condotto le 240 udienze, Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Dieci minuti prima della lettura della sentenza è toccato agli imputati fare l’ingresso in aula, sistemati nei gabbiotti numerati dall’ 1 al 4. Alcuni sono rimasti seduti, altri appesi alle sbarre con lo sguardo fisso sull’altare di legno dal quale poco dopo sono spuntati i giudici. Non è un mafioso, dunque, Massimo Carminati, ma un «delinquente abituale». Per lui, a pena espiata, il tribunale ha stabilito l’affidamento ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per almeno due anni. Nel frattempo gli sono stati confiscati i beni: dai gemelli d’oro custoditi in casa, alle opere d’arte, ma soprattutto le armi, una katana, due machete e un’accetta. Le condanne sono arrivate anche per i politici coinvolti: sei anni – due in più rispetto alla richiesta – per Mirko Coratti (Pd), ex presidente del consiglio comunale di Roma ed esponente; 11 anni per Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl; 10 anni a Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, otto per Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale; cinque ad Andrea Tassone (Pd), ex presidente del municipio di Ostia. Assolti, invece, Giovanni Fiscon, ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, Giuseppe Mogliani, Salvatore Ruggiero e Rocco Rotolo. «La mafia a Roma non esiste», ha sentenziato il legale di Carminati, Bruno Giosuè Naso. «C’è stata una severità assurda: non si è mai visto che su 46 imputati nemmeno uno meriti le circostanze attenuanti generiche. Sono quindi delle pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato rivolto alla Procura – ha affermato – Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi». E la sconfitta, in parte, l’ha ammessa anche l’aggiunto Ielo. «È una sentenza che in parte ci dà torto, per quanto riguarda la qualificazione giuridica, ed in parte riconosce la bontà del nostro lavoro – ha detto – La sentenza riconosce l’esistenza di un’associazione a delinquere semplice ed aggravata. È stato un fenomeno di criminalità organizzata ma non di tipo mafioso. Sono state riconosciute due distinte organizzazioni criminali che non avevano però il carattere della mafiosità. Ma la dinamica della delusione non appartiene a chi fa il mio mestiere». L’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con Carminati. Più soddisfatto, invece, Buzzi. «Ora quando esco? questo il suo primo commento Mi auguro che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire». La sentenza ha certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Buzzi. «Credo che oggi Buzzi sia stato creduto perchè altrimenti certe condanne che si basano esclusivamente sulle sue dichiarazioni il Tribunale non le avrebbe potute fare. Per questo motivo credo che la Procura debba rifare da capo il processo al “mondo di mezzo”. Abbiamo dato una grande lezione alla Procura che ha investito tutto sul 416 bis impedendo di accertare le corruzioni in questa città».

LE REAZIONI.

MARINO – “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Lo dice l’ex primo cittadino di Roma, Ignazio Marino in un’intervista alla Stampa. “Contro di me – spiega – ci fu una convergenza opaca di interessi. Non so se qualcuno abbia voluto o tentato di condizionare la magistratura. Ma so che i giudici non sono condizionabili”. Marino quindi si lascia andare a un giudizio ultimativo sul Pd: “Soffro per l’agonia a cui è sottoposto il partito che ho contribuito a fondare. Oggi mi sembra difficile dire che il Pd renziano esista ancora”.

ORFINI – “Possiamo reagire in tanti modi alla sentenza di ieri, tutti ovviamente comprensibili e legittimi. Ma il più sbagliato è quello forse più diffuso in queste ore: sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma perchè Roma non è una città mafiosa. Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”. A scriverlo in un articolo pubblicato sul sito della rivista Left Wing è Matteo Orfini, presidente del Pd. “Basta fare una passeggiata in centro e contare i ristoranti sequestrati perchè controllati dalla mafia. Basta passeggiare nei tanti quartieri in cui le piazze di spaccio sono gestite professionalmente, con tanto di vedette sui tetti e controllo militare del territorio. Basta spingersi a Ostia e seguire le attività degli Spada, o andare dall’altra parte della città dove regnano i Casamonica. Basta leggere le cronache per trovare la mafia ovunque”, aggiunge. “Ma quella di Carminati non è mafia, dice il processo. Vedremo cosa stabiliranno i prossimi gradi di giudizio, ma come scrissi mesi fa, cambia davvero poco. A Roma la mafia c’è e ha dilagato usando la corruzione come grimaldello. Oggi Roma è gestita da più clan che hanno evidentemente trovato un equilibrio tra di loro e si sono spartiti la città. A chi ha iniziato a sgominare questo sistema bisogna solo dire grazie, soprattutto se si pensa che in passato la procura di Roma era nota come il “porto delle nebbie”. Farebbe piacere anche a me – continua Orfini – poter dire che la mafia a Roma non c’è. Ma sarebbe una bugia. Io sono orgoglioso di essere romano. Ed è proprio l’orgoglio che mi fa dire che – di fronte a quello che oggi è diventata Roma – bisogna reagire e combattere, non affidarsi a tesi di comodo. Roma non è stata umiliata da chi indaga. Roma è stata umiliata da chi l’ha soggiogata. E da chi non ha saputo impedirlo. Invertire l’ordine delle responsabilità significa continuare a tenere gli occhi chiusi”, conclude.

RAGGI – “Quello che la sentenza ha comunque accertato è che c’è stato un pesantissimo e intricatissimo sistema che per anni ha tenuto sotto scacco la politica. Questo significa che quando parlo di bandi, di seguire le procedure di legge, vuol dire andare verso un nuovo corso, quello che i cittadini ci hanno chiesto. Io non vedo altra strada se non quella di continuare in questa direzione”. Così la sindaca di Roma Virginia Raggi interpellata a margine di una conferenza stampa torna a commentare la sentenza di ieri sul processo “Mafia Capitale” che pur infliggendo pesantissime condanne per corruzione ha escluso l’associazione mafiosa, mantenendo l’associazione semplice.

Roberto Saviano, dito medio a chi lo insulta, scrive il 22 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dito medio agli insulti e un consiglio: "Se vi infastidiscono le mie parole state alla larga da questa pagina. Non sarà insultando che mi ridurrete al silenzio". Così Roberto Saviano in un post su Facebook risponde a chi lo attacca e a chi vuole metterlo a tacere. "Se parlo di Napoli, meglio che stia zitto. Se parlo di infiltrazioni mafiose al Nord, meglio che parli di Napoli. Se parlo di riciclaggio a Londra, meglio che parli di Italia. Se parlo di una parte politica, ma non parli mai degli altri? Più mi invitate al silenzio, più capisco di colpire nel segno, di centrare il bersaglio". E poi c'è chi è convinto che io non capisca ciò che accade perché non vivo più a Napoli, perché non vivo più in Italia. Vivrei, invece, come dice un senatore di Ala, in un attico a Manhattan. Triste constatazione: alla politica si dà ormai credito solo quando diffonde bufale".  "Ed ecco quindi un messaggio chiaro e inequivocabile per chi mi insulta - prosegue lo scrittore - mi dispiace, perdete il vostro tempo. Continuerò a studiare, ad analizzare, a mettere insieme tasselli e a farne un racconto comprensibile (soprattutto) per i non addetti ai lavori. Perché è questo il mio obiettivo: condividere ciò che imparo".

Saviano critica se le sentenze non sono le sue, scrive Annalisa Chirico il 22 luglio 2017 su "Il Foglio". Sgombriamo il campo dagli equivoci: il tribunale non dice che Roma è la culla della legalità, che Carminati e Buzzi sono due stinchi di santo; né le toghe ritengono che le soavi minacce al telefono fossero una candid camera per burlarsi dei poliziotti all' ascolto, che mattacchioni. La verità è che le decisioni dei giudici paiono incontestabili quando coincidono con le proprie opinioni e attese, possono essere invece aspramente criticate quando contrastano con il nostro dover essere della giustizia. Se ne faccia una ragione Roberto Saviano il quale replica alla sentenza che ha condannato gli imputati di Mazzetta capitale (Mafia, non scherziamo) annullando l'imputazione dell'associazione mafiosa. Eppure la speculazione a uso e consumo dei mafiologi nostrani prosegue, del resto sulla mitologia mafiosa si costruiscono lucrose carriere. Saviano paragona la Roma, covo di cravattari e corruttori, alla Palermo delle stragi mafiose che trucidarono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e numerosi altri uomini dello Stato. Ma se tutto è mafia, nulla è mafia. «A Roma la mafia non esiste. Anche a Palermo non esisteva», cinguetta su Twitter lo scrittore napoletano. Come se non bastasse, l'autore di Gomorra, che vive sotto scorta, si spinge fino ad auspicare una modifica della stessa fattispecie criminosa: «È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali». Ecco il Saviano legislatore che dà consigli al Parlamento per adattare la legge dello Stato alle sue personali convinzioni, e nel far ciò, senza sprezzo per il ridicolo, egli finge di non sapere, o forse non sa. C' è da sperare che il Saviano pensiero non contempli la retroattività della legge penale, ma soprattutto vorremmo sapere se nei suoi auspici il progetto rivoluzionario comporterebbe pure l'introduzione di una nuova fattispecie: la mafia etnica senza mafiosità. Ponendo la questione in termini di appartenenza geografica, come se i giudici smentissero l'aggravante mafiosa per una pura circostanza di accento siculo o calabrese mancante, Saviano auspica che i nuovi confini del metodo mafioso siano definiti su base linguistica. Sono mafiosi pure i romani doc, brianzoli e venessiani chi lo avrebbe mai detto. Nessuno nega che la ndrangheta si sia radicata saldamente a Roma come a Milano, ma la sconfitta della procura capitolina nasce dalla ostinata volontà, questa sì fallace, di dimostrare l'esistenza di una Cupola all' ombra del Cupolone, retta da er Cecato, vertice di un sistema fondato non su sangue e violenza, intimidazione e sacralità associativa, ma sulla elargizione di mazzette.

Corrotti e mafiosi. Il ladrone di Roma era il Pd, ma i pm chiusero mezzo occhio, scrive Franco Bechis il 21 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Con la sentenza della decima sezione penale del tribunale di Roma guidata dal giudice Rossana Iannello non solo è stata cancellata nei confronti di molti imputati- a cominciare da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi l’accusa di associazione mafiosa, sconfiggendo la tesi principale della procura guidata da Giuseppe Pignatone (che titolò l’inchiesta “Mafia Capitale”). Ma i pm hanno avuto dalla corte anche un’altra correzione sostanziale: avevano chiuso un pizzico di occhio sul Pd, cercando di andare con la mano leggera sul partito guidato da Matteo Renzi. Nella sua impostazione, e nell’eco mediatico avuto fin dal primo giorno la responsabilità politica di Mafia capitale era stata addossata più al centro destra che al centro sinistra. E infatti la procura aveva chiesto 46 anni e 6 mesi di pena nei confronti di politici del Pdl e 20 anni di pena nei confronti di politici del Pd. La sentenza ribalta i rapporti: a tutti gli imputati del Pd sono state aumentate le pene rispetto alle richieste, e alla fine le condanne sono state a 28 anni invece dei 20 proposti. Nello specifico Mirko Coratti, presidente consiglio comunale di Roma è stato condannato a 6 anni quando i pm ne chiedevano 4 anni e 6 mesi, (differenza + 1 anno e 6 mesi). Pier Paolo Pedetti, consigliere comunale Roma è stato condannato a 7 anni quasi raddoppiando la richiesta dei Pm che chiedevano 4 anni, (differenza + 3 anni). Andrea Tassone, presidente municipio di Ostia è stato condannato a 5 anni contro i 4 chiesti dal Pm (+1 anno). Sergio Menichelli, sindaco di Sant’Oreste di Roma è stato condannato a 5 anni invece dei 4 chiesti dalla procura (+1 anno). Michele Nacamulli, consigliere municipio Ostia è stato condannato a 5 anni invece dei 3 anni e 6 mesi chiesti dal pm (+ 1 anno e 6 mesi). Nei confronti degli imputati del Pdl (il centrodestra dell’epoca) invece sono stati comminati 24 anni di carcere invece dei 46 anni e 6 mesi che erano stati richiesti dalla procura. Uno di quegli imputati, l’ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, per cui erano stati chiesti 4 anni di carcere, è stato assolto. E il finale racconta una storia un po’ diversa: con 28 anni di condanna ad esponenti del Pd e 24 ad esponenti del Pdl, la storia della corruzione a Roma si tinge molto di più di Nazareno. Anche se non si tratta di Mafia capitale, ma di grande scasso della capitale, l’inchiesta di Roma resta clamorosa. E le decisioni della corte sono certo pesanti. Dei 46 imputati 41 sono stati condannati. Solo in due casi però è stata accolta la richiesta della procura, mentre in 30 casi la pena comminata è inferiore a quella proposta e in 14 cosi invece è stata aumentata rispetto alle richieste. Complessivamente sono stati inflitti 288 anni e 8 mesi di carcere, oltre alle pene accessorie. Ma le richieste dei pm erano molto più alte: 519 anni e 5 mesi, e lo sconto di pena effettuato dalla corte non è irrilevante: 230 anni e 9 mesi, pari al 44,5% di quanto era stato richiesto.

Mafia Capitale, lite tra Abbate e avvocato di Carminati. Mentana: “È adrenalina da sentenza”, scrive il 21 luglio 2017 "Trendinitalia". Polemica al calor bianco a Bersaglio Mobile (La7) tra Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso, e Ippolita Naso, avvocato difensore di Massimo Carminati. La legale accusa Abbate di essere “ossessionato” dall’ex Nar. Il giornalista sorvola e racconta il colpo messo a segno da Carminati nel 1999 al caveau della Banca di Roma all’interno del Palazzo di Giustizia, con la complicità di quattro carabinieri corrotti. Ma Naso lo interrompe: “Non è così, sono stati i carabinieri ad aver organizzato il furto e hanno chiesto aiuto a Carminati, perché non erano in grado di farlo da soli. Quindi, si sono rivolti ai “cassettari” romani. Sta dando dati errati. Lo vede che non si legge le carte processuali?”. “Ma non è così! Questo lo racconti ai ragazzini! Lei rilegga bene le sentenze e tutte le carte”, ribatte Abbate. E a intervenire è Enrico Mentana, che, scettico, chiede all’avvocato: “Ma questi carabinieri come hanno trovato Carminati? Sulle Pagine Gialle?”. Abbate spiega che il furto fu organizzato su commissione perché richiesto da alcuni avvocati per ricattare dei magistrati romani. Ma l’avvocato di Carminati ribadisce: “Lei sta calunniando dei magistrati romani”. “E’ tutto scritto nelle carte” – replica il giornalista – “Se dico una falsità, lei ha tutti gli strumenti penali per ricorrere nei miei confronti”. “No, non ne ho bisogno”, risponde Naso. Abbate poi si sofferma sul teste Roberto Grilli, che, per paura di Carminati, ritrattò durante il dibattimento la propria testimonianza resa nella fase preliminare. “Quello che dice mi conferma che non legge le sentenze di cui poi parla”, commenta, piccata, Ippolita Naso. “Invece le sue parole mi confermano che, quando il suo cliente minaccia di spaccarmi la faccia, lei non ha mosso un dito”, controbatte Abbate, che fa riferimento alle note telefonate intercorse tra Carminati e al suo braccio destro, Riccardo Brugia. In quell’occasione, l’ex terrorista dei Nar, infastidito da un articolo pubblicato nel 2012 da Abbate, si sfogò: “Non so chi è sto Lirio Abbate, infame pezzo di merda. Se lo trovo gli fratturo la faccia”. Naso insorge e accusa il giornalista di essersi procurato le intercettazioni delle conversazioni tra lei e Carminati: “Le conversazioni tra me e il mio cliente lei non le avrebbe dovute neanche leggere, le ha lette perché forse qualche suo amico carabiniere gliele ha date. Lei ha fatto un autogol clamoroso”. E ripete più volte: “Si vergogni”. Abbate ribatte: “Veramente le telefonate tra lei e il suo cliente sono rimaste coperte dal segreto. E’ lei che è caduta nella trappola. Lei sa benissimo che non sono come voi che “ho qualcuno”. Si vergogni lei”. A sedare la bagarre è Mentana che osserva: “Io capisco che c’è l’adrenalina da sentenza, ma Lirio Abbate non ha certamente ascoltato le telefonate tra lei e il suo cliente”.

I lapsus del giornalismo embedded, scrive Valerio Spigarelli il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Certe volte, nella cronaca giudiziaria, la fantasia supera la realtà, nel senso etimologico del termine. Quel che è avvenuto oggi, prima durante e dopo la lettura della sentenza che ha stabilito, per ora, che Mafia Capitale è un esperimento giudiziario andato male, nella migliore delle ipotesi – o un bluff sostenuto proprio da una stampa che ha da tempo rinunciato al suo ruolo, nella peggiore – lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio. Vediamo i fatti. Attorno alle 9,30, il collegio del Tribunale di Roma si ritira in camera di consiglio indicando per le ore 13 il momento in cui leggerà il dispositivo della sentenza. Per i giudici non c’è mafia per Rai e Ansa invece sì. L’aula è gremita di avvocati, familiari e rappresentanti della stampa. Decine di giornalisti e operatori video, cespugli di telecamere montate sui treppiedi, che pare di stare in un film hollywodiano degli anni Cinquanta. Clima delle grandi occasioni giornalistiche, insomma. Il pienone di giornalisti, a dirla tutta, è una novità, visto che non se ne vedevano così tanti dai tempi del debutto del processo. Nel corso delle 250 udienze la presenza dei cronisti s’era fatta sempre più rada; spesso i giornalisti era assenti del tutto, soprattutto quando a parlare era la difesa. Talmente assenti che alcune cronache comparse sui giornali non avevano raccontato quel che realmente era avvenuto nel corso dell’una o dell’altra udienza, ma avevano liberamente ripreso gli avvenimenti dagli atti di qualche anno prima contenuti nelle informative di polizia giudiziaria. Insomma, visto che non avevano tempo di venire, i giornalisti ascoltavano il processo su radio radicale, il più delle volte, e qualche volta neanche quello: invece di udire quello che aveva detto il teste convocato per una certa udienza, andavano a sfogliare le informative e riportavano quello che la stessa persona aveva raccontato nel chiuso di un ufficio di polizia qualche anno prima. In ogni caso ieri no, tutti presenti, attenti ed informati. Talmente informati che neppure un’oretta dopo il ritiro in camera di consiglio dei giudici, alle 10,15 l’ANSA, cioè la più grande e prestigiosa agenzia giornalistica italiana, lancia un breve takesubito ripreso da molte testate dal titolo shock “MAFIA ROMA: CARMINATI CONDANNATO A 28 ANNI”. Il testo specificava “Massimo Carminati è stato condannato a 28 anni al termine del processo a Mafia Capitale. La decima corte del Tribunale di Roma ha accolto le richieste della Procura riconoscendo l’ex Nar come capo dell’associazione mafiosa che avrebbe condizionato la politica romana”. La notizia, ovviamente, cade come una bomba tra gli avvocati presenti. È una balla, evidentemente, visto che i giudici non sono ancora usciti, ma, si sa, gli avvocati sono sospettosi e malfidati, e dunque si scatena immediatamente una ridda di ipotesi e commenti: “avranno avuto la notizia dell’esito e gli è sfuggita” “certamente hanno parlato con qualcuno” “forse hanno visto una bozza del dispositivo” “chi sarà la talpa?”. I più allenati a verificare la fisiognomica giudiziaria – cioè quella scienza inesatta molto in voga nei tribunali che pretende di preconizzare l’esito delle cause a seconda delle espressioni dei giudici, dei pm o del personale amministrativo (e che di solito non ci azzecca mai) – subito pretendono di trarre conferme della verità della notizia dal fatto che uno dei tre pm, non precisamente un giovialone, fin dalla prima mattina dispensa sorrisi a destra e a manca. Anche la circostanza – di suo comunque non troppo elegante – che al seguito dei procuratori si è presentato il ROS che aveva seguito le indagini praticamente al completo, capo, sottocapo e militi in polpa e delegazione, viene subito collegata alla bufala per accreditarla: “se stanno qui è perché sanno qualcosa; ‘sto giornalista dice la verità!” è la conclusione dei più smart tra i commentatori. Neppure quando, una manciata di minuti dopo, la stessa agenzia ANSA dichiara che si è trattato di uno spiacevole incidente pregando di “annullare la notizia” in quanto “andata in rete per errore”, i commenti preoccupati si acquietano: “figurarsi, erano obbligati a farlo! E poi una smentita è una notizia data due volte”. I più addentro ai misteri della stampa nazionale dopo un po’ ricostruiscono l’accaduto millantando le più diverse fonti, dall’amico giornalista vaticano alla fidanzata occulta di un capo redattore. Secondo questa versione è semplicemente accaduto che un cronista un po’ sbadato ha inserito in rete una bozza, una sorta di coccodrillo giudiziario tanto per usare termini da redazione, che aveva predisposto per portarsi un po’ avanti col lavoro. Tutto qui. Spiacevole incidente, appunto. “Spiacevole, sì” – pensa qualcuno dei più scaramantici, come il sottoscritto – anche il fatto che il coccodrillo sia quello: chissà se ne hanno fatto uno che dice LA PROCURA DI ROMA SMENTITA etc etc”. Di commento in commento si arrivava alle 13. La tensione sale quando entra il Tribunale, la gloriosa stampa nazionale è tutta coi cellulari in mano che registrata l’evento. Anche su Radio Rai Uno sono sul pezzo, vanno in diretta interrompendo il notiziario delle 13: “Carminati condannato a 20 anni, Buzzi a 19, riconosciuta l’associazione di tipo mafioso che era la questione centrale del processo, il perno attorno al quale ruotava l’inchiesta” dice il giornalista. È la seconda balla della giornata, ancora più clamorosa della prima, visto che il cronista non sta al desk di una redazione dislocata chissà dove, ma proprio nell’aula bunker di Rebibbia, tanto che si scusa perché deve parlare a bassa voce. Sta lì, sicuramente col cellulare in mano, ma col cervello sintonizzato chissà dove, visto che non capisce quel che succede. Anche qui, a stretto giro ed in diretta, segue canonica smentita: un po’ come a tutto il calcio minuto per minuto, il reporter si ricollega e dice “scusa (Bortoluzzi?) devo precisare che è in realtà caduta l’accusa di associazione mafiosa. La notizia non è vera, il cronista s’è sbagliato”!. E due. Ora, perché racconto quella che può sembrare solo la cronaca impietosa di un paio di topiche giornalistiche? Perché non sono topiche, sono lapsus freudiani che dicono tutto sulla gloriosa stampa nazionale, embedded sul carro delle Procure da troppo tempo, e oggi ancor più comodamente assisa sulle alfette delle agenzie investigative. Una stampa che sbaglia perché non gli sembra vero, proprio no, che possa sbagliare una Procura, o il ROS, e dunque scrive coccodrilli forcaioli, quando non copia veline giudiziarie o intercettazioni illegittimamente diffuse, oppure fraintende una cosa semplice come un dispositivo di una sentenza proprio perché ha smesso di abbaiare al potere giudiziario, come dovrebbe fare un vero cane da guardia del potere, ma azzanna solo chi finisce dentro gli ingranaggi giudiziari. Poi magari si scusa, “spiacevole incidente”, “scusa Ameri mi dicono che non è gol”. Eppure oggi la notizia, quella su cui dovevano fare attenzione, era una sola: se c’era o non c’era la Mafia a Roma, ci voleva poco. Naturalmente anche il resto dell’universo giornalistico inizia a parlare e commentare, e non sono pochi quelli che, al succo, dicono: “la mafia non c’è ma le condanne, e pure toste, invece sì: dunque che cambia? La Procura ha vinto lo stesso”. E magari sono quelli che da qualche anno in qua l’hanno menata su e giù per le colonne dei giornali proprio sul fatto che di epocale, in questo processo, c’era la Mafia, Capitale per di più, non certo la corruzione che è vecchia come il mondo. Quella era la notizia “vera” ma a molti, troppi, giornalisti italiani non gli va giù che quella “notizia”, su cui si sono cullati per anni, alla fine sia stata dichiarata ufficialmente “una balla” e allora fanno diventare realtà la fantasia. Come volevasi dimostrare. Ma che c’entra col giornalismo?

Mafia Capitale, storia e protagonisti del "Mondo di mezzo". Le tappe e i protagonisti dell'inchiesta su Mafia Capitale che ha scoperchiato il "Mondo di mezzo" della politica romana, scrive Giovanni Neve, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Ben 240 udienze celebrate nell'aula bunker di Rebibbia e diluite in 20 mesi; 46 imputati, molti dei quali accusati di associazione di stampo mafioso e ancora in carcere (da Massimo Carminati al 41 bis detenuto a Parma, a Salvatore Buzzi nella struttura di massima sicurezza a Tolmezzo); 80mila intercettazioni telefoniche e ambientali trascritte; 10 milioni di carte e altri 4 milioni di pagine di brogliaccio. Sono questi alcuni numeri del processo Mafia Capitale che si è concluso oggi con la sentenza di primo grado. Queste le tappe più significative:

2 dicembre 2014 - 37 persone arrestate (28 in carcere e 9 ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso: sono i primi risultati dell'operazione Mondo di Mezzo, poi mediaticamente denominata Mafia Capitale. La Procura ritiene che negli ultimi anni nella capitale e nel Lazio abbia agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari (leciti e no) con imprenditori collusi e con la complicità di dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici di ambo gli schieramenti, per il controllo delle attività economiche e per la conquista degli appalti pubblici. Lunga la lista dei reati contestati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione - secondo chi indaga - sono il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi e l'ex terrorista di destra, Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti".

4 giugno 2015 - Nuova ondata di arresti per Mafia Capitale: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l'ennesimo terremoto. Ancora una volta, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell'ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all'alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa anche esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra (al Comune e alla Regione Lazio), risultati a libro paga dell'organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo (business degli immigrati 'in primis') e si aggiudicava i migliori appalti (tra i quali punti verde e piste ciclabili). In carcere finisce anche Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl (poi Fi) in consiglio comunale e poi in Regione: è ritenuto il volto istituzionale di Mafia Capitale per aver messo le sue cariche al servizio del sodalizio criminoso con cui avrebbe elaborato "le strategie di penetrazione nella pubblica amministrazione".

5 novembre 2015 - Comincia il processo davanti ai giudici della decima sezione penale del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula "alla luce dell'interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati".

7 febbraio 2017 - Finiscono in archivio le posizioni di 113 indagati su 116 coinvolti nel procedimento stralcio di Mafia Capitale per imputazioni più o meno residuali, rispetto al processo principale. Accogliendo le richieste avanzate dalla Procura di Roma nell'agosto 2016, il gip Flavia Costantini ha firmato il decreto di archiviazione con un provvedimento di 82 pagine che riguarda esponenti della politica, imprenditori, professionisti, ex militanti di destra e amministratori. Molti di loro, però, sono già a giudizio (o sono stati già processati) per altre imputazioni. Due i motivi principali che hanno spinto il giudice ad accogliere l'impostazione della Procura: per alcune posizioni, "le indagini sin qui portate avanti non hanno consentito di individuare elementi sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio"; per tutte le altre, non sono state riscontrate o ritenute credibili le dichiarazioni accusatorie fatte da Salvatore Buzzi. E così, per il reato di associazione di stampo mafioso escono definitivamente di scena, ad esempio, l'ex sindaco Gianni Alemanno (che però è sotto processo per corruzione e finanziamento davanti ai giudici della seconda sezione penale), gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti, l'ex capo della segreteria politica di Alemanno Antonio Lucarelli, l'ex responsabile di Ente Eur Riccardo Mancini ed Ernesto Diotallevi, che era finito nel mirino dei pm perchè sospettato di essere a Roma il referente di Cosa Nostra. Archiviazione anche per il presidente Pd della Regione Lazio Nicola Zingaretti (indagato per due episodi di corruzione e uno di turbativa d'asta), per il suo ex braccio destro Maurizio Venafro (che era accusato di corruzione, mentre è in attesa del giudizio di appello dopo essere stato assolto in primo grado da un'accusa di turbativa d'asta) e per una serie di altri esponenti della politica come l'ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi (corruzione), il consigliere comunale della Lista Marchini, Alessandro Onorato (corruzione), il parlamentare ex Pdl, poi passato al Gruppo Misto, Vincenzo Piso (finanziamento illecito), il presidente del Consiglio Regionale del Lazio, Daniele Leodori, (turbativa d'asta) e Alessandro Cochi, ex delegato allo sport della giunta Alemanno (turbativa d'asta). Accolta pure la richiesta di archiviazione, per un episodio di abuso d'ufficio, per Luca Gramazio, l'ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio ancora detenuto in carcere per il filone principale e per Massimo Carminati che rispondeva di associazione per delinquere finalizzata ai delitti di rapina e riciclaggio contestata anche a Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak, Stefano Massimi e Gianluca Ius.

27 aprile 2017 - la procura chiede la condanna di tutti e 46 imputati per complessivi 515 anni di reclusione. Le pene più elevate sono state sollecitate dai pm nei confronti di coloro che sono ritenuti gli organizzatori o semplici partecipi dell'associazione di stampo mafioso. Il primo della lista è Massimo Carminati (28 anni perché capo oltre che promotore), seguito da Salvatore Buzzi (26 anni e 3 mesi).

20 luglio 2017 - Arriva la sentenza: Salvatore Buzzi condannato a 19 anni, Massimo Carminati a 20. Per Mirko Coratti, ex presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente del Partito democratico, 6 anni di carcere. Per Gramazio la pena è di 11 anni. Dieci anni a Franco Panzironi, ex ad dell'Ama. Riccardo Brugia a 11 anni. Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione.

Massimo Carminati, il non-boss della non-mafia, scrive Paolo Delgado il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio".  Di “materiale” contro l’ex Nar ce n’è in abbondanza, ma del tutto insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e presentarlo come un capo clan. No, Massimo Carminati non è la versione borgatara di don Totò Riina. La condanna comminata a Roma è pesantissima, sul quanto reggerà al secondo e terzo grado si accettano scommesse. Ma sta di fatto che la vera posta in gioco di questo processo, che non erano le condanne scontate in partenza ma la conferma della “mafiosità” degli associati la porta a casa il Cecato. In aula Carminati ha fatto e anche un po’ strafatto con la palese intenzione di dipingersi come un qualsiasi coatto della serie “teneteme che l’ammazzo”, un tipo pericoloso certo, ma niente a che vedere con i don di Cosa nostra e con il loro ben diverso stile. Era anche quella una recita. Carminati non viene dai casermoni della periferia romana ma dalle palazzine bene di Roma nord, e proprio per questo nella banda della Magliana c’era chi lo guardava storto. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati poi di Antonio Mancini, raccontava che a lei quel ragazzo per bene che non aveva scelto il crimine per bisogno ma per ideologia proprio non andava giù. Qualcosa di ideologico, nella biografia del ragazzo di buona famiglia che già sui banchi del liceo confidava al compagno di classe Valerio Fioravanti di voler «violare tutti gli articoli del codice penale», c’è davvero: quella sorta di non- riconoscimento dello Stato democratico, che soprattutto nei ‘ 70, aveva portato al formarsi di una vera area di sovrapposizione nella quale s’incontravano fascisti affascinati dal crimine e banditi doc ma col cuore nero, come lo stesso Abbruciati, o come il solo vero capo della “bandaccia”, Franco Giuseppucci “er negro”. I pentiti della Magliana, Mancini e Maurizio Abbatino, sono stati negli ultimi anni tra i più decisi nell’accreditare la versione della procura di Roma. Hanno rilasciato interviste a raffica accusando Carminati di essere proprio quel boss dei boss che emergeva dalle migliaia di pagine dell’atto d’accusa. Elementi concreti però non ne hanno mai prodotti e i loro racconti confermano quel che già si sapeva. Massimo Carminati era certamente limitrofo alla Banda, soprattutto tramite Giuseppucci di cui era amico, e si è trovato di conseguenza coinvolto in una serie di fattacci: indipendentemente dalle condanne i pentiti hanno parlato del tentato omicidio di Mario Proietti “Palle d’oro”, per vendicare l’uccisione di Giuseppucci, di un’esecuzione, dell’intervento del Cecato per tirare fuori dai guai il fascista Paolo Andriani, reo di aver “perso” un carico d’armi della banda. Ma è il quadro appunto di un irregolare vicino alla banda, non di un associato e ancora meno di un boss. La stessa cosa si può dire dei Nar, l’altra banda, in questo caso terrorista, che figura a lettere fluorescenti nel pedigree di Carminati. Che fossero amici e camerati è certo. La contiguità non ha bisogno di essere provata e in fondo l’occhio perso che gli è valso il soprannome, il Cecato lo deve proprio alla vicinanza con i Nar. Gli agenti appostati al valico del Gaggiolo, il 20 aprile 1981, aprirono il fuoco contro la macchina nella quale viaggiavano, diretti clandestinamente in Svizzera, Carminati e i due neri Mimmo Magnetta e Alfredo Graniti proprio perché convinti che su quell’auto ci fosse Francesca Mambro. Lo ammisero candidamente al processo e la giustificazione valse un’assoluzione piena. Ma di vere e proprie azioni con i Nar agli atti ne risulta una sola, la rapina miliardaria alla Chase Manhattan Bank del 27 novembre 1979. Ma l’aspetto più sbalorditivo della «straordinaria caratura criminale» del non- boss della non- mafia romana va cercato, più che nelle molto citate frequentazioni dei ruggenti anni ‘ 70, nel silenzio dei decenni successivi. Carminati esce di scena fino al 1999, quando organizza la rapina al caveau del palazzo di giustizia di Roma. Il colpo frutta 18 mld di vecchie lire ma vengono svaligiate anche 147 cassette di sicurezza. Secondo i giornalisti corifei della procura di Roma il vero obiettivo del colpaccio erano proprio quei documenti, che avrebbero permesso a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. A prenderla sul serio bisognerebbe concludere che nella Capitale il marcio alligna soprattutto da quelle parti: 150 magistrati con segreti tali da essere esposti a ogni sorta di ricatto meriterebbero in effetti l’avvio di una maxi- inchiesta Mafia- Palazzaccio. Complotti a parte, tutto indica che in quei decenni di silenzio, prima e dopo il colpo al caveau, Carminati abbia continuato a percorrere la strada che si era scelto da ragazzo. Le intercettazioni ambientali squadernate nel processo indicano senza dubbio una fiorente attività di “recupero crediti”. Confermano che l’ex fascista con un occhio solo ha sempre continuato a bazzicare la malavita romana, nella quale è altrettanto indiscutibilmente una figura di rispetto. Molto probabilmente è entrato in contatto con l’una o l’altra delle organizzazioni criminali propriamente dette che convivono nella Capitale, qualche volta rischiando la collisione, più spesso accontentandosi della spartizione. Materiale abbondante per parlare di un bandito, come del resto Carminati non esita a definirsi. Insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e per fare di Massimo Carminati, già fascista, sodale della banda della Magliana, miliziano con la destra maronita in Libano, più volte detenuto, il gemello diverso di don Corleone.

Le tre vite di Massimo Carminati. Il Nero militante nei gruppi eversivi dell'estrema destra. Il bandito della Magliana autore del colpo al caveau della Banca di Roma. E infine il re del Mondo di mezzo. L'ascesa e la caduta di un criminale che ha attraversato quarant'anni della storia d'Italia. E i suoi misteri, scrive Carlo Bonini il 21 luglio 2017 su "la Repubblica".  Si dice che nei numeri sia scritto un destino. Ed è il Tre che accompagna quello di Massimo Carminati. Tre vite. Tre maschere. Tre mondi.  "Di Sopra". "Di Mezzo". "Di sotto". Le terzine della Divina Commedia, Canto XXIV dell'Inferno. Quelle con con cui l'avvocato Giosuè Naso apre l'arringa nell'ultima difesa nel processo "Mafia Capitale". Le stesse, spese nell'agosto del 1999, di fronte alla Corte di Assise di Perugia. Il collegio che avrebbe assolto Carminati dall'accusa di essere l'esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli, il direttore di Op, foglio di ricatti e veline dell'Italia di Giulio Andreotti, di Gladio, dell'eversione armata, del Paese a sovranità limitata. Un altro secolo per davvero. Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, ei primo e io secondo, tanto ch'ì vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle. Ma chi è dunque e davvero Massimo Carminati?

PROLOGO. IL NERO. O DELLA PRIMA VITA. 20 Aprile 1981 - Valico del Gaggiolo. Confine italo- svizzero. La Renault 5 azzurra si avvicinò al valico a fari spenti. Nel bagagliaio, una sacca con 25 milioni di lire in contanti e tre diamanti. All'interno dell'abitacolo, si indovinavano a malapena tre sagome scure. Tre camerati. Chi li aspettava nascosto nel buio, pensò che, forse, il momento fosse davvero arrivato. Quella notte, i poliziotti della Digos di Roma avrebbero chiuso la partita con quel che restava dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), la sigla dell'eversione nera che, in quattro anni, si era macchiata del sangue di trentatré innocenti e cancellato (2 agosto 1980) le vite di ottantacinque tra donne, bambini, uomini nella strage alla stazione di Bologna. Sì, quella notte sarebbe stata la notte. O, almeno, di questo era convinto chi osservava quelle tre ombre nell'auto. Cercavano una donna e due uomini in fuga. Francesca Mambro, Giorgio Vale, Gilberto Cavallini. Quel che restava della testa dell'organizzazione dopo l'arresto di Valerio Fioravanti, "Giusva", il capo dei Nar, e il pentimento di suo fratello Cristiano. Ma non sarebbe andata così. Su quella Renault erano sì tre "neri". Ma di ben altro peso specifico. Sui sedili anteriori, Domenico Magnetta e Alfredo Graniti. Su quello posteriore, Massimo Carminati. Aveva solo 23 anni. Ma il cuore indurito di un vecchio. Perché aveva visto uccidere, perché aveva dimestichezza con il piombo e la violenza. E perché, avrebbe detto tredici anni dopo qualcuno che lo conosceva bene, Antonio Mancini, l'" Accattone" della Banda della Magliana, anche lui aveva dato la morte. " Fu Massimo Carminati a sparare a Mino Pecorelli insieme ad Angiolino il biondo (il mafioso siculo Michelangelo La Barbera, ndr.). Il delitto era servito alla Banda della Magliana per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari, romani. Quelli che detenevano il potere". Massimo Carminati era nato borghese, il 31 maggio del 1958 a Milano. Ed era cresciuto nelle strade di Roma. Le scuole private nel quartiere di Monteverde, l'amicizia indissolubile con chi - Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi, Valerio Fioravanti - insieme a lui si divideva tra le aule dell'Istituto paritario monsignor Tozzi, le sedi del Movimento sociale italiano, la militanza nel Fuan, il fronte studentesco della destra missina. Tra scontri di piazza, pestaggi, rapine di autofinanziamento. In nome dell'Idea. Ammesso si potesse chiamare così. Carminati scappava, in quella notte di aprile. Da un mandato di cattura per partecipazione a banda armata. Il primo della sua vita. Da una storia, la sua, ancora acerba eppure già intrisa di violenza, che il Paese avrebbe conosciuto un po' alla volta. E mai fino in fondo. Nella sua relazione di servizio, la Digos annotò che vennero esplose raffiche di mitra - oltre centoquaranta colpi - che investirono il fianco sinistro della Renault, risparmiando Magnetta e Graniti. Non Carminati. Un proiettile perforò uno dei finestrini e continuò la sua corsa verso il cranio di quel ragazzo. Gli entrò nell'orecchio e gli portò via l'occhio sinistro. Sostiene oggi l'avvocato Giosué Naso che non andò così. Che aspettavano proprio lui, quella notte. Il "ragazzino di Monteverde". Che doveva essere un'esecuzione utile a mettere a posto uno dei tanti doppi fondi di un Paese a sovranità limitata, intossicato da apparati dalla doppia obbedienza, non necessariamente repubblicana. "Ma quale conflitto a fuoco. Quella notte gli spararono in faccia mentre era armato di una patente falsa. Carminati scese dalla macchina con le braccia alzate. I poliziotti gli andarono di fronte e a bruciapelo gli spararono in faccia. Ecco come andarono le cose. Era caduto nel trabocchetto che gli aveva teso Cristiano Fioravanti. Si era pentito e aveva indicato ai camerati i passaggi per il valico del Gaggiolo, facendogli credere che non fosse controllato. In realtà, Cristiano Fioravanti parlava su indicazione degli agenti della Digos di Roma che si sarebbero fatti trovare là. E che gli avrebbero sparato. E sapete perché? Perché Massimo Carminati doveva morire. E sapete perché doveva morire? Perché doveva diventare, da morto, l'autore materiale della strage di Bologna. Questa è la verità. Quella vera. Se volete cercare rapporti equivoci con le Istituzioni e quant'altro, cercate in quella direzione".

Il BANDITO. O DELLA SECONDA VITA. 1977-1981, Roma. Eppure è una creatura anfibia, Massimo Carminati. La notte dell'aprile 1981 in cui perde l'occhio sinistro e la libertà non è già più soltanto il Nero. Ma un'altra cosa. Perché la maschera del militante dell'eversione armata ha il suo reciproco nella tracotanza del bandito di strada. Nel più banale, forse, ma assai più concreto, "se pijamo Roma" della Banda che ha messo insieme Franco Giuseppucci. Il "Negro". "Libano", se si preferisce, o per chi avesse più dimestichezza con l'epica di Romanzo Criminale piuttosto che con gli atti dei processi di quel tempo lontano. Perché la Banda, la Banda della Magliana, se non altro, vive dell'equità della "stecca para", del bottino di rapine diviso in parti uguali. Di belle macchine, belle fiche, di rispetto e, soprattutto, di una montagna di grano. E non, come pretende qualche sacerdote dell'ortodossia nera, che a chi infila la testa in un passamontagna e una 7.65 nei jeans spetti un'elemosina, mentre il grosso della torta serva a finanziare l'Idea. Per carità, lui, Carminati, oggi la smoscia. In un album di famiglia da ragazzi della via Pal. "Io facevo politica. Ma poi la politica ha smesso di essere politica ed è diventata criminalità politica. Perché c'era una guerra a bassa intensità. Prima con la Sinistra e poi con lo Stato. Il "Negro" era il Capo. Era l'unico vero della Banda della Magliana. Era un mio caro amico. Abitava davanti a casa mia. Ci conoscevamo da una vita. Lui ce rompeva er cazzo. Se pijiavamo per culo tutto il giorno. Me faceva: "E daje, vieni cò noi". E io: "Ma sai che cazzo me frega". Insomma, c'era un grande rapporto di amicizia e io conoscevo tutti gli altri. Quando l'hanno ammazzato m'è dispiaciuto. Insomma, ho avuto rapporti cò tutti 'sti altri cialtroni. Ma loro vendevano la droga e io la droga non l'ho mai venduta. Io schioppavo dieci banche al mese". "Sai che cazzo me ne frega", dunque. Sarà. Antonio Mancini, l'Accattone in quella Banda, la ricorda in un altro modo. Oggi ha settant'anni, vive a Jesi, ha chiuso i conti con la giustizia penale e assiste disabili. "Carminati? Era un tipo taciturno. Sapeva parlare l'italiano. Era istruito. Mica uno sbruffone come quegli altri fascistelli dei fratelli Fioravanti. Renato De Pedis lo portava in palmo di mano. E non solo lui. Carminati era diventato l'armiere della Banda. Era l'unico del gruppo dei Testaccini che poteva entrare e uscire dal deposito di armi che avevamo nei sotterranei del ministero della Sanità all'Eur". Quello, tanto per dire, da cui sarebbe uscito il lotto di proiettili Gevelot utilizzati per uccidere Mino Pecorelli il 20 marzo 1979. Nonché uno dei due mitragliatori Mab che verranno ritrovati su un treno Taranto-Milano dove, per ordine degli allora ufficiali del Sismi (il Servizio segreto militare) Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, entrambi iscritti alla loggia P2, erano stati collocati per indirizzare le indagini sulle responsabilità della strage di Bologna verso una fantomatica, quanto artefatta, "pista estera". Già. "Sai che cazzo me ne frega". Può darsi. E può anche darsi che il 13 settembre del 1980, giorno in cui i Proietti, "il clan dei Pesciaroli" di Monteverde, ammazzarono Franco Giuseppucci, er Negro, Carminati "si dispiacque molto" e basta. Ma anche qui, Mancini ha altri ricordi. "Ero stato messo in squadra con Carminati. Dovevamo prendere vivo uno dei fratelli Proietti e torturarlo per farci dire come erano andate le cose con Giuseppucci. Non riuscimmo. Ma Carminati li inseguì per strada con la pistola in pugno". Per la cronaca: i due Proietti che avevano ammazzato in piazza San Cosimato il Negro finirono anche loro agli alberi pizzuti. Il 16 marzo del 1981, Maurizio, "Il Pescetto". Il 30 giugno del 1982, Ferdinando, il "Pugile". E chi del clan ebbe la fortuna di sopravvivere perse la voglia di coltivarne anche solo la memoria.

PORTE GIREVOLI. O DELL'IMPUNITÀ. 1987-2001, Roma. Se è vero che, in quella seconda metà degli anni '70, la Banda della Magliana è un'agenzia del crimine che un pezzo dello Stato e dei suoi apparati deviati utilizzano per i lavori sporchi, per l'indicibile, beh è esattamente allora che Massimo Carminati l'anfibio, il "Nero" e il "Bandito", afferra le chiavi della sua impunità. Getta le fondamenta su cui costruisce l'Epica che diventerà lo specchio del suo narcisismo. Acquisisce il carburante della forza di intimidazione che la semplice pronuncia del suo nome produce sul marciapiede e nei Palazzi. Non fosse altro perché nella grana di ricatti, di verità impronunciabili anche solo plausibili o immaginabili, l'allusione vale quanto e più di una minaccia. Soprattutto, le cambiali non possono non essere onorate. E lui, dunque, sono gli anni '80 e '90, attraversa le patrie galere con la strafottente leggerezza di chi è certo di non dovervi trascorrere un tempo poi così lungo. Nell'aprile del 1987 viene condannato in via definitiva a tre anni e mezzo di reclusione per la rapina alla filiale della Chase Manhattan Bank di Roma (27 novembre del 1979), di cui sconta le briciole. Grazie a due indulti e ad una "riconosciuta rieducazione". Nel 1988, a Milano, la Corte di Appello lo sfiora appena con otto mesi di reclusione per ricettazione. Coperti dall'indulto del 1991. In quello stesso anno, a Roma, prende un anno e sei mesi per rapina, detenzione e porto illegale di armi. Ma non ne sconta un giorno per l'indulto intervenuto nell'anno precedente. È un uomo fortunato, Massimo Carminati. Non c'è che dire. La giustizia, quando arriva, arriva tardi. Dopo un indulto, appunto. Ricorrente come i condoni fiscali ed edilizi. O a babbo morto. Quando i ricordi di chi lo accusa si fanno improvvisamente sfocati e le fonti di prova si scoprono friabili, il che aiuta la generosa tolleranza di chi lo giudica senza chiedersi mai come sia possibile che quel tipo con un solo occhio salti fuori ovunque. Succede con il maxi processo che, nel 1995, trascina nelle gabbie chi della Banda della Magliana (sessantanove imputati) ha fatto parte e le è sopravvissuto. Per Carminati, l'accusa chiede venticinque anni di reclusione per associazione mafiosa. Ne prende meno della metà: dieci. Che diventano sei anni e sei mesi in Appello, quando l'aggravante mafiosa cade. E lui, è il 2006, quando gli viene revocata anche la libertà vigilata, con quella pagina di storia può serenamente dire di aver dunque definitivamente chiuso. Nell'aprile del 1999, da imputato a piede libero, nell'aula bunker del carcere di Capanne, ascolta la pubblica accusa chiedere la sua condanna all'ergastolo quale esecutore materiale dell'omicidio di Mino Pecorelli. A settembre di quell'anno, la Corte di Assise di Perugia lo assolve dall'accusa "per non aver commesso il fatto". Un anno dopo, dicembre del 2000, si libera anche del fantasma dell'omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, "Fausto e Iaio", due militanti della sinistra extraparlamentare uccisi a Milano il 18 marzo del 1978. Di quell'omicidio, alla fine di un'inchiesta durata soltanto 22 anni, è accusato di essere l'esecutore materiale insieme a due ex camerati. Claudio Bracci e Mario Corsi, detto "Marione". Un tipo che, quando l'aria si è fatta greve, ha svernato nell'esilio inglese dove negli anni '80 e '90 molti neri hanno trovato rifugio e impunità e che si è reinventato opinion maker, si fa per dire, nel mondo delle radio libere romane che campano di Roma, intesa come As Roma calcio, usando il microfono come un manganello. Anche per "Fausto e Iaio" viene assolto, come i suoi due compari. Perché è vero che gli indizi sono "significativi", ma restano pur sempre indizi che il tempo, un quarto di secolo, rende incapaci di farsi prova. Il 21 dicembre del 2001, poi, evapora anche il coinvolgimento nel depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. La storia del Mab uscito dall'arsenale del ministero della Sanità. Per quella faccenda, è accusato di calunnia aggravata, detenzione e porto di armi clandestine ed esplosivi. Ebbene, la Corte di Assise di Appello di Bologna conclude che dalla prima debba essere assolto "perché il fatto non sussiste". E dalle seconde - sono passati ormai 20 anni - perché la prescrizione è arrivata prima di una sentenza definitiva.

IL FURTO AL CAVEAU. O DELLA NUOVA VITA. Roma-Perugia. Estate 1999 - Aprile 2010. Si capisce, dunque, perché nell'estate del 1999 Carminati si rimetta al lavoro. Per ricostruire il suo capitale. Di denaro, da cui è ossessionato, e di ricatti. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio, con una banda di scassinatori che conta anche qualche vecchio arnese della Magliana e, soprattutto, la complicità di quattro carabinieri addetti alla sorveglianza degli uffici giudiziari di Piazzale Clodio, svuota le cassette di sicurezza della filiale interna della Banca di Roma. Ma non tutte. Di 900 che ne conta il caveau, ne vengono aperte solo 147. Quelle scelte da Massimo Carminati e che Carminati ha annotato su un appunto che porta con sé. Spariscono almeno 18 miliardi tra valori contanti e gioielli. Una fortuna. Spariscono, soprattutto, carte che in quelle cassette erano custodite. E che appartengono a magistrati (se ne contano ventidue), avvocati (cinquantacinque), cancellieri (cinque), oltre a dipendenti del tribunale (diciassette), imprenditori, liberi professionisti. E di cui nessuno, curiosamente, si affanna a chiedere o chiederà mai conto. Né nella fase delle indagini preliminari, né in quella del processo quando, una volta accertati i responsabili, non una delle vittime del furto si costituirà parte civile. E per una sola plausibile ragione. Che non si chiede conto di qualcosa di cui è meglio si ignori l'esistenza o di cui si farebbe fatica a giustificare la provenienza. "Ma quale lista? Ma quale ricatto? Furono aperte solo le cassette di sicurezza che non reggevano al primo impatto. Banalmente, chi fece la rapina aveva fretta. Non c'era tempo per aprirle tutte", ricostruisce l'avvocato Giosué Naso raccontando quel colpo come una scampagnata, per altro funestata da un cambio di programma - "Il piano prevedeva di svuotare l'agenzia interna della Corte di Cassazione e si ripiegò sugli uffici del tribunale, perché lì i turni di guardia, almeno quelli in programma, consentivano di avere più tempo. Cosa che per altro poi non si verificò " - e di cui, soprattutto, non si comprenderebbe la suggestione. "Vogliamo forse dire che tra i derubati vi fossero persone che consentono di avere il sospetto che si trattasse di uomini ricattabili o che custodissero segreti inconfessabili? Vogliamo forse dire questo di quel galantuomo che sarebbe stato il futuro presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi? O dell'ex commissario antimafia Domenico Sica? Vogliamo scherzare?". Nessuno ha voglia di metterla all'ingrosso, né di scherzare. Sicuramente non ne aveva Massimo Carminati. Sicuramente non lo presero come uno scherzo alcune delle vittime di quel furto. Magistrati come Orazio Savia, per dirne una, ex pm che nel 1997 sarebbe stato arrestato e condannato per corruzione. E forse neppure lo stesso Sica. Che fu, certo, Commissario antimafia, ma anche il magistrato che scippò l'indagine P2 alla Procura di Milano per condurla sul binario morto degli uffici giudiziari di Roma. Il "Porto delle nebbie", come era stato ribattezzato per lustri. L'approdo sicuro, la stanza di compensazione, che godeva di un "rito alternativo", non scritto, compatibile con le alchimie del Potere. E che aveva visto amministrare giustizia magistrati come Claudio Vitalone, pm dal 1966 al 1979, quindi sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello, creatura di Giulio Andreotti, con cui avrebbe condiviso, da deputato, l'appartenenza alla Dc e, da imputato, il processo per l'omicidio Pecorelli. Da cui, come Andreotti e come Carminati, sarebbe uscito assolto. È un fatto che il processo per i responsabili del colpo al caveau, a cominciare da Carminati, il suo architetto, abbia una curiosa parabola. Si celebra a Perugia, tribunale competente perché tra le vittime del reato figurano appunto magistrati del distretto di Corte di Appello di Roma. Ma qui, molti testimoni smarriscono la memoria. Il principale e unico reo confesso, il "cassettaro" Vincenzo Facchini, si rifiuta di fare persino il nome di Carminati. "Ma che domande mi fa? Lei mi vuole forse far mettere la testa sulla ghigliottina", dice allora al giovanissimo pm Mario Palazzi che lo interroga. Per giunta, per almeno un mese, i carabinieri effettuano indagini sui responsabili del furto lasciando all'oscuro i pubblici ministeri. E per ragioni che non verranno mai chiarite in nessuna sede. La storia finisce, dunque, come è scritto che finisca. E come, in un recente libro (La Lista: il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati, Rizzoli), ha ricostruito nel dettaglio Lirio Abbate. Il 2 aprile del 2005, Massimo Carminati viene condannato a quattro anni di reclusione. Sentenza che diventa definitiva nell'aprile del 2010 e che di fatto viene cancellata dall'indulto votato l'anno successivo dal Parlamento. Carminati salda i conti con sei mesi di affidamento in prova ai servizi sociali. Nel 2012, la sua pena è estinta. Una nuova vita può cominciare.

DI SOPRA, DI SOTTO, DI MEZZO. O DEI TRE MONDI. Roma, 2012-2014. Nel 2012, l'aria che Massimo Carminati respira da uomo liberato dalla sua ultima coda giudiziaria, deve apparirgli luminosa, frizzante. È "un bell'incensurato", dice. Gli hanno restituito il passaporto. Può viaggiare. E andare a Londra "per incontrare vecchi amici che non vedevo da secoli". Non ha nemmeno sessant'anni ed è pronto per la sua terza vita. Che è la sintesi sublime delle prime due. Con il vantaggio della maturità, del prestigio del Capo, del disincanto. Che oscilla incessantemente tra cinismo e narcisismo. Che gli consente di guardare dritto negli occhi campioni delle nuove e vecchie mafie, come il boss di Camorra Michele Senese, un altro che la galera, dove pure dovrebbe stare, non sa cosa sia. Il '900 è finito e ha divorziato dall'Idea, Massimo Carminati. E anche dall'obbligo di sporcarsi le mani. Perché qualcun altro lo fa per lui. Ma non ha mollato la strada, né deroga dalle sue regole ferree. Coltiva piuttosto l'ambizione canuta di immaginare una vita diversa per suo figlio, e un reimpiego dei soldi che ragionevolmente nasconde in Inghilterra, investiti nel mattone e garantiti da vecchi camerati che da quel Paese non sono più tornati. Ha soprattutto un patrimonio di relazioni, quello dei "vent'anni", della sua prima vita, da spendere. Perché i camerati di allora non si sono soltanto fatti vecchi come lui. Hanno camminato e rimontato il vento della Storia. Sono usciti dalle "fogne". E il purgatorio del post-fascismo è stata tutto sommato una passeggiata. Come indossare le grisaglie del Potere. Le porte del governo del Paese si sono aperte presto, molto prima di quanto potesse immaginare. E ora sono lì, con le leve del comando strette tra le mani. Nelle grandi aziende di Stato, come Finmeccanica. Nel governo della Capitale e del Paese. Quindi ora tocca a lui. Anche a lui. Che ha un vantaggio. Non potranno negargli una sedia al tavolo imbandito. Perché ha diritto a sfamarsi quanto gli altri. E soprattutto perché lui ha afferrato prima degli altri la regola millenaria che governa le cose degli uomini. Sicuramente quelle di Roma. Dalla notte dei tempi. La parabola dei tre Mondi. Non fosse altro perché di uno di quei mondi, il più importante, è padrone. "Ci stanno i vivi sopra, e i morti sotto. E poi ci siamo noi, che stiamo nel mezzo. Un mondo in cui tutti si incontrano. E tu dici: "Cazzo, com'è possibile che quello... Che un domani io posso stare a cena con Berlusconi.... Capito? Il Mondo di Mezzo è quello dove tutto si incontra... Si incontrano tutti là... Allora, nel Mezzo, anche la persona che è nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non può fare nessuno... E tutto si mischia". L'assunto ha un corollario. "Noi dobbiamo intervenire prima. Non si può fare più come una volta. Che noi arriviamo e facciamo i recuperi. A noi non ci interessa più. Cioè, questi devono essere nostri esecutori... Devono lavorare per noi. Deve essere un rapporto paritario. Dall'amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme. Perché tanto, nella strada, comandiamo sempre noi. Non comanderà mai uno come loro sulla strada. Avranno sempre bisogno di me". È un esito, quello di Massimo Carminati, che suggerisce a Otello Lupacchini, magistrato, giudice istruttore del processo al Banda della Magliana, considerazioni dotte e insieme fulminanti. Che consegna al suo blog sul Fattoquotidiano.it. Scrive Lupacchini: "Werner Sombart, economista e sociologo, capocorrente della nuova scuola storica tedesca e uno tra i maggiori autori europei del primo quarto del XX secolo nel campo delle scienze sociali, a proposito dei "magnati dei grandi trust americani", diceva: "Sono filibustieri e calcolatori furbissimi. Signorotti feudali e speculatori insieme". Questa definizione può valere, mutatis mutandis, anche per Massimo Carminati. Che con i super imprenditori capitalisti sembra condividere l'abito mentale fondato su uno strano spostamento di posizione dell'uomo. Infatti, l'uomo vivo, con il suo bene e il suo male, con le sue esigenze e i suoi bisogni, è stato respinto dal centro dell'interesse e il suo posto è stato preso da un paio di astrazioni: il guadagno e l'affare (...) Per Massimo Carminati, ogni attività viene ridotta a pura e semplice agenzia di servizi, finalizzata a implementare le reti clientelari che sono la vera fonte dell'arricchimento speculativo". Dall'Agenzia del Crimine a quella di Servizi. In una coerenza che non ha smarrito per strada la forza dell'intimidazione. Piuttosto l'ha messa a reddito.

BUZZI, MANCINI&CO. O DEL NUOVO PANTHEON. Roma. 2012-2014. Nel nuovo Pantheon di Massimo Carminati non c'è dunque bisogno - e non c'è spazio, soprattutto - per figure eroiche. Il Mondo di Mezzo non chiede né Epica, né il nichilismo dell'Idea. Al contrario. Chiede mani svelte, furbizia, menzogna, ferocia. Chiede un tipo come Salvatore Buzzi. Il "Rosso", si fa per dire. Assassino riabilitato. Esempio luminoso di una Giustizia e di un carcere che recupera e non affida a una discarica. Un insostenibile logorroico, spesso petulante, millantatore, pecora con i lupi e lupo con le pecore. Campione, con la sua cooperativa sociale XXIX Giugno, di un terzo settore senza il quale il welfare del nostro tempo e delle nostre città va a sbattere. Alloggi e assistenza ai migranti. Campi Rom. Servizio di manutenzione dei giardini, assistenza ai disabili. "Un business che rende più della droga". Quella che Carminati non tocca. Ma con cui, se capita, Carminati fa felice qualche amico che ci lavora, che se la pippa o che semplicemente ci guadagna. Il rapporto tra il "Rosso" e il "Nero" è impari. E non soltanto perché Buzzi è un debole, un adulatore, un cane pastore che si crede furbissimo, ma furbissimo non è. E che sempre di un padrone ha bisogno, Massimo Carminati. Ma perché nel vincolo tra i due è scritto il codice genetico di Mafia Capitale. La sua ragione sociale. L'uno, Buzzi, mette lavoro, capitale umano e finanziario, vent'anni di commesse all'ombra di antichi padrini politici che non contano più come un tempo, fondi neri per ungere le ruote di una politica vorace e di un'amministrazione pubblica tanto fradicia quanto miserabile nelle sue richieste pitocche (un'assunzione in cooperativa, un appartamentino, un posto da impiegati allo zoo comunale) e che, per giunta, vorrebbe continuare a "mungere la mucca" (Buzzi) senza "farla magna'". L'altro, Carminati, mette il peso del suo nome. Quello che evoca e che può muovere sulla strada. La sua rete di relazioni. I camerati che non gli possono dire di "no". E che a Buzzi servono come l'aria, se non vuole morire annaspando. Se vuole lavorare. "Quattro ladri di polli che sparavano cazzate ai tavolini di un bar", dice l'avvocato Giosué Naso. "La Mafia del benzinaro" di Corso Francia, chiosa sarcastico lui, Carminati. Che aggiunge: "Io sono solo un vecchio fascista degli anni '70. Contento di esserlo. Perché noi, quelli della comunità degli anni '70, la pensavamo in un certo modo e continuiamo a pensarla allo stesso modo. Non accannare la gente in mezzo alla strada. Non accannare gli amici. Sono i valori di quando eravamo ragazzi e sono i migliori che ci sono rimasti". Chi sa cosa ne pensa Riccardo Mancini. Il "camerata Mancini". Compagno di batterie e di rapine nei "magnifici '70", è il primo alla cui porta bussa il riabilitato Carminati dopo essersi liberato della seccatura della condanna per il caveau. Lo deve far lavorare. E farlo lavorare significa saldare le pendenze con la cooperativa di Buzzi, che ora è suo "socio". Non è un piacere quello che chiede. È un ordine. Perché lui, Mancini, può far credere al mondo intero quello che vuole. Magari di essere diverso soltanto perché è stato la tasca di Gianni Alemanno, nuovo sindaco di Roma, e con Alemanno è arrivato in Paradiso. Tesoriere della Fondazione Nuova Italia, amministratore delegato dell'ente Eur spa. Ma lui sa bene che non è mai cambiato. Che è rimasto quello dei 20 anni. Un tipo che bussa a quattrini per l'appalto cui la Breda Menarini concorre per la fornitura di filobus. E, soprattutto, che sa che a Massimo "no" non glielo dici. Altrimenti, quello, "ti fa strillare come un'aquila". Riccardo Mancini, Salvatore Buzzi. E non solo. Nel Pantheon della terza vita Massimo Carminati incrocia un variopinto campionario di tipi umani che condividono la stessa dannazione del Capo a cui si sono fatti subalterni e a cui baciano l'anello. Ma senza spartirne l'orizzonte. Sono tutti "amici", dicono di loro. "Si vogliono bene", e chi sa se davvero lo hanno mai pensato. Perché la verità è che sul proscenio di Mafia Capitale, Riccardo Brugia, Franco Testa, Luca Gramazio, Franco Panzironi, Luca Odevaine, Roberto Lacopo, Matteo Calvio sono comparse fungibili di un canovaccio dove la parola "amicizia" conosce sempre una sola declinazione e significato: "Ritorno". Dove nessuno si muove per nulla. E ce ne deve essere per tutti. Perché, e questo lo dice quel saggio di Buzzi, "una mano lava l'altra e due lavano il viso".

L'ESAME DELL'IMPUTATO. O DELLE MASCHERE. 29-30 Marzo 2017 - Roma Aula Bunker Carcere di Rebibbia. Per due anni, dall'isolamento del 41 bis del carcere di Parma, Massimo Carminati, nella presenza silenziosa in video-collegamento con l'aula bunker del carcere di Rebibbia, ha parlato solo il linguaggio del corpo. Una silhouette nera. A tratti sfocata. Ora seduta. Ora impegnata nell'ossessivo e disperato andirivieni dei detenuti, di ogni detenuto, negli spazi angusti. Una gabbia, o la sala dei collegamenti. Doveva sciogliere un'alternativa del diavolo. Tacere. Tenendo fede al mito costruito in trent'anni. O sciogliersi in un fiume di parole. Posare da Padrino, consegnandosi definitivamente al suo mito. O contorcersi da guitto, in una aggiornata "Febbre da Cavallo". Ha scelto di parlare per due giorni interi rimanendo tuttavia prigioniero in quel guado. Un po' Padrino. Un po' guitto. Raramente sincero (solo lì dove non aveva davvero nulla da perdere), spesso posticcio. Anche a costo di suonare svampito. Con un effetto. Apparire improvvisamente vecchio. Ingiallito. Non per questo innocuo. Collerico e vanaglorioso. In una recita della romanità che vuole i figli dell'urbe fanfaroni, chiacchieroni, spesso "cazzari". Sarcastici e feroci. Ma non "diversi", come forse lui avrebbe voluto, immaginando che il criterio "geografico" si traduca in un principio di eccezione nell'interpretazione e applicazione del codice penale. "Questo esame lo sto facendo perché me lo avete chiesto voi. Mi avete così perseguitato... Che se fosse stato per me non lo avrei mai fatto. E quindi, se mi scappa la frizione, avvocato, mi fermi. Ci pensi lei". In quei due giorni, Massimo Carminati ha soprattutto posato a vittima. Si è detto prigioniero di una macchinazione giornalistica, giudiziaria, letteraria, cinematografica, che gli avrebbe cucito addosso un abito non suo. Una presunzione di colpevolezza incostituzionale. In forza di un mito e un'epica con cui non avrebbe nulla a che vedere. "Una cosa ridicola. Magari fossi il Samurai del libro Suburra. Che mo' Netflix ci fa pure la serie. La katana che mi hanno regalato e che mi hanno sequestrato quando mi hanno arrestato me l'avevano regalata per prendermi per il culo dopo che era uscito il libro. Non era una vera spada da Samurai. Serviva per sfilettare il tonno". Insomma, Carminati con un qualunque signor Malaussene che ha attraversato quarant'anni di storia repubblicana per fare da parafulmine. In un mantra dell'autocommiserazione che, del resto, persino nelle alluvionali intercettazioni telefoniche e ambientali di due anni di indagine ricorreva come un esorcismo. O, magari, come la precostituzione, a futura memoria, di un argomento a difesa. "Hanno scritto su di me che sono stato il killer della P2, il killer dei Servizi. Che sono stato tutto e il contrario di tutto. Che sono stato qualunque cosa. Dalla strage di Bologna a qualunque cosa. Tutto quello che mi potevano accollare me l'hanno accollato". Al punto da immaginare una fine che cancelli ogni traccia fisica di sé, quando sarà il momento di congedarsi da questo mondo. "Tanto mi faccio cremare. Mi faccio buttare nel cesso. Lascio in giro soltanto un pollice. Sì, voglio lascià in giro solo quello. Un pollice. Così, dopo che sono morto, fanno qualche ditata su qualche rapina. Su qualche reato. E così dicono che sono ancora vivo. Tanto a me non mi frega un cazzo della vita". Quella che è cominciata ieri. La quarta. E che si annuncia molto diversa dalle altre.

Roma 20 luglio 2017 - Aula bunker del carcere di Rebibbia. "In nome del popolo italiano, il Tribunale, ritenuta la sussistenza di due distinte associazioni.... Esclusa l'aggravante mafiosa di cui all'articolo 7.... Dichiara Carminati Massimo colpevole dei reati di cui ai capi di imputazione.... E lo condanna ad anni 20 di reclusione e 14 mila euro di multa...". L'accusa di mafia era caduta. I 28 anni e sei mesi chiesti dalla pubblica accusa si riducevano di un terzo. La silhouette nera in video collegamento dal carcere di Parma non mosse un muscolo. Poi, conclusa la lettura del dispositivo, sul banco della difesa squillò il telefono che collegava agli imputati in ascolto dalle carceri esterne. L'avvocato Ippolita Naso sollevò il ricevitore. "Massimo, Massimo, eccomi. E allora? Hai capito? Niente mafia. Niente mafia!".

"Niente mafia!".

"Eh. Sì. E quindi, ora, quando esco?".

E già, le terzine del cantico.

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d'alcun riposo,

salimmo sù, ei primo e io secondo,

tanto ch'i' vidi de le cose belle

che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Lo show di Carminati: «Io sono un vecchio fascista degli anni 70», scrive Vincenzo Imperitura il 30 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Mafia capitale, il protagonista del “mondo di mezzo” a ruota libera in tribunale: «Ho sempre saputo di essere controllato, ho un solo occhio ma ci vedo benissimo». Seduto su una sedia di plastica, attorniato dal mare di carte del maxi processo su “Mafia capitale” che lo vede alla sbarra come imputato principale, e ripreso da una telecamera fissa che fa un po’ serie poliziottesca, Massimo Carminati è un fiume in piena. Così impaziente di rispondere, per la prima volta nella sua lunga “carriera” processuale, che si infuria quando il collegamento dal carcere di Parma crea qualche imbarazzo. Ha il senso dello spettacolo Carminati: è consapevole delle decine di giornalisti che affollano l’aula bunker del carcere di Rebibbia (e che non lo possono riprendere per la prima volta in 180 udienze), e non si fa mancare qualche colpo di teatro, in una deposizione, dice l’avvocato Ippolita Naso introducendo l’interrogatorio «che sarà limitata, come limitato è stato il diritto alla difesa del mio imputato, tuttora rinchiuso in regime di carcere duro». Nel lungo racconto dell’ex terrorista nero ci sono almeno un paio di punti fermi. Punti sui quali il presunto capo del “mondo di mezzo”, torna più volte durante la prima delle due giornate che lo vedranno impegnato in prima persona: la rivendicazione (quasi tronfia) della propria storia fascista, e la “persecuzione” giudiziaria di cui sarebbe stato vittima negli anni. «Io sono un vecchio fascista degli anni ’ 70, e sono contento e felice di quello che sono. Non ho niente da nascondere, niente di cui vergognarmi» dice sicuro Carminati, mentre Salvatore Buzzi, dal carcere di Tolmezzo, lo osserva in piedi, sgranando gli occhi e passeggiando stancamente lungo la stanzetta del video collegamento. «Io sono un vecchio fascista, non c’entro niente con i servizi. Qui sostenete che abbia collegamenti con i servizi segreti ma la verità è che quando mi associano ai servizi, io in realtà mi offendo. Mi accusano di avere ricevuto notizie relative all’inchiesta da due poliziotti del commissariato di Ponte Milvio e da un vecchio maresciallo in pensione. Ma io sono un pregiudicato ed è normale che fossi conosciuto dai poliziotti di quartiere che venivano a controllarmi continuamente, soprattutto durante il periodo in affido. Ma – dice senza mai perdere la calma e con gran senso dei tempi scenici – mettiamoci d’accordo. Questi, ma che potevano fa’? Le cose sono due, o io sono Fantomas come mi descrivete e quindi mi relaziono con chi dite voi, o sono un cretino, che parla con degli sfigati che non mi possono aiutare». Per contrastare l’ipotesi di avere ricevuto segnalazioni sull’indagine che lo riguardava poi, il “cecato”, ha anche dato lezioni di investigazione in aula, raccontando di essersi accorti immediatamente dei pedinamenti, ma di averli associati alla perquisizione subita qualche giorno prima. «Sono sempre stato sotto controllo, ma dopo la perquisizione le cose sono peggiorate. Ma i pedinamenti erano visibilissimi, cioè era impossibile non vederli. Una volta – ha detto ancora l’imputato – si sono fermati in due in una macchina davanti a una banca, e la polizia che è passata più volte lì davanti non si è mai fermata. Cose che se mi ci mettevo io lì davanti a una banca, in due minuti arrivava l’esercito». Carminati poi è certo di essere stato usato come cardine per dare “forza” all’intero procedimento e, incurante dei 32 capi d’imputazione che gli vengono contestati, dall’associazione mafiosa alla corruzione, passando per l’usura e la violenza, ripete più volte di essere stato descritto come il male in persona. «Senza di me questo processo sarebbe stato ridicolo – affonda – invece c’è Carminati in mezzo e quindi cambia tutto. Ma forse – dice ancora – questo pensiero è solo figlio del mio Ego ipertrofico. Sulla figura del perseguitato Carminati ritorna più volte, intervallando il racconto con piccole frasi prese dalla strada. «Io c’ho un occhio solo, ma ci vedo benissimo» oppure, raccontando di quando avrebbe “fiutato” l’indagine che lo riguardava «La preda sa sempre che il cacciatore è in agguato». Ma sono i giornalisti le vittime preferite degli affondi di Carminati: «Io sono diventato una macchietta, chi mi conosce sa che sono una macchietta. Mi hanno dato del “Nero” di Romanzo Criminale, del samurai, mi hanno rotto tutti le palle. Ma queste cose che in un certo tipo di mondo ti rende ridicolo, non sono cose che ti danno potere, sono cose che ti fanno diventare deficiente. Tutti quelli che mi conoscono mi prendevano per il culo su questa cosa, sono diventato una macchietta, questa è la verità. Non sto dicendo che sono una mammoletta. Ma non c’entro nulla con Romanzo criminale, con i samurai e con tutte queste puttanate».

Banditello comune o boss de noantri? Ecco chi è Carminati…, scrive Paolo Delgado il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". “Mafia capitale”, biografia di Carminati: la prima pistola se la procurò a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare le banche. È un bandito come tanti (non tantissimi però e ci tiene a rimarcarlo, con quel passato politico rivendicato in partenza e i continui riferimenti al senso dell’onore) oppure è il Totò Riina de noantri, il capo dei capi nella Capitale? Che la personalità e il ruolo dell’imputato pesino in un processo penale è consueto, ma che l’intera architettura dell’accusa dipenda dalla risposta a quegli interrogativi è invece inusuale. Trattasi anzi di un caso forse unico. «Senza di me questo processo è ridicolo»: almeno in questo Massimo Carminati ha senz’altro ragione. Se si tratti di una volgarissima storia di mazzette come in Italia se ne contano a mucchi o se invece ci si trovi di fronte a un modello nuovo e diverso, ma non meno pericoloso, di mafia dipende solo da questo: dal chi è davvero Massimo Carminati. E’ solo la sua presenza che giustifica l’accusa di mafia rivolta a una cooperativa abituata a distribuire tangenti e a una banda dedita essenzialmente al recupero crediti. Senza Pirata lo storico processo non va oltre un fattaccio di corruzione spiccia e cravattari di mano pesante. Criminale Massimo Carminati lo è di sicuro, e non fa nulla per nasconderlo. Al contrario rivendica: «Nel mondo di sotto ci sono pochi comandamenti, magari solo 3 ma li si rispetta. Le anime belle che stanno di sopra ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno». La prima pistola se la procura a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare banche. «Sono un vecchio fascista degli anni ‘ 70 e sono contentissimo di esserlo», spiega ai giudici di Mafia Capitale nella sua prima deposizione dopo una quarantina d’anni di mutismo in numerose aule di giustizia. Nei ‘ 70 frequenta il Tozzi, scuola privata di Monteverde. In classe ci sono Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e Valerio Fioravanti, il nucleo centrale dei primi Nar, e c’è Maurizio Boccacci, futuro naziskin. Rispetto ai Nuclei armati rivoluzionari, Carminati è in realtà una figura anomala. Più che i bar di Monteverde bazzica il Fungo dell’Eur, altro luogo di ritrovo fisso del neofascismo romano, dove conta tra gli amici intimi i fratelli Bracci, che come lui sembrano subire il fascino della delinquenza pura oltre che della politica armata. A differenza degli altri Nar non viene dal Msi, e si configura già come una sorta di lupo solitario. Il ruolo visibilmente lo compiace, tanto da vantarsene ancora adesso: «Fanno la fila per ammazzarmi ma io posso stare solo contro tutti». Quando nel corso della prima rapina dei Nar, quella all’armeria di Monteverde Centofanti, Anselmi viene ammazzato dal proprietario, Carminati, per vendetta, piazza una bomba nel negozio. Fioravanti, che con i Nar sta pianificando l’omicidio del bottegaio, vede sfumare la rappresaglia e si risente. Tra i due, in realtà, non corre ottimo sangue e ancora oggi entrambi parlano dell’altro con un filo di disprezzo. Il futuro don capitolino coinvolge infatti nei suoi rapporti con la criminalità comune Alessandro Alibrandi e Fioravanti, che in materia è piuttosto moralista, non gliela perdona. Essendo quella dei Nar soprattutto una sigla a disposizione di chiunque avesse voglia di adoperarla, è difficile dire chi abbia davvero fatto parte della più famosa banda armata di estrema destra in Italia. Però Francesca Mambro è tassativa: Massimo non era dei Nar. Il particolare non è solo pittoresco. Proprio la militanza sia nei Nar che nella famigerata “banda” è infatti la fonte di quella “straordinaria caratura criminale” che nell’ordinanza della procura di Roma viene segnalata più volte e che, sola, giustifica l’accusa di associazione mafiosa. Franco Giuseppucci, Er Negro, Carminati lo conosce al bar che entrambi, vicini di casa, frequentano. Il primo capo della banda della Magliana è un fascistone, si tiene in casa il busto di Benito, il ragazzino fascista e determinato gli sta simpatico. Il rapporto tra i due vale a Carminati l’arruolamento d’ufficio nella banda resa celebre dal Romanzo di De Cataldo, con annesso film e due fortunatissime serie tv. In realtà il rapporto con la bandaccia non è diverso da quello con i Nar: Carminati è contiguo, mai davvero interno. Er Negro chiede qualche favore e secondo i pentiti, non suffragati però da sentenze di condanna, si tratta di favori sanguinosi, incluso l’omicidio Pecorelli. Qualche favore concede in cambio: Carminati gli affida i frutti delle rapine, Giuseppucci li presta a strozzo e poi gli consegna i cospicui interessi. A conti fatti per la lunga scia di sangue che la banda si porta dietro, la sola condanna che colpirà anche il fascista sarà per il deposito di armi della banda nei sotterranei del ministero della Salute. Leggenda vuole che Carminati fosse l’unico ad avere accesso a quell’arsenale oltre ai pezzi da novanta della banda. In realtà, a spulciare le testimonianze, viene fuori che se l’ingresso non era certo libero, non era neppure così riservato e limitato. La menomazione a cui deve il piratesco soprannome è conseguenza di un’imboscata in piena regola. il 20 aprile 1981. Alle origini ci sono probabilmente le confessioni di Cristiano Fioravanti che, arrestato pochi giorni prima, indica alla polizia il varco di frontiera che i Nar usano di solito per passare in Svizzera. L’appostamento mira a catturare Francesca Mambro, ammetteranno al processo i poliziotti, e quando passa la macchina sospetta mitragliano 145 colpi. Dentro, invece, ci sono Carminati, altri due fascisti, una ventina di milioni ma nessuna arma. I camerati restano illesi. Carminati perde l’occhio. «Da allora – ha detto ieri in aula l’imputato numero 1 – tra me e il mondo c’è una guerra che non è ancora finita». Da allora Carminati ha deposto i modi da ragazzo di buona famiglia che i compari della bandaccia ricordano adottando il tipico romanesco della coatteria locale. Da allora ci sono stati una sfilza di processi e un congruo numero d’anni passati in galera. La sola condanna seria arriva però per il furto al caveau del palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Secondo alcune fantasiose belle penne il colpo gli permise di trafugare documenti riservati tanto deflagranti da tenere in stato di perenne ricatto un cospicuo numero di magistrati. Se fosse vero risulterebbe lievemente inquietante sapere che i giudici della Capitale sono in buona quantità ricattabili. Se fosse vero, peraltro, si capirebbe fino a un certo punto come mai il ricattatore soggiorna da oltre due anni nelle patrie galere in regime di 41bis, ormai unico o quasi a godere di quelle delizie ancora prima della prima condanna. Massimo Carminati sa perfettamente che in questo processo tutto dipende non da cosa ha fatto ma da chi è: senza dubbio si adopera per sminuire il proprio stesso ruolo. E’ certo che le frequentazioni e la dimestichezza con i boss della Capitale indicano un ruolo meno marginale di quanto voglia far sembrare. Ma, almeno agli atti, prove della sua sovranità sulla Roma criminale e quindi della sua primazia mafiosa proprio non sembrano esserci.

Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV

Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.

Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.

Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.

NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA

Aldo Ambrosi Avvocato 188

Virginio Anedda Magistrato 274

Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379

Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691

Mirella Antona Dipendente Tribunale 714

Silvio Bicchierai Commercialista 90

Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115

Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125

Luigi Bartolini Cancelliere 191

Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985

Gualtiero Cremisini Avvocato 393

Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421

Guido Calvi Avvocato 445

Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718

Enzo Carilupi Avvocato 721

Michele Caruso Avvocato 113

Silvia Castagnoli Magistrato 123

Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133

Giuseppe Crimi Avvocato 137

Annamaria Carpitella Avvocato 145

Maurizio Calò Avvocato 174

Cesare Romano Carello Avvocato 177

Leonardo Calzona Avvocato 233

Dario Canovi Avvocato 240

Giovanni Casciaro Magistrato 261

Antonio Cassano Magistrato 282

Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382

Francesco De Petris Avvocato 30

Anna Maria Donato Avvocato 127

Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189

Lucio De Priamo Avvocato 192

Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237

Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385

Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693

Serapio De Roma Avvocato 713

Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212

Maria Frosi Avvocato 120

Torquato Falbaci Magistrato 209

Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257

Efisio Ficus Diaz Avvocato 285

Giorgio Fini Avvocato 692

Maria Grappini Avvocato 15

Ivo Greco Magistrato 235

Giuseppe Cellerino Magistrato 126

Adalberto Gueli Magistrato 141

Aurelio Galasso Magistrato 213

Giuseppe Gianzi Avvocato 259

Francesco Giordano Avvocato 391

Vito Giustianiani Magistrato 403

Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543

Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715

Michele Imparato Cancelliere 248

Maria Elisabetta Lelli Ctu 114

Stefano Latella Carabiniere 121

Giorgio Lattanzi Magistrato 215

Antonio Liistro Magistrato 258

Mauro Lambertucci Avvocato 324

Michelino Luise Avvocato 741

Antonio Loreto Avvocato 65

Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35

Simonetta Massaroni Avvocato 183

Nicola Mandara Avvocato 277

Antonio Minghelli Avvocato 280

Caterina Mele Avvocato 297

Luigi Mancini Avvocato 333

Giancarlo Millo Magistrato 378

Alberto Oliva Avvocato 446

Bruno Porcu Avvocato 12

Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202

Francesco Palermo Avvocato 343

Enrico Parenti Magistrato 368

Valeria Rega Cancelliere 74

Bruno Riitano Avvocato 110

Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178

Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394

Domenico Ruggiero Avvocato 451

Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738

Francesco Rizzacasa Avvocato 743

Antonietta Sodano Avvocato 149

Domenico Sica Magistrato 720

Vincenzo Taormina Avvocato 94

Cesare Testa Avvocato 181

Wilfredo Vitalone Avvocato 81

Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306

Bruno Villani Avvocato 164

Fortunato Vitale Avvocato 50

Giuseppe Volpari Magistrato 281

Paolo Volpato Avvocato 380

Umberto Zaffino Avvocato 199

Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322

Maurizio Zuccheretti Avvocato 252 

Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali. 

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».

Il deposito di armi al Ministero della Sanità. Il notevole aumento del numero di armi a disposizione della banda che, sino a quel punto venivano custodite da una serie di favoreggiatori incensurati, indusse l'organizzazione a valutare l'opportunità di raggrupparle in un unico deposito. Da un lato, vi era chi avrebbe preferito custodirle in un appartamento disabitato e, dall'altro chi invece premeva affinché venissero affidate ad un'unica persona in un ambiente insospettabile. «Marcello Colafigli aveva un notevole ascendente su Alvaro Pompili, all'epoca impiegato del Ministero della Sanità, pertanto gli prospetto' la possibilità di costituire un deposito presso tale Ministero. Alvaro Pompili, a sua volta, era particolarmente legato a Biagio Alesse, custode e centralinista presso il Ministero della Sanità, il quale si fece convincere agevolmente a fare anche il custode delle armi, con un compenso fisso di circa un milione al mese e con la tacita garanzia che, per ogni necessità economica, la banda avrebbe fatto fronte ai suoi impegni. Fu così che gran parte delle armi furono trasferite dai precedenti depositi presso la Sanità. Per quanto poi concerne, in particolare, la riconsegna, questa veniva effettuata quasi sempre da Claudio Sicilia e da Gianfranco Sestili: essi si limitavano a lasciare il borsone all'Alesse, il quale provvedeva autonomamente all'occultamento. Mentre per quanto concerne il ritiro e la preparazione delle armi, l'Alesse poteva consentirla soltanto ai due predetti, a me, a Marcello Colafigli e alle persone che si fossero presentate in nostra compagnia. Per quanto sono in grado di ricordare e per quel che mi risulta personalmente, mi recai al Ministero una volta in compagnia di Danilo Abbruciati e un'altra in compagnia di Massimo Carminati. Ora, mentre Danilo Abbruciati non era autorizzato a recarsi da solo presso il Ministero, a Massimo Carminati venne consentito, invece, in un secondo momento, di accedere liberamente al Ministero. La decisione di consentire l'accesso con maggiore libertà al Carminati, venne presa da me, nell'ottica di uno scambio di favori tra la banda e il suo gruppo. Le armi custodite nel deposito della Sanità appartenevano a tutte le componenti della banda, rispondeva pertanto unicamente a esigenze di sicurezza limitare alle persone che ho indicato il libero accesso al Ministero, anche per non creare dei problemi ulteriori all'Alesse.» (Interrogatorio di Maurizio Abbatino del 3 dicembre 1992). Il 25 novembre del 1981, nel corso di una perquisizione, la polizia rinvenne in uno scantinato del Ministero della Sanità, al civico 34 di via Liszt all'Eur, l'arsenale composto da 19 tra pistole e revolver, una Beretta M12, un mitra Beretta MAB 38, un mitra sten, altri fucili mitragliatori, oltre a cartucce e bombe a mano. Analizzando le armi, gli inquirenti poterono risalire anche ai legami tra la banda e la destra eversiva dei Nuclei Armati Rivoluzionari che, proprio tramite Massimo Carminati, ebbero modo di utilizzare alcune di quelle armi, a cominciare dal depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna operato dai servizi deviati.

Con i Nuclei Armati Rivoluzionari. Di altra natura, invece, fu il rapporto della Banda con l'universo giovanile dell'estremismo di destra e, in particolare, con i componenti del nucleo storico dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Alessandro Alibrandi, Cristiano e Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e, soprattutto, Massimo Carminati. Negli anni settanta, infatti, la contiguità sia temporale che fisica tra gli ambienti dell'eversione politica e del crimine comune organizzato fece sì che, tra le parti in causa, cominciò a farsi strada la possibilità di ricercare un terreno di reciproco beneficio comune. Frequentando i locali del bar Fermi[26] o quelli del bar di via Avicenna (entrambi nella zona di Ponte Marconi), dove spesso si ritrovavano anche molti dei componenti della stessa Banda, nell'estate del 1978 Massimo Carminati entrò in contatto con i boss Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci che, ben presto, lo presero sotto la loro ala protettiva. A loro Carminati iniziò ad affidare i proventi delle rapine di autofinanziamento effettuate con i NAR, in modo da poterli riciclare in altre attività illecite quali l'usura o lo spaccio di droga. In regime di reciproco scambio di favori, la Banda, di tanto in tanto commissionava ai giovani fascisti anche di eliminare alcune persone poco gradite, come nel caso del tabaccaio romano Teodoro Pugliese, ucciso da Carminati (assieme ad Alibrandi e a Claudio Bracci) con tre colpi di pistola calibro 7,65, perché d'intralcio nel traffico di stupefacenti gestito da Giuseppucci. Durante questo periodo, Carminati ottenne addirittura il controllo congiunto (per conto dei NAR e unico autorizzato del gruppo eversivo) del deposito di armi nascosto negli scantinati del Ministero della sanità, all'EUR. Altre indicazioni circa la relazione tra la Banda e l'eversione di destra vennero fornite dalle dichiarazioni rese dal neofascista (e pentito) Walter Sordi quando, al giudice di Roma in data 15 ottobre 1982, dichiarò che: «Alibrandi mi disse che Carminati era il pupillo di Abbruciati e Giuseppucci. Parlando in particolare degli investimenti di somme di denaro da noi fatti attraverso la banda Giuseppucci-Abbruciati, posso dire che nel corso dell'80, Alibrandi affidò alla banda stessa 20 milioni di lire, Bracci Claudio 10 milioni, Carminati 20 milioni, Stefano Bracci e Tiraboschi 5 milioni. Ricordo che Alibrandi percepiva un milione al mese di rendita. I soldi affidati alla banda Giuseppucci-Abbruciati erano tutti in contanti. Come ho già spiegato, Giuseppucci e Abbruciati prevalentemente investivano il denaro da noi ricevuto nel traffico di cocaina e nell'usura, ma c'erano anche altri investimenti nelle pietre preziose e nel gioco d'azzardo.» Nel 1998, la Commissione Parlamentare sul Terrorismo nella sua relazione annuale, scrisse: «All'autofinanziamento furono invece dirette numerose rapine prima presso negozi di filatelia poi agenzie ippiche e banche, rapine che frutteranno una disponibilità economica assai superiore a quella necessaria alla vita dell'organizzazione e connotarono di un tratto di delinquenza ordinaria sia la condotta e il tenore di vita degli autori, sia l'ambiente criminale in cui gli stessi si muovevano. L'organizzazione e l'esecuzione di molti dei colpi avvicinò stabilmente - e per alcuni in modo irreversibile - i ragazzi dei NAR alla criminalità organizzata del gruppo che successivamente verrà indicato (sinteticamente e in parte impropriamente) come Banda della Magliana, attraverso lo stretto legame dei fratelli Fioravanti e di Alibrandi con personaggi come Massimo Sparti, e di Massimo Carminati e dello stesso Fioravanti con Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati. Tali legami verranno a consolidarsi, oltre che con la pianificazione e attuazione di rapine (come presso le filatelie o alla Chase Manhattan Bank), attraverso le attività di reinvestimento dei proventi delle rapine (per lo più attraverso il prestito usuraio) che gli estremisti affideranno alla banda, per conto della quale eseguivano attività di intimidazione e di vero e proprio killeraggio.» Anche per diretta ammissione dei pentiti Claudio Sicilia e Maurizio Abbatino è accertato che i militanti dei NAR effettuarono per la banda lavori di manovalanza criminosa come la riscossione di crediti dell'usura, il trasporto di quantitativi di droga oltre che alcuni delitti su commissione. A volte, però, il meccanismo s'inceppò come nel caso della rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma del 27 novembre 1979, da parte di Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Giuseppe Dimitri e Massimo Carminati. Successivamente parte del bottino, consistente in traveller cheque, verrà come sempre affidata nelle mani di Franco Giuseppucci che ne organizzerà l'operazione di riciclaggio ma che gli costerà, nel gennaio del 1980, un arresto con l'accusa di ricettazione.

L'intreccio con politica e servizi deviati. Il coinvolgimento nell'omicidio Pecorelli. La sera del 20 marzo 1979 Mino Pecorelli, giornalista iscritto alla loggia massonica P2 di Licio Gelli, venne assassinato con quattro colpi di pistola calibro 7,65 (uno in faccia e tre alla schiena) da un sicario in via Orazio a Roma, poco lontano dalla redazione del giornale in circostanze ancora oggi non del tutto chiarite. Egli era direttore di OP-Osservatore Politico, dapprima agenzia di stampa e poi rivista settimanale specializzata in scandali politici, tra i quali lo scandalo petroli, il caso Moro, lo scandalo dell'Italcasse, il crack della Sir o gli affari di Sindona e Andreotti, che, attraverso delle importanti inchieste, si rivelò anche uno strumento di ricatto e condizionamento del mondo politico per lanciare messaggi cifrati e spesso ricattatori. Dei proiettili simili a quelli utilizzati nell'agguato (appartenenti allo stesso lotto e con lo stesso grado d'usura del punzone che marca la punta), calibro 7,65 e di marca Gevelot, difficilmente reperibili sul mercato, vennero poi rinvenuti all'interno dell'arsenale della banda nei sotterranei del Ministero della Sanità. Al processo emerse un chiaro coinvolgimento della banda e di Massimo Carminati il quale venne imputato di aver commesso materialmente l'omicidio nell'interesse di Giulio Andreotti, oggetto nella primavera del 1978 di un violento attacco dalle colonne di OP. Tramite dell'accordo sarebbe stato il magistrato e intimo amico del senatore Claudio Vitalone, personaggio molto vicino a esponenti della banda, come per esempio De Pedis. Il 3 marzo 1997, durante l'interrogatorio di fronte alla Corte di assise di Perugia, il pentito Maurizio Abbatino dichiarò ai giudici di aver saputo da Franco Giuseppucci che l'omicidio era stato commissionato a loro dai siciliani, ai quali sarebbe stato richiesto da un importante personaggio politico, individuato poi in Giulio Andreotti, oggetto di un duro attacco attraverso gli articoli del settimanale OP. «La tesi accusatoria nel processo prospettava che il delitto sarebbe stato deciso dal senatore Andreotti il quale, attraverso l’on. Vitalone, avrebbe chiesto ai cugini Ignazio e Antonino Salvo l’eliminazione di Pecorelli. I Salvo avrebbero attivato Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, i quali, attraverso la mediazione di Giuseppe Calò, avrebbero incaricato Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci di organizzare il delitto che sarebbe stato eseguito da Massimo Carminati e da Michelangelo La Barbera.» (Documento del Senato della Repubblica). Anche Antonio Mancini ebbe a confermare questa circostanza, nell'interrogatorio al pm di Perugia dell'11 marzo 1994, aggiungendo che fu «Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il biondo» (Michelangelo La Barbera, ndr), siciliano. Il delitto era servito alla Banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari, finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere." A parere dei magistrati però «gli elementi probatori (nei confronti di Vitalone, ndr) non sono univoci» e non permettono «di ritenere riscontrata la chiamata in correità fatta nei suoi confronti». Insomma, Vitalone avrebbe avuto rapporti con l'organizzazione criminale ma non ci furono prove abbastanza evidenti dal punto di vista penale per condannarlo. Dopo tre gradi di giudizio, nell'ottobre del 2003, la Corte di cassazione di Perugia emanò una sentenza di assoluzione "per non avere commesso il fatto" per Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, accusati di essere i mandanti, e per Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera da quella di essere gli esecutori materiali dell'omicidio, bollando le testimonianze dei membri della banda come non attendibili. La morte di Pecorelli resta ancora oggi un caso irrisolto come anche la provenienza dell'arma utilizzata nel delitto: tutte le armi dell'arsenale della banda, nel mentre, risultarono misteriosamente manomesse prima che fosse fatta qualche perizia per verificarne il concreto utilizzo.

I depistaggi nella Strage di Bologna. La probabile convergenza d'interessi tra gli uomini della Magliana, gli ambienti dell'eversione nera e alcuni settori deviati dei servizi e della politica, trova perfetta esemplificazione nel tentativo di depistaggio legato alla strage alla stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980, per la quale vennero riconosciuti esecutori materiali (tra gli altri) alcuni militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, di Valerio Fioravanti. Nel corso delle indagini, infatti, un mitra Mab con numero di matricola abraso e calcio rifatto artigianalmente, proveniente dal deposito/arsenale della banda all'interno del Ministero della Sanità, venne ritrovato sul treno Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, in una valigetta contenente anche due caricatori, un fucile da caccia, due biglietti aerei a nome di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, e soprattutto del materiale esplosivo T4, dello stesso tipo utilizzato per la strage di Bologna. Nella sentenza della Corte suprema di cassazione del 23 novembre 1995, nel processo sulla strage del 2 agosto, risultava infatti che: «Il mitra rinvenuto nella valigia che era stata collocata il 13.1.1981 sul treno Taranto-Milano apparteneva alla cosiddetta "banda della Magliana", una vasta associazione per delinquere, operante a Roma in quegli anni. Maurizio Abbatino, che di quell'associazione aveva fatto parte, aveva rivelato che negli scantinati del Ministero della Sanità l'organizzazione disponeva di un cospicuo deposito di armi e che alcune di esse erano state temporaneamente cedute a Paolo Aleandri, ma non erano state più restituite. Per costringere Aleandri a rispettate l'impegno assunto era stato sequestrato, ma poi era stato liberato, con la mediazione di Massimo Carminati quando all'associazione, in sostituzione delle armi date in prestito ad Aleandri, erano state date due bombe a mano e due mitra e uno di questi mitra era stato prelevato da Carminati e mai più restituito. Abbatino, dopo aver descritto le peculiari caratteristiche del mitra finito nelle mani di Carminati, caratteristiche conseguenti ad un'artigianale modifica del calcio, riconosceva quell'arma nel M.A.B. che era stato trovato a Bologna la notte del 13 gennaio 1981, in quella valigia. Infine lo stesso Abbatino aveva precisato che Carminati faceva parte di un gruppo di giovani che gravitava nell'area della destra eversiva, gruppo del quale facevano parte i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Gilberto Cavallini. Una volta riconosciuta, sulla base di tale complesso e articolato quadro probatorio, piena attendibilità alle dichiarazioni di Abbatino, al giudice di rinvio è stato agevole rilevare che il percorso del mitra rappresentava la prova del rapporto di collaborazione tra i soggetti coinvolti nel processo.» Al ritrovamento della valigetta seguì la produzione di un dossier, denominato "Terrore sui treni", in cui venivano riportati gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali (intestatari dei biglietti aerei) in relazione con altri esponenti dell'eversione neofascista italiana legati allo spontaneismo armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari. I due episodi, si scoprirà dopo, durante il processo, vennero attribuiti ad alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI come parte di una precisa strategia di depistaggio organizzata per tentare di indirizzare le indagini in una strada ben precisa e in cui Massimo Carminati, uomo di cerniera tra la Banda ed esponenti dei servizi segreti deviati e dell'eversione nera, ebbe dunque un ruolo attivo, fornendo il MAB prelevato dall'arsenale della Banda e poi rinvenuto sul treno Taranto-Milano. Secondo la Corte di Assise di Roma, il depistaggio è “l'ennesimo episodio di una pervicace opera di inquinamento delle prove destinate ad impedire che responsabili della strage di Bologna fossero individuati”.[39] Il 9 giugno del 2000, nel processo di primo grado, Carminati venne condannato (a 9 anni di reclusione) assieme al generale e al colonnello del Sismi, rispettivamente Pietro Musumeci e Federigo Mannucci Benincasa, al colonnello dei carabinieri Giuseppe Belmonte e al venerabileLicio Gelli. Dell'episodio vennero infine ritenuti responsabili, con sentenza definitiva, i soli Musumeci e Belmonte, mentre Carminati verrà poi assolto in appello.

I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate il 12 dicembre 2012 su l'Espresso. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro.

POTERE NERO. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti.

POKER DI RE. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss.

MAGLIANA FOREVER. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra.

CITTÀ APERTA. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette.

STATO ASSENTE. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.

Quel clan con mille affiliati che nessuno riesce a fermare. Solo Carminati li controllava. Li chiamano «i nullatenenti»: sconosciuti al Fisco, con i soldi a Montecarlo, scrive Goffredo Buccini su “Il Corriere della Sera”. Protetti da un pregiudizio. «So’ zingari, menano e fanno casino...», sbuffavano i coatti di batteria nella vecchia Roma criminale. Stupido, come tutti i pregiudizi. Sottovalutati dai boss e da troppi investigatori per quarant’anni, questi cavallari sinti immigrati dall’Abruzzo all’ombra della Magliana, poi alleati con ‘ndrangheta e camorra, sono cresciuti. Sono diventati «I Casamonica», che adesso all’estero suona un po’ come «I Soprano», nell’anno in cui Mafia Capitale ha tagliato le unghie a Massimo Carminati, che tutti controllava, anche loro. Vittorio, lo «zio Vittorio» che la famiglia ha voluto salutare l’altro ieri con esequie da «re di Roma» scatenando un putiferio mondiale, era il più sveglio, sapeva giocarci con gli stupidi pregiudizi: «Sono uno zingaro, vendo macchine», disse con understatement nel 2004, sospettato di mafiosità dalla Dia: «Macché mafia e mafia! Non nego qualche reato in passato, ma di mafia, usura e droga non voglio neppure sentire parlare». Nella casa da satrapo, i detective di Vittorio Tomasone avevano trovato reperti archeologici rari, quelle chicche che portano i tombaroli e riempiono da sempre le ville dei Casamonica, nella loro enclave alla Romanina, primo fortino con tanto di vedette, tra via Devers e vicolo Barzilai. Ora, lì davanti, la sua gente dice «la mafia è la politica, non noi»: il ritornello populista ha attecchito persino qui. «Zio Vittorio non era mafioso». «Zio Vittorio» raccontava che suo padre aveva «guadagnato coi cavalli, questi soldi li abbiamo fatti fruttare. Io mi occupo di automobili». Era fissato con le Ferrari: «Ho comprato anche quelle del grande maestro Trovajoli e di Claudio Villa». A ogni blitz, sequestri di case, macchine, conti. Nel 2013 viene confiscata perfino una discoteca al Testaccio, ventitré ville. Il patrimonio vale cento milioni di euro; mille gli affiliati divisi in 43 famiglie, secondo l’antimafia. Quando dieci anni prima li scoprono, affrancati dagli anni cupi di Enrico Nicoletti, il cassiere della Magliana, i rotocalchi vanno a nozze con le foto di questi zingari rintanati in una piega della periferia romana, tra piscine hollywoodiane e water d’oro zecchino. «Il clan dei nullatenenti», li chiamano, perché nessuno risulta al Fisco, i soldi vengono investiti in Lussemburgo o a Montecarlo, zingari sì ma mica scemi. Invece, ammettiamolo, è un po’ da scemi la sceneggiata dell’altro ieri alla chiesa Don Bosco. Una fonte giura che sono stati loro, i Casamonica, ad avvisare tv e fotografi: l’impatto mediatico era voluto. Perché? Con Carminati, l’ultimo padrone, spicciano ancora le faccende. Luciano Casamonica prendeva 20 mila euro al mese dal Cecato e dal «compagno Buzzi», gli teneva buoni i nomadi del campo di Castel Romano su cui la gang s’arricchiva. Faceva da «mediatore culturale», Salvatore Buzzi aveva senso dell’ironia: «Questo parla la stessa lingua tua, ve capite... è un grande mediatore, e me lo so’ portato, ah ah ah». Diventerà famoso, Luciano, per una sciaguratissima foto con Alemanno sindaco, una sera alla cooperativa Baobab in cui c’era pure Giuliano Poletti, allora presidente della Lega Coop. Buzzi rampognò il democratico Patané per «l’uso di quella foto». Patané si mise sull’attenti: «Caro Salvatore, io né come consigliere né come segretario del Pd di Roma mi sono mai permesso di fare alcun commento! Sai quanto sono sensibile a questi temi, spero avrai apprezzato». Questa era la Roma pasticciona e trasversale prima che Pignatone passasse con l’aspirapolvere. In quella Roma, i Casamonica pigliavano ancora i crediti al 50%, sicuri di farseli rimborsare. Non era moral suasion, avevano una famiglia di boxeur: il più celebre è Romolo, campione italiano dei welter, poi arrestato per rapina, estorsione e usura. «Al matrimonio cattolico preferisco quello zingaro, si rapisce la ragazza e poi si sistema tutto: le unioni durano», disse a un’udienza papalina per celebrare un santo zingaro. Tutto si mischia. L’ibridazione tra le radici slave e la cultura dei malacarne romani produce una creatura nuova, mafia dalle mille teste e dai tanti capi, dove le donne riciclano i soldi, dove è difficile trovare il bandolo. Blitz nel 2003, 2004, 2012, ogni volta dati per finiti, sempre risorti in mille forme, più forti di prima. Mai nessuno li ha capiti. Loro mostrano di avere capito noi. Un pm che li inquisisce ha il vizio delle donne: lo rovinano mettendogli tra le braccia l’amante di uno di loro. La giudice D’Alessandro li inchioda all’associazione a delinquere, che però cade in appello. Forti e invisibili. Ma allora perché uscire allo scoperto? Perché tirarsi addosso tutti gli «sbirri» d’Italia con il funerale-show? Forse lo spiega in un’intercettazione proprio Carminati, quando si ritrova descritto sull’ Espresso come padrone della città: «Questo sul lavoro nostro so’ pure cose buone... so’ più pronti». Già, si deve sapere chi comanda. Ora comandano loro, i Casamonica? Di certo provocano un sia pur malato effetto marketing, da nuovi boss. L’agenzia funebre ingaggiata per «zio Vittorio» sostiene addirittura che il carro sia lo stesso usato per le esequie di Totò. E la morte sarà pure una livella, ma perdinci qui si esagera. 

·         Ingiustizia. Il caso Tortora spiegato bene.

"Io e l'attacco di panico mentre ero in diretta. Nessuno ha mai pagato per il calvario di papà". La figlia del conduttore tv: "Facevo fatica a respirare, ho fermato tutto e sono svenuta". Laura Rio, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. «Tutto il mio dolore è esploso a quarant'anni. È stato il mio corpo a dirmi che non potevo più sopportare quel peso. E sono cominciati gli attacchi di panico: in diretta, mentre conducevo il telegiornale, sudavo, tossivo, andavo in affanno, non riuscivo più a parlare». Gaia Tortora per la prima volta racconta pubblicamente il malessere che l'ha colpita una decina di anni fa quando all'improvviso il mostro che teneva dentro di sé è sgusciato fuori: un mostro creato dalla rabbia per l'ingiustizia subita da suo padre Enzo, la più famosa vittima di errori giudiziari, dalla sua famiglia e da lei stessa, che aveva 13 anni quando Tortora fu arrestato (era il 1983) e portato via in manette. «Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno ai miei colleghi, solo le amiche più intime sanno qualcosa». Gaia ora ha 51 anni, è vicedirettrice e capo della redazione politica del TgLa7 e conduttrice di Omnibus, programma mattutino della rete di Cairo.

Tu hai un'immagine di donna forte, combattiva e agguerrita, come mai hai deciso di far conoscere ora queste tue fragilità?

«Proprio perché mi descrivono tutti così. E invece so quanto sia difficile la vita per chi soffre di attacchi di panico, ci si vergogna, si cerca di nasconderli. Anche io me ne vergognavo. E dunque spero che la mia testimonianza possa aiutare altri che ne sono colpiti, far capire che può capitare a chiunque e, soprattutto, che se ne può uscire».

E tu come ci sei riuscita?

«Prendendo consapevolezza di quello che mi stava accadendo. Quando ho capito che soffrivo di attacchi di panico, sono andata in terapia e ho affrontato tutte le cose che tenevo chiuse dentro di me come in un buco nero. In fondo a quel tunnel c'ero io da piccola con tanto di quel dolore che nemmeno immaginavo. Ero come una bomba a orologeria: prima o poi l'esplosione avviene».

Come è successo?

«In quel periodo conducevo un notiziario flash al mattino, direttore del TgLa7 era ancora Antonello Piroso. A un certo punto mi sono bloccata: ho tagliato tutto, salutato e mi sono accasciata al suolo. Subito la regia ha mandato la pubblicità. Ho pensato che fosse solo un momento di stanchezza, di pressione bassa. Poi si è ripetuto molte volte, anche quando conducevo il telegiornale delle venti nei fine settimana in alternanza con Mentana: mi impappinavo, respiravo a fatica, arrivavo alla fine in affanno. Per giustificarmi dicevo che mi ero strozzata con le noccioline, che avevo il raffreddore, che non stavo bene Apparire in tv era diventata una sofferenza».

Ci sono voluti quasi 30 anni perché quella crepa si aprisse.

«A 13 anni, quando mio padre è stato messo in prigione, mi è crollato in mondo addosso: ero una ragazzina alle porte dell'adolescenza. Qualche cretino per strada mi facevo il gesto della manette Avevo due possibilità: buttarmi via o incanalare questo dolore in qualcosa che mi facesse vivere. Ho scelto la seconda: quella del lavoro duro, tenace, della passione per il giornalismo, senza vittimismo».

Ma il buco nero era rimasto lì.

«L'inconscio prima o poi viene a galla. Io avevo già cominciato un percorso di conoscenza di me stessa che mi ha poi avvicinata al buddismo. Ma quando crolli ti devi sedere, prenderti del tempo, affrontare quello che il tuo corpo ti sta comunicando e, una volta che ci hai fatto i conti, imparare a conviverci. Il dolore non passa, ma hai una cassetta degli attrezzi per maneggiarlo».

C'è ancora rabbia dentro di te?

«Rabbia no, determinazione sì. Mi domando ancora perché sia accaduta una cosa del genere, perché un innocente abbia dovuto affrontare quel calvario, perché nessuno abbia mai pagato per quanto è successo. Mi domando perché dopo 30 anni in questo Paese non sia cambiato nulla, perché non ci sia stata una riforma della giustizia. Perché ci siano ancora i casi Palamara e Di Matteo».

Tuo padre è stato messo alla gogna oltre che dalla giustizia anche da una certa stampa.

«C'è ancora la cattiva abitudine di processare le persone sui giornali e nell'opinione pubblica. I giornali si dividono per tifoserie, come nei derby, siamo ancora rimasti agganciati alla logica di berlusconismo e anti-berlusconismo. E, allora, quando si straparla di innocenti in cella mi inalbero, divento un caterpillar».

Come è accaduto nella lite con Marco Travaglio, che hai mandato a quel paese quando ha scritto che «non c'è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere».

«In questo paese va così: Travaglio può insultare chiunque, perché cane non morde cane, non ci si mette contro di lui, in un certo ambiente se dici alcune cose è difficile farsi accettare, ma io ho detto e dirò sempre quello che penso. Ormai lui mi fa tenerezza. Ma le parole hanno un peso: non lo faccio solo per mio padre, ma per tanti altri, cui posso dare voce avendo io una veste pubblica».

Insieme a tua sorella Silvia sei diventata un simbolo.

«Ricevo tantissime lettere, soprattutto di parenti disperati perché un loro caro è in carcere. Mi sento male quando le leggo, perché quella era la battaglia di mio padre (Dare voce a chi voce non ha), cerco di rispondere per quel che posso, di aiutare, di indirizzare, di dare una parola di conforto. C'è un mondo che non viene rappresentato, un mondo di persone che affrontano con dignità e compostezza un'ingiustizia. Mi chiedo perché Pd e M5s non abbiano votato in commissione al Senato il dl per istituire una Giornata nazionale in memoria delle vittime degli errori giudiziari».

Perché hai deciso di fare la giornalista nonostante abbia visto tuo padre maltrattato dalla stampa?

«Non voglio certo darmi la patente della giornalista corretta, da ragazza pensavo solo che volevo fare questo mestiere in maniera corretta e non drogata. Non mi frega niente se qualcuno pensa ancora che mi ha aiutato essere la figlia di Tortora: mi sono fatta un mazzo grande così, tanta gavetta per arrivare fino a qui».

Da Teleroma 56 a Telemontecarlo a Telepiù fino all'approdo a La7. Dove Mentana ti ha voluta anche a condurre il tg delle venti.

«Sì, è stata una grande responsabilità e fatica. Ma io preferisco stare dietro le quinte, in regia. Tutti mi dicono che sono una gran rompipalle, anche Enrico: gli dico sempre quello che penso, ci scontriamo, ma alla fine nel 90 per cento dei casi ha ragione lui. In dieci anni avremo litigato tre volte e non mi ricordo neppure perché».

Come fai a stargli dietro in quelle maratone infinite?

«Vi assicuro, non ci prendiamo qualche sostanza. È questione di adrenalina. Lui è lucido, non si fa cogliere dall'ansia e si fa venire idee in continuazione. Poi, con i social è tutto più facile: possiamo stanare i politici e spostare gli inviati in tempi velocissimi».

E come fa una donna a fare la madre di due ragazze, Beatrice (21 anni) e Costanza (18), la vicedirettrice e la anchorwoman?

«Con tanto lavoro e sacrifici. Ora è più facile perché le mie figlie sono grandi. Ma quando erano piccole mi è costato: non ero presente al primo giorno di scuola perché ero in conduzione. Sono cose che ti rinfacciano, ma un giorno quando saranno madri loro capiranno».

La tua di madre, Miranda Fattacci, è stata una colonna.

«Si è presa un macigno sulle spalle: me e mia sorella e tutta la situazione. Quando hanno messo in carcere mio padre erano già separati da tempo, ma il loro rapporto si è rinforzato. Come è successo a me. Lui era un uomo famoso, conduceva Portobello: io ero piccola, vivevo a Roma, lui a Milano, ricordo che andavo a trovarlo, mi portava in studio. Dopo l'arresto, mi scriveva dal carcere, mi chiedeva degli studi, della Roma, dei fidanzati: abbiamo costruito una maggiore intimità. Anche negli anni che ci sono rimasti prima che se ne andasse (nel 1988) cercava di starmi vicino: io ero un po' scapestrata, mi bocciarono due volte, lui nonostante le battaglie giudiziarie e politiche, cercava di farmi capire l'importanza di studiare il latino».

Cosa ti direbbe oggi tuo padre?

«Che non gli piace quel che sta succedendo in questo Paese ma che è fiero di me».

Da mio padre a Carminati, in 37 anni questo Paese non è cambiato. Gaia Tortora su Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2020. Il 17 giugno 1983 l’arresto di Enzo Tortora. “Ho sentito in questi anni politici garantire una riforma della giustizia che ancora non si è vista. L’Italia culla del diritto è stata troppe volte soffocata sul nascere. Io non dimentico. La storia non si dimentica”. 17 giugno. Apro gli occhi. Oggi ci sono gli esami per tanti ragazzi. Che emozione. Penso ai miei di esami quel 17 giugno 1983. Anche di quella emozione mi hanno privato. Per buttarmi a 13 anni all’inferno.

Biglietto di sola andata. Quella mattina qualcosa non andava, lo sentivo da qualcosa di strano in casa. Voci basse a sussurrare. Il telefono che squillava interrottamente dalle 6. Andai a scuola. Ero la quarta in ordine di convocazione. Diventai la prima. Strano. Un esame veloce poi fui portata di corsa di nuovo a casa. Nessun festeggiamento.

Fine di un ciclo. Inizio di un incubo. Avevo 13 anni oggi ne ho 51, le cicatrici le porto dentro. Trentasette anni sono passati, ma nulla è cambiato. Apro velocemente i giornali e le parole di Massimo Carminati mi colpiscono: “Io trattato come il diavolo”. Mi chiedo… ma allora cosa abbiamo raccontato? Quanto abbiamo sperato che davvero quel “mafioso” fosse la teoria processuale vincente? Ma noi chi? Beh, noi informazione. Cavolo, Gaia tu ti svegli e passi da tuo padre a Carminati, ma sei scema? Ecco, se lo dico, questo può venir fuori. Ma la riflessione è altra. Arriva un altro flash, quei brevi istanti del momento in cui Carminati lascia il carcere. Pochi passi. Lo sguardo fuori dal cancello dove lo attendevano i cronisti. Pochi attimi di indecisione, quasi a voler trovare un’uscita secondaria. Ancora un flash, mio padre venne costretto e, lo ripeto con forza, costretto, a sfilare ammanettato davanti a fotografi e Tv. Appunto, eravamo già all’inferno. Alcuni giornalisti iniziarono a scrivere senza sapere nulla, senza sapere i fatti. Al limite solo quello che gli imbeccava la Procura. In fondo si ammanetta qualcuno nel cuore della notte se ha fatto qualcosa. Sono passati trentasette anni da quel 17 giugno e questo Paese non è cambiato un granché. E mi fa male dirlo perché io combatto, ho combattuto e ci ho creduto. È diventato il Paese dei “derby” (campionato inaugurato proprio con la vicenda di mio padre, di qua gli innocentisti, di là i colpevolisti) delle teorie, di alcuni giornalisti schierati per compiacere il consenso legato al proprio target, Quotidiano magari.  Ho sentito in questi trenta anni politici garantire una riforma della giustizia che ancora non si è vista. Ma che per una campagna elettorale va bene, fa sempre il suo effetto. L’Italia culla del diritto è stata troppe volte soffocata sul nascere. Mio padre, si sa, è stato ucciso da certa magistratura e da certa stampa. Passano gli anni e alla fine rischi di sentirti solo una rompipalle. Le senti quelle voci bisbigliare alle tue spalle.. “dai basta però con questa storia… Guarda avanti…” Qualche anno fa ero in uno studio tv con Ilaria Cucchi. Parlavo con lei che stava per fare un’intervista. A un certo punto un collega le disse “dai, Ilaria, ora però pensa alla tua vita. Fai come lei” indicando me. Io e Ilaria ci guardammo. Già, fai come lei aveva detto… Ecco ho messo insieme mio padre, Carminati e Cucchi. Sarà difficile o fin troppo facile oggi posizionarsi nella curva giusta. Ma al 17 giugno 2020 io la testa non la abbasso. Parlo. Combatto. Non ho paura delle etichette o di essere estromessa dal “circoletto” di parte della categoria. Io non dimentico. La storia non si dimentica. Gaia Tortora, giornalista, figlia di Enzo Tortora.

 “Istituire la giornata vittime errori giudiziari nel nome di Enzo Tortora”. su Il Dubbio il 16 giugno 2020. il Partito Radicale ha organizzato su Radio Radicale la Giornata delle vittime degli errori giudiziari il 17 giugno, nel giorno dell’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, dalle ore 11 alle ore 14. Dichiarazione di Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale. Dopo 35 anni, qualcosa si muove da quel venerdì 17 giugno 1983 in cui i carabinieri di Roma misero le manette ai polsi di un uomo innocente: Enzo Tortora. Sappiamo che da allora poco è cambiato sul fronte della giustizia. Ancora oggi troppi innocenti finiscono in carcere, troppi ancora in custodia cautelare. Dai dati rilevati dal sito errorigiudiziari.com, emerge che dal 1992 al 31 dicembre 2018 si sono registrati oltre 27.500 casi di ingiusta detenzione: in media, 1057 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Con una spesa che supera i 750 milioni di euro in indennizzi, per una media di circa 29 milioni di euro l’anno. Oggi finalmente la proposta di legge promossa dal Partito Radicale, quella di dedicare una Giornata nazionale alle vittime di ingiusta detenzione ed errori giudiziari in Italia, è stata, grazie al Presidente della Commissione giustizia del Senato Andrea Ostellari messa in calendario nei lavori della Commissione, con il voto di quasi tutti i gruppi ad eccezione del movimento 5 stelle. Mercoledì 17  giugno sarà posto in votazione l’incardinamento per l’Istituzione della Giornata Nazionale delle vittime di errori giudiziari. Non pensiamo certamente di risolvere l’annoso problema del mal funzionamento della giustizia con l’istituzione di una giornata, ma lo riteniamo un atto simbolico importante, per ridare dignità e riconoscimento ai protagonisti di storie strazianti, di innocenti accusati dei reati più diversi e tremendi sulla base di prove inesistenti o senza fondamento, per fare in modo che il 17 giugno si possa ricordare in ogni dove che occorre riflettere e riformare la giustizia per porre fine a questi orrori. Per questo motivo il Partito Radicale ha organizzato su Radio Radicale la Giornata delle vittime degli errori giudiziari il 17 giugno, nel giorno dell’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, dalle ore 11 alle ore 14. Partecipano: Maurizio Turco, Segretario del Partito Radicale; Irene Testa, Tesoriera del Partito Radicale; Alessio Falconio, Direttore di Radio Radicale; Sen. Andrea Ostellari, Presidente della Commissione Giustizia, Lega; Sen. Franco Dal Mas, Relatore del disegno di legge per istituire la Giornata delle vittime degli errori giudiziari alla Commissione Giustizia, Forza Italia; Paolo Liguori, giornalista Mediaset, già Direttore TGCOM 24; Sen. Luca Ciriani, Membro della Commissione Giustizia, Fratelli d’Italia; On. Maria Stella Gelmini, Presidente del gruppo di Forza Italia; Vittorio Feltri, Direttore Libero quotidiano; Avv. Giuseppe Rossodivita, Membro del Consiglio Generale del Partito Radicale; Paolo Del Debbio, giornalista, conduce Dritto e Rovescio; On. Riccardo Molinari, Presidente del gruppo Lega; Rita Bernardini, Membro del Consiglio Generale del Partito Radicale; Sen. Franco Mirabelli, Membro della Commissione Giustizia, PD; Gian Marco Chiocci, Direttore Adnkronos; Avv. Deborah Cianfanelli, Membro del Consiglio Generale del Partito Radicale; Mario Sechi, giornalista, Direttore Agenzia AGI, titolare di List; On. Maria Elena Boschi, Presidente del gruppo Italia Viva; Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione Enzo Tortora; Carlo Fusi, Direttore de Il Dubbio; Valentino Maimone, fondatore di errorigiudiziari.com; Piero Sansonetti, Direttore de Il Riformista.Testimonianze delle vittime di errori giudiziari ed ingiusta detenzione Daniela Candeloro, Giuseppe Gullotta, Bruno Lago, Antonio Lattanzi, Anna Maria Manna, Diego Olivieri, Antonio Perugini, Cristiano Scardella, fratello di Aldo.

37 anni fa l’arresto di Enzo Tortora, si istituisca in suo nome la Giornata della vittime della giustizia ingiusta. Francesca Scopelliti su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Troppo spesso trascurato dai giornali e dalla tv, l’anniversario del 17 giugno 1983 resta scolpito nella memoria di quanti assistettero sgomenti alla scoperta traumatica di cos’erano diventate nel nostro Paese l’amministrazione della giustizia e del diritto, le carceri, le leggi. Quel giorno due procuratori napoletani in cerca di popolarità e carriera fecero una clamorosa e imponente retata di 856 arresti di presunti camorristi (ne verranno poi condannati appena un terzo) e per sorreggere la credibilità di tale inchiesta decisero di infilare nel mucchio, senza indagini e senza uno straccio di prova, un galantuomo come Enzo Tortora. Da 37 anni ricordiamo questa data insieme ai compagni del Partito radicale. Sarebbe il caso che lo facesse finalmente anche il Parlamento, approvando una legge che istituisca nel nome di Enzo la Giornata per le vittime della giustizia ingiusta. Nell’attesa, questo 17 giugno 2020 cade proprio quando il virus del Trojan ha irrimediabilmente compromesso l’onorabilità della magistratura associata. Quella, per intenderci, che per anni ha occupato il pulpito arrogante dell’indipendenza senza limiti e della superiorità morale senza critica ma che adesso dovrebbe rassegnarsi allo scomodo banco degli imputati. Dovrebbe, se non fosse per la benevolenza che ancora le viene accordata da buona parte della stampa: antropofaga con Enzo Tortora, per anni complice dei tanti Palamara e ora silente per imbarazzo, convenienza e cattiva coscienza. Sì, cattiva coscienza. La stessa che pervade quella classe politica che negli scorsi decenni ha sistematicamente avversato le battaglie referendarie di Marco Pannella e dei radicali per la separazione delle carriere dei magistrati, per l’abolizione del sistema elettorale del Csm a liste concorrenti e per l’eliminazione degli incarichi extragiudiziari. Insomma, 37 anni dopo, il dolore e l’indignazione per quel che accadde devono fare ancora i conti con un’attualità immutata, tragicamente teatrale, contaminata oltretutto dal populismo giustizialista di una società “civile” nella quale si fatica a distinguere le guardie e i ladri. Nel gennaio 1984, in una lettera a Giorgio Bocca, Enzo scriveva: «Non entro nel merito dei due pesi e delle due misure che lei descrive. Valga solo un fatto. In una recente retata (mi pare sullo scandalo dei Casinò) fu ammanettato un tale, sorpreso a tavola, a cena, con un magistrato. Ciò non significa nulla. Ma si immagina se esistesse una foto di Tortora che banchetta con Cutolo? Lei pensa non sarebbe stata considerata, come tutte le altre infamie che mi crocifiggono, la “prova schiacciante”?». E più avanti: «Ho scoperto l’Italia nella quale la dignità del cittadino viene calpestata in omaggio a quello che una volta veniva definito il “Mussolini ha sempre ragione”. Ma io alla giustizia, e non al Duce, ci credo. E affermo che a battermi, disperatamente, per la Giustizia, sono oggi io, e non quel pugno di criminali che la beffano, la disonorano, la ingannano. Le ripeto: la mia è la storia di molti. La giustizia quella vera, non deve arroccarsi in un malinteso senso di irresponsabilità: deve semplicemente liberarsi da coloro che la disonorano in vista di un prezzo, di un miserabile privilegio. Ho compreso molte, troppe cose, in questi mesi d’angoscia. Eppure mi batto. Fin che avrò vita, forza, voce». In tutti questi anni, grazie alla Fondazione costituita dallo stesso Tortora con volontà testamentaria e al Partito Radicale, quella voce è stata tenuta viva, non si è mai spenta. Ma non basta, evidentemente. Ci sono oggi altri soggetti – partiti, associazioni, giornali, personalità della cultura, dell’impresa e delle professioni – che abbiano la voglia e la forza di aggiungersi, rendendola più forte? Dalla risposta a questa domanda dipende buona parte del nostro futuro.

Enzo Tortora, 37 anni fa l’arresto ad orologeria diventato simbolo della malagiustizia. Simona Musco su Il Dubbio il 17 giugno 2020. Il 17 giugno del 1983 il conduttore veniva arrestato a favore di telecamere, nonostante fosse completamente innocente. Una storia divenuta il simbolo degli errori giudiziari. Se c’è un’immagine simbolo della giustizia spettacolo, della gogna inutile, che scava, fino a corroderle totalmente, le vite umane, allora è quella di Enzo Tortora in manette, a favore di cronisti, dopo il suo clamoroso arresto all’Hotel Plaza di Roma. Per trasferirlo nel carcere di Regina Coeli, i militari aspettarono che fosse mattina, per garantire a cameramen e fotografi la prima fila per riprendere il presentatore con i ceppi ai polsi. Era il 17 giugno 1983 e cinque anni dopo, il 17 marzo del 1988, quando la Cassazione confermò l’assoluzione decisa in appello, quell’arresto si confermò ingiusto: Tortora era una vittima innocente della giustizia italiana e delle false accuse dei pentiti, che lo fecero rimanere per sette mesi in carcere portandolo poi, lentamente, alla morte. Quell’immagine, che avrebbe dovuto rappresentare un monito, sembra non aver insegnato nulla. Sono passati 32 anni, «ma non li dimostra», come disse poco tempo fa Francesca Scopelliti, compagna di Tortora e sua erede in quella battaglia per una giustizia giusta. Ne è la prova – se non altro – la continua esigenza di giornali e opinione pubblica di pronunciarsi prima dei giudici, di crocifiggere chiunque incappi nelle maglie della giustizia e di continuare a puntare il dito, ad alimentare il sospetto, anche dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia o quando quel debito non lo si è mai avuto.

L’arresto. Tortora venne arrestato un venerdì all’alba, con un’accusa pesantissima: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Lo accusavano due pentiti: Giovanni Pandico e Pasquale Barra, e un’agendina nera, trovata nell’abitazione di Giuseppe Puca, detto “‘o Giappone”, di professione camorrista, che riportava a penna un numero telefonico e a fianco un nome, che agli inquirenti sembrò quello del presentatore. Un appunto segnato distrattamente su un foglio, quasi indecifrabile, ma tanto è bastato, perché quel blitz, con 856 persone finite in manette, era un colpo grosso. E Tortora, con la sua voce che rimbombava in tv, con la sua faccia conosciuta da nord a sud del Paese, era il nome più importante di quel lungo elenco, anche se con tutto quel trambusto non c’entrava nulla. Quel nome divise il Paese. Da una parte c’era chi – in verità pochi – era convinto che fosse innocente. Dall’altra chi, prima ancora del processo, credeva già alla sua colpevolezza. Come Camilla Cederna, giornalista del Corriere della Sera, sicura che non potessero esserci errori sulla strada che aveva portato il conduttore da Portobello fino al carcere. «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni – scrisse -. Il personaggio non mi è mai piaciuto. E non mi piaceva il suo Portobello: mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni». Bastava la sua antipatia o quella che per gli altri era tale, dunque, per non attendere nemmeno la pronuncia di un giudice. E perfino il suo sbigottimento al momento dell’arresto, scambiato per calma, era per alcuni una prova in più della sua colpevolezza: «Enzo Tortora rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto. Le labbra mosse con flemma, i muscoli del collo e della faccia tirati e la voce compassata sembrano voler ricordare e riprodurre a tutti i costi il personaggio del piccolo schermo, amato dalle massaie», scriveva su Il Tempo Marino Collacciani. Più prudenti furono Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Enzo Biagi, il primo giornalista a battersi per lui, tanto da scrivere una lettera aperta al presidente della Repubblica Sandro Pertini. «Non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino – scriveva Biagi -. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura».

L’agenda. Peccato che su quell’agenda, accanto a quell’appunto informe, non ci fosse il numero del giornalista, bensì quello di una sartoria. Non solo: una perizia grafica dimostrò che quel nome, in realtà, era Tortona e non Tortora. Ma ciò non bastò, perché a “inguaiarlo” c’era anche la faccenda di alcuni centrini inviati da Pandico e altri detenuti a Pianosa alla redazione di Portobello perché fossero messi all’asta. Fu quello l’unico contatto con il “segretario” del boss Raffaele Cutolo, al quale il presentatore scrisse una lettera di scuse, inviando un rimborso di 800mila lire dopo aver appurato che la redazione aveva smarrito i centrini. Ma Pandico, schizofrenico e paranoico, cominciò a covare sentimenti di vendetta verso Tortora, sentimenti che tradusse in lettere sempre più minacciose, con lo scopo di estorcergli denaro. Fu lui il primo ad accusarlo, assieme a Pasquale Barra, sicario della camorra e assassino del boss Francis Turatello. E solo diversi mesi dopo decise di parlare di lui anche Giovanni Melluso, detto Gianni il bello, che 22 anni dopo, nel 2010, chiese scusa alla sua famiglia. Seguirono altre 16 persone, tra le quali il pittore Giuseppe Margutti, con precedenti per truffa e calunnia, e la moglie Rosalba Castellini, che raccontarono di averlo visto cedere stupefacenti già negli studi di Antenna Tre.

La condanna e poi l’assoluzione in appello. Tanto bastò per una prima condanna a 10 anni di carcere, pronunciata il 17 settembre del 1985. Il 26 aprile, il procuratore Diego Marmo – l’unico ad ammettere il suo errore, nel 2014 – nella sua requisitoria, definì Tortora, intanto eletto europarlamentare, un «cinico mercante di morte», diventato deputato «con i voti della camorra». Tortora si alzò in piedi per protesta: «È un’indecenza!», disse, guadagnandosi così anche un’accusa per oltraggio alla corte. Il 13 dicembre 1985 si dimise da europarlamentare e, rinunciando all’immunità, si confinò agli arresti domiciliari. L’assoluzione con formula piena in appello arrivò il 15 settembre 1986. I camorristi che lo accusarono finirono a processo per calunnia: secondo i giudici, infatti, alcuni avevano dichiarato il falso sperando di ottenere una riduzione della loro pena, altri, come Margutti, per avere notorietà. Michele Morello, il giudice che assolse Tortora, si accorse di quanto le accuse dei pentiti fossero sospette. «Ricostruimmo il processo in ordine cronologico – raccontò in un’intervista a “La storia siamo noi” – e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava insieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti. Di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie… E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro e concludendo la sua difesa con una frase pungente: “Io grido: sono innocente. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”». La Cassazione sancì la sua innocenza il 17 marzo del 1987, un anno prima della sua morte, il 18 maggio del 1988.

Il ritorno in tv. Tortora tornò in televisione il 20 febbraio del 1987, riprendendosi il suo Portobello. Lo fece accolto da una standing ovation e un discorso rimasto nella storia della tv, la stessa che ora, comunque, lo dimentica. «Dunque, dove eravamo rimasti?», esordì con emozione. E il sospetto è di essere rimasti non troppo lontano dal 17 giugno di tanti anni fa.

Nel barbaro Paese di Travaglio Enzo Tortora sarebbe morto in cella. Francesca Scopelliti su Il Riformista il 16 Maggio 2020. «Chi vive nella libertà ha un buon motivo per vivere, combattere e morire». In questa massima di Winston Churchill si può riassumere la vita di Enzo Tortora, quella di giornalista prima, di politico poi. E sullo sfondo la guerra: la seconda guerra mondiale per lo statista inglese, quella personale per Tortora. Una guerra vinta, la sua, che però gli ha provocato ferite mortali, nel fisico, non certo nell’anima. Enzo è rimasto fino alla fine un uomo perbene, morto il 18 maggio del 1988 a causa di una giustizia malata i cui sintomi non si sono voluti studiare e la terapia nemmeno ipotizzare. Si dice che il caso Tortora sia sempre attuale. È vero. Ma l’attualità è degna del caso Tortora? È degna della sua grande e nobile battaglia per la giustizia giusta, che fu anche di Marco Pannella e dei radicali? A seguito delle nefandezze della procura di Napoli con Felice Di Persia e Lucio Di Pietro, c’era un Paese in grado di reagire e interagire. C’erano fior di quotidiani che scrivevano malvagità, infamie, con la firma anche di autorevoli giornalisti, ma che venivano letti e dibattuti. All’epoca c’erano Leonardo Sciascia, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, intellettuali capaci di “sporcarsi le mani”: chi c’è oggi? Marco Travaglio! Il direttore del maggior quotidiano governativo, il quale – consumata la sua “farmaceutica” dose di garantismo per se stesso e per qualche amico – etichetta tutti come colpevoli. A prescindere da ogni principio giuridico. E lo fa con la sicumera di chi – tronfio del proprio pensiero – non accetta critiche e repliche. Oggi abbiamo i social che intossicano il Paese: parole e immagini che uccidono la dignità, la reputazione, il buon nome di chicchessia e che sfociano nella sguaiatezza delle inchieste televisive. Programmi popolari e pomeridiani, rivolti alla famosa casalinga di Voghera che assume la verità mediatica come verità vera. E così l’esortazione volterriana “calunniate calunniate, qualcosa resterà” diventa indispensabile, un “must”. E di conseguenza, il garantismo non è più negoziabile. Abbiamo una politica penale che vuole le carceri sempre più piene e gli avvocati sempre più silenti e sottomessi, perché, come dice il ministro Bonafede, non ci sono innocenti che vanno in carcere, ma – come precisa Pier Camillo Davigo – “solo colpevoli che la fanno franca”. Una politica che vuole i processi da remoto, violando il diritto alla difesa, che vuole abolire la prescrizione (un male necessario) violando il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Insomma, nonostante gli anni Ottanta abbiano siglato la vergognosa vicenda del maxiblitz napoletano, vero caso di macelleria giudiziaria, oggi mancano quelle munizioni capaci di neutralizzare questo diffuso populismo giustizialista. Banalizzando: se nell’87 ci avessero fatto il tampone sul giustizialismo saremmo risultati negativi. Non a caso in quell’anno il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu vinto con oltre l’80% di sì, non a caso qualche anno prima lo stesso Tortora, agli arresti domiciliari e in attesa di giudizio, fu eletto al Parlamento Europeo con oltre 500mila voti di preferenza. Esprimendo, così, anche un giudizio di innocenza. Oggi quello stesso tampone risulterebbe positivo al virus del giustizialismo, perché mancano gli anticorpi, manca la cultura. Manca la politica. Oggi mancano Tortora, Pannella, portatori sani di quella sacrosanta battaglia per la giustizia giusta. Oggi manca il coraggio della politica di convocare intorno a un tavolo tutte le parti in causa, magistratura, avvocatura e – perchè no – media, per la gestazione di una riforma non più rinviabile, destinata a ristabilire gli equilibri democratici e costituzionali. Oggi manca al Ministero della Giustizia una donna come Teresa Bellanova, capace di commuoversi per aver ottenuto una legge che difende il diritto e la legalità. Giuliano Ferrara nella prefazione del libro che raccoglie le lettere inviate dal carcere, scrive: “… ogni tanto penso che morendo di passione e di dolore il tuo Enzo ha perso tutto, e si è perso a tutti, ma ha guadagnato l’oblio su quel che sarebbe accaduto”. E a noi che invece viviamo “quel che sarebbe accaduto”, con ancora maggiore tristezza, ricordiamo che sono passati 32 anni dalla morte di Enzo Tortora e 4 da quella di Marco Pannella e che, semplicemente, ci mancano.

Il caso Tortora spiegato bene. Antonio Lamorte il 28 Ottobre 2019 su Il Riformista. «Dunque, dove eravamo rimasti?», disse Enzo Tortora al suo ritorno in televisione il 20 febbraio del 1987. Erano le prime parole che il giornalista, conduttore e autore televisivo pronunciava davanti ai telespettatori da quando, quattro anni prima, era cominciato il suo calvario giudiziario. Nel 1983 era stato arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti e di far parte della criminalità organizzata. E in quel modo Tortora divenne protagonista del caso di malagiustizia più celebre e clamoroso della storia italiana. Enzo Claudio Marcello Tortora era nato a Genova nel 1928. Aveva condotto trasmissioni fortunate come Primo Applauso, Canzonissima, Campanile Sera, Telematch, il Festival di Sanremo e La Domenica Sportiva oltre a una serie di programmi radiofonici. Era stato anche giornalista per La Nazione e Il Resto del Carlino. Ideò il format Portobello che andò in onda dal 1977. Dal nome del mercato londinese, il programma era una specie di fiera in diretta dove si compravano e vendevano gli oggetti più strani. Faceva in media 22 milioni di telespettatori, con picchi di 28 milioni. Tortora era uno dei volti più famosi della televisione. Il caso scoppiò venerdì 17 giugno 1983. Alle quattro di mattina i carabinieri prelevarono Enzo Tortora dall’Hotel Plaza a Roma. L’operazione fu condotta a favore di telecamere. Il presentatore fu trasferito al carcere di Regina Coeli e accusato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il giorno prima Tortora aveva ricevuto una serie di telefonate che gli chiedevano di un suo coinvolgimento in un’enorme vicenda giudiziaria. Informazioni cui il conduttore non aveva dato peso. Quella fuga di notizie si riferiva però proprio a quello che venne battezzato “il venerdì nero di Cutolo”, capoclan della Nuova Camorra Organizzata (NCO). Il 17 giugno 1983 infatti erano stati spiccati 856 ordini di cattura in 33 province da Bolzano a Palermo, la maggior parte dei quali era destinata ad affiliati della NCO. Nella maxi inchiesta erano coinvolti anche politici e vip. Tortora era il nome più celebre dell’operazione. Ad accusare il presentatore furono in principio tre soggetti: Pasquale Barra, detto “O’nimale”, killer della NCO condannato per 67 omicidi tra cui quello in carcere del boss milanese Francis Turatello; Giovanni Pandico, condannato per omicidio e tentato omicidio oltre che segretario di Cutolo; Giovanni Melluso, detto “il bello” o “cha cha cha”, affiliato alla mala siciliana. A questi si aggiunsero velocemente altri testimoni. Furono in totale 19 i pentiti che accusarono il volto di Portobello, complice anche la legge Cossiga del 1982 che prevedeva sconti di pena per i collaboratori di giustizia. Tra gli accusatori anche il pittore Giuseppe Margutti e la moglie Rosalba Castellini che dissero di aver visto Tortora spacciare negli studi di Antenna 3. Alla base del castello accusatorio, oltre alle dichiarazioni dei pentiti, c’era anche un presunto errore di lettura. Nell’agendina di Giuseppe Puca, killer della camorra detto “O’giapponese”, era stato ritrovato un nome con accanto un numero di telefono. Quest’ultimo non era riconducibile al conduttore – emerse in seguito appartenesse a una sartoria – e il nome era “Tortona”, non “Tortora”. L’elemento dell’agenda venne comunque considerato una prova dagli inquirenti. Nessun legame rilevante con i primi accusatori venne poi riscontrato nelle indagini. Venne fuori soltanto una storia di centrini di seta: erano stati spediti dal carcere di Porto Azzurro alla redazione di Portobello. I centrini si persero e Giovanni Pandico, compagno di stanza del detenuto che aveva inviato i centrini, cominciò a scrivere lettere minatorie al conduttore. Tortora volle risolvere la questione con un rimborso di 800mila lire per la perdita dei manufatti ma Pandico aveva sviluppato una sorta di odio persecutorio nei confronti del conduttore. Spiegò quindi ai magistrati che i centrini non erano altro che un nome in codice per gli 80 milioni di una partita di coca. Su queste basi si imbastirono le accuse coordinate dai sostituti procuratori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Il giudice istruttore firmò così gli ordini di cattura tra cui quello destinato a Tortora. Con l’arresto a favore di telecamere cominciarono a diffondersi altre insinuazioni false e infamanti che accusavano Tortora di aver usufruito dei soldi del terremoto del 1980 in Irpinia, di aver comprato uno yacht con i proventi dello spaccio, di aver scambiato in più occasioni valigette con boss e affiliati alla criminalità organizzata. L’opinione pubblica fu sconvolta dalla notizia e l’Italia si divise tra innocentisti e colpevolisti. Il Messaggero arrivò a titolare che Tortora avesse confessato. La giornalista del L’Espresso Camilla Cederna approvò l’operazione. A difesa del conduttore si schierarono Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Indro Montanelli. A solo una settimana dall’arresto, e al dilagare di notizie e indiscrezioni non verificate, Biagi scrisse su La Repubblica un editoriale che titolava: “E se Tortora fosse innocente?”, e poi una lettera al Presidente della Repubblica Sandro Pertini. “Signor Presidente della Repubblica – scrisse Biagi – non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi da paura“. Dalla parte di Tortora si schierarono anche Piero Angela, Pippo Baudo e Leonardo Sciascia. Il Partito Radicale di Marco Pannella imbastì una campagna mediatica sul caso. Tortora si candidò proprio con i radicali nel 1984 e divenne parlamentare europeo con 451mila preferenza. All’epoca, dopo sette mesi di carcere, era costretto agli arresti domiciliari. “Sono stato liberale – dichiarò – perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito“. Rifiutò l’immunità parlamentare affinché venisse concessa l’autorizzazione a procedere nei sui confronti. Il primo grado di giudizio lo condannò a 10 anni di carcere. La Corte d’Appello di Napoli emise sentenza di assoluzione con formula piena nel settembre 1986. Il 13 giugno 1987 la Cassazione confermò la sentenza di secondo grado. “Io grido – dichiarò in aula Tortora – sono innocente! Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi“. Il caso fu all’origine del quesito referendario del 1987 – nel quale si impegnò attivamente lo stesso Tortora – sulle responsabilità civile dei magistrati che portò alla legge Vassalli; norma sostituita nel 2015. Anni dopo il magistrato Diego Marmo – che nell’arringa del primo grado di giudizio ventilò anche la possibilità che Tortora fosse stato votato dalla Camorra – ha riconosciuto gli errori dell’inchiesta e, tra i pentiti, Melluso ha chiesto scusa alla famiglia. I magistrati Di Pietro e Di Persia hanno fatto carriera rispettivamente come procuratore generale di Salerno e come membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Il Csm ha anche archiviato la richiesta di risarcimento di Tortora di 100 miliardi di euro. “Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano a durare all’infinito. Anzi in 30 anni c’è stata una esplosione numerica“, ha dichiarato Silvia Tortora, figlia del conduttore. Tortora tornò in televisione ancora al timone di Portobello. Erano passati quasi 1800 giorni di calvario giudiziario. Da quando era entrato in politica si era impegnato per i diritti umani e civili e aveva visitato molte carceri. Nel suo discorso di ritorno agli schermi sottolineò anche queste sue battaglie. Il suo ultimo programma fu Giallo, l’ultima apparizione televisiva in Il testimone di Giuliano Ferrara. Il 18 maggio 1988, a 59 anni, morì a Milano. A causa di un tumore ai polmoni, ma lui diceva che fu la bomba di cobalto che le accuse e la detenzione ingiuste gli avevano fatto scoppiare dentro a ucciderlo. Le sue ceneri sono conservate al cimitero monumentale di Milano insieme con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, capolavoro della letterato su un caso di malagiustizia ai tempi della peste del XVII secolo.

·         Ingiustizia. Il caso Rocchelli spiegato bene.

Omicidio Rocchelli, 24 anni al colpevole “perfetto” ma con prove improbabili…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Quando lo hanno condannato a ventiquattro anni di prigione, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che era costituita parte civile, ha dichiarato: «Prendiamo atto con soddisfazione che la Corte d’Assiste di Pavia ha riconosciuto che Andrea Rocchelli e Andrej Mironov sono stati uccisi mentre tentavano di ‘illuminare’ una guerra cancellata». Ma il processo a carico di Vitaly Markiv non doveva accertare che i due fossero stati uccisi, né i motivi per cui qualcuno li ha uccisi: doveva accertare se davvero uno dei due, il giornalista Rocchelli, fosse veramente stato ucciso dall’imputato. Né tanto meno quel processo aveva il compito di accertare «come, attraverso il loro assassinio, siano stati colpiti anche l’articolo 21 della Costituzione e il diritto dei cittadini a essere informati» (era ancora il sindacato dei giornalisti a reclamare questo strano ruolo della giustizia penale in un caso di omicidio). All’epoca dei fatti (2014) Markiv era un soldato di basso rango impegnato nel conflitto tra i separatisti filo-russi e l’esercito regolare ucraino. Titolare di doppia cittadinanza – ucraina e italiana – Markiv militava dalla parte ucraina. In posizione eminente nel processo italiano non erano tuttavia i comportamenti di Markiv connessi ai fatti di causa, cioè la morte dei due giornalisti sotto il fuoco non si sa bene di chi, ma il “personaggio” di Markiv: cioè un giovane cui, fondatamente o no, si imputavano propensioni ultranazionaliste e simpatie naziste identificate nella detenzione di qualche fotografia con svastiche e roba simile, nonché in non meglio documentate manifestazioni di solidarietà a lui rivolte da formazioni di destra. Tutte cose buone alla confezione di un ritratto da impallinare nel facile consenso di dichiarazioni come quelle dei sindacalisti della stampa, ma decisamente insufficienti, e anzi completamente irrilevanti, per provare i fatti attribuiti alla responsabilità di Markiv: cioè, da soldato semplice, di aver sparato o di aver ordinato il fuoco contro quei giornalisti, dopo averli identificati come tali a più di un chilometro e mezzo di distanza. Il tutto senza che sia mai stato disposto un sopralluogo nella zona in cui il fatto è avvenuto, senza che sia stato accertato se il fuoco fosse di provenienza ucraina (le testimonianze in punto sono risultate confuse e contraddittorie), senza, appunto, che si sia verificato come Markiv potesse aver identificato da quella distanza i giornalisti, senza che fosse provata in qualsiasi modo la partecipazione attiva di Markiv alla regia del fuoco e senza che fosse spiegato in modo appagante come essa potesse essere assunta da chi, come Markiv, occupava una posizione gerarchica subordinata. Queste sono solo alcune delle tante incongruenze (è un eufemismo) che emergono dalla lettura della sentenza pavese, che ora è rimessa all’esame della Corte di Assise di Appello di Milano. Che il processo fosse – e speriamo non sia più – un modo per trovare il colpevole adatto è una sensazione difficile da allontanare davanti alla scena di imputazioni che impiccano quel militare alle sue presunte predilezioni ideologiche, tanto più quando si pretende che la vittima non sia un poveretto che ha perso la vita ma, abbastanza oscenamente, il diritto all’informazione dei cittadini fatto valere dalla stampa federata. Il puro fatto che sia Raffaele Della Valle, che difese Enzo Tortora, a rappresentare le ragioni dell’imputato, non è sufficiente a dir nulla contro la bontà della sentenza di primo grado, così come non basta il buon nome di Giuliano Pisapia, che assiste la burocrazia sindacale giornalistica, a riabilitare le dichiarazioni della parte civile, francamente inopportune, che abbiamo riportato sopra. È certo tuttavia che il caso di una tragedia indubitabilmente avvenuta in un lontano scenario di guerra, in condizioni di confusione e promiscuità nei movimenti militari, in un contesto di rischio e fortuità imparagonabile a quello di una normale realtà sociale, è precipitato qui da noi in un processo con prove improbabili e pesantemente condizionato da sociologismi e vagheggiamenti di giustizia sociale decisamente incompatibili con il principio per cui non si condanna nessuno se non c’è una responsabilità accertata oltre ogni ragionevole dubbio. E la responsabilità non può risiedere né nel possesso di un cimelio nazista, che peraltro l’imputato giustifica, né nella militanza presso una parte che non piace al giudice e a chi si compiace del suo verdetto. Se ci vuole un processo, deve essere diverso rispetto a quello che c’è stato.

Dal Mondo. Omicidio Rocchelli-Mironov, se viene meno l’oltre ogni ragionevole dubbio. Eleonora Mongelli su Il Riformista il 28 Settembre 2020. Il 12 luglio 2019 la Corte d’Assise di Pavia ha condannato il soldato Vitaly Markiv a 24 anni di reclusione per l’omicidio del fotoreporter Andrea Rocchelli e del giornalista e attivista Andrei Mironov. Una sentenza di condanna pronunciata oltre ogni ragionevole dubbio? Così dovrebbe essere, stando a uno dei più importanti princìpi che garantiscono il funzionamento del nostro Stato di diritto. La nostra giustizia, però, seppure con tanto di garanzie processuali che per fortuna non restano solo sulla carta come accade altrove, non è infallibile. La nostra magistratura, seppure indipendente, a differenza di altri Paesi anche a noi troppo vicini, non opera in una campana di vetro, ma nel contesto sociale che abbiamo creato. L’uccisione di Andrea Rocchelli e di Andrei Mironov avviene in uno degli scenari più complicati e più polarizzati dei nostri tempi: il Donbass. Nonostante quanto stia accadendo dal 2014 in quella regione dell’Ucraina orientale sia una vera e propria guerra, non se ne parla abbastanza e, quelle poche volte che lo si fa, facilmente si cade in errori di narrazione, spesso a causa delle operazioni propagandistiche provenienti del Cremlino. Proprio in quel conflitto tanto silenzioso quanto sanguinoso, il 24 maggio 2014 perdono la vita i due giornalisti svolgendo il proprio lavoro, coraggiosamente e con il solo obiettivo di poter raccontare al mondo quanto avevano visto con i loro occhi, senza alcun filtro. Ricostruire quanto accaduto in quel drammatico giorno di guerra è ovviamente impresa ardua, che diventa rischiosa se, alle difficoltà sistemiche, si aggiunge poi un contesto sociale e mediatico impregnato di false narrazioni e pregiudizi ideologici. Lo scenario in cui si svolgono i fatti, che viene raccontato in aula nel corso del primo grado del processo a Vitaly Markiv e che si legge nella sentenza, è di fatto il riflesso di quanto è stato riportato dalla gran parte dei media. A dimostrarlo c’è un’accusa basata esclusivamente su un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, che viene dal PM acquisita come “confessione stragiudiziale” dell’imputato. Tale articolo, a firma di una giornalista freelance, viene pubblicato con dei virgolettati, giornalisticamente usati per riportare con esattezza le parole pronunciate, ma che poi l’autrice stessa in udienza indica come “senso generale di quello che è stato detto”. Oltre a questa approssimazione vengono, nel corso del processo, evidenziate diverse inesattezze presenti nell’articolo, come ad esempio il ruolo di Markiv che, da semplice soldato della Guardia Nazionale ucraina, viene descritto come capitano dell’esercito. Errori, questi, che possono sembrare di poco conto, ma che non lo sono affatto se il contesto di cui parliamo è quello di un conflitto armato. Infatti, la Guardia Nazionale ucraina non ha in dotazione l’artiglieria pesante, motivo per cui, una volta chiariti questi punti cruciali in sede processuale, è stato necessario cambiare il capo d’imputazione: da autore diretto, Markiv è diventato colui che avrebbe dato ordine di sparare. Intanto, mentre si cerca di mettere delle toppe ai primi errori entrati in aula, l’imputato da presunto innocente diventa il presunto colpevole e tutto il processo si svolge come se si dovesse dimostrare non la sua colpevolezza ma la sua innocenza. L’informazione circolata nei due anni tra l’arresto di Markiv, il 30 giugno 2017, e la sua condanna è stata scarsa e, salvo pochissimi casi, gravemente inaccurata. I pregiudizi ideologici, le approssimazioni, gli errori, le affermazioni tendenziose che ritraggono fin da subito Vitaly Markiv – secondo la nostra Costituzione innocente fino a sentenza definitiva – come l’assassino, sono tutti elementi che hanno contribuito alla costruzione dello scenario sociale e mediatico in cui si è svolto processo. Che la narrazione distorta e confusa del contesto in cui sono avvenuti i fatti abbia influenzato il processo è dimostrato non solo dalla “confessione stragiudiziale”, ma anche dalla sentenza, nella quale si confondono addirittura i movimenti dell’EuroMaidan (dell’inverno 2013-2014) con la dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina (del 1991). Le dinamiche che ne fuoriescono sono chiaramente quelle di un processo dove prevale una logica inquisitoria e basata su emotività: Markiv, con doppia cittadinanza ucraina e italiana, quindi processabile in Italia, è il colpevole perfetto. Se da una parte è importante ricordare che i processi si celebrano nelle aule dei tribunali e che le nostre personali opinioni in merito devono rimanere fuori, è anche necessario sottolineare che i processi si seguono e le sentenze si leggono, ed è nostro dovere intervenire se, sulla base dei fatti, e non delle sensazioni o delle emozioni, emergono errori. Perché se esiste qualcosa di più tragico di una morte ingiusta, è quella di condannare e incarcerare per essa un innocente. Per questo, per i fatti che sono emersi dalle carte del processo, per il dovere che abbiamo di difendere il nostro Stato di diritto e garantire che ogni suo principio sia applicato, come FIDU (Federazione Italiana Diritti Umani) abbiamo scelto sin dall’inizio di patrocinare e promuovere il meritevole lavoro di un gruppo di giornalisti indipendenti che, insieme a esperti anche di materie militari, hanno lavorato instancabilmente a questo caso. Le ricostruzioni puntuali, fin dove la scienza l’ha permesso, le testimonianze chiave raccolte sul posto (sfuggite agli inquirenti), il vuoto lasciato da chi, seppur coinvolto nel caso, non ha voluto contribuire, sono tutti elementi di un film-documentario, The Wrong Place, che uscirà questo autunno. Un giornalismo cosciente del suo ruolo e che si contrappone a quello sciatto che ha predominato in questa vicenda giudiziaria nella sua prima parte. Grazie a questi giornalisti e ai pochi che non hanno voluto accettare le lacune, gli errori e le debolezze di una sentenza pasticciata, quel clima inquinato dalla cattiva informazione è forse cambiato o quantomeno è quello che ci auguriamo avvenga dal prossimo 29 settembre, quando a Milano si aprirà il processo di secondo grado.

·         Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Luigi Manconi per “La Stampa” il 19 dicembre 2020. Chico Forti è un fantasma. Per una parte di italiani - piccola, ma assai sensibile e informata - il suo nome è noto da decenni: ed è così familiare da costituire un elemento del paesaggio quotidiano, a cui si guarda con affetto, ma con un certo fatalismo. Quel nome evoca un grosso guaio, capitato alla persona sbagliata, lontano, molto lontano, là in Florida. Ma la memoria ha ormai scordato la natura di quel guaio e le vie, se ancora esistono, per uscirne vivi. Amici e parenti sussurrano a mezza voce che Chico è vittima di una grave ingiustizia, ma che cosa si debba fare per dargli una mano sembra impossibile anche solo immaginarlo. In altre parole, nel nostro tradizionale immaginario domestico, Forti rischia di apparire come quel parente il cui smagliante sorriso resta nelle fotografie giovanili, ora afflitto da un male di cui si sono perse diagnosi e prognosi. Un anziano zio al quale si vuole bene, al punto che, come fanno i più piccini nell'imminenza delle feste, si scrive una lettera tutta colorata. E, in effetti, a Chico Forti è stata dedicata recentemente una graphic novel di Chiod, che ricostruisce con intelligenza e passione la sua vicenda. (Una dannata commedia, Fabio Galas, 2020). Messa così sembrerebbe un ennesimo racconto di Natale, malinconicamente simile a tanti altri. E invece no, dopo vent'anni qualcosa sembra mettersi in moto. Riprendiamo, pertanto, il filo della vicenda dall'inizio. Enrico Forti, nato a Trento nel 1959, è stato campione nazionale di windsurf, ha lavorato come videomaker e poi come produttore televisivo. Grazie agli 80 milioni vinti rispondendo ai quiz di Mike Bongiorno nel corso della trasmissione «Tele Mike» (Canale 5), si trasferisce negli Stati Uniti. È il 1998 quando Forti, sposato e padre di tre figli, viene arrestato per l'omicidio di Dale Pyke. Secondo l'accusa, Tony Pike (padre della vittima) e Forti avrebbero concluso un contratto preliminare per la compravendita di un albergo a Ibiza. Forti avrebbe tentato di truffare Pike, approfittando della condizione di debolezza psichica di quest'ultimo, allo scopo di ottenere un prezzo particolarmente vantaggioso; Dale Pike, avendo cercato di ostacolare la realizzazione della truffa, sarebbe stato assassinato da Forti. Le prove a suo carico, in realtà, si basavano su esili indizi. Oltre al presunto movente rappresentato dalla truffa (addebito poi archiviato), ad aggravare la sua situazione agli occhi degli inquirenti intervenne una dichiarazione falsa, poi ritrattata, rilasciata nel corso di un interrogatorio durato 22 ore senza l'assistenza di un avvocato. Altra prova addotta a suo carico: il ritrovamento nella sua auto, a distanza di tre mesi, di «un qualche granello» di sabbia, simile a quella presente nel luogo dove venne abbandonato il cadavere. È qui che scatta il cortocircuito logico nel quale precipitano gli inquirenti e i giudici. Infatti, «se - come ammesso dallo stesso procuratore nella requisitoria finale - Forti non è stato l'esecutore materiale dell'omicidio», non ci si spiega perché siano stati sostenuti e valorizzati davanti alla giuria quegli elementi prima ricordati, che avrebbero dovuto collegare l'imputato alla scena del crimine. O meglio, lo si può spiegare con l'intento di suggestionare la giuria stessa e orientarla verso un verdetto di colpevolezza. Cosa puntualmente accaduta con la condanna di Forti all'ergastolo senza condizionale come autore dell'omicidio di Dale Pike. Ciò che emerge - al di là della convinzione di ognuno sull'innocenza o la colpevolezza di Forti - è una serie di gravissime violazioni dei diritti e delle garanzie dell'accusato. Alessandro Paccione, che segue la vicenda su incarico di A Buon Diritto Onlus, le riassume così:

1) Negazione dei cosiddetti Miranda Rights. Forti fu sottoposto a un lungo e defaticante interrogatorio che lo metteva nella condizione di essere in «police custody»: situazione in cui una persona ragionevole non si sente libera di interrompere l'interrogatorio e congedarsi. Gli agenti gli avrebbero dovuto illustrare i suoi diritti (Miranda Rights) così che evitasse di incorrere in dichiarazioni autoincriminanti. Tale omissione avrebbe dovuto comportare l'inammissibilità delle prove ottenute in quelle circostanze.

2) Mancato rispetto dei requisiti di colpevolezza. Un imputato può essere condannato solo se e quando le prove a suo carico ne dimostrino la colpevolezza «beyond a reasonable doubt» (oltre ogni ragionevole dubbio). Questo principio, valido in tutti gli Stati Uniti, implica che i membri della giuria, qualora non vi sia un convincimento di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, «non possono sostenere di condividere la verità dell'accusa». La sospensione di questo essenziale principio emerge nitidamente dalle parole del procuratore Rubin: «L'accusa non deve dimostrare che Forti è stato l'esecutore materiale allo scopo di provare che egli sia colpevole».

3) Violazione del Sesto emendamento della Costituzione federale. L'imputato ha diritto a ricevere un'assistenza legale efficace da parte del proprio avvocato. Quella del legale di Forti è stata segnata da condotte e omissioni che hanno fortemente minato la posizione del suo assistito agli occhi della giuria.

4) Violazione della Convenzione di Vienna. Questa prevede che, in caso di restrizione della libertà di un cittadino di un altro Stato sottoscrittore, le autorità consolari di quest'ultimo vengano avvertite e messe in condizioni di garantire un'adeguata difesa legale. Nonostante così palesi violazioni dei diritti dell'accusato, oggi non esiste più alcuna possibilità di revisione del processo. L'unica strada percorribile è il ricorso alla Convenzione di Strasburgo del 1983, in base alla quale una persona condannata in uno Stato diverso da quello d'origine, può ottenere di scontare la pena nel proprio paese, più vicino ai propri affetti. L'aspetto problematico è rappresentato dalla circostanza che la pena comminata dal Tribunale americano è quella dell'ergastolo senza condizionale, non prevista dall'ordinamento italiano. Una volta in Italia, dunque, Forti non potrà scontare la pena inflittagli negli Stati Uniti, ma occorrerà che, in sede di riconoscimento della condanna, la sanzione sia «adattata» alla legislazione nazionale. Di conseguenza, sono necessarie la massima intelligenza e la massima costanza da parte dell'Italia, nel condurre un'azione politica e diplomatica verso le autorità degli Stati Uniti. Dopo vent'anni da quella condanna iniqua, e dopo tanta indifferenza, sarebbe ora che, finalmente, la politica e la diplomazia italiane si dessero seriamente da fare.

Chico Forti, l’italiano condannato all’ergastolo e detenuto in Florida: “Sono innocente”. Il Dubbio il 16 luglio 2020.. Arrestato nel 1998, l’ex produttore televisivo è al centro di una battaglia diplomatica tra Usa e Italia per riaprire il caso. Tanti i dubbi sulla vicenda giudiziaria: a partire dal processo durato 24 giorni…Nuova mobilitazione oggi in piazza Montecitorio per Chico Forti, l’italiano condannato all’ergastolo negli Stati Uniti e detenuto da 20 anni in Florida. A lanciare l’appello questa volta è l’attore Enrico Montesano, che ha riunito i manifestanti invitando tutti i partiti a unirsi in una battaglia comune per riportare Forti in Italia. La sua vicenda ha inizio nel 1998. Forti è un velista e produttore televisivo di successo negli States quando il 15 febbraio di quell’anno viene arrestato per l’omicidio di Dale Pike, figlio di Anthony Pike, dal quale stava acquistando il Pikes Hotel. La struttura che negli anni ’80 era al centro della movida dell’isola di Ibiza. Dal 2000, anno in cui una giuria lo ha ritenuto colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”, si è sempre ritenuto innocente e sono tanti i dubbi che negli ultimi vent’anni hanno accompagnato la vicenda giudiziaria del nostro connazionale. Dubbi riemersi attraverso una serie di servizi del programma Le Iene che ricostruiscono l’intera storia. Il processo a Chico Forti, infatti, durato appena ventiquattro giorni, presenterebbe diverse lacune piuttosto sospette. Il movente, che sarebbe riconducibile alla trattativa per l’acquisto del Pikes Hotel regge poco, secondo la ricostruzione della iena Gaston Zama: in atto c’era si una truffa, ma proprio ai danni di un ignaro Chico Forti, e non al contrario come sostenuto dall’accusa; tant’è che prima della condanna per omicidio premeditato, l’italiano era stato assolto da otto capi d’accusa riguardanti la frode. Le prove a suo carico, secondo diversi esperti, sia italiani che americani, ai quali è stato chiesto un parere dal programma di Mediaset carte alla mano, sono traballanti e del tutto inammissibili. Chico Forti ha passato ormai 20 anni dietro le sbarre del Dade Correctional Institution di Florida City, un carcere di massima sicurezza, e l’Italia, di fatto, in tutto questo tempo non è riuscita ad ottenere una revisione del processo, che negli Stati Uniti è ammessa solo in caso emergano prove nuove, non considerate durante l’udienza che ha portato alla condanna. Perfino i familiari della vittima dopo anni sono usciti allo scoperto dichiarando apertamente le loro perplessità circa la colpevolezza di Forti. Sono numerosi gli italiani illustri che si sono esposti in prima persona chiedendo al governo italiano un intervento diplomatico deciso riguardo la situazione di Chico Forti. Per quanto riguarda la politica già nel 2012 Ferdinando Imposimato, all’epoca suo legale italiano, e la criminologa Roberta Bruzzone hanno presentato un report all’allora Ministro degli Esteri Giulio Maria Terzi di Sant’Agata, ma senza ottenere azioni significative che andassero oltre una pubblica manifestazione di vicinanza. Stesso discorso per il ministro successivo, Emma Bonino, che dichiarò l’interesse nei confronti della vicenda. Bocce ferme fino allo scorso dicembre, quando il Movimento 5 Stelle ha organizzato una conferenza stampa alla Camera per parlare specificatamente della questione. Chico Forti ha risposto all’iniziativa con un messaggio inviato direttamente al Ministro degli Esteri Di Maio: “Ciò che voglio è tornare in Italia, vivere il resto della mia vita da libero cittadino. Ciò che chiedo è giustizia. Una giustizia che mi è stata negata spudoratamente dal Paese che si proclama leader dei diritti umani”.“È rincuorante – scriveva ancora Forti – sapere che state collaborando per la mia causa uniti, indipendentemente dalle ideologie politiche. Senza il vostro intervento terminerò i miei giorni in un sacco nero, senza lapide. Io accetterò la deportazione e il veto a rientrare negli Stati Uniti. Lo accetterò perché non ho altra scelta. Sono agli sgoccioli di una riserva che ritenevo inesauribile. Sono stanco”.

Da iene.mediaset.it il 7 luglio 2020. Chico Forti deve morire in carcere negli Stati Uniti: il nostro connazionale è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Dale Pike, avvenuto il 15 febbraio del 1998 a Miami. Da allora è rinchiuso in un penitenziario di massima sicurezza, ma non ha mai smesso di gridare al mondo la sua innocenza. Sulle indagini, il processo e la condanna a Chico Forti ci sono molti dubbi, nonostante per la legge americana si deve condannare qualcuno solamente “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il nostro Gaston Zama ha raccontato la vicenda del nostro connazionale nello Speciale de Le Iene che potete vedere integralmente qui sopra, e di cui qui vi proponiamo un breve sintesi, con i link, seguendo le sette parti in cui è suddiviso che potete trovare anche in fondo all'articolo.

In questa prima parte il nostro Gaston Zama ripercorre l'inizio della storia di Chico Forti: nel 1990 partecipa al quiz tv “Telemike” e vince oltre 80 milioni di lire. Con quel denaro Chico vola in America per iniziare una nuova vita. Diventa videomaker e produttore televisivo, realizzando reportage sugli sport estremi che vende a diverse emittenti americane. Lì il nostro connazionale si risposa e ha tre figli. La sua vita, proprio quando sembra diventare una favola, viene sconvolta all’improvviso. Il 14 febbraio 1998 Chico Forti va all’aeroporto di Miami a recuperare Dale Pike, figlio di Tony, da cui il nostro connazionale stava per rilevare il leggendario “Pike’s Hotels” di Ibiza. Il giorno dopo Dale viene trovato morto su una spiaggia, e Chico è sospettato di essere il responsabile dell’omicidio. Quando la polizia gli chiede se fosse andato a prendere Dale Pike all’aeroporto, dopo che gli hanno mentito sulla morte pure del padre Tony Pike, anche Chico mente. E lì inizia la sua discesa all’inferno.

Nella seconda parte dello Speciale Le Iene, il nostro Gaston Zama ripercorre la scoperta del corpo di Dale Pike su una spiaggia poco lontana dal ristornate Rusty Pelican, dove Chico Forti sostiene di averlo lasciato dopo averlo recuperato all’aeroporto. Da lì partono le indagini e con queste tutti i dubbi sul caso, comprese quelle sul movente dell’omicidio: una presunta truffa di Chico ai danni di Tony Pike, che però sembra proprio non reggere alla prova dei fatti. Tra questi dubbi, comunque, se ne aggiunge uno nuovo: l’avvocato di Chico Forti poteva davvero rappresentarlo oppure aveva un conflitto d’interessi tale da doversene astenere? Ed è vero che la firma del nostro connazionale su un importante documento è stata falsificata?

Nella terza parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama si concentra sullo strano ruolo avuto da un truffatore tedesco, Thomas Knott: secondo alcuni questo Knott sarebbe un colpevole molto più credibile di Chico Forti, a partire dal fatto che lui davvero aveva truffato Tony Pike e per questo ha ricevuto anche una condanna negli Stati Uniti. Inoltre si affronta anche la "seconda bugia" di Chico Forti, quella raccontata alla moglie: in una telefonata delle 19.16 di quella sera infatti il nostro connazionale nega anche con lei di aver raccolto Dale Pike all’aeroporto. Il telefono del nostro connazionale agganciò in una chiamata una cella vicina al luogo dove fu ritrovato il corpo di Dale Pike. In questa parte vi parliamo infine dell'autopsia e dei dubbi su un orario di morte eccessivamente preciso: dalle 18 alle 19.16.

Nella quarta parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama ci parla dei dubbi su Thomas Knott: in particolare il tedesco insieme a Chico aveva comprato una pistola che potrebbe essere quella del delitto. L’arma, intestata a Knott, era però stata pagata da Chico. Il commesso che vendette quella pistola però confermò che l’arma non era stata consegnata al nostro connazionale. Inoltre si affronta anche il tema del ritrovamento di una prova chiave. È la sabbia nell'auto di Chico, compatibile con quella della spiaggia in cui fu ritrovato il cadavere di Dale Pike: i dubbi sono molti anche su questo punto, sia per come era stata trattata l’auto di Chico mentre era sotto sequestro sia per la mancanza di foto di quei granelli nell’auto.

Nella quinta parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama racconta cosa è stato fatto, e cosa non è stato fatto, dai politici italiani per sostenere Chico. Dall'interesse di Franco Frattini, Giulio Terzo di Sant’Agata ed Emma Bonino si è giunto fino alle parole di Riccardo Fraccaro, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, e all’intervento pubblico di Luigi Di Maio, l’attuale ministro degli Esteri.

Nella sesta parte dello speciale, Gaston Zama ci racconta della promessa del sottosegretario Fraccaro: “Chiederemo la grazia per Chico Forti”. Una promessa importante, la prima volta che un politico italiano si spinge così in là su questo caso. Intanto, dopo l’intervista a Chico in carcere, arriva anche il momento di sentire le voci dei figli Francesco Luce e Jenna Bleu: potete sentire quello che i due hanno da dire sulla loro vita e il rapporto con il padre cliccando qui.

In questa settima e ultima parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama si concentra su due elementi: il documentario di Chico sull’omicidio di Gianni Versace e in particolare sulla figura dell’assassino Andrew Cunanan. In questo video il nostro connazionale getta alcune ombre sul suicidio di Cunanan e, di riflesso, anche sulla polizia di Miami che qualche mese dopo avrebbe indagato sull’omicidio di Dale Pike. Inoltre si affronta un ultimo tema, quello del servizio di Dominick Dunne sul caso di Chico Forti: un documentario che, vedendolo senza sapere nulla della storia del nostro connazionale, restituisce un’impressione di sicura colpevolezza. Lo Speciale si conclude con una promessa: Chico, non abbiamo certo finito di occuparci del caso.

Chico Forti, in carcere da 20 anni senza prove nella Miami di Versace. Giulia Merlo su Il Dubbio il 24 Febbraio 2020. La storia dell’italiano condannato all’ergastolo per omicidio volontario si intreccia con l’assassinio dello stilista. Ventiquattro giorni bastano per passare da imprenditore di successo a ergastolano in una cella della Florida, condannato da una giuria popolare per un omicidio in concorso con ignoti, senza prove e senza movente. Era il 15 giugno 2000 e la vita di Enrico detto Chico Forti, ex campione di windsurf, produttore televisivo e imprenditore nato a Trento nel 1959, cambia per sempre. A vent’anni di distanza tutti scontati nel Dade Correctional Institution di Florida City, Forti continua a gridare di essere vittima di un errore giudiziario. Del suo caso si sono occupati Ferdinando Imposimato, suo legale italiano, e la criminologa Roberta Bruzzone: nel 2012 hanno presentato un report all’allora Ministro degli Esteri, Giulio Maria Terzi, per presentare richiesta di revisione. I media italiani hanno continuato a tenere alta l’attenzione sul caso Forti, anche grazie agli sforzi costanti della famiglia, e nei giorni scorsi il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, è tornato a occuparsi del detenuto italiano, chiamando l’ambasciatore italiano a Washington, Armando Verricchio. «In queste ore mi sto recando a Roma per avere novità», ha confermato Gianni, lo zio di Chico che non si è mai rassegnato all’ingiusta detenzione del nipote. Per ricostruire una vicenda che intreccia errori giudiziari, scorrettezze investigative ma soprattutto l’ombra sinistra di un omicidio illustre, quello dello stilista italiano Gianni Versace proprio a Miami, bisogna ritornare a quella fine degli anni Novanta, nelle assolate spiagge della Florida. Chico Forti, fisico atletico grazie ad anni di attività agonistica, si è trasferito in Florida nel 1992 grazie ad un incredibile colpo di fortuna. Nel 1990, fresco di convalescenza dopo un brutto incidente d’auto che ne ha interrotto la carriera di windsurfer, Forti partecipa allo gioco a premi televisivo “Telemike”, condotto da Mike Bongiorno, presentandosi sulla storia del windsurf e vince una forte somma di denaro che gli permette di trasferirsi negli States. Qui si sposa con la modella Heather Crane con la quale ha tre figli, Savannah Sky, Jenna Bleu e Francesco Luce, trova casa in un quartiere residenziale di Miami e si dedica all’attività di produttore di filmati di sport estremi. Inoltre, per arrotondare le entrate, inizia anche a fare l’intermediatore immobiliare. La vita della famiglia Forti procede tranquilla in un ambiente molto europeo: Miami è la città che ospita una comunità italiana molto nutrita di circa 300mila persone, per la maggior parte ricchi imprenditori, attivi nella moda e nella produzione di barche di lusso. Miami, però, è anche nota come “Miami Vice”, o la città del vizio. Del vizio e della criminalità: a partire dagli anni Ottanta, la città della Florida è il più grande punto di transito della cocaina proveniente dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Perù e il flusso di droga porta milioni di dollari, corruzione a tutti i livelli e una escalation di crimini violenti, tanto da farla diventare una delle città più pericolose d’America.

Il delitto Versace. E’ qui che, il 15 luglio 1997, sotto gli occhi di molti testimoni viene freddato con due colpi di pistola alla testa Gianni Versace. L’assassino scappa ma viene subito identificato come Andrew Cunanan, gigolò ventisettenne accusato dell’omicidio di altre quattro persone. Il 24 luglio un custode dà all’allarme: in una casa galleggiante è nascosto un uomo che potrebbe essere Cunanan. Fbi, polizia, vigili del fuoco e guardia nazionale circondano l’abitazione e fanno irruzione. Trovano il cadavere del ragazzo, che sembra essersi sparato un colpo alla testa, ma qualcosa sulla scena non quadra. Il detective del Miami Beach Police Department, Gary Schiaffo inizia a indagare, è convinto che Cunanan sia stato ucciso altrove per poi inscenarne il suicidio. La morte di Versace attira l’interesse dei media di tutto il mondo e sconvolge la comunità italiana di Miami. Chico Forti, che già si occupa di produzioni televisive, si appassiona al caso apparentemente risolto ma in realtà per nulla chiaro e progetta di fare un documentario. A Miami conosce molte persone e si muove con facilità: grazie al vicino di casa tedesco Thomas Knott entra in contatto con il proprietario della casa in cui è stato trovato Cunanan e acquista i diritti per fare delle riprese, poi conosce anche Schiaffo, che gli fornisce un rapporto segreto e un referto medico che mettono in dubbio la versione ufficiale dei fatti. Il detective dovrebbe fornirgli anche alcune fotografie ma il rapporto si incrina forse a causa di ragioni economiche e si interrompe bruscamente. Intanto, però, il documentario-inchiesta sulla morte del presunto assassino di Versace è pronto ed espone l’attacco alla casa galleggiante come una clamorosa messinscena della polizia. Si intitola “Il sorriso della Medusa” e viene trasmesso in esclusiva su Rai3 nel 1997, adombrando responsabilità e corruzione della polizia di Miami Beach, che avrebbe coperto i veri responsabili del delitto dello stilista.

La calibro 22. Non vanno dimenticati, i nomi di Knott e Schiaffo. Aiutano Forti a produrre il suo documentario, avranno un ruolo determinante nel suo arresto. Pochi mesi dopo l’omicidio Versace, esattamente il 16 febbraio 1998, in un boschetto che delimita una spiaggia di Miami, viene trovato il corpo nudo del quarantaduenne Dale Pike, ucciso con due colpi di calibro 22 alla testa probabilmente la sera prima. Pike è figlio di Anthony Pike, proprietario di hotel a Ibiza in fallimento, ed è arrivato a Miami il giorno della sua morte con un biglietto dalla Malesia, pagato da Chico Forti. Tra i suoi effetti personali c’è anche una tessera telefonica e tra gli ultimi numeri chiamati c’è quello di Forti. Chico non ha mai conosciuto Dale ma sta trattando con il padre Anthony per l’acquisto del suo hotel a Ibiza, grazie all’intermediazione del vicino di casa Knott. Le carte sono pronte e firmate, Pike vuole andare all’incasso perchè non ha più un soldo e anzi chiede a Forti di pagare sia a lui che al figlio il biglietto aereo per Miami. Quello che Forti non sa è quell’albergo è un “white elephant”, un elefante bianco, ovvero una truffa. Pike e Knott sono due truffatori: Knott è stato condannato in Germania ed è fuggito dal paese proprio grazie a Pike; Pike non è più proprietario dell’hotel ed è sommerso dai debiti, inoltre la sua firma non ha valore legale perchè è interdetto. Pike figlio, dunque, sbarca in America a spese di Forti e il padre, che arriverà tre giorni dopo, chiede al nuovo amico italiano di prendersene cura. Forti lo va a prendere in aeroporto alle 18.30 del 15 febbraio e Dale gli chiede di accompagnarlo al parcheggio di un lussuoso ristorante, dove dice di avere un appuntamento con alcuni amici di Knott. Forti lo lascia vicino a una Lexus bianca e gli dà appuntamento il giorno dell’arrivo del padre. Dale viene ucciso poche ore dopo e l’arma del delitto non viene mai trovata.

L’accusa. Forti viene a conoscenza della morte di Dale solo tre giorni dopo: è a New York per incontrare Anthony Pike ma l’uomo non c’è. Così torna a Miami e il 19 febbraio va spontaneamente alla polizia, come persona informata dei fatti. Qui inizia la sequenza di violazioni dei diritti di Chico Forti. Lui non lo sa, ma la polizia lo considera già il principale indiziato per l’omicidio: i poliziotti lo interrogano senza un avvocato e gli mentono, dicendo che anche Anthony è stato trovato morto a New York, Forti si spaventa e commette l’errore che porta al precipitare degli eventi. Nell’interrogatorio registrato nega di aver mai incontrato Dale Pike o di essere andato a prenderlo all’aeroporto. Spaventato, la sera stessa chiama Gary Schiaffo, ormai in pensione e che lavora come detective privato, e gli chiede consiglio su come procedere. L’ex poliziotto lo rassicura e per questo Forti il giorno dopo torna al commissariato per consegnare i documenti della falsa compravendita dell’hotel. Immediatamente viene arrestato e sottoposto a 14 ore di interrogatorio, durante il quale ammette la menzogna e l’incontro con Dale Pike. Al momento dell’arresto, le accuse sono di frode per la compravendita dell’hotel, circonvenzione d’incapace ai danni di Anthony Pike e concorso in omicidio di Dale Pike. Liberato su cauzione, nei venti mesi seguenti cadono le accuse di frode (anche perchè il truffato sarebbe stato proprio Forti, visto che l’hotel non era più di Pike), ma l’accusa utilizza proprio questo come movente per il delitto. «La teoria dello Stato sul caso era che Enrico Forti avesse fatto uccidere Dale Pike perché Forti sapeva che Dale avrebbe interferito con i piani di Forti per acquisire dal padre demente, in modo fraudolento, il 100% di interesse di un hotel di Ibiza. Dale aveva viaggiato verso Miami dall’isola di Ibiza in modo che Forti avrebbe potuto “mostrargli il denaro” – quattro milioni di dollari richiesti per la transazione – per l’acquisto dell’albergo di suo padre. Forti semplicemente non lo aveva. Invece, Forti incontrò Dale all’aeroporto e lo condusse alla morte», scrive il pubblico ministero che istruisce il caso, Reid Rubin.

La trappola. Non esiste alcuna prova ma contro Forti lavorano sia l’accusa che l’avvocato difensore. Le indagini preliminari sul caso Pike vengono affidate ai detective Catherine Carter e Confessor Gonzales, entrambi parte della squadra investigativa di Schiaffo; lo stesso Schiaffo con cui Forti ha avuto screzi economici è alle dipendenze del pubblico ministero Reid Rubin proprio quando Forti gli chiede aiuto e viene mal consigliato. Infine, la conduzione del processo viene affidata a Victoria Platzer, anche lei membro della squadra di Schiaffo prima di essere nominata giudice. Tutti loro sono al corrente del documentario “Il sorriso della medusa” e del fatto che abbia screditato, con nomi e cognomi, l’operato della polizia di Miami, accusandola di corruzione. A carico di Forti esistono solo due indizi: l’arma del delitto non è mai stata trovata, ma sulla carta Chico Forti ha comprato una calibro 22 qualche giorno prima l’omicidio. In realtà, il commesso del negozio testimonia che la pistola viene scelta e presa da Thomas Knott, che era in compagnia di Forti e a cui aveva chiesto di anticipare i soldi perchè senza portafoglio. L’altra prova è la scheda telefonica accanto al cadavere con le chiamate della vittima al cellulare di Forti. Entrambe, però, a tempo zero di conversazione e avvenute prima ancora che Dale scendesse dall’aereo. Inoltre, si tratta di una scheda acquistabile solo negli Stati Uniti e dunque Pike non avrebbe potuto usarla: sarebbe, dunque, una prova messa ad hoc accanto al cadavere per incastrare Forti. Infine, a giocare contro Forti è anche il suo stesso legale Ira Loewy, tanto da far sospettare collusione con l’accusa (al momento dell’istruttoria del processo, lavorava come sostituto procuratore aggiunto nell’ufficio accanto a Reid Rubin). Addirittura, l’avvocato non avrebbe mai potuto patrocinare il caso per conflitto di interessi. La sua responsabilità più grave, tuttavia, è di aver concesso l’ultima parola all’accusa nella fase finale del processo: in questo modo Rubin ha potuto convincere la giuria, senza essere smentito, che il movente della truffa fosse esistente, nonostante Forti fosse già stato assolto dal reato. Forti viene condannato con la seguente motivazione: “La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. Portate quest’uomo al penitenziario di Stato. Lo condanno all’ergastolo senza condizionale”. Nessuna prova oggettiva, nessun testimone, nessuna impronta, niente arma del delitto, movente inesistente. Per questo, da vent’anni, Forti grida la sua innocenza e chiede l’intervento dell’autorità italiana: per ora, gli appelli promossi per controvertire questa sentenza sono stati tutti rifiutati senza motivazione, ma la famiglia spera che il recente nuovo interessamento dell’Italia al caso Forti possa portare a qualche novità, per uno dei casi di malagiustizia più clamorosi della storia recente.

·         Ingiustizia. Il caso Occhionero spiegato bene.

«Ma quale Lady Hacker , io e mio fratello siamo finiti nel tritacarne mediatico». Il Dubbio il 31 gennaio 2020. Il libro di Franesca Occhionero sulla sua odissea giudiziaria. Domenica 2 febbraio alle ore 17 presso l’Associazione degli Umbri a Roma sarà presentato il libro di Francesca Occhionero “Una stagione nell’inferno di Rebibbia. Usi e abusi della giustizia: la vera storia di Lady Hacker e i retroscena dell’inchiesta Eye Pyramid” (Aracne editrice). Tre anni fa Giulio e Francesca Occhionero venivano incarcerati perché accusati dalla Procura di Roma di cyberspionaggio, nei confronti anche di politici, enti istituzionali, grandi aziende, in particolare per accesso abusivo a sistemi informatici e intercettazione illecita di comunicazioni informatiche. Per il reato di attentato alla sicurezza nazionale, che servì a giustificare le misure di sicurezza estremamente restrittive e una grandissima attenzione mediatica, ancora non è giunto alcun rinvio a giudizio. I due hanno scontato molti mesi di carcerazione preventiva: lui un anno, lei circa nove mesi. Nel luglio 2018 la sentenza di primo grado: 5 anni a Giulio, 4 a Francesca. La data dell’appello non è stata ancora fissata ma intanto la Procura di Perugia ha prosciolto l’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, dalle accuse di falso e omissione di atti d’ufficio, a seguito di una indagine nata da un esposto di Giulio Occhionero. È stato rinviato, invece, a giudizio per accesso abusivo e detenzione abusiva di password, un ausiliario di polizia giudiziaria, Federico Ramondino. Ma qual è oggi la vita dei due, figli di un cosmologo della Nasa e di una nota sociologa? Ce lo raccontano in questa intervista e nel testo. Un libro da un lato avvincente – in alcuni tratti potremmo pensare ad una vera spy story, considerati i riferimenti al Russiagate, ai Clinton e Trump-; dall’altro una denuncia nei confronti dell’abuso della carcerazione preventiva, delle indegne condizioni di vita nel carcere, del processo mediatico. Tutto quello che i giornali non hanno raccontato o hanno distorto lo si trova nelle oltre 300 pagine in cui Francesca Occhionero condividendo le sue fragilità racconta contemporaneamente quelle dello Stato di Diritto.

Chi eravate prima dell’arresto?

Francesca (F): Una laureata in chimica, Ph.D. in chimica farmaceutica, professionista nel settore finanziario, una signora medio borghese senza nessuna velleità di pubblicità mediatica.Una donna come tante, né ricca, né povera, con i suoi affetti, le sue passioni ed i suoi hobby.

Giulio (G): Direi, due professionisti del settore finanziario la cui preventiva profilazione politica, unitamente all’individuazione di un circuito delle loro amicizie, li ha resi un bersaglio politico, che in Italia poi equivale ad essere anche un bersaglio giudiziario.

Cosa vi ha lasciato l’esperienza carceraria?

F: Una profonda cicatrice, un senso di amarezza e di ingiustizia che non verrà mai cancellato. Per quanto potremo fare, non ci riscatteremo mai non solo nei confronti dell’opinione pubblica, ma anche di tutti coloro che ci circondano. Oltre al danno di immagine c’è quello economico, molto più grave. Io non riesco nemmeno ad ottenere una carta di credito prepagata, neanche una postepay. Non posso aprire un conto corrente bancario, due conti mi sono stati chiusi per motivi mai chiariti dalle direzioni delle banche. Siamo segnalati su tutti i circuiti, su tutti i “canali informativi”, ci è stata fatta una guerra spietata. Ci abbiamo messo tre anni per trovare un lavoro.

G: Naturalmente un enorme danno. Direi che, dal punto di vista delle valutazioni sulla macchina della giustizia, forse però il ramo penitenziario è quello che ha funzionato meglio.

Quali sono – sinteticamente – le anomalie che con i vostri legali – Roberto Bottacchiari e Stefano Parretta – avete riscontrato nella fase investigativa?

G: Sono decine e qui è difficile riepilogarle tutte. In sostanza, la notizia di reato è palesemente fabbricata a nostro danno. Ne sono tutti perfettamente a conoscenza dalla Procura di Roma, a quella di Perugia, dal governo all’intelligence. Il volto peggiore che possa darsi la giustizia è quello della connivente omertà.

Vi abbiamo conosciuti dai tg e dalle prime pagine come spioni internazionali, capaci di mettere in pericolo la sicurezza nazionale.

F: Quando sono stata gettata nel girone dantesco della sezione Camerotti del carcere di Rebibbia le 200 detenute mi hanno “accolto” con urla e grida, strillavano “come si sta in prigione lady hacker?”. Io non capivo cosa volessero dire perché appena arrestata sono stata tenuta in isolamento, non avevo notizie, non leggevo giornali né tantomeno avevo la tv. Non avevo la minima idea del clamore mediatico che avevano il mio arresto e la nostra storia. La cosa grave è che la stampa ci ha gettato in pasto al pubblico ricoprendoci di fango e poi non ha mai più informato i cittadini della gravità di quanto ci stesse accadendo. Dopo il primo boom mediatico, ha smorzato volutamente il significato dei fatti e dei comportamenti adottati dal pm e dal Tribunale. L’iniziale risonanza mediatica dell’inchiesta EyePyramid, condita, e periodicamente rilanciata, dall’emersione di nomi di spicco della politica, dell’economia e della vita pubblica italiana, ci ha sempre fatto chiaramente pensare a un progetto di valorizzazione mediatica della vicenda.Consapevolmente o meno, gli organi di stampa hanno contribuito a creare una vera e propria psicosi dell’information technology, dando vita a due mostri a cui addebitare ogni forma di reato. Alcune testate giornalistiche hanno praticamente dedicato la loro attività in via quasi esclusiva a questo tema e a questa storia. Oggi non siamo più interessanti per nessuno o forse c’è una regia che fa in modo che il coperchio rimanga ben chiuso sul vaso di pandora.

Francesca quale vuole essere l’obiettivo del libro?

Questo libro racconta una storia accaduta realmente, assomiglia ad un monologo interiore, ad una sorta di soliloquio e non fu affatto scritto con l’intenzione di essere dato alle stampe. Questo libro, tra le tante cose, vorrebbe anche restituire la vera immagine di una donna che, suo malgrado, ha fatto parlare tanto (male) di sé. È nato come il semplice diario di una donna disperata, una signora di quarantanove anni come tante, che delle tragiche circostanze hanno gettato in un girone dantesco rendendo il suo diario un manoscritto, un libro unico nel suo genere per i dettagli, gli spaccati di vita vissuta e gli aneddoti. Ho poi ritenuto di doverlo stampare perché il caso dei fratelli Occhionero, definito in modo roboante dalla stampa “il caso Eyepyramid”, rappresenta a mio avviso un caso di violazione sia dei diritti umani che di quelli civili.

Qual è la vostra vita oggi?

«F: Dopo tanta fatica e soprattutto tanti rifiuti, sono stata fortunata perché un anno fa ho incontrato un amministratore delegato “illuminato” che non ha pregiudizi e, dopo due lunghi colloqui, ha deciso di valutarmi sul campo e non dalle notizie della stampa. Un anno fa ho aperto la partita Iva, mi sono caricata una borsa piena di farmaci e a cinquant’anni, con molta umiltà ho ricominciato da zero un percorso lavorativo facendo l’informatore farmaceutico per un’azienda milanese. Tra colleghi di 25 anni ho dato il massimo, a testa bassa ho girato ospedali, Asl e tutti gli specialisti delle zone che mi sono state affidate. Dopo soli 10 mesi sono diventata specialist e la settimana successiva, l’amministratore delegato mi ha convocato per manifestarmi la sua stima e nominarmi Area Manager di tutta Roma e di entrambe le linee farmaceutiche umane. Oggi a 12 mesi di distanza, lavoro (tanto), sono felice di ciò che faccio e dei riconoscimenti che sto avendo ma ho dentro di me un’enorme rabbia perché so di essere stata privata di qualcosa di molto importante e che mi è stata rubata una parte della vita che niente e nessuno potrà mai ridarmi.

G: Vivo ad Abu Dhabi e sono nella gestione fondi algoritmica per i mercati finanziari. La mia specialità è sempre stata concepire modelli matematici per i mercati, per i loro strumenti finanziari e tradurli, quindi, in codici di calcolo.

·         Ingiustizia. Il caso Gino Girolimoni spiegato bene.

Gino Girolimoni non era un mostro, ma la sua vita fu distrutta. Simona Musco Il Dubbio il 31 marzo 2020. Novantasei anni fa la storia di violenza e pedofilia che sconvolse la capitale. Ma quell’uomo era innocente. Lo descrivono tutti allo stesso modo quel pomeriggio del 31 marzo 1924. Bello, assolato, nonostante l’ora. Le 18, in un’Italia al suo secondo anno da fascista. È il giorno in cui la vita di Gino Girolimoni, fotografo 38enne, inizia a cambiare. Ancora non lo sa, ma le strade di una brutta storia di violenza porteranno tutte, inspiegabilmente, da lui, facendolo diventare un mostro, senza esserlo mai stato. La storia inizia con due fratellini. Giocano, ridono, scherzano davanti al Palazzaccio che si affaccia su Piazza Cavour, al centro della città eterna, Roma. Corrono e strillano, fino a sparire dalla visuale della donna. Quando lo sguardo si risolleva, senza trovarli, tutto ciò che può fare è iniziare a cercarli, con il fiato rotto dall’ansia, con il tremore alle mani. Emma Giacomini ha quattro anni e mezzo, il fratellino, solo un paio. Li ritrova una donna, che a Monte Mario sente il pianto strozzato di una bimba coi vestiti strappati e un fazzoletto stretto attorno al collo. In ospedale Emma si salva. Qualcuno abbozza un identikit dell’uomo visto scappare a gambe levate: un cinquantenne alto, magro ed elegante. Un uomo a cui, ad un certo punto viene affibbiato, ingiustamente, il nome di Gino Girolimoni, vittima di uno dei più grandi errori giudiziari del secolo scorso. Ma la strada che porta a lui è ancora lunga. Passano due mesi, è il 4 giugno. Un’altra bambina finisce preda di mani sconosciute. Si chiama Armanda, ha due anni, e si trova in via Paola quando qualcuno l’afferra. Strilla al limite del possibile, così che quelle mani sono costrette a lasciarla e le gambe a correre. Ma la sorte tornerà a cercarla due anni dopo, quando la fortuna sarà troppo distante per soccorrerla. Il 4 giugno di un mostro senza nome e volto non finisce con Armanda e la sua fuga. Sono le 22 quando in via del gonfalone Bianca, anche lei 4 anni, scompare. La cercano tutta la notte, ma senza raggiungerla in tempo: il suo corpo viene trovato alle 11 del giorno dopo, vicino alla basilica di San Paolo fuori le Mura. Mezza nuda, sul corpo straziato, violato, si avventa un gruppo di maiali. È morta strangolata, con un fazzoletto legato al collo. Un’amichetta dice che a portarla via è stato un uomo elegante, coi baffi chiari e il soprabito grigio. Il dolore per la sorte di quella bimba spezza in due la città, la gente ha paura, piange, invoca giustizia, si guarda attorno sospettosa di qualunque volto. Qualcuno viene linciato, qualcun altro decide di farla finita per la paranoia di finire in carcere sulla base del sospetto. La città si chiude a riccio, leccandosi le ferite e covando rancore, fino a placarsi di fronte alla vista di quel corpo suicida esanime, annichilito dalla paura. L’incubo sembra essere finito, la vita può tornare alla sua normalità sospesa da regime. Ma l’orrore bussa di nuovo alla porta il 25 novembre 1924, quando Rosina, tre anni appena, scompare da piazza San Pietro. Il suo corpo riappare il giorno dopo, in una fornace di mattoni a Monte Mario. Vicino a lei un asciugamano, con sopra ricamate due iniziali: “R. L.”. Perfino Mussolini sente il suo potere vacillare, chiede la testa del criminale, minacciando la polizia. Ma le indagini arrancano e il maniaco continua ad agire indisturbato. Passano pochi mesi, è il 30 maggio del 1925. Elisa, sei mesi, viene stuprata e strangolata. Il suo corpo viene recuperato sul Tevere, assieme ad un fazzolettino con ricamata una “C”. Ci sono anche i pezzi di una lettera in inglese. Il mostro continua ad agire, prendendosi, tre mesi dopo, Celeste, 17 mesi, rapita dalla sua culla in via dei Corridori e ritrovata cadavere su via Tuscolana. Sparisce da casa anche Elvira, rapita il 2 febbraio 1926, ma salvata in ospedale come per miracolo. È dopo il ritrovamento del corpo della piccola Armanda, sull’Aventino, che qualcuno fa per la prima volta il nome di Gino Girolimoni. A pronunciarlo è Giovanni Massaccesi, un oste che dice di aver visto Gino e Armanda nella sua osteria. La testimonianza viene confermata da alcuni avventori, che dicono di ricordarsi di lui e del foruncolo sul suo collo, conto il quale premeva un fazzoletto. Gino viene fermato mentre si trova con una bambina di tredici anni, che qualcuno dice essere la sua “fidanzata”. Fa la cameriera in casa di una donna sposata, che intrattiene, in realtà, una relazione con Gino. Ma lui non lo dice e finisce in manette, guadagnandosi l’etichetta di mostro. La sua vita viene passata al setaccio, ogni suo passo studiato e giudicato. La stampa lo crocifigge, gli aneddoti falsi sul suo conto si moltiplicano. Tutti hanno qualcosa da dire su un uomo fino a quel momento al di sopra di ogni sospetto. Alla polizia si presenta Domenico Marinutti, giurando di essere la persona vista in osteria, quella col foruncolo sul collo e con una bambina aggrappata alla mano, sua figlia. E il giorno in cui Armanda muore Gino non è nemmeno a Roma. Gino non va con le ragazzine, Gino è innocente. Ma il mostro è servito e tutti preferiscono la sicurezza di un giudizio già emesso. Nessuna bambina sparisce più e così tutti sono autorizzati a non porsi altre domande. Gino rimane in carcere, nega sempre di essere quel mostro orribile il cui vestito gli è stato cucito addosso, ma la sua parola non conta. Finisce in isolamento a Regina Coeli, finché non viene prosciolto «per non aver commesso il fatto». Non ci sono prove, fatti. Impossibile inchiodarlo a responsabilità non sue. È l’8 marzo 1928, finalmente torna libero. Il suo nome diventa sinonimo di “pedofilo” ed è così anche a distanza di quasi un secolo. Chiunque lo veda trova in lui ancora un mostro. Tutti tranne Giuseppe Dosi, un commissario chee riapre il caso, perché non crede che sia Girolimoni il responsabile di quella strage di anime innocenti. Ha un’intuizione colui che qualche anno dopo inventerà l’interpol: la descrizione dell’omicida coincide con quella di Ralph Lyonel Brydges, pastore protestante  alla Holy Trinity Church di via Romagna, già fermato a Capri per aver adescato una bambina. In casa sua trovano un taccuino con appuntati i luoghi in cui sono sparite le bambine, dei fazzoletti, ritagli di giornale su omicidi simili a quelli di Roma, ma avvenuti a Ginevra, in Germania e in Sud Africa. E ogni volta lui si trovava lì. La perizia psichiatrica restituisce il suo profilo peggiore, compatibile con quell’orrore. Ma sembra più vecchio di quanto i testimoni abbiano detto. Così l’accusa, seppure solida, vacilla. Mussolini, pressato dalla Chiesa anglicana, lo lascia andare e così il pastore va via, abbandonando l’Italia. Quando viene prosciolto, nell’ottobre del 1929, è già via da un pezzo. Dosi, invece, viene rinchiuso in manicomio. Girolimoni vive da precario fino alla fine dei suoi giorno, con addosso, fino all’ultimo giorno, il sospetto e la condanna degli occhi altrui. Muore nel 1961. Quasi nessuno si presenta al suo funerale, solo Dosi e un paio di amici, e anche le sue ossa, sepolte prima al Verano nella cappella di un conoscente, dopo anni vengono esumate e sepolte nella terra, per poi finire nell’ossario comune. Un ultimo colpo di spugna alla sua identità stravolta.

·         Ingiustizia. Il caso Formigoni spiegato bene.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 13 Ottobre 2020. Per lui è un ritorno al passato in bianco e nero: alla Caritativa nella Bassa, seguendo gli insegnamenti di don Giussani. Ma è anche un modo per onorare il debito con la giustizia. Roberto Formigoni gioca la carta dell' affidamento in prova ai servizi sociali e chiede di poter insegnare italiano alle suore straniere presso il Piccolo Cottolengo Don Orione di Milano. Sarebbe la seconda «sessione» al Piccolo Cottolengo: l' ex presidente della Regione Lombardia aveva già proposto la nostra lingua alle religiose del Madagascar un paio d' anni fa, prima di finire in cella a Bollate. Ora, dopo cinque mesi di carcere, è in detenzione domiciliare e vorrebbe scontare un segmento della pena provando a spiegare il vocabolario a chi ha maturato la vocazione a migliaia di chilometri di distanza. Le condizioni per ottenere l' affidamento sono maturate questa estate e Formigoni ha avanzato regolare richiesta al Tribunale di sorveglianza, come anticipato ieri dal Corriere della sera. Non è detto che la risposta sia positiva: la domanda potrebbe essere respinta, oppure potrebbe essere accolta ma potrebbe cambiare la destinazione. Per ora il Celeste, condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi di carcere per corruzione, continua la vita di prima: «Sono ristretto in casa - spiega al Giornale - e passo il tempo a leggere e studiare». La politica è sempre la grande passione dell' ex governatore che però resta in tribuna: «Avevo chiesto di partecipare su invito degli organizzatori ad una manifestazione del fronte del no in vista del referendum sul taglio dei parlamentari, ma i giudici hanno ritenuto di non concedermi il permesso ed io ovviamente ho ubbidito. A Natale avevo domandato l' ok per trascorrere la giornata di festa con i miei fratelli e il permesso era arrivato. Questa volta no. Va bene così». Ci sono altre piccole ma importanti consolazioni, nella routine quotidiana: «Posso uscire due ore al giorno e io cerco di impiegare al meglio quel tempo prezioso: cammino molto e incontro qualche amico». Ma c'è di più: «Sto scrivendo anche un libro di cui però al momento non voglio parlare. Quando sarà pronto troverò il modo di presentarlo». Insomma, il Formigoni effervescente e talvolta sprezzante di qualche anno fa, molto amato e molto odiato, sembra essere finito in naftalina dentro qualche armadio. Insieme alle giacche coloratissime e sgargianti che erano diventate un tratto distintivo del look nell' ultima fase del suo mandato ventennale di dominus della Regione Lombardia. Oggi affiora una personalità diversa: sempre graffiante, ma più pacata e riflessiva, a tratti distaccata dalla contingenza degli avvenimenti. Un Formigoni segnato dai colpi durissimi delle inchieste che l' hanno portato in cella, ma anche consapevole dei risultati raggiunti durante la sua lunghissima presidenza: basta pensare al buono scuola e alla riforma sanitaria, considerata - pur fra critiche e scandali - un modello e un esempio per tutta Italia. Almeno fino a qualche mese fa, quando la pandemia ha costretto a riconsiderare i meriti e i parametri del sistema lombardo; e però anche su questo versante Formigoni contrattacca, attribuendo fallimenti e responsabilità alla controriforma messa in atto dopo il suo addio dalla giunta Maroni. Poi c' è il controverso capitolo soldi & conti correnti: la Procura di Milano, pur avendo cercato per mari e per monti, non ha trovato un centesimo del fantomatico tesoro dell' ex governatore, aprendo una crepa inquietante nella costruzione architettonica della condanna che ha retto a tre gradi di giudizio ma è anche arrivata fra spinte e suggestioni mediatiche, come le foto del tuffo in un mare paradisiaco da uno yacht di lusso. In compenso, il vitalizio è ridotto ad un moncone e la pensione targata Pirellone è stata artigliata dalla Corte dei conti. La battaglia per quei denari è in pieno svolgimento ed è difficile prevedere come finirà. Lui non si sbottona, ma se la cava sibillino con una sola parola: «Attendo». Dunque, nessuna polemica, basso profilo e disponibilità a fare da maestro a chi non mastica la lingua di Dante. «La precedente esperienza al Don Orione - è la conclusione - mi sembra sia stata positiva. E mi piacerebbe andare avanti con quel lavoro». Come Berlusconi si era dedicato ai vecchietti di Cesano Boscone. Nelle prossime settimane la decisione.

Formigoni è stato assolto, ecco perché. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Gli dicevano che doveva fare il nome di Formigoni. Lui non l’ha fatto ed è stato condannato. Poi Formigoni è stato assolto “perché il fatto non sussiste”. Cioè la corruzione non esisteva. Ma il “corruttore” sta ancora scontando la pena, dopo il carcere, ai servizi sociali. Pensa alla revisione del processo, ma intanto la galera se l’è fatta.  Che cosa succede se il corruttore non è ancora un uomo libero, dopo la condanna a cinque anni di reclusione, mentre nel frattempo i corrotti sono tutti assolti? Sembra un rompicapo, ma è solo uno dei tanti episodi della drammatica sgangherata nostra ingiustizia quotidiana. Il condannato si chiama Massimo Gianluca Guarischi, gli assolti (ex presunti corrotti) sono Roberto Formigoni, Simona Mariani e Carlo Lucchina. “Il fatto non sussiste”, ha detto il pubblico ministero, chiedendo le assoluzioni. Il fatto non sussiste, ha ripetuto il tribunale dopo meno di un’ora di camera di consiglio. La formula più ampia di assoluzione significa che chi aveva accusato, orchestrato e arrestato aveva semplicemente preso un granchio perché in realtà, come dicono a Roma, non c’era proprio trippa per gatti, la corruzione era solo nella fantasia di qualche pubblico ministero. Ma per capire bene come andò la storia, occorre ricostruire tutto quanto il circo mediatico giudiziario che colpì e affondò, anche con gravi conseguenze politiche, Roberto Formigoni dopo vent’anni di governo della Regione Lombardia. Il circo, con grandi strombazzamenti moralistici (del genere di chi dà buoni consigli non potendo più dare il cattivo esempio) ha condannato pubblicamente Roberto Formigoni, prima ancora della cassazione con i suoi cinque anni e dieci mesi, per aver favorito suoi amici ospedalieri in cambio di soldi e regali, le famose “altre utilità” con cui la legge definisce la corruzione. Denaro non è stato mai trovato, ma viaggi e foto in barca sì. Al tradizionale circo si era poi affiancato il moralismo di nuovo conio, quello del ministro Bonafede e della sua corte grillina che, con la “Legge spazzacorrotti” che fa venire i brividi anche solo dal nome, aveva introdotto la corruzione tra i “reati ostativi” alle misure alternative al carcere. Il risultato per l’ex governatore fu il repentino passaggio dal Palazzo Lombardia al carcere di Bollate. E in seguito, e tuttora, ai domiciliari. Spostiamoci di novanta chilometri, da Milano a Cremona. Si spengono i riflettori del circo, si celebra un processo “normale”, che è una costola-fotocopia di quello milanese. E qui, nella grassa Cremona famosa per le tre T (“turòon, Turàs e tetàss”), avviene il miracolo, Roberto Formigoni viene assolto anche su richiesta del pm. Stesso film, ma con risultato diverso, anzi opposto. Il fatto riguarda il “Vero”, che è un acceleratore lineare per cure oncologiche. Nel 2011 l’ospedale Maggiore di Cremona l’aveva acquistato per otto milioni di euro dalla Hermex Italia di Giuseppe Lo Presti, il quale aveva dichiarato di aver versato 447.000 euro a Luca Guarischi, che era amico di Formigoni e anche ex consigliere regionale. Ma si trattava di una provvigione, non di una bustarella per corrompere. Ed ecco che arriva la “ciccia”: non denaro al Presidente della Regione Lombardia, ma vacanze trascorse tra i due amici e bottiglie di vino regalate, sarebbero state le “utilità” di cui Formigoni avrebbe goduto per aver favorito l’acquisto del macchinario, con la complicità del dg dell’ospedale di Cremona Simona Mariani e del direttore generale della Lombardia Carlo Lucchina, accusato di abuso d’ufficio. Non c’è voluto molto, fuori dal circo milanese, per capire che tutto si era svolto in modo regolare, che Guarischi aveva un rapporto continuativo di lavoro con Lo Presti e che lui e Formigoni avevano trascorso alcune vacanze insieme perché erano amici, e che la presunta “sopravvalutazione” del costo del macchinario non esisteva. Ma intanto Luca Guarischi si è fatto un bel po’ di galera, anche lui colpito dalla “spazzacorrotti”, e sta finendo di scontare la pena ai servizi sociali. La figlia Nicole, in un’intervista al Giornale, ha raccontato che fin dal primo incontro con il padre nel carcere di San Vittore lui le aveva detto: : «Vogliono che faccia il nome di Roberto, se li accontento in due giorni sono a casa, ma io non ho nomi da fare perché non ho fatto niente di sbagliato…». Intanto spera che la sentenza di primo grado di Cremona diventi definitiva, visto che lo stesso pm ha chiesto l’assoluzione degli imputati. Il suo difensore Michele Apicella è prudente: leggiamo le motivazioni, poi speriamo che non arrivi un pg a presentare un ricorso, perché a volte capita anche quello, poi pensiamo alla revisione del processo di Luca. E pensare che Gianluca Guarischi, che dopo nove mesi di custodia cautelare, era andato a lavorare all’estero, dopo la condanna è pure venuto a farsi arrestare contando sulla possibilità dell’applicazione di misure alternative. Ma è inciampato nella spazzacorrotti, che lo ha sequestrato per un altro anno. E il fatto non sussisteva. Uno dei tipici “errori giudiziari” di cui potrebbe occuparsi la Commissione disciplinare del Csm, che potrebbe pure verificare se nei confronti di Formigoni, come di Berlusconi, non ci sia stata una vera persecuzione politico-giudiziaria ispirata da qualche sindacalista in toga.

Roberto Formigoni assolto, il suo consigliere in carcere: "Mi dissero, se fai il suo nome esci in due giorni". Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. Si è fatto nove mesi di galera per un reato che oggi la giustizia dichiara mai avvenuto. È accaduto a Gianluca Guarischi, ex consigliere regionale di Forza Italia, accusato di avere comprato con orologi, vacanze, bottiglie di vino Roberto Formigoni, all'epoca presidente della Regione Lombardia. "Avevo diciassette anni - racconta al Giornale la figlia di Guarischi, Nicole - mio padre era stato arrestato pochi giorni prima. Vado per la prima volta a fare il colloquio a San Vittore. Una ragazzina in carcere, da sola, si figuri. Trovo papà distrutto, mi dice: 'Vogliono che faccia il nome di Roberto, se li accontento in due giorni sono a casa, io non ho nomi da fare perché non ho fatto niente di sbagliato però se tu là fuori da sola non ce la fai, se hai bisogno di me, li accontentò. Gli risposi: papà, fa quello che ritieni giusto, io me la cavo. Non me ne sono mai pentita". I due, Guarischi e Formigoni, sono stati processati separatamente: il primo è stato condannato a cinque anni per avere corrotto il secondo, è poi tornato in carcere per un anno e ora sta finendo di scontare la pena ai servizi sociali, a Modena. Peccato però che giorni fa Formigoni, per la stessa faccenda, sia stato assolto con formula piena. Secondo il tribunale di Cremona il fatto non sussiste. "Dovrebbe essere una buona notizia - prosegue Nicole -, sì. Certo sono contenta per Roberto. Ma per me non riesco ad esserlo. Perché papà continuerà a scontare la sua pena, e quando potrà chiedere la revisione del processo avrà ormai finito di espiare una condanna che non avrebbe mai dovuto ricevere. E nessuno mi ridarà l'inferno senza senso che ho attraversato".

Per Nicole l'incubo è arrivato con la condanna definitiva: "Lui era uscito, era andato in Algeria a lavorare per la Cremonini, poteva restare lì perché non c'è estradizione. Invece è tornato. Doveva scontare trentadue giorni prima di uscire in affidamento. Invece hanno fatto la famosa legge spazzacorrotti, ed è rimasto dentro un anno. Lì non c'erano più speranze a tenerlo in piedi, la sentenza era definitiva, dovevamo solo rassegnarci. Ma sapendo di essere innocenti è dura".

Ilda Boccassini e Formigoni, pesante rivelazione sull'arresto dell'amico del governatore: "L'uomo della scorta sapeva già". Libero Quotidiano il 18 luglio 2020. Aveva diciassette anni Nicole Guarischi quando il padre Gianluca fu arrestato. L'uomo, ex consigliere di Forza Italia, fu condannato a cinque anni con l'accusa di aver corrotto Roberto Formigoni, all'epoca governatore della Regione Lombardia. Peccato però che pochi giorni fa Formigoni sia stato assolto con formula piena per quella stessa vicenda, perché il fatto secondo il tribunale di Cremona non sussiste. Per Nicole si tratta solo in parte di una buona notizia, perché "papà continuerà a scontare la sua pena, e quando potrà chiedere la revisione del processo avrà ormai finito di espiare una condanna che non avrebbe mai dovuto ricevere". Al Giornale Nicole ripercorre i tragici momenti dell'arresto: "Era una mattina di marzo, svegliandomi per andare a scuola. La polizia era arrivata di notte, io non li avevo sentiti, trovai loro con mio padre, la casa sottosopra. Papà mi disse: non preoccuparti, tra qualche giorno sono a casa". Un fulmine a ciel sereno per la famiglia, ma non per tutti: "Vede, noi abitiamo nello stesso palazzo di Ilda Boccassini - guarda caso ex pm di Milano da sempre protagonista dei processi contro Silvio Berlusconi -. E ho saputo che il giorno prima uno della scorta aveva detto al portinaio uè, Massimo, domani veniamo a prendere il bello del primo piano. La dottoressa abita ancora lì. Noi siamo stati sfrattati, due giorni fa ho svuotato casa. Da sola perché a papà non hanno dato il permesso di venire a Milano".  Dettagli, questi, che alimentano la rabbia contro una giustizia che abbiamo imparato essere inesistente: "Una volta ci credevo - dice Nicole - adesso non più. Vedo solo i frutti di giochi politici. E cosa posso pensare di una giustizia che il giorno del mio diciottesimo compleanno non ha permesso a mio padre, un uomo tornato spontaneamente da un altro continente per farsi arrestare, di venire a darmi un bacio?".

Ilda Boccassini va in pensione: successi e cadute della pm con i jeans. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Dicembre 2019. Quando è arrivata a Milano, alla fine degli anni settanta, la giovane Ilda Boccassini fu subito definita “la pm in blue jeans”. Mai si era vista, nell’austerità del palazzo di giustizia di Milano, una ragazza così bella, così di esuberante napoletanità, così estroversa. Normale fu, in quegli anni, per i maligni e per gli invidiosi, puntarle gli occhi addosso, soprattutto sui suoi comportamenti e sulla sua vita personale. Nulla di strano se la sera la incontravi, in jeans e maglietta come le ragazze della sua età (era appena trentenne) a divertirsi nei locali sui navigli. Ma lì non c’erano gli “spioni”. C’erano invece dalle parti del palazzo di giustizia, nei suoi corridoi dove fiorivano chiacchiere sui suoi rapporti troppo cordiali con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine o con i giornalisti. Dentro il palazzo e anche nei dintorni. E arrivò il primo inciampo, quello che avrebbe dovuto in seguito renderla più prudente. Capitò che proprio a due passi dal “palazzaccio” due agenti che scortavano un procuratore aggiunto la vedessero abbracciata a un ragazzo, che per giunta era un cronista accreditato alla sala stampa del tribunale. E questo fu considerato grave e inopportuno dai vertici della magistratura. Scoppiò un putiferio, con denuncia del procuratore capo al Csm per “condotta immeritevole”, dove però lei uscì immacolata. Anche perché fu dimostrato che, nonostante i suoi rapporti personali con qualche giornalista, Ilda Boccassini è sempre stata uno dei pochi magistrati avari di indiscrezioni passate sotto banco ai cronisti giudiziari. Ma anche sul piano professionale i suoi primi anni alla procura di Milano non furono certo coronati da successo. La sua prima inchiesta, la “Duomo connection”, che avrebbe dovuto dimostrare (ci provavano fin da allora) la complicità di associazioni mafiose con la politica milanese fu un vero flop, terminata con l’archiviazione per tutti i politici e qualche modesta condanna per droga nei confronti di personaggi di secondo piano. Aveva alzato troppo il tiro, e non sarà la prima né l’ultima volta. E arrivò il secondo inciampo, non di carattere personale, ma nell’ambito lavorativo. Boccassini è sempre stata un magistrato ambizioso, ma anche il suo collega Armando Spataro lo era. Altrettanto ambizioso ma più abile, meno impulsivo: insomma, un po’ la differenza tra approccio maschile e femminile. E si sa che sul piano del potere troppo spesso vince il comportamento maschile. E Spataro vinse. Perché lei, pur sapendo che il collega indagava in certi ambienti, si sovrappose con un blitz sugli stessi personaggi che lui stava pedinando, mandando così all’aria mesi di indagini che, attraverso un lavoro più certosino e graduale, avrebbero dovuto portare gli inquirenti ai vertici dell’associazione mafiosa. Siamo all’inizio degli anni novanta. E sarà il procuratore Borrelli a dover sbrogliare la matassa. Ma questa volta Boccassini non se la cavò e fu “licenziata” dal pool criminalità con un marchio che fu quasi uno schiaffo: «È dotata di individualismo, carica incontenibile di soggettivismo e di passione, non disponibilità al lavoro di gruppo». Ma queste sue caratteristiche, che erano state determinanti per la sua uscita dal pool, diventarono in seguito anche un suo punto di forza. Nelle indagini sulla criminalità organizzata Ilda Boccassini ha sempre creduto e ci si è tuffata con le modalità di sempre: più lottatrice che inquirente. Ma la svolta della sua vita sarà determinata nel 1992, con la strage di Capaci. La morte di Giovanni Falcone, con il quale aveva uno stretto rapporto anche personale, sarà per lei uno strazio che non potrà e non vorrà in alcun modo nascondere. La ricordano tutti, a Milano, nell’aula magna del palazzo di giustizia affollata di magistrati, prendere il microfono e lanciare parole dure come pietre: «Lo avete fatto morire con la vostra indifferenza e le vostre critiche e adesso avete pure il coraggio di andare al suo funerale». Era vestita di nero, e i colleghi dissero che si era vestita da vedova. Ma lei tirò dritto, lei che aveva da sempre aderito alla corrente di magistratura democratica come tutti suoi collegi di sinistra, quel giorno stracciò la tessera e non si iscrisse mai più al sindacato delle toghe. Il che forse la danneggiò, dal punto di vista della carriera. Decise invece di farsi trasferire a Caltanissetta, il distretto che indagava sulla morte di Falcone. Vi restò poco, ma il tempo necessario per passare alla storia come l’unico magistrato ad aver capito l’imbroglio del finto pentito Vincenzo Scarantino, il pupazzo costruito a tavolino nelle indagini sulla morte di Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia due mesi dopo la strage di Capaci. Ilda Boccassini capì subito che quel “pentito” puzzava di imbroglio, lo intuì perché conosceva i suoi polli: non solo i mafiosi, ma anche gli “sbirri” e i pubblici ministeri. Forse, se lei fosse rimasta lì, se avesse insistito, se avesse lottato con i suoi colleghi come altre volte aveva fatto, avrebbe salvato la vita a molti innocenti che sono rimasti 15 anni in carcere per un delitto che non avevano commesso. Fatto sta che a un certo punto Boccassini è tornata da dove era partita, cioè a Milano, a continuare le inchieste sulla criminalità organizzata. Ma quel che rimarrà nella memoria di tutti è legato non tanto alle molte inchieste, non tutte azzeccate, sulle organizzazioni mafiose in Lombardia, quanto la pervicacia ai limiti della persecuzione con cui ha fatto controllare la vita, le abitudini, gli incontri, le abitazioni di Silvio Berlusconi a causa della sua conoscenza con una giovane egiziana, Karima El Mahroug, detta Ruby, di anni diciassette e sei mesi. Minorenne, ma quasi maggiorenne. Con cui lui sarebbe andato a letto: la pm ha insistito fino al limite della morbosità su questo punto. Ma durante il processo si capì anche che la pubblico ministero, da tutti definita come donna molto passionale, non amava le altre donne. I giornalisti del palazzo di giustizia raccontano di averlo già notato per certi suoi atteggiamenti pubblici e imbarazzanti nei confronti della compagna del suo ex marito, il magistrato Aldo Nobili. Ma in aula Boccassini non diede certo il meglio di sé, quando nella requisitoria accusò Ruby di “furbizia orientale” e non risparmiò giudizi di pesante moralismo su alcune ragazze che frequentavano la casa di Berlusconi. Se fosse uscito un fumetto dalla sua bocca avrebbe detto “puttane”. Ma anche quel processo, nonostante i suoi sforzi, non fu un grande successo, visto che, al termine dei tre gradi di giudizio, Silvio Berlusconi è uscito assolto. Dopo la morte del procuratore Borrelli che lei ha salutato con un necrologio di grande esibizionismo, firmato solo “Ilda” (“Hai resistito alle lusinghe del potere, sei stato un esempio di integrità per chi come me non ha ceduto ai compromessi. Dopo di te tenebre. Già mi manchi”), Boccassini ha tirato giù il sipario. Non ha fatto carriera come il suo avversario Spataro. Lui è diventato capo della procura di Torino, lei è arrivata solo al ruolo di aggiunto. Domani compie settanta anni. Va in pensione la “Pm in blue jeans”. 

·         Ingiustizia. Il caso De Turco spiegato bene.

Il racconto. Il calvario di Del Turco: perseguitato, umiliato e offeso. Carlo Troilo su il Riformista il 20 Dicembre 2020. Sono stato amico (oltre che corregionale) di Del Turco fin dai tempi della mia giovinezza. Fra i mille ricordi, ne cito solo uno: il fatto che Ottaviano, il giorno in cui si insediò alla Presidenza della Regione Abruzzo, fece approvare come prima delibera quella che concedeva il sostegno alla nascita della Fondazione Brigata Maiella, che tuttora opera per tener vivo il ricordo dei partigiani di mio padre. Nel luglio del 2006 Ottaviano doveva presenziare, con Franco Marini, alla intestazione a mio padre della piazza principale del suo paese natale, Torricella Peligna. Non venne e solo la sera sapemmo che era stato arrestato e rinchiuso, a Sulmona, in quello che all’epoca veniva chiamato “il carcere dei suicidi” e lì trattato come il peggiore dei criminali. Vergognosamente, nessuno – nei partiti di sinistra e nel sindacato – ebbe il coraggio di reagire. Fui l’unico – con un ampio articolo sul Messaggero Abruzzo – a prendere apertamente le sue difese. Il seguito è una storia atroce di malagiustizia, con un procuratore – Nicola Trifuoggi – che dopo pochi anni lasciò la Magistratura e tentò, con modestissimo successo, la carriere politica, mentre Del Turco, dopo anni di processi per una serie di imputazioni gravissime, fu condannato solo per il reato di induzione indebita. Ma pagò a caro prezzo quegli anni interminabili, ammalandosi di cancro, di Parkinson e di Alzheimer. Ora, l’ufficio di presidenza del Senato ha deciso di togliere a Del Turco la pensione (il cosiddetto vitalizio) secondo una legge del 2015, per le vicende giudiziarie risalenti al 2006: una decisione “fuori tempo”, inspiegabile e spietata, che speriamo possa essere definitivamente revocata anche grazie a un intervento del Presidente della Repubblica, di cui sono noti l’equilibrio e l’umanità. Faccio appello a lui, ricordando che il 25 aprile del 2018 egli volle celebrare la Liberazione in Abruzzo, visitando fra l’altro il Sacrario della Brigata Maiella, di cui Del Turco fu sempre un sostenitore, fino a far intestare l’Aula Magna della Presidenza della Regione a mio padre, che ne fu il fondatore e il comandante, ed al suo vice comandante.

Caso Del Turco, i costituzionalisti dissero no al taglio del vitalizio ma il Senato lo nascose. Angela Stella su il Riformista il 19 Dicembre 2020. Perché stiamo ancora parlando del vitalizio da dare o meno a Ottaviano Del Turco? La domanda è legittima se facciamo uno sforzo di memoria: come vi abbiamo raccontato la questione è spinosa in quanto il reato del quale è accusato Del Turco risale al 2006 e la delibera sul ritiro del vitalizio ai senatori condannati per particolari reati (mafia, terrorismo e contro la Pubblica amministrazione con pene superiori a 2 anni di reclusione) è del 2015. L’assurdità è che il problema della irretroattività della delibera in questione era stato ampiamente discusso negli otto pareri che l’Ufficio di Presidenza del Senato aveva chiesto ad altrettanti giuristi (Sabino Cassese, Cesare Mirabelli, Valerio Onida, Massimo Luciani, Alessandro Pace, Michele Ainis, Giancarlo Ricci e Franco Gallo). Le conclusioni non furono unanimi ma sono lì, cristallizzate in qualche ufficio del Senato. Per Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale, «quei pareri costarono alla collettività circa 100mila euro e neanche sono stati resi pubblici. Come Partito Radicale riteniamo inaccettabile che alcuni vertici delle amministrazioni di Camera e Senato possano fare elargizioni di denaro pubblico senza darne conto con trasparenza». Testa, autrice del libro Sotto il tappeto. Autocrinia e altri misteri di palazzo e co-autrice con l’avvocato Alessandro Gerardi del testo Parlamento zona franca: le Camere e lo scudo dell’autodichia si pone giustamente due domande: «il Senato ha dei funzionari che vengono pagati per dirimere particolari questioni. Perché 5 anni fa abbiamo dovuto pagare dei professionisti esterni? Ora che la questione del vitalizio di Del Turco è stata sospesa, dovremmo spendere altri soldi pubblici per risolverla, chiedendo pareri ad altri giuristi?». Ma ripercorriamo in sintesi quei pareri. Cassese aveva scritto che le misure che si sarebbero dovute adottare «prestano il fianco a numerosi critiche perché illegittime costituzionalmente. Esse dispongono con atto regolamentare una misura sanzionatoria accessoria a misure penali, senza un adeguato fondamento legislativo, in violazione dell’articolo 25 della Costituzione. Privano con misura sanzionatoria, in modo retroattivo, i destinatari di un diritto loro spettante in base alle norme precedenti, anche in questo caso in violazione dell’art. 25 della Costituzione. Prevedono l’irrogazione di una sanzione senza che sia garantito il diritto di difesa». Tra i contrari alla delibera anche l’ex vice presidente del Csm Cesare Mirabelli che aveva avvertito che la «cessazione della erogazione di un trattamento previdenziale ossia la perdita di un diritto quale effetto automatico e consequenziale di una condanna penale» sarebbe dovuta essere analizzata nell’ambito della disciplina delle pene accessorie, ambito in cui opera, innanzitutto, «il vincolo della riserva assoluta di legge». In pratica per Mirabelli la forma della delibera era inidonea a normare la questione, occorreva una legge. Dello stesso parere Massimo Luciani, ordinario di diritto costituzionale all’Università La Sapienza di Roma, per cui «la misura della cessazione dell’erogazione dei vitalizi e delle pensioni» configurava «una sanzione penale accessoria». La misura sarebbe potuta essere disposta solo facendo ricorso a una legge. Ma anche così ci si sarebbe scontrati con l’applicazione del principio dell’irretroattività della pena. Per Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale, invece si poteva intervenire ma solo rivedendo l’intera disciplina dei vitalizi. Il più favorevole alla delibera fu invece Michele Ainis che scrisse addirittura: «l’Ufficio di Presidenza del Senato non incontra alcun limite costituzionale ove intenda revocare il vitalizio [..]. Anzi, in qualche misura deve farlo, per una ragione di etica costituzionale, se non di diritto costituzionale. […] La Costituzione italiana è ben più esigente con i parlamentari rispetto ai comuni cittadini, circa l’integrità morale richiesta». Favorevoli alla delibera furono anche Alessandro Pace, emerito di diritto costituzionale, Giancarlo Ricci, docente di diritto del lavoro e Franco Gallo, emerito di diritto tributario. La partita possiamo dirsi che si concluse con un pareggio però resta un problema, ci dice Irene Testa: «Come hanno rilevato alcuni costituzionalisti la cessazione dei vitalizi agli ex parlamentari condannati non potrebbe essere disposta con una delibera del Consiglio di presidenza, ma tramite una legge. Purtroppo però questo non accade perché nei due rami del Parlamento vige l’autodichia, ossia quella zona franca della giurisdizione che consente alle Camere di regolare la propria vita interna in maniera autonoma. Le norme valide all’interno delle due Camere sono di fatto costruite su delibere, frutto di decisioni di una ventina di persone. Sul caso Del Turco come Partito Radicale chiediamo alla Presidente Casellati di proporre di modificare quella delibera, perché essa viola uno dei cardini del diritto, ossia la non retroattività».

Il dietrofront dopo la denuncia del Riformista. Gesto di umanità del Senato per Del Turco, “Il suo male figlio dell’atroce calvario giudiziario”. Aldo Torchiaro su il riformista il 17 Dicembre 2020. Per Ottaviano Del Turco arriva l’auspicato gesto di umanità che il buon senso raccomandava. L’ex leader sindacale, già senatore e poi governatore dell’Abruzzo, colpito da una grave forma di leucemia, dal morbo di Parkinson e dall’alzheimer, è stato riammesso al beneficio della pensione da Palazzo Madama, che gliela aveva revocata in virtù di una condanna. Sollecitati anche dal Riformista, molti erano stati i parlamentari che hanno sollevato dubbi di legittimità sulla norma che, retroattivamente, applicava su di lui per la prima volta il procedimento di revoca dei trattamenti per i senatori condannati. Il caso specifico di Del Turco è particolarmente odioso: senza risparmiare accanimento la procedura decurtativa avrebbe complicato ulteriormente la possibilità di essere curato e assistito da parte dell’ex senatore, non più autosufficiente. Così il Consiglio di Presidenza del Senato si è riunito per una seduta straordinaria dedicata al suo caso, con la volontà da parte della presidente Elisabetta Casellati di giungere a un accordo condiviso tra tutti i gruppi. Per l’avvocato Paniz e per Giandomenico Caiazza che assistono la famiglia Del Turco, si tratta del riconoscimento da parte del Senato della illegittima applicazione di una misura retroattiva; per i Questori e gli altri membri del Consiglio di presidenza della necessità di rispondere a una esigenza umanitaria, prima che di dare un’interpretazione normativa. Il compromesso è stato raggiunto scongiurando, come nei desiderata della presidente Casellati, il voto nominale. E l’accordo tra i 19 membri si è raggiunto riattivando con effetto immediato il percepimento del vitalizio, per aggiornare la seduta alla prossima occasione utile, verosimilmente a metà gennaio, per riconvocare gli uffici ed esaminare meglio le carte. «La delibera del 24/11 che aveva privato il Senatore Del Turco del suo vitalizio è sospesa temporaneamente. La temporaneità della sospensione è stata decisa per acquisire documentazione non disponibile per l’urgenza della trattazione». La famiglia deve cioè produrre le cartelle cliniche che comprovano lo stato di salute dell’interessato, per poter procedere alla cancellazione definitiva della revoca. «La sospensione è fino a quando torneremo ad incontrarci per valutare in maniera definitiva, alla luce dei documenti. Possiamo dirci ottimisti» dice la senatrice Nadia Ginetti, di Italia Viva. «Come gruppo abbiamo chiesto subito alla Presidente Casellati di risolvere il caso, ma siamo andati anche oltre. Abbiamo chiesto di introdurre formalmente delle deroghe a quella delibera del 2015 per intervenire in maniera analoga qualora si dovessero ripresentare in futuro situazioni di questo tipo». In serata il figlio di Ottaviano, il giornalista Guido Del Turco, non nasconde la soddisfazione, anche morale, per questa revoca della revoca. «Voglio ringraziare la Presidente Casellati per aver rivisto una decisione presa in un momento in cui non si era a conoscenza delle reali condizioni di mio padre. La mia famiglia ha sempre vissuto con dolore e pudore il male figlio di un calvario giudiziario atroce. Per chi ha letto le carte, appare una ingiustizia clamorosa. Ringrazio l’impegno del Riformista, dalle cui colonne è partita una battaglia per un primo e non definitivo risultato. Il Riformista ha alzato la palla, tanti altri poi si sono uniti: le forze politiche, numerose. Ma in particolare due comunità che mi sento di ringraziare: Forza Italia e i socialisti, tutti, che nel nome di mio padre hanno ritrovato una loro unità».

Un po' di mondo politico si è svegliato. Del Turco innocente e vittima di una congiura, la politica ha il coraggio di ridargli il vitalizio? Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. Forse qualcuno nel mondo politico si è svegliato. E si è reso conto che un Senato che decide di togliere la pensione da parlamentare (quella che tecnicamente viene chiamata vitalizio) a uno dei suoi esponenti più prestigiosi, è un Senato che finisce per perdere il suo stesso onore. Tanto più che l’ex senatore vittima di questa decisione, odiosa e illegale, e cioè Ottaviano Del Turco, il mitico vice di Luciano Lama in Cgil negli anni ruggenti, oggi è malatissimo, è chiuso in casa travolto dall’Alzheimer, dal Parkinson e da un tumore. La decisione di sottrargli il vitalizio peraltro è del tutto illegale. Si basa su una norma approvata nel 2015 mentre il presunto reato di Del Turco risale a quasi dieci anni prima. Lo hanno punito sfidando apertamente la Costituzione (articolo 25: nessuno può essere punito se non in forza di una legge in vigore al momento del reato). A contestare la decisione dell’ufficio di Presidenza (assunta la settimana scorsa e denunciata dal nostro giornale) è stato soprattutto il Pd, che lo ha fatto con una dichiarazione congiunta di tre suoi senatori, tra i quali il capogruppo (Marcucci, Pittella e Parrini), e con una dichiarazione della senatrice Anna Rossomando. Poi sono arrivate le prese di posizione, indignate, di alcuni socialisti appartenenti a vari partiti (o a nessun partito), tra i quali Riccardo Nencini (presidente del Psi) e Claudio Martelli. Infine la dichiarazione di Mario Giro, di Forza Italia, che si è associato alle posizioni di Marcucci. Naturalmente tutte queste sono buone notizie. Dicono che anche in Parlamento, e nella politica, esistono ancora delle menti libere e in grado di ragionare. E anche persone che nel petto, invece di un’ascia, tengono il cuore. L’iniziativa del Senato di levare il vitalizio a Del Turco, era orrenda per tre ragioni. La prima è il suo carattere vistosamente illegale. La seconda è la ferocia anti-umanitaria, la scelta di aggredire una persona malatissima, e non una persona qualsiasi ma uno dei pilastri politici degli ultimi 20 anni del novecento in Italia. E infine era orrenda perché chiunque ha seguito un po’ la vicenda giudiziaria di Ottaviano Del Turco sa che è innocente e che è caduto in una vera e propria congiura, come racconta, l’avvocato Gian Domenico Caiazza. Sarà possibile ora rivedere la decisione? Ci sono i margini? E, soprattutto: c’è in Senato una quantità sufficiente di coraggio politico per opporsi alle grida polpottiane dei 5 Stelle? Le prese di posizione di ieri del Pd fanno ben sperare. Pannella diceva: Spes contra spem. Purtroppo Pannella aveva quasi sempre ragione ma non la spuntava quasi mai…

Del Turco, se la disumanità diventa prassi politica. L’ex parlamentare e sindacalista socialista Ottaviano Del Turco è gravemente malato ma il Senato gli toglie il vitalizio. Francesco Damato su Il Dubbio il 10 dicembre 2020. Tre anni e 11 mesi di detenzione inflittigli nel 2015 per una “induzione indebita” contestatagli nove anni prima, insieme ad un’altra ventina di capi d’imputazione bocciati, peraltro senza che l’accusa avesse trovato una traccia concreta e incontrovertibile di utilità ricavata indebitamente nell’esercizio delle sue funzioni di governatore d’Abruzzo, sono valsi la perdita del cosiddetto vitalizio parlamentare a Ottaviano Del Turco. Che a 76 anni di età compiuti il 7 novembre scorso è chiuso in casa a consumare quel che della vita gli hanno lasciato un tumore, un Parkinson e l’Alzehimer. Mi scuso naturalmente con i familiari dell’ex parlamentare e sindacalista socialista per la rivelazione delle malattie di Ottaviano, che mi permetto di chiamare per nome per vecchi rapporti di amicizia di cui mi sento ancora onorato, nonostante il disonore che secondo la mentalità corrente in questi curiosi e drammatici anni di non ricordo più quale Repubblica, se terza o quarta, spetterebbe allo sventurato. Per il quale naturalmente non vale la irretroattività delle pene. Il caso di Del Turco è così clamorosamente disumano che non hanno avuto il coraggio di renderlo noto neppure quelli che lo hanno voluto e deciso. Hanno generosamente, diciamo così, lasciato lo scoop agli avversari. Non per fare un torto a Ottaviano, familiari ed amici ma vorrei sommessamente osservare che quel che più fa paura di questa vicenda è il clima politico in cui ciò è potuto accadere: un clima semplicemente da sciacalli e vigliacchi.

Appello a Mattarella per la grazia. Il dramma di Ottaviano Del Turco, tolta la pensione e in fin di vita: è tortura! Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Dicembre 2020. L’ufficio di presidenza del Senato ha tolto la pensione ad Ottaviano Del Turco. Quello che chiamano il vitalizio. Credo che abbia votato all’unanimità questo provvedimento indecente. Come hanno potuto, mi chiedo. Molti senatori si saranno semplicemente accodati, a capo chino, alla morale prevalente nella politica italiana degli anni venti: il più rozzo grillismo. Qualcuno lo avrà fatto per paura di essere poi indicato dai giornali reazionari come l’amico dei corrotti. Il terrore degli anatemi del “Fatto”. Qualcun altro, magari, per semplice ignoranza. Probabilmente solo pochi tra i senatori che hanno deciso questa misura odiosa sanno chi è Del Turco, e cioè conoscono nel dettaglio la sua biografia. Del Turco è stato uno degli esponenti di maggior valore della prima repubblica, uno di quelli che hanno portato l’Italia ad un grado molto alto di civiltà e di giustizia sociale, e poi l’hanno sistemata al quarto posto tra le potenze mondiali. Prima del crollo politico, e del crollo morale, e del crollo economico che sono venuti dopo il ‘92.  Immagino anche che pochi, in quel gruppetto di senatori che si sono macchiati di questo atto vile, sappiano che Del Turco oggi è gravemente malato. E suppongo che molti, tra loro, invece, ignorino – per distrazione, per mancanza di studi, per giovinezza politica – che l’articolo 25 della Costituzione (secondo comma) recita così: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.” Fu scritto, questo articolo della Costituzione, da esponenti della politica e della cultura italiana di livello molto alto, e che avevano speso un pezzo importante della propria vita nella battaglia contro la dittatura, il fascismo, e l’invasione militare nazista. Molti tra loro avevano trascorso anni e anni in prigione, o al confino. Se chiedi i loro nomi al drappello di coraggiosi che ha avuto l’animo di sottoscrivere questo provvedimento di condanna per Del Turco, probabilmente solo qualcuno di loro saprà balbettare due o tre di questi nomi. Chissà chi conosce Fausto Gullo, o Tristano Codignola, o Teresa Mattei, o Costantino Mortati, o Giuseppe Romita… Questi uomini e queste donne della Costituente, tennero fermo un punto comune a tutti: ripristinare lo Stato di diritto. Quello che è successo l’altro giorno all’ufficio di Presidenza del Senato è una cosa indegna. Che getta vergogna sulle istituzioni del nostro paese. È un atto vigliacco, feroce e illegale. Illegale perché il presunto reato del quale è ingiustamente accusato del Turco risale comunque al 2006 e la norma sul ritiro della pensione è del 2015. Non esiste nessun costituzionalista al mondo che potrà sostenere che restare senza pensione non sia una pena accessoria, per qualunque cittadino, parlamentare o no che sia. E non esiste nessun costituzionalista che potrà mai spiegare a qualcuno che conosce l’italiano, e che ha letto la Costituzione (che è scritta in semplice italiano) che una pena retroattiva è legittima. La punizione decretata dal Senato per Del Turco è infame ma anche illegale. Spero che molti di quelli che l’hanno sottoscritta lo abbiano fatto inconsapevolmente, per distrazione. Ora c’è un solo modo per riparare. Cioè, c’è una sola persona che può intervenire per sanare questo orrore. È il Presidente della Repubblica. Che per fortuna appartiene ad un’altra generazione politica, rispetto a quella dei fucilieri di Del Turco. Sergio Mattarella conosce la storia della politica italiana, conosce i princìpi della Costituzione ( e in generale quelli del diritto), conosce le debolezze della magistratura da prima ancora che ce le descrivesse Luca Palamara. Solo lui può intervenire e risolvere questo problema concedendo la grazia a Ottaviano Del Turco. Del Turco è un ragazzo abruzzese, nato negli ultimi giorni dell’occupazione tedesca, nel 44: credo che fosse un ragazzo povero, da adolescente scappò a Roma e si mise a fare il sindacalista. A venticinque anni era già un dirigente nazionale della Fiom. Del Turco era socialista ed era impegnato nella Cgil dei metallurgici, insieme ai comunisti. Ha avuto un ruolo di grande rilievo nel sindacato e nelle battaglie furiose di quegli anni: con Trentin, Carniti, Benvenuto, Marianetti, Macario, Marini, Bertinotti, Storti e col suo grande amico che fu Luciano Lama. Ha partecipato all’autunno caldo, era sul palco di Piazza del Popolo nel dicembre del 1969, quando una marea di metalmeccanici invase Roma e cambiò la stagione politica, e anche la stagione sociale, avviando la riconquista di diritti e salari da parte della classe operaia. E poi è restato al vertice del sindacato in quegli anni di grande riforme, di lotte, di paura, e anche di divisioni. Allora fare politica non era un grande affare: guadagnavi due lire e rischiavi pure di beccarti una pallottola dai brigatisti o dai terroristi neri. Nel 1984, quando Craxi decise di tagliare la scala mobile, il sindacato si spaccò in due: Del Turco stava con Carniti e con Craxi, contro Lama e Trentin. Vinse quella battaglia, e poi si diede da fare per ricucire, per evitare una disfatta sindacale.  Nel 92, quando scoppiò Tangentopoli, entrò in politica, fece il parlamentare, il ministro, il Presidente dell’antimafia, aderì al Pd. Fino al giorno nel quale cadde in una piccola congiura abruzzese della quale fecero parte imprenditori della sanità e qualche magistrato. Del Turco fu messo in trappola, accusato addirittura di associazione a delinquere. Gettato in carcere per mesi. Le prove non c’erano, per questo lo tenevano in cella. Speravano che confessasse. ma non aveva niente da confessare. Le poche prove sbandierate dagli accusatori si rivelarono false. Alla fine le accuse caddero quasi tutte, la Cassazione le cancellò, la teoria del grande imbroglio si sbriciolò, e Del Turco, che era stato abbandonato da quasi tutti, soprattutto – come succede spesso – dal suo partito, e cioè dal Pd, finì condannato solo per il reato di induzione indebita. È stata una condanna ingiusta, fondata su un teorema, non sulle prove. Ora pende in Cassazione una richiesta di revisione del processo. Del Turco però non saprà mai se il nuovo processo ci sarà davvero e se finalmente potrà ottenere l’assoluzione. Perché la lunga vicenda giudiziaria lo ha logorato, ha annientato il suo fisico. Oggi è chiuso in casa, è malato di cancro, di parkinson e di alzheimer. Non ragiona più. Non riconosce nemmeno i suoi familiari. Ha pagato in modo terrificante una colpa che non ha commesso. È contro quest’uomo, cioè contro uno dei protagonisti della storia della repubblica e contro una persona malatissima, che si sono accaniti i senatori che hanno deciso di togliergli la pensione. Ci sarà una rivolta di politici, di intellettuali, di giornalisti, di persone normali, di fronte a questo atto di puro sadismo? Temo di no. Confido molto invece in Mattarella. Lui ha conosciuto la prima repubblica. Sa chi erano i politici allora, e soprattutto i sindacalisti. Sa anche che se l’Italia oggi è un paese civile grande parte del merito va proprio a quella generazione di sindacalisti che hanno combattuto per anni, e rischiando molto, sulle barricate. Mattarella conosce la questione morale, quella vera: sa che nel più corrotto esponente della prima repubblica c’era molta più moralità che in un politico dilettante di oggi. Ha il potere di sanare questa ingiustizia e io penso che lo farà.

Ricostruzione di un processo folle. Perché e da chi è stato distrutto Ottaviano Del Turco, ricostruzione di un processo folle. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. La vicenda giudiziaria che ha ingiustamente distrutto la vita pubblica e privata di Ottaviano Del Turco (e facilitato o comunque reso migliore, in varia misura, quella di molti dei suoi accusatori) provoca ancora oggi in me, suo avvocato difensore, un senso di nausea e di indignazione dal quale mi sento puntualmente sopraffatto. Ma questa ultima infamia, del trattamento pensionistico revocato ad un uomo gravemente malato e reso del tutto inconsapevole dal morbo di Alzheimer all’ultimo stadio, mi costringe a rimettere mano a questa incredibile, invereconda vicenda. Ottaviano Del Turco commise un solo – ma fatale- errore, nella sua esperienza di Governatore dell’Abruzzo: ritenersi più forte dell’immenso potere esercitato dalla sanità privata in quella Regione. Prima in campagna elettorale, poi appena eletto, perseguì – starei per dire con sorprendente impudenza, ma questo era l’uomo- la priorità politica di ricondurre nella legalità il rapporto tra sanità pubblica e privata, istituendo finalmente un meccanismo di controllo serio e credibile sull’immenso flusso di denaro pubblico che confluiva senza freni nella sanità privata convenzionata. In tre anni al governo della Regione – come alla fine hanno dovuto prendere atto, dalla Corte di Appello in avanti, gli stessi suoi giudici- la Giunta Del Turco, semplicemente accertando irregolarità ed illegittimità retributive del più vario genere, aveva revocato alle cliniche private abruzzesi qualcosa come un centinaio di milioni di euro. Per darvi una dimensione della enormità di quella scelta politica ed amministrativa, sappiate che la precedente Giunta aveva contestato e recuperato, allo stesso titolo, 200mila euro. Cento milioni contro duecentomila euro. Quando, il 14 luglio 2008 la Polizia Giudiziaria venne a prenderlo a casa per portarlo in carcere (insieme a mezza sua Giunta regionale), l’ordinanza di custodia cautelare che Ottaviano, incredulo, poté leggere era scritta interamente recependo senza filtri le dichiarazioni di due signori: Vincenzo Maria Angelini, proprietario del più importante gruppo di cliniche private abruzzesi; e Luigi Pierangeli, presidente dell’Aiop, associazione di categoria che raggruppava tutte le restanti cliniche private diverse da quelle del gruppo Angelini. Il cento per cento della Sanità privata abruzzese dava il benservito alla Giunta che aveva osato tanto. I due gruppi erano in realtà in forte competizione tra di loro; ma l’obiettivo fu infine convergente. Pierangeli era andato in Procura a Pescara non meno di una ventina di volte (ma forse di più, non ho voglia di andare a contarle), con altrettante denunce raccolte a verbale, nelle quali affermava (ed a suo dire documentava) che tutte le iniziative amministrative adottate dalla Giunta Del Turco in materia sanitaria erano illegittime, e tutte indebitamente favorevoli al gruppo Angelini. Questa incredibile e quasi maniacale attività di denuncia fu recepita dalla Procura di Pescara senza una sola obiezione, ed infine trasfusa pari pari in un incredibile raffica di capi di imputazione per abuso in atti di ufficio, falsi ideologici e chi più ne ha più ne metta, dei quali – ascoltatemi bene – non uno solo, dico non uno solo, è sopravvissuto all’impietoso giudizio di inesistenza dei fatti, ovviamente solo dopo la incredibile sentenza di primo grado che, asseverando invece senza esitazioni la bontà di quelle denunce, condannò Del Turco a dieci anni di reclusione. Nulla, una montagna di chiacchiere pretestuose, gratuite, infondate, grossolanamente speculative, odiosamente saccenti, desolantemente insensate dal punto di vista tecnico-giuridico, utilissime però a fare fuori quella Giunta, come puntualmente accadde. Angelini servì a chiudere il cerchio. Perché mai, d’altronde, la Giunta Del Turco avrebbe così impudentemente favorito le cliniche del suo gruppo, se non per il vile denaro? Perciò Angelini viene convocato in Procura, ma cade dalle nuvole: mai dato una lira. Senonché viene contestualmente ad apprendere – sono atti del processo, a disposizione di chiunque vorrà consultarli – che la Procura sta mettendo da tempo il naso nelle sue attività di storno di immense quantità di denaro (già una sessantina di milioni di euro) che egli starebbe da tempo sottraendo alle sue aziende. Brutta storia. Ma forse, gli dice il Procuratore capo dott. Trifuoggi, questi soldi, o una importante parte di essi, Lei dott. Angelini li ha distratti dalle aziende perché costretto a pagare la politica? Ci pensi bene, perché in questo caso da potenziale indagato (di bancarotta per distrazione, per esempio, ma anche di corruzione), lei diventa persona offesa, vittima, concusso da Del Turco e sodàli, sa quella storia della concussione ambientale, Mani Pulite eccetera. Insomma, ci pensi bene. Il verbale del primo approccio in Procura è testualmente in questi termini. Ci penso su, dice Angelini, ingolosito. Dopo qualche giorno, ritorna, per dire: a ben riflettere, oltre sei milioni di quei soldi che ho ritirato in contanti dalle mie aziende li ho dovuti dare alla vorace banda Del Turco. D’altro canto, basta leggere l’incipit della sua “collaborazione”, per capire di cosa stiamo parlando: «Sono qui questa sera perché mi è stato assicurato che sarei stato compreso per quello che più avanti dirò». Assicurato? E da chi? È la Giustizia, bellezza. Qui inizia la grottesca, tragicomica sarabanda dei “riscontri oggettivi”: l’imprenditore deposita, in tempi successivi, le ricevute telepass di una serie di autovetture delle sue aziende, e le ricevute bancarie dei prelievi in contanti di somme dai conti correnti delle sue società. Attribuisce tutte le uscite autostradali al varco di Aielli-Celano, di qualsivoglia e non identificata autovettura delle sue Società, quale prova delle sue trasferte a casa di Del Turco. Che non abita, ovviamente, dentro il casello di Aielli Celano, ma a Collelongo, uno dei molti paesi (ad almeno 20 km di distanza dal casello) per raggiungere i quali chi viene da Chieti in autostrada può uscire a quel varco. Il quale ultimo torna però anche utilissimo per raggiungere una delle vicine cliniche di Angelini, impegnando anzi la via più breve. Nossignore, spiegherà Angelini quando finalmente noi potremo obiettarlo in dibattimento, non ho mai fatto utilizzare né al mio autista né ai miei dipendenti quella uscita, uso solo ed esclusivamente, senza una eccezione che sia una, quella successiva di Avezzano (percorso totale più lungo). “Me possino cecamme”, si direbbe a Roma (basterebbe infatti una qualsivoglia altra ragione di uscita a quel casello, per elidere ogni già flebile capacità indiziante rispetto alla casa di Del Turco). Mai uscito ad Aielli Celano in vita mia, né alcuno dei miei, se non per andare a casa di Del Turco carico di denari. Lui seleziona 26 uscite ad Aielli Celano, e tenta di incrociarle con i prelievi, ma è sfortunato e non ne trova nemmeno uno coincidente. La cosa incredibile è che la Procura di Pescara non fa un plissè quando Angelini spiega a suo modo l’arcano: il Satrapo mi faceva avvertire dai suoi di preparare prima i soldi (ecco i ritiri al bancomat o in banca), e dopo alcuni giorni, a suo piacimento, giocando come il gatto con il topo, mi ordinava di portarglieli immediatamente. Ecco allora come si fanno coincidere – si fa per dire, naturalmente! – i prelievi (da lui scelti tra centinaia di altri identici, tramite i quali ha depredato le sue società) con i famosi Telepass, tutti relativi a date diverse. Come fa, dott. Angelini, a ricordare quali fossero i 26 prelievi per Del Turco, tra centinaia di altri identici? Solo chi ha sofferto le indicibili umiliazioni che ho subito io da Del Turco potrebbe non ricordarli. E come mai le uscite ad Aielli Celano sono invece quasi una ottantina? Andavo a fargli visita spesso, per parlare di politica. Uno stalker, più che un concusso. Siamo su Scherzi a Parte? Nossignori, siamo dentro il famoso processo Del Turco e la sua “montagna di prove” che la Procura di Pescara ebbe l’impudenza di preannunciare in una roboante conferenza stampa. Sto solo raccontando – per quanto incredibili siano – alcune delle più esilaranti (se non parlassimo di una tragedia) “prove” in base alle quali, come se niente fosse, è stato massacrato un galantuomo, un grande protagonista delle lotte sindacali ed operaie degli anni ruggenti, un socialista con la schiena diritta e le mani pulite. Vuoi vedere che prima o poi qualcuno dei nostri famosi “giornalisti di inchiesta”, gli eroici nostri cronisti giudiziari che scodinzolano ubbidienti nei corridoi degli Uffici di Procura, o ne attendono trepidanti i wapp, troverà un po’ di coraggio e andrà finalmente a cercare di capire come, e soprattutto perché, sia potuto accadere tutto ciò? E non vi ho ancora raccontato niente: preparatevi, nella prossima puntata, a sentire il racconto delle foto delle mele, delle noci, e delle buste piene di soldi: Groucho Marx, al confronto, è un dilettante. Meno male che Tu, Ottaviano, amico mio, non riesci più a sentire nemmeno l’olezzo maleodorante che torna su da questi ricordi dolorosi. A volte la malattia sa essere pietosa.

Storia di un errore giudiziario: Ottaviano Del Turco è innocente, ecco perché. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Insieme alle grottesche ricevute Telepass di cui vi ho raccontato ieri, “incrociate” con prelievi bancari scelti ad capocchiam tra innumerevoli altri identici, e senza nessuna coincidenza temporale plausibile, Angelini tira fuori l’ennesimo colpo di teatro. Una serie di foto, che raffigurano una mazzetta di denaro nelle sue mani; poi l’immagine sfocata di una persona indistinguibile che il suo fedele autista testimonierà essere lo stesso Angelini, con una innocua busta con i manici, tipo profumeria, sul vialetto di casa Del Turco; poi, quando è ormai buio pesto, una foto – sempre nelle mani di Angelini – di una busta un po’ stracciata piena di mele e castagne. Premesso che mai Del Turco ha negato di avere ricevuto in quegli anni Angelini a casa sua quattro o cinque volte, come decine e decine di altre persone che volevano incontrarlo, questa roba qui è stata considerata – anche in Appello – la prova, indiretta ma certa, di una dazione di denaro ad Ottaviano. Ciò si pretenderebbe di desumere dalla successiva foto con le mele, inserite dal vorace Del Turco nella stessa busta (dicono in un primo momento Angelini ed il suo fido autista) che all’ingresso conteneva i soldi, «per non insospettire l’autista», qualunque cosa ciò possa mai significare, visto che secondo l’accusa di Angelini a quella data l’autista lo aveva accompagnato per la medesima operazione almeno altre venti volte. Ottaviano si preoccupa improvvisamente di non insospettire l’autista, tornando il suo datore di lavoro alla macchina senza la busta con la quale era entrato (e chissà mai perché dovrebbe immaginare che l’autista ne sospetti il contenuto illecito!), e pretende che Angelini la riporti con sé, piena di mele e castagne. E questa surreale, insensata messinscena lui la pretende proprio nel giorno, esattamente nel giorno in cui Angelini, esasperato, aveva deciso per la prima volta di documentare la dazione! So che stentate a credermi, ma la storia è questa, e non vi siete ancora goduti il meglio. Proiettata la foto in udienza, perfino il Tribunale deve prendere atto che la busta con le mele è diversa da quella che avrebbe contenuto i soldi!! Dunque la messinscena raccontata dal nostro accusatore perderebbe ogni residua briciola di sensatezza, giusto? Non per i giudici di questa Repubblica. Anche la Corte di Appello, che demolirà i quattro quinti delle accuse ritenute provate in primo grado, manterrà la residua condanna agganciata a questa follia. E la Corte di Cassazione, che a sua volta annullerà anche il capo di associazione per delinquere che la Corte di Appello aveva incomprensibilmente mantenuto in vita, dirà: non siamo giudici di merito, non entriamo nella dinamica del fatto, ma questa è l’unica dazione rispetto alla quale vi è un principio di prova (le foto ed il racconto dell’autista) e quindi questo residuo brandello della vicenda lo dobbiamo salvare. Non vi tedio sul tema della falsa datazione di quelle foto, perché è oggi oggetto del nostro ricorso per revisione. Ma quando vi raccontano che comunque Ottaviano Del Turco è stato condannato in via definitiva e dunque è un corrotto conclamato, è giusto che sappiate di cosa stiamo parlando. Ricapitoliamo: in primo grado il Tribunale di Pescara ritiene tutte le accuse fondate, corregge solo la qualificazione giuridica (Angelini non fu concusso da Del Turco, ma lo corruppe; nel frattempo per lui, Angelini, il reato si è prescritto visto che mai era stato iscritto fino ad allora come corruttore, mannaggia, peccato, ci dispiace tanto). Il poderoso sviamento della attività amministrativa in suo favore, descritto dalla miriade di reati di falso, omissione, abusi eccetera è altresì pienamente provato; ed anzi – siate attenti – il Tribunale di Pescara imprudentemente afferma che «tale accertata generale condizione di illegalità [costituisce] il più significativo riscontro dell’attendibilità dell’Angelini». Dieci anni di reclusione. A nulla è valsa nemmeno la prova certa in atti, della assenza di ogni traccia di anche un solo euro non tracciato, nel patrimonio di Ottaviano. «È esatto dire che non avete riscontrato né un euro, né la traccia di un euro che non avesse una giustificazione su risorse finanziare pregresse ai fatti che interessano questo processo?», chiedo in udienza al Colonnello Favia della Guardia di Finanza. «Sostanzialmente è giusto», è la sua risposta. Lo stesso vale per l’acquisto di alcuni immobili, per i quali si accerta che Del Turco disinveste risparmi ventennali, e addirittura vende due quadri, condotta semplicemente inspiegabile se fosse vero che in quegli stessi momenti, egli avesse le tasche piene di milioni di euro in contanti. Ed invece, solo per darvi un assaggio della serenità di giudizio del giudice di primo grado, ecco come se la cava il Tribunale: «Gli acquisti, pur compatibili con la condizione patrimoniale complessiva dell’imputato, si collocano in periodi immediatamente successivi» ad alcune della dazioni contestate «sicché ben può ritenersi che l’imputato non si sia preoccupato di procurarsi per tempo le provviste necessarie all’acquisto degli appartamenti, potendo contare in caso di estremo urgente bisogno, sul denaro che l’Angelini illecitamente gli aveva consegnato». Devo aggiungere altro, sulla sentenza di primo grado? Credo proprio di no, sebbene avrei da raccontarvi decine di altri simili aneddoti, soprattutto descrittivi della atmosfera incredibile nella quale si è celebrato quel processo. Senonché, la Corte di Appello de L’Aquila, in accoglimento di larga parte del nostro appello, ci assolve – e con noi i nostri coimputati – da quasi tutte (21!) le fantomatiche tangenti, facendo salve quelle in qualche modo riferibili alle leggendarie foto delle mele. Da sei milioni e trecentomila euro, ora ne avremmo invece presi ottocentomila. Ma soprattutto, ci assolve (per insussistenza dei fatti) da tutti – tutti – i reati che avremmo commesso per favorire Angelini in cambio del denaro. Tutti. La Giunta Del Turco, ammette ora la Corte, non ha mai sviato l’amministrazione della sanità Regionale in favore di nessuno (anzi, ad Angelini, il favorito, ha decurtato 68 milioni di euro!). E quindi, questa associazione per delinquere si sarebbe costituita intorno a quale obiettivo? Non si sa. Di far soldi con qualche pollo da spennare, “cogliendo l’occasione” propizia derivante comunque dalla forza intimidatrice del potere esercitato. E Angelini perché darà del denaro a chi gli ha decurtato 68 milioni di euro? Boh. La Corte di Cassazione annullerà poi anche la associazione per delinquere (il fatto non sussiste, sancirà definitivamente il giudice di rinvio), salvando solo, come ho detto, le dazioni riconducibili alla tragicomica storia delle foto. Così si impicca un uomo ad un errore giudiziario, quando esso è troppo, davvero troppo grande per poter essere interamente ammesso e riconosciuto dal sistema; che si autoprotegge, per quanto possibile. Hai arrestato il Presidente di una Regione democraticamente eletto, e mezza sua Giunta; hai interrotto il corso democratico di una istituzione elettiva; hai coperto di ignominia uomini pubblici e le loro famiglie. Tutto questo sul nulla: in questa Italia divenuta orgogliosamente patria della forca e del linciaggio, ci vogliono non dei giudici, ma degli eroi che abbiano la forza di sancire che fu tutto un enorme, grossolano, imperdonabile “errore” giudiziario. Nella vicenda giudiziaria di Del Turco, questo di fatto è stato ammesso, ma salvando un pezzettino di quella indecenza, giusto un pezzettino, al quale chi ne fu responsabile possa aggrapparsi. Ora, caro Ottaviano, mentre noi proviamo a combattere l’ultima battaglia per la revisione di quella infamia che ti ha piegato e piagato, tu non sei più in grado nemmeno di comprendere questa ennesima, ultima umiliazione che uno Stato ottusamente feroce e protervo ti sta infliggendo: la revoca della tua pensione di parlamentare della Repubblica. Tu che sei Stato Ministro delle Finanze, Parlamentare italiano ed europeo, Presidente della Commissione Antimafia. Meglio così. Chissà quale delle tue amate tele stai immaginando di poter dipingere, finalmente in silenzio, finalmente in pace.

Martelli: «La legge non è sempre giusta. Con Del Turco è stata una barbarie». Simona Musco su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. L’ex ministro della Giustizia: «La falsa legalità anticostituzionale va immediatamente fermata». «Il luogo nel quale si difende la giustizia, anche contro la legalità, è il Parlamento. La falsa legalità anticostituzionale va immediatamente fermata». L’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli non fa sconti. Nostalgico di quando la politica era un mestiere nobile, osserva l’odierno balletto delle forze politiche con un pizzico di mestizia. E con rabbia, quando a finire nel tritacarne sono i diritti fondamentali. Sacrificati in nome di una legalità inamidata che spesso si traduce in barbarie. Per lui rappresenta questo il caso di Ottaviano Del Turco, ex governatore dell’Abruzzo, al quale l’ufficio di presidenza del Senato ha cancellato il vitalizio, perché condannato in via definitiva a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita, nell’inchiesta sulla cosiddetta Sanitopoli abruzzese, che a luglio del 2008 gli costò pure l’arresto. Martelli si sfoga sul proprio profilo Facebook, scatenando una marea di commenti e raggiungendo 257mila persone. Il giudizio è tagliente: quella decisione, a danno una persona gravemente malata e praticamente incosciente, è «una barbarie immorale».

Una premessa: nel suo post scrive che Del Turco è stato vittima di una condanna ingiusta.

«Riporto quanto detto ampiamente dal suo difensore, Gian Domenico Caiazza, presidente di tutti i penalisti italiani, che di certo non ha bisogno di visibilità e ha l’autorità per parlare. Mi riferisco alla mancanza del corpo del reato: i soldi. Non ce n’è traccia, non c’è nessun passaggio di denaro tra Del Turco e chi lo ha accusato. Angelini, ras della sanità privata, indagato nella stessa inchiesta, dichiarò di aver portato all’ex governatore sei milioni in un cesto di mele. Ma ripeto, di quei soldi non c’è traccia. Mentre ci sono molti indizi di una congiura dello stesso Angelini per salvare se stesso. La vita politico- giudiziaria è piena di falsi pentiti e di congiure».

Non le danno fastidio gli insulti ricevuti?

«In verità sono ben pochi rispetto agli elogi. Guardi, mi ricordo bene la gragnola di insulti che mi presi quando cominciai a difendere il cittadino Tortora, quindi non mi sorprende questa e non mi fa né caldo né freddo».

Il vitalizio è stato cancellato sulla base di una delibera del 2015. Perché allora è un atto illegittimo, come lo ha definito lei?

«A monte di questo dibattito c’è una questione di fondo: la confusione tra legalità e giustizia, due cose diverse. La legalità è fatta dalle leggi vigenti, la giustizia risponde a dei principi, spesso scritti nelle Costituzioni, non di rado in conflitto con le leggi vigenti, proprio per questo vengono cambiate e aggiornate. Se la legalità fosse sempre giustizia allora erano da considerare giuste anche le leggi razziali di Mussolini, allora era giusto abolire le libertà democratiche fondamentali. Così non è e non deve essere. Il luogo nel quale si difende la giustizia, anche contro le leggi vigenti, è il Parlamento che rappresenta la sovranità popolare. In questo caso, purtroppo, il Parlamento, per colpa degli ex presidenti Grasso e Boldrini, ha dato vita a norme anticostituzionali, a una legalità presunta».

Come considera questo regolamento, dunque?

«Un obbrobrio anticostituzionale, perché si tratta di un rapporto pensionistico, al quale chiunque, anche un condannato all’ergastolo, ha diritto. E ad essere anticostituzionale è anche la retroattività della norma: non si può essere condannati per una condotta che è divenuta reato dopo che quell’atto è stato compiuto».

Alcuni senatori hanno espresso contrarietà a questa decisione. Non si poteva fare nulla per evitarlo?

«Ho parlato con alcuni esponenti dell’ufficio di presidenza, preoccupati di chiarire la loro posizione. Mi hanno detto: noi siamo incolpevoli, perché siamo esecutori dell’applicazione di una norma vigente, stabilita nella passata legislatura. Ma io dico che è loro dovere, se non sono d’accordo, votare contro, astenersi, impugnare quella norma. Mi dicono che la stessa presidente Casellati, oggi, è orientata a ridiscutere questa questione e la sua vice Rossomando ha manifestato contrarietà a questa delibera già a suo tempo, esprimendo perplessità anche nel caso specifico. Tutti si rendono conto che togliere il vitalizio a un uomo in fin di vita, malato di cancro, Alzheimer e Parkinson, che non può difendersi, perché è praticamente in uno stato di incoscienza, è ingiusto, inumano e anticostituzionale. È una norma infame, se produce questo genere di conseguenze, e perciò va sospesa perché lede diritti che non possono essere soppressi in nessuna circostanza. Lasciamo il culto di questa robaccia al Fatto Quotidiano e a Travaglio: il Parlamento non può farsene complice. Altrimenti finiamo col dare ragione ai grillini: facciamo tutto con gli algoritmi, applichiamo le leggi in maniera automatica, che non lascia scampo. No, il Parlamento è lì proprio per contrastare la falsa legalità in nome della giustizia».

È un modus operandi populista, ma anche le reazioni alla sua esternazione sul caso Del Turco, in alcuni casi, vanno in quella direzione…

«Purtroppo due anni fa la maggior parte degli italiani ha dato il suo voto a due forze estremiste, populiste e fondamentalmente anti parlamentari, perché quello che c’è lì dentro è l’antiparlamentarismo, malattia tipica delle forze reazionarie, autoritarie e antidemocratiche. Il primo nemico del parlamentarismo fu Mussolini e instaurò una dittatura. Come diceva Manzoni, c’è un conflitto permanente tra il buon senso e il senso comune. Il senso comune è quello che si eccita e si appaga per le risposte più semplicistiche, più immediate che rispondono all’umore. Ma l’umore della folla porta al linciaggio, alla gogna. La civiltà consiste proprio nel resistere a queste tentazioni».

Le riforme di questi anni, spesso pensate sull’onda delle emergenze, vanno in questa direzione. Come le giudica?

«Orrende. L’abolizione della prescrizione, ad esempio, è contraria alla Costituzione, che stabilisce la ragionevole durata del processo. Anche altre norme importanti, ai fini delle garanzie, sono state travolte dalle misure legislative adottate negli ultimi anni. Sappiamo benissimo che la fonte è quella del M5s, del loro antiparlamentarismo, che procede come un rullo compressore su alcune libertà fondamentali. Il taglio dei vitalizi e la riduzione del numero dei parlamentari, a costo di cancellare la rappresentanza di alcuni territori, rappresentano un altro vulnus alle libertà democratiche. I 5Stelle vogliono parlamentari impiegati di una forza politica governata dalla piattaforma di un’associazione privata. C’è da ridere e adesso se ne stanno rendendo conto anche loro, come si vede dalle liti interne. È un delirio che deve essere fermato».

Queste riforme dove ci porteranno?

«Ad un sistema autoritario, ad un sistema anonimo in cui i cittadini non eleggono più un loro rappresentante, ma delegano la loro volontà a una macchina informatica, burocratica, a dei gruppi di potere i quali camminano con gli scarponi sopra l’indipendenza di ogni singolo parlamentare. Il dovere dei parlamentari non è rispettare ciecamente una norma, se ingiusta, ma interpretare i principi fondamentali della Costituzione».

La più bella del mondo, dicevano.

«E se lo sono dimenticati».

Il caso Del Turco. Enzo Tortora (purtroppo) insegna: di malagiustizia si muore. Biagio Marzo, Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Quando lo Stato è forte con il debole è brutto segno. In special modo, allorché si accanisce su un ammalato colpito da due gravi morbi e non solo e, per di più, ignora la pietas. Il che significa che ha preso la via del male contraria alla giustizia, alla morale e all’onestà. Insomma, tutto il male che si riesce a immaginare. Il peggio. Il peggio del peggio. L’ammalato è Ottaviano del Turco e lo Stato, in questione, è la Commissione della presidenza del senato, presieduta da Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha deciso, con un atto maramaldesco, cancellare il vitalizio all’ex presidente della giunta regionale dell’Abruzzo, ammalato di Alzheimer e del morbo di Parkinson. In precedenza, aveva subito un intervento chirurgico di asportazione di un tumore. Coloro che hanno preso la decisione disumana hanno la coscienza pulita? Nel corso della notte riusciranno a dormire alla grossa? Prima o poi, faranno i conti con il goyano sonno della ragione generatore di mostri. È mai possibile che nella Commissione di palazzo Madama ci sia tanta spietatezza da non soffermarsi sul destino di un uomo ammalato che non riconosce più i propri familiari. Quanti casi Del Turco ci sono in Italia le cui istituzioni si presentano in modo cinico, cieco e sordo. Di malagisutizia si muore, come insegna il caso Tortora. Che cosa bisogna fare per andare contro la malasorte che accompagna l’ex presidente dell’Abruzzo? Accogliere l’appello di Piero Sansonetti, lanciando una campagna per far dare la grazia a Ottaviano Del Turco dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella. L’escalation delle disgrazie giudiziarie dell’ex presidente iniziarono, in Abruzzo, per via dell’inchiesta sulla sanità privata. Nel 2008, venne arrestato su mandato della procura di Pescara e poco dopo, nel mese di luglio, si dimise da governatore e, nello stesso tempo, si autosospese da membro della direzionale nazionale del Pd, di cui era anche cofondatore. Ironia della vita politica in tempo di giustizialismo, dal Nazareno non ebbe alcun atto di solidarietà. Anzi, il gruppo dirigente fece finta di non conoscerlo e, comunque sia, si comportò come le tre scimmie dei romanzi gialli Mondadori: non vide, non sentì e non parlò. Del Turco innocente e vittima di una congiura, la politica ha il coraggio di ridargli il vitalizio? Perché gli è stato tolto il vitalizio? Perché l’allora Presidente del senato, Pietro Grassi, fece deliberare la privazione dei vitalizi di parlamentari condannati in via definitiva per mafia e corruzione. Delibera che presenta fortissimi dubbi di costituzionalità, ma, in Italia, da decenni, lo Stato di diritto e la Costituzione sono degli optional. Nel 2006, Del Turco ebbe una condanna “grazie” alla legge Severino, di tre anni e 11 mesi, “per induzione indebita”, essendo pubblico ufficiale, mentre la delibera Grassi è del 2015, violando la Costituzione secondo la quale non ci può essere la retroattività delle condanne. Chiaramente, la condanna inflitta a Del Turco dalla Corte d’Appello di Perugia, per aver “intascato”, 6 milioni di euro, confermata dalla Cassazione, rientra nella fattispecie della delibera Grassi. In proposito, il suo difensore Gian Domenico Caiazza ha dichiarato: «Dieci anni dopo, di quella “montagna di prove” della quale vaneggiava il procuratore di Pescara è rimasto un pugno di fango». Fatto sta che i milioni che l’imprenditore della sanità ha affermato che avrebbe dato all’ex presidente, non si sono mai trovati. 6 milioni di euro non sono bruscolini, bensì una cifra enorme che non si può nascondere sotto il mattone. Al dunque, non si sono trovati di là dalle accuse dell’imprenditore, Vincenzo Angelini, e dai salti mortali fatti dal procuratore capo, Nicola Trifuoggi, nel tentativo di cercare le prove che potessero inguaiare Del Turco. Così si concluse la vita politica di Ottaviano Del Turco che sognava di fare “Grande l’Abruzzo”. Allorché ebbe questa bella ambizione, avrebbe dovuto calcolare che si sarebbe messo contro il “deep state” abruzzese. Per di più, sfortuna volle di incrociare sulla sua strada il magistrato Trifuoggi, che sulla scia di “sanitopoli”, aveva la velleità di occupare la poltrona di procuratore generale a Roma. Non è tutto. Accettò l’incarico di vice sindaco, dal primo cittadino dell’Aquila, Massimo Cialente, un nome e una garanzia, che se ne uscì dal Pd per dissenso. A dire il vero, il magistrato non si fece mancare nulla, fu interlocutore di Gianfranco Fini, Presidente della Camera, che incappò nel caso che fece molto discutere, criticò, a microfoni spenti, Silvio Berlusconi, nel corso del ritiro del “Premio Borsellino”. Del Turco avrebbe meritato, per la sua storia, sindacale, politica e di governo, una sorte migliore. Della sua vicenda disse: «Avrei voluto scegliere io il momento in cui ritirarmi dalla scena politica e, soprattutto, ritengo che la mia storia politica meritasse tutt’altro epilogo». Questa è la cronaca di una morte politica annunciata, una cronaca come tante in tempi di tricoteuses, ma quella di Ottaviano Del Turco, come ci ha scritto il figlio Guido, è una «vicenda senza fine, terrificante, kafkiana».

Dall'olimpo del sindacato all'infamia delle manette. Ottaviano Del Turco, un nuovo caso Tortora: perseguitato, isolato e offeso. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. Era il 14 luglio del 2008. Le agenzie, le radio e le tv diedero la notizia che, all’alba, era stato arrestato, insieme ad altri, il Governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco. Allora io ero un deputato, appartenente ad un partito diverso da quello di Del Turco. Ma non esitai ad alzarmi in Aula – per anni nel più totale isolamento – per esprimergli tutta la mia solidarietà e la ferma convinzione della sua totale estraneità ai fatti di cui era accusato. Ottaviano ed io ci conoscevamo, allora, da 40 anni (oggi è trascorso mezzo secolo), durante i quali non c’era stata tra di noi soltanto una stretta collaborazione negli incarichi ricoperti all’interno della Cgil, ma anche un forte legame di amicizia, di frequentazione personale e familiare. Il procuratore che lo aveva incarcerato lo ricoprì, nella solita conferenza stampa, di accuse infamanti. Affermò che della sua colpevolezza esistevano prove “schiaccianti”. Ma io non fui mai sfiorato dal minimo dubbio (il cuore ha delle ragioni che i codici non conoscono) e, in tutti gli anni successivi, nella ricorrenza del 14 luglio, ho continuato a chiedere la parola in Aula e ad affidare agli atti le mie attestazioni di solidarietà. Ottaviano del Turco è stato un grande sindacalista, appartenuto a quell’Olimpo degli eroi di cui hanno fatto parte nomi indimenticabili come Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e tanti altri che hanno fatto la storia del sindacato (e del Paese) nella seconda metà del secolo scorso. Probabilmente, questi nomi, che a me ricordano tanti anni di vita vissuta intensamente, non dicono quasi nulla oggi. Del Turco è soltanto un ex parlamentare, malato di cancro e di altre patologie invalidanti, a cui è stato congelato il vitalizio perché condannato in via definitiva da una Corte di Giustizia. Ma chi è, che cosa è stato e ha fatto Ottaviano Del Turco? In una delle Lettere morali a Lucilio, Lucio Anneo Seneca così scriveva: «Tutti i momenti che appartengono al passato si trovano in un medesimo spazio: si vedono su di uno stesso piano, giacciono gli uni insieme con gli altri, tutti cadono nel medesimo abisso. E d’altra parte lunghi intervalli non possono sussistere in una realtà (la vita, ndr) che è breve nel suo insieme». È così anche per quanto riguarda il rapporto tra me ed Ottaviano: i ricordi si presentano tutti insieme e in una sola volta. Innanzi tutto, Del Turco è abruzzese. Il suo paese natale si chiama Collelongo. Ci si arriva per una strada che finisce lì. Eppure, per lui quella località sperduta è sempre stata molto importante. Colà aveva scelto il suo “buon ritiro” (una bella casa ristrutturata con cura), che si è trasformato nel suo carcere. È nota la sua attività di pittore: una passione che ha retto persino alla prova degli anni difficili della politica. E, purtroppo, ad eventi dolorosi più recenti. Prima che la malattia prendesse il sopravvento anche sul pennello, la tela e la tavolozza. Più piccolo di una numerosa squadra di fratelli, Ottaviano (il nome è legato al posto occupato nella saga familiare) seguì i più grandi quando andarono a cercare lavoro a Roma. I maschi avevano preso dal padre Giovanni ed erano tutti socialisti. Ottaviano scoprì giovanissimo la politica, anche come mestiere, nella Federazione romana del Psi. Chiusa l’esperienza nel partito andò a lavorare al sindacato e, dopo una breve permanenza all’Inca (il patronato della Cgil) si trovò alla Fiom durante l’autunno caldo. A suo onore va detto che non appartenne mai (chi scrive ne fu invece tentato) alla combriccola dei “giovani turchi”, abbacinati dai fasti di quella stagione, che pensavano fosse venuta l’ora dell’assalto al Palazzo d’Inverno del potere. Fu sempre attento ai rapporti con la Confederazione. Da moderato, non fu mai ben visto completamente nella Fiom, al punto di essere sostanzialmente emarginato (forse si fece estromettere volentieri) dalla gestione della vertenza Fiat del 1980, benché ricoprisse il ruolo di segretario generale aggiunto. Aveva delle intuizioni felici. Fu il primo, nel sindacato, a sollevare il problema dei quadri e dei tecnici e ad individuare l’esigenza di soluzioni contrattuali specifiche per queste categorie. La cosa sollevò un mezzo scandalo, come sempre accadeva (e accade) in Cgil quando qualcuno inventava soluzioni nuove. Ma Del Turco non sarà ricordato per la sua particolare capacità di approfondire le questioni di merito, anche se la legge del contrappasso ha voluto che, alcuni decenni dopo, diventasse titolare del Dicastero più tecnico e complicato che esista (le Finanze). Del resto, da un vero leader nessuno pretende una conoscenza particolareggiata del sistema dei ticket sanitari. È stato, però, uno dei primi sindacalisti a capire l’importanza dei media. E a comprendere, soprattutto, che una buona intervista (come aveva insegnato Luciano Lama), magari su La Repubblica, valeva di più (anche sul piano interno) di un articolato documento, scritto in sindacalese e votato da un organismo sindacale dopo ore di discussione. Durante gli incontri col Governo o qualche importante trattativa il suo vero pezzo di bravura si svolgeva quando l’incontro stava per concludersi. Riusciva sempre ad andarsene pochi minuti prima. Scendeva in sala stampa – praticamente da solo – e veniva accerchiato da un nugolo di giornalisti brandenti microfoni, taccuini e telecamere (allora i sindacalisti erano ascoltati). E dava il suo giudizio sull’incontro. Poi, quando scendevano le delegazioni al gran completo, i colleghi tenevano lunghe conferenze stampa, nelle quali venivano illustrati meticolosamente tutti gli aspetti del negoziato. Ma l’incipit era il più delle volte suo, come sue erano le prime riprese che andavano in onda nei telegiornali e le classiche tre parole che, nella società della comunicazione, mandano al macero intere biblioteche. Proveniente dalla Fiom, entrò nel 1983 in segreteria confederale e divenne subito “aggiunto” di Lama. La sorte volle che Del Turco si trovasse a gestire la “grande rissa” tra comunisti e socialisti del 1984 e 1985 sulla scala mobile, dopo il decreto di San Valentino. Lo fece con molta fermezza e tanto equilibrio, in tandem con Lama. E sempre con molta attenzione all’unità della Cgil. In quegli anni, circolarono addirittura alcune leggende metropolitane secondo le quali a Del Turco era stato offerto di diventare il segretario di un costituendo sindacato democratico (Cisl + Uil + socialisti Cgil), ma Ottaviano non prese mai in considerazione tale ipotesi (peraltro confermata in un libro di Pierre Carniti, pubblicato postumo). L’atteggiamento di lealtà tenuto in quel periodo gli valse un grande rispetto da parte dei comunisti (i quali erano molto meno settari, al dunque, dei loro eredi di oggi, finiti nella Legione straniera del Pd o sparpagliati in qualche gruppetto nostalgico di ex socialisti). Basti pensare che Del Turco divenne, negli anni successivi, uno degli oratori ufficiali ai funerali dei leader del Pci (a partire da quello – solenne e solennizzato – di Enrico Berlinguer). Ottaviano, negli ultimi tempi trascorsi in Cgil, era sempre meno interessato all’attività sindacale. Da tanto attendeva che dal partito gli venisse fatta una proposta. La sua maggiore aspirazione sarebbe stata la presidenza della Rai. Ma Craxi taceva. La sua grande occasione si presentò tra il 1992 e il 1993, nel pieno di Tangentopoli. Craxi non era ancora inquisito, ma ormai si era capita l’antifona: sarebbe stato sufficiente attendere qualche settimana, poi la questione socialista si sarebbe trasformata in un problema giudiziario. Claudio Martelli faceva la fronda (il suo slogan, rivolto a Craxi, era: «Un segretario non può diventare il “problema” del suo partito»). Ottaviano si schierò con lui, sia pure su di una linea leggermente diversa. Si mise ad andare il giro per l’Italia a riunire i sindacalisti socialisti all’insegna dell’appello al capo supremo: il partito è inquinato, Craxi faccia pulizia (e magari con l’aiuto di qualche sindacalista autorevole). Intanto, dopo i dissensi con Trentin in merito all’accordo triangolare del luglio 1992, per Del Turco l’aria si era fatta stretta in Cgil. Decise di forzare i tempi ed annunciò che se ne sarebbe andato, anche senza avere altri incarichi a disposizione. Era il marzo del 1993. La maggioranza del partito, poche settimane prima, gli aveva reso un grave affronto, scegliendo Giorgio Benvenuto, quale segretario al posto di re Bettino. Come Cincinnato, Ottaviano si ritirò a Collelongo. Intanto la situazione si deteriorava. Dopo qualche mese Benvenuto passò la mano, in polemica col vecchio gruppo dirigente che, a suo dire, non voleva farsi da parte. Ma in verità non volle prendere a mano la situazione amministrativa che Giorgio considerava disperata. Venne così il momento di chiamare Del Turco alla segreteria. Ottaviano si accinse a guidare i resti del Psi con molta fiducia in se stesso e girando in lungo e in largo l’Italia. Ma ormai non c’era più nulla da fare. L’anno dopo, toccò a lui condurre lo scontro decisivo con Craxi e vincerlo. Quando era già troppo tardi. Dopo aver lanciato Enrico Boselli alla guida di ciò che restava dello Sdi, Del Turco divenne parlamentare e ministro. Ritrovò posto sui media e la figlia gli regalò due bei nipotini. Soprattutto, svolse un ruolo assai positivo da presidente della Commissione antimafia, contro l’abuso dei pentiti ed una certa maniera disinvolta di amministrare la giustizia. Poi fu parlamentare europeo, e infine candidato vittorioso del centro sinistra alla presidenza della Regione Abruzzo. In quel ruolo divenne vittima di un clamoroso errore giudiziario che ne ha provocato l’arresto, le dimissioni, l’ostracismo e una condanna passata in giudicato dopo una lunga trafila processuale. Dicono che un Paese è libero quando i cittadini onesti, sentendo suonare il mattino presto alla porta di casa, pensano che sia il lattaio. Probabilmente anche Ottaviano Del Turco, esattamente il 14 luglio del 2008, si chiese come mai il lattaio passasse ad un’ora antelucana in quel giorno destinato a diventare uno dei più drammatici della sua vita. Invece, aprendo ancora assonnato il portone dell’abitazione di Collelongo, trovò i militari della Guardia di Finanza che gli intimarono di raccogliere un po’ di biancheria e lo condussero nel carcere di Sulmona a rispondere di un’imputazione pesante e disonorevole per un uomo politico, come la corruzione. Chi scrive conferma la convinzione più volte manifestata in tante sedi che Del Turco fosse completamente estraneo alle accuse, tanto da ripetere, con la persecuzione giudiziaria subita, un nuovo “caso Tortora”. Da allora, Del Turco è divenuto un uomo isolato e ignorato dal suo partito, dimenticato da tutti tranne che dai familiari e dagli amici, ferito nei sentimenti più intimi, escluso da quella politica attiva che ha rappresentato per decenni la sua ragione di vita. Fino ad essere oggetto di un abuso: la privazione di quelle risorse (il vitalizio) che consentono ai suoi cari di curarlo e di assicurargli di sopravvivere con dignità. Ma le sue condizioni di salute non gli permettono neppure di dire ai Maramaldi che lo hanno pugnalato: «Vili! Uccidete un uomo morto».

Crolla il teorema dei pm, Del Turco assolto 9 anni dopo. Un’odissea giudiziaria iniziata 9 anni fa. Errico Novi su Il Dubbio il 28 settembre 2017.

L’APPELLO CANCELLA L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE. LA DIFESA: ORA LA REVISIONE. Mentre la Corte d’appello di Perugia assolve Ottaviano Del Turco dall’accusa di associazione a delinquere, il Senato si accinge ad approvare il ddl sui piccoli comuni. Del Turco viene da uno di questi, Collelongo, nell’Aquilano. Ha preso la licenza media alle scuole serali, se n’è venuto a Roma, si è fatto le ossa con la fatica e da sindacalista vero, che può parlare della fatica altrui perché conosce la propria. Forse per questo i giudici non gli avevano creduto, in primo e in secondo grado. E forse per questo i compagni che con l’ex governatore dell’Abruzzo avevano fondato il Pd, lo avevano scaricato il giorno stesso dell’arresto, nel luglio del 2008. Del Turco ha il volto scavato dell’operaio di provincia, non il profilo levigato della sinistra borghese. Di chi, come Walter Veltroni, nel pieno della tormenta gli disse: «Spero riuscirai a provare la tua innocenza». Secondo la Corte d’appello di Perugia, dunque, è certo che Ottaviano Del Turco, da presidente della Regione, non ha fatto parte di alcuna associazione a delinquere. Nel ultimo rivolo del processo sulla cosiddetta Sanitopoli abruzzese, innescato dal rinvio della Cassazione, i giudici hanno fatto cadere il capo d’imputazione più odioso e ricalcolato la pena in 3 anni e 9 mesi. «Cade in modo rovinoso e definitivo l’intero impianto della Procura», commenta a caldo il difensore di Del Turco, Gian Domenico Caiazza. Non c’è la rete associativa. Restano cinque asseriti casi di induzione indebita a dare o commettere utilità. Episodi in cui l’ex governatore avrebbe ricevuto denaro dal suo unico accusatore, l’ex re delle cliniche Vincenzo Angelini. Ha preso quei soldi per favorire l’imprenditore? Ha modificato la politica sanitaria regionale per ricambiare le generose dazioni? Niente di tutto questo. «Del Turco continuò a fare un sedere così ad Angelini». Allo straordinario avvocato Caiazza si potrà perdonare il francesismo. I cinque episodi corruttivi restano dunque sospesi nel nulla, ma restano e non avrebbe potuto essere altrimenti. La Corte d’appello di Perugia era stata chiamata dalla Cassazione solo a decidere se c’era l’articolo 416. Non avrebbe potuto rivalutare nel merito le altre accuse.

L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE? UN FANTASMA. Cade l’associazione a delinquere, «perché il fatto non sussiste», anche per gli altri quattro imputati “rinviati”, come Del Turco, davanti al giudice di secondo grado. Si tratta dell’ex segretario della Presidenza all’epoca della giunta Del Turco, Lamberto Quarta, dell’allora capogruppo della Marghertita in Consiglio regionale Camillo Cesarone, degli ex assessori alla Sanità Bernardo Mazzocca e alle Attività produttive Antonio Boschetti. Il sistema organizzato non c’è più. E non si capisce appunto, come facciano a esserci i singoli 5 illeciti residui, di induzione indebita da parte di Del Turco nei confronti di Angelini. «Viene meno la struttura stessa dell’accusa», spiega il difensore. Non a caso ora l’ex governatore e i suoi legali dicono: «Non è finita qui, adesso andiamo per la revisione del processo». In modo da cancellare tutto.

OTTAVIANO NON ASCOLTA LA LETTURA DELLA SENTENZA. Lui, Ottaviano, è a Perugia ma non se la sente di stare in aula al momento della pronuncia. C’è suo figlio Guido, giornalista del Tg5, che in questi casi è la sua ombra. E l’avvocato Caiazza. Sono loro due ad abbracciarlo e a comunicargli che un altro pezzo di incubo si è dissolto. Persino l’interdizione dai pubblici uffici è stata ridimensionata a 5 anni, da che era “perpetua”. «Resta quello schizzo di fango esiziale», lamenta il difensore. Le cinque induzioni indebite. Niente rispetto ai 24 capi d’imputazione contestati nel 2008 dalla Procura di Pescara. Troppe, anzi, tutte intollerabili dal punto di vista di chi si professa innocente.

STORIA DI UN PROCESSO, E DI UN ACCUSATORE, ROMANZESCHI. ll 14 luglio di 9 anni fa Del Turco viene arrestato con le accuse di corruzione, concussione, truffa, falso e associazione a delinquere. La Sanitopoli abruzzese nasce coi botti. Finisce in carcere un’altra decina di persone tra consiglieri regionali, assessori e alti funzionari dell’Amministrazione. Tutto gigantesco. Ma sorretto da un solo, unico pilastro: Vincenzo Angelini appunto. Accusa tutti, e Del Turco più di tutti, di avergli sfilato tangenti per 5 milioni e 800mila euro. Contati. Solo per Del Turco i capi d’imputazione sono 24, una quindicina riguardano appunto le mazzette all’ineffabile imprenditore. Fanno, in primo grado, una condanna a 9 anni e 6 mesi. Si va in appello e, nel novembre 2015, il conto è assai più che dimezzato. Oltre all’associazione a delinquere, restano in piedi solo 5 dei capi d’imputazione relativi alle asserite tangenti. Il precedente conto virtuale e immaginario di quasi 6 milioni si riduce a 600mila euro. La condanna scende a 4 anni e 2 mesi. Cadono le accuse sui reati “strumentali”. Nel caso di Del Turco il falso, per gli altri imputati gli abusi d’ufficio. E già lì il colpo all’impianto accusatorio è letale. Intanto perché le 5 dazioni sopravvissute del governatore a Angelini si reggono praticamente tutte su quella, leggendaria per così dire, della busta piena di mele con cui il magnate sanitario viene via da casa Del Turco a Collelongo, dopo averla svuotata di bigliettoni. La prova? Foto della busta coi bigliettoni, foto della busta con mele, foto sfocatissima che ritrae due figure indistinguibili. Sembra Fantozzi. È la prova regina, anche per la Corte d’appello dell’Aquila, che almeno quella mazzetta è passata nelle mani dell’ex presidente. Il quale quel giorno, il 2 novembre 2007, era a casa, ma con ospiti istituzionali che non ricordano affatto la misteriosa visita. Sopravvivono altre 4 dazioni per “riverbero” dalla prima. Secondo la impegnativa costruzione della sentenza di secondo grado, sono vere perché sarebbe provata quella delle mele e perché, anche in questi altri quattro casi, i riscontri dei passaggi Telepass forniti da Angelini non sono chiaramente improponibili. «Prima di Del Turco la Regione Abruzzo sfrondava la spesa sanitaria per 50mila euro l’anno di ‘ inattività inappropriate’, con lui si è arrivati in 3 anni a tagliarle per 100 milioni di euro: ora capite da dove nasce questo processo?», urlò inutilmente Caiazza davanti ai giudici d’appello.

LA PRONUNCIA CHE LA CASSAZIONE TROVA “ILLOGICA”. Si arriva in Cassazione. Non si possono più rivedere i cinque episodi di induzione indebita: la Suprema corte non è giudice di merito. Ma può, e lo fa, rilevare che l’accusa di associazione a delinquere è illogica, così come formulata dalla sentenza di secondo grado: non ci sono i reati strumentali di falso e abuso, ci dite allora come funzionava quest’associazione a delinquere che non produceva alcunché? Ecco perché il 3 dicembre dell’anno scorso la Cassazione annulla la pronuncia d’appello con rinvio, per competenza, ad altra Corte, quella di Perugia. Va riformulato con altri presupposti o cancellato il reato associativo.

IL LAPSUS DEL PG CHE CHIEDE UNA PENA TROPPO BASSA. Siamo a ieri, quando puntualmente l’associazione a delinquere cade per tutti, a cominciare da Del Turco. Nel suo caso ai 4 anni e 2 mesi della condanna precedente vengono sottratti i 3 mesi del articolo 416, ed ecco il rideterminazione di 3 anni e 9 mesi. Ma vorrà dire, vorrà pur dire qualcosa, il fatto che il sostituto procuratore generale Giuliano Mignini non solo chieda di cancellare quel capo d’ imputazione e rivedere così complessivamente al ribasso tutte le condanne; ma che nel formulare la richiesta per Del Turco esageri addirittura. Mignini chiede di portarla a 1 anno e 9 mesi. «È un errore, purtroppo, solo un errore tecnico, perché il minimo per l’induzione indebita è 3 anni e poi c’è l’asserita continuazione del reato», commenta Caiazza in attesa della sentenza. Quel lapsus però resta. «Ben rappresenta quale sia anche da parte della Procura generale l’apprezzamento di gravità del fatto che residua rispetto all’indagine di 9 anni fa». Nulla, appunto. Solo un ultimo schizzo di fango.

·         Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Se il magistrato sbaglia, paga l'imputato. Ha perseguitato Bassolino: premiato da Orlando (quando era guardasigilli) il Pm Sirleo. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 19 Novembre 2020. Andrea Orlando è stato tra i primi a commentare la diciannovesima assoluzione collezionata da Antonio Bassolino, l’ex sindaco di Napoli e governatore campano finito nel mirino della magistratura per presunte irregolarità nella gestione del ciclo dei rifiuti. «Adesso che i processi si sono conclusi, adesso che nessuno potrà dire che si vuole fare pressione sui magistrati, ci si può chiedere che cosa non ha funzionato?», ha domandato il vicesegretario del Partito democratico ed ex ministro della Giustizia. Orlando ha ragione, ma probabilmente ha la memoria corta. Già, perché nel 2015 fu proprio lui a chiedere che nella squadra degli ispettori di via Arenula entrasse Paolo Sirleo, uno dei due sostituti della Procura di Napoli che 12 anni prima avevano messo sotto inchiesta “don Antonio”. Il tutto mentre Giuseppe Noviello, l’altro pm autore dell’indagine che frenò l’ascesa di Bassolino e stravolse la storia della sinistra italiana, veniva nominato consigliere di Cassazione dal Csm. Noviello e Sirleo sono stati per anni il simbolo delle inchieste sui rifiuti in Campania. Porta la loro firma l’indagine sfociata non in uno, ma in 19 processi a carico di Bassolino per un totale di 140 udienze e 150mila pagine di atti processuali riversati in 15 cd. Da quelle vicende l’ex governatore campano, oltre che commissario per l’emergenza rifiuti, è uscito senza macchia. Restano lo strazio giudiziario e la gogna mediatica, l’isolamento all’interno del Pd e lo stop alla carriera politica che Bassolino ha dovuto sopportare. Ma i magistrati che lo misero sotto inchiesta che fine hanno fatto? Figlio di Ciccio, stimato dirigente dei servizi segreti, il 48enne Paolo Sirleo ha visto la sua carriera intrecciarsi con quella di un magistrato abituato a occupare le prime pagine dei giornali e le poltrone dei salotti televisivi: Nicola Gratteri. Fu quest’ultimo, nel 2011 procuratore aggiunto di Reggio Calabria, a spingere perché un giovane e brillante magistrato come Sirleo venisse trasferito dal Tribunale di Cassino alla Procura del capoluogo calabrese. Ed è stato sempre Gratteri lo sponsor di Sirleo quando, nel 2018, quest’ultimo è diventato sostituto procuratore di Catanzaro. «Ho lavorato con lui e ne ho conosciuto il valore, è una persona incorruttibile e di grandissimo valore», ha riferito Gratteri all’atto dell’insediamento di Sirleo. Tra il trasferimento a Reggio Calabria e quello a Catanzaro, però, il pm che mise sotto inchiesta Bassolino ha vissuto un’esperienza professionale: quella di ispettore del Ministero della Giustizia. A sceglierlo per quel ruolo, nel 2015, fu Andrea Orlando, all’epoca ministro della Giustizia del governo Renzi. Proprio così: lo stesso Orlando che oggi si straccia le vesti davanti all’odissea giudiziaria affrontata da Bassolino fece in modo che dell’ispettorato generale di via Arenula entrasse a far parte uno dei pm che nei confronti dell’ex governatore campano avevano costruito un castello accusatorio poi puntualmente crollato. Qui le vicende giudiziarie s’intrecciano con una serie di curiose coincidenze politiche. Orlando, infatti, è notoriamente tra le persone più vicine all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E Napolitano è stato per decenni l’alfiere della corrente cosiddetta “migliorista” del Partito comunista che si contrapponeva a quella di cui faceva parte Bassolino. Nessuno può dire che ci sia stata una regia politica dietro i 19 processi che “don Antonio” ha dovuto affrontare. E nessuno può adombrare una sorta di regolamento di conti all’interno della sinistra campana e italiana attraverso vicende giudiziarie rivelatesi clamorosi flop. Fatto sta che le mosse dei pm napoletani hanno probabilmente indirizzato la carriera politica di Bassolino e la storia della sinistra su un binario diverso rispetto a quello sul quale sembravano avviate. A fare carriera è stato non solo Sirleo, ma anche Noviello, ritenuto il magistrato più inflessibile della coppia. Oggi è consigliere della Cassazione, nel settore penale. I beninformati raccontano di un interrogatorio durante il quale Bassolino, contestando l’ipotesi di abuso in atti d’ufficio formulata dai pm napoletani, sottolineava come il suo ruolo di commissario per l’emergenza rifiuti fosse sostanzialmente politico. Fu Noviello, con gli stessi toni decisi che era solito sfoderare in udienza, a chiarire all’indagato il carattere amministrativo del suo ruolo. Ne nacque un braccio di ferro come quelli ai quali il pm napoletano e gli avvocati della difesa ci hanno abituato nel corso degli anni. Negli ambienti del Palazzo di Giustizia, Noviello era considerato un magistrato particolarmente risoluto e preparato. E molto cocciuto. Prova della cocciutaggine fu l’abuso edilizio contestato sempre a Bassolino. La Procura era a caccia del denaro che la famiglia Romiti avrebbe versato all’ex governatore campano. Quei soldi, secondo Noviello e Sirleo, avevano la forma di un casolare in Toscana, a Cortona, di cui Bassolino non risultava nemmeno unico proprietario. Della vicenda si sarebbe dovuta occupare la Procura di Arezzo, competente per territorio, ma i pm di Napoli vollero avocare l’indagine collegando i presunti abusi commessi nel casale toscano alle ecoballe che una società della Impregilo avrebbe stoccato in quegli stessi territori. Risultato? Assoluzione piena: una delle 19 che Bassolino ha dovuto inanellare per mettersi alle spalle un incredibile calvario giudiziario.

Congiura e viltà politica. La persecuzione contro Antonio Bassolino che ha cambiato la storia della sinistra italiana. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Novembre 2020. Antonio Bassolino è stato assolto per la diciannovesima volta. È innocente. Non ha mai commesso alcun reato. È solo stato sospettato – per ragioni da scoprire – di avere commesso dei reati per diciannove volte. Da chi? Da alcuni Pm. Tra qualche riga ne parliamo. I giornali stavolta hanno riferito di questa ennesima assoluzione. In modo sobrio, non certo col clamore che suscitarono le varie incriminazioni. Però almeno ne hanno parlato. Caso chiuso? No, il caso-Bassolino è uno scandalo di dimensioni colossali che investe la magistratura, la politica, i partiti. Cioè la spina dorsale del nostro sistema democratico. Se non si affronta il caso-Bassolino la qualità della nostra democrazia perde molto valore. Ci sono due grandi questioni. Affrontiamole separatamente. La prima riguarda la magistratura ed è molto semplice: qualunque sia la logica che vogliamo usare, siamo di fronte a 19 errori giudiziari, tutti in fila e tutti a danno della stessa persona. Questa persona è l’esponente più importante della politica in Campania degli ultimi 30 anni almeno, ed è stato un protagonista di primissimo piano della politica nazionale. Come è possibile che vari Pm della Procura di Napoli commettano un numero così grande di errori professionali? Vi immaginate cosa capiterebbe al Cardarelli se un certo numero di medici sbagliassero diagnosi e cure per diciannove volte consecutive, nel giro di circa 20 anni, sullo stesso paziente? E cosa succederebbe se addirittura questo paziente fosse famoso, o se fosse l’ex sindaco e l’ex governatore? Non oso immaginare la fine di quei poveretti, i processi, la gogna, il seppellimento delle loro persone e delle loro carriere. Con Bassolino è successo qualcosa del genere. Lui, molto signorilmente, dopo la diciannovesima assoluzione ha dichiarato di non considerarsi un perseguitato e ha brindato perché alla fine la verità ha vinto. Però, a rigor di logica, qui i casi sono due: o c’è stata una persecuzione, o il livello professionale di un buon numero di Pm napoletani è assolutamente al di sotto del minimo necessario. È impossibile trovare una terza via. Il primo caso configurerebbe una situazione veramente gravissima. E anche se Bassolino lo esclude, è possibilissimo che la persecuzione ci sia stata. Già molti ministri della giustizia avrebbero dovuto intervenire per questa ragione sulla Procura di Napoli, e non lo hanno fatto. Ora tocca a Bonafede. Non può restare il sospetto che ci sia stata una congiura. Anche perché, se così fosse, si dovrebbe scoprire chi ha guidato la congiura, chi l’ha coperta, chi l’ha favorita. Oppure è solo incapacità professionale. Anche in questa ipotesi dovrebbe intervenire il ministero, e poi dovrebbe intervenire il Csm. Per evitare che dei magistrati pasticcioni e privi delle doti sufficienti continuino a fare guai. L’esperienza del passato è triste. I Pm che perseguitarono Enzo Tortora, un po’ per ideologia un po’ per incapacità, non furono fermati: uno finì Procuratore, un altro addirittura al Csm. Al Csm, sì: fu mandato lui a guidare la magistratura. Fu uno scandalo mostruoso, avvenuto nel silenzio assoluto di politica e giornali e Tv. Ripetiamo quella vergogna? La seconda questione riguarda la politica. Bassolino fu abbandonato. Dal suo partito, dai suoi amici e dai suoi avversari, quasi tutti. Bassolino era un cavallo di razza del Pci e poi dei Ds. Aveva avuto dei successi straordinari a Napoli ed era pronto a spiccare il volo in campo nazionale. Probabilmente, tra i cinquantenni di quegli anni, Bassolino era quello più forte, con più preparazione, più popolarità, più carisma. Era certamente più robusto di Veltroni ed era più popolare e meno scostante di D’Alema. Aveva grandi doti e forti idee. Era uno dei pochi, a sinistra, che non permetteva mai che l’utopia schiacciasse la realtà e non permetteva che la realtà schiacciasse l’utopia. Conosceva la società moderna e i limiti grandiosi del liberismo. Aveva dei principi, dei valori, una forte conoscenza della politica e del popolo. Non oscillava a qualsiasi vento, o alla Tv, o a carosello. Non era succube dei sondaggi. Era molto di sinistra, allievo di Ingrao, di Trentin, di Luporini, ma era capace di compromessi, di arretramenti, di politica-politica. Era un liberale. Non viveva – come molti dirigenti della sinistra di quell’epoca – nell’ossessione di Berlusconi. Immaginava una “sinistra-per” non la sinistra come elemento residuale e complementare del berlusconismo. Aveva buone possibilità a diventare l’uomo guida della sinistra e del suo partito. E se non lo ha potuto fare è stato per via della sua inaudita vicenda giudiziaria. I Pm napoletani hanno deviato il corso della sinistra italiana, in un momento molto delicato, mentre si stava sviluppando una crisi e una battaglia sulla strategia futura. Si discuteva di liberismo, di blairismo, di mitterandismo, di globalizzazione. Si provava a costruire la sinistra del dopo-comunismo. Se il Pd fosse nato sotto la guida di Bassolino sarebbe stato un partito diverso da quello nato sotto la guida di Veltroni e Franceschini. Migliore o peggiore? Questo non ha importanza, quel che conta è che la scelta non la fece la politica ma i Pm. (Io, personalmente, credo che sarebbe stata una sinistra molto più moderna, indipendente e forte). E la politica come si è mossa di fronte all’assalto della magistratura? Ha fatto quello che ha sempre fatto, di fronte alle persecuzioni giudiziarie. Si è girata dall’altra parte, e anzi ha usato le inchieste per risolvere conti interni. Ciascuna corrente ha festeggiato, ci ha guadagnato qualcosa. Bassolino è stato spazzato via. Qualcuno gli ha lanciato un salvagente? A me non risulta. Ecco, finché proseguirà questa usanza, e questa complicità di infimo livello, tra politica e la parte più scarsa, o più illegale, o più corrotta, della magistratura, la possibilità di riformare l’Italia e di portare a compimento la Costituzione non esiste neppure sulla carta. La sottomissione “a pagamento” della politica alla peggior magistratura è il cancro della nostra vita pubblica. Vogliamo archiviare il caso Bassolino come un incidente di percorso? Allora archiviamo anche lo Stato di diritto. Dico meglio: la democrazia politica.

Il calvario di Bassolino, l’avvocato: «Emarginato e lasciato da solo, ma non si è mai sentito perseguitato». Simona Musco su Il Dubbio il 14 novembre 2020 . L’ex governatore della Campania è stato prosciolto definitivamente: assolto 19 volte, senza mai ricorrere alla prescrizione. Ma la sua storia giudiziaria inizia da molto prima, nel 1993…Antonio Bassolino non ha mai accusato nessuno. Mai una parola fuori posto, mai si è lanciato nella calca vestito da vittima della magistratura. E mai ha chiesto niente nemmeno al suo partito, che lo ha messo ai margini, quasi come fosse radioattivo. Meglio fingere che non esista, lasciarlo solo al suo destino, ai suoi 27 anni di processi. Nemmeno ora che quei processi sono finiti, per l’ennesima volta con un’assoluzione. Ventisette anni che forse, riflette Giuseppe Fusco, che lo ha difeso insieme ai colleghi Massimo Krogh e Matteo De Luca, non insegneranno niente a nessuno.

Avvocato, non sono un po’ troppe 19 assoluzioni per un’unica persona in un sistema giudiziario evoluto?

«Lo deve chiedere ai magistrati che lo hanno messo per 19 volte sotto processo».

Quanti anni sono passati?

«Ventisette. Perché le prime indagini risalgono a quando era sindaco, quindi al 1993. Almeno cinque o sei inchieste si sono  chiuse con archiviazioni, per il resto ci sono i 19 processi dai quali è uscito assolto. E gli ultimi 20 anni li ha passati a difendersi per il lavoro svolto come governatore della Campania».

E mai una parola contro i pm…

«Assolutamente no. Il nostro stile, sia di Bassolino sia dei difensori, è stato sempre quello di celebrare i processi nei tribunali, non nelle trasmissioni televisive o sui giornali. E non abbiamo mai fatto dichiarazioni, se non qualche comunicato stampa sporadico. Bassolino ha nel suo dna, come ha sempre dimostrato, il rispetto per le istituzioni. Da politico ha sempre dialogato con tutti, perché il ruolo delle istituzioni non è dividersi tra loro, ma cooperare per i cittadini. E questo rispetto lo ha mantenuto anche da imputato».

Non si è mai sentito perseguitato dalla giustizia?

«Mai. Ovviamente tutti i processi hanno inciso su di lui, lo hanno mortificato non poco, ma non si è mai sentito vittima. Ha sempre pensato che se la Procura riteneva di dover iniziare un’indagine nei suoi confronti fosse giusto che lo facesse. Ovviamente gli dispiaceva, sapeva di non aver commesso quello che gli veniva contestato o che non fosse ipotizzabile sul piano giuridico, però non si è mai sentito perseguitato. Certo, a vedere 19 assoluzioni su 19 indagini oggettivamente ci si sente vittima, ma non ha mai denunciato né sottolineato in qualsiasi dichiarazione di esserlo. Lo è stato, oggettivamente: dopo 27 anni di processi è una conclusione oggettiva, ma non appartiene né a Bassolino né al suo avvocato».

Come ha inciso sulla sua vita pubblica?

«Le riferisco un episodio secondo me clamoroso. Quando era sotto processo a Napoli, in qualità di commissario per l’emergenza rifiuti, il segretario del Pd dell’epoca partecipò ad un grande comizio a Napoli, in piazza Plebiscito, l’ultimo che ha potuto tenere in una piazza così grande a Napoli. Era appena iniziato il processo e quel segretario non volle che Bassolino – che era presidente della Giunta regionale, il maggiore esponente del partito a Napoli e l’uomo politico di maggior rilievo della regione – salisse sul palco. Questo le dice qual era il clima e il rapporto del partito con Bassolino. Basti dire, per esempio, che alle comunali, era il candidato più prestigioso su Napoli, ma il partito non lo scelse per le primarie. Lui si presentò in proprio, perse contro l’altro candidato, che poi venne sconfitto da De Magistris alle urne».

La magistratura condiziona la politica?

«Sono un ex magistrato, faccio l’avvocato da 34 anni e da 27 difendo Bassolino: non ha mai ritenuto che ci fosse un atteggiamento politico della magistratura nei suoi confronti. In molti, tra i politici che vengono indagati, denunciano un atteggiamento di questo tipo da parte delle procure, noi non lo abbiamo mai ritenuto possibile. La Procura fa quello che ritiene di fare, sbagliando o facendo bene. Nel caso di Bassolino sbagliando per 19 volte, però ci affidavamo ai giudici. Perché i pm non sono giudici».

Ma la politica si lascia condizionare dalla magistratura, visto come ha reagito nei confronti di Bassolino…

«Fu una scelta del partito, che lo ha mortificato moltissimo, incomprensibile, ma una scelta».

In questo processo il messaggio più eclatante è aver impugnato la sentenza di assoluzione per intervenuta prescrizione pronunciata in primo grado.

«Bassolino riteneva di non aver commesso quei reati che gli venivano contestati e pretendeva un’assoluzione nel merito. Dirò di più, nel più eclatante dei processi che ha subito, quello come commissario per i rifiuti in Campania, ha atteso il verdetto, è stato assolto dal tribunale e i pm hanno scritto 903 pagine di appello per sostenere, con gravi costi per lo Stato, che Bassolino andava prosciolto per prescrizione già in primo grado e non assolto. In genere si dice: i magistrati hanno avuto coraggio. Ma non ci vuole coraggio per riconoscere l’innocenza delle persone, serve semplicemente la capacità di svolgere il proprio ruolo di giudice».

Crede che questa storia possa insegnare qualcosa alla politica?

«In questo momento c’è al governo un movimento giustizialista, che ora comincia a porsi il problema di chi riceve un avviso di garanzia… Sono diventati anche loro ostacoli di questi principi che vengono maldestramente utilizzati dalla politica. Però il caso Bassolino, che è sintomatico perché ha avuto 19 assoluzioni, non è l’unico. Quanti sono i processi contro pubblici amministratori che finiscono con assoluzioni? Questo è il dato concreto che dovrebbe suggerire ai politici considerazioni di natura diversa, anche da trasformare poi in modifiche legislative. Ma non mi pare che ci sia questa sensibilità, nell’opinione pubblica e nei partiti. Bassolino è stato emarginato dalla politica almeno dal 2006. Sin da quando sono iniziati i processi a suo carico, il suo partito ha preso le distanze dall’uomo politico di maggior prestigio della Campania. Questo dovrebbe insegnare qualcosa al Pd in particolare, ma in genere ai partiti».

In questo momento si sta discutendo su chi sarà il candidato a sindaco di Napoli.

«Nonostante le 19 assoluzioni, nonostante, come si dice, si sia “ripulito”, nessuno, in questo momento, si espone nel dire che Bassolino può essere una risorsa. La gente lo stimola affinché si candidi in proprio, ma nessuno del partito, a livello locale o nazionale, si pronuncia in merito».

Ma si ricandiderebbe?

«Sta valutando quello che capita nel partito, nella sua città e nel Paese. Dopodiché prenderà le sue decisioni».

Parla l'ex sindaco. Dopo la 19esima assoluzione parla Antonio Bassolino: “Giustizia lumaca è un vantaggio per i disonesti”. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Novembre 2020. «I tempi della giustizia sono lunghi e ingiusti. È un problema che doveva essere affrontato da tempo e ancora non viene affrontato prioritariamente. Ed essendo lunghi e ingiusti, i tempi della giustizia rappresentano un danno per gli innocenti e un vantaggio per i colpevoli». Il giorno dopo la sentenza che certifica la piena assoluzione, Antonio Bassolino accetta di fare, con il Riformista, una riflessione alla luce della sua esperienza personale. L’altro giorno i giudici della Corte di Appello del tribunale di Napoli lo hanno assolto nel merito da un’accusa di peculato che risale agli anni in cui era commissario governativo per l’emergenza rifiuti in Campania e dalla quale l’ex governatore era stato già assolto in primo grado, con sentenza del 21 giugno 2016, per sopraggiunta prescrizione. Quella dell’assoluzione piena, nel merito, è stata una battaglia giudiziaria portata avanti nella certezza della propria estraneità ai fatti. L’avvocato Giuseppe Fusco, che assieme all’avvocato Massimo Krogh e all’avvocato Matteo De Luca ha rappresentato la difesa di Bassolino, lo aveva annunciato subito dopo la sentenza di primo grado: «Impugneremo la prescrizione». Per avere la definitiva risposta della giustizia, però, ci sono voluti anni. Tanti. «Tempi lunghi e ingiusti», sottolinea Bassolino, che di recente è tornato alla ribalta politica in vista delle prossime amministrative. Con le lunghe attese della giustizia, ha dovuto fare i conti più volte. Perché più volte, da amministratore pubblico, è finito nel tritacarne giudiziario e mediatico, ha subìto indagini penali e processi da cui, alla fine, è uscito sempre assolto. «È la diciannovesima sentenza di piena assoluzione», ha scritto Bassolino su Facebook commentando la sentenza della Corte di appello dell’altro giorno, quella che ha chiuso l’ultima vicenda giudiziaria ancora da definire tra le tante che, nel corso degli ultimi dieci anni, hanno visto la magistratura puntare la lente sulle sue decisioni e sulla sua lunga esperienza di amministratore pubblico. Un record, verrebbe da dire. Diciannove sentenze di assoluzione corrispondono ad altrettanti processi nei quali la Procura ha provato a sostenere le sue accuse contro l’ex governatore della Campania ed ex commissario per l’emergenza rifiuti. E proprio la gestione dei rifiuti è stato il tema su cui i pm napoletani hanno concentrato le loro indagini, insistendo sulla pista di presunte irregolarità che i giudici, nei diversi gradi del giudizio, hanno puntualmente, di volta in volta, smontato. È accaduto anche in quest’ultimo processo. La Procura contestava a Bassolino il peculato, per il semplice fatto che c’era la sua firma sul decreto con cui si liquidavano all’avvocato Enrico Soprano parcelle per 154 milioni delle vecchie lire per l’attività professionale svolta nel settore dell’emergenza. Soprano aveva ricevuto gli incarichi nel commissariato per l’emergenza a partire dal 1998, quindi ben prima dell’arrivo di Bassolino alla gestione di quella crisi. «L’attività posta in essere dal commissario pro-tempore si limitò alla sottoscrizione dei decreti autorizzativi che si fondavano su un’istruttoria espletata dalla direzione amministrativa», hanno chiarito gli avvocati Fusco e Krogh evidenziando le dichiarazioni dei vari testimoni ascoltati per ricostruire dettagliatamente i fatti. «Bassolino non intese né danneggiare né favorire chicchessia», si legge in uno dei passaggi centrali dei motivi con cui i difensori hanno impugnato la sentenza di assoluzione per prescrizione. «È emerso con chiarezza che Bassolino sottoscrisse gli ordinativi di pagamento dopo un’istruttoria conforme ai regolamenti del commissariato e svolta dalle strutture competenti». «L’istruttoria – sottolinea ancora la difesa – ha chiarito come la struttura commissariale fosse composta da una serie di articolazioni dotate di una loro indipendenza con compiti specifici di consulenza tecnica e giuridica e contraddistinte da un assoluto legame fiduciario tale da escludere ogni ingerenza diretta di Bassolino nella gestione ordinaria ed esecutiva. Appare indubbio che lo stesso non potesse avere le competenze tecniche per verificare la conformità delle parcelle liquidate alle tariffe professionali, fra l’altro non essendo emerso alcun elemento da cui desumere qualsivoglia accordo illecito tra i membri della struttura commissariale e i consulenti». Di qui la sentenza. Assoluzione piena.

·         Ingiustizia. Il caso Cuffaro spiegato bene.

Parla l'ex governatore. Totò Cuffaro si racconta: “In carcere anni di dolore, ho sbagliato ma mai favorito la mafia”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Novembre 2020. «Non una nuova Dc ma una Dc nuova»: parliamo con Totò Cuffaro, governatore della Sicilia fino alle disavventure giudiziarie di cui è stato protagonista, del suo progetto e lui corregge subito il tiro. Rifondare un partito di massa dei cattolici, non un’ambizione di poco conto. «Siamo in una fase difficile, bisogna essere molto attenti, per le nostre famiglie e non solo per noi», dice a proposito del Covid. «Dobbiamo stare rigidamente dentro alle regole e anzi: fare qualcosa di più rigido di quel che dicono le regole per autocontrollarci». Lo dice uno che avendo largheggiato con lo scambio umano anche prossemico – memorabili i suoi baci e abbracci nei congressi Dc e post Dc – deve aver riflettuto a fondo sui comportamenti da tenere o meno. E non si parla di sanità ma di contatti diversamente pericolosi. Perché in Sicilia il virus che più ha ucciso nella storia si chiama Cosa Nostra e certe strette di mano, se non si sta attenti con il disinfettante, portano ad ammalarsi.

Si è pentito più di quel che ha fatto o più di quel che non ha fatto, in Sicilia?

«C’è sempre qualcosa che avremmo potuto fare e non si è fatto. Vale per la sanità, dove però c’è una responsabilità nazionale nella programmazione, e c’è una responsabilità nell’esecuzione. Io non ne sono esente».

Un suo errore concreto.

«Avrei potuto spingere di più nella costruzione di nuovi ospedali. Con l’allora ministro Sirchia programmammo quattro poli d’eccellenza. Tre sono partiti, uno no. E anche su quello pesarono le attenzioni giudiziarie».

Amministrare in Sicilia è più complicato che altrove?

«È più complicato, qui c’è sempre l’elemento criminalità aggiuntivo, che qui è criminalità mafiosa. Quando incappi nelle procedure di questo tipo purtroppo i lavori si fermano per anni e anni, e questo avviene qui diversamente da altre regioni d’Italia. E’ facilissimo sbagliare, impigliarsi…»

Per non sbagliare oggi c’è chi rinuncia all’azione amministrativa.

«Vittorio Alfieri nel Saul diceva: sol chi non fa, non sbaglia. Questa terra, la Sicilia, è difficile e martoriata, e per questo merita di essere servita e amata un po’ di più».

E invece è indietro sulle opere, sulle infrastrutture. Lei col Ponte di Messina aveva iniziato il progetto. E progetto ha fatto rima con sospetto.

«Non c’era solo la fattibilità e il carotaggio. C’era la gara aggiudicata, che ha vinto Impregilo. Avevamo iniziato i lavori, posto le fondamenta dei basamenti. Ma appena cadde il governo Berlusconi e arrivò il governo Prodi, il nuovo ministro dei Lavori pubblici, tale Antonio Di Pietro, fermò le macchine. I soldi erano già stanziati, ma la furia ideologica era quella di chi voleva solo fermare tutto».

Fermare i cantieri, ma anche gli avversari politici.

«E certo, le due cose insieme. Lì con Di Pietro nacque la politica giudiziaria che ha poi portato a quel che è venuto dopo. Movimenti ideologizzati con l’unico ideale di fermare tutto, di incarcerare i nemici, di mandare tutti a casa, di rinunciare alle opere pubbliche. Io invece dico che è ora di ricostruire».

A partire dal ponte, immagino.

«Dai ponti. Quello tra la Sicilia e l’Italia, di cemento. E quello tra le persone. Abbiamo bisogno di rapporti umani, di calore umano, di prossimità. Di fiducia».

Lei ha pagato con il carcere. A cosa doveva stare più attento?

«Un cattolico come me ha sempre motivo di pentirsi di qualcosa. Ho commesso tanti errori. Se potessi tornare indietro, con il senno di poi non li ricommetterei. So, nella mia coscienza, di non aver mai commesso l’errore di aver favorito la mafia. Anche se di errori ne ho fatti tanti altri».

Però è stato condannato per favoreggiamento.

«Sono stato condannato per questa sentenza e l’ho rispettata. Ho rispettato la giustizia come è giusto che faccia chiunque venga perseguito dalla giustizia. Soprattutto quando ti graffia le carni e ti fa del sangue. Perché rispettare la giustizia quando riguarda gli altri è facile. Quando graffia le tue carni è più difficile. Ho fatto del rispetto della giustizia un dovere, anzi direi di averlo percepito come un diritto. Perché i diritti si scelgono, i doveri si ottemperano».

Come è stata la sua esperienza in carcere?

«Difficile. Privazione, dolore. Chiuso in cella insieme ad altre quattro persone, a Rebibbia. Aiutato dall’amore della mia famiglia e dalla fede, che hanno fatto diventare quei cinque anni pieni di giornate fertili. Ho trovato nelle carceri comunità ricche di umanità e solidarietà vere».

Da parte delle persone. Non delle istituzioni.

«Assolutamente così. Umanità della comunità carceraria, dei detenuti ma anche degli agenti, degli operatori. Quello che non è umano è il sistema così come è concepito. Il carcere va umanizzato, perché lì dentro ci sono persone con la loro dignità e la loro storia. Nessuno Stato può permettersi di vessare, umiliare i detenuti. Perché la funzione del padre non può coincidere con la funzione del torturatore. Altrimenti nasce l’accademia del crimine. Si impara a essere ostili verso le istituzioni».

Lei invece alle istituzioni vuole restituire qualcosa.

«Voglio tornare a far avvicinare i giovani alla politica, rifondare la Democrazia Cristiana con l’emozione dei grandi sogni. Tornare a parlare di Sturzo, De Gasperi. Promuovere una scuola delle idee che ha fatto vincere la democrazia nel Novecento, portando di nuovo tante persone insieme, appena si potrà. In occasioni di incontro e di confronto comune».

Mi viene in mente “Todo Modo”, Sciascia.

«Una persona fantastica di cui sono stato amico. Lui era in consiglio comunale con me a Palermo. No, non voglio fare Todo Modo. Ma un confronto aperto, solare, con generazioni nuove».

C’è un altro palermitano importante, il presidente Mattarella.

«Il vero numero uno, nella storia della Democrazia cristiana, che farò studiare ai nostri giovani. C’è grande attenzione per il pensiero di Mattarella, che ha ancora un grande futuro davanti».

Chi vede dopo di lui al Quirinale?

«Mattarella, nessun altro. Il Paese in questa fase ha bisogno di una certezza, ed è lui».

·         Ingiustizia. Il caso Corona spiegato bene.

Da "corriere.it" il 17 ottobre 2020. Fabrizio Corona è positivo al Covid-19. Lo ha dichiarato lui stesso su Instagram, spiegando che ha avuto la febbre alta, a 39, per tre giorni e mal di gola. Due giorni fa, sempre nelle sue storie, aveva mostrato che aveva eseguito il tampone: di qualche minuto fa il risultato di positività, comunicato via social.

Gli «avvisi». Corona ha aggiunto: «Sono dispiaciuto per la famiglia dei miei avvocati, dico questa cosa per avvisare tutti coloro che sono venuti in contatto con me in Tribunale, inclusi i giornalisti». Proprio martedì scorso l’ex fotografo dei vip si era recato alla Sorveglianza per un’udienza relativa alla sua detenzione domiciliare, insieme agli avvocati Ivano Chiesa e Antonella Calcaterra, e aveva rilasciato diverse dichiarazioni ai cronisti giudiziari.

Corona ha violato la quarantena? Nina Moric chiama il 112: "Lo ha invitato ma Carlos è asmatico". La showgirl si è scagliata pubblicamente contro l’ex marito perché avrebbe invitato il figlio Carlos Maria a casa sua nonostante sia in quarantena per positività al Covid-19. Novella Toloni, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. È guerra aperta tra Nina Moric e l'ex compagno Fabrizio Corona. Questa volta però le questioni personali non c'entrano. La modella croata ha denunciato l'ex compagno sui social per aver violato la quarantena sanitaria, invitando a casa sua il figlio Carlos Maria. L'ex re dei paparazzi, infatti, è risultato positivo al Covid-19 negli scorsi giorni e avrebbe dovuto rispettare l'isolamento di dieci giorni imposto dalla legge. Secondo quanto raccontato da Nina Moric attraverso il suo account Instagram, però, Corona avrebbe invitato il figlio Carlos Maria nella sua abitazione pur sapendo di essere potenzialmente contagioso per il ragazzo. "Ho appena chiamato il 112 - ha scritto nelle storie del suo profilo social la Moric - perché Fabrizio Corona, positivo al covid, ha invitato Carlos, senza che io ne sapessi nulla e adesso bivaccano facendo Stories su Instagram". Una denuncia pesante che, se trovasse fondato riscontro, potrebbe costare cara a Fabrizio Corona in quanto violazione di un provvedimento dell'autorità sanitaria. L'ex re dei paparazzi, che deve scontare ancora un residuo di pena in regime di detenzione domiciliare, negli scorsi giorni aveva partecipato a una nuova udienza in tribunale. Subito dopo il rientro nella sua abitazione aveva manifestato i primi sintomi influenzali e, in seguito al tampone, era risultato positivo al coronavirus. Fabrizio Corona avrebbe dovuto, dunque, rispettare l'isolamento per dieci giorni in attesa di un nuovo tampone ma, secondo quanto raccontato da Nina Moric, la quarantena sarebbe stata violata. "Fabrizio non rispetta non solo le norme sulla quarantena - ha proseguito la Moric - ma anche la salute di mio figlio e di tutti coloro che con costoro entrano in contatto. La polizia mi ha risposto che non può farci nulla e che ha fatto "i controlli della centrale e di chiamare mio figlio per farlo a tornare a casa" ma cosa vuol dire??? È follia pura. È per uomini come Corona che il virus si diffonde seminando anche la morte e purtroppo anche dall'errata e incoerente applicazione della legge. Siamo tutti a rischio". A preoccupare maggiormente la modella croata, che nei giorni scorsi aveva denunciato Corona per minacce, è la salute e l'incolumità del figlio. La donna ha spiegato, infatti, che il ragazzo soffre di problemi respiratori: "Un figlio di 18 anni può anche avere l'incoscienza di fare certe cose, ma per un padre di quasi 50 è inammissibile perché sa benissimo che Carlo è un soggetto che rischia essendo asmatico".

Ida Di Grazia per "leggo.it" il 13 Ottobre 2020. Nina Moric pubblica un audio choc: «Minacce da Fabrizio Corona, voglio fracassarti la testa». Anche Carlos teme il padre. È un audio da brividi quello pubblicato nel cuore della notte dalla modella croata che, se verificato, aprirebbe scenari inquietanti sulla sua situazione familiare. Su Instagram Nina Moric ha pubblicato un post a dir poco inquietante: «Arriva un momento quando il silenzio comincia a fare talmente tanto rumore che non riesci più a stare zitto. Ho provato con la giustizia, adesso vi regalo a voi quello che passo tutti i giorni e continuo inoltre a passare per quella malata di mente. Ai posteri l’ardua sentenza». Quello che preoccupa non è la però la parte testuale, ma i due audio contenuti all’interno del post. Nel primo si sente Nina Moric che parla al telefono con uomo che - secondo la tesi della modella - sarebbe Fabrizio Corona. Si sente la Moric dire: «Perché gli hai creato tutti questi traumi? Perché mi dici che sono una puttana davanti a Carlos?». Ed è qui che arriva la risposta choc di quello che sembrerebbe essere Fabrizio Corona: «Io penso che sarei arrivato quasi al limite di venire due giorni fa a prenderti la testa e fracassartela contro un angolo, in modo da ucciderti e non vederti mai più, eliminare il male che hai fatto a questo ragazzo». Il secondo audio è invece sembrerebbe essere tratto dalla conversazione che Nina ha con il figlio Carlos Maria. Le parole di Carlos fanno, se possibile, fanno ancora più paura, perché parlerebbero di minacce subite da parte del padre e dalla sua voglia di scappare da lui: «Vorrei aprirmi con te, io voglio diventare una persona migliore, venire da te e dimenticare questa persona, dimenticare il male». La Moric che ha registrato la conversazione è in lacrime, cerca di far sentire tutta la sua vicinanza al figlio e gli chiede se Corona lo sta minacciando: «In parte sì – risponde Carlos - Io voglio stare con te, è questa la verità. Tu sei una persona che mi può aiutare a essere migliore, più buona, perché purtroppo io stando con il male imparo anche il male». «Carlos - risponde in lacrime la Moric - cancella la chiamata, lui (Corona ndr) ti controlla il telefono». «Lo so mamma, so tutto - risponde -  Non mi interessa la palestra, non mi interessa questo mondo, la televisione. Voglio solo tornare da te. In chiusura Nina Moric  gli fa una promessa «Non sei abbandonato io ci sono io, sono il tuo scudo. Sappi che la mamma non è stupida, ti proteggerà sempre. Piuttosto che lasciarti nelle mani sbagliate io morirei. Devi stare sereno, è solo questione di tempo perchè so che tu stai male». 

Ulteriori 9 mesi di reclusione per Corona: revocato il periodo di affidamento. Fabrizio Corona dovrà scontare nuovamente il periodo di affidamento in prova di 9 mesi. a deciderlo è stato il Tribunale di sorveglianza di Milano. Francesca Galici, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto la linea dura della Procura generale sul nodo dei 9 mesi trascorsi da Fabrizio Corona in riabilitazione psichiatrica, per i quali era stata chiesta la revoca. Ora il giudizio passerà in Cassazione. "Se va bene a dicembre mi mancherebbero da scontare 1 anno e 8 mesi, vedo la libertà a breve", aveva detto Fabrizio Corona, che ora invece dovrà aggiungere altri 9 mesi a quei 20 di pena che gli sarebbero rimasti da scontare. Non è il primo provvedimento in materia, perché sulla questione dei 9 mesi si erano già espressi in più riprese a causa di diverse violazioni di Fabrizio Corona durante quel periodo che, secondo la procura, avrebbero di fatto invalidato i presupposti di fiducia concessi all'ex dei re paparazzi nell'affidarlo a una comunità terapeutica. Ora, gli avvocati di Fabrizio Corona sono pronti a ricorrere di nuovo alla Cassazione per ribaltare la decisione del giudice di sorveglianza. Nel frattempo Fabrizio Corona non si è fatto sentito bene. L'imprenditore si trova nel suo appartamento nel centro di Milano in regime di detenzione domiciliare e nelle scorse ore ha mostrato sui social di avere la febbre. Con la temperatura a 38 gradi centigradi e la tosse, per lui si è reso necessario il test per il coronavirus, che è stato rigorosamente effettuato con documentazione via social. L'esito non è ancora stato comunicato, occorrono diverse ore per processare il tampone, quindi per sicurezza Fabrizio Corona è rimasto isolato nella sua abitazione milanese. L'imprenditore, comunque, non si abbatte e ha reagito con grinta come sempre, continuando ad allenarsi. Trovandosi agli arresti domiciliari, quindi non potendo uscire, Fabrizio Corona nel caso in cui risultasse positivo sarebbe stato sicuramente contagiato da qualcuno che, anche da asintomatico, avrebbe frequentato la sua abitazione di recente. Con questa situazione, però, ha dovuto rinunciare alla compagnia di suo figlio. Vista la febbre alta e la tosse, quindi il sospetto fondato che possa trattarsi di Covid, Carlos Maria Corona è tornato a casa della madre Nina Moric. Negli ultimi giorni, la showgirl aveva pubblicato sui social due conversazioni registrate, una con suo figlio e una con l'ex marito, che hanno fatto molto discutere l'opinione pubblica. Ci sono minacce e insinuazioni gravi in quei pochi minuti, ai quali però sia Carlo che Fabrizio Corona hanno già replicato. Ora si aspetta di conoscere la decisione della Corte di Cassazione per i 9 mesi da riscontare da parte di Fabrizio Corona e, a più stretto giro, il risultato del tampone per il Covid. Intanto, Fabrizio Corona ha commentato la sentenza sui suoi social, con tre storie su Instagram: "Violazione dei principi di giustizia, per l'ennesima volta. Ora basta, basta!! È una vita che subisco ingiustizie. Pronto a tutto, anche a sacrificare la mia vita. Giuro. Non sono mai stato così". Molto duro anche l'avvocato Chiesa, difensore di Fabrizio Corona: "Sono senza parole e, lasciatemelo dire, sono incazzato nero". Il legale ha poi spiegato in termini tecnici, con un video pubblicato su Instaram, quanto accaduto oggi in tribunale.

Da leggo.it il 15 ottobre 2020. Fabrizio Corona dovrà scontare di nuovo 9 mesi che aveva già scontato in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, accogliendo la linea della Procura generale rappresentata dal sostituto pg Antonio Lamanna. «Se va bene a dicembre mi mancherebbero da scontare 1 anno e 8 mesi, vedo la libertà a breve», aveva detto l'ex agente fotografico prima dell'udienza di due giorni fa. Il provvedimento dei giudici è l'ennesima decisione su questa vicenda dei nove mesi, revocati per violazioni da parte di Corona, ora in detenzione domiciliare, nel percorso di affidamento. Ci sono stati anche due 'passaggi in Cassazione, alla quale ora la difesa potrà di nuovo ricorrere.

Giada Oricchio per iltempo.it il 15 ottobre 2020. Fabrizio Corona deve tornare in carcere. Lo ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Milano su istanza della Procura generale rappresentata dal sostituto pg Antonio Lamanna. L'avvocato Ivano Chiesa, che rappresenta l'ex re dei paparazzi, si sfoga: "Mai vista una cosa del genere in 35 anni di carriera" e Corona disperato minaccia il suicidio. I 9 mesi che Fabrizio Corona aveva scontato in affidamento terapeutico, tra febbraio e novembre 2018, non sono validi per i giudici del Tribunale di Milano: devono essere scontati in galera a causa delle continue violazioni delle regole da parte di Corona, attualmente agli arresti domiciliari. L'avvocato Chiesa che lo difende da anni potrà ricorrere in Cassazione. Una doccia fredda per Corona che solo due giorni fa, prima dell'udienza, vedeva la luce in fondo al tunnel: "Se va bene a dicembre mi mancheranno da scontare un anno e otto mesi, vedo la libertà a breve. Per i miei 48 anni potrei essere libero". Ma potrebbe non essere così e l'ex agente ha riversato tutta la sua rabbia su Instagram: "Violazione dei principi di giustizia. Per l'ennesima volta. Ora basta! Basta!!! E' una vita che subisco ingiustizie. Pronto a tutto, anche a sacrificare la mia vita. Giuro, non sono mai stato così". E dal profilo ufficiale di Corona su Instagram è intervenuto anche l'avvocato Ivano Chiesa: "Il Tribunale di Sorveglianza ha confermato che Fabrizio ha fatto 9 mesi in affido per niente perché sono stati revocati con effetto retroattivo. Sono senza parole e anche incazzato nero perché la sentenza si basa su un errore giuridico marchiano, grossolano. (...). Tornano in mezzo le violazioni... Il Tribunale di Sorveglianza ha smentito se stesso, prima dice che non erano importanti, ora dice che lo sono. Ma non era questo il tema su cui decidere. Fabrizio è senza parole. Tornerò in Cassazione per la terza volta. In 35 anni non mi era mai capitato".

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2020. Fabrizio Corona è detenuto dall' inizio del 2013 e, a pensarci bene, una pena così importante raramente è stata inflitta per reati non di sangue: talvolta abbiamo dovuto commentare pene più lievi anche per alcuni reati contro la persona. Ma tant' è, per Fabrizio Corona molti di noi si sono cimentati in valutazioni di tipo "morale" o "etico" che nulla hanno a che vedere con l' applicazione della legge, valutazioni che hanno probabilmente offuscato il reale stato delle cose dal punto di vista legale. Chi scrive ha sempre pensato che per i reati commessi quattordici anni di galera a Corona (diventati poi quasi dieci) siano una enormità. Purtroppo è talmente alto il livello mediatico che ogni volta Fabrizio Corona si porta dietro che poco si conosce di ciò che è accaduto e molto si crede di sapere rendendo possibile commentare e giudicare senza conoscere i fatti contestati. L' avvocato Ivano Chiesa è accanto a Fabrizio Corona da sette anni ed è oramai da lui considerato come un secondo padre; la sua ricostruzione dei fatti e soprattutto la considerazione delle attuali condizioni di Corona, alla vigilia di un altro importante procedimento, ci può aiutare a comporre un giudizio più sereno.

Avvocato, come conobbe Corona?

«Lo conobbi nella sala dei colloqui di Opera, era aprile del 2013 e già esistevano le sentenze che erano passate in giudicato e Fabrizio avvicinandomi mi disse "avvocato mi aiuti"».

E lei?

«Io iniziai a studiare il caso e mi resi conto che il primo processo in cui Corona prese cinque anni era sbagliato».

Mi spieghi...

«Corona fu condannato per estorsione aggravata che è un reato ostativo. Ma il fatto non sussisteva e nemmeno l' aggravante. Fabrizio aveva chiesto venticinque mila euro fatturati all' ex calciatore della Juventus David Trezeguet (esattamente la cifra che un giornale avrebbe pagato per quelle foto). Corona andò all' appuntamento con un suo autista perché gli avevano sospeso la patente e così venne contestata l' aggravante in quanto erano in due. Le faccio anche presente, e Corona l' ha postata sui social qualche giorno fa, che fu lo stesso Trezeguet in una intervista che disse che non c' era stata nessuna minaccia e nessuna estorsione».

Partì tutto da quel processo quindi?

«Assolutamente. Le faccio anche presente che il Gip di Torino chiese il proscioglimento per quel processo ma la Procura impugnò. Si arrivò alla sentenza senza mai convocare Trezeguet e in primo grado vennero dati tre anni e mezzo e in appello e Cassazione cinque».

Ma poi Corona scappò.

«Scappò su una Cinquecento preso dal panico e poi si costituì. Le sembra una fuga vera quella di uno che si mette su una Cinquecento alla volta del Portogallo?».

Questa fu la prima condanna, ma non l' unica, giusto?

«Quando presi in mano la situazione di Corona aveva venti processi penali a carico (molti dei quali per reati afferenti alla sua professione di fotografo e giornalista) e in questi processi ci furono assoluzioni e remissioni di querela. Venne condannato a tre anni e mezzo per bancarotta della sua società quando traslò il know how da una società all' altra e ad un anno e nove mesi per banconote false; anche questa condanna era un paradosso».

In che senso?

«Che fu pagato con banconote false per un lavoro e quando si accorse di essere seguito cercò di disfarsene. Ma sono tutti reati compresi negli anni tra il 2007 e il 2008. Null' altro ha più fatto dopo quelle date».

E le banconote nel controsoffitto?

«Era soltanto un reato fiscale invece se ne occuparono la Dda e il magistrato Ilda Bocassini. Corona ha pagato ogni tassa ed è stato assolto. Anche quella e stata una vicenda irreale».

Perché?

«Perché Corona ha fatto sedici mesi di carcere preventivo per una pena che alla fine è stata di sei mesi! Le sembra logico? Venne arrestato davanti al figlio Carlos come se fosse un delinquente affiliato con clan mafiosi. Alla fine non c' era nulla, ma devo dire che siamo stati fortunati...».

In che senso?

«Abbiamo avuto un giudice illuminato, il dottor Guido Salvini, che vide la lista dei testi che avevamo presentato per dichiarare da dove provenivano i soldi del controsoffitto. Avevamo più di duecento testi. Dopo i primi quaranta Salvini disse "va bene avvocato abbiamo capito". Su Fabrizio purtroppo aleggia un giudizio morale che poco ha a che vedere con la giustizia».

Che cosa intende dire avvocato?

«Per esempio, Fabrizio venne fotografato su uno yacht con la fidanzata in topless; apriti cielo...».

Beh, si può capire!

«Che cosa si può capire! Era stata autorizzata una serata (altrimenti sarebbe stato arrestato) aveva anche detto che avrebbe dormito su una barca ma la foto con la fidanzata determinava nei moralisti pruriti etici senza senso. Questo è un esempio tra tanti. Fabrizio, quando è stato messo in prova, lavorava alla sera ma faceva scalpore che di notte fosse nei locali. Se avessi difeso un cantante che fa concerti non avrebbe potuto cantare la sera? La sua libertà vigilata sarà nelle ore serali. O no?».

Qualche errore però Corona l' avrà pur commesso?

«Certamente ma nove anni di galera per "qualche errore" mi sembra eccessivo. Adesso a Fabrizio mancano due anni e mezzo ma l' 8 giugno ha un nuovo processo dove rischia altri nove mesi».

Sono importanti questi ulteriori nove mesi?

«Sono decisivi. Se dovessimo pensare che ha quasi quattro anni da scontare invece che due e mezzo sarebbe pazzesco. Fabrizio è profondamente cambiato, mi creda».

In che cosa è cambiato?

«Intanto ha ammesso il fatto di fare uso di sostanze e, mi creda, già questo è stato un passaggio profondo e importante. Una volta dichiarato, non ha più sgarrato sul tema delle tossicodipendenze ed è sempre stato rigoroso nel rispettare ogni regola. Siamo a un punto di svolta per Corona perché questi ulteriori nove mesi sono ingiusti sia dal punto di vista legale che da quello umano».

Come sta andando avanti la detenzione domiciliare di Fabrizio?

«Bene perché mano a mano che il tempo passava lui si rendeva conto sia dei suoi talenti che dei suoi difetti e su questi ultimi ha lavorato molto; posso assicurare che il Fabrizio Corona che butta le mutande dalla finestra non c' è più».

Che rapporto ha con Nina Moric, la mamma del figlio Carlos?

«Hanno molto discusso ma alla fine trovano sempre un punto d' incontro per il bene del figlio. Corona ci sarà sempre per Nina».

E con Carlos, il figlio?

«Esiste un rapporto carnale, di amore pazzesco. Penso che uno dei motivi profondi del cambiamento di Corona sia proprio a causa del figlio. Tra poco Carlos compie diciotto anni: entrerà in un' età importante e il papà vuole esserci».

Il rapporto con il papà Vittorio, grande giornalista?

«Fabrizio ha un rapporto metafisico con il suo papà, spirituale. Ci sono stati momenti molto difficili in cui è sembrato anche a me che ci fosse lo "zampino" del suo papà».

E di Gabriella, la mamma?

«Una madre che si batte fino ad andare dal Ministro della Giustizia è straordinaria. Gabriella è una guerriera di cui Fabrizio ha sempre bisogno».

Lei quindi si fiderebbe adesso a lasciare nuovamente in libertà Corona?

«Sì. Io mi sono sempre fidato ma adesso potete fidarvi anche voi».

Barbara Costa per Dagospia il 14 novembre 2020. Mica lo sapevo, che con un’ascia puoi sì decapitare una persona ma non spezzargli le clavicole (“sono dure come sassi”) e che una valigia con dentro un cadavere a pezzi meglio non buttarla nel Naviglio (“l’acqua è bassa, la trovano subito”), e né che il filler è fatto come il pongo, e se nel viso non te lo inietta uno esperto, ti vengono dei bubboni, e diventi un mostro. Lo racconta Fabrizio Corona, nel suo "Come ho inventato l’Italia", e lui le prime due "nozioni" le ha apprese in galera, la terza sempre in galera, ma a spese bubboniche proprie. Il viso glielo ha sistemato poi Giacomo Urtis, sempre in galera, dacché, è un fatto: Fabrizio Corona deve sistemarsi il viso ogni 6 mesi. Anche se fosse vera la metà della metà che Corona dice e scrive, va riconosciuto che con un tale “figlio di puttana” (parole sue, p.304) non ti annoi: l’Italia degli ultimi anni Fabrizio Corona se non se l’è inventata di sicuro l’ha macchiata, plasmata, firmata. Inutile che tu che mi leggi scuoti il capino, e mi dici di no: qualsiasi cretineria combini Corona, riempie pagine, siti, tg, e prende i tuoi occhi, tu la vuoi sapere, tu te la bevi e imbottisci il portafoglio di Corona, quello di pelle nera con catenina d’ottone, che gli ha regalato Belén. Corona, è come dicono i referti psichiatrici, lui soffre di (riassumo) “delirio narcisistico, disturbo bipolare, e borderline, che lo portano a una distorsione della realtà, con gesti estremi usati per attirare su di sé l’attenzione”. Ma lui te la sbatte in faccia, la sua ossessione, la sua droga: i soldi, i soldi, i soldi. Il suo orgasmo supremo sta nel possederli, ammucchiarli, contarli, già mentalmente dividerli a mazzette. È così dannato di soldi che le tre volte che portandoseli addosso a mo’ di bancomat umano se li è persi, ha dato di matto, e non ha trovato pace finché non è tornato in pari. Con ogni mezzo e modo: perché con Corona tutto è monetizzabile, T-UT-T-O. Non c’è neo, gesto, rutto, respiro, sguardo, anima che per Corona non valga e sia e diventi denaro sonante. Questa è la sua filosofia, questo il suo credo, e se tu credi di saperne già, e di non volerne più, frena, resetta, curva a U, ché, mio caro, sai un cazzo. Tutto quello che il Corona-show ha mostrato finora è solo parte di quello che qui ti dice e dettagliatamente descrive, e senti, te lo ripeto una volta sola, perché m’hai stufato: abbassa quel ditino ammonitore, non fare il Savino, non crederti chissà chi: davvero sei migliore di Corona? Se lo sei, se d-a-v-v-e-r-o lo sei, allora cosa cazzo fai qui, perché mi leggi? Vuoi negarlo? Tu vorresti essere lui, per un giorno, o una vita. Niente scuse: tutti, in qualche modo, a Corona pensiamo, e superiormente giudichiamo. Bella frescaccia, la moralità. Ma poi a me di moralizzare Corona o chiunque altro frega nulla, io sarei curiosa di conoscere le persone che l’hanno idolatrato, e non sui social: io vorrei sapere chi pagava Fabrizio 500 euro a botta per solo prendersi un caffè con lui e dirgli “Ciao” e così far credere alla propria fidanzata che lui e Corona fossero amici; e conoscere le donne che sotto casa gli offrivano il culo, e vorrei pure conoscere chi ancora confida nei reality, se Corona svela che lui a "La Fattoria" ha “combinato la durata della mia presenza, e avevo il cellulare, chiamavo Belén”. Nel libro, ti erudisci sulla storia criminale completa di Corona, e giudiziaria e carceraria e ci sono pagine di sesso, pagine di donne e ci sono Nina e Belén che non sono state come le altre, anche perché mai con le altre, Fabrì, mi sa riuscirai a fatturare quanto hai fatturato con loro (fregandole), e con la loro intimità presa, prezzata, venduta. In questo libro c’è l’elenco di “ogni figa del momento” che Corona s’è gustato e, ragazze, ve lo dico: ci sono nomi e cognomi, e fatti. Asia!!! Butta quei “leggings slavati, fumi sigarette puzzolenti”, che Fabrizio quel pomeriggio a casa tua ti ha fatto “vedere le stelle” è narrato nei particolari, e c’è pure la descrizione di uno dei tuoi bagni; Clizia!!! Avevi tutte le ragioni quel giorno a incazzarti per essere stata scordata in autostrada ma qui si parla di quello che hai fatto in macchina da “siciliana all’antica”; Zoe!!! Fabrizio dice che hai “la fica grassa”; Sonia!!! Ma che sul serio hai dormito anni sul letto di Corona, senza mai con lui goderne, bensì ogni volta spostandoti sul divano quando lui sul quel letto si voleva scopare la chiunque?!? Silvia!!! Che Fabrizio t’ha messo corna su corna qui lo ammette (le ha messe a tutte), e però elenca pure le corna che gli hai fatto tu, a iniziare da quelle negate con Fedez. Malena!!! E no, caro Fabrizio, il porno è terreno mio: qui potrei magari di reputazione intaccarti, e rivelare la tua effettiva "sostanza" penica. Mi basterebbe un whatsapp… ma non lo faccio. Per il momento. Fabrì, tu hai avuto più donne di me, sicuro, io poi dello showbiz nessuna e, da quanto racconti, me ne tengo alla larga: com’è che dici? Sono insicure, complessate, se gli viene un brufolo casca il cielo, però non si può negare che “è diverso, scoparsi una persona e scoparsi un personaggio: è come penetrare un nome, infilare l’uccello negli interstizi tra una combinazione di lettere capaci di esercitare un potere magico sulle persone”. Le peggiori sono le donne che frignano le coccole. Certo è che, se sei assillato e pieno di problemi, e ti ritrovi a letto con una che ti miagola “amore, se stiamo vicini, ce la faremo!”, i nervi ti saltano. Di una cosa, però, ti facevo più scaltro: dai, Fabrì, è legge: se una donna "pesa" la sua figa, e non te la dà, e ti fa penare per mesi, la scopata alla fine è sempre una delusione assoluta. Non ci stanno santi. Fabrì, tu che conosci tutti, tu che col tuo profilo fake segui e spii e ne scopri i punti deboli, sai che non esiste fama senza ricatto, e che quasi ogni starlet è un ricettacolo di segreti infetti, perché se sei diventato famoso sei pure diventato vulnerabile, specie se sei un politico: a proposito, Fabrì, ma che fine ha fatto quel video omoerotico di uno di destra, sparito insieme al suo partito? Dì un po’, com’è che sono i calciatori? “Un branco di subumani sfigati”. E i rampolli, i figli delle famiglie bene? “Una manica di nullità”. Fabrì, precisiamo: tu, a Lele Mora, non gli hai dato nemmeno un bacio: gli devi, e molto, ma glielo hai “fatto annusare, e basta”. Fabrì, un’ultima cosa: se non rilitighi con la D’Urso, che figata sarebbe promuovere (e ottimamente incassare) questo tuo libro a "Live", te contro le 5 sfere, e nelle 5 sfere ci stanno 5 tue ex che sputtani in queste pagine…?! Tu ti credi Dio, Fabrì, ma, stavolta, sicuro che ne esci illeso? Dopo lo scontro a distanza video, te le ritrovi davanti alla porta di casa, incazzate nere. Fai un po’ tu. Io, intanto, ti passo il mio Iban: vedi di saldarmi quanto devi.

Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 14 novembre 2020.

Fabrizio Corona, com' è la storia dell' omicidio commissionato ai suoi danni?

«Quale dei due?».

Spazio per tutta l' autobiografia che ha appena portato in libreria non ne abbiamo. Ne scelga uno.

«Le spiego della volta con gli albanesi. C' era un mio cliente, nipote di un celebre potente della storia d' Italia».

Prima di fare il nome: l' ha denunciato?

«Io non denuncio mai».

Allora, niente nome.

«Come vuole. Nel libro, c' è.

Insomma, mi fa causa: secondo lui, gli dovevo dei soldi. Ma la regola della malavita è che, se fai causa, non puoi mandare il recupero crediti».

In che senso?

«Se hai messo le carte in mano alla polizia, alla legge, non puoi mandare il balordo a pestare il debitore: se no, la polizia fa due più due. Non puoi stare col male e col bene. Chiaro?».

A spanne. Quindi?

«Arrivano in ufficio due albanesi. Uno dice: Corona, hai un problema con xx, vedi di dargli i soldi. E io: ah sì? Usciamo e vediamo. Scendo, il mio autista mi segue e scatta la rissa. Accorrono baristi, tabaccai, gli albanesi scappano. Dopo un po', un tale mi dice che c' è uno pesante di una famiglia balorda che mi vuole parlare. Era grossissimo e sul cucuzzolo della testa aveva tatuata la sigla Acab: all cops are bastards , tutti i poliziotti sono bastardi. Mi fa: sono venuti due albanesi per comprare una pistola e noi, prima di vendere una pistola, vogliamo sapere a che serve».

E a che serviva?

«A uccidermi o gambizzarmi. Il soggetto con Acab sulla testa, poi condannato a 21 anni con aggravanti mafiose, dice che lui e suoi si sono messi di mezzo perché mi rispettano. Insomma, combiniamo un appuntamento, lui, io, gli albanesi, il creditore. Che ha capito il messaggio e non s' è più visto. Però, in questi casi, devi stare attento che non ti capiti un cavallo di ritorno».

Il «cavallo di ritorno», ora, che sarebbe?

«Che un malavitoso ti fa un favore, ma per avvicinarti e ottenere qualcosa di peggio».

La sua incolumità è ancora a rischio?

«No, ma penso che morirò ammazzato».

Perché mai?

«Ho fatto sei anni di carcere, anche con criminali efferati di cui ho dovuto essere amico per salvare la pelle e che, quando escono, sanno dove trovarmi. Ora, arrivano e dicono: prestami diecimila euro. E io: "sto cavolo". Poi, dai domiciliari, esco per andare allo Smi, un centro di recupero di esecuzione penale, e trovo altri criminali, che pure vogliono favori. Prima, davo retta, ora, li mando a quel paese. Ma è gente che se la prende. Tanti mi vorrebbero morto».

Tutto è iniziato con le condanne per i fotoricatti e ora siamo oltre. Sa che il suo libro sembra la biografia di un criminale italiano?

«Non sono un criminale, sono un furbo che non ha fatto male alla povera gente, ma ha sfruttato e fregato un sistema già corrotto. Ora ho incontrato tante case di produzione per trattare i diritti per film e docuserie e tutti mi hanno detto: non pensare che ne esci bene. Sicuramente è così, ma anche Il Lupo di Wall Street , quando ha dato i diritti, era una persona diversa da quella che si vede nel film».

Perché il titolo è «Come ho inventato l' Italia»?

«Da quando quattordicenne mi sono tuffato in una piscina vuota, ho battuto la testa e non sono più stato l' angelo che ero, ho vissuto dall' interno tutto quello che ha segnato questo Paese: la moda, Tangentopoli, il berlusconismo... Ora immagino d' aver creato questo mondo a mia immagine e somiglianza perché l' ho strumentalizzato, ci ho guadagnato e l' ho colpito da anarchico. Il mio obiettivo era entrarci per distruggerlo, perché mio padre, da quel mondo, è stato sconfitto e io l' ho voluto vendicare».

Perché suo padre Vittorio Corona era da vendicare?

«Era un grande giornalista ed è stato fatto fuori dal sistema. Dalla Rai, nel '92, per un titolo sui politici e la Cupola; da Mediaset, perché non appoggiò Berlusconi nel '94. Andò alla Voce con Indro Montanelli e quando hanno chiuso, non ha più potuto lavorare».

Non è che l' Italia lei l' ha peggiorata, non inventata?

«Anche. Il "popolo di Corona" vede solo il lato nero: che ho belle donne, soldi, mando a quel paese i magistrati. Il mio è un mito negativo».

Se l' è costruito lei, coi soldi falsi lanciati in autostrada, i soldi in nero nel controsoffitto, gli insulti ai giudici.

«Mi sentivo il protagonista di una storia d' ingiustizia e ho cavalcato quello storytelling con la follia di chi pensava di non pagare le conseguenze. Poi, davanti al macigno di una pena di 14 anni cumulativa, ho capito di aver sbagliato».

Scrive di continuo «sono Dio». Di notte, a luce spenta, si sente ancora un dio?

«Mi vengono i flashback come ai reduci del Vietnam. Senza sonniferi, non dormo. Spesso rivedo un suicidio terribile dell' estate 2019: un detenuto con una pena di tre anni, dopo una brutta telefonata, con gente che urlava e guardie che non arrivavano, si è appeso al collo il lenzuolo e l' ho visto spirare sotto i miei occhi».

Come è riuscito a farsi pubblicare dalla Nave di Teseo, la casa editrice dell' intellighenzia milanese?

«Semplice: in galera leggo, studio e mi si accendono lampadine. Per cui, ho scritto un appunto: fissare appuntamento con l' editore Elisabetta Sgarbi. Mi ha trovato intelligente, mi ha pubblicato e mi ha fatto conoscere tutta la Milano più intellettuale. Anche la vedova di Umberto Eco. Mi ci sono trovato a mio agio».

Il libro è ben scritto e la domanda che circola è: l' ha letto prima di pubblicarlo?

«Non ho un ghostwriter. Ho il dono della scrittura».

Come si è rotto l' anulare?

«L' ho spaccato apposta in carcere: dovevo lanciare un marchio su una maglietta e avevo bisogno di uscire e farmi fotografare. Mi hanno portato cinque volte all' ospedale e ho fatturato 50 mila euro».

Cos' è il denaro per lei?

«La mia grande malattia: mi dà il senso del successo e dell' identità. Sto cercando di curarmi con due psichiatri».

Fine pena a febbraio 2024.

«Vorrei la grazia. Per la sproporzione della pena e per come sono cambiato».

Perché, nel libro, sua madre è sempre nella sua testa?

«La chiamo di continuo, ma da piccolo mi sentivo sempre il meno amato. Il mio auto-sabotaggio nasce lì: se amo e sono bravo, temo di restare fregato. A Nina Moric e a Belén ne ho fatte di ogni. Infatti, oggi so che non era amore. E anche nella vita ne ho combinate sempre tante per dirmi che me l' ero cercata».

·         Ingiustizia. Il caso Armando Veneto spiegato bene.

Il procuratore disse: «Armando Veneto non c’entra nulla». Ma 11 anni dopo rischia il processo per corruzione. Simona Musco su Il Dubbio il 4 giugno 2020. La Dda smentì pubblicamente nel 2014 il suo coinvolgimento nella corruzione del giudice Giusti per la scarcerazione di un boss. Ma il primo giugno ha ricevuto un avviso di conclusione indagini: «In mano ho solo quello». La Procura aveva negato il suo coinvolgimento sei anni fa, definendolo un errore di interpretazione. Ma a distanza di 11 anni dall’inizio di quella indagine, Armando Veneto, decano delle Camere Penali, quello che per tutti è semplicemente «il maestro», è finito di nuovo nel mirino della Dda di Catanzaro. Con un’accusa pesantissima: corruzione aggravata e concorso esterno. Nelle sue mani ci sono solo 11 pagine, quelle che documentano l’avviso di conclusione delle indagini, con il quale la Dda lo ha formalmente informato che presto bisognerà finire davanti al gup che dovrà decidere se mandarlo a processo. Assieme a lui ci sono altre sei persone: Domenico Bellocco, alias “Micu u Longu”, Vincenzo Puntoriero, Gregorio Puntoriero, Vincenzo Albanese, Giuseppe Consiglio e Rosario Marcellino. La settima, quella che di questa storia rappresenta il centro, non c’è più. Si tratta di Giancarlo Giusti, l’ex giudice condannato per aver intrattenuto rapporti con la ‘ndrangheta ed essersi fatto corrompere per aiutarla, scarcerando i vertici del clan Bellocco, decapitato dagli arresti dell’antimafia di Reggio Calabria. Giusti si è suicidato nel 2015, a pochi giorni della conferma in Cassazione della condanna per quei suoi rapporti proibiti. Un gesto maturato, spiegò allora il suo legale, Giuseppe Femia, proprio a seguito della riapertura dell’inchiesta sulla scarcerazione dei tre esponenti della cosca Bellocco che ora vede coinvolto anche Veneto. Una storia iniziata nel 2009 e rimasta in un cassetto per anni, fino a quando, nel 2014, i sette indagati non ricevettero un avviso di garanzia. In quell’elenco, però, il nome del penalista non c’era. L’accusa sosteneva – allora come oggi – che quelle tre scarcerazioni erano state acquistate al prezzo di 120mila euro. Un “abbraccio” – questo il nome dell’inchiesta – tra ‘ndrangheta e istituzioni, che, secondo l’antimafia avrebbe stritolato anche Veneto, che di quell’affare sarebbe stato «l’intermediario». Lui in questa storia ci entra con un tempismo perfetto, sostituendo un collega nella difesa di uno dei presunti corruttori, proprio nel periodo in cui secondo l’accusa la corruzione stessa si consumava: agosto 2009. «Solo ora capisco compiutamente cosa significhi trovarsi da innocente in un processo penale in Italia», ha dichiarato il penalista ed ex europarlamentare dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini. Secondo la Dda, Giusti, all’epoca dei fatti componente del collegio del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria quale giudice relatore ed estensore, nell’udienza del 27 agosto 2009 aveva disposto l’annullamento delle ordinanze cautelari emesse a carico di Rocco e Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo, «ai vertici della cosca Bellocco» in cambio di 40mila euro a testa. E in questo gioco corruttivo Veneto avrebbe svolto dunque un’attività di «intermediazione» rispetto ai tre «corruttori», assieme ai Puntoriero, secondo l’antimafia «per agevolare le attività della cosca», garantendo la libertà ai suoi elementi di spicco. Tutto si basava su alcune intercettazioni, pescate nel corso di un’altra indagine a carico della potente cosca di Rosarno. E da quelle era emersa la figura di un “avvocato”, inizialmente identificato dalla procura proprio con Veneto, che difendeva i Bellocco davanti al Tdl di cui Giusti faceva parte. «Mi ero distaccato dalla vicenda, quando l’allora procuratore della Repubblica di Catanzaro era apparso su tutti i quotidiani spiegando che l’avvocato in questione non ero io», ha sottolineato il penalista. L’allora procuratore era Vincenzo Lombardo, che diresse le indagini assieme all’aggiunto Giuseppe Borrelli e al sostituto Vincenzo Luberto (ora indagato per corruzione aggravata dal metodo mafioso). E dopo aver ipotizzato inizialmente il coinvolgimento di Veneto, tornò sui propri passi, identificando il mediatore in Domenico Punturiero: era a lui, secondo gli inquirenti, che ci si rivolgeva con l’appellativo “avvocato”. In quella scarcerazione, spiegò allora Lombardo, Veneto non avrebbe avuto alcun ruolo. E tutto sembrò finire lì. Fino al primo giugno scorso, 11 anni dopo, quando il suo nome è riapparso nell’inchiesta ora diretta dal procuratore Nicola Gratteri, dall’aggiunto Vincenzo Capomolla e dal sostituto Elio Romano. Per capire perché toccherà attendere oggi, giorno in cui Veneto, finalmente, avrà in mano tutte le carte di questa vicenda. Per lui, nel frattempo, è arrivata la solidarietà dell’avvocatura. Una notizia «sconcertante», afferma la Giunta dell’Unione delle camere penali, che lo definisce una «autentica bandiera dell’avvocatura italiana», chiedendosi «cosa abbia indotto il medesimo Ufficio di Procura a rimettere mano – senza nemmeno avvertire l’esigenza di ascoltarlo – a fatti di oltre dieci anni fa». Perplessità condivisa dalle Camere penali calabresi, secondo cui Veneto rappresenta un «monumento» e un «esempio di lotta per l’affermazione dei principi del giusto processo e del diritto di difesa», mentre l’Osservatorio “Doppio binario e giusto processo”, fondato dallo stesso penalista «per denunciare le storture dei processi di criminalità organizzata rispetto al giusto processo, tra le quali la dilatazione delle indagini che spesso diventano permanenti ed infinite, con la sottrazione delle regole al controllo dei tempi», ha sottolineato come di questa «prassi distorta» proprio Veneto sia «rimasto vittima». La sua storia personale e professionale, conclude la nota, «la sua specchiata condotta e dirittura morale sono talmente solide da non poter essere scalfite e messe in discussione, agli occhi di tutti i giuristi (accademia e magistratura compresa) e cittadini che lo hanno conosciuto».

·         Ingiustizia. Il caso di Vincenzo Stranieri spiegato bene.

«Malato e punito due volte: papà è un condannato a morte». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 giugno 2020. Parla la figlia di Vincenzo Stranieri, recluso dal 1984 e internato dal 2016. «Il mio è un padre condannato a morte, non parla più perché per il tumore alla laringe gli hanno tolto le corde vocali, rifiuta da mangiare, si sta lasciando morire. Sono 4 anni che non riesco più a vederlo, perché lui stesso non vuole più vedermi». Sono le parole strazianti di Anna, figlia di Vincenzo Stranieri, recluso ininterrottamente al 41 bis dal 1992, anno nel quale fu istituito il carcere duro. Anna lo fa intervenendo durante il consiglio direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Stranieri non aveva ancora quindici anni. La sua vita è stata segnata all’età di ventiquattro anni quando, nel giugno del 1984, le porte del carcere si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Quando entrò in carcere, la figlia Anna aveva solo cinque anni. Eppure Vincenzo Stranieri, il “boss di Manduria”, che per la magistratura è stato il numero due della Sacra corona unita, non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, eppure ha già totalizzato – tra reati fuori (dall’associazione mafiosa al sequestro di persona) e quelli dentro (per almeno sei volte ha distrutto la sua cella) – una pena complessiva di 36 anni di carcere. Anni e anni di 41 bis gli hanno causato anche problemi di tipo psichiatrico. «Questa mia testimonianza – spiega Anna intervenendo in diretta al direttivo di Nessuno Tocchi Caino – può essere paragonata a quello di una figlia alla quale oramai lo Stato ha ammazzato il padre, perché dopo decenni di isolamento al 41 bis un padre normale non potrò più riaverlo. Se dovessero liberarlo non potrà vivere da me, perché a causa dei suoi problemi fisici e psichici dovrà essere ricoverato, come spero, in una struttura adeguata». Teoricamente la sua pena sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma invece di farlo uscire dal carcere gli è stata applicata una misura di sicurezza detentiva che lo costringe a stare chiuso in una casa agricola e sempre in regime di 41 bis. Sì, perché da noi esiste la figura degli internati. Ufficialmente non scontano una pena detentiva, perché hanno già pagato il loro conto con la giustizia. Per questo motivo, nel glossario del diritto penitenziario, tali figure vengono definite “internati”, per distinguerli dai “detenuti”. In sintesi, sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. L’internamento è una misura che risale al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi lo definiscono “reperto di archeologia giuridica”. Reperto che ha anche una definizione ben precisa, “il doppio binario”, ovvero un doppio sistema sanzionatorio caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: le pene, ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest’ultimo, e le misure di sicurezza, imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell’autore del reato e di durata indeterminata. La Corte Europa ci bacchettò su questo punto specifico. Sentenziò che non si può giustificare l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva solo in ragione della funzione preventiva dalla stessa svolta, se poi di fatto la sua esecuzione non si differenzia da quella di una pena. Proprio perché anche le misure di sicurezza hanno carattere afflittivo, è necessario assicurare che la differenza di funzioni tra pene e misure di sicurezza si traduca anche in differenti modalità esecutive, così da garantire i supporti riabilitativi e risocializzativi necessari a consentire al soggetto di interrompere quanto prima l’esecuzione della misura. Ma Vincenzo Stranieri è uno di quei casi che sconfessano la finalità di questa misura che, ribadiamo, esegue sempre in 41 bis. È ridotto ad una larva umana, senza aver mai usufruito di un affidamento terapeutico, senza nessuna attività risocializzante. Quale pericolosità sociale può avere un soggetto che è entrato in carcere quando aveva 24 anni, ora ne ha 60, ed è malato terminale e pure con una grave patologia psichiatrica? Ma qui si pone anche la questione del 41 bis. Ha avuto senso per lui visto che nasce per evitare che un boss dia ordini alla propria organizzazione criminale e che, di fatto, lo ha portato, negli ultimi anni, a perdere il lume della ragione? Anna Stranieri parla di tortura, anzi paragona il 41 bis alla pena di morte. Non si può darle torto.

Vincenzo Stranieri è grave e la figlia fa lo sciopero della fame, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Anna, la figlia di Vincenzo Stranieri in carcere dal 1984 e in regime del 41 bis dal 1992, è in sciopero della fame dopo che il tribunale de L’Aquila ha respinto l’ennesima richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo perché malato di tumore. Una vicenda paradossale che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, risulta ancora pericoloso. Quindi il ministro della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Però nell’Istituto abruzzese il lavoro non c’è per gli internati. A denunciarlo era stata la radicale Rita Bernardini quando lo scorso luglio si rivolse al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, proprio per porre rimedio alla situazione: durante la visita di Pasqua dell’anno scorso, l’esponente del Partito Radicale, aveva ritrovato internati cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e la risposta fu: «Lo scopino per 5 minuti al giorno». Un altro che faceva il porta- vitto, le chiese: «Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?». E ancora un altro detenuto le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. «Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?». Rita Bernardini fece presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, era riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. Nel frattempo però le condizioni fisiche di Stranieri si erano aggravate, trasferito nella struttura protetta di Milano “Santi Paolo e Carlo” per ricevere le cure adeguate, ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere milanese di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando venne arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. «Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri che non ha mai smesso di lottare per suo padre – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tudel more; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano». Nel frattempo l’ultima batosta: per il Tribunale di sorveglianza, Stranieri può restare in carcere. Una decisione che va in controtendenza con le disposizioni dello stesso perito del giudice che consigliava il ricovero del detenuto in una proprietà della fondazione Don Gnocchi di Milano a causa del suo tumore che andrebbe monitorato presso strutture adeguate. Non può deglutire, né parlare. Si alimenta tramite un sondino e respira grazie alla tracheotomia. È dimagrito e non può camminare da solo. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante il sopraggiungere di questa grave malattia e abbia scontato tutti gli anni inflitti?

«A mio padre vogliono far fare la fine di Provenzano», scrive Damiano Aliprandi il 22 luglio 2016, su "Il Dubbio". La denuncia della figlia di Vincenzo Stranieri, da 24 anni al 41 bis e in cella a L’Aquila. Ha un tumore alla faringe e i 24 anni di 41 bis gli anno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio scorso, ma restavano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Parliamo di Vincenzo Stranieri. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. “Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano”. La sua denuncia è stata raccolta dalla radicale e presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Subito si è attivata chiedendo al capo del Dap, Santi Consolo, di intervenire sulla vicenda. Rita Bernardini conosce bene la situazione perché aveva già segnalato il grave problema del carcere di L’Aquila: durante la visita di Pasqua aveva ritrovato reclusi cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e ottenuto la risposta che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno. Uno che faceva il porta-vitto, le chiese “Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?”. Un altro ancora le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. “Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare? ”. Rita Bernardini fa quindi presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, sarà riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. A questo si aggiunge che a causa della sua malattia ha bisogno della chemioterapia: il carcere di L’Aquila sarà in grado di riservargli questo trattamento sanitario assolutamente indispensabile? Alla trasmissione Radio carcere, condotta da Riccardo Arena, la Bernardini ha posto in diretta la questione a Santi Consolo. Il capo del Dap le ha risposto che purtroppo tutto rientra nella legge, dove è espressamente previsto che le persone ritenute ancora pericolose possono essere sottoposte a misura di sicurezza. Tuttavia ha segnalato il problema al magistrato di sorveglianza il quale ha ritenuto che Vincenzo Stranieri, nonostante i suoi gravi problemi di salute fisica e mentale, sia compatibile con la misura di sicurezza in 41 bis. Consolo ha comunque espresso il parere personale - in sintonia con quello della Bernardini - che tale regime in 41 bis non è compatibile nemmeno con la finalità del lavoro, per questo ha allertato il Provveditore regionale per chiedere chiarimenti. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante abbia scontato tutti gli anni inflitti e il sopraggiungere di questa grave malattia? Ma come denuncia efficacemente Rita Bernardini, è giusto che la figlia Anna, oggi che il padre si trova nella cosiddetta “casa di lavoro” dell’Aquila, si sia sentita umiliata quando con arroganza qualcuno, alla sua garbata domanda “come sta mio padre?”, ha risposto “è in cella!”. La Bernardini conclude amaramente: “Anna Stranieri lo sa bene che suo padre è in cella e che ci rimarrà contro ogni principio di legalità e di umanità per altri due anni, ma era proprio necessario calpestare i suoi sentimenti?” Nel carcere di L’Aquila, in realtà, è stata creata una casa di lavoro per internati sottoposti al regime previsto dall’art 41 bis op. Attualmente sono presenti, oltre a Stranieri, Filippo Guttadauro, Salvatore Corrao, Salvatore Nobis e Pasquale Scarpa. Sono stati collocati nella dismessa area riservata del carcere e sono trattati come detenuti particolarmente pericolosi, La loro gestione è affidata al Gom, lo speciale reparto operativo mobile. Salvatore Corrao è internato da due anni e mezzo, gli altri da circa 7 mesi. Sono in gruppi da due persone, non hanno un programma trattamentale, non sono seguiti da educatori e criminologi. Il magistrato di sorveglianza non è mai andato in carcere a verificare le condizioni in cui si trovano questi internati nonostante le molteplici richieste avanzate. Da qualche mese gli hanno consentito di lavorare, solo dopo le ripetute richieste avanzate dal difensore, ma solo con mansioni di scopino o porta vitto, A distanza di oltre due anni di reclami e ricorsi rigettati, anche il loro comune difensore, Piera Farina, ha perso la speranza. Scarpa e Nobis nel mese di febbraio hanno presentato una licenza per gravi motivi di famiglia ma non hanno avuto riscontro dal magistrato. Corrao si trova nella peggiore delle condizioni: dopo 9 anni di detenzione (di cui 7 in regime di alta sorveglianza e 2 in 41 bis op) ha visto rigettarsi licenza premio, riesame anticipato della pericolosità e revoca anticipata del 41 bis. A febbraio scorso scadevano i due anni di casa lavoro ma il magistrato si è determinato a prorogarla di 6 mesi e il tribunale di sorveglianza de L’Aquila cui è stato proposto appello non ha ancora depositato l’ordinanza. Il ministro della Giustizia gli ha prorogato il regime speciale a maggio e si è in attesa dell’udienza. Anche Scarpa ha avuto la proroga del regime speciale a gennaio e il tribunale di sorveglianza di Roma investito del reclamo ha rigettato anche la questione di legittimità costituzionale sollevata, ritenendola infondata. Appare evidente che sia stato creato un nuovo e mascherato "fine pena mai" e magistrato di sorveglianza e tribunale di sorveglianza di Roma giocano a palla avvelenata.

Sangue, bossoli e mare, scrive Tiziana Magrì su “Narco Mafie” il 22 set 2015. La mafia tarantina e la sua storia si articolano su un territorio complesso, strettamente legato al mare e a tutto quello che dal mare può venire. Ripercorriamone la storia recente allo scopo di ritrarre un territorio dove, al novero dei traffici illeciti, si è aggiunto il business portato dai migranti e dall’accoglienza a loro destinata sul suolo italiano. Il 3 luglio scorso, il governo, ha deciso per l’ennesima volta il futuro della città di Taranto, firmando l’ottavo decreto salva-Ilva. Un decreto che, se da un lato dovrebbe garantire 15 mila posti di lavoro, dall’altro salva ancora una volta un colosso aziendale che negli anni, dentro e fuori dalla fabbrica, è stato causa di malattie e morti. Ancora un volta, quindi, scoppia la bolla di sapone di quello che, ciclicamente, media e opinionisti chiamano “caso Taranto”; che d’altronde, suona ormai quasi “città criminale”. La morte di Taranto non è solo una questione del presente: la città sullo Jonio ha alle spalle un passato difficile (abbastanza recente), quello che va dalla fine degli anni Ottanta agli anni Novanta. È il tempo delle pistole fumanti, il periodo di piombo della criminalità tarantina. Una guerra cruenta che ha lasciato sull’asfalto, tra boss, affiliati e vittime innocenti 169 persone. Erano gli anni dei fratelli Modeo (fratellastri, in verità, stesso padre ma madri diverse): Antonio, il Messicano; e poi Riccardo, Giancarlo e Claudio. Sono stati loro a regnare sulla città. Soprattutto Antonio Modeo, in prima fila in Lotta Continua durante gli anni Settanta, ideatore prima e creatore poi della mala tarantina. Una mafia moderna, che vuole uscire dal provincialismo per diventare borghese. Modeo, faccia da duro, si presentava come un uomo ambizioso e intelligente. Soprannominato il Messicano per quella sua somiglianza con Charles Bronson, attore protagonista del film Il Giustiziere della Notte. Correva l’anno 1986 e il clan governava incontrastato sul tarantino. Al Messicano, affiliato alla Nuova camorra pugliese da Raffaele Cutolo in persona e Aldo Vuto, non manca la vena imprenditoriale: con la ditta Italferro Sud monopolizza il mercato della rottamazione e quello della mitilicoltura grazie alla Cooperativa Praia a Mare, estendendo la propria influenza anche fuori dai confini della Puglia. Antonio Modeo, con i suoi fratelli, viene arrestato e processato dal Tribunale di Bari. Ma tra loro i rapporti non sono facili. Sono in guerra per contendersi il monopolio del mercato della droga. Una frattura insanabile, che determina presto cambiamenti di alleanze e strategie tra i due clan neonati: da un lato Antonio, sostenuto dai boss Salvatore De Vitis, Matteo La Gioia, Orlando D’Oronzo, Cataldo Ricciardi e Gregorio Cicale; dall’altro i fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio, appoggiati dal boss dell’alto barese Salvatore Annacondia. È da qui che prende avvio la lunga e sanguinosa faida che trasformerà Taranto. Il 21 agosto 1989, su consenso di Cutolo, viene ammazzato Paolo De Vitis, vecchio capo della mala tarantina. Il giorno dopo, sei colpi di pistola colpiscono a morte Cosima Ceci, madre dei Modeo, nella sua casa al quartiere Tamburi. In questa trama, nell’incapacità di spezzare il filo, si delinea, chiaro, il legame grazie al quale politica e mafia si intrecciano. La Commissione Antimafia porta l’attenzione su Taranto e le sue vicende. Amministratori come Alfonso Sansone, Giancarlo Cito e l’assessore A. F., politico di scuola democristiana, finiscono sotto osservazione. Il malaffare politico è trasversale. Nel 1995, Giancarlo Cito viene rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e indagato per concorso in omicidio (poi assolto) per l’uccisione del boss Matteo La Gioia (rivale del clan Modeo). Cito, futuro sindaco di Taranto e parlamentare, venne condannato nel 1997 in concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con la Sacra Corona Unita. Sarà Salvatore Annacondia, boss della malavita della zona nord del barese (e le cui rivelazioni hanno raccontato molto della mafia pugliese), affiliato al clan dei fratelli Modeo, a rivelare la complicità fra Cito e i Modeo. Il 16 agosto 1990, a Bisceglie, mentre rincasava da una giornata in spiaggia, viene freddato Antonio Modeo, all’epoca latitante. Il quadro della violenta malavita tarantina dell’era Modeo conoscerà l’inizio della sua fine proprio con la morte del Messicano, voluta da Annacondia, con la complicità, non certo di secondo piano, degli stessi Gianfranco e Riccardo Modeo. Da questo momento comandano loro, e dal carcere dirigono la guerra contro il nuovo boss Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis (subentrato al padre Salvatore). La città è in mano ai killer. Tutta l’Italia ha gli occhi puntati su Taranto. Inizia così la caccia ai nuovi mandanti ed esecutori. Inizierà la grande stagione dei blitz e del maxi-processo Ellesponto. I fratelli Modeo (Riccardo, Gianfranco e Claudio), Vincenzo Stranieri, braccio destro di Rogoli, Salvatore Annancondia, e altri esponenti criminali vengono condannati al 41bis, al carcere duro, capo d’accusa: associazione di stampo mafioso. Durante la trattativa Stato-mafia anche i fratelli Modeo parlano. Dal declino dei Modeo emergono cellule indipendenti. Da allora, in molti sono stati scarcerati o ammessi a misure alternative e per la maggior parte rientrati nel vecchio ruolo di gestori di attività illecite. Rispetto agli anni Novanta è la logica criminale a essere cambiata: non più contrasto, ma collaborazione. Identica è invece la vocazione autonoma della criminalità tarantina. Oggi come allora non ha instaurato veri e propri sodalizi con altri soggetti criminali. Non c’è la recrudescenza degli anni Ottanta e Novanta. Piuttosto un esercizio costante di potere sul territorio: l’estorsione, l’usura e il contrabbando sono fenomeni diffusi e più o meno equamente ripartiti tra i diversi clan. La nuova dimensione della mafia tarantina sono gli investimenti nell’economia legale di denaro illecitamente accumulato. Bar, supermercati e, su tutto, sale da gioco e centri scommesse. L’aspirazione è di entrare nei luoghi decisionali. Nell’ultima maxi-operazione degli agenti della squadra mobile di Taranto, condotta in collaborazione con la Dda di Lecce e denominata Alias, sono emersi chiari i rapporti tra mafia e politica. Il clan che tira le fila è quello capeggiato da Orlando D’Oronzo e Nicola De Vitis, entrambi già condannati nel processo Ellesponto per il reato di cui all’art. 416 bis, ed entrambi in libertà dopo oltre vent’anni. I due avevano costruito un’associazione dedita a rapine, estorsioni e traffico di stupefacenti ed erano pronti a scatenare una nuova guerra, anche per vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle. Tra i 52 arresti scattati con l’operazione Alias, si fa notare quello di Fabrizio Pomes, ex-gestore del Centro sportivo Magna Grecia ed ex segretario provinciale del Nuovo Psi. Pomes, secondo gli inquirenti, era un fiancheggiatore dell’organizzazione dei boss D’Oronzo-De Vitis per conto dei quali creava cooperative per la gestione della struttura sportiva di proprietà comunale. Nel prosieguo dell’inchiesta, Alias 2, è emerso il nome della neo consigliera provinciale Giuseppina Castellaneta, moglie del fratello di Nicola De Vitis e accusato di estorsione ai danni di Gino Pucci, ex presidente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata di gestione dei rifiuti. I clan del vecchio ordine con al seguito nuove leve vogliono, ora come ora, giocare pulito e mettere le mani sull’imprenditoria locale che resiste alla crisi. L’ingerenza della criminalità nel comparto dei lavori pubblici si presenta sotto molteplici aspetti. Un esempio illuminante: i mezzi per la movimentazione terra, che vengono presi a nolo da un’azienda esecutrice dei lavori, sarebbero messi a disposizione da imprese direttamente riconducibili ai clan. In provincia (vero epicentro del potere mafioso è la zona Manduria/Sava), dove i capi indiscussi del litorale jonico fanno ancora riferimento a Vincenzo Stranieri, sottoposto al carcere duro, capo assoluto dello spaccio di stupefacenti su quasi tutto il territorio tarantino. Il tristemente noto pluri-omicidio del 17 marzo dello scorso anno, in cui furono uccisi Domenico Orlando, pregiudicato in semilibertà, la sua compagna Carla Fornari e il suo figlioletto di tre anni, Domenico Petruzzelli, ha dato prova di come la contesa del mercato della droga sia in fase di riassestamento con l’uscita dalla galera dei vecchi leader e la smania dei nuovi intraprendenti boss. Sono proprio le nuove leve ad andare alla ricerca di nuovi accordi e alleanze. I D’Oronzo/De Vitis, ad esempio, sono in relazione con i Mollica di Africo, con cui stanno stringendo accordi per l’approvvigionamento di sostanze stupefacenti dai canali del Sud America, Africa e Sud-est asiatico.

“Dentro una vita” è il racconto di 18 anni “carcere duro”. Privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alle regole del «41 bis» (la legge che regolamenta il regime carcerario riservato a chi è accusato di reati di criminalità organizzata), raccontate dal “numero due” della Sacra corona unita pugliese, Vincenzo Stranieri. La storia di un bullo di paese che diviene un boss: furti, rapine, sequestri di persona, attentati, rituali di affiliazione. Poi, nel 1984, l’arresto. Vincenzo Stranieri, detto «Stellina», non sta scontando ergastoli né condanne per omicidio. Nonostante tutto nessuno è in grado di dire quando tornerà libero. Dopo 25 anni di prigionia l’ex boss, quarantanovenne, è stanco. Non è un pentito, ma è certamente un uomo che sa di aver sbagliato: «Se mi si vuole dare una possibilità d’inserimento, dimostrerò che sono cambiato». Ma in Italia le cose vanno diversamente. “Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciassette anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto” (dalla prefazione al volume di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino). L’autore è Nazareno Dinoi, Giornalista, scrive di cronaca giudiziaria e nera per il ‘Corriere del Mezzogiorno’ della Puglia. Ha scoperto, portandola alla ribalta nazionale, un’oscura storia di violenze e abusi sui giovani detenuti del carcere minorile di Lecce da parte delle guardie carcerarie. Per quei fatti il Tribunale di Lecce non è riuscito a raggiungere una sentenza prosciogliendo tutti per prescrizione dei reati. Vive a Manduria (Taranto) e collabora con diverse testate, anche nazionali. Ha scritto ‘Anime senza nome’ (1999) e ‘Kompagno di sogni’ (2003). LE PRIME PAGINE DEL LIBRO….

Prologo

Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Vincenzo Stranieri non aveva ancora quindici anni. Un’impressionante sequenza di arresti e di scarcerazioni ha poi segnato la sua vita da uomo libero sino all’età di ventiquattro anni quando, il 7 giugno del 1984, le sicure si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Oggi Vincenzo Stranieri di anni ne ha 49 e il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Il boss manduriano che per la magistratura e i collaboratori di giustizia è stato il numero due della Sacra corona unita di Pino Rogoli, l’ex piastrellista di Mesagne divenuto capo della potente «quarta mafia» italiana, è ancora considerato uno dei 430 criminali più pericolosi e irriducibili d’Italia.

Per questo è sottoposto al regime di carcere duro conosciuto come 41 bis. I reati per i quali è stato giudicato colpevole sono sequestro di persona, traffico di droga, detenzione di armi, estorsioni e associazione mafiosa. Minacce, danneggiamenti e violenza, invece, sono tutti reati che ha maturato durante la sua lunga vita di recluso indocile. Per ben sei volte ha distrutto la cella dove si trovava rinchiuso. Non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, ma nonostante tutto nessuno è ancora in grado di dire quando tornerà libero.

Il principio

A quindici anni Stranieri viveva già con una donna più grande di lui di cinque anni che mise incinta prestissimo. A diciotto anni aveva moglie, due figli (avuti quando era ancora minorenne) e un’attività criminale che rendeva abbastanza da permettergli un’esistenza più che agiata. Quanto gli costerà tutto quel successo, quel lusso, però, lo capirà in seguito ma senza pentimenti. Il super detenuto, infatti, pur dissociandosi, in seguito, dal crimine, si è quasi sempre dichiarato innocente. A sedici anni il primo figlio, Antonio, a diciassette un’altra bambina, Anna. A quell’epoca aveva messo da parte quattro condanne per un totale di sedici mesi da scontare, mentre un decimo della sua vita lo aveva passato in galera per furti e violenza aggravata. E dire che quando aveva ventidue anni, tra sconti di pena, detenzione già fatta, condoni e amnistie, il suo debito con la giustizia era sceso ad appena venticinque giorni di cella. Poco più di tre settimane dietro le sbarre e sarebbe stato un uomo libero. Ma quella vita portata all’eccesso non ammetteva soste. Così, una sera d’estate del 1984, fu arrestato per il rapimento della manduriana Anna Maria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco (protagonista, quest’ultimo, due anni dopo, dello scandalo del Primitivo avvelenato al metanolo).

Dentro una vita

Sulla soglia del mezzo secolo di vita, tre quarti dei quali passati in gabbia, spinto dal desiderio della figlia Anna che vuole raccontare al mondo la storia di un padre che non l’ha vista crescere, sposarsi, diventare mamma, il detenuto speciale ha deciso di raccontarsi. E lo fa nell’unica maniera possibile per uno nelle sue condizioni: impugnando la penna (fosse un uomo libero avrebbe acceso il computer) e tracciando linee d’inchiostro sulle pagine ingiallite di una grossa computisteria che conservava da tempo.

Racconto – I

Oggi, 28 aprile 2008, è lunedì e mi trovo rinchiuso nel carcere di Opera a Milano. Tante volte mi sono chiesto a cosa potesse servirmi questo quadernone che porto in giro da otto anni. Ora, improvvisamente, mi è chiaro: ne farò un libro, con l’aiuto del Buon Dio e della sua Gloria. Lo leggerà qualcuno? A volte i buoni consigli vengono ascoltati, altre volte no. Io dico che chi mi ascolterà diventerà bravo e andrà in Paradiso. Lo spunto per questo libro nasce dalla proposta di un mio nuovo amico, un giornalista del mio paese che personalmente non conosco. L’idea, però, è partita da una persona a me molto cara, mia figlia Anna, a cui voglio un bene dell’anima come ne voglio a mio figlio Antonio, a mia moglie Paola, ai miei nipoti, a mia nuora e mio genero. Anche per loro ho accettato di offrire questo contributo, spero utile. Nel raccontare la mia vita ometterò alcuni particolari, a volte anche i nomi. Cercherò di descrivere ciò che ho vissuto in questi quasi cinquant’anni di “non vita” in cui è accaduto di tutto. Cose belle poche. E tante cose brutte.

Quando, agli inizi del 2008, si fa convincere dalla figlia Anna a raccontare quella che lui stesso definisce la sua «non vita», Stranieri si trova rinchiuso nella sezione di massima sicurezza del carcere Opera di Milano. In quella città c’era stato più volte, da uomo libero e poi da latitante. Ed è da lì che inizia la sua memoria.

Racconto – II

Porcaccia miseria, sono passati 24 anni dall’ultimo arresto. Ad Opera a Milano, dove mi trovo adesso, c’ero già stato esattamente 24 anni fa e qualche mese. Sarà un caso? Proprio 24 anni fa mi trovavo in questa città, da latitante, ma libero. Mi cercavano per alcune rapine commesse nei comuni della provincia di Taranto. Mi presero qui a Milano e dopo pochi giorni mi trasferirono a Taranto per affrontare il processo che finì con il confronto con le mie stesse vittime che mi scagionarono. Fui rimesso in libertà a maggio del 1984 e il 7 giugno di quello stesso anno mi riarrestarono per il sequestro Fusco. Da allora non ho più lasciato questi luoghi infami. Le carceri le puoi dipingere come vuoi, puoi anche ricoprirle d’oro, ma restano pur sempre luoghi di sofferenza. Chi dice o crede il contrario si sbaglia enormemente, parola mia. Forse qualcuno mi dirà che il carcere deve per forza essere un luogo di sofferenza. Ha ragione, ma solo perché non è lui che soffre, ma soffrono altri. Vale bene la parola di Gesù che dice: «Ipocrita chi carica il peso sugli altri quando su di lui non sposterà nemmeno una piuma».

Conosciuto dagli inquirenti come «Stellina», per via della sagoma a cinque punte tatuata sulla fronte, Stranieri è stato ospite di tutte le principali carceri italiane dove ancora si trova sottoposto al regime riservato ai mafiosi più pericolosi e ai terroristi. Più della metà della sua vita l’ha trascorsa ininterrottamente rinchiuso. Non una detenzione semplice: da diciassette anni vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno, anche di accarezzare i suoi parenti che lo vanno a trovare non più di una volta al mese. Durante i colloqui la sua voce è filtrata da un interfono per cui nessuno dei familiari, oggi, sarebbe in grado di riconoscerla dal vivo. I suoi figli, nel frattempo, sono diventati adulti e genitori. Il 23 maggio del 1992, diciassette anni dopo quel primo arresto nel minorile di Lecce, la sua permanenza carceraria fu irrimediabilmente e drammaticamente influenzata dall’attentato di Capaci, a Palermo, in cui il sicario di Totò Riina, Giovanni Brusca, azionò il telecomando che fece esplodere cinque quintali di tritolo uccidendo il capo della Superprocura nazionale antimafia, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La risposta dello Stato a quel terribile crimine, fu l’istituzione della «carcerazione di sicurezza» che prevedeva la cancellazione dei diritti per tutti i detenuti con condanne per reati di natura mafiosa. Stranieri, nel frattempo in carcere per il sequestro Fusco, era stato coinvolto nel primo maxi processo contro la Nuova camorra pugliese di Raffaele Cutolo e poi in quello sulla Sacra corona unita di Rogoli. In questi processi, istruiti prima dalla Procura di Bari e poi da quelle di Lecce e Brindisi, fu ritenuto colpevole di aver fatto parte di un’associazione organizzata e pertanto soggetto all’isolamento. Così, nell’estate del 1993, dopo nove anni di detenzione normale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, firmò personalmente la lista dei primi 236 dannati da internare. In quell’elenco, oltre al manduriano Stranieri, c’erano Bernardo Brusca, Vito Buscemi, Salvatore Buccarella, Giuseppe Calò, Raffaele Cutolo, Nicola Di Salvo, Giacomo Gambino, Michele Greco, tutta la famiglia dei Madonia, Sebastiano Mesina, Franco Parisi, Antonio Perrone, Giuseppe Piromalli, Giuseppe Rogoli, Biagio Sciuto e tanti altri. I padrini, i capi bastoni e i gregari della mafiosità italiana, insomma, furono isolati in celle singole nel carcere dell’Asinara e sottoposti a regole rigidissime contenute nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis.

Racconto – III

Sono passati 24 anni e la mia vita è piena di ricordi. La memoria è l’unica macchina del tempo che viaggia alla velocità del pensiero. Con la mente puoi andare velocissimo, in un secondo puoi tornare a quando eri bambino, travalicare le frontiere dello spazio e del tempo. Grande cosa è la mente umana. Purché la si sappia controllare. Se la lasci troppo libera, quella, è come un leone che ti sbrana. A volte è meglio non pensare troppo. Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza ma ci ha dotati di un valore che è il libero arbitrio.

È un valore troppo grande che deve essere usato a piccole dosi sennò sono dolori e sofferenze, come quelle che ho passato e sto passando io e tutte le persone che mi amano. Certo, ognuno può fare della sua vita quello che vuole. Da ragazzi si è onnipotenti. Uno crede di essere furbo, più furbo dei suoi genitori, dei nonni, di tutti quelli che lo hanno cresciuto. Loro ti dicono di stare attento, di non commettere errori e tu, a quell’età, sei infastidito di tante raccomandazioni.

Inizia proprio lì la storia di tutto: in questo negare i consigli è racchiuso l’inizio della perdizione. Non ascolta oggi, non ascolta domani e sei fritto, per sempre. C’è poi chi nasce con una stella storta, come quella che mi son fatto tatuare sulla fronte. Succede così che quella stella te la porti per tutta la vita e sta a te decidere se deve continuare in quel modo o se è meglio mettere un freno a quella vita troppo di fretta. La mia è andata avanti così, per niente bene. Proprio per niente. Giorni fa ero sdraiato sul letto, guardavo di fronte il cancello chiuso, le sbarre alla finestra, cemento tutto intorno. Per quanto? Per 20 ore al giorno e per tanti anni. Bello, vero? Bello un cavolo! Non c’è niente di bello in un carcere, lo ripeto, tutto è sofferenza e non credete alle scemenze che vi raccontano sulla vita carceraria perché qui tutto è dolore. L’unico vantaggio di questa sofferenza è che ti fa crescere e puoi incontrare Dio. A me è successo. È nel dolore che ritrovi il Signore e ti avvicini a lui che è stato processato e condannato ingiustamente, portato a morire da innocente sulla croce dal potere di allora.

Venti ore al giorno a guardare il soffitto

Il detenuto in 41 bis non ha diritti. Può avere un solo colloquio al mese, con familiari o conviventi di grado diretto, della durata non superiore ad un’ora. In alternativa all’incontro visivo può avere una telefonata ogni trenta giorni. In questo caso, però, il parente deve recarsi nella sede dove è detenuto il congiunto e da lì telefonargli attraverso la rete interna. Ogni colloquio deve essere ascoltato e registrato. L’internato può godere di due ore d’aria al giorno più altre due di socialità (mensa, chiesa, palestra, biblioteca, cinema-tv). Per le restanti venti ore rimane da solo chiuso in cella. Nel 2009 un ulteriore inasprimento delle misure detentive speciali ha ridotto a due ore il tempo da trascorrere fuori dalla cella. Altre restrizioni nell’ora di aria che in gergo viene definita “passeggio”, vietano raggruppamenti superiori a quattro detenuti per volta. Essi non devono avere la stessa provenienza geografica. Il Ddl 733 convertito in legge il 22 luglio del 2009 (Pacchetto sulla sicurezza), ha inasprito ulteriormente le norme del 41 bis prevedendo l’internamento di tutti i detenuti con tale regime in un unico penitenziario situato su un’isola. La famiglia può inviargli due pacchi al mese, del peso non superiore ai dieci chili, più altre due spedizioni straordinarie all’anno (Natale, Pasqua), contenenti abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature e cibo. Sono vietate persino le bevande gassate come l’aranciata. Tutto viene controllato dall’addetto alla censura: indumento per indumento, pezzo per pezzo, pagina per pagina. Anche i libri devono essere attentamente visionati e superare il controllo. Il colloquio si svolge attraverso un vetro e, di solito, con l’ausilio di un citofono. Tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza è sottoposta a visione. Il fornellino scaldavivande è consentito solo durante il giorno. Il detenuto può ricevere somme limitate di denaro (attualmente sino a 500 euro mensili); è vietata l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive; è impossibile la nomina e la partecipazione a rappresentanze dei detenuti come anche lo svolgimento di attività artigianali per proprio conto o per conto terzi. Gli ospiti delle sezioni del 41 bis non possono frequentare corsi scolastici, possono studiare solo per conto proprio e l’unico intermediario con i professori è un educatore. A queste limitazioni del decreto ministeriale, vanno aggiunte quelle imposte a discrezione del singolo direttore del carcere. Per i figli minori di 12 anni, inoltre, è consentito un solo colloquio visivo al mese senza vetro divisorio e per la durata non superiore ai 10 minuti. In Italia sono diffusi i casi di figli di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psichiatrici. Quando fu istituito l’isolamento carcerario per i mafiosi, i due figli di Vincenzo Stranieri, Antonio e Anna, avevano già superato i dodici anni di età per cui ora non ricordano, se non vagamente, contatti diretti, pelle a pelle, con il padre. Il primogenito, caratterialmente più debole rispetto alla sorella, ha sviluppato e sta pagando questo distacco sino all’estremo limite della follia con continui ricoveri in reparti psichiatrici. Torniamo al 41 bis: naturalmente per chi vi è sottoposto la vita diventa un inferno. I segni di un inevitabile stress emotivo emergono dalle lettere che Vincenzo Stranieri invia costantemente alla famiglia. In una di queste, datata 13 marzo 2008, scrive alla figlia Anna.

“Ciao tesoro di papà, come stai? Spero bene di te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly e tutti di casa. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua del Signore che vi auguro di trascorrere serenamente e felicemente tutti in famiglia con la più viva speranza che la prossima la passiamo insieme, se il Buon Dio vuole. Ne sono passate 24 di Pasque, è forse pure l’ora di tornare a casa. (…) Papà, state appresso agli avvocati. Per i pacchi usate la posta celere. Dice che ci mette un giorno ad arrivare e vediamo… la prima volta mandate roba che non va a male salumi, formaggi, pane, capicollo, lo potete mettere pure sotto vuoto in cellofan o nelle buste tagliato a pezzi come facevate a Spoleto. - Parlando della prossima seduta in Tribunale del riesame che dovrà decidere la proroga del carcere duro, puntualmente riconfermata, scrive: “Speriamo vada bene. Dopo 16 anni forse è pure l’ora che cambi qualcosa in meglio perché di peggio abbiamo già visto di tutto. (…) Vi mando un bacione forte a te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly, Antonio e Giusy e tutti di casa. Vi voglio un mondo di bene. Tuo papà Vincenzo”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza Opera a Milano)

Il bisogno d’interrompere quel tremendo isolamento compare in maniera ancora più evidente in una delle tante corrispondenze con il sottoscritto.

“Caro Nazareno, vedi se c’è qualcuno disposto ad offrirmi un lavoro per corrispondenza, un giornale, magari, o qualcos’altro e se vieni a trovarmi con qualche parlamentare vorrei discutere proprio di questo. Qua stiamo venti ore al giorno in cella a poltrire. Moltiplicato per 25 anni sono un’enormità, diciassette di 41 bis, per cosa poi? A loro dire per recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere pure la ragione: venti ore a guardare il soffitto, a cosa e a chi servono?”. (Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza dell’Aquila, 16 marzo 2009)

"La figlia del boss scrive alla ministra Cancellieri". Sulla “LA VOCE di Manduria” giornale online è stata pubblicata la lettera che di seguito riportiamo. La lettera è stata spedita al Ministero della Giustizia. E' di Anna Stranieri che si rivolge al Ministro Cancellieri chiedendo pari opportunità per suo padre, detenuto da 30 anni, più dei due terzi, 22 anni, in regime di 41 bis. In parole semplici: in segregazione. Il caso è stato ampiamente trattato quando nel seguito si parla della provincia di Taranto e delle sue problematiche taciute. "Pregiatissima ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Mi chiamo Anna Stranieri e sono la figlia di Vincenzo Stranieri, detenuto ininterrottamente da 30 anni, 22 dei quali in regime di carcere duro del 41 bis. Lei ha detto al Pese che il Suo intervento per scarcerare la signora Giulia Ligresti l’avrebbe fatto per chiunque anche per i delinquenti e i mafiosi. Ebbene, mio padre è stato condannato perché ritenuto un mafioso ma non ha mai ucciso nessuno. Io sono cresciuta senza averlo mai potuto toccare e accarezzare e ho potuto vederlo solo una volta al mese, quando mi è stato possibile farlo, avendolo inseguito in tutte le carceri d’Italia dove è stato. Ora è gravemente malato, è stato tre volte rinchiuso in manicomio, soffre di manie di persecuzione, è delirante e a volte non riconosce nemmeno noi parenti. Non le chiedo di fare per lui ciò che ha fatto per la signora Ligresti, ma almeno le faccia togliere il 41 bis per dare la possibilità a noi familiari di visitarlo quando ci pare e di curarlo come merita ogni ammalato. Mantenga fede a quello che ha detto a noi italiani per giustificare il suo interessamento per la signora Ligresti, sua amica. Mi faccia dimenticare con un suo interessamento per mio padre che è stata lei a mettere la firma sugli ultimi due decreti di conferma del 41 bis per mio padre malato che ha dimenticato cosa sia la libertà."

Anna Stranieri, Manduria.

Atto Camera. Interrogazione a risposta orale 3-00826 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI lunedì 4 gennaio 2010, seduta n.262.

ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:  l'ex boss della Sacra Corona Unita Vincenzo Stranieri, oggi 49enne, aveva 24 anni quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere dove sta espiando - secondo il provvedimento di cumulo pene emesso l'11 aprile del 2007 dalla procura generale della Repubblica di Taranto - la pena complessiva di anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro (non sta scontando ergastoli, quindi, né ha condanne per omicidio);

già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla Sacra Corona Unita di Pino Rogoli quando era già in carcere, Stranieri ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo nato dall'inchiesta cosiddetta «Corvo» dove è imputato a piede libero per un contrabbando di tabacchi lavorati esteri (niente a che fare con l'associazione mafiosa), contrabbando al quale secondo l'accusa avrebbe partecipato da dentro il carcere ristretto in regime di 41-bis;

Vincenzo Stranieri, attualmente detenuto nel supercarcere di L'Aquila, è sottoposto ai regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ininterrottamente da 17 anni, cioè dal momento della sua istituzione avvenuta nell'agosto del 1992;

il 3 dicembre 2009, con decreto del Ministro della giustizia, a Stranieri è stata notificata l'ennesima proroga del regime di carcere duro, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: «non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell'organizzazione criminale di appartenenza»;

oltre alle note informative e alle segnalazioni degli organi investigativi e giudiziari che di decreto in decreto si ripetono nell'ultimo provvedimento applicativo del 41-bis compare una «novità» segnalata dalla direzione distrettuale antimafia (DDA) di Lecce che secondo il Ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata;

nella suddetta nota, la DDA di Lecce si esprime testualmente come segue: «Da segnalare infine il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatagli a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l'interessamento di "persone sempre più influenti" che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!). Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l'altro, indicare "con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari", se "avesse letto il libro di Antonio Perrone" (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all'ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all'articolo 416-bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto "quello di Salvatore Mantovano" ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l'autore è stato ucciso (ma sbaglia il cognome perché la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente "storico" e di primo piano della criminalità mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e "responsabile" del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all'interno della famiglia "naturale" e di quella "mafiosa" di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri "quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria". Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all'articolo 41-bis...»;

un giornalista in questa vicenda esiste effettivamente e agli interroganti risulta essere Nazareno Dinoi, corrispondente da Lecce e Taranto del Corriere del Mezzogiorno (inserto pugliese del Corriere della Sera) e coautore con Vincenzo Stranieri del libro di prossima pubblicazione «Dentro una vita», con prefazione del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D'Elia, nel quale l'ex boss di Manduria racconta la sua storia da delinquente e, poi, di detenuto da 17 anni al carcere duro;

agli interroganti risulta altresì che Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, avrebbe avanzato al Ministero della giustizia formale richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, ricevutane risposta negativa, avrebbe deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità del carteggio -:

se il giornalista di cui si riferisce nella nota della DDA di Lecce corrisponda al nome di Nazareno Dinoi e se corrisponda al vero che il giornalista abbia avanzato al Ministero della giustizia richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, in seguito, deciso di intrattenere con lui un rapporto epistolare finalizzato alla scrittura di un libro sulla storia dell'ex boss di Manduria;

in tal caso, se non intenda accuratamente verificare che i «dati» e i «fatti» indicativi dell'attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata segnalati dalla DDA di Lecce siano tali da giustificare la permanenza ancora, dopo 17 anni, del detenuto in regime di carcere duro. (3-00826).

·         Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Morte di Raciti, Speziale uscito dal carcere: “Ho fatto resistenza, non omicidio”. Le Iene News il 17 dicembre 2020. Dopo avere scontato la condanna definitiva a 8 anni e 8 mesi per la morte dell’ispettore capo di polizia Filippo Raciti, Antonino Speziale esce dal carcere. Ismaele La Vardera, che ci ha raccontato i mille dubbi nella ricostruzione ufficiale di quella morte, lo riaccompagna a casa. “Ho avuto la coscienza sempre pulita, io ho fatto resistenza, non omicidio”. “Non mi sembra neanche vero. La prima cosa che farò è abbracciare la mia famiglia, la cosa più bella che c’è, la mamma, il papà… Di Catania mi manca tutto, mi manca la vita… Avevo 17 anni… Adesso sono un uomo finalmente libero”. Sono queste le primissime parole di Antonino Speziale, l’ultras condannato in via definitiva per l'omicidio dell'ispettore capo di polizia Filippo Raciti, appena uscito dal carcere di Messina dopo aver finito di scontare la pena. Il nostro Ismaele La Vardera lo ha riaccompagnato a casa e nel tragitto l’uomo si è lasciato andare ad alcune chiacchiere liberatorie. Della vicenda giudiziaria dice: “Se tu vai ad analizzare i servizi ci sono tanti errori giudiziari, la mia innocenza si noterà”. Speziale continua ad affermare di essere innocente, di non avere ucciso l’ispettore Raciti e a proposito di quel famoso sottolavello di cui vi abbiamo parlato, che secondo il processo sarebbe l’arma del delitto, dice: “mi sono venuti a prendere per una semplice resistenza, l’omicidio me l’hanno imputato dopo, quando eravamo in caserma. Io avuto il contatto con le guardie, ho fatto resistenza, non l’omicidio... Sono stato sempre tranquillo, ho avuto la coscienza sempre pulita”. Prima di incontrare i genitori, dopo 8 anni di prigione, dice alla Iena: “La famiglia è il punto centrale, l’affronti in maniera diversa, la vita. È difficile, perché la vita è strana, là dentro sei dimenticato…”. Ismaele La Vardera e Antonino Speziale arrivano nel quartiere del giovane e per lui è un tripudio, tra applausi dai balconi e abbracci per la strada. Di queste persone Speziale dice: “Hanno creduto sin dall’inizio alla mia innocenza, ma non perché mi conoscevano. Molte cose erano molto evidenti. Anche grazie a voi de Le Iene sto avendo la possibilità di far capire. Ribadisco la mia innocenza fino alla morte, perché è il Padreterno che deve giudicare, non siamo noi a farlo”. E finalmente arriva il lungo abbraccio con la madre, in un pianto liberatorio: “Devi essere contenta ora. Sto tornando di nuovo a essere bambino, devo ricominciare a vedere il mondo...”. Una parola anche per il povero ispettore Filippo Raciti, che a differenza sua non potrà più tornare a casa: “Nessuno augurerebbe a un altro di crescere senza il proprio padre e alla moglie di farlo senza un marito. Non si può morire per una partita di calcio ma chi sa, dal primo momento, doveva parlare”. Con Ismaele La Vardera abbiamo approfondito cosa accadde negli scontri seguiti al derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007, in cui perse la vita Filippo Raciti. Dopo i nostri servizi su questa tragica vicenda, la procura di Catania ha aperto un nuovo fascicolo sulla morte dell'ispettore capo e Ismaele La Vardera è stato sentito in Procura. Al centro degli approfondimenti ci sono anche le ultimissime importanti testimonianze che potrebbero dare una possibile lettura diversa al tragico episodio in cui è morto l'ispettore capo: e se la causa della morte non fosse stato il colpo di un sottolavello in lamiera? 

Morte Raciti, Speziale esce dal carcere. Le Iene lo riaccompagnano a casa. Le iene News il 15 dicembre 2020. Antonino Speziale, condannato per l’omicidio dell’ispettore capo di polizia Filippo Raciti, è uscito dal carcere di Messina dopo aver finito di scontare la pena. Il nostro Ismaele La Vardera lo riaccompagna a casa. E’ uscito poco fa dal carcere Antonino Speziale: ha appena finito di scontare la pena a otto anni e otto mesi per l’omicidio dell'ispettore capo della polizia Filippo Raciti. Con Ismaele La Vardera abbiamo approfondito cosa accadde negli scontri seguiti al derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007, in cui perse la vita Filippo Raciti. Questa mattina Ismaele La Vardera ha aspettato il tifoso del Catania all’uscita dal carcere di Messina e lo sta accompagnando a casa sua. Fuori dal carcere c’erano il padre e i tifosi del Messina, che lo hanno salutato con affetto. “La mia condanna? Un’ingiustizia”, sono state le prime dichiarazioni di Speziale uscito dal carcere. "Intanto voglio vedere la mia famiglia. Poi vi racconterò tutto quello che ho passato. La mia condanna è stata un'ingiustizia e chi ha sbagliato pagherà con la giustizia". "La cosa che mi è mancata di più?  Vedere nascere i miei nipoti", ha detto Speziale a Ismaele La Vardera. "Ho fiducia nella giustizia e spero si riaprirà il processo perché sono innocente. A me è dispiaciuta la morte dell’ispettore, perché non si può morire per una partita di calcio. So di essere stato responsabile per la resistenza e di quello sono colpevole, ma della morte dell’ispettore no". Dopo i nostri servizi su questa tragica vicenda, la procura di Catania ha aperto un nuovo fascicolo sulla morte dell'ispettore capo e Ismaele La Vardera è stato sentito in Procura. Al centro degli approfondimenti ci sono anche le ultimissime importanti testimonianze che potrebbero dare una possibile lettura diversa al tragico episodio in cui è morto l'ispettore capo: e se la causa della morte non fosse stato il colpo di un sottolavello in lamiera? In questo servizio vi abbiamo fatto sentire la testimonianza di una persona che racconta una possibile versione alternativa dei fatti (che però fu scartata durante il processo): "Mio padre era un collega del padre di Filippo Raciti. Il papà dell'ispettore gli disse che gli era stato detto a lui direttamente che effettivamente il figlio non era stato ammazzato da Antonino Speziale ma da quella famosa retromarcia del Discovery" della polizia. Nelle settimane precedenti vi abbiamo fatto sentire anche la testimonianza esclusiva di una donna, che sostiene di esser stata al funerale di Filippo Raciti e di aver udito questa frase rivolta al padre dell’ispettore: “Quel giorno al cimitero si avvicina questo collega, un poliziotto, e dice questa frase: "signor Raciti le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia, perché è stata una manovra errata di un collega"”. Dopo la messa in onda di questa testimonianza, il padre e la sorella dell’ispettore Raciti sono stati sentiti dai pm e hanno smentito questa possibile versione. 

Da tgcom24.mediaset.it il 15 dicembre 2020. È uscito dal carcere di Messina, per fine pena, Antonino Speziale, l'ultrà del Catania condannato a otto anni e otto mesi di reclusione per l'omicidio preterintenzionale dell'ispettore capo di polizia Filippo Raciti, rimasto ferito mortalmente durante scontri allo stadio Angelo Massimino il 2 febbraio del 2007, mentre si giocava il derby con il Palermo. Fuori dal carcere il padre e i tifosi del Messina, storici rivali di quelli etnei, che lo hanno salutato con affetto. “Intanto voglio vedere la mia famiglia. Poi vi racconterò tutto quello che ho passato. La mia condanna è stata un'ingiustizia e chi ha sbagliato pagherà con la giustizia". Queste le parole di Antonino Speziale dopo avere lasciato il carcere di Messina e avere salutato un gruppo di tifosi della locale squadra di calcio, venuti ad accoglierlo all'uscita dal penitenziario. Dopo un abbraccio col padre Roberto, che è andato a prenderlo, Speziale si è messo in viaggio verso casa a Catania. Il suo avvocato Giuseppe Lipera, che lo ritiene innocente, aveva presentato delle richieste per anticipare la scarcerazione del suo assistito concedendogli gli arresti domiciliari per motivi di salute. Ma le domande sono state rigettate. Il legale ha anche richiesto la revisione del processo riprendendo la tesi del “fuoco amico”, che imputa la morte dell'ispettore all'impatto con una Land Rover della polizia durante gli scontri con gli ultras del Catania. Ipotesi che è stata vagliata da diversi Gip, Tribunali del Riesame e nei tre gradi di giudizio del processo a Speziale che è stato giudicato da minorenne perché all'epoca dei fatti non era ancora maggiorenne. È tornato invece in semilibertà da poco prima di Natale del 2018, Daniele Natale Micale, 32 anni, l'altro ultrà del Catania condannato a 11 anni per la morte dell'ispettore Raciti dopo avere scontato oltre metà della condanna in carcere a Catania, e ha un residuo pena di meno di 2 anni. Secondo la ricostruzione dell'accusa il 2 febbraio del 2007 diversi tifosi del Catania tentarono di "sfondare" il cordone di protezione delle forze dell'ordine che cercava di impedire il contatto con dei supporter del Palermo. In quel contesto Speziale e Micale avrebbero lanciato contro la polizia un sottolavello in lamierino centrando Raciti procurandogli una lesione mortale al fegato. L'ispettore di polizia morì dopo il ricovero nell'ospedale Garibaldi di Catania. Anche gli storici rivali dei tifosi del Messina, protagonisti di duri scontri con i supporter del Catania, hanno "salutato" la scarcerazione di Speziale dal carcere di contrada Gazzi. Lo hanno fatto con un abbraccio e uno striscione esposto davanti l'istituto penitenziario con la scritta: "Speciale abuso senza precedente, da oggi libero da sempre innocente". Il mondo degli ultras del calcio si è sempre stretto attorno a Speziale superando anche rivalità antiche. E non soltanto in Italia. Lo striscione "Speziale libero" è stato esposto durante il secondo tempo di una gara tra Bayern Monaco e Stoccarda, ma anche sugli spalti occupati dai tifosi del Borussia Dortmund, nella partita contro l'Hertha Berlino. L'iniziativa di esporre striscioni inneggianti a Speziale è stata presa in passato anche dalla curva del Porto e di una parte della tifoseria di Cluj e Brasov, due squadre che militano nel campionato romeno.

Il giovane tifoso del Catania e il caso riaperto poche settimane fa. Morte Raciti, Antonino Speziale libero: “Ultima notte in cella, hai pagato senza essere colpevole”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 14 Dicembre 2020. “Questa sarà la tua ultima notte in cella. Hai pagato senza essere colpevole, a testa alta e senza mai mollare”. E’ il messaggio rivolto da un amico ultras ad Antonino Speziale, 25 anni, e ai suoi genitori, Roberto e Rosa (famiglia umile e di lavoratori), a poche ore dalla ritorno in libertà del giovane tifoso del Catania dopo circa 8 anni di carcere per la morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. “Domani è un giorno speciale, inizia una nuova vita anche voi e la vostra famiglia, la verità è figlia del tempo” scrive Terenzio Giordano, tifoso della Cavese. Domani, martedì 15 dicembre, Antonio Speziale uscirà dal carcere dopo aver pagato, senza prove schiaccianti, per l’omicidio preterintenzionale di Raciti avvenuto il 2 febbraio del 2007, a Catania, durante uno scontro violentissimo tra tifosi del Catania e del Palermo. Nonostante gli appelli del suo legale, Giuseppe Lipera, che nei mesi scorsi aveva chiesto il trasferimento agli arresti domiciliari a causa delle gravi patologie che affliggono Speziale, l’allora 17enne tifoso catanese ha scontato l’intera pena in carcere. Speziale tornerà libero a poche settimane di distanza dalla testimonianza, raccolta da Le Iene, di una donna vicina alla famiglia Raciti, che rivela di aver sentito, durante la sepoltura dell’ispettore, un poliziotto rivolgersi al padre di Raciti: “Le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia – avrebbe detto l’uomo in divisa – perché è stato un errore di un collega nel fare la manovra”. Ad uccidere Raciti quella notte non sarebbe stato il colpo di un sotto-lavello (incompatibile con i danni fisici che hanno cagionato la morte dell’ispettore di polizia) inferto dall’allora ultrà catanese Antonino Speziale – condannato a otto anni e otto mesi per omicidio preterintenzionale – ma il fortuito incidente con il Discovery della polizia che, in retromarcia per sfuggire alle pietre e alle bombe carta dei tifosi, avrebbe schiacciato l’ispettore.

Svolta nel caso Raciti, l’ispettore non fu ucciso da Speziale ma da un mezzo della polizia. Giorgio Mannino su Il Riformista il 26 Novembre 2020. C’è un nuovo elemento che potrebbe fare luce sulle tante ombre dell’omicidio dell’ispettore capo Filippo Raciti, ucciso il 2 febbraio 2007 a Catania, durante uno scontro violentissimo tra i tifosi padroni di casa e gli ultras del Palermo. Si tratta della testimonianza di una donna, vicina alla famiglia Raciti, che a Le Iene – in una ricostruzione televisiva – rivela di aver sentito, durante la sepoltura dell’ispettore, un poliziotto rivolgersi al padre di Raciti: «Le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia – avrebbe detto l’uomo in divisa – perché è stato un errore di un collega nel fare la manovra». Ad uccidere Raciti quella notte non sarebbe stato il colpo di un sotto-lavello inferto dall’allora ultrà catanese Antonino Speziale – condannato a otto anni e otto mesi per omicidio preterintenzionale – ma il fortuito incidente con il Discovery della polizia che, in retromarcia per sfuggire alle pietre e alle bombe carta dei tifosi, avrebbe schiacciato l’ispettore. Una tesi, questa, da sempre sostenuta dalla difesa di Speziale rappresentata dall’avvocato Giuseppe Lipera. E vagliata da diversi gip, tribunali del Riesame e nei tre gradi di giudizio del processo a Speziale poi, però, condannato. «Questa testimonianza – spiega Lipera – mi sarà utilissima, ma spero di avere qualche altro elemento in più. La cosa incredibile è che dopo la messa in onda della puntata la procura non ha mosso un dito. Non ha chiesto agli autori de Le Iene il nome e il cognome della donna. Sembra che la procura non voglia accertare la verità, ma confermare le proprie idee precostituite». A muoversi, invece, è stata la Digos della questura di Catania che ha inviato alla procura etnea una relazione sul servizio trasmesso da Le Iene. L’obiettivo per Lipera è «puntare alla revisione del processo. Per anni abbiamo lanciato appelli, perché mi rifiuto di pensare che solo chi guidava il Discovery abbia visto quanto è successo. Nessuno ci ha mai risposto. Basterebbe una prova nuova. Se verrà fuori presenteremo l’istanza di revisione e sono convinto andrà in porto». Speziale finirà di scontare la sua pena il prossimo 15 dicembre: «Il ragazzo è obeso, va in apnea notturna. È distrutto – dice Lipera – anche nel corpo. I domiciliari non gli sono mai stati concessi e nemmeno ora hanno il coraggio di dargli 15 giorni di liberazione anticipata. In questa storia, guarda caso, gli unici ad averci dato ragione sono i giudici romani della suprema corte di Cassazione». Che annullò l’ordinanza di custodia cautelare sottolineando “l’esistenza di lacune indiziarie”. I pm etnei, però, trovarono un escamotage: derubricarono il reato da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale, cioè oltre le intenzioni. L’indagine venne riaperta ma non venne trovato nessun altro indizio. «Il pronunciamento della Suprema Corte si sarebbe dovuto inserire nel fascicolo e il tutto doveva essere archiviato. La procura, invece, ha rinviato a giudizio Speziale e con gli stessi elementi indiziari, ritenuti dalla Cassazione lacunosi, l’ex ultrà è stato condannato», dice Lipera. Ma quali sono questi indizi lacunosi? Partiamo dalla retromarcia del Discovery della polizia, avvenuta nel momento in cui Raciti si è accasciato a terra. Interrogato più volte l’autista Salvatore Lazzaro ha cambiato la sua versione. Nel primo verbale afferma di “aver sentito un forte urto” e di “aver visto l’ispettore Raciti, che era fuori dal mezzo, portarsi le mani alla testa, barcollare, tanto da essere sorretto dai colleghi. L’ho sentito lamentarsi e gli mancava l’aria e subito si è accasciato per terra». Nel secondo verbale, Lazzaro si contraddice affermando di «non essersi avveduto dove loro (Raciti e il collega Balsamo, ndr) si trovassero perché c’era troppo fumo». Nel terzo verbale, il poliziotto cambia completamente versione: «Raciti si trovava a dieci metri dal mezzo, escludo tassativamente di aver urtato colleghi attorno al mezzo». L’arma del delitto. Secondo la procura ad uccidere Raciti è stato un sotto-lavello staccato dai bagni dello stadio che Speziale avrebbe usato “a mo’ di ariete” colpendo l’ispettore. Ma gli specialisti del Ris di Parma hanno rilevato che “l’ipotesi dell’inidoneità del sotto-lavello sembra riunire maggiori elementi di probabilità». Inoltre i poliziotti che erano accanto a Raciti hanno affermato di non avere mai visto il proprio capo venire colpito da un sotto-lavello. E ancora il professore Carlo Torre, medico e criminologo, spiegò che un oggetto così poco pesante non è idoneo a fare quel danno. Ma c’è un altro elemento che solleva diversi dubbi. Raciti sarebbe stato colpito dal sotto-lavello alle 19.06 e con quattro costole rotte e un’emorragia al fegato avrebbe continuato a lavorare, in quell’inferno, affrontando corpo a corpo gli ultras, fino alle 20.25. Come avrebbe fatto? A supportare l’ipotesi dell’incidente, poi, ci sono i frammenti di vernice blu ritrovati dai Ris sugli anfibi di Raciti. Un blu che potrebbe essere compatibile con i colori istituzionali del Discovery. Ma ai Ris non venne chiesta un’analisi per capire da dove potesse provenire quella vernice. «La vita di Speziale e dei suoi genitori è stata distrutta. Serviva un colpevole e bisognava trovarlo subito. Ricordo che ci fu un bombardamento mediatico fortissimo. Non potevo camminare per strada perché venivo etichettato come colui che ‘difendeva l’assassino di Raciti’. La condanna era già scritta», ricorda Lipera. «Ora – aggiunge – è diverso. Alcuni poliziotti mi fermano. Dicono di essere dalla mia parte perché sanno la verità». Che, proprio tra la polizia, forse, qualcuno conosceva. Nel 2008, infatti, un anno dopo l’omicidio Raciti, l’Unione Cronisti ha premiato l’inchiesta uscita su L’Espresso, a firma di Giuseppe Lo Bianco e Piero Messina, che ha messo in luce i punti più controversi dell’indagine sugli scontri di quella notte. In giuria, a premiare il lavoro dei due giornalisti, c’era anche un rappresentante del capo della Polizia. Che, però, ufficialmente ha sempre difeso la versione della procura.

Caso Raciti, una nuova testimonianza sull'ipotesi dell'investimento. Le Iene News il 26 novembre 2020. Da settimane ormai ci stiamo occupando del caso della morte dell’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti. Con Ismaele La Vardera abbiamo raccolto una nuova testimonianza importante: “Mio padre era una collega del padre di Filippo Raciti. Il papà dell’ispettore gli disse che gli era stato detto a lui direttamente che effettivamente il figlio non era stato ammazzato da Antonino Speziale ma da quella famosa retromarcia del Discovery”. Una nuova testimonianza importante nella storia della morte dell’ispettore capo della polizia Filippo Raciti, ucciso durante gli scontri a seguito della partita di calcio Catania-Palermo avvenuti il 2 febbraio 2007. Noi de Le Iene ci stiamo occupando di questa vicenda con il nostro Ismaele La Vardera. Nelle scorse settimane vi abbiamo fatto sentire la testimonianza esclusiva di una donna, che sostiene di esser stata al funerale di Filippo Raciti e di aver udito questa frase rivolta al padre dell’ispettore: “Quel giorno al cimitero si avvicina questo collega, un poliziotto, e dice questa frase: "signor Raciti le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia, perché è stata una manovra errata di un collega"”. Dopo la messa in onda del servizio, il padre e la sorella dell’ispettore Raciti sono stati sentiti dai pm e hanno smentito queste parole. In questi giorni però è successa anche un’altra cosa: un’altra persona si è fatta avanti per raccontarci una versione alternativa dei fatti che sembrerebbe simile a quella raccontataci dalla donna. “Mio padre era una collega del padre di Filippo Raciti”, ci racconta. “Nell’ambito lavorativo nasce sempre un rapporto anche d’amicizia. Si incontrarono al mercato storico, in pescheria, dove mio padre andava a fare la spesa ogni fine settimana. Nella discussione il papà di Raciti gli disse che era venuto a conoscenza ed era stato detto a lui direttamente che effettivamente il figlio non era stato ammazzato da Antonino Speziale ma dal ‘fuoco amico’, da quella famosa, purtroppo, retromarcia del Discovery”. E poi aggiunge: “Fece capire a mio padre che gli misero la museruola, non poteva parlare. Gli fece capire a mio padre che non poteva parlare proprio perché era una cosa troppo grossa”. Non sappiamo se anche questa testimonianza sarà smentita dai familiari di Filippo Raciti, ma le voci che raccontano questa ipotesi alternativa sulla morte dell’ispettore - che come vi abbiamo detto è stata scartata durante il processo - cominciano a essere diverse.

Nuovi elementi sul caso Raciti, Le Iene sentite in procura. Le Iene News il 28 novembre 2020. "Messi a disposizione tutti i dettagli in qualità di testimone", racconta il nostro Ismaele La Vardera, sentito questa mattina dal capo della procura di Catania che dopo i nostri servizi con nuove testimonianze ha aperto un nuovo fascicolo sulla morte dell’ispettore capo della polizia Filippo Raciti nel 2007. “Ho raccontato e ho messo a disposizione tutti i dettagli del caso Raciti in piena e totale collaborazione”. Ismaele La Vardera è stato sentito questa mattina dal capo della procura di Catania, che dopo i nostri servizi con nuove testimonianze ha aperto un nuovo fascicolo sulla morte dell'ispettore capo della polizia Filippo Raciti, durante gli scontri con gli ultras a seguito della partita di calcio Catania-Palermo avvenuti il 2 febbraio 2007. "Abbiamo fornito tutto quello che sapevamo in qualità di testimoni", dice La Vardera che da qualche settimana sta seguendo per Le Iene questa nuova inchiesta (in fondo all'articolo trovate tutti i servizi). Al centro degli approfondimenti ci sono anche le ultimissime importanti testimonianze che potrebbero dare una possibile lettura diversa al tragico episodio in cui è morto l'ispettore capo. E se la causa della morte fosse stata un incidente? "Mio padre era un collega del padre di Filippo Raciti", ci ha detto una delle ultime testimoni che abbiamo incontrato nel servizio di giovedì scorso che trovate anche qui sopra. "Il papà dell'ispettore gli disse che gli era stato detto a lui direttamente che effettivamente il figlio non era stato ammazzato da Antonino Speziale ma da quella famosa retromarcia del Discovery". Al centro della possibile attenzione c'è l'ipotesi dell'investimento da parte dell'auto di un collega, alternativa alla ricostruzione processuale. Per questa morte è stato condannato infatti a 8 anni di carcere in via definitiva Antonino Speziale, all'epoca 17enne, per aver ucciso l'ispettore capo colpendolo durante gli scontri con un sottolavello. Speziale sta scontando gli ultimi mesi della pena, la nostra inchiesta si chiede se siamo davvero sicuri che il colpevole sia davvero lui.

Caso Raciti: un consulente smonta il video del sottolavello che l'avrebbe ucciso? Le Iene News il 18 novembre 2020. Con Ismaele la Vardera torniamo a occuparci della morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti, ucciso durante gli scontri tra ultras per il derby Catania-Palermo del febbraio 2007. Lo facciamo con un consulente video della difesa di alcuni dei partecipanti a quegli scontri, che a proposito dei filmati in base ai quali Antonino Speziale è stato condannato a 8 anni di carcere, lascia intendere la possibilità di una versione dei fatti diversa e clamorosa: al momento del lancio del sottolavello, dietro a quel cancello dello stadio, potrebbero non esserci stati gli agenti di polizia. Con Ismaele la Vardera torniamo a indagare sulla morte dell’ispettore capo di polizia Filippo Raciti, deceduto negli scontri seguiti al derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007. Un omicidio per il quale è stato condannato in via definitiva a 8 anni di carcere il giovane ultras del Catania Antonino Speziale, all’epoca 17enne. Lo facciamo mostrandovi la testimonianza di due persone, un avvocato e un perito, un consulente video, Lorenzo Coppi (perito delle difese di taluni degli ultras coinvolti negli scontri) a cui abbiamo chiesto di analizzare i video registrati dalle telecamere dello stadio, in particolare la camera 7 - piazzata proprio sopra al cancello dove sarebbero avvenuti i fatti, e la camera 8, che inquadra lo stesso cancello ma dall’interno, video sui quali si basa la condanna a 8 anni per Antonino Speziale. Video nei quali, lo ricordiamo ancora una volta, l’impatto tra il sottolavello che lo avrebbe ucciso e l’ispettore Raciti non si vede mai. E dall’analisi di quei filmati potrebbe emergere una verità clamorosa: la morte dell’ispettore Raciti potrebbe non essere legata al lancio di quel sottolavello perché in quel momento, dietro a quel cancello, sembrerebbero non esserci stati gli agenti di polizia. Ma andiamo con ordine.

La ricostruzione processuale.

Secondo la ricostruzione processuale quel maledetto giorno di 13 anni fa sarebbe accaduto questo: 12 agenti erano schierati vicino alla cancellata per non far passare nessuno e gli ultras avrebbero portato il sottolavello fin là, usandolo come arma per sfondare quel cordone. L’ispettore Raciti, in quegli attimi di battaglia, avrebbe tentato di chiudere il portone destro della cancellata offrendo così il fianco agli assalitori che, usando la lamiera “a mo’ di ariete” avrebbero colpito, in questo modo - cioè col sottolavello all’altezza dello stomaco - il fegato dell’ispettore (provocando così l’emorragia che l’avrebbe ucciso). Sebbene alcuni agenti di polizia abbiano testimoniato di aver visto la lamiera “uscire a getto dalla porta”, o addirittura “volare” e poi “strisciare per qualche metro”, per il Tribunale quella ricostruzione della scientifica è stata giudicata credibile. Ismaele La Vardera va a parlare con l’avvocato Giovanni Adami, che assiste da anni diversi ragazzi che hanno partecipato agli scontri e che a proposito di quei video fa subito una considerazione preliminare: “Noi abbiamo richiesto di poter lavorare sui filmati originali invece non abbiamo mai ottenuto questa possibilità. Abbiamo sempre lavorato su quelle copie montate dove la polizia scientifica ha inserito quelle parti che riteneva importanti al sostegno dell’accusa”. Quindi tutti i filmati che vi abbiamo mostrato finora, stando a quanto riferito dall’Avv. Adami, non sarebbero integrali, sarebbero estratti degli originali. “Ma gli originali - sostiene ancora l’Avv. Adami - non sono mai stati dati alla difesa”.

I video: gli elementi che non “tornano”. Ciò nonostante questo avvocato e il suo perito sono convinti di aver scoperto cose molto importanti. La prima riguarderebbe appunto proprio il lancio di quel sottolavello. “In quello che è il momento del lancio del sottolavello - sostiene il perito - possiamo vedere che si trova al di sopra delle teste di tutte le persone riprese”. Un particolare che si nota sia dalla camera sopra il portone, dove sembra evidente il movimento dell’oggetto verso l’alto prima di scomparire dietro la colonna, sia anche, e forse meglio, dalla camera che riprende la scena dall’interno. Si vedono gli ultras che vanno verso il cancello e lanciano la lamiera: si vede bene, la lamiera, in alto, sopra le teste delle persone che sono lì.  “Appare evidente che il sottolavello esca non retto e utilizzato a mo’ di sfondamento ma lanciato verso l’esterno” , dice l’avvocato Adami. In base alle immagini che vi facciamo rivedere poi emergono altre due cose. Secondo la versione ufficiale, come ci spiega ancora il perito, “questo sottolavello doveva essere stato usato prima a mo’ di ariete per colpire l’ispettore Raciti e poi lanciato oltre i 12 poliziotti E tutto questo in meno di 4 secondi”. Secondo la sentenza quindi in meno di 4 secondi, i ragazzi arrivano, tirano un colpo tremendo a Raciti all’altezza del fegato, quindi col sottolavello basso, poi lo tirano su e lo lanciano con forza 10 metri più in là, sopra le teste di 12 poliziotti, fermi di fronte a loro. Ma al di là della tempistica, che è strettissima, c’è ancora un altro particolare che emerge dalle immagini e che striderebbe con questa ricostruzione. Lo riassume l’avvocato Adami: “Si nota e credo che non ci possano essere dubbi che il sottolavello non esce verso l’esterno vicino allo stipite di destra ma esce in corrispondenza dello stipite di sinistra.” Insomma non come dice la ricostruzione processuale, secondo la quale la lamiera è stata usata a mo’ di ariete e poi lanciata vicino all’anta che Raciti stava chiudendo, quindi sulla destra del portone. Dice ancora il perito: “Lo scoppio del petardo all’esterno ci permette di vedere la parte di cancello chiusa e quindi giustifica il fatto che il sottolavello sia passato dalla parte sinistra del cancello”. Il lampo di luce causato dal petardo, che scoppia 3 secondi dopo il lancio del sottolavello, mostra come la parte destra della cancellata sarebbe stata già chiusa. Insomma: là dove ci sarebbe dovuto essere Raciti a ricevere il colpo (con altri 11 poliziotti schierati) ci sarebbero un portone già chiuso e neanche una sagoma di tutti quegli agenti. E arriviamo così all’ipotesi più clamorosa, raccolta dal nostro Ismaele La Vardera. “In quel momento lì non è provato che ci fosse la polizia”, sostiene l’avvocato Adami. Il perito ci mostra il fotogramma successivo a quello che mostra il lancio del sottolavello. “Riprende sia l’interno che l’esterno dello stadio. Ho applicato un filtro seppia per aumentare la luminosità e il contrasto. All’interno si vedono le sagome, le scarpe mentre non si vede nessuno né all’interno del fumo né dietro il fumo né un po’ prima: questo fa escludere che qui ci sia la presenza di 12 poliziotti”. L’unica possibilità allora, se la ricostruzione dell’accusa fosse giusta, sarebbe che i 12 agenti  “dovrebbero trovarsi tutti all’interno di questa intercapedine qui”. Un’ipotesi non banale da sostenere. Primo perché lo spazio è abbastanza ridotto (circa 4 metri per un metro e mezzo, ndr). Secondo perché il portone di destra era chiuso o semichiuso, quindi lo spazio era ancora meno. Terzo perché, per non vederli da qui, sarebbero dovuti rimanere tutti fermi e dritti, anche di fronte all’esplosione di un petardo e a un sottolavello tirato addosso. Il perito aggiunge: “Considerando lo scoppio del petardo e il piccolo spazio a disposizione in qualche modo avrebbero dovuto indietreggiare”. Invece in quell’inquadratura non si vede nessuno, neanche applicando i filtri per far risaltare le cose. E poi bisogna considerare anche l’inquadratura dall’interno, che sembrerebbe mostrare piuttosto chiaramente che al momento del lampo del petardo i poliziotti non ci sono. “Prima li vediamo, poi non li vediamo e incrociando le telecamere continuiamo a non vederli. Tu dici arrivano. Sì, però cosa facciano dopo a noi non è dato saperlo”, prosegue il perito.

I filmati originali di quella sera. Insomma sarebbe davvero importante poter visionare i filmati originali per capire cosa sia successo quella sera. “Proprio per questo motivo vengono richiesti i filmati originali, per poterlo verificare con più precisione. È evidente che su questi due video ci siano stati degli interventi umani. Il fatto che sia rallentato, è già un intervento umano. Non me la sento di dirti "c’è stato un fotomontaggio". Certo che sarebbe facile scoprirlo con gli originali in mano .. Guardi l’altro e lo vedi se… è modificato”, aggiunge il perito. Ma gli originali, come ha sostenuto l'avvocato Adami, non sarebbero mai stati dati alla difesa e giacerebbero ancora presso il gabinetto di polizia scientifica. A proposito dei video di quella sera c’è un’ultima cosa che vi dobbiamo raccontare: le due telecamere dello stadio di Catania non sono le uniche che riprendevano quella zona. Racconta l’avvocato Adami: “C’è un'altra telecamera mobile gestita dalla polizia scientifica, una telecamera a mano situata all’esterno e darebbe la terza inquadratura”. Un’inquadratura interessante, perché si tratterebbe di un punto di vista che sta alle spalle dei poliziotti. Una ripresa “che avrebbe completato le zone d’ombra che vi erano nella telecamera 7”, sostiene ancora il legale. Ma anche qui c’è qualcosa di particolare: l’ora segnata in basso a destra è più avanti, rispetto a quella dei video dello stadio, di circa 1 minuto e 20 secondi. Quindi dove si vede 19.09 sarebbero in realtà le 19.07 e 40 secondi, quindi mezzo minuto prima del lancio del sottolavello. Succede che i tifosi scappino, perché arriva un poliziotto a chiudere il portone, e che la camera prima si guarda intorno, inquadrando un ragazzo e poi va verso destra, cioè esattamente dove sta per avvenire il lancio della lamiera. Ma alle 19,09 e 32 secondi (cioè proprio il momento in cui Speziale lancia il sottolavello, ndr), il filmato si interrompe e quando riprende sono le 18.52. “Quindi torna indietro nel tempo….”, aggiunge il perito. “Tutto può essere, la telecamera si è bloccata in quel  momento… era finita la batteria… solo vedendo gli originali si poteva capire cosa è successo dopo il minuto 19.09”, dichiara ancora l’avvocato Adami. Ed è proprio alla luce di tutto quello che vi abbiamo mostrato, delle anomalie rispetto alla posizione del sottolavello e del portone, e dei dubbi sulla presenza o meno dei poliziotti su quella soglia, che sarebbe importante poter visionare le immagini originali di quei filmati.

L’inchiesta de Le Iene.

Nel corso delle puntate precedenti della nostra inchiesta abbiamo provato a mettere in evidenza gli elementi che parrebbero dar consistenza a un’ipotesi alternativa. Ismaele La Vardera ha ricostruito tutte le possibili incongruenze che avrebbero contribuito alla condanna di Speziale, sulla cui innocenza avevano scommesso non solo i familiari e il legale, ma anche altre persone che non fanno parte del mondo del calcio o della tifoseria organizzata. Come il giornalista d’inchiesta Piero Messina, che ha dichiarato: “Antonino Speziale era il colpevole ideale. Un poco testa calda, fanatico del calcio, famiglia per bene ma umile, frequentazioni un po’ borderline. C’era una breccia che poco a poco è diventata una porta, un portone, una voragine. E in quella voragine è caduto Antonio Speziale che è stato condannato per un delitto che secondo me non ha commesso”. A seguito del primo servizio la reazione del Capo della Polizia Franco Gabrielli è stata immediata, attraverso questa dichiarazione: “Le sentenze si rispettano”. Se qualcuno vorrà presentare nuovi elementi è corretto che lo faccia nelle aule di giustizia e non nelle trasmissioni televisive”. E ancora: “La Polizia di Stato non ha bisogno di capri espiatori e non può accettare che una vicenda così dolorosa, che ha avuto la sacramentazione di un giudizio definitivo possa essere messa in discussione, in pochi minuti, con una ricostruzione parziale e una parvenza di verità per giunta pregiudiziale”. Parole a cui avevamo risposto così: “Anche sull’omicidio dell’ispettore Raciti noi de Le Iene proseguiremo per amore di verità, come sempre nel nostro lavoro, mettendolo a disposizione della collettività, nel massimo rispetto dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia”. Giovedì scorso, durate il quarto servizio dedicato alla vicenda una donna ha fatto una dichiarazione choc. La donna ha raccontato di aver sentito, durante i funerali dell’ispettore, un poliziotto chiedere scusa al padre di Filippo Raciti, con queste parole: “Signor Raciti, le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia perché è stata una manovra errata di un collega. Nel fare la manovra l’ha beccato in pieno”. La donna, che dice di essere imparentata con la famiglia Raciti, ha raccontato a Ismaele La Vardera di essersi decisa a fare questa rivelazione, seppur a tredici anni dalla vicenda, dopo aver seguito attentamente i servizi andati in onda nella trasmissione di Italia1 dedicati al caso. Due giorni fa infine fa la Questura di Catania ha informato la Procura distrettuale del racconto della donna, motivo per cui si potrebbero approfondire le circostanze in cui sarebbe stata detta quella frase. Ora, se le dichiarazioni mostrate durante il nuovo servizio di Ismaele La Vardera, che andrà in onda giovedì sera a Le Iene, potrebbero suscitare nuovi dubbi sulla colpevolezza di Antonino Speziale.

Omicidio Raciti: da “smontare” il video del lancio del sottolavello? Le Iene News il 19 novembre 2020. Ismaele la Vardera incontra un consulente video, perito della difesa di alcuni dei partecipanti agli scontri al Cibali di Catania, in cui morì nel 2007 l’ispettore di polizia Filippo Raciti. Dall’analisi dei video su cui si basa la condanna a 8 anni per Antonino Speziale potrebbe emergere una ricostruzione diversa di quei tragici fatti: dietro a quel cancello dello stadio, potrebbero non esserci stati gli agenti di polizia. Torniamo a occuparci della morte dell’ispettore capo di polizia Filippo Raciti, deceduto negli scontri seguiti al derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007. Un omicidio per il quale è stato condannato in via definitiva a 8 anni di carcere il giovane ultras del Catania Antonino Speziale, all’epoca 17enne. Ismaele La Vardera incontra l’avvocato Adami, che assiste da anni diversi ragazzi che hanno partecipato agli scontri e il suo consulente video, Lorenzo Coppi, anche lui della difesa di quei ragazzi. Abbiamo chiesto di analizzare i video registrati dalle telecamere dello stadio, in particolare la camera 7 - piazzata proprio sopra al cancello dove sarebbero avvenuti i fatti, e la camera 8, che inquadra lo stesso cancello ma dall’interno, video sui quali si basa la condanna a 8 anni per Antonino Speziale. Video concitati, nei quali comunque l’impatto tra il sottolavello che lo avrebbe ucciso e l’ispettore Raciti non si vede mai. Quello che emergerebbe da questa analisi di parte potrebbe essere clamoroso: la morte dell’ispettore Raciti potrebbe non essere legata al lancio di quel sottolavello perché in quel momento, dietro a quel cancello, non ci sarebbero stati gli agenti di polizia. Per la ricostruzione processuale quel maledetto giorno 12 agenti erano schierati vicino alla cancellata per non far passare nessuno e gli ultras avrebbero portato il sottolavello fin là, usandolo come arma per sfondare quel cordone. Attimi di grande tensione e concitati, durante i quali  Raciti avrebbe tentato di chiudere il portone destro della cancellata offrendo così il fianco agli assalitori che, usando la lamiera “a mo’ di ariete” avrebbero colpito, in questo modo - cioè col sottolavello all’altezza dello stomaco - il fegato dell’ispettore (provocando così l’emorragia che l’avrebbe ucciso). L’avvocato Giovanni Adami sostiene: “Noi abbiamo richiesto di poter lavorare sui filmati originali invece non abbiamo mai ottenuto questa possibilità”. Quindi secondo il legale i filmati che vi abbiamo mostrato finora non sarebbero integrali, ma pezzi degli originali, perché, sempre secondo quanto sostiene, gli originali non sarebbero mai stati consegnati ai difensori. Ma comunque l’avvocato e il suo perito sono convinti di aver scoperto cose molto importanti. A partire dal lancio di quel sottolavello. “In quello che è il momento del lancio del sottolavello", sostiene il perito, "possiamo vedere che si trova al di sopra delle teste di tutte le persone riprese”. Un particolare che si nota sia dalla camera sopra il portone, dove sembrerebbe evidente il movimento dell’oggetto verso l’alto prima di scomparire dietro la colonna, sia anche, e forse meglio, dalla camera che riprende la scena dall’interno. Si vedono gli ultras che vanno verso il cancello e lanciano la lamiera: si vede bene, la lamiera, in alto, sopra le teste delle persone che sono lì. “Appare evidente che il sottolavello esca non retto e utilizzato a mo’ di sfondamento ma lanciato verso l’esterno” , sostiene l’avvocato Adami. In base alle immagini che vi facciamo rivedere poi emergono altre due cose. Secondo la versione ufficiale, come ci spiega ancora il perito, “questo sottolavello doveva essere stato usato prima a mo’ di ariete per colpire l’ispettore Raciti e poi lanciato oltre i 12 poliziotti. E tutto questo in meno di 4 secondi”. Secondo la sentenza in meno di 4 secondi, i ragazzi arrivano, tirano un colpo tremendo a Raciti all’altezza del fegato, quindi col sottolavello basso, poi lo tirano su e lo lanciano con forza 10 metri più in là, sopra le teste di 12 poliziotti, fermi di fronte a loro. Ma al di là della tempistica, che è strettissima, c’è ancora un altro particolare che emerge dalle immagini e che striderebbe con questa ricostruzione. Lo riassume l’avvocato Adami: “Si nota e credo che non ci possano essere dubbi che il sottolavello non esce verso l’esterno vicino allo stipite di destra ma esce in corrispondenza dello stipite di sinistra.” Insomma non come direbbe la ricostruzione processuale, secondo la quale la lamiera è stata usata a mo’ di ariete e poi lanciata vicino all’anta che Raciti stava chiudendo, quindi sulla destra del portone. Il consulente Coppi aggiunge: “Lo scoppio del petardo all’esterno ci permette di vedere la parte di cancello chiusa e quindi giustifica il fatto che il sottolavello sia passato dalla parte sinistra del cancello”. Il lampo di luce causato dal petardo, che scoppia 3 secondi dopo il lancio del sottolavello, mostra come la parte destra della cancellata sarebbe stata già chiusa. Insomma: là dove ci sarebbe dovuto essere Raciti a ricevere il colpo (con altri 11 poliziotti schierati) ci sarebbero, a quanto spiega il perito, un portone già semichiuso e neanche una sagoma di tutti quegli agenti. Ma l’ipotesi più clamorosa sarebbe questa: “In quel momento lì non è provato che ci fosse la polizia”, prosegue l’avvocato Adami. Il perito ci mostra il fotogramma successivo a quello che mostra il lancio del sottolavello. “Riprende sia l’interno che l’esterno dello stadio. Ho applicato un filtro seppia per aumentare la luminosità e il contrasto. All’interno si vedono le sagome, le scarpe mentre non si vede nessuno né all’interno del fumo né dietro il fumo né un po’ prima: questo fa escludere che qui ci sia la presenza di 12 poliziotti”. L’unica possibilità allora, se la ricostruzione dell’accusa fosse giusta, sarebbe che i 12 agenti “dovrebbero trovarsi tutti all’interno di questa intercapedine qui”. Ma se così fosse ci sarebbero da fare altre considerazioni. Primo perché lo spazio è abbastanza ridotto (circa 4 metri per un metro e mezzo, ndr). Secondo perché il portone di destra era chiuso o semichiuso, quindi lo spazio era ancora meno. Terzo perché, per non vederli da qui, sarebbero dovuti rimanere tutti fermi e dritti, anche di fronte all’esplosione di un petardo e a un sottolavello tirato addosso. Il perito aggiunge: “Considerando lo scoppio del petardo e il piccolo spazio a disposizione in qualche modo avrebbero dovuto indietreggiare”. Invece in quell’inquadratura non si vedrebbe nessuno, neanche applicando i filtri per far risaltare le cose. E poi bisogna considerare anche l’inquadratura dall’interno, che mostrerebbe che al momento del lampo del petardo i poliziotti non ci sarebbero stati. “Prima li vediamo, poi non li vediamo e incrociando le telecamere continuiamo a non vederli. Tu dici arrivano. Sì, però cosa facciano dopo a noi non è dato saperlo”, prosegue il perito. Ecco perché, insomma, per avvocato e perito sarebbe importante poter lavorare sui filmati originali di quella sera. “Proprio per questo motivo vengono richiesti i filmati originali, per poterlo verificare con più precisione”, spiega il perito, che poi dice una cosa molto particolare: “È evidente che su questi due video ci siano stati degli interventi umani. Il fatto che sia rallentato, è già un intervento umano. Non me la sento di dirti "c’è stato un fotomontaggio". Certo che sarebbe facile scoprirlo con gli originali in mano... Guardi l’altro e lo vedi se… è modificato”, aggiunge il perito. Ma c’è ancora un aspetto da affrontare, sempre legato ai filmati degli scontri di quella sera. Le due telecamere dello stadio di Catania non sono le uniche che riprendevano quella zona. Racconta l’avvocato Adami: “C’è un'altra telecamera mobile gestita dalla polizia scientifica, una telecamera a mano situata all’esterno e darebbe la terza inquadratura”. Un’inquadratura interessante, perché si tratterebbe di un punto di vista che sta alle spalle dei poliziotti. Una ripresa “che avrebbe completato le zone d’ombra che vi erano nella telecamera 7”, sostiene ancora il legale. Ma anche qui c’è qualcosa di particolare: l’ora segnata in basso a destra è più avanti, rispetto a quella dei video dello stadio, di circa 1 minuto e 20 secondi. Quindi dove si vede 19.09 sarebbero in realtà le 19.07 e 40 secondi, quindi mezzo minuto prima del lancio del sottolavello. Succede che i tifosi scappino, perché arriva un poliziotto a chiudere il portone, e che la camera prima si guarda intorno, inquadrando un ragazzo e poi va verso destra, cioè esattamente dove sta per avvenire il lancio della lamiera. Ma alle 19,09 e 32 secondi (cioè proprio il momento in cui Speziale lancia il sottolavello, ndr), il filmato si interrompe e quando riprende sono le 18.52. “Quindi torna indietro nel tempo….”, aggiunge il perito. “Tutto può essere, la telecamera si è bloccata in quel  momento… era finita la batteria… solo vedendo gli originali si poteva capire cosa è successo dopo il minuto 19.09”, dichiara ancora l’avvocato Adami. È da settimane ormai che con il nostro Ismaele La Vardera ci stiamo occupando della tragica morte dell’ispettore capo di polizia Filippo Raciti. Abbiamo ricostruito tutte le possibili incongruenze che avrebbero contribuito alla condanna di Speziale, della cui possibile innocenza ci aveva parlato anche il giornalista d’inchiesta Piero Messina, che ha dichiarato: “Antonino Speziale era il colpevole ideale. Un poco testa calda, fanatico del calcio, famiglia per bene ma umile, frequentazioni un po’ borderline. C’era una breccia che poco a poco è diventata una porta, un portone, una voragine. E in quella voragine è caduto Antonio Speziale che è stato condannato per un delitto che secondo me non ha commesso”. Dopo il nostro primo servizio il Capo della Polizia Franco Gabrielli aveva detto: “Le sentenze si rispettano”. Se qualcuno vorrà presentare nuovi elementi è corretto che lo faccia nelle aule di giustizia e non nelle trasmissioni televisive”. E ancora: “La Polizia di Stato non ha bisogno di capri espiatori e non può accettare che una vicenda così dolorosa, che ha avuto la sacramentazione di un giudizio definitivo possa essere messa in discussione, in pochi minuti, con una ricostruzione parziale e una parvenza di verità per giunta pregiudiziale”. Parole a cui noi de Le Iene avevamo risposto così: “Anche sull’omicidio dell’ispettore Raciti noi de Le Iene proseguiremo per amore di verità, come sempre nel nostro lavoro, mettendolo a disposizione della collettività, nel massimo rispetto dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia”. Giovedì scorso, durate il quarto servizio di Ismaele La Vardera, vi avevamo fatto ascoltare le dichiarazioni choc di una donna, che ci ha raccontato di aver sentito, durante i funerali dell’ispettore, un poliziotto chiedere scusa al padre di Filippo Raciti, con queste parole: “Signor Raciti, le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia perché è stata una manovra errata di un collega. Nel fare la manovra l’ha beccato in pieno”. La donna, che dice di essere imparentata con la famiglia Raciti, ha raccontato a Ismaele La Vardera di essersi decisa a fare questa rivelazione, seppur a tredici anni dalla vicenda, dopo aver seguito attentamente i servizi andati in onda nella trasmissione di Italia1 dedicati al caso. Appena due giorni fa infine fa la Questura di Catania ha informato la Procura distrettuale del racconto della donna, motivo per cui si potrebbero approfondire le circostanze in cui sarebbe stata detta quella frase. Ora, dopo questo nuovo servizio di Ismaele La Vardera e le dichiarazioni dell’avvocato Adami e del consulente video Coppo, potrebbero emergere nuovi dubbi sulla colpevolezza di Antonino Speziale.

Omicidio Raciti: dopo il racconto shock di una donna a Le Iene, stupiti da questo silenzio. Le Iene News il 15 novembre 2020. Giovedì scorso, nel servizio di Ismaele La Vardera, vi abbiamo fatto ascoltare il racconto clamoroso di una donna che sostiene di esser stata al funerale di Filippo Raciti e di aver udito un poliziotto chiedere scusa al padre dell’ispettore. Ma dopo questa testimonianza, c’è stato solo silenzio da parte della polizia e della famiglia di Raciti. Perché nessuno ha qualcosa da dire? Non perdetevi il nuovo servizio martedì a Le Iene. Dopo il racconto choc di una donna che vi abbiamo fatto sentire giovedì scorso sul caso della morte dell'ispettore Raciti, regna il più totale silenzio. Sia da parte della polizia che da parte della famiglia dell'ispettore. E questo ci stupisce, perché ci saremmo aspettati quantomeno una reazione. La donna, che dice di essere imparentata con la famiglia Raciti, ha raccontato a Ismaele La Vardera di aver sentito un poliziotto che avvicinatosi al papà dell'ispettore ha chiesto scusa dicendo: ‘signor Raciti, le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia perché è stata una manovra errata di un collega. Nel fare la manovra l’ha beccato in pieno’”. L’ispettore capo di polizia Filippo Raciti è deceduto negli scontri seguiti al derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007. Per il suo omicidio è stato condannato in via definitiva Antonino Speziale. Se la testimonianza che vi abbiamo mostrato fosse confermata, solleverebbe nuovi dubbi sulla sua colpevolezza, dopo che il tifoso del Catania tra poche settimane avrà finito di scontare la condanna a 8 anni di carcere. Secondo quanto questa donna dice di aver sentito, infatti, a uccidere Raciti sarebbe stata la manovra errata di un collega con la Jeep e non Speziale con un colpo di un sotto lavello in lamiera. Di fronte a dichiarazioni del genere ci chiediamo come sia possibile che né la polizia né la famiglia di Raciti ci abbiano contattato per chiedere chi sia la persona con cui abbiamo parlato o di visionare il materiale. Silenzio anche da parte del capo della polizia Franco Gabrielli, intervenuto invece dopo il nostro primo servizio sul caso dicendo: “Se qualcuno vorrà legittimamente presentare nuovi elementi che possano promuovere una revisione del processo è corretto che lo faccia nelle aule di giustizia e non nelle trasmissioni televisive”. I nuovi elementi li abbiamo presentati con i mezzi che abbiamo a disposizione, e cioè con un nuovo servizio tv, eppure non hanno suscitato alcuna reazione da parte dei diretti interessati. Silenzio, oltre che da parte della polizia, anche da parte della famiglia di Raciti. Ci chiediamo: se la testimonianza è falsa perché non intervenire? E in caso contrario: non avete niente da dire?

Com'è morto davvero Filippo Raciti? Il racconto shock. Le Iene News il 12 novembre 2020. Ismaele La Vardera torna a parlarci del caso dell’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti, morto negli scontri seguiti al derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007. Per il suo omicidio è stato condannato in via definitiva Antonino Speziale, ma questo racconto esclusivo, se confermato, solleverebbe nuovi dubbi sulla sua colpevolezza. “Quel giorno al cimitero si avvicina questo collega, un poliziotto, e dice questa frase: "signor Raciti le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia, perché è stata una manovra errata di un collega”. A parlare con Ismaele La Vardera è una donna,che sostiene di esser stata al funerale di Filippo Raciti e di aver udito questa frase rivolta al padre dell’ispettore. L’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti è morto durante gli scontri a seguito della partita di calcio Catania-Palermo avvenuti il 2 febbraio 2007. Noi de Le Iene ci stiamo occupando di questa vicenda con il nostro Ismaele La Vardera: nel primo servizio vi abbiamo raccontato come Antonino Speziale, all’epoca dei fatti 17enne, è stato condannato in via definitiva per l’omicidio di Raciti. Nel secondo servizio vi abbiamo raccontato di un’intercettazione, registrata nel carcere di Catania due settimane dopo la morte dell’ispettore capo Filippo Raciti. A parlare sono tre persone: nella registrazione si discute della presunta esistenza di un video, che racconterebbe un’altra versione di quanto accaduto e della possibile esistenza di un testimone. Nella terza puntata dell’inchiesta di Ismaele La Vardera abbiamo approfondito un altro aspetto della vicenda: la teoria alternativa - non avvallata durante il processo - secondo cui Filippo Raciti potrebbe essere stato investito da un mezzo della polizia. Adesso vi facciamo ascoltare questa nuova testimonianza che, qualora fosse confermata, potrebbe suscitare nuovi dubbi su chi sia effettivamente responsabile della morte dell’ispettore capo Filippo Raciti. Possibile che la teoria dell’investimento sia nuovamente da considerare? Qui sopra, nel servizio, cerchiamo risposte.

Morte di Filippo Raciti: la teoria dell'investimento e i dubbi sulle ferite. Le Iene News News il 05 novembre 2020. Ismaele La Vardera torna a parlarci della morte dell’ispettore capo Filippo Raciti: in questo nuovo capitolo, viene approfondita la teoria alternativa, scartata però durante il processo, secondo cui l’agente potrebbe essere stato colpito da un mezzo della polizia. “È una cosa che non ha fatto e per cui sta pagando la sua gioventù, non è giusto e non è umano”. La mamma di Antonino Speziale è convinta dell’innocenza di suo figlio, che è stato condannato in via definitiva per l’omicidio di Filippo Raciti. L’ispettore capo è morto durante gli scontri a seguito della partita di calcio Catania-Palermo avvenuti il 2 febbraio 2007. Da qualche settimana ci stiamo occupando di questa vicenda con il nostro Ismaele La Vardera. Nel primo servizio vi abbiamo raccontato come Antonino Speziale, all’epoca dei fatti 17enne, è stato condannato in via definitiva per l’omicidio di Raciti. Speziale si trova ancora in carcere e sta scontando gli ultimi mesi della pena, che dovrebbe terminare il 15 dicembre. Nel secondo servizio vi abbiamo raccontato di un’intercettazione, registrata nel carcere di Catania due settimane dopo la morte dell’ispettore capo Filippo Raciti. A parlare sono tre persone: nella registrazione si discute della presunta esistenza di un video, che racconterebbe un’altra versione di quanto accaduto e della possibile esistenza di un testimone. In questa nuova puntata dell’inchiesta di Ismaele La Vardera, che potete vedere qui sopra, approfondiamo un altro aspetto della vicenda: la teoria alternativa - non avvallata durante il processo - secondo cui Filippo Raciti potrebbe essere stato investito da un mezzo della polizia. Ci sono poi i dubbi legati alle ferite riportate dall’ispettore capo di Polizia, che potrebbero essere compatibili proprio con la teoria dell’investimento. Parla infine l’avvocato della famiglia Raciti, convinto che il vero colpevole sia effettivamente Antonino Speziale. 

L'assassino di Filippo Raciti dopo il derby siciliano è davvero Antonino Speziale? Le Iene News il 22 ottobre 2020. Il 2 febbraio 2007 Filippo Raciti è morto durante gli scontri con gli ultras dopo il derby tra Catania e Palermo. Antonino Speziale, all’epoca 17enne, è stato condannato in via definitiva per l’omicidio dell’ispettore capo di Polizia ma secondo alcuni ci sono cose che sembrano non tornare in quella ricostruzione. Ismaele La Vardera indaga sul caso. L’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti è morto durante gli scontri con gli ultras dopo il derby tra Catania e Palermo. Era la sera del 2 febbraio del 2007, la notizia della morte di Raciti fece il giro del mondo e portò il governo italiano a varare una rigida stretta per contrastare la violenza degli ultras. Per l’omicidio di Filippo Raciti è stato condannato in via definitiva Antonino Speziale che all’epoca dei fatti aveva 17 anni. Speziale si trova ancora in carcere e sta scontando gli ultimi mesi della pena: ma è davvero lui il colpevole della morte di Filippo Raciti? Il nostro Ismaele La Vardera, nel servizio che potete vedere qui sopra, ricostruisce le possibili incongruenze che avrebbero contribuito alla condanna di Speziale. A sollevare dubbi sulla sua colpevolezza non sono solo la famiglia e l’avvocato ma anche persone che non fanno parte del mondo del calcio o della tifoseria organizzata. “Antonino Speziale era il colpevole ideale”, dice il giornalista d’inchiesta Piero Messina. “Un poco testa calda, fanatico del calcio, famiglia per bene ma umile, frequentazioni un po’ borderline. C’era una breccia che poco a poco è diventata una porta, un portone, una voragine. E in quella voragine è caduto Antonio Speziale che è stato condannato per un delitto che secondo me non ha commesso”. La Iena ripercorre le tappe che hanno portato alla condanna di Speziale, con un finale a sorpresa: secondo alcuni ci sarebbe un’ipotesi alternativa, credibile e supportata da riscontri: ci spiega tutto qui sopra il servizio di Ismaele La Vardera. 

Morte di Filippo Raciti, l'intercettazioni in carcere: c'è un testimone? Le Iene News il 30 ottobre 2020. Sono passati 13 anni dalla morte dell’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti. Per il suo omicidio sta scontando gli ultimi mesi di carcere Antonino Speziale. Alcune intercettazioni sembrano però offrire un’altra possibile ricostruzione: c’è un testimone di quanto sarebbe accaduto? Ismaele La Vardera si mette sulle sue tracce. “C’era lo sportello aperto, ha fatto manovra e gli è arrivato addosso. Stanno aspettando che qualcuno ha ripreso con la telecamera dal balcone o con qualche telefonino. L’elettrauto Nuccio era la e l’ha visto”. Questa intercettazione è stata registrata nel carcere di Catania due settimane dopo la morte dell’ispettore capo Filippo Raciti. A parlare sono tre persone: una madre e un padre mentre incontrano il figlio arrestato dopo gli scontri della partita di calcio Catania-Palermo avvenuti il 2 febbraio 2007, in cui Raciti ha perso la vita. Per il suo omicidio è stato condannato in via definitiva Antonino Speziale, all’epoca dei 17enne, come ci ha raccontato Ismaele La Vardera nel primo servizio dell’inchiesta. Speziale si trova ancora in carcere e sta scontando gli ultimi mesi della pena: ma è davvero lui il colpevole di quella morte? L’intercettazione sembra offrire un’altra possibile ricostruzione: in questa registrazione si parla della presunta esistenza di un video che racconterebbe un’altra versione di quanto accaduto. Durante il processo però questa versione non sarebbe stata ritenuta attendibile in quanto il padre del tifoso, una volta sentito dagli inquirenti, ha ridimensionato le sue stesse parole limitandosi a dire di aver riportato solo delle voci che correvano in città. Il nostro Ismaele La Vardera si è messo sulle tracce di questo possibile testimone: per sapere cosa ci ha risposto, guardate il servizio in testa a questo articolo

Omicidio Raciti, il capo della polizia Gabrielli: caso in Tribunale, non in tv. Noi de Le Iene continueremo cercare la verità. Le Iene News il 23 ottobre 2020. “Se qualcuno vorrà presentare nuovi elementi è corretto che lo faccia nelle aule di giustizia e non nelle trasmissioni televisive” sostiene, il giorno dopo il nostro servizio sul caso, il capo della polizia Franco Gabrielli incontrando Fabiana Raciti, figlia dell’ispettore capo Filippo Raciti morto nel 2007 durante scontri con gli ultras a Catania. Noi de Le Iene, che con Ismaele La Vardera ci chiediamo se a ucciderlo sia stato davvero Antonino Speziale, già condannato in via definitiva, continueremo a mettere a disposizione della collettività quello che abbiamo raccolto, come è nostro dovere. Per amore di verità e nel massimo rispetto per le istituzioni, come sempre. Anche sull’omicidio dell’ispettore Raciti noi de Le Iene proseguiremo per amore di verità come sempre nel nostro lavoro, mettendolo a disposizione della collettività nel massimo rispetto dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia. Lo ripetiamo subito dopo l’intervento sul caso del capo della polizia Franco Gabrielli. “Se qualcuno vorrà legittimamente presentare nuovi elementi che possano promuovere una revisione del processo è corretto che lo faccia nelle aule di giustizia e non nelle trasmissioni televisive”. È quanto sostiene Gabrielli, che ha incontrato oggi Fabiana Raciti, figlia dell’ispettore capo della polizia Filippo Raciti morto in servizio nel 2007 durante scontri con gli ultras a Catania. “La Polizia di Stato non ha bisogno di capri espiatori e non può accettare che una vicenda così dolorosa, che ha avuto la sacramentazione di un giudizio definitivo”, prosegue la nota, “possa essere messa in discussione, in pochi minuti, con una ricostruzione parziale e una parvenza di verità per giunta pregiudiziale”. L’intervento arriva dopo il nostro servizio sul caso, che vi riproponiamo qui sopra e che è andato in onda ieri sera, giovedì 22 ottobre. Ismaele La Vardera si chiede se sia stato davvero Antonino Speziale, condannato in via definitiva per quell’omicidio, a uccidere Raciti il 2 febbraio 2007. Noi abbiamo presentato un punto di vista che supporterebbe un’ipotesi alternativa e l’abbiamo messo a disposizione della collettività facendo il nostro lavoro, come è nostro dovere. Continueremo a farlo, anche nelle prossime puntate in cui continueremo a seguire il caso, sempre nel massimo rispetto dell’autorità giudiziaria e delle forze dell’ordine. Per amore di verità.

Morte dell'ispettore capo Raciti, le intercettazioni in carcere: c'è un testimone? Le Iene News il 28 ottobre 2020. Sono passati 13 anni dalla morte dell’ispettore capo di Polizia Filippo Raciti. Per il suo omicidio sta scontando gli ultimi mesi di carcere Antonino Speziale. Alcune intercettazioni sembrano però offrire un’altra possibile ricostruzione. Ismaele La Vardera si mette sulle tracce di un possibile testimone. “C’era lo sportello aperto, ha fatto manovra e gli è arrivato addosso. Stanno aspettando che qualcuno ha ripreso con la telecamera dal balcone o con qualche telefonino. L’elettrauto Nuccio era la e l’ha visto”. Questa intercettazione - in cui si fanno nomi e cognomi - è stata registrata nel carcere di Catania due settimane dopo gli avvenimenti. A parlare sono tre persone: una madre e un padre mentre incontrano il figlio arrestato dopo gli scontri della partita di calcio Catania-Palermo avvenuti il 2 febbraio 2007. Quella sera morì l’ispettore capo Filippo Raciti. Per il suo omicidio è stato condannato in via definitiva Antonino Speziale che all’epoca dei fatti aveva 17 anni, come ci ha raccontato Ismaele La Vardera (qui il servizio). Speziale si trova ancora in carcere e sta scontando gli ultimi mesi della pena: ma è davvero lui il colpevole di quella morte? Queste intercettazioni sembrano offrire un’altra possibile ricostruzione. I protagonisti erano ignari della registrazione che stava avvenendo in un momento in cui ancora nessuno sembra avesse percorso alcuna altra ipotesi. 

Madre: “In un filmato si è visto che con la jeep gli hanno dato botte”.

Padre: “L’ha visto uno che era là allo stadio”.

Madre: “Questo dovrebbe testimoniare, no?”

Padre: “Stanno aspettando che qualcuno ha ripreso con la telecamera dal balcone o con qualche telefonino...Nuccio…sig. Nuccio...l’elettrauto, Nuccio...dice che lui era là e l’ha visto”.

Andrea: “Gli hanno dato un colpo di sportello alla guardia? Però non sa se era lui”.

Madre: “Ma chi, quello che è morto?”

Padre: “Penso di sì”.

Andrea: “Ma come gli è arrivato questo colpo?”

Padre: “C’era lo sportello aperto, ha fatto manovra e gli è arrivato addosso”.

Madre: “Non è giusto, si deve fare il carcere per niente”.

Andrea: “Perché non lo dice questo?”

Madre: “Zitto, non lo dire in giro”.

In questa registrazione si parla della presunta esistenza di un video che racconterebbe un’altra versione di quanto accaduto. Durante il processo però questa versione non sarebbe stata ritenuta attendibile in quanto il padre del tifoso, una volta sentito dagli inquirenti, ha ridimensionato le sue stesse parole limitandosi a dire di aver riportato solo delle voci che correvano in città. A distanza di 13 anni, Ismaele La Vardera si è messo sulle tracce di questa persona che sembra aver visto alcuni particolari poche ore prima della morte di Raciti. 

Il caso Raciti. Storia di Antonino Speziale e di una persecuzione giudiziaria. Piero Sansonetti de Il Riformista il 16 Aprile 2020. Il magistrato di sorveglianza ha respinto la richiesta di scarcerazione anticipata (con invio ai domiciliari) per Antonino Speziale, anni 25, che ha scontato sette anni e mezzo di prigione e deve scontare ancora sei mesi. Il due febbraio del 2007, a Catania, durante uno scontro violentissimo tra tifosi del Catania e del Palermo, morì un giovane ispettore di polizia, Filippo Raciti. Non era uno sceriffo, era un poliziotto serio, appassionato, dicono che avesse un carattere dolce, viveva ad Acireale, a due passi da Catania. Aveva trent’anni, una moglie giovane come lui e due figlioletti bambini, che ora saranno diventati grandi, e son cresciuti senza il papà. Morì con il fegato spappolato. Fu colpito da qualcosa mentre infuriava la guerriglia. La sua storia commosse tutti, e indignò la furia sciocca delle tifoserie, che dal primo pomeriggio fino a sera si diedero battaglia, e impegnarono addirittura 1200 poliziotti schierati intorno allo stadio per impedire tragedie. La tragedia invece ci fu, e fu la morte di uno di loro. I giornali, le Tv, l’opinione pubblica, e probabilmente anche la polizia volevano che si facesse luce subito. Subito. Che si indicasse il nome e il volto di un assassino. Voi sapete quant’è difficile trovare un assassino, se c’è stato un assassino, per una morte avvenuta in una situazione così furiosa e confusa. Nessuno aveva visto, nessuna telecamera aveva registrato, allora c’erano molte meno telecamere di oggi. E però l’imperativo era quello ed era davvero categorico: vogliamo il colpevole. Così, sulla base di qualche filmato e qualche foto, fu individuato un gruppo di ragazzi che avevano partecipato agli scontri. Ultras del Catania. Uno di loro aveva qualcosa in mano, si disse che era un lavandino, trovato chissà dove. Poi si scoprì che non era esattamente un lavandino ma era un copri-lavandino, cioè un coperchio di latta che pesava qualche etto. Fu ritrovato quel coperchio vicino al luogo dove era stato colpito Raciti, e così scattò l’indagine. Fu fermato e arrestato un ragazzino di 17 anni, ultrà, un certo Antonino Speziale. I giornalisti stabilirono che era lui il colpevole. I Pm pensarono che i giornalisti avessero ragione. Il processo mediatico finì in poche ore. Colpevole. Il processo in tribunale fu più complesso. Per tante ragioni. La ragione principale è che un collega di Raciti – interrogato in questura come persona informata sui fatti – raccontò di aver fatto marcia indietro con la sua jeep e di avere colpito qualcosa, di aver sentito la botta e poi di essersi girato e di avere visto Raciti che si teneva la testa tra le mani. Subito dopo quella retromarcia Raciti fu soccorso e portato in ospedale: lì morì circa due ore più tardi. Intanto i Pm avevano chiesto una perizia sul sopra-lavello che avevano individuato come arma del delitto. La perizia la svolsero i carabinieri del Ris di Parma – autorità assoluta in questo campo – e decretarono senza ombra di dubbio che quel sopra-lavello non poteva essere stato la causa del ferimento e poi della morte di Raciti. Il Gip, su questa base, scarcerò il ragazzino. I Pm chiesero allora una seconda perizia ad altri esperti, i quali alla fine dissero che in linea di principio non era impossibile che invece fosse stato il foglio di latta a uccidere. E ottennero un nuovo arresto. Il tribunale della Libertà di Catania, come spesso succede, diede ragione ai Pm. Allora la difesa ricorse alla Cassazione e vinse in modo clamoroso. La Cassazione disse che Antonino Speziale doveva essere scarcerato per mancanza di indizi. Annullò l’arresto senza neanche rinvio. Fine dell’indagine? Così dovrebbe avvenire, a norma di diritto. Ma i Pm trovarono una via d’uscita: derubricare il reato da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. Cioè, oltre le intenzioni. In questo modo l’indagine poté esser riaperta. Da quel momento non si trovò nessun altro indizio. Non c’è una testimonianza, una fotografia, un filmato, il ricordo di qualcuno. Zero. Solo quella foto col sopra-lavello in mano. E su questa base, e sulla base della perizia che smentiva l’autorevolissimo Ris di Parma, Antonino Speziale si è preso 8 anni di prigione. Ne ha fatti sette e mezzo. Non un giorno di sconto. Nemmeno quegli sconti semiautomatici che vengono riconosciuti praticamente a tutti i detenuti. A Speziale no. Speziale è stato condannato dal popolo e dai media, non dalla legge, e quindi risponde al popolo e ai media, e il popolo e i media non ammettono sconti. Ripetono, come una filastrocca: certezza della pena, certezza, certezza. Ora l’avvocato di Speziale ha chiesto che, visto che mancano solo sei mesi a fine pena, gli siano concessi i domiciliari, anche per via del coronavirus. Ma il giudice, evidentemente, non ha ritenuto di poter decidere liberamente e nel modo più ragionevole. Sempre al popolo e ai media deve rispondere. E vi immaginate cosa possono fare il popolo e i media se scarcerano con sei mesi di anticipo il “boia di Raciti”? Non scherziamo: Crucifige. Vi abbiamo solo raccontato la breve storia di una persecuzione giudiziaria. In questo caso la vittima è un ragazzino. Ha avuto la vita rovinata. Gli hanno tolto via la giovinezza. E lo hanno indicato al Paese intero come il mostro. Qualcuno trova indegna questa storia? Qualcuno forse sì, ma pochi pochi.

·         Ingiustizia. Il caso del delitto di Garlasco spiegato bene.

Omicidio di Garlasco, no alla revisione del processo per Alberto Stasi. Pubblicato lunedì, 05 ottobre 2020 da La Repubblica.it.  La Corte d'Appello di Brescia ha rigettato la richiesta di revisione del processo presentata dai legali di Alberto Stasi. La decisione dei giudici bresciani è stata depositata questa mattina. "Confermo il rigetto" si è limitato a dire il presidente di Brescia Claudio Castelli. "Gli elementi fattuali che si vorrebbero provare con le prove nuove non sono stati comunque ritenuti idonei a dimostrare, ove eventualmente accertati, che il condannato, attraverso il riesame di tutte le prove, debba essere prosciolto, permanendo la valenza indiziaria di altri numerosi e gravi elementi non toccati dalla prove nuove", scrive la Corte d'Appello nelle motivazioni. Così per Stasi, condannato a 16 anni di carcere per la morte della fidanzata Chiara Poggi e detenuto nel carcere di Bollate, non ci sarà un nuovo processo. Su quegli elementi "mai valutati prima" l'avvocato Laura Panciroli, nominata nel dicembre scorso, aveva presentato lo scorso giugno la richiesta di revisione del processo convinta che potessero "escludere una volta per tutte le responsabilità" di Stasi. La decisione su uno dei casi di cronaca rimasti più impressi nella memoria collettiva degli ultimi anni era attesa in tempi brevi. Era il 13 agosto del 2007 quando la 26enne Chiara Poggi fu trovata morta nella casa di famiglia a Garlasco, in provincia di Pavia. Quasi subito le indagini si sono concentrate sul fidanzato che era con lei la notte prima dell'omicidio.

Niente revisione del processo. Per Stasi chiuso ogni spiraglio. La Corte d'Appello rigetta la richiesta: "Non ci sono nuove prove significative". Il giovane sconta 16 anni. Cristina Bassi, Martedì 06/10/2020 su Il Giornale. No alla revisione del processo sul delitto di Garlasco. A oltre 13 anni dall'omicidio di Chiara Poggi, per cui l'ex fidanzato Alberto Stasi sconta una pena definitiva di 16 anni di carcere, la Corte d'appello di Brescia scrive l'ennesimo capitolo di una vicenda che sembra non vedere la fine. I giudici hanno respinto la richiesta di revisione avanzata dalla difesa di Stasi. Quelle che venivano presentate nell'istanza presentata a giugno dall'avvocato Laura Panciroli come nuove prove non sarebbero invece tali. Tramonta così la possibilità di una riapertura del dibattimento. «Gli elementi fattuali - scrivono i giudici nel dispositivo - che si vorrebbero provare con le prove nuove non sono stati comunque ritenuti idonei a dimostrare, ove eventualmente accertati, che il condannato, attraverso il Riesame di tutte le prove, debba essere prosciolto, permanendo la valenza indiziaria di altri numerosi e gravi elementi non toccati dalle prove nuove». L'istanza della difesa era basata sulla rilettura di una testimonianza, messa in relazione con il presunto alibi di Stasi, e su una nuova interpretazione delle impronte trovate sul dispenser di sapone nel bagno della villetta di via Pascoli e dei capelli rinvenuti nel lavandino. Elementi che volevano smontare la tesi della sentenza secondo cui l'assassino si è lavato le mani dopo l'omicidio. A proposito di quest'ultimo punto la Corte di Brescia sottolinea come «la presenza di frammenti di impronte non utili ad una comparazione era già stata segnalata dal Ris, non può ritenersi prova nuova». Lo stesso per la presenza di microcrosticine di sapone sul dispenser e di quattro capelli nel lavandino: «Non sono state ritenute prove nuove in quanto trattasi di elementi noti e già valutati e comunque privi della capacità dimostrativa in ordine al fatto nuovo che si vorrebbe provare». Poi c'è il nodo dell'alibi. Secondo la difesa, sarebbe cruciale la deposizione di Manuela Travain, testimone sentita più volte, la quale sostiene di avere visto passando in auto davanti alla casa del delitto una bicicletta nera da donna appoggiata al cancello. La tempistica di tale avvistamento sarebbe incompatibili con i movimenti di Stasi quel giorno. Ma, valutano i giudici, anche le parole della teste «sono state valutate dalla corte di merito». Da qui l'ordinanza di inammissibilità della richiesta di revisione. «Per la sesta volta consecutiva (corte di Assise di appello di Milano, tre volte la Cassazione e due volte Brescia) la colpevolezza di Stasi è stata confermata al di là di ogni ragionevole dubbio - interviene il legale della famiglia Poggi, l'avvocato Gian Luigi Tizzoni -. Solo chi non vuole leggere le sentenze può continuare a suggerire fantomatiche piste alternative. Questa volta, però, i Poggi non lasceranno passare sotto silenzio eventuali iniziative extragiudiziali totalmente infondate che hanno come unico scopo quello di creare una parvenza di dubbio in una vicenda che al contrario è ormai chiara e inconfutabile».

Dalla telefonata alla sentenza, il delitto di Garlasco: "Gli indizi inchiodano Stasi". Dopo la richiesta di revisione di condanna per Alberto Stasi, condannato a 16 anni di reclusione per l'omicidio di Chiara Poggi, si ritorna a parlare del delitto di Garlasco: "Ci sono sette indizi forti che provano la colpevolezza". Rosa Scognamiglio, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. Il 13 agosto 2007 a Garlasco, una cittadina di 10mila abitanti tra le risaie della Lomellina, una ragazza di 26 anni viene ritrovata cadavere all'interno della sua abitazione. Si tratta di Chiara Poggi uccisa, proveranno le indagini e un iter processuale intricato, dal fidanzato 24enne Alberto Stasi. Il 12 dicembre del 2015, atto conclusivo di una lunga e tortuosa vicenda giudiziaria, la Corte Suprema di Cassazione ascrive il reato di ''omicidio volontario'' al giovane condannandolo a 16 anni di carcere. A cinque anni dalla sentenza definitiva, lo scorso martedì 23 giugno 2020, il legale di Stasi, Laura Panciroli, annuncia di aver richiesto una revisione della condanna sostenendo di avere in pugno ''nuovi elementi che escludono la colpevolezza” dell'imputato. Un fulmine a ciel sereno che, forse, potrebbe rimescolare o invertire le carte degli atti processuali. “È altamente improbabile che il delitto possa essere rimesso in discussione. Ci sono 7 indizi forti che provano la colpevolezza di Stasi”, dice a IlGiornale.it l'avvocato della famiglia Poggi, Gian Luigi Tizzoni. Ma cosa è accaduto davvero in quella villetta al civico 8 di via Pascoli la mattina del 13 agosto 2007?

Chi è Chiara Poggi. Chiara è una ragazza di 26 anni residente a Garlasco, laureata a pieni voti in Economia e successivamente stagista presso uno studio commerciale di Milano. Ha due grandi occhi azzurri che, così come dimostreranno le indagini, sono lo specchio di un animo puro, senza vezzi. Chiara non ha né scheletri nell'armadio né grilli per la testa. Lavora sodo e, di tanto in tanto, si concede qualche chiacchierata al telefono con le amiche, uno scambio di messaggi via mail, nulla di più. Nel tempo libero, frequenta il suo fidanzato Alberto, di due anni più piccolo, del quale è innamorata. Una vita semplice, con la prospettiva di un futuro raggiante, che viene brutalmente interrotta un lunedì prefestivo di agosto.

Alberto Stasi. Un ragazzo è apparentemente tranquillo. Ha 24 anni ed è nato e cresciuto a Garlasco. All'epoca dei fatti, è iscritto alla Facoltà di Economia della Bocconi, percorso di studi che sta per ultimare con una tesi a cui lavora da mesi. Durante le pause dallo studio, Stasi incontra Chiara, con la quale trascorre molto tempo. Ma il loro rapporto, negli ultimi mesi, potrebbe essersi incrinato – la sentenza del 2014, a pagina 127, riferisce di alcune ''difficoltà” interne alle dinamiche sessuali di coppia – probabilmente anche a causa della passione di Stasi per la pornografia. Successivamente ai fatti, per i media diventerà “il biondino con gli occhi di ghiaccio” e la sua ''freddezza'', dinanzi al corpo senza vita della fidanzata, dividerà l'opinione pubblica. Per alcuni non è lui ad aver commesso il delitto, per la Giustizia è l'assassino di Chiara.

13 agosto 2007. Un mercoledì prefestivo di agosto. Chiara si trova da sola in casa, nella villetta al civico 8 di via Pascoli mentre i genitori e il fratello sono in Trentino per una breve vacanza. Alle ore 9.12, la giovane disattiva l'allarme (inserito alle 1.52) ed apre la porta all'aggressore. Indossa un pigiama rosa ed ha appena finito di fare colazione. L'assassino la colpisce al volto e al capo utilizzando un oggetto contundente - probabilmente un martello da muratore o forbici da sarto – che non sarà mai ritrovato. Chiara comincia a perdere sangue, l'aggressore la trascina per i piedi fino alla porta di accesso alla tavernetta del piano seminterrato poi, le infligge altri colpi alla nuca in cima alle scale che conducono alla cantina. Resta in vita per 30 minuti, comproveranno gli esami autoptici, salvo poi morire riversa in una pozza di sangue per le profonde ferite alla nuca.

La telefonata al 118. A dare l'allarme ai carabinieri di Garlasco è Alberto Stasi, poco dopo le 13.50. Il giovane racconta di aver telefonato a Chiara almeno 7 volte (sia da fisso che da cellulare) e di aver raggiunto la villetta dei Poggi a bordo della sua Volkswagen attorno alle 13.30. Non ricevendo risposta dalla fidanzata e notando le finestre aperte dell'abitazione, decide di scavalcare il muretto di recinzione. La porta di casa è socchiusa, Stasi attraversa il soggiorno e si dirige verso la tavernetta dove, al di là della porta, c'è il corpo senza vita di Chiara al fondo della scala. A quel punto, ritorna in strada e chiama il 118: “Sì, mi serve un'ambulanza in via Giovanni Pascoli a Garlasco – riferisce il 24enne ad un operatore – È una via senza uscita, mi sembra il 29 ma non ne sono sicuro. Credo che abbiano ucciso una persona ma non ne sono sicuro, forse è viva. Adesso sono andato dai carabinieri, c'è sangue dappertutto e lei è sdraiata per terra”. A quel punto, la centralinista domanda se si tratti di un parente: “No. - dice Stasi – È la mia fidanzata”. Poche parole, pronunciate con un tono che viene definito agli atti ''distaccato'', insospettiscono gli investigatori. Nel giro di poche ore, scongiurata l'ipotesi di un furto (non vi sono segni di effrazione nell'abitazione) il 24enne viene convocato per un interrogatorio che dura 17 ore: diventerà l'indiziato unico del processo.

Il computer contenente materiale pedopornografico. In quel periodo, Stasi sta lavorando alla tesi di laurea. Lo avrebbe fatto anche il giorno in cui Chiara viene uccisa: dalle 9.36 alle 10.17 e successivamente fino alle 12.20, quando il dispositivo viene messo in stand-by. Ma sullo stesso pc dove sta redigendo l'elaborato finale del corso di laurea, il 24enne nasconde, in una cartella denonimata ''Militare”, la sua passione per la pedopornografia. Quando i carabinieri acquisiscono il computer, all'indomani del delitto, scoprono 10mila foto di donne, talvolta anche minori, coinvolte in atti di natura sessuale ''raccapriccianti”, si legge nella sentenza del 2014. Quei file vengono catalogati ''ossessivamente” e visionati, per circa 10 minuti, anche la mattina del 13 agosto. "Anche se Stasi viene assolto per il reato di detenzione di materiale pedopornografico – spiega l'avvocato Tizzoni – non vuol dire che Chiara non abbia visto quelle immagini e gli abbia chiesto spiegazioni al riguardo. La sera precedente ai fatti, il 12 agosto, Stasi lascia il pc a casa della fidanzata e ritorna presso la sua abitazione per controllare il cane. In quel breve lasso di tempo in cui si assenta, circa 20 minuti, Chiara ha visionato alcune cartelle. Purtroppo non possiamo sapere se abbia guardato anche quella 'Militare' in quanto c'è stata un'operazione maldestra dei carabinieri, quando hanno controllato il pc, che ha alterato gli accessi. Ma è altamente probabile che lo abbia fatto”.

Le scarpe. Il principale elemento indiziario a carico del 24enne sono il ''mancato imbrattamento delle scarpe” nonostante abbia attraversato la scena del crimine. Dai rilievi effettuati dai Ris di Parma, emerge che le impronte lasciate dall'assassino di Chiara corrispondano ad un paio di scarpe numero 42, la stessa misura del piede di Stasi. Tuttavia, sulle scarpe del ragazzo ''tipo Lacoste'' numero 41 – calza, a seconda del modello, 41o 42 – non vengono individuate tracce del Dna di Chiara. Più tardi, un raddrizzamento fotogrammetrico di un paio Geox, modello city numero 42, che l'indiziato calzerà durante il processo di primo grado indicheranno la compatibilità con la dimensione delle suole rinvenute nella villetta dei Poggi. Senza contare che, nella casa di via Pascoli non saranno mai rinvenute orme di terzi. "Il fatto che Stasi fosse entrato nella villetta, avesse aperto la porta di accesso alle scale dove ha trovato Chiara, senza sporcarsi le scarpe di sangue, è un indizio di colpevolezza. – afferma l'avvocato Tognazzi - Impossibile dal momento che, proprio lì davanti, c'era una distesa pozza di sangue. Posto che una persona non abbia il potere di volare, non è pensabile che l'abbia schivata”.

La bicicletta. È uno degli elementi-chiave del processo che determineranno la colpevolezza di Stasi. All'esterno della villetta di via Pascoli 8, viene avvistata una bicicletta nera, da donna, appoggiata alle mura d'ingresso dell'abitazione. La segnalazione viene fatta dalla testimone Bermani (durante l'indagine istruttoria) e confermata successivamente dalla teste Travain. È quella di Stasi? A quanto pare, il ragazzo è solito utilizzarne una di colore boreaux, oro e nocciola. In realtà, il ragazzo possiede quattro biciclette da donna, delle quali, una nera collocata nel negozio di ricambi del padre la cui esistenza viene nascosta agli inquirenti.

Tracce del dna sui pedali. Le indagini successive accertano che la bicicletta nera, una ''Luxury'', monta pedali Union"che, di serie, sono invece rinvenibili sulla bicicletta "Umberto Dei", quella da uomo bordeaux con cui il 24enne è solito spostarsi. Viceversa, tale veicolo, sequestrato ai tempi dell'inchiesta, monta pedali non originali Wellgo, sui quali vengono trovate tracce ''copiose'' del DNA della vittima. Il nesso è chiaro ed evidente per gli inquirenti: Stasi ha invertito i pedali delle due biciclette.

Impronte sul dispenser del sapone. Altro rilevante indizio di colpevolezza è l'impronta di digitale dell'anulare del giovane sul dispenser del sapone liquido nel bagno a piano terra di casa Poggi, segnato da residui del DNA della giovane. Sulla scena del crimine non vengono riscontrate impronte digitali appartenenti a terzi, nemmeno sul pomello della porta della cantina ''sicuramente chiusa prima di gettare il corpo giù dalle scale'', recitano gli atti.

Il capello nella mano di Chiara. Nella mano sinistra della ragazza, viene ritrovato un capello castano chiaro privo di bulbo e, quindi, di DNA. Tuttavia, alcuni residui sotto le unghie presentano marcatori maschili compatibili, ma non attribuibili con certezza all'indagato e, secondo indiscrezioni dei mass media, anche con almeno due profili maschili sconosciuti e non identificabili o confrontabili a causa del deterioramento del materiale.

I processi. La vicenda giudiziaria si protrae per ben 10 anni, un periodo lunghissimo in cui non sono mancani repentini e sorprendenti colpi di scena. Con la sentenza del 17.12.2009, il Gup del tribunale di Vigevano assolve Stasi per ''non aver commesso il fatto”, decisione confermata successivamente dalla 2° Corte di Assise d'Appello di Milano il 6.12.2011. Al processo d'appello bis, il 17 dicembre 2014, in seguito alla nuova perizia computerizzata sulla camminata e ad alcune incongruenze nel racconto, Stasi viene ritenuto colpevole e condannato a ventiquattro anni di reclusione (pena poi ridotta a 16 anni grazie al rito abbreviato) per omicidio volontario, con l'esclusione però delle aggravanti della crudeltà e della premeditazione. Presentando successivo ricorso in Cassazione, il pm chiede la conferma della condanna e l'aggravante della crudeltà (per inasprire la pena), mentre la difesa (composta dagli avvocati Angelo e Fabio Giarda e Giuseppe Colli) chiede l'annullamento senza rinvio o un nuovo processo, ricollegandosi ai dubbi espressi in precedenza dalla stessa Cassazione sull'impossibilità di determinare la colpevolezza o l'innocenza con certezza. Ad ogni modo, il 12 dicembre 2015 la Corte di Cassazione conferma la sentenza-bis della Corte d'Appello di Milano condannando in via definitiva Alberto Stasi a 16 anni di reclusione. Il ragazzo viene recluso nel carcere di Bollate.

Dal 2007 a oggi: il delitto di Garlasco.

Gli ''errori'' delle perizie. Nonostante i forti indizi di colpevolezza, Stasi viene assolto per ben 2 volte. "Viene assolto nel 2009 per tre motivazioni assurde – spiega l'avvocato Tizzoni - La prima è la testimonianza, rivelatasi poi falsa, del carabiniere Francesco Marchetto che aveva mentito sulla bicicletta di Stasi: non ha sequestrato la bici con i pedali intrisi del Dna di Chiara ma un'altra appartenuta al ragazzo. La seconda riguarda la simulazione del delitto ordinata dal giudice: i periti non hanno simulato il passaggio di Stasi davanti alla porta di accesso alla cantina, dove è stata trovata Chiara, ma si sono fermati prima. Decisione assurda dal momento che la pozza di sangue più grossa era proprio lì e Stasi non avrebbe mai potuto schivarla. La terza, invece, riguarda la storia della bicicletta. Quella coi pedali contenenti tracce del Dna della vittima Stasi l'aveva nascosta ed era bordeaux non nera come quella indicata dalla testimone Travain. Il giudice si è fatto bastare le parole della Travain e non ha chiesto che fosse sequestrata anche l'altra. Ecco perché Stasi fu assolto: per perizie incomplete. Per fortuna, poi, la Cassazione ha approfondito e ribaltato la sentenza”.

Il movente. Il delitto sarebbe stato commesso per un ''raptus'' e il movente, almeno in apparenza, sembrerebbe non essere mai stato chiarito. Ma la sentenza del 2014 riferisce di alcune ''difficoltà” interne alla coppia. “Il movente c'è. - continua il legale dei Poggi - Questo è un altro aspetto della vicenda che deve essere smentito. Nella sentenza del processo d'appello bis, il 17 dicembre 2014, il movente è riportato, eccome. C'erano dei problemi interni alla coppia e poi, c'è quello che è accaduto la sera prima del 13 agosto a comprovare ulteriormente la sua colpevolezza oltre ai 7 'indizi forti' che sono ormai noti".

Richiesta di revisione della sentenza. Il neo avvocato di Stasi, Laura Panciroli, mercoledì 24 giugno, ha depositato la richiesta di revisione della sentenza sostenendo ci siano ''nuovi elementi che escludono la colpevolezza" del suo assistito. "Ogni imputato, qualsiasi detenuto, può chiedere la revisione di una sentenza. -spiega Tizzoni - Può farlo in qualunque momento e tutte le volte che vuole a condizione che ci siano dei nuovi elementi, significativi, che consentano di ribaltare la sentenza. E, nel caso di Stasi, dubito fortemente ci sia qualcosa di nuovo in grado di invalidare 10 anni di processo. Ci sono ben 7 indizi 'forti' che determinano la sua colpevolezza. Senza contare che i suoi legali avevano già chiesto una revisione nel 2017, richiesta dichiarata agli atti 'inammissibile' ". Secondo una recente ricostruzione, Chiara potrebbe essere stata uccisa non più alle 9.12 ma un quarto d'ora dopo. Ad avvalorare l'ipotesi di una nuova 'finestra temporale', ci sarebbe la testimonianza della signora Travain sostenente che alle ore 9.30 Chiara non avesse ancora aperto le finestre. “Questo è fuori da ogni discussione. - continua il legale - Anzitutto perché non si tratta di un elemento nuovo ma già chiarito e comprovato. Poi, i tabulati telefonici dimostrano che la signora Travain, quando ha fatto la telefonata, si trovava a Dorno e non a Garlasco. Dunque, a meno che non abbia il dono della ubiquità, non vedo come possa aver visto che le finestre di casa Poggi erano chiuse, è passata di lì prima. Chiara è stata uccisa alle 9.12, è fuori discussione. E le finestre della villetta sono state aperte da Stasi per controllare che non ci fosse qualcuno nei paraggi".

I genitori di Chiara. Un dolore che si rinnova per la famiglia Poggi a 13 anni dal delitto. “Loro sono tranquilli – conclude Tizzoni -ma è chiaro che queste cose riaprono una ferita dolorosa non ancora rimarginata, rompono quel minimo di equilibrio che sono riusciti a ritrovare. Ricordiamoci che hanno perso la loro figlia in circostanze terribili. Questa richiesta che è stata fatta credo non porterà a nulla di nuovo, aggiunge solo dolore”.

B. B. per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2020. La testimonianza di una vicina, il cui telefono ha agganciato le celle telefoniche in un preciso orario, le impronte sul dispenser del bagno, i capelli nel lavandino: riparte dall'analisi di questi tre punti la richiesta di revisione della sentenza depositata dai legali di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l'omicidio di Chiara Poggi, a Garlasco. Entro la fine di luglio la Corte d'Appello di Brescia deciderà se accogliere o meno l'istanza presentata dagli avvocati del 36enne da 5 anni recluso nel carcere di Bollate. Stasi è stato condannato in Cassazione, per i genitori di Chiara non può che essere lui l'assassino di loro figlia, e nonostante i tentativi di riaprire il caso anche il processo d'appello bis si è concluso per in modo sfavorevole per l'ex bocconiano, ma da dicembre lo assiste l'avvocato Laura Panciroli, la quale è intenzionata ad andare in fondo nel dimostrare che «Stasi è innocente», ha dichiarato. «Le circostanze su cui era basata la sua condanna sono ora decisamente smentite». I nuovi elementi che scagionerebbero Alberto sono contenuti in 22 pagine fitte che prendono in considerazione soprattutto la deposizione di Manuela Travain, una vicina dei Poggi sentita più volte come teste. La signora Travain sostiene di avere visto, passando in auto davanti alla casa del delitto, una bicicletta nera da donna appoggiata sul cancello. Una bici, appureranno le indagini, diversa da quella dell'imputato per il tipo di manubrio, il cestino, le molle sotto il sellino. Ma allora di chi è quella bici? Si è sempre detto di una ragazza, che conosceva bene la vittima. Nella simulazione di quella mattina fatta dalla difesa, e mostrata anche nella scorsa puntata dalle Iene su Italia1, particolare importanza viene data alle persiane della porta-finestra al piano terra della villetta del massacro. Per la Travain, che è transitata in auto quel 13 agosto 2007 tra le 9,27 e le 9,28 «tutte le finestre erano chiuse e il cancelletto aperto». Allora chi ha aperto la finestra della cucina del piano terra che alle 13 i carabinieri trovano spalancata? Per la difesa, solo Chiara può averlo fatto, il che attesta che era ancora viva intorno alle 9,30 e se è vero che Stasi accende il computer alle 9,35 come può avere ucciso la fidanzata e poi essere andato in 5 minuti scarsi nella propria abitazione situata altrove? Poi le impronte sul dispenser del bagno miste a Dna: oltre a quelle di Stasi ce n'erano altre su cui non sono stati effettuati approfondimenti, scrive l'Agi, e c'erano, inoltre, quattro capelli nel lavandino. Questo farebbe sorgere dei dubbi sul fatto che il lavabo sia stato davvero lavato dopo il delitto. Una ricostruzione ovviamente contestata da Gian Luigi Tizzoni, legale dei Poggi. Eppure, l'omicidio di Garlasco, da 13 anni, divide ancora.

Garlasco, chiesta revisione per Alberto Stasi: nuovi elementi sull'omicidio di Chiara Poggi. Le Iene News il 23 giugno 2020. L’avvocato di Alberto Stasi chiede di rivedere il processo di condanna a 16 anni di carcere per l’omicidio di Garlasco (Pavia). Sono passati 13 anni dalla morte di Chiara Poggi e ancora molti punti sono oscuri. Alessandro De Giuseppe ci racconta i nuovi elementi di questa oscura vicenda. “Abbiamo depositato una richiesta di revisione della condanna di Alberto Stasi. In questa vicenda tragica, ma anche oscura, non sono ancora state scritte le pagine giuste e definitive”. Lo dice Laura Panciroli, legale del ragazzo condannato a 16 anni di carcere per aver ucciso a martellate la sua fidanzata Chiara Poggi a Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. “Questo è davvero un errore. Alberto Stasi non è responsabile di questo fatto”, aggiunge Panciroli, nominata nel dicembre scorso proprio "per una completa rilettura della complessa vicenda processuale, finalizzata alla sua revisione". Sono quasi 5 anni che Stasi è rinchiuso nel carcere milanese di Bollate, anni in cui ha sempre cercato di dimostrare la sua innocenza. I dettagli che sembrano non tornare sono tanti e il primo a dirlo è stato Stasi che qualche tempo fa ha chiesto direttamente a Le Iene di occuparsi del suo caso scrivendoci una lettera dal carcere. Dopo anni di indagini i suoi avvocati dicono di avere le carte giuste per arrivare a una nuova verità. Vi raccontiamo con Alessandro De Giuseppe i nuovi elementi che sembrerebbero far vacillare quella condanna.

Da corriere.it il 23 giugno 2020. «È stata depositata una articolata richiesta di Revisione della sentenza che ha condannato a 16 anni di reclusione Alberto Stasi per la tragica morte di Chiara Poggi». Lo afferma l’avvocato Laura Panciroli, nominata nel dicembre scorso proprio «per una completa rilettura della complessa vicenda processuale, finalizzata alla sua revisione». Chiara Poggi era stata uccisa a Garlasco (Pavia) il 13 agosto del 2007 e l’autore dell’omicidio fu identificato nell’allora fidanzato Alberto Stasi, 24 anni all’epoca dei fatti, oggi 36enne, che a dicembre 2015 è stato condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione ed è ora detenuto nel carcere di Bollate. «Sono stati individuati e sottoposti al vaglio della competente Corte di Appello di Brescia elementi nuovi, mai valutati prima, in grado di escludere, una volta per tutte, la sua responsabilità», dichiara l’avvocato di Alberto Stasi, Laura Panciroli. La revisione di una sentenza definitiva è un provvedimento rarissimo, che come presupposto deve avere nuove prove di straordinaria importanza, non disponibili e neppure immaginabili all’epoca del dibattimento. «Le circostanze su cui era basata la sua condanna (le stesse, peraltro, sulle quali era stato prima, ripetutamente, assolto) sono ora decisamente smentite - dice l’avvocato -. Si è sempre dichiarato innocente e in molti hanno creduto che la verità andasse cercata altrove. Ora ci sono elementi anche per proseguire le indagini». «Posso dire che abbiamo scelto argomenti nuovi, mai valutati prima, e a nostro avviso decisivi e seri - spiega Panciroli -. Quella sentenza è stata una forzatura, censurabile sotto tanti punti di vista. Nel tempo si sono aperti nuovi scenari, noi ci siamo concentrati su quelli più argomentabili». Si attende ora l’eventuale ammissibilità della richiesta da parte della corte di Appello di Brescia. «Siamo sereni rispetto alla valutazione della corte», conclude l’avvocato.

Delitto di Garlasco, “Alberto Stasi non ha ucciso Chiara Poggi, abbiamo nuovi argomenti decisivi”. Il Dubbio il 23 giugno 2020. La difesa di Stasi annuncia un’istanza di revisione della sentenza definitiva. L’uomo è stato condannato a 16 anni di reclusione per l’omicidio dell’allora fidanzata Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007 nella villetta di famiglia a Garlasco. La difesa di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per l’omicidio dell’allora fidanzata Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007 nella villetta di famiglia a Garlasco (Pavia), ha depositato una istanza di revisione della sentenza. Lo conferma all’Adnkronos Laura Panciroli, legale di Stasi dallo scorso dicembre. Senza entrare nel merito dei contenuti dell’istanza, posso dire che abbiamo scelto argomenti nuovi, mai valutati prima, e a nostro avviso decisivi e seri – spiega Panciroli -. Quella sentenza è stata una forzatura, censurabile sotto tanti punti di vista. Nel tempo si sono aperti nuovi scenari, noi ci siamo concentrati su quelli più argomentabili”. Si attende ora l’eventuale ammissibilità della richiesta da parte della corte di Appello di Brescia. “Siamo sereni rispetto alla valutazione della corte”, conclude l’avvocato.

La morte di Chiara Poggi. Chiara Poggi fu trovata morta  il 13 agosto del 2007 nella villetta di famiglia a Garlasco. La giovane fu assasinata a colpi di un oggetto contundente mai identificato (forse un martello) e, secondo gli inquirenti conosceva l’assassino. La ragazza era sola in casa, mentre i genitori e il fratello erano in vacanza. Il fidanzato Alberto Stasi, studente della Bocconi e in seguito impiegato commercialista, trovò il corpo e diede l’allarme, ma i sospetti si concentrarono subito su di lui. Gli inquirenti erano convinti che “l’eccessiva pulizia delle scarpe”, fosse un indizio di colpevolezza. I magistrati si convinsero che “le aveva lucidate o cambiate dopo essere passato sul pavimento sporco di sangue (su cui avrebbe dovuto perlomeno minimamente sporcarsi mentre vi camminava in cerca della fidanzata, o dopo), oltre che sull’assenza di sangue sui vestiti (anche in questo caso, come se fossero stati cambiati) e su alcune incongruenze del suo racconto”. Stasi fu arrestato il 24 settembre 2007- con un’ordinanza della Procura di Vigevano- ma scarcerato il 28 settembre 2007 dal giudice per le indagini preliminari Giulia Pravon per insufficienza di prove.

La vicenda processuale. Il 18 aprile 2013, annulla la sentenza di assoluzione per Stasi che rimarrà l’unico indagato .Secondo i legali, Stasi non si sarebbe sporcato poiché il sangue era già secco; la perizia medico-legale indicò un’ora della morte congruente con questa ipotesi e quella informatica diede un alibi al giovane, che sarebbe stato al lavoro sul computer a preparare la tesi di laurea. Sempre secondo la difesa, il delitto, dopo aver suggerito di indagare in ambito famigliare e lavorativo, potrebbe attribuirsi a una rapina violenta, in cui il ladro si sarebbe fatto inizialmente aprire dalla vittima con l’inganno.

Questa ipotesi fu respinta anche dalle sentenze assolutorie. In primo grado il 17 dicembre (2009) al tribunale di Vigevano, il GUP Stefano Vitelli, in funzione di giudice monocratico, assolse Stasi, per insufficienza di prove. In appello il 7 dicembre 2011, davanti alla Corte d’Assise d’appello con giudici popolari e col processo spostato a Milano, una nuova perizia (non accettata però dal collegio giudicante) spostò l’ora della morte, negandogli così l’alibi e la plausibilità del fatto che non si sarebbe sporcato, senza per questo ottenere una condanna. La sentenza fu di assoluzione “per non aver commesso il fatto”.

La Cassazione, tra le motivazioni dell’annullamento, ordinò esami del DNA su un capello trovato tra le mani della vittima (non noto durante il primo giudizio) e su residui di DNA sotto le unghie, repertati e mai analizzati. Nonostante l’annullamento con rinvio delle due assoluzioni, la Suprema corte ribadì che fosse, a proprio giudizio, difficile «pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza» e quindi «impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi», preferendo però non confermare il proscioglimento, in attesa dei nuovi esami scientifici.

Si accerta che la bicicletta “Luxury” nera da donna della famiglia Stasi, compatibile con la bici vista da una testimone e confusa all’epoca con una della famiglia Poggi, monta pedali “Union”, che sono montati di serie sulla bicicletta “Umberto Dei” da uomo bordeaux della famiglia Stasi. Viceversa, tale bicicletta, sequestrata ai tempi dell’inchiesta, monta pedali non originali Wellgo, sui quali sono state trovate tracce dei DNA della vittima. Si suppone pertanto uno scambio di pedali tra le due biciclette della famiglia Stasi. Il capello castano chiaro risulta invece privo di bulbo e quindi di DNA, mentre i residui sotto le unghie presentano marcatori maschili compatibili, ma non attribuibili con certezza all’indagato e, secondo indiscrezioni dei mass media, anche con almeno due profili maschili sconosciuti e non identificabili o confrontabili a causa del deterioramento del materiale.

Una fotografia con un presunto graffio sul braccio del giovane, risulta però non probatoria perché sgranata. Le scarpe di Stasi, secondo la perizia dei RIS del 2014, avrebbero dovuto “captare particelle ematiche”, perlomeno in maniera minima (all’epoca si sostenne che fossero state pulite dai residui, bassi a causa del sangue ormai secco, dal contatto con l’erba bagnata del prato) e non potevano essere completamente pulite, come risultarono nella perizia del 2007 effettuata dalla stessa scientifica. Lo stesso viene affermato del tappetino dell’auto.

In effetti, particelle di DNA della vittima furono trovate già nel 2007 sulla bicicletta di Stasi e sul tappeto dell’automobile da lui usata, ma ci fu incertezza sul fatto che fossero sangue (non furono però trovate sulle scarpe, e secondo l’accusa era la prova che Stasi mentì, e che si sarebbe cambiato le scarpe usate nel delitto) e furono scartati dal GUP. Secondo le nuove analisi invece almeno le tracce del tappetino sono ematiche e l’assenza sulle scarpe indicherebbe il cambio delle calzature “incriminate”.

Al processo d’appello bis il 17 dicembre 2014, in seguito alla nuova perizia computerizzata sulla camminata e ad alcune incongruenze nel racconto, e pur in assenza di riscontri nei nuovi test del DNA (come quello sul capello).

Stasi viene ritenuto colpevole e condannato a ventiquattro anni di reclusione (pena poi ridotta a 16 anni grazie al rito abbreviato) per omicidio volontario, con l’esclusione però delle aggravanti della crudeltà e della premeditazione. Presentando poi ricorso in Cassazione, il pm chiede la conferma della condanna e l’aggravante della crudeltà (per inasprire la pena), mentre la difesa (composta dagli avvocati Angelo e Fabio Giarda e Giuseppe Colli) chiede l’annullamento senza rinvio o un nuovo processo, ricollegandosi ai dubbi espressi in precedenza dalla stessa Cassazione sull’impossibilità di determinare la colpevolezza o l’innocenza con certezza. Il procuratore della Cassazione chiese a sorpresa l’annullamento della condanna, con preferenza per il rinvio. Tuttavia, il 12 dicembre 2015 la Corte di Cassazione conferma la sentenza-bis della Corte d’Appello di Milano condannando in via definitiva Alberto Stasi a 16 anni di reclusione, anche senza delineare un movente, parlando di un momento di rabbia di Stasi. (fonte Wikipedia)

Il giallo di Garlasco, l’omicidio di Chiara Poggi e il circo mediatico che ha condannato il mostro Alberto Stasi senza prove…Angela Azzaro su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Cinque sentenze, l’ultima definitiva di condanna. Ma sovrapposto a questa incredibile vicenda giudiziaria c’è stato un altro processo, senza appelli, senza Cassazione, senza avvocati. Un processo implacabile: quello mediatico. Chiara Poggi viene trovata morta, nella sua casa, una villetta nel piccolo paese di Garlasco, il 13 agosto del 2007. Da subito, l’attenzione degli inquirenti e dei media si concentra sul fidanzato, il bocconiano Alberto Stasi. Il paese di Garlasco, in provincia di Pavia, viene preso d’assalto da tv, giornalisti, telecamere di ogni ordine e grado. La politica quell’estate sonnecchiava, c’era poco da raccontare e le pagine e i palinsesti andavano riempiti: che cosa di meglio che un giallo con il mostro da sbattere in prima pagina? A Garlasco arrivò anche Fabrizio Corona che, prima di tutti, aveva capito l’antifona: più che il caso di un omicidio, si stava scrivendo una nuova pagina dell’informazione e della giustizia in Italia. Corona però fu da tutti criticato, perché la sua idea di processo mediatico era troppo smaccata, troppo ridondante. Tutti volevano far parte di quel circo, ma con discrezione, facendo finta di nulla, come se quel modo di raccontare un omicidio, di puntare il dito su una persona, fosse buona informazione e non linciaggio. Il tempo, almeno da questo punto di vista, ha dato ragione a Fabrizio Corona. In quel circo mediatico non era solo, erano in tanti, tutti pronti a mandare alla gogna una persona fino a quel momento innocente pur di vendere, pur di fare audience. Garlasco arriva dopo il caso di Cogne: Anna Maria Franzoni fu accusata e poi condannata per aver ucciso il figlioletto. In quell’occasione si erano già affilate le armi del processo indiziario e le armi di un patibolo virtuale in cui ci si sedeva da innocenti e se ne usciva in pochi secondi colpevoli. Garlasco scrive una nuova pagina ancora. In questo caso la colpevolezza si concentra sul carattere della persona. Con quella faccia, con quel modo di essere, con quell’espressione – scrivono i giornali e dicono le tv – l’assassino non può che essere lui: Stasi. È la stessa sorte che tocca ad Amanda Knox, anche lei messa sotto torchio non per le prove, ma perché fredda, imperturbabile. Non era venuto in mente a nessuno che era impaurita, che era in un Paese straniero e che era finita in carcere a furor di popolo. Lo stesso furore che spinse l’opinione pubblica a credere – come in un atto di fede e non secondo le leggi del diritto – che Stasi avesse ucciso la sua fidanzata. Non si tratta di essere innocentisti, ma di considerare se per quest’uomo che allora frequentava l’università – si è poi laureato in carcere – ci sia stato un giusto processo. Se questa pressione mediatica, questa ossessione nei suoi confronti non abbia giocato contro di lui, spingendo anche i giudici a orientarsi in un modo o nell’altro. Da tempo, in altri Paesi anche meno toccati dal potere del processo mediatico, si studia l’incidenza della pressione dell’opinione pubblica sulla magistratura giudicante. Come del resto restare indifferenti se tutti ti urlano contro? Se fanno il processo a te che assolvi colui che tutti hanno deciso essere l’assassino, il colpevole? Stasi in Appello – il primo dei due Appelli – fu assolto. Lì ebbe un momento di tregua e qualcuno criticò il modo in cui l’informazione si era accanita contro di lui. Lo scritto premio Strega Alessandro Piperno scrisse un bellissimo articolo sul Corriere della sera. Non era tanto una difesa di Stasi, ma una difesa dei principi democratici, una difesa della nostra civiltà che poggia – o forse meglio dire poggiava – su autori come Dostoevskij. Garlasco segna il passaggio a una società dello spettacolo in cui la presunzione di non colpevolezza è un assurdo, inutile orpello, anzi un fardello, una nota noiosa in una sinfonia con cui si vuole accompagnare tutti al patibolo. Sarebbe bello poter tornare indietro, ripercorrere le tappe di questa discesa agli inferi, fermarci e dire: no, così non va bene. Lo dovrebbe dire l’informazione (giornali e tv), la magistratura, il circo mediatico nel suo insieme. Gli occhi di una persona non possono essere la prova della sua colpevolezza. Forse non saranno romanticamente neanche lo specchio dell’anima, ma lasciamo le teorie lombrosiane – declinate in questa versione postmoderna – nel dimenticatoio. Diamo a Stasi un’altra possibilità con la revisione del processo, per difendersi senza interferenze, senza giudizi popolari. Il delitto di Garlasco a quel punto potrà entrare nella storia. Al momento è una ferita ancora aperta.

Gian Luigi Nuzzi per “la Stampa” il 24 giugno 2020. Nella pirotecnica sagra della revisione show, ultima moda con assassini certificati che chiedono di riaprire il loro processo, battendo il tamburo dell'innocenza presunta e della prova non vista, mancava solo lui, Alberto Stasi. Sì lo studente della Bocconi, oggi detenuto-centralinista nel carcere di Bollate dopo la condanna definitiva a 16 anni per aver ucciso nell'estate nera del 2007 la fidanzata Chiara Poggi nella villetta e a Garlasco. Stasi si infila nella scia di chi prova a ribaltare il verdetto della Cassazione, dietro ai vari Rosa e Olindo - quelli della strage di Erba, di Salvatore Parolisi - assassino della moglie Melania Rea, o di Antonio Logli e Massimo Bossetti che sono tutti lì a studiare. Chi a presentare già istanze, chi a recuperare atti, cercare crepe e indossare il vestito sartoriale del perfetto innocente, della vittima dell'errore giudiziario. Oddio, la nostra giustizia fa acqua da tutte le parti, spesso le pronunce nei vari gradi di giudizio sono opposte, disorientando il pubblico, ma considerare che le più importanti sentenze sui gialli degli ultimi 15 anni siano frutto di sviste seriali, è forse davvero un po' troppo. Ma gli Stasi provano a dare la spallata, infilando attesi "nuovi e clamorosi" indizi che porterebbero all'odiosa e inaccettabile abbinata di un candido innocente dietro le sbarre, ovvero l'insciente Stasi, e un pericoloso assassino di giovani ragazze libero di uccidere chissà chi altri. Sul caso di Stasi bisogna però considerare che siamo già alla seconda istanza di revisione. Donna Elisabetta Ligabò, mamma dello studente assassino, già nel 2016 aveva presentato mezzo chilo di carte bollate, ritenendo che l'assassino di Chiara non poteva certo essere il suo Alberto, ma un tale Andrea Sempio, che viveva a 400 metri dalla povera ragazza. In asse con un'altra donna, la giovane avvocatessa Giada Bocellari, mamma Elisabetta aveva arruolato degli investigatori privati della Skp investigazioni per scolpire la nuova verità. Era sceso in campo quel marcantonio di Luca Tartaglia, 188 centimetri per 110 chili, che si era messo a pedinare per giorni l'incensurato Andrea, scoprendo che l'uomo portava avanti una vita noiosa di giorni fotocopia. Era arrivato persino a prelevare dei campioni di saliva, da una tazzina di caffè e dal relativo cucchiaino, aprendo il ventaglio delle probabilità. Una coltre di indizi e suggestioni si posarono per incanto sul passato di Sempio: il suo dna - nell'asse familiare maschile- è compatibile con quello trovato sotto le unghie di Chiara, i due abitavano vicino, lui poi aveva stranamente conservato per anni in una busta di plastica un documento inquietante. Era lo scontrino del parcheggio dove lasciò l'auto per andare ad acquistare dei libri nel giorno del delitto. Un'attenzione sospetta, quasi tesa a costituirsi un alibi. Certo, poi tante cose non tornavano. L'assassino di Chiara indossava scarpe numero 42 quando Sempio invece da sempre calza il 44, la ragazza aveva aperto la porta di casa in pigiama a qualcuno che evidentemente conosceva, mentre non c'erano contatti, saldi punti in comune tra i due ma, insomma, mai dire mai. Partirono inchieste - con denaro pubblico - vennero fatte verifiche, messe microspie, rivisti i rilievi genetici. Ma poi si torna sempre a lui, ad Alberto Stasi. A un assassino privo dell'inspiegabile fascino del male, gli occhi chiari e freddi di chi immagini anaffettivo, il volto pallido al contrario di una Chiara che abbracciava la vita. Se si rispolverano gli atti del processo si capisce perché. Il suo racconto di quando entrò in casa per trovare Chiara morta è incompatibile con quanto emerso dai rilievi scientifici. E non tanto per il pallore che Alberto descrisse dell'elegante volto di Chiara quando in realtà era una maschera di sangue. Stasi giurò di aver scoperto il corpo riverso, con macchie dappertutto, quando poi non vennero trovate tracce ematiche sulle suole delle scarpe e sul tappetino dell'auto. Com' era possibile? Né vennero evidenziate impronte sulla grande macchia di sangue vicino alla porta da lui ipoteticamente aperta. Insomma, Stasi avrebbe camminato come un fantasma senza sporcarsi, senza nemmeno rompere le piccole macchie secche disperse in casa, né lasciare le classiche tracce di riporto. Era cioè da escludersi che Stasi potesse non macchiarsi, attraversando la scena del crimine. Invece, le copiose tracce di Chiara vennero trovati sui pedali Wellgo montati sulla bicicletta bordeaux da uomo appartenente al padre di Alberto con un evidente e inspiegabile cambio degli stessi, asportati dalla bici nera da donna Luxury d'origine e montati di gran fretta su un altro velocipide, fuori dallo spettro delle indagini, come si poteva dedurre dai graffi in senso orario e antiorario rinvenuti, frutto di un montaggio compiuto da inesperti. Ancora, il dispenser del sapone e l'intero bagno offrirono solo le impronte del condannato e quindi se l'assassino si è lavato le mani e ha ripulito il dispenser, questo deve essere stato Stasi. Il vero buco nero di questa storia è il movente che ancora manca, lasciando nei parenti di Chiara un ulteriore buio. Durante le indagini si sostenne che Stasi la uccise dopoché la ragazza scoprì materiale pedopornografico nel computer del fidanzato. Un'ipotesi ora da archiviare visto che la giustizia ha da tempo assolto, anche se fatto poco noto, Stasi dal possesso di questo materiale: sul suo computer non si trovò mai la presenza certa di video o immagini di minori ma solo "tracce", mai scaricate. Adesso però bisognerà capire la solidità di questa mossa della difesa di Stasi. Se davvero è stato qualcun altro e finora nessuno se n'era mai accorto o se è solo un'abile mossa per sparigliare le carte e cercare di dare una spallata alla verità.  

Un alibi per Stasi condannato per l'omicidio di Garlasco? Le Iene il 17 dicembre 2019. Chiara Poggi è stata uccisa il 13 agosto 2007 a Garlasco. Per l’omicidio è stato condannato l’ex fidanzato Alberto Stasi. Dopo 12 anni vi mostriamo in esclusiva a Le Iene un nuovo elemento che potrebbe scagionarlo. Alessandro De Giuseppe ci racconta tutto . Il 13 agosto 2007 Chiara Poggi, 26 anni è stata uccisa a Garlasco mentre si trovava nella villetta di famiglia. Il suo ex fidanzato, Alberto Stasi, è stato condannato in via definitiva per il suo omicidio. Per i giudici, la mattina di 12 anni fa Alberto va in bici alla casa di Chiara. Lei disinserisce l’antifurto alle ore 9.12, apre la porta e lo fa entrare. Dopo qualche minuto per uno scatto d’ira di cui non si sarebbe mai capito il movente, lui la prende a martellate con un oggetto contundente, mai ritrovato, fino a ucciderla. C’è però chi solleva molti dubbi sull’ultima sentenza. Ma oggi ci potrebbero essere nuovi elementi in grado di scagionare Stasi. “I giudici dicono che lui non ha un alibi”, sostiene il criminologo Alberto Miatello. Abbiamo ricostruito a 360° quello che una delle testimoni avrebbe visto all’esterno della villa dei Poggi negli istanti in cui Chiara è stata uccisa. Vi mostriamo qui sotto in esclusiva con Alessandro De Giuseppe questi nuovi clamorosi dettagli.

Garlasco, un alibi per Stasi condannato per l'omicidio di Chiara? Le Iene il 18 dicembre 2019. Dodici anni fa, il 13 agosto 2007 a Garlasco, è stata uccisa Chiara Poggi. Noi vi raccontiamo, e vi mostriamo con un video, un nuovo elemento che se confermato potrebbe dare un alibi ad Alberto Stasi, condannato in via definitiva per l’assassinio della ex fidanzata. Alessandro De Giuseppe ci mostra cosa avrebbe visto una testimone ritenuta attendibile nelle indagini Il 13 agosto 2007 Chiara Poggi è stata uccisa a Garlasco mentre si trovava nella villetta di famiglia. Il suo ex fidanzato, Alberto Stasi, è stato assolto nei primi due gradi di giudizio e poi condannato per il suo omicidio in via definitiva in Cassazione. Per i giudici quella mattina di 12 anni fa Alberto va in bici alla casa di Chiara. Lei disinserisce l’antifurto alle 9.12, apre la porta e lo fa entrare. Dopo qualche minuto per uno scatto d’ira di cui non si sarebbe mai capito il movente, lui la prende a martellate accanto alle scale con un oggetto contundente, mai ritrovato. A questo punto lui la trascina, Chiara si riprende e lui la colpisce nuovamente per poi buttarla dalle scale che portano in cantina, dove verrà ritrovato il corpo. Secondo la sentenza della Cassazione, Stasi ha girato diverse stanze della casa, per ultimo il bagno. Poi è tornato a casa in bicicletta, dove alle 9.35 ha acceso il computer. “Chiara Poggi dà l’ultimo segnale di vita alle 9.12 quando stacca l’antifurto di casa”, spiega il criminologo che fa parte del collegio difensivo di Stasi. “Invece lui dà il suo primo segnale alle 9.35 quando accende il computer. In questi 23 minuti stando ai giudici avrebbe potuto comodamente ucciderla e tornare a casa in bicicletta”. A questa ricostruzione potrebbe aggiungersi la testimonianza di Manuela Travain, lei insieme a un’altra donna sostiene di aver visto la bicicletta nera da donna appoggiata davanti a casa di Chiara. “La Travain passa davanti alla villetta Poggi verso le 9.30 e i giudici non la contestano come testimone”, sostiene Miatello. “Poi aggiunge di aver visto il cancelletto aperto e tutte le persiane chiuse. Ma quando arrivano i carabinieri le persiane della cucina sono aperte”. E allora chi le avrebbe aperte? “È pacifico sia stata Chiara Poggi, anche i giudici che condannano Stasi lo confermano. Se la Travain le vede chiuse alle 9.30, non può essere stato Stasi a uccidere Chiara in appena 5 minuti nei quali sarebbe tornato a casa in bicicletta per accendere il computer”. Questo elemento però non sarebbe stato considerato dai giudici. “Per loro la signora avrebbe visto le persiane del primo piano che erano chiuse e non poteva vedere quelle in basso”, sostiene Miatello. Abbiamo fatto un esperimento prendendo la stessa auto su cui viaggiava la Travain. Alla stessa velocità a cui andava lei (20 chilometri orari) siamo passati davanti a casa Poggi per capire che cosa effettivamente si vede. Per due secondi con un colpo d’occhio si può notare lo stato della porta finestra. E la Travain lo ha ribadito a quattro giorni dall’omicidio e un mese dopo. Anche a processo le è stato chiesto se fosse stata aperta e lei ha ribadito: “No, no tutto chiuso”. Potrebbe essersi trattato di un colpo d’occhio, ma la donna è sempre stata ritenuta attendibile. Quindi perché ritenere inattendibile solo questo elemento della sua testimonianza? A questo punto c’è da chiarire a che ora la testimone è passata effettivamente davanti a casa Poggi. “Non è mai stata fatta un’analisi per chiarire questo dettaglio”, sostiene Porta, ingegnere elettronico forense. Così gli abbiamo chiesto un parere tecnico basato sulle celle telefoniche agganciate dalla signora Travain quella mattina: “Determinare un istante quasi preciso è impossibile. Possiamo dire con ragionevole certezza che il passaggio davanti a casa Poggi è avvenuto tra le 09.27.41 e 09.28.40”. In questo minuto Chiara sarebbe stata ancora viva e Stasi avrebbe avuto meno di 8 minuti per uccidere la sua fidanzata e tornare a casa alle 9.35, quando ha acceso il computer. Per compiere l’omicidio Stasi avrebbe avuto bisogno infatti di almeno dieci minuti e di altri 7 per tornare a casa in bicicletta. Noi non possiamo sapere se quella porta finestra fosse effettivamente aperta nel momento del passaggio della Travain. Però sappiamo che dalla strada quelle persiane si potevano vedere e che lei l’ha sempre dichiarato tutte le volte che le è stato chiesto e tutti l’hanno considerata una testimone attendibile.

Garlasco e il Dna «rubato»: l’indagato scagionato contro i detective di Stasi. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Ma per i pm era diritto della difesa venirne in possesso anche se la procedura è stata «eseguita senza il consenso». Chi beve un caffè al bar o si soffia il naso per strada e getta il fazzoletto di carta nel cestino, è meglio si porti via la tazzina o tenga per sé i propri rifiuti: un paradosso ma nemmeno troppo, visto che altrimenti — stando alla motivazione con la quale la Procura di Milano chiede di archiviare una inedita coda del giallo di Garlasco — gli potrebbe capitare di essere catapultato (come indagato) dentro un procedimento penale da qualcuno che ritenga di esercitare il proprio diritto di difesa carpendogli il Dna anche senza consenso e persino a sua insaputa. Nel 2015 Alberto Stasi viene condannato in via definitiva a 16 anni per l’assassinio il 13 agosto 2007 della fidanzata Chiara Poggi a Garlasco. Ma a fine 2016 sue indagini difensive lo ritengono scagionabile dall’asserita corrispondenza tra il materiale genetico sotto le unghie di Chiara e il Dna di un amico del fratello, Andrea Sempio. In tutti i processi quel Dna sotto le unghie era risultato inidoneo a qualunque comparazione, inoltre l’assassino calzava il 42 mentre Sempio ha il 44: i magistrati di Pavia comunque indagano in lungo e largo su Sempio alla luce delle novità proposte dal difensore Angelo Giarda, e alla fine nel 2017 nell’archiviare Sempio sono trancianti sulla sua estraneità al delitto e sulla «inconsistenza» della tesi di Stasi «totalmente priva di valore scientifico». Fin qui la storia nota. Che ora si scopre non finita. L’incolpevole additato presenta un esposto ritenendo violata la sua sfera più sensibile, il Dna: il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale lascia il fascicolo a ignoti e chiede direttamente l’archiviazione, ma la gip Elisabetta Meyer non la accoglie e anzi gli ordina iscrivere nel registro degli indagati i detectives della «Skp Investigazioni srl» e l’allora avvocato di Stasi. De Pasquale a quel punto lo fa, ma prima di Natale chiede per la seconda volta l’archiviazione, con due motivi interessanti per le implicazioni generali che avrebbero. Il primo è che la procedura, «anche se eseguita senza il consenso» di Sempio e «a sua insaputa», sarebbe stata «non invasiva e non lesiva della sua integrità personale» perché il materiale biologico (asseritamente appartenentegli) sarebbe stato recuperato dall’investigatore privato di Stasi su «la tazzina di caffè e il cucchiaino presso il bar dove erano stati lasciati da Sempio, mentre la bottiglietta di plastica veniva recuperata da un sacchetto di rifiuti gettati da Sempio in un cassonetto dell’ipermercato»: quindi, per il pm, era «già separato» da Sempio e «lontano dalla sua disponibilità, senza alcuna modalità coattiva, né con violenza, né contro la sua volontà, senza incidenza sulla sua sfera di libertà». Il secondo motivo del pm è che i detectives di Stasi avrebbero trattato i dati genetici di Sempio «per le sole finalità connesse all’investigazione difensiva» (il tentativo di revisione della condanna di Stasi) «e per il tempo strettamente necessario»: diritto di difesa «quantomeno di rango equivalente alla tutela della privacy di Sempio», e che rientrerebbe nel Codice della Privacy senza bisogno di previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria alla luce di un provvedimento del Garante in vigore dal 30 dicembre 2014 al 15 dicembre 2016 (quando ne è intervenuto un altro).

Ora sull’archiviazione - alla quale si oppone il legale di Sempio, Massimo Lovati, anche per l’assenza di garanzie su chi-dove-come abbia prelevato e conservato e esaminato i reperti - deciderà il gip. Nel corso della verifica di queste notizie il Corriere ha peraltro provato a fare una di quelle richieste di «accesso agli atti» di recente contemplate in pubblico a parole dal procuratore Francesco Greco, ma la risposta è stata un rigetto per asserita «mancanza di rilevante interesse pubblico»: evidentemente non ravvisato nel tema del delicato equilibrio tra diritto di qualcuno a difendersi in giudizio anche con indagini difensive, e diritto alla tutela dell’altrui privacy nel trattamento di dati genetici di persone non consenzienti o inconsapevoli, se da essi derivino il coinvolgimento in indagini e quindi conseguenze su libertà e reputazione.

Delitto di Garlasco, tutte le tappe del processo. Si è chiusa la vicenda giudiziaria sull'omicidio di Chiara Poggi. Ecco quali sono stati i punti fondamentali e perché ci sono voluti dieci anni e cinque sentenze per stabilire la verità. Anna Ditta il 20 Febbraio 2019 su TPI. Il 28 giugno 2017 la Corte di cassazione ha confermato la condanna a 16 anni di carcere per Alberto Stasi, ritenuto colpevole dell’omicidio della fidanzata Chiara Poggi il 13 agosto 2007. Stasi, già condannato dalla Cassazione nel 2015, aveva fatto ricorso straordinario chiedendo l’apertura di un terzo processo d’Appello. È fallito anche il tentativo della difesa di Stasi di far riaprire le indagini a carico di un amico del fratello di Chiara, ritenuto invece innocente. È stato scritto così il capitolo definitivo di uno dei casi giudiziari più lunghi e complessi finiti sulla cronaca dei giornali italiani. Ma come sono andati i fatti in quel 13 agosto di quasi dieci anni fa? E quali sono state le tappe che hanno portato alla condanna di Alberto Stasi?

L’omicidio di Chiara Poggi. Il 13 agosto 2007, tra le 9:12 e le 9:35 del mattino, l’impiegata 26enne Chiara Poggi viene uccisa nella villetta in cui viveva con i suoi familiari a Garlasco, in provincia di Pavia. La ragazza viene assassinata a colpi di un oggetto contundente che non è mai stato ritrovato, forse un martello. Era sola in casa, perché i genitori e il fratello erano in vacanza. Nell’abitazione casa non c’erano segni di effrazione, Chiara aveva aperto la porta spontaneamente al suo aggressore e in pigiama. Questo fa subito pensare agli inquirenti che conoscesse il suo assassino. A dare l’allarme è il fidanzato di Chiara, Alberto Stasi, allora studente di 24 anni, che aveva trovato intorno alle 13.50 il corpo riverso in fondo alle scale che conducono alla tavernetta di casa Poggi. “Credo che abbiano ucciso una persona. Non ne sono sicuro, forse è viva…c’è tanto sangue dappertutto”, dice Stasi al 118 prima di chiamare i carabinieri. Il 24 settembre Stasi viene fermato. Secondo gli inquirenti contro di lui ci sono indizi “gravi, precisi e concordanti”.

Gli indizi contro Stasi. Ad attirare l’attenzione degli investigatori su Alberto Stasi sono il Dna di Chiara, rinvenuto sui pedali della bicicletta del ragazzo, e le scarpe di Stasi, ritenute “troppo pulite” per aver attraversato il pavimento sporco di sangue di casa Poggi. Stasi sostiene che nell’orario in cui si è verificato il delitto lui stesse lavorando al computer alla sua tesi di laurea, ma il racconto del ragazzo non convince gli inquirenti. Gli investigatori provano ad esaminare altre ipotesi, ma nessuna si concretizza. Intanto, il giudice per le indagini preliminari ritiene che non ci siano elementi sufficienti per tenere Stasi in carcere e il giovane dopo quattro giorni torna a casa. “È la fine di un incubo”, commenta il ragazzo. Il 3 novembre 2008 la procura chiede e ottiene il rinvio a giudizio di Stasi.

Le assoluzioni nel processo di primo e di secondo grado. Nel 2009 si apre di fronte al tribunale di Vigevano il processo con rito abbreviato contro Stasi, che rimane l’unico indagato. Contro di lui l’accusa chiede trent’anni di carcere per omicidio volontario. Il giudice dispone quattro nuove perizie per supplire ad alcune “significative incompletezze d’indagine” e “indizi contraddittori e insufficienti”. Secondo la difesa, Stasi non si è sporcato perché il sangue era già secco e l’orario della morte è compatibile con questa ipotesi secondo la perizia medico-legale. Inoltre, la perizia informatica conferma l’alibi del giovane, che sarebbe effettivamente stato al lavoro al computer nell’orario indicato. Su queste basi, dopo 24 udienze, il 17 dicembre 2009 il tribunale di Vigevano assolve Alberto Stasi. Nel 2011 Stasi torna in tribunale per il processo di secondo grado, celebrato a Milano. L’accusa e la famiglia di Chiara chiedono accertamenti sui frammenti organici nelle unghie della ragazza, su un capello trovato nella sua mano e sui due gradini della scala che Stasi ha calpestato prima di scoprire il cadavere. Chiedono inoltre che sia acquisita la bici nera in possesso della famiglia Stasi, compatibile con quella vista da una testimone fuori da casa Poggi la mattina del delitto. Una nuova perizia, inoltre, sposta l’orario dell’omicidio di Chiara, smentendo l’alibi dello studente e la plausibilità del fatto che non si sarebbe sporcato nel momento in cui ha rinvenuto il cadavere. Ma il collegio giudicante non accetta queste nuove verifiche. I giudici negano la riapertura del dibattimento e il 6 dicembre 2011 la Corte d’Assise d’Appello assolve nuovamente Stasi.

La sentenza di annullamento della Cassazione e il nuovo processo di secondo grado. Il 17 aprile 2013 avviene un colpo di scena: la Corte di cassazione annulla la sentenza di secondo grado e chiede che sia celebrato di nuovo il processo. La ragione è che occorre una rilettura “complessiva e unitaria degli elementi acquisiti”. Il 9 aprile 2014 Alberto torna quindi di fronte ai giudici d’appello. Stavolta viene sequestrata la bicicletta nera della famiglia Stasi. Viene disposta un’ulteriore perizia per analizzare le tracce sulle unghie e le mani di Chiara, ma non emerge nessun elemento rilevante perché i reperti sono degradati dal tempo. Infine, l’analisi dei due gradini svela che la probabilità di non sporcarsi le scarpe di sangue era quasi del tutto inesistente. Inoltre, contro Stasi ci sono le sue impronte rinvenute sul dispenser portasapone del bagno dei Poggi e il fatto che il suo numero di scarpe (42) coincide con quello dell’assassino. Il 20 dicembre 2014 Stasi viene condannato a 16 anni di carcere. A dicembre 2015 la Cassazione conferma una prima volta la condanna. Stasi si consegna alle forze dell’ordine nel carcere di Bollate.

L’accusa ad Andrea Sempio e il ricorso straordinario. In seguito a un esposto presentato dalla madre di Alberto Stasi, viene iscritto nel registro degli indagati della procura di Pavia un giovane amico del fratello di Chiara. Si chiama Andrea Sempio, che all’epoca del delitto aveva poco più di 18 anni. Sempio era già stato sentito due volte dagli inquirenti e il suo alibi era ritenuto solido. Per la difesa di Stasi il suo numero di scarpe è compatibile con quello dell’assassino e le tracce del Dna trovato sotto le unghie di Chiara coinciderebbe con il suo – elemento difficile da dimostrare dato il deterioramento dei frammenti. Gli avvocati della famiglia di Chiara fanno sapere che ritengono “infondata” qualsiasi ipotesi sulla responsabilità di terzi nell’omicidio. Sempio tuttavia per gli inquirenti è innocente, l’inchiesta nei suoi confronti viene archiviata. Stasi decide comunque di procedere con il ricorso straordinario in Cassazione, un mezzo di impugnazione consentito solo in caso di presunta violazione di legge. I legali parlano di una “svista” da parte della Suprema Corte che non si sarebbe accorta di non aver valutato come nell’appello-bis non fossero stati ascoltati alcuni testimoni della difesa. Il 28 giugno 2017 la Corte di cassazione respinge il ricorso, escludendo la possibilità di un terzo giudizio di appello contro Stasi.

Gli errori e la condanna al carabiniere che si è occupato delle indagini. Il caso di Garlasco ha dato luogo anche a un altro processo. A settembre 2016 il maresciallo Francesco Marchetto, che si è occupato delle indagini all’indomani del delitto e nel frattempo è andato in pensione, è stato condannato a due anni e mezzo di carcere per falsa testimonianza. Marchetto avrebbe mentito durante il processo di primo grado sulla questione della bicicletta nera da donna in possesso della famiglia Stasi. Il carabiniere non sequestrò né fotografò la bici nera, nonostante fosse un elemento potenzialmente importante. Forse per giustificare l’errore, disse di avere assistito personalmente alla deposizione della testimone che l’aveva vista davanti alla villa del delitto e di essere pertanto sicuro che non corrispondeva a quella custodita nell’officina del papà di Alberto, dalla quale differiva per alcuni particolari. Ci sono anche altri errori nelle indagini che hanno probabilmente reso più difficile raggiungere la verità. Le tracce di Dna sul corpo di Chiara, per esempio, sono state esaminate in ritardo. I carabinieri inoltre non fotografarono dei presunti graffi all’interno dell’avambraccio sinistro di Alberto Stasi. Infine, sul pigiama di Chiara, all’altezza della spalla, si notarono le impronte di quattro dita insanguinate che si ritiene siano dell’assassino. Delle impronte però rimase solo la fotografia perché furono cancellate quando il cadavere venne incautamente rivoltato sul pavimento cosparso di sangue.

Delitto di Garlasco, un giallo lungo nove anni: tutte le tappe della vicenda. Oggi la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso straordinario di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l'omicidio di Chiara Poggi, chiudendo definitivamente il caso di Garlasco. Ginevra Spina, Mercoledì 28/06/2017 su Il Giornale. "Ho trovato una persona uccisa in via Pascoli, venite", inizia così il giallo di Garlasco: a pronunciare quelle parole Alberto Stasi, 24enne studente bocconiano, che il 13 agosto del 2007 chiama il 118 per chiedere i soccorsi. La sua fidanzata, Chiara Poggi, è stata uccisa nella casa del paese in provincia di Pavia dove abita con i genitori e il fratello, che in quel momento sono in vacanza. Queste le tappe della vicenda che ha diviso per nove anni le due fazioni di "innocentisti" e "colpevolisti".

Le indagini.

20 agosto 2007: la Procura di Vigevano indaga Stasi con l'accusa di omicidio volontario. I carabinieri sequestrano la sua bicicletta bordeaux e il suo computer, frugano in ogni angolo della casa. Da questo momento sarà l'unico sospettato per il delitto.

24 settembre 2007: il pm Rosa Muscio ordina il fermo di Stasi. La prova "regina" consiste, spiegano gli investigatori, nella presenza del dna della vittima sui pedali della bicicletta in sella alla quale Alberto sarebbe fuggito.

28 settembre 2007: il gip Giulia Pravon dispone la scarcerazione di Alberto: non ci sono prove, solo suggestioni accusatorie. "Fine di un incubo", commenta lui.

3 novembre 2008: la Procura chiede il rinvio a giudizio di Stasi. Alla fine di dicembre, Alberto viene indagato per una nuova ipotesi di reato: detenzione e divulgazione di materiale pedopornografico. Nel suo pc ci sarebbero decine di file a sfondo sessuale che coinvolgono minorenni.

Il processo di 1° grado.

23 febbraio 2009: comincia l'udienza preliminare davanti al gup Stefano Vitelli. I legali di Stasi scelgono il rito abbreviato.

9 aprile 2009: i pm Rosa Muscio e Claudio Michelucci chiedono la condanna a 30 anni di carcere. "Colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio - dicono - ha ucciso per una lite avvenuta la sera precedente. "Non ci sono arma, movente, solo indizi discordanti, ho paura di una giustizia penale che costruisce prima i colpevoli e poi le prove", ribatte il professor Angelo Giarda, che guida il pool di difensori.

30 aprile 2009: il gup si ritira in camera di consiglio e ne esce con una decisione a sorpresa, disponendo 4 nuove perizie sui punti oscuri dell'inchiesta, partendo dal presupposto che le indagini sono state "lacunose". Alberto Stasi viene assolto. Decisiva la perizia informatica che dimostra come Stasi stesse lavorando a casa sua alla tesi di laurea durante il probabile orario del crimine, tra le 9 e 12, quando viene disattivato l'allarme di casa Poggi, e le 9 e 35. Tutti gli altri indizi vengono valutati dal gup come "contraddittori o insufficienti".

L'appello.

8 novembre 2001: comincia il processo d'appello davanti ai giudici milanesi. Il pg Laura Barbaini chiede 30 anni di carcere o, in subordine, la rinnovazione del dibattimento.

6 dicembre 2011: la Corte d'assise d'appello conferma l'assoluzione. Nelle motivazioni, i giudici osservano che la realtà "è rimasta inconoscibile nei suoi molteplici fattori rilevanti, la maggior parte dei quali sono condizionati unicamente dal caso". Parte civile e Procura generale presentano un ricorso in Cassazione sostenendo che il verdetto in secondo grado esclude una serie di dati facendoli passare come "mere congetture o supposizioni personalistiche".

La Cassazione.

18 aprile 2013: la Cassazione annulla la sentenza d'assoluzione e dispone un nuovo processo.

L'appello bis.

9 aprile 2014: inizia a Milano il processo d'appello bis per Stasi, in aula sia l'imputato che i genitori di Chiara, Rita e Giuseppe Poggi. Il pg chiede nuove indagini.

30 aprile 2014: i giudici della Corte d'assise d'appello di Milano accolgono la richiesta di riaprire il dibattimento. Stasi consegna ai carabinieri la bicicletta nera per le verifiche.

8 settembre 2014: Stasi viene sottoposto a un nuovo prelievo del dna per la comparazione con quello trovato sotto le unghie di Chiara.

11 settembre 2014: i periti dichiarano che su Chiara il dna trovato è troppo poco e l'esame non può quindi essere completo.

22 settembre 2014: secondo i consulenti dell'accusa e della parte civile appare "quasi impossibile che Stasi non si sia sporcato le scarpe" di sangue quando ha ritrovato il corpo della fidanzata.

3 novembre 2014: vengono sentiti nuovi testimoni. I carabinieri confermano la presenza di graffi sulle braccia di Stasi dopo la morte di Chiara.

24 novembre 2014: il pg Laura Barbaini chiede la condanna di Stasi a 30 anni di carcere per omicidio aggravato dalla crudeltà.

27 novembre 2014: secondo la parte civile, che si associa alla richiesta di condanna del pg, contro Stasi ci sono "11 indizi gravi, precisi e concordanti".

3 dicembre 2014: la difesa chiede l'assoluzione "per non aver commesso il fatto", contro Stasi "non ci sono prove".

17 dicembre 2014: Stasi viene condannato a 16 anni di carcere e 1 milione di risarcimento. La condanna, rispetto alle richieste dell'accusa, non ha riconosciuto l'aggravante della crudeltà.

La Cassazione bis.

11 dicembre 2015: si apre l'udienza nell'Aula Magna della Cassazione con la relazione del giudice Rosa Pezzullo. Non sono presenti né Stasi né i familiari di Chiara. Presidente è Maurizio Fumo che deve decidere sui due ricorsi presentati: uno dalla Procura generale di Milano, che chiede una pena più severa dopo che in appello è caduta l'aggravante della crudeltà, e l'altro dalla difesa di Stasi che sollecita l'assoluzione. Il sostituto pg Oscar Cedrangolo chiede di annullare la condanna e celebrare un nuovo processo. "Non è stato trovato un movente - spiega - e gli indizi non sono affatto certi", c'è poi "illogicità" nelle risultanze processuali. I giudici, alle ore 20, entrano quindi in camera di consiglio che viene però subito sospesa e riaggiornata.

12 dicembre 2015: alle ore 9 riprende la camera di consiglio. Dopo poco più di due ore viene emessa la sentenza definitiva: Alberto Stasi ha ucciso la fidanzata Chiara Poggi e deve scontare 16 anni di carcere. Poco dopo l'ex studente della Bocconi si costituisce nel carcere milanese di Bollate senza attendere l'ordine di esecuzione della pena.

Nuove indagini.

23 settembre 2016: il giudice di Pavia Daniela Garlaschelli condanna l'ex maresciallo dei carabinieri Francesco Marchetto a due anni e mezzo di reclusione e a pagare i danni alla famiglia Poggi con una provvisionale di 10mila euro. Marchetto, ora in pensione, all'epoca dei fatti comandava la stazione dei carabinieri di Garlasco. L'accusa è di aver dichiarato il falso al giudice che lo interrogava e di aver sviato le indagini (in particolar modo sulla questione della bicicletta nera da donna in possesso della famiglia Stasi).

23 dicembre 2016: sulla base di indagini svolte dai difensori di Stasi dopo la sentenza della Cassazione, i pm di Pavia iscrivono nel registro degli indagati Andrea Sempio, un amico del fratello di Chiara. Un'iscrizione che è un atto dovuto dopo l'esposto dei legali in cui si riportano studi genetici dai quali risulterebbe che il dna trovato sotto le unghie della vittima coincide con quello del ragazzo.

28 gennaio 2017: il gip di Pavia archivia l'inchiesta su Sempio accogliendo la richiesta della Procura. "È categoricamente esclusa la responsabilità di Sempio", scrive il gip definendo "radicalmente priva di attendibilità la consulenza tecnica sul materiale genetico offerto dalla difesa Stasi".

21 aprile 2017: i legali di Sempio querelano quelli di Stasi per le indagini sul dna, accusandoli di calunnia, falso ideologico e violazione della legge sulla privacy. Pochi giorni dopo, arriva la "contro-querela" della difesa Stasi nei confronti dei colleghi che assistono il giovane assolto.

Il ricorso straordinario.

24 maggio 2017: si viene a sapere che la difesa di Stasi ha presentato un ricorso straordinario in Cassazione attraverso cui chiede la revoca della sentenza definitiva di condanna per un presunto "errore di fatto" commesso dai giudici che avrebbero dovuto riascoltare in appello i testi assunti come fonti di prova nel primo grado chiuso con l'assoluzione dell'ex studente.

28 giugno 2017: oggi la decisione della Cassazione di non revocare la sentenza di condanna.

Delitto Garlasco Alberto Stasi, parla giudice che lo assolse in primo grado: non si è mai arrivati alla verità?

 Michela Becciu 20 Aprile 2019 su Urban Post. Il delitto di Garlasco è ormai archiviato da anni. Da quando, cioè, Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva (dopo le due assoluzioni in primo e secondo grado) a 16 anni di reclusione perché riconosciuto colpevole dell’omicidio della fidanzata dai giudici dell’Appello bis e dalla Corte di Cassazione. Della terribile vicenda giudiziaria si è occupato il programma sul Canale 9 per il ciclo Nove Racconta. “Tutta la verità. Il delitto di Garlasco” ha ripercorso, tappa per tappa, tutto l’iter giudiziario sul delitto della neo laureata 26enne Chiara Poggi, avvenuto nella villetta di famiglia, a Garlasco, la mattina del 13 agosto 2007. L’appello bis condannò Stasi a 16 anni di reclusione per l’omicidio di Chiara e la sentenza venne definitivamente confermata dalla Suprema Corte nel dicembre del 2015. Stasi, oggi 36enne, si professa da sempre innocente. Durante la trasmissione sono state raccolte le testimonianze dei protagonisti e confrontate le opinioni dei protagonisti della vicenda. Degne di nota le parole di Stefano Vitelli, il giudice dell’udienza preliminare che in primo grado a Vigevano, con rito abbreviato, assolse Alberto Stasi per insufficienza di prove: “Lo stato per mettere in galera un cittadino deve essere ragionevolmente sicuro che sia lui”. Il magistrato ha anche ricordato il sopralluogo nella casa dell’omicidio e non ha saputo celare la commozione. Fanno pensare anche le considerazioni dell’ex comandante dei carabinieri, Francesco Marchetto, secondo il quale i processi non hanno fatto luce sulla spinosa vicenda giudiziaria. “Qualsiasi magistrato, volenteroso, che abbia voglia di leggere gli atti, se ne accorge tranquillamente … ma non siamo arrivati alla verità”. Queste le sue parole. Marchetto nel settembre 2016 fu condannato a 2 anni e mezzo in quanto processato per falsa testimonianza nell’ambito del processo di primo grado sull’omicidio di Garlasco a carico di Alberto Stasi, poi condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione. Nei suoi confronti l’accusa di avere testimoniato il falso nel processo davanti al gup di Vigevano, Stefano Vitelli, nel riferire delle motivazioni per le quali non aveva sequestrato la bicicletta nera da donna in uso all’imputato all’epoca dei fatti contestati (era il 2007), influenzando così tutto l’iter processuale e il suo esito. Raccolte anche le testimonianze dei difensori di Stasi, Giada Bocellari e Fabio Giarda, che ancor oggi parlano di “clamoroso errore giudiziario”, e di Gian Luigi Tizzoni, legale di parte civile per la famiglia Poggi, e dei consulenti delle part.

Alberto Stasi, chi è: storia del giovane condannato per il delitto di Garlasco. Enrico su viagginews.com il 17 dicembre 2019. Alberto Stasi è stato giudicato colpevole dell’assassino di Chiara Poggi al termine di una lunga e tormentata vicenda giudiziaria. Ecco tutto quel che c’è da sapere su di lui. Per settimane, mesi, anni il nome di Alberto Stasi ha campeggiato sulle prime pagine di tutti i giornali e sui titoli dei notiziari. Il giovane accusato e poi condannato per l’omicidio di Chiara Poggi, che all’epoca dei fatti era la sua fidanzata, è stato il protagonista di una delle vicende giudiziarie più complesse e tormentate della storia recente. Scopriamo qualcosa di più su di lui e sul delitto di Garlasco, per il quale sta scontando una pena a 16 anni presso il carcere di Bollate dopo che il 12 dicembre del 2015 la Corte di Cassazione lo ha giudicato colpevole.

L’identikit di Alberto Stasi. Di Alberto Stasi e del suo passato, in realtà, non si sa molto, complice la riservatezza e la timidezza del ragazzo (un aspetto, quest’ultimo che è emerso in particolare nel corso delle lunghe indagini e ha in qualche modo pesato sulle stesse). Prima di far parlare di sé come presunto assassino di Chiara Poggi, alla quale era sentimentalmente legato dal 2005, Alberto Stati era uno studente di economia. Figlio unico, proveniva da una famiglia semplice e “normale” come tante altre, con il padre imprenditore nella zona di Pavia. Quando Chiara è stata ritrovata senza vita, la madre della giovane ragazza ha preso subito le difese di Alberto. Poi, mentre lui si laureava in Economia e Commercio, le indagini hanno segnato una svolta. La sua immagine di bravo ragazzo è stata irrimediabilmente infangata dal ritrovamento di alcuni filmini hard e materiale pedopornografico sul suo computer. Per Alberto è stato l’inizio di un periodo durissimo culminato nella sua condanna definitiva. Oggi Alberto Stasi sta ancora scontando la sua pena nel carcere di Bollate. All’interno della prigione ha ottenuto un lavoro da centralinista con il quale guadagna circa 1.000 euro al mese. E nel 2018 Alberto ha ricevuto 9mila euro di risarcimento da Maria Grazia Montani, amministratrice della pagina Facebook “Delitto di Garlasco, giustizia per Chiara Poggi”, per averlo ripetutamente insultato a processo ancora in corso. Ma è anche stato condannato a versare un milione di euro alla famiglia Poggi, cosa che però non avrebbe mai fatto. Nel frattempo Alberto si è anche legato a un’altra ragazza (c’è chi ha parlato di una semplice amica, chi di una vera e propria fidanzata), di nome Serena, che lo ha sostenuto durante le sue udienze in tribunale, aspettandolo e abbracciandolo quando lo vedeva uscire. Su di lei, però, non si sa molto altro.

·         Ingiustizia. Il caso Franzoni spiegato bene.

La Franzoni non paga. E Taormina pignora la villa di Cogne. Via libera da parte del Tribunale di Aosta al pignoramento. La Franzoni, condannata per l’omicidio del figlio Samuele, doveva ancora pagare all'avvocato 450mila euro. Valentina Dardari, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. L’avvocato Carlo Taormina ha avuto il via libera dal Tribunale di Aosta: potrà infatti proseguire le pratiche per il pignoramento della villetta di Cogne. Il ricorso presentato da Annamaria Franzoni e dal marito Stefano Lorenzi, con la richiesta di sospendere l’esecuzione immobiliare, è stato respinto dal giudice Paolo De Paola. Il legale Taormina aveva infatti difeso la mamma del piccolo Samuele Lorenzi, accusata dell’omicidio del figlio avvenuto nel gennaio 2002. La donna era stata poi condannata a 16 anni di carcere, ridotti poi a 11 anni di reclusione.

L'avvocato Taormina non era stato pagato. L’avvocato però non era mai stato pagato e per questo motivo aveva deciso di rivolgersi alla magistratura. Il contenzioso nasce dalla sentenza civile passata in giudicato a Bologna dove la Franzoni, condannata per l’omicidio del bambino, avvenuto proprio nella casa di Montroz, frazione di Cogne, a gennaio 2002 e per cui era stata condannata a 16 anni, non ha ancora pagato gli onorari difensivi al suo ex legale, Carlo Taormina. Si tratta di oltre 275mila euro, diventati poi circa 450mila nell’atto di pignoramento.

Franzoni condannata: dovrà risarcire l'avvocato Taormina. Negli scorsi mesi, assistito dal figlio Giorgio, Taormina aveva pignorato la metà della casa dove la Franzoni, che adesso si è trasferita sull’Appennino bolognese, era ritornata per poco tempo dopo che aveva scontato la sua condanna penale, ridotta a 11 anni per indulto e benefici.

Franzoni e Lorenzi avevano fatto ricorso. Quando la donna e il marito si erano opposti al pignoramento dell’abitazione, assistiti dagli avvocati Maria Rindinella e Lorenza Parenti, avevano sostenuto che la casa non fosse pignorabile in quanto all’interno di un fondo patrimoniale, fatto nel maggio del 2009. Il giudice ha però respinto il ricorso. La costituzione del fondo, che era stata fatta all’epoca da Lorenzi, allora tutore della moglie, interdetta a seguito della condanna penale, è ricollegabile all’iter processuale della Franzoni che, proprio per il suo stato, non poteva occuparsi dei bisogni materiali e morali della famiglia. Anche il debito contratto con Taormina per l'attività difensiva, in quanto atto a dare la possibilità alla donna di ritornare il prima possibile ai suoi affetti, risulta legato ai bisogni della famiglia. E se il debito ha queste caratteristiche, il fondo non può essere motivo di opposizione al pignoramento. La villetta potrà quindi essere messa in vendita, nonostante penda un giudizio nel merito, sempre ad Aosta, che il giudice ha invitato a fissare entro il prossimo venerdì 30 ottobre.

L'avvocato Taormina e la villa di Cogne pignorata: "Troppo dolore in quella storia. Dimentichiamola". Pubblicato sabato, 19 settembre 2020 da Sarah Martinenghi su La Repubblica.it. "Questa è una storia che mi ha causato troppi dolori, troppi dispiaceri. Per questo non mi piace parlarne, non fatemi aggiungere altro". L'avvocato Carlo Taormina vorrebbe considerare un capitolo chiuso la vicenda  che da anni lo lega ad Annamaria Franzoni, in un rapporto che l'ha visto passare dall'essere al suo fianco, come avvocato difensore quando lei fu accusata di aver ucciso il figlioletto Samuele, a controparte nelle aule di giustizia per le parcelle non pagate. Ieri una nuova puntata della querelle che si trascina da più di dieci anni, gli ha visto assegnare dal giudice una vittoria parziale: andrà all'asta, proprio per ripagarlo, la villa di Cogne dove nel 2002 era stato ucciso il piccolo Samuele. Il giudice di Aosta non ha infatti accolto la richiesta dei coniugi Lorenzi (assistiti dagli avvocati Maria Rindinella e Lorenza Parenti) di bloccare la procedura di esecuzione immobiliare, dando l'ok al pignoramento da parte di Taormina. "Non avrei nemmeno voluto che uscisse la notizia - dice con sconforto l'avvocato - preferirei che non se ne parlasse proprio più: non mi interessa nemmeno, per questo non la commento in alcun modo". Sono lontani i tempi in cui Taormina proclamava a gran voce l'innocenza della sua ex-assistita. Lei aveva inteso che lui l'avrebbe patrocinata a titolo gratuito. E certo non si aspettava di vedersi recapitare una richiesta di pagamento per averla difesa fino a parte del secondo grado, che sfiorasse quasi il milione di euro. Una cifra esorbitante che era stata ritenuta, in effetti, troppo alta anche dal giudice che l'aveva rimodulata in 275 mila euro. Saliti però ora a 450 mila, tra interessi e rivalutazione, nell'atto di pignoramento. A quella casa in frazione Montroz che gli italiani hanno imparato a conoscere bene per la quantità di accertamenti e sopralluoghi fatti durante le indagini e il processo, Annamaria Franzoni è sempre rimasta molto legata. Tanto da esserci tornata più volte: brevi visite, il tempo di fare qualche lavoretto per sistemare il giardino o ridare il colore alle pareti, dopo la ritrovata libertà una volta scontata la sua condanna a 16 anni di carcere. Ma né lei né il marito hanno mai pensato di venderla. Anzi, nel 2009, intorno a lei hanno costituito un fondo patrimoniale e sulla base di ciò hanno chiesto al giudice di bloccare il pignoramento della loro casa da parte dell'avvocato. Ma il giudice di Aosta ha fatto un ragionamento in cui ha cucito l'intento del fondo con quello dell'assistenza legale ricevuta al tempo da Taormina per dimostrare che entrambi avessero lo stesso scopo, legato ai "bisogni della famiglia". La costituzione del fondo, fatta da Stefano Lorenzi in qualità, all'epoca, di tutore della moglie che era interdetta a seguito della condanna penale, è ricollegabile alla vicenda processuale di Franzoni che, per il suo stato, non poteva occuparsi dei bisogni materiali e morali della famiglia. Ma legato ai bisogni della famiglia, secondo il giudice, è anche il debito contratto da Annamaria Franzoni con Taormina per l'attività difensiva, in quanto funzionale a ottenere la possibilità, per lei, di ritornare il prima possibile ai suoi affetti. E se il debito ha queste caratteristiche, il fondo non può essere motivo di opposizione. A questo punto potrà essere disposta la vendita dell'immobile, anche se pende un giudizio nel merito, sempre ad Aosta, che il giudice ha invitato a fissare entro il 30 ottobre. "La casa può andare all'asta perché la procedura con questa decisione non è stata sospesa - ha commentato Giorgio Taormina, che assiste il padre nel procedimento - ma se la controparte intende procedere ancora nel merito la causa potrà certamente andare ancora avanti, anche fino in Cassazione".

·         Ingiustizia. Il caso del Delitto di Carmela “Melania” Rea spiegato bene.

"Parolisi? Congiura femminile" Ma i dubbi su Melania sono pochi. Salvatore Parolisi è l'autore unico del delitto di Melania? ''C'è stata una congiura femminile'' spiega il criminologo Carmelo Lavorino a IlGiornale.it; ''Nessun dubbio sul colpevole'', ne è certo l'avvocato Mauro Gionni. Rosa Scognamiglio, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. Il 20 aprile 2011, nel bosco delle Casermette a Ripe di Civitella, in località Colle San Marco (Teramo), viene rinvenuto il cadavere di una giovane donna trafitta al corpo con 35 coltellate e una siringa conficcata nel petto. È quello di Carmela Rea, detta ''Melania'', moglie 29enne di Salvatore Parolisi, Caporal Maggiore Capo dell'Esercito in servizio al 235mo reggimento Addestramento Volontari ''Piceno''. La composizione della scena, col cadavere disteso supino in terra, e le numerose ferite inflitte, lasciano ben poco margine di errore agli investigatori: si tratta di un delitto. Al centro delle indagini finisce subito il militare che, nel maggio del 2015, la Corte di Cassazione condanna a 20 anni di reclusione per il reato di omicidio volontario. Oggi, a 9 anni dalla tragica circostanza, restano ancora tanti dubbi irrisolti, numerosi punti oscuri sulla fase esecutoria dell'assissinio. A chi appartiene quella impronta intrisa del sangue della vittima sulla passerella in legno dal boschetto conduce alla ''zona delle altalene''? Perché sul luogo del delitto non sono mai state rilevate tracce di Parolisi? È stato lui ad uccidere Melania? ''Credo esista una elevata probabilità che Parolisi sia innocente e che il colpevole sia all'interno di'un team femminile'', spiega il criminologo Carmelo Lavorino a IlGiornale.it. ''Non c'è nulla da chiarire su questa vicenda, nessun mistero. C'è una sentenza che condanna in via definitiva Parolisi'', commenta, invece, alla nostra redazione il legale della famiglia Rea, l'Avv. Mauro Gionni.

La telefonata di Parolisi al 112. Tutto comincia nel primo pomeriggio del 18 aprile 2011. Melania e Salvatore decidono di portare Vittoria, la figlioletta di 18 mesi nata dopo il matrimonio, presso il Pianoro, località collinare raggiungibile in circa 15/20 minuti da Ascoli Piceno. Verso le 14.45, riferisce Parolisi, Melania si allontana dalla ''zona dell'altalene'' per andare al bagno, presumibilmente quello del vicino bar ristorante Il Cacciatore. Il militare resta con la bambina che, a suo dire, pare non intenda scendere dalla giostra. Dopo circa una ventina di minuti, non vedendo ritornare la moglie, le telefona. Lo fa con insistenza - 10 chiamate, in totale, fino alle 16.28 - salvo poi recarsi egli stesso verso il locale. Dopo una breve ricognizione in auto (riferiscono gli atti) decide di avvertire le forze dell'ordine. Alle 16.34, tramite l'utenza di Parolisi, la signora Giovanna Flammini, titolare del bar Segà, telefona al 112 riferendo che un cliente occasionale non riesce a trovare la moglie. Poi la chiamata passa al Caporale che, in evidente stato di agitazione, racconta quanto accaduto ai carabinieri: ''La sto provando a chiamare ma non mi risponde, lei. Ha detto che doveva andare in bagno e poi non è tornata più. Indossa un paio di jeans, una maglietta nera e un giubbetto blu''. Da quel momento cominciano le ricerche della donna con particolare attenzione alla strada che da San Marco conduce a San Giacomo. Ma è soltanto 48 ore dopo la denuncia di scomparsa, formalizzata alle ore 21 dello stesso giorno, che il cadavere viene ritrovato.

Il mistero della segnalazione anonima: di chi è quella voce? Il 20 aprile 2011, alle 14.48, un uomo di mezza età, con spiccato accento teramano, telefona da una cabina telefonica di Teramo alla polizia per segnalare l'avvistamento di un cadavere nel bosco delle Casermette. Lo sconosciuto non fornisce all'operatore le proprie generalità ma si limita a riferire quanto ha visto. La chiamata è di brevissima durata: ''Buona sera, telefono per denunciare una cosa. - dice l'interlocutore - A Ripe, chiosco della Pineta, ci sta un corpo per terra. Io stavo facendo una camminata, ciao''. La cabina da cui è stata effettuata la chiamata si trova a circa 12 chilometri dal luogo in cui è riposto il corpo senza vita di Melania, una località raggiungibile a piedi dal centro cittadino attraversando alcuni sentieri che permettono di ridurre in maniera consistente le distanze. Dunque, il telefonista anonimo avrebbe percorso circa 7 chilometri per avvertire la polizia. Ma perché non ha fornito le proprie generalità, di chi si tratta? Nel corso di una puntata di Chi l'ha visto? emerge un non trascurabile dettaglio riguardo alla telefonata. Il chiamante è in compagnia di un'altra persona quando interloquisce con il 113. ''Stai tranquillo, Michè'', si sente in sottofondo prima che l'uomo riagganci. Chi è Michele? La domanda resta tutt'oggi senza risposta nonostante i più disparati appelli della famiglia Rea allo sconosciuto di farsi vivo. ''Purtroppo non lo sapremo mai. - afferma l'avvocato Gionni - Questa è forse l'unica cosa a cui non potremo mai dare risposta. Tutto il resto è stato già ampiamente chiarito e comprovato''.

Le 35 coltellate e quella ''svastica'' nell'interno coscia: sfregio o tentativo di depistaggio? Il corpo senza vita di Melania viene ritrovato dai carabinieri della stazione di Civitavella del Tronto, pressapoco alle ore 16 del 20 aprile, proprio nel luogo della segnalazione. La scena del crimine è decisamente macabra e d'impatto violento. Il cadavere è disteso supino sul terreno, in parte ricoperto da fogliame e aghi di pino, con il collo intriso di sangue. I jeans, i collant e gli slip sono abbassati fin sotto le ginocchia. Nella parte superiore del tronco e agli arti superiori riporta 29 ferite profonde, verosimilmente inferte con un'arma da punta e taglio, mentre risultano altre sei lesioni nella regione cervico-facciale. Nel petto le è stata conficcata una siringa del tipo usata per far l'insulina. Ma il dettaglio più inquietante riguarda la presenza di ''ferite figurate'' all'interno coscia e in zona ipogastrica. Gli esami autoptici, oltre ad accertare la dinamica dell'aggressione (Melania sarebbe stata sorpresa di spalle mentre espletava i bisogni fisiologici) riferiscono che quelle lesioni superficiali, specie la ''svastica'' nell'interno coscia, sono state inflitte post mortem, almeno un'ora dopo l'assassinio. ''Si tratta di over killing, - spiega il professor Carmelo Lavorino che nel 2011 seguì la vicenda - ferite inferte non per depistare ma di sfregio, una sorta di firma psicologica del disprezzo, dell'invidia, che l'assalitore provava per la vittima. Senza contare che Melania si trova in una posa sguaiata, con i pantaloni abbassati e il corpetto sollevato. Solitamente, quando si uccide un familiare, nell'immediata fase di negazione psichica, si tende ad aggiustare la salma. Nel caso della signora Rea questo non è avvenuto. Quella che in gergo viene definita 'composizione della scena' suggerisce una elevata probabilità che Melania sia stata attirata in una trappola, una congiura femminile. Le ferite figurate sono superficiali, inflitte senza molta violenza''. Fatto sta che per gli investigatori, scartata l'ipotesi del maniaco e quella del fanatico che sfregia il corpo della vittima disegnando svastiche, quei segni sono un chiaro tentativo di depistaggio del killer. Ma chi? I sospetti ricadono su Salvatore Parolisi che, il 21 giugno 2011, finisce nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà''.

La relazione extraconiugale tra Parolisi e l'allieva Ludovica Perrone. Il comportamento anomalo del militare nel giorno della scomparsa di Melania, e in quelli successivi, aprono allo scenario delittuoso di un uxoricidio. Gli inquirenti cominciano a scavare nel passato di Parolisi e, dalle attività di indagini, si evidenzia una relazione extraconiugale del Caporal Maggiore con l'allieva Ludovica Perrone, di 26 anni. Il flirt adulterino tra i due ha inizio prima della nascita della piccola Vittoria. Melania scopre il tradimento del marito nel gennaio del 2010 (lo confermano alcune telefonate intercorse fra le due donne fino ad aprile 2010) ma, nonostante sia molto provata, decide di salvaguardare il matrimonio.Salvatore sminuisce la circostanza promettendo che non ci sarà alcun seguito. In realtà, Parolisi non tronca la relazione con Ludovica e proprio il giorno della scomparsa della moglie, le telefona per dirle di cancellare i suoi contatti. Inoltre, dalle risultanze investigative emerge un incontro concordato con la famiglia della soldatessa per una presentazione ufficiale nei giorni successivi alla Pasqua (maggio 2011). La relazione extraconiugale diventa così un possibile movente e il 21 giugno Salvatore Parolisi viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Vengono ricostruiti gli spostamenti dell’uomo, ascoltati a più riprese i familiari della vittima, l'amante e i colleghi del 235mo Reggimento ''Piceno'' che confermano la prosecuzione della liaison. Inoltre, alcuni testimoni riferiscono di non aver visto nessuno nella ''zona delle altalene'' attorno alle 15. Ma è una dichiarazione di Parolisi, resa ai carabinieri durante un sopralluogo nella zona delle Casermette, a far dubitare gli inquirenti. ''Se trovate delle mie tracce qui - spiega - è perché ho avuto un rapporto sessuale con mia moglie proprio qua, pochi giorni fa''. Ma sulla scena del crimine non viene rinvenuta alcuna traccia biologica del militare. Il sospetto è che stia millantando una circostanza mai verificatasi nel tentativo di giustificare eventuali secrezioni a lui riconducibili in prossimità del chiosco. Una sorta di alibi che segnerà, invece, la sua condanna: Il 19 luglio del 2011 viene prelevato dalla caserma Clementi dai carabinieri in esecuzione di un ordine di custodia cautelare in carcere del gip di Ascoli Piceno Carlo Calvaresi.

Il mistero delle tracce biologiche di Parolisi. Quello che non torna in questo delitto è l'assenza di tracce di Parolisi sulla scena del crimine. Perché? ''Le tracce biologiche (saliva e sperma) del Parolisi sono state individuate sul corpo di Melania e, peraltro, sono le uniche rivelate. Più di così? - spiega Mauro Gionni - Questa è un po' come la storia dei brillanti ritrovati in prossimità del cadavere. Stiamo parlando di uno spazio aperto, contaminato, frequentato da svariate persone. Quelle perline potrebbero essere appartenute a una passante, magari si sono staccate da una borsa o una maglia, nulla di misterioso in quel ritrovamento''. Neanche gli abiti di Parolisi, verosimilmente sporchi del sangue di Melania, sono mai stati ritrovati. Dove li ha gettati? ''Li ha lavati in lavatrice la sera stessa – fuga ogni dubbio la spiegazione del legale – Così come ha lavato l'auto e sé stesso. Il problema è che i vestiti sono stati repertarti nei giorni molti giorni dopo e le tracce di sangue ormai non c'erano più''.

La condanna a 30 anni, poi la riduzione della pena: ''Non c'è crudeltà''. Il 26 ottobre del 2011, il giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Teramo condanna Salvatore Parolisi all'ergastolo con l'accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Inoltre, gli vengono comminate le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e decadenza della potestà genitoriale. Secondo la versione verosimilmente plausibile della vicenda, sarebbe stata proprio Melania a proporre di spostarsi verso la pineta – perché una delle altalene era sporca di escrementi – dove era stata tempo addietro col marito. Arrivati al chiosco, attorno alle ore 15, Parolisi avrebbe indossato i pantaloni e la casacca in goretex che aveva nello zaino munendosi, altresì, del coltello a serramanico. Vittoria si sarebbe addormentata lungo il tragitto verso il Pianoro e per questo si sarebbe trovata ancora in auto. Nel frattempo, Melania si sarebbe abbassata i pantaloni per urinare. A quel punto, il militare avrebbe tentato un approccio sessuale ma la donna lo avrebbe respinto. Da qui la furia omicida: ''L'azione richiede non più di 15 o 20 minuti e sarebbe stata realizzata esclusivamente da Parolisi in preda al dolo d'impeto. Costui si liberava degli indumenti sporchi di sangue e li nascondeva'', scrive la Cassazione in riferimento alla dinamica dell'omicidio ricostruito in primo grado. Il gup ritiene provata la successiva alterazione del cadavere: ''Parolisi tornò al chiosco il 19 o probabilmente la mattina del giorno seguente per ripulire la zona e in tale occasione avrebbe realizzato gli sfregi ed altre operazioni depistanti''. Nella sentenza di secondo grado viene riconfermata la ricostruzione della vicenda ma l'azione omicidiaria sarebbe stata conseguente ad un litigio riguardante la relazione dell'ex Caporal Maggiore con una soldatessa. Nel maggio del 2015, La Corte d'assise d'appello di Perugia decurta da 30 a 20 anni di reclusione la pena. Un ricalco reso necessario dal pronunciamento della Cassazione il precedente 10 febbraio quando la Suprema Corte, pur confermando la colpevolezza dell'imputato, esclude l'aggravante della crudeltà. Un punto fortemente contestato dal legale della famiglia Rea: ''Viene esclusa l'aggravvante della crudeltà perché le coltellate sono state inferte con uno strumento da taglio piccolo e quindi mancherebbe il quid pluris. – spiega l'avvocato Gionni – Ma la crudeltà c'è, eccome. Sebbene la bambina non abbia assistito all'accoltellamento della mamma era comunque presente sul luogo dell'omicidio, verosimilmente dormiva nell'auto parcheggiata a pochi metri. C'è un'aggravante di 'crudeltà mentale' che non è stato preso in considerazione''.

''Non ho ucciso io Melania'': l'assassino mente? Nonostante la sentenza definitiva, l'ex Caporal Maggiore continua a professarsi innocente. ''C'è una sentenza definitiva che, seppur non riconosce l'aggravante della crudeltà, lo condanna a 20 di reclusione per omicidio volontario. - chiarisce l'avvocato Gionni - Ci sono due elementi sostanziali che provano la sua colpevolezza. In primis, nessuno sapeva che sarebbe andato al Pianoro con la moglie quel pomeriggio se non la mamma di Melania che vive a Napoli. Si tratta di una decisione presa all'ora di pranzo, all'ultimo. Quindi chi mai avrebbe potuto raggiungerlo? Poi, le tracce di dna di Parolisi sul corpo della vittima, specie quelle salivari nella bocca della moglie. La genetista Marina Baldi ha spiegato, al tempo, che le secrezioni di saliva possono essere cancellate con i movimenti della lingua in due minuti. Ciò significa che Parolisi ha baciato Melania un minuto prima di ucciderla visto che sono state trovate''. Di diverso avviso, invece, è il criminologo Carmelo Lavorino: ''C'è una elevata probabilità che non Paroli si innocente. Anzitutto, non ha mai confessato. Poi, non ci sono elementi certi, parlo di dati analitici, che provino la sua colpevolezza. Se fosse stato lui, lo avrebbe fatto, in ogni caso, in concorso con un complice di sesso femminile – lo provano quegli sfregi di disprezzo sul cadavere – Ma io penso che il colpevole sia all'interno di un team femminile''. Qual è la verità? Verosimilmente quella trascritta agli atti, senza ombra di che Melania, di appena 29 anni, è stata uccisa nel modo più crudele e spietato possibile.

·         Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Da repubblica.it il 22 dicembre 2020. "Fino a qualche anno fa ero un campione del mondo. Oggi con mio padre Giuseppe sono vittima della giustizia italiana. Nella mia vita non avrei mai pensato di dovermi difendere da un'accusa tanto infamante...". Inizia così il videomessaggio, affidato alle sue pagine social, di Vincenzo Iaquinta, ex attaccante della Nazionale italiana di calcio e della Juventus, a cui sono stati confermati in Appello i due anni di condanna per detenzione illegale di armi nel processo Aemilia. Sullo sfondo del video veste la maglia dell'Udinese ed è assieme al padre Giuseppe, imprenditore edile cutrese con base a Reggiolo, nel Reggiano, nei cui confronti i giudici dello stesso processo contro la 'ndrangheta hanno deciso 13 anni di condanna (sei in meno rispetto al primo grado) confermando l'associazione mafiosa. "Non mi arrendo alla sentenza - continua Vincenzo - sono responsabile moralmente di difendere l'onestà di mio padre. Non mi sono mai sentito tanto solo e scoraggiato nella mia vita come in questo momento. Mi sento deluso perché per la seconda volta mio padre è stato condannato da uomini che non hanno giudicato in base alla realtà dei fatti. Una volta si può sbagliare, due inizia a diventare accanimento giudiziario. Una vita di una persona non può essere distrutta senza aver commesso quello di cui viene accusato". Infine l'ex calciatore promette battaglia: "Non posso esimermi ad urlare l'innocenza di mio padre. Lo devo a lui che in questo momento è impotente, incredulo, sfiancato. Lo devo alla memoria di mia madre che si è lasciata morire dal dolore. Lo devo ai miei figli. Oggi sono un uomo stanco, le mie gambe non corrono più. La mia testa corre più veloce cercando una soluzione. Non cerco pietà, un miracolo o la compiacenza di nessuno. Voglio solo giustizia, verità. Mio padre è in carcere per errore e finché non si ammetterà la verità, la mia voce non smetterà di urlare la sua innocenza. Da ora io sono Giuseppe Iaquinta, condannato da innocente".

Iaquinta: “Io, da campione del mondo a vittima della giustizia italiana”. Il Dubbio il 22 dicembre 2020. Il drammatico videomessaggio di Vincenzo Iaquinta, ex attaccante della Nazionale italiana di calcio e della Juventus, a cui sono stati confermati in Appello i due anni di condanna per detenzione illegale di armi nel processo Aemilia. “Fino a qualche anno fa ero un campione del mondo. Oggi con mio padre Giuseppe sono vittima della giustizia italiana. Nella mia vita non avrei mai pensato di dovermi difendere da un’accusa tanto infamante…”. Inizia così il drammatico videomessaggio, affidato alle sue pagine social, di Vincenzo Iaquinta, ex attaccante della Nazionale italiana di calcio e della Juventus, a cui sono stati confermati in Appello i due anni di condanna per detenzione illegale di armi nel processo Aemilia. Sullo sfondo del video veste la maglia dell’Udinese ed è assieme al padre Giuseppe, imprenditore edile cutrese con base a Reggiolo, nel Reggiano, nei cui confronti i giudici dello stesso processo contro la ‘ndrangheta hanno deciso 13 anni di condanna (sei in meno rispetto al primo grado) confermando l’associazione mafiosa. “Non mi arrendo alla sentenza – continua Vincenzo – sono responsabile moralmente di difendere l’onestà di mio padre. Non mi sono mai sentito tanto solo e scoraggiato nella mia vita come in questo momento. Mi sento deluso perché per la seconda volta mio padre è stato condannato da uomini che non hanno giudicato in base alla realtà dei fatti. Una volta si può sbagliare, due inizia a diventare accanimento giudiziario. Una vita di una persona non può essere distrutta senza aver commesso quello di cui viene accusato”. Infine l’ex calciatore promette battaglia: “Non posso esimermi ad urlare l’innocenza di mio padre. Lo devo a lui che in questo momento è impotente, incredulo, sfiancato. Lo devo alla memoria di mia madre che si è lasciata morire dal dolore. Lo devo ai miei figli. Oggi sono un uomo stanco, le mie gambe non corrono più. La mia testa corre più veloce cercando una soluzione. Non cerco pietà, un miracolo o la compiacenza di nessuno. Voglio solo giustizia, verità. Mio padre è in carcere per errore e finché non si ammetterà la verità, la mia voce non smetterà di urlare la sua innocenza. Da ora io sono Giuseppe Iaquinta, condannato da innocente”.

·         Ingiustizia. Il caso del Delitto di Erba spiegato bene.

Da “Cusano Italia TV”, Dagospia il 23 dicembre 2020. La Corte di Cassazione recentemente ha respinto la richiesta dei legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi di nuove analisi su alcuni reperti trovati sulla scena del crimine della Strage di Erba, avvenuta nel paese in provincia di Como l’11 dicembre 2006 e in cui furono uccisi a colpi di coltello e spranga: Raffaella Castagna, suo figlio di appena 2 anni Youssef Marzouk, la madre della Castagna Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Secondo i giudici della Suprema Corte, la richiesta della difesa "non poggia su alcun fatto logico". L’intera vicenda e in particolare quest’ultimo sviluppo sono stati approfonditi a “Crimini e Criminologia” su Cusano Italia TV. Tra gli altri è intervenuto l’avvocato Fabio Schembri. Il legale di Olindo e Rosa, intervistato da Fabio Camillacci ha detto: “Noi avremmo voluto e continuiamo a voler esaminare quei reperti rinvenuti sulla scena del crimine e sopravvissuti a un’improvvida distruzione. Una cosa è certa: il rigetto deciso dalla Corte di Cassazione è del tutto incomprensibile, soprattutto perché in passato la Suprema Corte si era già espressa per ben tre volte e in due occasioni aveva sancito il diritto della difesa a esaminare quei reperti tramite l’incidente probatorio. Ci sono stati dei passaggi a dir poco strani, perché la Corte d’Appello di Brescia a seguito di quel pronunciamento della Cassazione, dapprima dispose l’incidente probatorio, poi nella seconda udienza in cui doveva addirittura essere nominato il perito della stessa Corte, individuato nel maggiore Giampietro Lago del Ris di Parma, l’incidente probatorio venne rigettato. Senza dimenticare che dopo un nostro ulteriore ricorso, la mattina in cui la Cassazione avrebbe dovuto decidere in merito, la maggior parte dei reperti che avremmo voluto esaminare finì stranamente nell’inceneritore. Poi come per incanto spuntarono fuori due scatoloni di altri reperti, quelli che ora avevamo chiesto di esaminare ma stavolta la Cassazione ha cambiato evidentemente opinione rigettando il nostro ricorso. Ma noi non ci arrendiamo –ha concluso l’avvocato Schembri- e speriamo di trovare tra le pieghe della motivazione di questa decisione della Suprema Corte un’altra strada per arrivare all’esame dei reperti. Questa pronuncia dunque per noi diventa un punto di partenza perché noi chiederemo comunque la revisione del processo perché ci sono troppi elementi a favore dell’innocenza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. Certo, se non dovessero farci esaminare i reperti, saremo costretti a presentarci davanti al giudice della revisione con un’arma in meno”.

Strage di Erba, le rivelazioni esclusive di un ex carabiniere: “A me non risulta che Rosa e Olindo non parlassero della strage”. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a parlarci della strage di Erba, raccogliendo la testimonianza esclusiva di un ex carabiniere che afferma di aver partecipato alle indagini: “Anche tra i miei colleghi sono pochi quelli che danno con certezza che Rosa e Olindo siano colpevoli, le prove a loro carico non le trovo così schiaccianti”. “Anche tra i miei colleghi sono pochi quelli che danno con certezza che Rosa e Olindo siano colpevoli”. Arriva una nuova e clamorosa testimonianza sulla strage di Erba: quella di Giovanni Tartaglia, un ex maresciallo dei carabinieri che ha svolto gran parte della sua attività al nucleo operativo radiomobile di Como, dal 1998 al 2008, che ha comandato per 4 anni una stazione dei carabinieri, sempre nel comasco, e che partecipò alle indagini della strage. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, nel servizio in onda questa sera dalle 21.10 su Italia 1, raccolgono le sue dichiarazioni inedite. Ma chi è Giovanni Tartaglia? In servizio per 24 anni e congedato dall’Arma dopo aver avuto dei guai con la giustizia è attualmente nel carcere di Bollate a Milano dove sta scontando la sua pena. Qualche tempo fa, in attesa della sua condanna per truffa aggravata, ha contattato la redazione per fare delle rivelazioni che - se eventualmente confermate - avrebbero delle conseguenze potenzialmente clamorose. Ha voluto parlare delle indagini che hanno portato all’arresto e poi alla condanna di Rosa Bazzi e Olindo Romano, ritenuti unici colpevoli del delitto.

Tartaglia: "Sono un ex maresciallo dei carabinieri. Nel periodo di permanenza nel nucleo operativo di Como ho fatto parte anche delle indagini della strage di Erba".

Monteleone: "Lei è stato anche sulla scena del crimine?".

Tartaglia: "Sono andato anche sulla scena del crimine, sì".

Monteleone: "Ha visto l’appartamento di Raffaella Castagna?".

Tartaglia: "Sì, sì sì, l’ho visto. Io mi sono occupato prevalentemente di intercettazioni ambientale e telefoniche. Queste mie perplessità sono state presentate. Le mie, come quelle dei colleghi in ambito interno, però le devo dire la verità, sono pochi quelli che danno con certezza che Rosa e Olindo sono colpevoli. Perché secondo me manca il fatto di non aver verificato nessun’altra alternativa. Le prove a carico di Olindo e Rosa non le trovo così schiaccianti e così determinanti. Qualsiasi pista, qualsiasi minima cosa fosse uscita fuori che non rientrava nella normalità, secondo me doveva essere battuta". Secondo l’ex carabiniere all’epoca dei fatti si agì in maniera del tutto diversa rispetto a quanto si sarebbe dovuto fare in fase di indagine. Tartaglia: "La cosa principale che è stata chiara è che dopo due giorni doveva essere tutto focalizzato su Rosa e Olindo, cioè si doveva fare di tutto per tirare fuori la colpevolezza di Rosa e Olindo, questa è l’impressione… e poi così è stato. Ogni cosa che andavamo a dire non andava bene, non fregava niente a nessuno". In questi anni noi de Le Iene abbiamo analizzato quelle che sembrano essere delle possibili anomalie su alcune delle prove considerate a carico di Rosa Bazzi e Olindo Romano (in fondo trovate i principali articoli e servizi che abbiamo dedicato recentemente al caso.

Uno: le confessioni dei coniugi sono discordanti tra loro e piene di errori nonostante siano state rilasciate dopo aver visto le foto in possesso degli inquirenti in fase di interrogatorio.

Due: Mario Frigerio - l’unico testimone superstite - inizialmente indicò di aver visto e di essere stato aggredito da un uomo non del posto e di carnagione olivastra, e di poterlo riconoscere ma smentì questa prima versione a seguito di un colloquio con il maresciallo Gallorini, indicando il suo vicino di casa (Olindo Romano, ndr.) come l’aggressore. 

Tre: l’unica prova scientifica rinvenuta è una piccola traccia di sangue, non visibile neanche in foto, trovata sul battitacco dell’auto di Olindo. Anche secondo chi l’ha trovata potrebbe essere arrivata lì per contaminazione ambientale.

Quattro: non vi sono segni della presenza di Rosa e Olindo sulla scena del delitto, neanche tracce di sangue nella loro abitazione dove, secondo le sentenze, si sarebbero cambiati dopo la mattanza.

La testimonianza esclusiva che abbiamo raccolto si concentra su quella parte delle indagini che, a distanza di anni, fa ancora discutere per alcuni aspetti: le intercettazioni telefoniche e ambientali. Da tutte quelle effettuate mancherebbero sia gli audio di giornate intere a casa di Olindo e Rosa, sia alcune di quelle registrate in ospedale nella stanza dov’era ricoverato Frigerio. Non ne esisterebbe nessuna che inchiodi i due condannati e non si troverebbero quelle telefoniche di intere giornate di uno dei fratelli Castagna. “Le nostre richieste riguardavano l’accesso al server della Procura perché manca il 50% di tutto il materiale di intercettazioni sia telefoniche sia intercettazioni ambientali, in un’indagine che ha avuto una durata di circa un mese, è un materiale vastissimo”, afferma Fabio Schembri, l’avvocato di Rosa e Olinda. "Questo accesso al server era finalizzato a rintracciare delle intercettazioni importantissime in momenti topici dell’indagine e che riguardavano sia Rosa e Olindo sia il testimone Frigerio”. Secondo quanto dichiara l’avvocato Schembri, non è possibile ascoltare né le intercettazioni realizzate nella stanza di ospedale dove era ricoverato Mario Frigerio la mattina di Natale, né quelle effettuate all’interno della casa dei coniugi Romano, e questo loro presunto silenzio sulla strage diventerà motivo di forte sospetto a loro carico. Su questo Antonino Monteleone si confronta con Tartaglia.

Tartaglia: "In sala intercettazione è capitato anche a me di ascoltarle".

Monteleone: "Lei si è messo le cuffie e sentiva la voce di?".

Tartaglia: "In cuffie o, se ero da solo, anche senza le cuffie… di quando parlavano in casa, però parlavano della storia, cioè dicevano che era tutto… c’era da aver paura, della situazione".

Monteleone: "Cioè lei mi sta dicendo che ha ascoltato loro due parlare della strage?".

Tartaglia: "Ma sì, beh, in casa, la sera accendevano la televisione, ce l’avevano lì, quindi si parlava solo di quello lì".

Monteleone: "In casa Romano-Bazzi?".

Tartaglia: "In casa Romano-Bazzi, poche parole, non è che poi stavano tutto il tempo a parlare di queste cose, cioè mi ricordo la frase ‘c’è da aver paura a stare in un ambiente del genere’, dopo che è successo, no? L’intercettazione ambientale di Rosa e Olindo nell’insieme è stata un’intercettazione tranquilla, nella loro vita quotidiana parlavano della strage di Erba con qualche vicino che li andava a trovare o per telefono, o comunque discutevano, ‘visto cosa è successo, non è successo, c’è da aver paura’, mi ricordo queste parole, le diceva Rosa. Poi sentivano il telegiornale, si informavano, erano preoccupati di quello che era successo. Che non ne hanno mai parlato non mi risulta. Basta andare ad ascoltare le registrazioni. Durante conversazione telefoniche e ambientali di Rosa e Olindo mi alternavo con il brigadiere Bisignani, responsabile, tra virgolette (Tartaglia mima il gesto delle virgolette, ndr) di questa operazione, perché era lui che materialmente si occupava di far partire l’intercettazione telefonica o ambientale. Nel periodo in cui ci sono stato non è mai emerso nulla di interesse operativo, quindi è stata una conversazione abbastanza lineare e normale. Nessuna conversazione strana che potesse far pensare o portarci a qualche sospetto in particolare in Rosa e Olindo".

L’ex carabiniere ricorda di aver sentito parlare i coniugi della strage, addirittura ricordando le parole che Rosa avrebbe pronunciato ma nel brogliaccio dell’intercettazioni un dialogo del genere tra Rosa e Olindo non è stato trovato.

Monteleone: "Come se lo spiega quel buco di 4 giorni senza alcuna annotazione da parte dei carabinieri in ascolto? Lei lo sa che non si trovano le telefonate tra il 12 dicembre del 2006?"

Tartaglia: "Sì, l’ho sentito questo fatto".

Monteleone: "E il 16 dicembre". 

Tartaglia: "Strano".

Monteleone: "Cioè quattro giorni".

Tartaglia: "È un po’ strano, perché poi le intercettazioni non so se sa come funzionano".

Monteleone: "Come funzionano?".

Tartaglia: "Ci sono tecnicamente dei video con dei server che vengono affidati a una società, in quel caso mi sembra che c’era sia la Sio che la Waylog, sono due società. Le intercettazioni le ascolti in tempo reale, come parlano le senti. Vengono tutte registrate dal server, tutte le intercettazioni, poi c’è un quadro dove si mettono, dei display con dei colori, puoi dargli un'importanza, meno importanti, oppure nulla, non di interesse operativo. Vengono registrate tutte, vengono trascritte".

Monteleone: "È una trascrizione parola per parola?".

Tartaglia: "Tutto!".

Monteleone: "Oppure è una sommaria?".

Tartaglia: "No no no, parola per parola. Dove non si capisce si mette 'incomprensibile'”.

Monteleone: "Incomprensibile".

Tartaglia: "Però parola per parola, cioè deve essere proprio integrale, anche se durante la frase c’è una parola inutile, la metti comunque".

Monteleone: "Lei sapeva che tipo di dispositivi c’erano in casa di Rosa e Olindo?".

Tartaglia: "Ambientali".

Monteleone: "Ma messe, che ne so, nella presa elettrica?".

Tartaglia: "Ah no, non lo so il posto esatto, però si sentiva molto bene".

Monteleone: "Com’è possibile che spariscono alcune? Non è possibile che per 4 giorni in casa si siano cuciti la bocca".

Tartaglia: "No, anche perché basta un piccolo rumore che si attiva".

Monteleone: "Che si attiva?".

Tartaglia: "Il brogliaccio, materialmente tutto ciò che è stato registrato in entrata e in uscita della comunicazione e viene stampato".

Monteleone: "Ma quando ci sono dei buchi nelle date, questa cosa va verbalizzata? Com’è possibile che il brogliaccio abbia dei vuoti e questa cosa?".

Tartaglia: "No il vuoto può averlo solo se non funziona più la microspia".

Monteleone: "E quello però va scritto, si è rotto il dispositivo…".

Tartaglia: "Certo, va sempre verbalizzato perché potrebbe essere una fase importante dove tu comunque verbalizzi, ma anche in autotutela, nel senso 'non ho potuto ascoltare', però va comunque giustificato".

Un vuoto assoluto di 4 giorni di dialoghi e rumori di ogni sorta si potrebbe spiegare solo con un guasto tecnico, ma anche quello l’avrebbero dovuto annotarlo nel brogliaccio. In realtà un’altra spiegazione potrebbe esserci e l’ex carabiniere la ipotizza in un secondo momento:

Tartaglia: "È strano, quattro giorni così è strano, poi la sequenza dei numeri dev’essere… non può sballare assolutamente. Io li ho stampati per me corretti, se da lì al passo successivo c’è stato qualcuno che è intervenuto sui server o rimasterizzato i dvd o ristampato di nuovo, questo io non lo posso sapere. Però è possibile farlo, questo è chiaro. Questa è quello che ti volevo spiegare".

I dvd messi a disposizione della difesa sono siglati dalla società Waylog, mentre le intercettazioni a casa di Rosa e Olindo erano state affidate ad un’altra società, la Sio di Cantù, quindi quelli arrivati agli avvocati, secondo questi ultimi, non sembrano essere i dvd originali creati appena conclusa l’attività di intercettazione. “Guarda caso tutto il materiale di pessima qualità e diciamo le intercettazioni mancanti, mancano proprio sul materiale che c’è stato consegnato dalla Waylog”, commenta il legale Fabio Schembri. “Per 12 anni ci è stato detto che questo materiale era completo, ora a seguito anche delle vostre ricerche è venuto fuori che in realtà mancano tante intercettazioni. E non sanno spiegarselo, neppure la Procura sa spiegarsi perché. Noi sappiamo che laddove si volesse controllare il server anche tramite tecnici della Procura stessa, queste intercettazioni possono essere rintracciate oppure si potrebbe capire tramite questo esame per quale motivo, errore tecnico, errore umano, o altro ancora, queste intercettazioni sono sparite, mancano. Oltretutto sono delle intercettazioni che sono state, come posso dire, lavorate da una società che si chiama Waylog, che a seguito delle vostre ricerche di fatto è uscito che ha una fiduciaria in Svizzera, e questo pure per la trasparenza… se ne disconoscono per esempio i soci, perché potrebbe essere chiunque il socio. Potrebbe essere per esempio una persona per bene oppure potrebbe essere anche altro, potrebbe essere una persona in un conflitto di interessi, potrebbe essere una persona che ha dei precedenti penali, non lo so. Però questa cosa è vietata, cioè, non si può sostanzialmente lavorare per lo Stato senza comunicare chi sono i soci, questa è una norma basilare, di trasparenza, nei contratti, nei rapporti dei privati e le società con la Pubblica Amministrazione. A questo punto – conclude Schembri - io penso che sia interesse di tutti quanti e non solo della difesa, quindi della Giustizia, fare uscire fuori o capire per quale motivo queste intercettazioni mancano, ma non vogliamo delle giustificazioni di carattere ondivago, dobbiamo delle spiegazioni di carattere tecnico che possano essere logiche e comprensibili per tutti”.

Anticipazione da “Oggi” il 18 novembre 2020. «Un giorno, mentre Raffaella era qua a casa nostra, le ha telefonato mamma Paola e le ha detto che appena fosse tornata la attendeva una sorpresa. Aveva deciso di intestare una parte di eredità a Youssef, e le avrebbe dato i soldi che le aveva chiesto, come anticipo di eredità, per trasferirsi in Tunisia». La confidenza di Souad Bent Ammar Ferchici, madre di Azouz Marzouk, è contenuta nel libro «Metamorfosi di un delitto» (Tralerighe) di Stefania Panza che OGGI è in grado di anticipare nel numero in edicola da domani. Stando sempre a quanto riportato dal libro, Azouz specifica di quanti soldi si trattasse: circa 250 mila euro. E aggiunge: « Avevamo già trovato a chi affittare l’appartamento di via Diaz, a 700 euro al mese, qui in Tunisia ci bastavano per mangiare. Poi volevamo costruire una sorta di Gardaland, avrebbe dovuto essere il più grande dell’Africa. Nei nostri progetti c’era anche un ostello per universitari e un asilo nido che avrebbe gestito Raffaella». E dice: «Penso che il movente possa essere l’eredità». Indica, insomma, una direzione ben precisa per scovare i veri autori della strage. I fratelli di Raffaella, Pietro e Giuseppe, hanno già querelato per diffamazione Azouz due volte. L’ipotesi che Raffaella avesse magari già preso dei soldi dalla mamma allarga però l’orizzonte ben oltre la pista famigliare, sfociando verso la vendetta trasversale della criminalità o qualcuno, gravitante nel mondo dello spaccio, interessato a impossessarsi di quel denaro.

Strage di Erba: clamorose confidenze di una vicina di Rosa e Olindo? Le Iene News l'1 dicembre 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti raccolgono il racconto di una donna a cui un’altra signora, che sarebbe un’ex vicina di casa di Rosa e Olindo, avrebbe fatto alcune confidenze sulla strage di Erba: se quello che racconta fosse vero, potrebbe riscrivere la storia delle responsabilità dei due coniugi condannati all’ergastolo. I legali non hanno potuto ancora verificare direttamente con Rosa Bazzi questo racconto per la sua positività al Covid. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul caso della strage di Erba raccogliendo un nuovo e clamoroso racconto che, se fosse confermato, potrebbe contribuire a far riaprire uno dei casi più noti d’Italia, per il quale Rosa Bazzi e Olindo Romano sono stati condannati all’ergastolo (di questo caso ci stiamo occupando da tempo e in fondo all'articolo potete trovate i principali servizi e articoli che gli abbiamo dedicato recendetemente). Ecco allora il racconto di una donna, che chiede di mantenere l’anonimato e che sostiene di aver ricevuto quest'estate al mare le confidenze di una presunta testimone oculare dei momenti della strage. Una donna che, stando a quanto avrebbe detto alla segnalatrice, all’epoca avrebbe abitato proprio vicino alla corte di Via Diaz, e che le avrebbe confidato di aver visto i coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano all’interno della corte proprio il giorno della strage, quell’11 dicembre del 2006. La donna sentita da Antonino Monteleone racconta: “Stavo guardando il servizio sulla strage di Erba. Io per caso, quest’estate mi sono trovata a fare un fine settimana al mare e ho conosciuto una signora che in poche parole, mi ha detto che abitava lì. E quindi mi ha spiegato che alla fine i due coniugi sono comunque innocenti. Lei (si riferisce alla confidenza della presunta testimone oculare, ndr) ha proprio visto la scena di come si sono comportati loro (Rosa e Olindo, ndr). E alla fine sono entrati per curiosità. La curiosità, il marito l’ha portato dentro diciamo. Poi mi ha spiegato, che la moglie dopo gli ha detto andiamo "andiamo via". Ecco perché allora poi dopo dicono che hanno trovato la traccia di sangue nella macchina del signore”. La donna prosegue: “Mi spiegava che ha visto tutta la scena ecco, che loro sono entrati per curiosità per sapere cosa era successo, poi sono usciti ecco perché adesso tutti dicono che sono colpevoli quando non è così”. Un’ipotesi, quella che i coniugi Romano si fossero accorti che stesse succedendo qualcosa nella palazzina della strage, già formulata nel libro “Il Grande Abbaglio”, di Felice Manti ed Edoardo Montolli e che tiene conto della versione dei fatti data dai due coniugi.

Anticipazione da “le Iene” l'1 dicembre 2020. Strage di Erba: arriva una nuova segnalazione, quella di una donna che racconta di aver ricevuto le confidenze di una presunta testimone oculare che sostiene di aver visto i coniugi Romano all’interno della corte di via Diaz, ad Erba, proprio il giorno della strage. I contenuti di questa segnalazione, se fossero confermati, potrebbero portare ad una conseguenza davvero clamorosa, cioè quella di far riaprire uno dei casi più noti d’Italia, che ha portato all’ergastolo Rosa Bazzi e suo marito Olindo Romano, condannati come i mostri della Strage di Erba. In esclusiva ai microfoni di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti - in onda stasera, martedì 1° dicembre, a “Le Iene”, in prima serata su Italia1 – oltre alle dichiarazioni inedite della donna, i pareri, su questa nuova testimonianza, del legale dei coniugi in carcere, Fabio Schembri, e del giornalista d’inchiesta Felice Manti.

Iena: “Cosa ci voleva segnalare?”

Donna: “Sì guardi io ieri stavo guardando il servizio sulla strage di Erba io per caso, quest’estate mi sono trovata a fare un fine settimana al mare e ho conosciuto una signora che in poche parole, mi ha detto che abitava lì. E quindi mi ha spiegato che alla fine i due coniugi sono comunque innocenti. Lei (si riferisce alla confidenza della presunta testimone oculare, ndr.) ha proprio visto la scena di come si sono comportati loro (Rosa e Olindo, ndr.). E alla fine sono entrati per curiosità. La curiosità il marito l’ha portato dentro diciamo. Poi mi ha spiegato, che la moglie dopo gli ha detto andiamo «andiamo via». Ecco perché allora poi dopo dicono che hanno trovato la traccia di sangue nella macchina del signore. Io poi ho seguito il servizio”.

La donna racconta: “Mi spiegava che ha visto tutta la scena ecco, che loro sono entrati per curiosità per sapere cosa era successo, poi sono usciti ecco perché adesso tutti dicono che sono colpevoli quando non è così”.

Donna: “Vabbè ci abitava proprio lì, adesso abita da un’altra parte a Milano, però mi spiegava che ha visto tutta la scena. Che loro sono entrati per curiosità per sapere cosa era successo, poi sono usciti”.

Iena: “Quindi Rosa e Olindo si sarebbero affacciati nella casa della strage e poi sarebbero andati via?”

Donna: “Sì questa cosa me l’ha spiegata a metà luglio”.

Iena: “Ma lei ha contatti con questa signora?”.

Donna: “Eh mmh devo andare a vedere se ce l’ho perché mi ha segnato un numero su un foglietto. Ma ci siamo conosciuti per poco, eravamo a Igea Marina. Lei adesso abita a Milano con la figlia però mi diceva che prima abitava lì, per quello che mi ha raccontato che ha visto il marito entrare perché voleva sapere cosa era successo?”.

Iena: “Quindi lei l'avrebbe visto Olindo entrare nella casa dopo?”

Donna: “Sì sì sì sì, mi ha detto che l’ha visto entrare e la moglie gli avrebbe detto «cosa fai andiamo via, cioè andiamo nei guai no?», però alla fine se già il piede ce l’aveva messo dentro è normale che poi dopo si sono trovate le tracce del sangue nella macchina lì... del signore”.

Iena: “E quindi anche la vicina che aveva parlato con lei aveva sentito che c’era qualcosa che non andava?”

Donna: “Sì, mi aveva detto che aveva sentito qualcosa però ovviamente lei non è andata a indagare, cioè, si è fatta gli affari suoi, però affacciandosi ha visto proprio i coniugi che entravano e poi sono usciti. Cioè quello mi ha detto, quello sicuro, però ovviamente poi dopo si è fatta i fatti suoi”.

La nuova testimone con cui l’inviato è al telefono non ha dubbi su cosa avrebbe sentito riferire e, visto che si tratta della libertà di due ergastolani che si proclamano innocenti, la trasmissione di Italia1 ritiene sia il caso di approfondire questa segnalazione.

Donna: “Poi dopo ci pensavo e dicevo, però non è giusto, poi questa signora ha visto, cavolo, proprio i coniugi che sono entrati e sono usciti… allora è vero quando dicono che sono innocenti no?”

Se fosse andata esattamente come viene raccontata, Rosa e Olindo avrebbero avuto delle gravissime responsabilità per non essere intervenuti e non aver chiamato né forze dell’ordine, né soccorsi.

Donna: “Ah beh guardi io questo non lo so, però io ripeto dico quello che so, mi hanno detto che li hanno visti entrare che hanno sentito proprio la moglie dire andiamo via che sennò andiamo nei guai”.

Iena: “La signora che le ha detto questa cosa abitava lì nella corte di via Diaz, nella corte della strage?”

Donna: “Sì, no vicino, ha detto che abitava lì”.

Iena: “E perché questa cosa non l’avrebbe detta in tutti questi anni?”

Donna: “Forse voleva per farsi i fatti suoi, aveva paura, non lo so sinceramente”. La signora mi sembra che si chiami Giusi”.

Iena: “Che età avrà avuto?”

Donna: “Avrà avuto… sulle 60-70 anni una cosa così ecco, io l’ho vista così”.

Iena: “Questa cosa che ci ha raccontato le andrebbe di raccontarcela davanti a una telecamera?”

Donna: “No va beh io dico la verità io vorrei anche io rimanere anonima eh”.

Iena: Perché una testimonianza del genere potrebbe pure riaprire il processo no?

Donna: “Eh lo so, se ci sono due persone innocenti che stanno pagando per niente a me spiace”.

Iena: “Ma questa signora Giusi con la quale lei avrebbe parlato, che tipo era, era una di quelle molto chiacchierone, un po’ mitomani che si inventano le storie, mi faccia capire”.

Donna: “Eh guarda, allora, parlare parlava molto, però all’apparenza non mi è sembrata una persona che sparava cavolate, ecco, sì, mi è sembrata una persona abbastanza con la testa sulle spalle nel senso che dice una cosa, pensa che sia vera, non penso che dica bugie. A me è sembrata così all’apparenza”.

La donna preferisce rimanere anonima, il giorno dopo aver parlato con Le Iene, invia alla redazione questo messaggio: “Buongiorno, senta io ci ho pensato… Non ci voglio centrare niente in questa storia, perché io, non riesco a rintracciare la signora, e poi mi è arrivata una chiamata... Da una persona che non conosco oltretutto... Dicendomi di farmi gli affari miei, altrimenti avrò una denuncia. Mi spiace, pensavo di poter fare una cosa giusta, ma siccome non la riesco a rintracciare la signora, non posso aiutarvi e non voglio fare niente. Mi spiace, ma non voglio nè più essere contattata e nè cercata da voi. Saluti.”

Dice di aver ricevuto una misteriosa telefonata: qualcuno le avrebbe consigliato di farsi gli affari propri ma conferma fino all’ultima virgola quello che ha raccontato all’inviato. 

Donna: “A me dispiace con tutto il cuore però non mi sento di andare avanti con sta cosa qua”.

Iena: “Ma possiamo andare avanti noi per te? Dobbiamo fare questo appello per trovare questa Giusi”.

Donna: “Eh fatelo, cosa vi devo dire, fatelo ovviamente”.

Iena: “Se tu ci assicuri che questa persona esiste e non perdiamo tempo se la cerchiamo”.

Donna: “Allora questa persona esiste, c’è davvero in realtà, ma dopo bisogna vedere se è realmente così”.

La donna non vuole apparire ma ha dato all’inviato degli elementi su cui lavorare: la testimone oculare si chiamerebbe Giusi, sarebbe stata a metà luglio in vacanza al mare a Igea Marina e avrebbe abitato nella corte o lì vicino l’anno della strage, per poi trasferirsi a Milano con la figlia. Monteleone compie un tentativo andando ad Erba e provando a chiedere notizie a chi abita in quella zona. Delle tante persone incontrate presso la corte di via Diaz nessuno si ricorda di una Giusi, ma un inquilino di via Diaz, sembra essere d’aiuto.

Iena: “È tanto che abiti qua?”

Inquilino di via Diaz: “Sì sì”

Iena: “Da quanti anni?

Inquilino di via Diaz: “Più di 30 anni”

Iena: “Veramente? Volevo salutare una mia amica ma non l’ho trovata”.

Inquilino di via Diaz: “Chi stai cercando?”

Iena: “Si chiama Giusi”.

Inquilino di via Diaz: “Giusi?”

Iena: “Forse Giuseppina, io ricordavo Giusi”.

Inquilino di via Diaz: “Ma era sposata? Aveva una bimba?”

Iena: “Bravo”.

Inquilino di via Diaz: “XXX”

Iena: “Bravo, ti ricordi il cognome?”

Inquilino di via Diaz: “No il cognome saranno più di 8-9 anni che se n’è andata”.

Iena: “A saperlo te lo chiedevo prima, scusami lei si chiamava proprio Giusi?”

Inquilino di via Diaz: “Sì, la figlia XXX”.

Iena: “E il marito come si chiamava?”

Inquilino di via Diaz: “Guardi mi sembrava fosse divorziata”.

Iena: “Ah ok perfetto e loro abitavano qua?”

Inquilino di via Diaz: “Sì l’appartamento sopra da me qua”.

Iena: “Ok e che lavoro faceva questa Giusi?”

Inquilino di via Diaz: “Sinceramente non lo so, usciva la mattina, veniva al pomeriggio, non lo so sinceramente”.

Iena: “Ma da quanti anni è che se n’è andata?”

Inquilino di via Diaz: “Ma saranno 9 anni 10 anni che se n’è andata”.

Iena: “Sì? Tu sei sicuro che si chiamava Giusi? O magari Giuseppina?”

Inquilino di via Diaz: “La chiamavano Giusi, poi non lo so”.

Iena: “E dove si sono trasferiti che tu abbia saputo?”

Inquilino di via Diaz: “Io so che andavano a Milano, perché non so se con il marito o con un altro, non lo so sinceramente, so che si sono trasferiti a Milano, infatti hanno lasciato tutto l’arredamento che hanno venduto, dopo”.

Negli scorsi servizi dedicati alla vicenda e andati in onda, non è la prima volta che qualcuno ipotizza uno scenario del genere.

Anche nelle intercettazioni ambientali fatte in carcere a Como, prima che i due confessassero, si sente Rosa chiedere a Olindo:

Rosa: “Ma che cosa c’è da confessare, non siamo stati noi!”

Olindo: “Lo so, però aspetta…per tagliare le gambe al toro, metti che sono stato io…”.

Rosa: “Ma… ma quando sei andato su Olli?!”

Olindo: “Non lo so”.

Rosa: “Dimmi, quando sei andato su?!”

Olindo: “Lo so Rosa ma è per finire questa storia qui”.

Rosa: “Ma perchè devi dire che non è! Non è vero niente Olli, sai che non è vero niente, tutta questa cosa! Ancora adesso io dico e torno sempre a ripetere”.

Olindo: “Se facciamo così prendiamo anche dei benefici e qualche cosa e te ne vai a casa”.

Rosa: “Ma cosa vado a casa a fare Olli? Vuoi che esco di qui e mi butto sotto un treno?”

È lecito chiedersi il perchè Rosa dovrebbe dire “tu non sei andato su” a Olindo se Olindo non c’è mai andato? E - visto che quella sera i coniugi Romano raccontano di essere stati a cena in un McDonald’s di Como alle 21.40 - Monteleone cerca di capire se siano andati in città alla ricerca di un alibi, come sostiene l’accusa, o se siano andati via di fretta da quella corte dopo aver percepito che stava succedendo qualcosa di brutto. Che i coniugi Romano si fossero accorti che stesse succedendo qualcosa nella palazzina della strage è una teoria formulata anche nel libro “Il Grande Abbaglio”, di Felice Manti ed Edoardo Montolli e che tiene conto della versione dei fatti data dai due coniugi. L’inviato chiede se la versione dei fatti avanzata dall’incredibile racconto della donna sia compatibile con ciò che di certo sappiamo della strage. La risposta di Felice Manti: “Noi sappiamo che la mattanza è iniziata qualche minuto prima delle 20 perché Frigerio dirà di aver sentito i titoli del tg5, non sia ancora conclusa alle 20:22, perché sappiamo che la Cherubini, la moglie di Frigerio, viene sentita gridare distintamente “aiuto aiuto” dal soccorritore Bartesaghi, quindi in questi 22-27 minuti, sono state uccise quattro persone, ne è stata ferita una quinta ed è stato dato il fuoco all’appartamento. In questi 22-27 minuti è chiaro che in questa mattanza si sono sentiti dei rumori tremendi di persone che stavano per essere ammazzate, con corpi contundenti e armi da taglio. Dicevamo, Rosa Bazzi ha sentito dei rumori o ha visto, non lo sappiamo, probabilmente ha invitato il marito a uscire, perché il marito stava sonnecchiando sul divano e quindi è chiaro che loro sono usciti dalla palazzina prima che la strage fosse conclusa. Questo perché sappiamo che dopo che arriva Bartesaghi, la corte di via Diaz nel giro di pochissimi minuti si riempie di persone, di mezzi della Polizia, di macchine dei Vigili del fuoco, per cui sarebbe stato impossibile per Olindo Romano e Rosa Bazzi uscire con la loro vettura da quella corte dopo la fine della mattanza. Ecco perché penso che il racconto di questa signora, che riferisce di una terza persona che avrebbe visto Rosa Bazzi uscire dalla casa prima che ovviamente finisse la mattanza è perfettamente compatibile con una dinamica della strage che non può essere quella che viene fuori dalle carte e dalle confessioni per il semplice motivo che non collima con le prove scientifiche raccolte dai Ris e soprattutto non torna con l’eventualità che Olindo e Rosa in questo frangente si siano potuti cambiare nel proprio appartamento senza proiettare nella stanza dove si sono cambiati alcuna macchia di sangue, siano usciti senza farsi vedere neanche da Bartesaghi perché Bartesaghi se ne sarebbe accorto, ecco perché le prove non tornano, il problema è che se abbiamo ragione noi, se hanno ragione le prove scientifiche, se la logica diciamo ha ancora un senso nel raccontare una strage di questo tipo è evidente che abbiamo a che fare con due persone innocenti, condannate ingiustamente, è evidente che anche la più piccola testimonianza che possa in qualche modo scagionarli con certezza e con nettezza non può che essere ben accetta, nonostante la mole di prove che dimostrano più di un ragionevole dubbio rispetto alla loro colpevolezza tutti questi dubbi sono stati ignorati e accantonati in nome di una verità processuale che ancora oggi a distanza di 12 anni, ce lo dimostrano anche queste testimonianze, grida vendetta”. Secondo il giornalista Manti non ci sono dubbi, la testimonianza indiretta raccolta è perfettamente compatibile con ciò che si sa con certezza della strage. “Era addirittura uscito un libro, “Il grande abbaglio”, che riportava proprio questo, la possibilità che Rosa o Olindo avessero sentito o visto qualcosa. – dichiara Fabio Schembri legale dei coniugi Romano a proposito di questa ipotesi - Le prime domande che vennero poste da parte nostra sia a Olindo, sia a Rosa, furono proprio queste. Però sia Olindo sia Rosa ci hanno sempre fornito quella versione, cioè Olindo era sul divano che dormiva, Rosa ad un certo punto l’ha svegliato, dopo qualche minuto sono usciti e sono andati a Como in macchina insomma. Quindi era una domanda, un quesito che avevamo posto ad entrambi all’epoca. Parlo naturalmente del 2007 di 13 anni fa...sì”. A questo punto l’inviato chiede all’avvocato dei condannati se è possibile informare Rosa e Olindo su quest’ultima segnalazione: Schembri risponde: “Certamente glielo chiederemo, purtroppo non nel breve termine perché attualmente Rosa è in quarantena perché è risultata positiva anche se sta bene e allo stato è asintomatica e quindi non ci sarà possibile diciamo a breve chiederlo. Però certamente lo faremo non appena sarà possibile farlo insomma”. Quando la Iena chiede se Rosa è positiva al Covid, Schembri risponde: “Sì da qualche giorno, ha avuto l’esito del tampone al quale era stata sottoposta. È positiva ma asintomatica e sta bene. Lo faremo certamente non appena sarà possibile vederla o sentirla. Se c’è una persona che ha visto qualcosa quella sera, che venga fuori. Perché come voi ben sapete, riteniamo i coniugi del tutto estranei ai fatti accaduti in Erba”.

Strage di Erba, nuovo testimone: le cattive frequentazioni di Marzouk. Le Iene News il 24 novembre 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti raccolgono il racconto esclusivo di un uomo che frequentava la casa della strage proprio nei mesi precedenti alla mattanza e racconta di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona. La Cassazione intanto ha detto no alla richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di analizzare i nuovi reperti della strage di Erba. La Cassazione ha appena detto no alla richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di analizzare i nuovi reperti della strage di Erba. Si tratta di reperti rinvenuti sulla scena del crimine e che in dodici anni nessuno prima d’ora ha mai esaminato. Tra questi ci sono gli abiti dell’unico superstite Mario Frigerio e del piccolo Youssef Marzouk. Rosa e Olindo sono stati condannati all'ergastolo per l'omicidio di Raffaella Castagna, di suo figlio Youssef, della madre Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini in quella che il pubblico ministero in aula ha definito la più atroce impresa criminale della storia della Repubblica. Sono circa due anni che ci occupiamo di questa vicenda e proviamo a esplorare la numerose zona d’ombra che la attraversano e in molti sorge un dubbio: e se ci trovassimo di fronte ad un possibile errore giudiziario che ha portato all’ergastolo due innocenti? Qui sotto potete trovare i principali articoli e servizi che abbiamo dedicato recentemente a questo caso. Nel nuovo servizio che vedete qui sopra, dedicato alla strage di Erba, Antonino Monteleone ascolta la testimonianza esclusiva di un uomo che frequentava la casa della strage proprio nei mesi precedenti alla mattanza. Si tratta di dichiarazioni inedite, che rafforzano le ragioni di chi crede ancora oggi che sarebbe importante poter analizzare quei reperti mai analizzati trovati nella casa. C’è chi ha ipotizzato la presenza di killer sconosciuti ai quali, secondo la difesa e non solo, avrebbero potuto portare le piste alternative che non potrebbero non essere state indagate fino in fondo dagli inquirenti nei giorni successivi alla strage. Tra le piste principali inizialmente c’era proprio quella delle “cattive frequentazioni” di Azouz Marzouk, il tunisino con precedenti penali che quella sera ha perso ciò che aveva di più caro al mondo e che non è affatto convinto dalle conclusioni a cui sono giunti 26 giudici in tre gradi di giudizio. I carabinieri di Erba tra le prime ipotesi avevano considerato la concorrenzialità di diverse etnie nell’attività di spaccio tra i tunisini vicini ad Azouz, che gravitavano nel comune di Merone, e gli albanesi di Ponte Lambro, entrambe le località in provincia di Como e poco distanti da Erba. L’ipotesi presto fu scartata perché i carabinieri non trovarono riscontri. Ma mai nessuno fino ad oggi aveva raccontato della rivalità dei tunisini, in quel periodo, con un altro gruppo che spacciava nella zona. A raccontarcela è Abdi Kais, tunisino arrestato insieme ai componenti del “clan Marzouk”, e che risultava residente nella casa di Azouz e Raffaella, luogo di ritrovo per amici e parenti del tunisino. L’uomo racconta ad Antonino Monteleone di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona tra Erba e Merone, comuni in provincia di Como. Rivalità che sarebbe sfociata in una rissa con accoltellamento da parte dei marocchini ai danni di Abdi Kais e del fratello e di due cugini di Azouz Marzouk. “Alcuni marocchini hanno accoltellato me, il fratello di Azouz, Borhen il cugino e il fratello di Borhen che abita a Como. C’erano problemi per motivi di droga”, racconta Abdi Kais nel servizio che potete vedere qui sopra. Secondo le dichiarazioni dell’uomo i tunisini avrebbero avuto la peggio con ferite di arma da taglio e Abdi sarebbe andato in ospedale per farsi medicare. L’episodio avrebbe dato luogo a una vera e propria faida tra i due gruppi. E non solo: “Un tunisino, Amer, nascondeva sempre cocaina nella cantina, (di Azouz e Raffaella, ndr.)”, racconta ancora Kais. “Perché dai nascondigli del bosco di fronte a Merone spesso veniva a mancare”. L’uomo sostiene quindi che quantitativi di cocaina venissero nascosti  nella cantina della casa di Raffaella e di Azouz, a due passi da piazza del Mercato, la piazza dello spaccio a Erba. Secondo Kais non furono Rosa e Olindo a commettere la strage, perché incompatibili per corporatura, preparazione fisica, velocità di esecuzione a quel tipo di mattanza di donne e uomini sgozzati: “Sono 5 persone, non una o due. Guardando Olindo e Rosa, non è possibile. La corporatura di Raffaella era abbastanza forte, non è facile buttarla giù per terra. Invece quei marocchini erano aggressivi per il modo in cui hanno tirato fuori i coltelli, io non me lo immaginavo per di più sono anche un atleta quindi so difendermi”. Negli anni scorsi per tre volte la difesa di Rosa e Olindo ha chiesto alla Cassazione di poter analizzare i reperti rinvenuti sulla scena del crimine e nonostante tre decisioni favorevoli in tal senso, le Corti di Como e Brescia di volta in volta non hanno acconsentito a queste analisi. E così per la quarta volta la difesa di Rosa e Olindo è tornata in Cassazione. “Purtroppo è arrivata una notizia contraria”, dice Fabio Schembri, l’avvocato di Rosa Bazzi e Olindo Romano. “Nel senso che c’è stato un rigetto che allo stato impedisce l’analisi di questi reperti, che sarebbe stato molto importante analizzare al fine di presentare insieme ad altri elementi la richiesta di riapertura del processo”. Il ricorso è stato respinto, ma rimane ancora uno spiraglio riguardo alle motivazioni, non ancora pubblicate, che accompagneranno questa decisione. “Io mi auguro e spero che nella motivazione la Corte di Cassazione possa indicare una strada tramite la quale farci analizzare questi reperti”, continua Schembri. Un’eventuale analisi dei reperti potrebbe risultare decisiva a rintracciare quel dna di Rosa e Olindo mai ritrovato sulla scena del crimine e buttare quindi via la chiave che rinchiude i due condannati oppure a individuare il dna di estranei, che farebbe pensare alla presenza di killer sconosciuti, e in questa eventualità a riaprire il caso.

Strage di Erba, nuovo testimone: la pista sulle rivalità tra i tunisini vicini a Marzouk e i marocchini. Le Iene News il 24 novembre 2020. “Quei marocchini erano aggressivi per il modo in cui hanno tirato fuori i coltelli”. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti raccolgono la testimonianza di Abdi Kais, tunisino arrestato insieme ai componenti del “clan Marzouk” e ufficialmente residente nella casa di Azouz e Raffaella. L’uomo racconta di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouzk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona. “Alcuni marocchini hanno accoltellato me, il fratello di Azouz, il cugino Borhen, e il fratello di Borhen che abita a Como, c’erano problemi per motivi di droga”. Nel nuovo servizio sulla Strage di Erba Antonino Monteleone e Marco Occhipinti raccolgono la testimonianza di Abdi Kais, tunisino arrestato insieme ai componenti del “clan Marzouk” e che risultava residente nella casa di Azouz e Raffaella, luogo di ritrovo per amici e parenti del tunisino. Per la strage avvenuta in quella casa l’11 dicembre 2006, che il pubblico ministero in aula ha definito la più atroce impresa criminale della storia della Repubblica, Rosa Bazzi e Olindo Romano sono stati condannati all'ergastolo. Per l'omicidio della moglie di Azouz Marzouk, Raffaella Castagna, del figlio Youssef, della madre di lei Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini. Qualche giorno fa, la Cassazione ha detto no alla richiesta degli avvocati di Rosa e Olindo di analizzare i nuovi reperti della strage, rinvenuti sulla scena del crimine e che in dodici anni nessuno prima d’ora ha mai esaminato. Questa sera a Le Iene approfondiremo con un nuovo servizio (in fondo trovate i servizi e gli articoli principlai che abbiamo dedicato a questo caso) la pista delle cattive frequentazioni di Azouz Marzouk, il tunisino con precedenti penali che quella sera ha perso ciò che aveva di più caro al mondo e che non è affatto convinto dalle conclusioni a cui sono giunti 26 giudici in tre gradi di giudizio. A parlare è Abdi Kais, che racconta di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona tra Erba e Merone, comuni in provincia di Como. Rivalità che sarebbe sfociata in una rissa con accoltellamento da parte dei marocchini ai danni di Abdi Kais e del fratello e due cugini di Azouz Marzouk. “Alcuni marocchini hanno accoltellato me, il fratello di Azouz, il cugino Borhen e il fratello di Borhen che abita a Como, c’erano problemi per motivi di droga”, racconta. Dalle dichiarazioni dell’uomo i tunisini avrebbero avuto la peggio con ferite di arma da taglio e Abdi sarebbe andato in ospedale per farsi medicare. L’episodio avrebbe dato luogo ad una vera e propria faida tra i due gruppi. “Un tunisino, Amer, nascondeva sempre cocaina nella cantina (di Azouz e Raffaella, ndr.)”, racconta ancora Kais. “Perché dai nascondigli del bosco di fronte a Merone spesso veniva a mancare”. L’uomo sostiene quindi che quantitativi di cocaina venissero nascosti nella cantina della casa di Raffaella e di Azouz, a due passi da piazza del Mercato, la piazza dello spaccio a Erba. Secondo Kais non furono Rosa e Olindo a commettere la strage, perché incompatibili per corporatura, preparazione fisica, velocità di esecuzione a quel tipo di mattanza di donne e uomini sgozzati: “Sono 5 persone, non una o due. Guardando Olindo e Rosa, non è possibile. La corporatura di Raffaella era abbastanza forte, non è facile buttarla giù per terra. Invece quei marocchini erano aggressivi per il modo in cui hanno tirato fuori i coltelli, io non me lo immaginavo per di più sono anche un atleta quindi so difendermi”. 

Strage di Erba, testimoni della rissa tra tunisini e marocchini: “Pronti a essere sentiti dai pm”. Le Iene News il 28 novembre 2020. Martedì scorso con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti abbiamo raccolto la testimonianza di Abdi Kais che frequentava la casa della strage proprio nei mesi precedenti alla mattanza e che ci ha raccontato di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona, sfociata in una rissa con coltellate. Ora Abdi Kais, assieme a Oueslati Lofti, si dice disponibile a parlarne anche con i magistrati. “Siamo pronti a parlare con i pm”. Martedì scorso, nel servizio che potete vedere qui sopra, con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti abbiamo raccolto la testimonianza di Abdi Kais che frequentava la casa della strage proprio nei mesi precedenti alla mattanza e racconta di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona, sfociata in una rissa con coltellate. Tutto questo risalirebbe a un anno prima della strage di Erba che vide l'11 dicembre 2013 l'omicidio della moglie di Azouz, Raffaella Castagna, del figlio Youssef  della madre di lei Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini, e per cui sono stati condannati all'ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano. Dopo la nostra intervista ad Abdi Kais e quella sul settimanale Oggi del giornalista d’inchiesta Edoardo Montolli, uno dei principali esperti del caso di Erba che abbiamo sentito anche nei nostri servizi, arriva ora una nota dell’avvocato Stefano Iai. I suoi assistiti Abdi Kais e Oueslati Lofti, fa sapere, "hanno manifestato la disponibilità a essere sentiti, nelle forme e secondo le modalità indicate dall'autorità giudiziaria competente cui è stata inviata specifica nota, con riferimento a una rissa tra l'entourage di Azouz Marzouk e un gruppo di cittadini marocchini dei quali gli stessi Lofti e Kais non ricordano l'identità, consumatasi nell'anno antecedente il gravissimo e plurimo episodio omicidiario. Nelle interviste Abdi Kais non ha inteso muovere accuse verso alcuno, ritenendo nondimeno utile raccontare il singolare episodio della rissa, di cui conserva fotografico ricordo, al fine di consentire l'approfondimento delle ragioni che possono esserne state la causa, offrendo, perciò, di poterlo anche testimoniare davanti all'autorità giudiziaria italiana". “Alcuni marocchini hanno accoltellato me, il fratello di Azouz, Borhen il cugino e il fratello di Borhen che abita a Como. C’erano problemi per motivi di droga”, ci ha raccontato Abdi Kais nel servizio che potete vedere qui sopra. Secondo le sue dichiarazioni i tunisini avrebbero avuto la peggio con ferite di arma da taglio e Abdi sarebbe andato in ospedale per farsi medicare. L’episodio avrebbe dato luogo a una vera e propria faida tra i due gruppi. E non solo: “Un tunisino, Amer, nascondeva sempre cocaina nella cantina (di Azouz e Raffaella, ndr)”, racconta ancora Kais. “Perché dai nascondigli del bosco di fronte a Merone spesso veniva a mancare”. Abdi Kais sostiene che quantitativi di cocaina venissero nascosti nella cantina della casa di Raffaella e di Azouz, a due passi da piazza del Mercato, la piazza dello spaccio a Erba. Dichiarazioni inedite, che rafforzano le ragioni di chi crede ancora oggi che sarebbe importante poter analizzare quei reperti mai analizzati ritrovati nella casa. Su questo e su altri temi, il nostro Antonino Monteleone è appena intervenuto con un articolo pubblicato dal quotidiano La Verità, che potete leggere cliccando qui, in risposta agli attacchi Selvaggia Lucarelli e Gianluigi Nuzzi, conduttore della trasmissione tv Quarto grado. C’è infatti chi ha ipotizzato dall'inizio la presenza di killer sconosciuti ai quali, secondo la difesa e non solo, avrebbero potuto portare le piste alternative che non potrebbero non essere state indagate fino in fondo dagli inquirenti nei giorni successivi alla strage. Tra le piste principali inizialmente c’era proprio quella delle “cattive frequentazioni” di Azouz Marzouk, il tunisino con precedenti penali che quella sera ha perso ciò che aveva di più caro al mondo e che non è affatto convinto dalle conclusioni a cui sono giunti 26 giudici in tre gradi di giudizio. I carabinieri di Erba tra le prime ipotesi avevano considerato la concorrenzialità di diverse etnie nell’attività di spaccio tra i tunisini vicini ad Azouz, che gravitavano nel comune di Merone, e gli albanesi di Ponte Lambro (entrambe località in provincia di Como e poco distanti da Erba). L’ipotesi presto fu scartata perché i carabinieri non trovarono riscontri. Ma mai nessuno fino ad oggi aveva raccontato della rivalità dei tunisini, in quel periodo, con un altro gruppo che spacciava nella zona. Abdi Kais, tunisino arrestato insieme ai componenti del “clan Marzouk” e che risultava residente nella casa di Azouz e Raffaella, luogo di ritrovo per amici e parenti del tunisino, ci ha parlato proprio di questa ipotesi, per una rivalità con un gruppo di marocchini. Racconta ad Antonino Monteleone di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona tra Erba e Merone, comuni in provincia di Como. Rivalità che sarebbe sfociata in una rissa con accoltellamento da parte dei marocchini ai danni di Abdi Kais e del fratello e di due cugini di Azouz Marzouk. Secondo Kais non furono Rosa e Olindo a commettere la strage, perché a suo dire incompatibili per corporatura, preparazione fisica, velocità di esecuzione a quel tipo di mattanza di donne e uomini sgozzati: “Sono 5 persone, non una o due. Guardando Olindo e Rosa, non è possibile. La corporatura di Raffaella era abbastanza forte, non è facile buttarla giù per terra. Invece quei marocchini erano aggressivi per il modo in cui hanno tirato fuori i coltelli, io non me lo immaginavo, per di più sono anche un atleta quindi so difendermi”.  La Cassazione ha appena detto no alla richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di analizzare nuovi reperti della strage di Erba, rinvenuti sulla scena del crimine e che in dodici anni nessuno prima d’ora ha mai esaminato. Tra questi ci sono gli abiti dell’unico superstite Mario Frigerio e del piccolo Youssef Marzouk. Negli anni scorsi per tre volte la difesa di Rosa e Olindo ha chiesto alla Cassazione di poter analizzare i reperti rinvenuti sulla scena del crimine e nonostante tre decisioni favorevoli in tal senso, le Corti di Como e Brescia di volta in volta non hanno acconsentito a queste analisi. E così per la quarta volta la difesa di Rosa e Olindo è tornata in Cassazione. “Purtroppo è arrivata una notizia contraria”, dice Fabio Schembri, avvocato di Rosa Bazzi e Olindo Romano. “Nel senso che c’è stato un rigetto che allo stato impedisce l’analisi di questi reperti, che sarebbe stato molto importante analizzare al fine di presentare insieme ad altri elementi la richiesta di riapertura del processo”. Il ricorso è stato respinto, ma rimane ancora uno spiraglio riguardo alle motivazioni, non ancora pubblicate, che accompagneranno questa decisione. “Io mi auguro e spero che nella motivazione la Corte di Cassazione possa indicare una strada tramite la quale farci analizzare questi reperti”, continua Schembri. Un’eventuale analisi dei reperti potrebbe risultare decisiva a rintracciare quel dna di Rosa e Olindo mai ritrovato sulla scena del crimine e buttare quindi via la chiave che rinchiude i due condannati oppure a individuare il dna di estranei, che farebbe pensare alla presenza di killer sconosciuti, e in questa eventualità a riaprire il caso. Sono circa due anni noi de le Iene che ci occupiamo di questa vicenda e proviamo a esplorare la numerose zona d’ombra che la attraversano e in molti sorge un dubbio: e se ci trovassimo di fronte a un possibile errore giudiziario che ha portato all’ergastolo due innocenti? 

Da Le Iene il 24 novembre 2020. Strage di Erba: ecco una nuova clamorosa testimonianza, quella di Abdi Kais, tunisino arrestato insieme ai componenti del clan Marzouk ufficialmente residente nella casa di Azouz e Raffaella – in via Diaz 25 a Erba - e che avrebbe frequentato l’abitazione dove fu commesso il delitto, proprio nei mesi precedenti a quella che è stata definita come la più atroce impresa criminale della storia della Repubblica. In esclusiva ai microfoni di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti - in onda stasera, martedì 24 novembre, a “Le Iene”, in prima serata su Italia1 – le dichiarazioni inedite di un testimone mai sentito fino ad ora. L’uomo racconta di una forte rivalità tra il gruppo di tunisini vicini ad Azouz Marzouk e quello dei marocchini che spacciava nella stessa zona tra Erba e Merone, comuni in provincia di Como. Rivalità che sarebbe sfociata in una rissa con accoltellamento da parte dei marocchini ai danni di Abdi Kais, e del fratello e due cugini di Azouz Marzouk. Dalle dichiarazioni dell’uomo si evince che i tunisini avrebbero avuto la peggio con ferite di arma da taglio e che Abdi sarebbe andato in ospedale per farsi medicare. L’episodio avrebbe dato luogo ad una vera e propria faida tra i due gruppi. Immediata la reazione dei parenti di Azouz che avrebbero bucato le ruote e spaccato con una bottiglia il parabrezza dell’auto dei marocchini che - sempre secondo il racconto del tunisino - abitavano nel comune di Merone, a qualche isolato da loro. Kais racconta che spariva spesso la droga dai nascondigli nel bosco di Merone, per cui Amer, tunisino titolare di uno degli appartamenti dei tunisini a Merone, spesso portava dei quantitativi di cocaina in cantina della casa di Raffaella e di Azouz, a due passi da piazza del Mercato, la piazza dello spaccio a Erba. Sostiene inoltre che non furono Rosa e Olindo a commettere la strage, perché incompatibili a quel tipo di mattanza di donne e uomini sgozzati per corporatura, preparazione fisica, velocità di esecuzione, a differenza dei marocchini, violenti e armati di coltelli. Elementi nuovi che per la difesa di Rosa e Olindo fanno pensare alla possibilità di un’altra pista, quella della rivalità con una banda rivale e che inizialmente fu considerata dagli inquirenti, ma poi immediatamente abbandonata. La volontà di cercare tracce di eventuali altri killer sulla scena del delitto si infrange però sulla notizia di mercoledì scorso: la Cassazione ha rigettato la richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano - riconosciuti come autori della strage e già condannati all’ergastolo - di analizzare reperti trovati sulla scena del crimine che, nell’arco di dodici anni (il crimine è stato consumato nel 2006, ndr.) nessuno prima d’ora ha mai esaminato. Tra questi anche gli abiti dell’unico superstite alla strage, Mario Frigerio, e del piccolo Youssef Marzouk. Negli anni scorsi, per tre volte, la difesa dei coniugi Romano ha chiesto alla Cassazione di poterli analizzare e, nonostante ben tre decisioni favorevoli in tal senso, le Corti di Como e Brescia, di volta in volta, non hanno acconsentito a queste analisi. Motivo per cui, per la quarta volta, la difesa di Rosa e Olindo è tornata al Tribunale Supremo. “Purtroppo è arrivata una notizia contraria” – commenta la decisione della Cassazione Fabio Schembri, legale dei coniugi in carcere - “C’è stato un rigetto che allo Stato impedisce l’analisi di questi reperti che sarebbe stato molto importante analizzare al fine di presentare insieme ad altri elementi la richiesta di riapertura del processo”, continua l’avvocato. “Il ricorso è stato respinto, ma rimane ancora una speranza riguardo alle motivazioni, non ancora pubblicate, che accompagneranno questa decisione. Io mi auguro e spero che nella motivazione la Corte di Cassazione possa indicare una strada tramite la quale farci analizzare questi reperti”, conclude Schembri. Un’eventuale analisi dei reperti potrebbe risultare decisiva per rintracciare quel Dna di Rosa e Olindo mai ritrovato sulla scena del crimine oppure a individuare tracce compatibili di estranei, che farebbero pensare alla presenza di killer sconosciuti ai quali avrebbero potuto portare le piste alternative mai indagate. Tra queste inizialmente c’era quella delle “cattive frequentazioni di Azouz Marzouk”, il tunisino con precedenti penali che quella sera ha perso ciò che aveva di più caro al mondo e che non è affatto convinto dalle conclusioni a cui sono giunti 26 giudici in tre gradi di giudizio. In particolare, i Carabinieri di Erba avevano considerato la concorrenzialità di diverse etnie nell’attività di spaccio tra i tunisini vicini ad Azouz Marzouk, che gravitavano nel comune di Merone, e gli albanesi di Ponte Lambro, entrambe le località in provincia di Como e poco distanti da Erba. Questa ipotesi presto fu scartata ma mai nessuno, fino ad oggi, aveva raccontato della rivalità dei tunisini con un altro gruppo che spacciava in quella zona, quello dei marocchini contro cui punta il dito il nuovo testimone Abdi Kais.

Qui a seguire l’intervista integrale:

Abdi Kais: Stavamo di rientro da una serata, ci siamo fermati a un chiosco che era di un ragazzo di Erba si chiama Nico, ci conosceva tutti quanti. Io e Borhen siamo rimasti in macchina e Mohammed era davanti e Il fratello di Azouz era sul lato passeggero. È sceso a prendere dei panini, alzo lo sguardo e vedo il ragazzo marocchino che lo tira, si capiva che c’era già un problema. Tempo di scendere e di arrivare da loro, mi arriva un pugno, gli rispondo e subito scendono gli altri e avevano anche dei coltelli. Quella sera mi hanno portato all'ospedale di Erba, ho fatto alcune medicazioni e poi ho dovuto scappare, perché avevo già un definitivo per l’espulsione. Nella stessa sera arrivano gli altri ragazzi che erano parenti sempre di Azouz e hanno rotto la macchina bucando con dei coltelli le quattro gomme della macchina una fiat punto verde quella è arrivato il carroattrezzi a portare perché le gomme erano bucate, il parabrezza gliel’ho rotto io con una bottiglia di birra per mettergli paura in modo che vanno via.

Iena: Ma dove sei stato accoltellato?

Abdi Kais: Accoltellato, dietro le costole, proprio sulla sinistra e una sotto la cintura, quella è la più profonda.

Iena: Ma questo accoltellamento perché c’è stato?

Abdi Kais: Voleva avere della cocaina a cui il fratello gli ha detto di no.

Iena: Ma la voleva per consumarla o la voleva indietro perché ve l’ha data da vendere e non l’avete venduta?

Abdi Kais: A dire il vero dovevano prendere un quantitativo a cui il fratello gli ha detto di no.

Iena: Loro la volevano acquistare per spacciare?

Abdi Kais: Ma sicuramente sì perché abitano dietro casa nostra e avevano qualche movimento e dopo quelle risse, noi avevamo in programma di gambizzarli proprio, soltanto che mi chiama questo ragazzo qui e mi dice guarda che i marocchini con cui vi siete litigati si trovano sotto casa e hanno dei bei coltelli. Io mi allarmo, prendo un coltello, c’era una mia ragazza, ho detto guarda non aprite la porta perché sono capaci anche di salire sopra. Sono sceso io e il marito di Marta con dei coltelli e sono scesi gli altri vicini a mettere fine.

A questo punto della conversazione l’inviato cerca di capire quanto fosse coinvolta nei loro traffici la casa di Raffaella e Azouz dove è avvenuta la strage, dove Abdi aveva la residenza e dove veniva nascosta e spacciata la droga.

Abdi Kais: In più di un’occasione c’era un ragazzo, un tunisino, si chiama Amer, si recava presso la cantina e nascondeva sempre qualche quantitativo che aveva sempre addosso, era sempre cocaina. Quei marocchini c’è capitato più volte che mancava della droga dai nascondigli che era quel bosco di fronte a Merone, perché ci pedinavano.

Iena: Quindi siccome spariva la droga nascosta nel bosco, la portavate a casa di Raffaella e Azouz?

Abdi kais: Nella cantina sì.

Abdi Kais: Una volta la Rosa mi ha aperto la porta del cancello di fuori perché ho sbagliato citofono.

Iena: E ha aperto lei, e poi?

Abdi Kais: Ho sbagliato citofono, anziché cliccare sui Castagna ho cliccato su Bazzi per quello che la conoscevo.

Iena: E ci hai litigato, si è incazzata Rosa? Ti ha detto qualche parolaccia?

Abdi Kais: No no assolutamente no…

Iena: Ma tu lo sapevi che litigavano Rosa con Raffaella e Azouz?

Abdi Kais: No, nel 2004-2005 no, finché ad Azouz quando era con me in cella, è arrivata una notifica che doveva presentarsi in tribunale, è arrivato l’appuntato che gli ha detto “Azouz hai una causa in tribunale, ti vuoi presentare?”. Mi ha detto che con le manette non si fa vedere dai vicini quindi c’è stata una proposta di dare una lezione a Olindo dopo che ha messo le mani addosso su Raffaella di rompergli la macchina. Questa proposta me l’ha fatta il fratello, poi ovviamente sono venuto a sapere che c’è stata questa lite nel quale interviene anche il padre di Raffaella, il signor Castagna, quindi ci siamo ritirati noi.

Iena: Questi cattivi rapporti tra le due famiglie secondo lui erano tali da poter degenerare in una tragedia?

Abdi Kais: No guarda ti dico anche per un’esperienza personale, litighi con un vicino ma non arrivi a fare una cosa simile dai, non è una cosa che la mente accetta che l’Olindo e la Rosa che per quella lite lì salgano e fanno una cosa simile e per di più c’hanno anche una causa qualche giorno dopo… poi la modalità, la velocità, il tutto… e quindi non avevano comportamenti da persone pazze… perché quello che ha fatto una cosa simile, non è una cosa normale. Sono 5 persone. Guardando la Rosa, non è possibile. Non è facile buttare la Raffaella giù per terra.

Iena: Potrebbe essere possibile pensare a quei marocchini come responsabili della strage?

Abdi Kais: Quei marocchini erano aggressivi perché era il modo in cui hanno tirato fuori i coltelli, sono partiti e a dire il vero io non me lo immaginavo per di più sono anche un atleta quindi so difendermi.              

Felice Manti e Edoardo Montolli per “il Giornale” il 19 novembre 2020. La Cassazione dice no all'analisi dei reperti mai esaminati per la strage di Erba. Una decisione che lascia perplessi, dato che per ben tre volte la Suprema Corte si era pronunciata favorevolmente e che ora ha cambiato orientamento. L'avvocato Fabio Schembri, che con Luisa Bordeaux e Nico D’Ascola, difende Olindo Romano e Rosa Bazzi, attende di leggere le motivazioni. Intanto commenta: «Certo, tecnicamente questa decisione mi ha sorpreso, dato che eravamo andati a Como proprio per effetto della precedente pronuncia della Cassazione. Prima ci hanno detto che serviva l'incidente probatorio a Brescia. A Brescia non è stato fatto dopo che già avevano deciso di nominare i consulenti. Poi, in Cassazione, avevano stabilito un accertamento tecnico irripetibile. E ora, dopo che a Como si sono rifiutati, prendiamo atto che anche per la Cassazione non vanno fatti nemmeno con questa formula stabilita sempre da loro. Ma, a dirla tutta, in questa storia non mi sorprende più nulla. Al tribunale di Como hanno distrutto illegittimamente buona parte dei reperti nonostante due diversi divieti dei giudici. E non è successo nulla, perché è stata chiesta l' archiviazione. Sono saltati fuori a distanza di tempo reperti ufficialmente già inceneriti, addirittura con sigilli rimossi senza che nessuno sappia perché. E non è successo nulla nemmeno lì. Abbiamo scoperto che per quello che fu definito il più grave fatto di cronaca nera del Dopoguerra mancano una parte consistente di intercettazioni, nessuno sa perché, ma non ci fanno controllare nel server per capire cosa sia successo. Francamente no, oggi diventa difficile sorprendersi». Per i legali della coppia restano ancora dei reperti importanti da analizzare. «Quelli custoditi dal Ris e quelli al laboratorio di Pavia, con le formazioni pilifere sulla felpa di Youssef e i margini ungueali. Presenteremo una nuova istanza a Como. Il problema è che le norme per consentire le analisi difensive ci sono, ma se poi non ci autorizzano è problematico svolgerle». Intanto sul settimanale Oggi viene riportata l' anticipazione del libro di Stefania Panza Metamorfosi di un delitto (Tralerighe). All' interno sono riportate delle frasi di Souad Ferchici, la madre di Azouz Marzouk, da cui Raffaella andò quattro mesi prima della strage. Secondo la donna Raffaella al suo ritorno in Italia sarebbe dovuta entrare in possesso di una cospicua somma donatale dalla madre Paola Galli. «Noi avremmo voluto sentire Souad già al processo di Como del 2008, ma la sua testimonianza fu stralciata dalla Corte d' Assise insieme a quella di una settantina di persone», dicono i difensori. In ballo c' è la richiesta di revisione, che i legali potrebbero avanzare tra qualche mese «se ci autorizzeranno l' analisi dei reperti rimasti al Ris e a Pavia, dove può esserci la prova dell' innocenza di Olindo e Rosa. Naturalmente abbiamo raccolto molto altro».

Strage di Erba, Antonino Monteleone risponde a Selvaggia Lucarelli e Gianluigi Nuzzi. Antonino Monteleone su Le Iene News il  25 novembre 2020. Dopo il nostro servizio sulla strage di Erba di qui sopra, ecco la replica di Antonino Monteleone agli attacchi di Selvaggia Lucarelli e Gianluigi Nuzzi nel suo articolo pubblicato oggi dal quotidiano La Verità. Sapete perché non c’è mai stato un vero confronto sull’intera vicenda processuale relativa ai fatti della "Strage di Erba"? Provo a riassumerlo così: durante le indagini i giornalisti pendono dalle labbra di pubblici ministeri e polizia giudiziaria. Durante il processo si dà un piccolo spazio agli argomenti della difesa, ma la sproporzione è tale che il loro peso diviene irrilevante. A questo aggiungete che i tre quarti di chi oggi ne parla – in una strenua difesa della verità giudiziaria - non ha seguito il processo, né ha rimediato leggendo i verbali del dibattimento. Sarei scorretto se non avessi le prove per dimostrare ciò che dico, ma le prove ci sono, e sono tante. Ne mostro alcune. Ieri l’altro a Le Iene abbiamo raccontato che la Cassazione, con una decisione della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ha respinto il ricorso della difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano contro la decisione della Corte d’Assise di Como di rifiutare l’analisi di molti reperti mai analizzati prima, e altri sui quali si chiede di ripetere le analisi con le nuove tecnologie a disposizione (l’evoluzione nel campo della genetica forense ha ritmi esponenziali). Nel frattempo abbiamo conosciuto un tunisino, Abdi Kais, che oltre a essere stato residente in casa di Azouz Marzouk e Raffaella Castagna, ci ha rivelato dei fatti inediti a proposito di una faida tra tunisini e marocchini per la supremazia delle piazze di spaccio in provincia di Como. Poi ha fatto cenno al fatto che le cantine della casa di Via Diaz fossero usate per il deposito temporaneo di denaro e droga. Il servizio non era ancora andato in onda quando Selvaggia Lucarelli ha emesso il suo verdetto a mezzo Twitter: con sarcasmo definisce Abdi Kais "attendibilissimo", e soprattutto sostiene che "non ci fosse nessuna cantina a casa di Raffaella e Azouz". Come si fa a non arrossire di vergogna quando si afferma una falsità così macroscopica? Sarebbe bastato andare sul luogo della strage - come ho fatto io, non so la Signora Lucarelli – oppure leggere gli atti del dibattimento - come ho fatto io, non so la Signora Lucarelli – oppure fare una semplice visura catastale per sapere che le cantine c’erano, eccome. Ora, non mi aspetto che chi è chiamato a giudicare presso il Tribunale televisivo di Ballando con le Stelle abbia anche competenze in materia di processo penale, assunzione dei mezzi di prova, mezzi di impugnazione, e tutta questa roba noiosa. Né mi aspetto che chi dice che una cosa “è vera perché lo dicono i Giudici” possa tollerare che qualcuno, dopo aver letto gli atti, nutra dubbi sinceri sul modo in cui è stato condotto il processo a Rosa Bazzi e Olindo Romano. Me lo aspetterei da Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto Grado e navigato cronista. Eppure anche lui, non si lascia sfuggire l’occasione di intervenire a mezzo social e con la consueta approssimazione. Nuzzi scrive che la “Suprema Corte (di Cassazione, nda) ha appena bocciato la "variazione (sic!) di reperti che sarebbero stati decisivi per la difesa”. Variazione non sembra un errore di battitura e onestamente non saprei quale altra parola volesse scrivere, né che cosa voglia intendere. Ma l’errore più grossolano sta qui: “ora ci sarebbe un’improbabile fuga dai tetti del reale assassino? Peccato che il primo soccorritore ha trovato il lucernario dei Frigerio chiuso da dentro e peccato che lo abbia aperto lui”.

La prima ipotesi – la fuga dai tetti degli assassini - non è affatto nuova, e Nuzzi lo saprebbe se solo conoscesse gli argomenti che la difesa ha portato in aula sin dal processo di primo grado. La seconda affermazione – che il primo soccorritore abbia trovato lucernario chiuso da dentro - è una vera e propria sciocchezza: non esiste un atto, né una foto, che possa provarlo. Anzi. Il primo soccorritore testimoniò di non esser potuto salire in casa Frigerio-Cherubini nonostante sia lui sia Frigerio sentissero ancora le urla della povera Valeria Cherubini che chiedeva “AIUTO”. Troppe fiamme e troppo fumo lo impedivano. Nuzzi, oltre ad aver letto un altro processo, deve averne visto un altro anche in televisione. D’altra parte non è nuovo a questi scivoloni. A maggio del 2019, sempre dopo un servizio de “Le Iene”, ha scritto via social che “Rosa Bazzi rideva durante la proiezione del video del piccolo (Youssef Marzouk, nda) in aula”. Una balla colossale, anzi due. La prima: nessun video di Youssef Marzouk è mai stato proiettato nell’aula del dibattimento.

La seconda: Rosa Bazzi sorride, sì, ma lo fa durante una pausa del dibattimento. Il suo viso sorridente è stato poi montato AD ARTE su altri momenti del processo. Nuzzi si lamenta: in Italia qualcuno “vuole introdurre la presunzione di innocenza anche dopo il giudizio definitivo della Cassazione”. Gianluigi, non è così e ti spiego il motivo. Nel nostro paese, ogni anno, decine di sentenze penali definitive vengono "revisionate", cioè viene accertato che i Giudici hanno commesso un errore, perché non hanno valutato una prova decisiva o l’hanno valutata male; perché è sopravvenuta una prova nuova; perché non hanno rispettato i diritti degli imputati. E le ipotesi non finiscono qui. La possibilità che una sentenza di condanna (o di assoluzione), convalidata in Cassazione, possa essere messa in discussione è una conquista della democrazia, che qualcuno dà per scontata. Durante il fascismo quello del "giudicato" era diventato un vero e proprio mito, una verità inscalfibile e immutabile; perché il regime non aveva a cuore i diritti degli indagati, né degli imputati, figurarsi dei condannati. E così il processo penale era stato ridotto a mezzo per il controllo della società.

Fatemi raccontare una piccola storia. Avola, Sicilia, 1954. Due fratelli, Paolo e Salvatore Gallo, litigano violentemente. Il 7 ottobre la moglie di Paolo va dai Carabinieri a denunciare la scomparsa del marito. La donna racconta del litigio e i Carabinieri cominciano le ricerche, prima nella masseria dove lavorava il fratello Salvatore, poi anche nell’abitazione. Trovano il berretto di Paolo, macchie di sangue su un paio di pantaloni di Salvatore e anche su una camicia del figlio di Salvatore, Sebastiano. L’università di Catania accerta che quello è il sangue di Paolo Gallo. Tutti testimoniano delle liti furibonde tra i due fratelli. Il processo si apre nel 1965 e alla sbarra ci sono due persone: Salvatore e Sebastiano, fratello e nipote dello scomparso.

Primo grado: ergastolo per Salvatore, quattordici anni per Sebastiano.

Appello: ergastolo per Salvatore Gallo, assoluzione per insufficienza di prove per il figlio Sebastiano - che comunque sconterà quasi due anni per occultamento di cadavere.

La Cassazione conferma l’ergastolo per Salvatore Gallo.

La verità dei Giudici è cristallizzata e nulla la può modificare.

Che Salvatore Gallo fosse l’assassino del fratello è la verità perché lo hanno stabilito i Giudici. E i Giudici hanno stabilito che Salvatore Gallo è l’assassino, perché è LA VERITÀ.

Per fortuna (o sfortuna), a un giornalista che si chiama Enzo Asciolla non tornano i conti e comincia a indagare. Troverà una serie di riscontri, che a sette anni di distanza esatti - il 7 ottobre 1961 – porteranno al ritrovamento di Paolo Gallo, vivo e vegeto. Si scatena un dibattito parlamentare sul codice di procedura penale irrigidito dal regime fascista, e si arriva alla modifica delle regole sulla revisione.

Salvatore Gallo, nel 1966, otterrà la revisione del processo riacquistando la libertà che “ventisei giudici in tre gradi di giudizio” (vi ricorda qualcosa questa formula?) gli avevano ingiustamente sottratto. La storia ci insegna molte cose. Ci insegna che la condanna definitiva non è una verità immutabile ed eterna, da difendere anche davanti a macroscopiche evidenze. E soprattutto ci insegna quanto può rivelarsi prezioso il lavoro dei giornalisti che dubitano della verità dei Giudici, non limitandosi a riportarla pedissequamente e a ringhiare contro chiunque osi metterla in discussione. È il bello della democrazia, amici.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 10 agosto 2020. A due anni urlava e piangeva, a due anni infastidiva. Rosa ha tagliato la gola a Youssef Marzouk per cessare quello strazio che gli acuiva il mal di testa. Mamma Raffaella e nonna Paola, invece, sono morte a sprangate e coltellate per un cocktail micidiale di invidie, rabbie e desiderio di pareggiare i conti che ha reso ciechi gli assassini. Così, la sera dell'11 dicembre 2006 in una palazzina nella corte di via Armando Diaz 25 a Erba vengono tutti uccisi con 76 colpi. A terra rimane priva di vita anche una la loro vicina, Valeria Cherubini, che abitava con il marito Mario Frigerio in mansarda. Quest' ultimo invece si salva grazie a una malformazione alla carotide e diventa il testimone unico della mattanza, consumata al primo piano, a casa di Youssef, data alle fiamme subito dopo la strage. Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di piano terra, rei confessi, sono stati condannati definitivamente all'ergastolo dal 2011. Eppure godono di una crescente popolarità innocentista. Il fronte dei loro sostenitori si allarga, fa proseliti, si compatta. Eleva Rosa e Olindo agli assassini innocenti più amati nel nostro Paese, vittime, a sentir loro, di una giustizia approssimativa e medioevale. E quella loro aurea di manifesta grettezza, piccineria travestita da ingenuità grassa, ancor più sostiene il superficiale comune sentire. Insomma, due persone profondamente ignoranti e stupide come loro mai avrebbero potuto compiere la mattanza. Il caso sarebbe comunque chiuso se non fossero intervenuti alcuni fatti che alimentano i sogni di chi spera di vedere Rosa e Olindo tornare liberi. Sì i due, serafici, magari lì a trangugiare un hamburger doppio formaggio e patatine, come la notte della strage, con tanto di scontrino delle 21.37, messo agli atti per dar corpo a un alibi in realtà barcollante e che ebbe effetto volano vista l'ora inconsueta della cena. Senza dimenticare che il desiderio di riabilitazione si espande incurante della devastazione che cagiona ai parenti delle vittime. Per questo fa rumore che proprio uno di quest' ultimi, il tunisino Azouz Marzouk, padre di Youssef, parte lesa della carneficina, professi l'innocenza di Rosa e Olindo. E' convinto che la strage sia opera di un commando addestrato chissà dove e che abbia agito come nei vicoli di Beirut o Pristina, ai tempi delle bombe. Una posizione passata sottotono per l'inverosimiglianza e per la scarsa credibilità di questo signore nato nel 1980 in Tunisia, con alle spalle un patteggiamento a 3 anni e 7 mesi per spaccio e detenzione di cocaina, dopo un arresto nel 2005 e un'altra accusa nel 2007 che determina la sua espulsione dall'Italia. Questa verità alternativa prima sussurrata poi formalizzata addirittura in un'istanza di revisione, quindi urlata sempre più ora gli è costata persino un processo. E' alla sbarra in aula per rispondere del reato di calunnia per aver accusato Rosa e Olindo di aver affermato il falso quando si sono dichiarati colpevoli. Un processo davvero singolare con i giudici che cercano di parare i rimbalzi mediatici, come a giugno quando hanno negato la deposizione in aula dell'ingombrante parte lesa, ovvero di Rosa e Olindo. Il 25 novembre sarà comunque il suo turno mentre la sentenza è prevista per il 9 dicembre. Certo, se Azouz dovesse venire assolto in questo processo sarebbe un innegabile colpo indiretto alla sentenza di condanna per la strage di Erba. Anche se i sostenitori della colpevolezza dei coniugi mettono le mani avanti: un'eventuale assoluzione significherebbe solo che rimane legittimo dubitare delle confessioni poi ritrattate di Rosa e Olindo. Su questa stanno lavorando gli avvocati della coppia che puntano a chiedere la revisione, imboccando tutte le strade percorribili. Come quando hanno chiesto di poter compiere delle analisi su una serie di reperti, rimasti lontani dal faro del processo e che invece «potrebbero dimostrare l'innocenza della coppia», come assicura il difensore Fabio Schembri. E qui la storia si complica e si apre un giallo. Infatti dopo la richiesta dei difensori, il 3 luglio 2017 la corte d'Assise di Como aveva sospeso il provvedimento di distruzione dei reperti, in attesa della decisione definitiva sul riesame degli stessi. Peccato però che il 12 luglio 2018 il cancelliere dell'ufficio corpi di reato del tribunale, Angelo Fusaro, decide di mandare quegli oggetti (un accendino e altre cose) all'inceneritore, proprio il giorno in cui la cassazione deve dire l'ultima parola sulla richiesta. Quello che succede è presto detto: la suprema corte dà l'ok all'analisi ma i reperti ormai sono ridotti in cenere. E così parte lo scarico delle responsabilità: Fusaro giura di non avere saputo del provvedimento che sospendeva la distruzione, mentre Francesco Tucci, ex responsabile ufficio corpi di reato, afferma di avere comunicato a Fusaro quell'ordine che bloccava la distruzione. Chi dice il vero? Chi mente? Il fronte innocentista in questo sgambetto della giustizia decripta un'oscura trama per mutilare Rosa e Olindo di quei reperti che avrebbero dimostrato la loro innocenza. Si apre un'indagine per capire chi ha sbagliato ma la procura non accerta la responsabilità individuale e chiede per entrambi l'archiviazione. Quando i difensori di Rosa e Olindo vanno a spulciare nel fascicolo dell'indagine scoprono però anche dei reperti mai analizzati, anzi ufficialmente distrutti il 12 luglio 2018, come il pigiama indossato da Frigerio e il piumino del letto del bambino. Ma non dovevano essere distrutti? Come se non bastasse con l'arrivo del nuovo funzionario, Paola Valsecchi, l'archivio viene riordinato ed ecco come per incanto che compare «uno scatolone contenente cinque plichi di reperti, quattro () contenenti una tanica, otto coltelli, un affilacoltelli, un mazzo di chiavi ed un abbonamento, e uno contenente un cellulare», che risulta «aperto senza che vi fosse allegato il verbale di apertura». I difensori chiedono di poterli analizzare la ma corte d'assise risponde picche. Adesso si attendono i gradi successivi mentre gli avvocati lavorano sull'unica concessione ottenuta: nuovi file originali dalle intercettazioni e altri nastri per capire se sono stati compiute o meno alterazioni. Solo in autunno si saprà se la richiesta di riaprire il processo prenderà forma, superando quindi i baluardi della sentenza definitiva, prove scientifiche e testimoniali. Come quella oculare di Frigerio («non me la dimenticherò mai quella faccia», disse in aula indicando Olindo), le confessioni ricche di particolari che potevano essere conosciuti solo dagli autori. Dettagli che sapeva chi c'era, come la posizione delle vittime o quei cuscini vicino al corpo di Raffaella. O, infine, la traccia di sangue sul battitacco dell'auto della coppia con le caratteristiche genetiche sovrapponibili perfettamente a quelle di Valeria Cherubini, senza alcuna degradazione del dna. Quest' ultima particolarità, porta l'accusa a ritenere che l'impronta sia stata lasciata prima dell'arrivo dei soccorritori, che avrebbero potuto alterarla con l'acqua usata per spegnere le fiamme. E, quindi, subito dopo la mattanza. In attesa del bivio, rimane l'intercettazione del 7 gennaio 2008, tre giorni prima della clamorosa confessione, quando Rosa, mancina come uno degli aggressori, confidò a Olindo: «Ho paura come quella sera che siamo andati a Como». "Quella sera" era la sera della strage, era la cenetta dell'hamburger, patatine e carneficina. Perché Rosa aveva così paura, se quella sera era uscita serena con il marito alle 20 per andare a guardare le vetrine senza sapere - stando almeno alla sua ritrattazione - quanto accadeva ai vicini? O forse bisogna ripetere le parole di Olindo per arrivare alla cruda verità? Già, quando Olindo in modo terrificante sibilò: «E' stato come ammazzare un coniglio, se l'è meritata».  

Strage di Erba, questa è la replica all'articolo di Gianluigi Nuzzi che La Stampa di Torino non ha accettato di pubblicare. Le Iene News il 22 agosto 2020. Gianluigi Nuzzi ha scritto un articolo che metteva in fila tutte le risapute argomentazioni a sostegno della colpevolezza di Rosa Bazzi e Olindo Romano nella strage di Erba. Noi de Le Iene in due anni di inchiesta abbiamo raccolto delle evidenze che possono mettere in dubbio la colpevolezza dei coniugi: abbiamo proposto a La Stampa una replica punto per punto, ma hanno deciso di non pubblicarla. Alla luce delle molte evidenze, stranezze, omissioni, distorsioni, errori, ci sembra davvero incomprensibile come qualcuno continui a dare le spalle ai fatti. Senza arrivare a parlare di censura, esiste un dovere, oltre che un diritto di cronaca. Il 10 agosto, su La Stampa, Gianluigi Nuzzi ha scritto un articolo che metteva in fila tutte le risapute argomentazioni a sostegno della colpevolezza di Rosa Bazzi e Olindo Romano nella strage di Erba. Noi de Le Iene, ultimi arrivati sull’argomento, in due anni di inchiesta abbiamo raccolto delle evidenze che possono mettere in dubbio la colpevolezza dei coniugi, anche se validata da 26 giudici e 3 gradi di giudizio. Abbiamo proposto a La Stampa una replica punto per punto all’articolo di Nuzzi, entrando nel merito di ogni singola questione, a firma di Antonino Monteleone. La Stampa ha deciso di non pubblicarla, cosa legittima ma emblematica. Non è la prima volta che le ragioni della difesa dei coniugi non trovano spazio sui media nazionali. Questo atteggiamento poteva essere comprensibile a ridosso della strage, quando ancora di tanta parte delle indagini nulla si sapeva. Oggi, alla luce delle molte e molte evidenze, stranezze, omissioni, distorsioni, errori, ci sembra davvero incomprensibile come qualcuno continui a dare le spalle ai fatti. Senza arrivare a parlare di censura, esiste un dovere, oltre che un diritto di cronaca. Qui di seguito la lettera di Antonino Monteleone, in risposta all’articolo di Gianluigi Nuzzi, che La stampa ha deciso di non pubblicare.

Gentile Direttore, lo scorso 10 agosto il suo giornale ha ospitato un intervento di Gianluigi Nuzzi che spiegava come mai, a quasi quattordici anni dagli eventi e nove dall’ultimo grado di giudizio, in molti dubitino della colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. A "Le Iene" ce ne occupiamo ormai da due anni. Durante i 19 servizi e lo speciale di 180 minuti, abbiamo messo in crisi punto per punto “i baluardi della sentenza definitiva, prove scientifiche e testimoniali” a favore della colpevolezza dei due e delle quali Nuzzi si ostina a sostenere la solidità.

La testimonianza di Mario Frigerio, l’unico superstite alla strage. In aula Frigerio disse indicando Olindo: “non me la dimenticherò mai quella faccia”. Eppure, dopo la strage, al suo risveglio in ospedale, interrogato dai Carabinieri, puntava il dito contro un uomo “olivastro” (Olindo è certamente pallido), “più alto di lui di 5/6 cm” (Olindo è più basso di Frigerio), “non del posto”. A domanda se quella persona gli ricordasse un volto noto risponde: “no, se l’avessi visto l’avrei saputo riconoscere”. Non solo Frigerio in quei primi colloqui non pensa e non menziona Olindo Romano, ma addirittura, tramite il suo avvocato Manuel Gabrielli, inoltra in procura un fax in cui segnala che la casa di Azouz e Raffaella era “frequentata da extra-comunitari di etnia araba”, alludendo al fatto che la persona da lui vista potesse essere uno di loro. E allora perché Frigerio cambia ricordo? Nei servizi de "Le Iene", tre specialisti della memoria in ambito forense (Giuliana Mazzoni, Giuseppe Sartori, Piergiorgio Strata) concordano nel ritenere che il ricordo di Frigerio sia stato alterato da chi lo ha interrogato, in un modo tale da crearne uno falso.

Le confessioni di Rosa e Olindo. Secondo Nuzzi, le confessioni rese dai due sarebbero dettagliatissime e conterrebbero elementi noti solo agli assassini. Nuzzi omette di dire che TUTTE le informazioni che emergono nelle confessioni sono in realtà ricavabili dal testo del provvedimento di fermo e dalle foto della strage. Con una mossa ai limiti delle regole processuali, durante gli interrogatori i magistrati le mostrano ai due indagati, che solo dopo averle viste descrivono la scena del delitto. Gli interrogatori, a volte poi, sono condotti in modo da imboccare gli indagati: Rosa non è a conoscenza del taglio sopra la coscia di Valeria Cherubini ed è un PM a rivelarglielo quando le chiede se sia stata lei a farlo. Come a non bastare, le confessioni sono piene di contraddizioni e inesattezze, circa 240 secondo un minuzioso lavoro di verifica realizzato dagli avvocati Schembri e Bordeaux. Così tante che persino i Giudici d’Appello sono costretti a riconoscerle.

La macchia sul battitacco dell’auto. Le indagini dei Carabinieri e dei RIS di Parma non hanno trovato NESSUNA traccia dei due coniugi sulla scena della strage, né delle vittime a casa loro. La sola e unica connessione "biologica" tra i coniugi e le vittime è la macchia di sangue rinvenuta sul battitacco della loro Seat Arosa. A "Le Iene" abbiamo mostrato cosa pensa di quel rilievo Carlo Fadda, il Carabiniere che l’ha effettu to. È lui stesso ad avere dubbi sull’origine della traccia. Secondo le sue parole potrebbe benissimo essere una macchia da contaminazione, data dal continuo andirivieni di forze dell’ordine tra la scena del crimine e il cortile. La traccia inoltre non è visibile nella fotografia scattata da Fadda e allegata agli atti.

Lo scontrino del McDonald’s. La sera della strage i coniugi sono stati a Como nel noto fast-food, come ironizza Nuzzi: “la cenetta dell'hamburger, patatine e carneficina”. Della cena c’è certezza per l’esistenza dello scontrino. Nuzzi ne parla come di una prova messa agli atti “per dar corpo a un alibi barcollante”, nel tentativo di costruirsene uno posticcio. Ma nessuno che abbia visto lo scontrino (pag. 72, relazione del RIS di Parma) lo può sostenere: accartocciato fino a renderlo quasi illeggibile viene rinvenuto, non esibito, sbandierato, come fu fatto credere all’epoca, nel processo e dai media. La cena di Rosa e Olindo non era in grado di provare nulla, eppure all’opinione pubblica è stata spacciata come prova a carico.

Le intercettazioni mancanti e la società fiduciaria. Nella sua ricostruzione Nuzzi dimentica due questioni fondamentali: il pasticcio delle intercettazioni e l’assetto societario di chi le ha lavorate, dietro incarico della Procura di Como. Mancano all’appello tantissime intercettazioni (file audio), altre sono state trascritte in modo inesatto; tutti gli errori e le lacune riguardano momenti fondamentali delle indagini enon hanno aiutato Rosa Bazzi e Olindo Romano a difendersi nel processo. La cosa più inquietante è stato scoprire durante l’inchiesta che la società che le ha lavorate su mandato diretto della Procura, fa capo, in parte, a una fiduciaria con sede in Svizzera. Com’è possibile che un compito così cruciale possa essere stato affidato a una società schermata che non risponde ai criteri minimi e legali di trasparenza? C’è una legge che lo vieta, proprio a tutela del buon andamento dell’attività giudiziaria. Finora nessuno – anche dopo le nostre ripetute segnalazioni – ha dato una spiegazione a questa gravissima irregolarità.

L’analisi dei nuovi reperti. E non finisce qui: Nuzzi ricostruisce accuratamente l’incredibile vicenda dei reperti ritrovati sulla scena del crimine, mai analizzati e infine distrutti, nonostante l’ordinanza di due diverse Corti ne imponesse la conservazione, e nonostante l’ok dato dalla Cassazione a un esame a spese della difesa. La distruzione illegittima viene poi seguita dal sorprendente ritrovamento, a 12 anni dalla strage, di un nuovo scatolone «contenente cinque plichi di reperti, tra cui una tanica, otto coltelli, un affilacoltelli, un mazzo di chiavi, un abbonamento e un cellulare». Lo scatolone risulta «aperto senza che vi fosse allegato il verbale di apertura». E qualche mese dopo, cosa ancora più incredibile e vera, ne viene ritrovato un altro, anch’esso scampato all’illegittima distruzione, contenente indumenti del piccolo Youssef e del super testimone Mario Frigerio. Questa montagna di irregolarità è definita da Nuzzi “uno sgambetto della giustizia”, a noi invece sembra solo l’ultimo episodio di una catena di eventi catastrofici, dei quali anche il Ministro della Giustizia Bonafede cerca di venire a capo da ormai tre anni. Siccome eravamo gli ultimi arrivati su questa vicenda, prima di mandare in onda i nostri servizi a ‘Le Iene’, insieme all’autore Marco Occhipinti ho cercato un confronto telefonico proprio con Gianluigi Nuzzi. Gli chiedemmo se fosse disponibile a un’intervista per spiegare le ragioni di chi crede Rosa e Olindo colpevoli, non accettò. A differenza delle solide certezze di cui oggi sembra circondato, ci fece intendere che nella sua trasmissione si coltivava il dubbio. E che quindi gli risultava impossibile schierarsi. Non c’è più tempo per lasciare la vicenda in balìa delle tifoserie, del derby tra innocentisti e colpevolisti. Messi da parte gli schieramenti, esiste solo chi conosce gli atti e lo svolgimento del processo e chi si ostina a trascurarli lasciando spazio alle leggende metropolitane sulla "Strage di Erba". È corretto avere riguardo, come fa notare Nuzzi, per la “devastazione” che la strage infligge alle vittime superstiti. Sono convinto che oltre al dolore di chi ha perso i propri cari, prima o poi tutti dovremo riconoscere il dolore di altre due vittime, condannate ingiustamente al carcere a vita. Antonino Monteleone

Da "Il Giornale" il 23 giugno 2020. L'eco del caso Luca Palamara e lo squallore dietro il carrierismo di alcuni magistrati rimbomba anche nei corridoi di un tribunale in Italia. Dove spariscono prove, armi e gioielli. Nel nulla. Chi è stato? Non si sa. Chi non lo ha impedito? In un Tribunale? Non è dato saperlo. Il pubblico ministero si è arreso: non ci sono colpevoli perché la Procura non riesce a stabilire con certezza chi dei due funzionari presso l'Ufficio corpi di reato all'epoca dei fatti si sia reso responsabile di fatti di gravità inaudita, certificati dagli ispettori mandati dal ministero della Giustizia e messi nero su bianco dalla Procura del capoluogo lariano, dopo che sono stati distrutti alcuni reperti decisivi su cui era atteso un esame del Dna, nonostante quattro provvedimenti di sospensione della Corte d'Assise di Como e un'ordinanza di sospensione della Corte d'Appello di Brescia con cui se ne disponeva la conservazione. Sono le prove che avrebbero potuto scagionare Olindo Romano e Rosa Bazzi dall'accusa di essere gli esecutori della Strage di Erba, per cui sono stati condannati all'ergastolo in un processo con troppe ombre e pochissime luci. Come i lettori ricorderanno, l'autore della distruzione delle prove fu persino inseguito dalle Iene. Se l'è cavata con un buffetto. In Italia la giustizia a volte funziona così. La funzionaria che l'ha sostituito, a fine gennaio 2019, qualche tempo dopo disse di aver trovato altri cinque scatoloni di materiale sulla strage sfuggiti al rogo. Peccato che lo stesso plico fosse stato ritrovato da un altro dirigente, a settembre del 2018, e lo documenterebbero le 36 fotografie scattate sui sigilli, non violati. Ma di quel ritrovamento non c'è alcuna relazione. Né di questi scatoloni furono informati gli 007 mandati dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, arrivati in riva al lago dopo il clamore della trasmissione di Italia 1. Eppure, come vedremo nella puntata delle Iene in onda stasera, quell'incidente è solo la punta dell'iceberg di uno scandalo clamoroso. Nella relazione fatta sulle condizioni dell'ufficio - e che il Giornale ha potuto solo consultare - si raccontano particolari agghiaccianti, confermati anche dai verbali degli ispettori, arrivati nel marzo del 2019: reperti privi di riferimenti ai processi; una pistola appoggiata su una scrivania e poi sparita. Armi, fucili e proiettili senza riferimenti. Non si trova neppure una parte della droga sequestrata. Un suk. Tanto che, per stessa richiesta degli 007 di via Arenula, la stessa ispezione è stata sospesa in attesa della bonifica dei registri. Ma non è la prima volta che gli ispettori fanno capolino nel tribunale comasco. Anche nel 2017 da un controllo ordinario si erano accorti che mancava perfino un elenco generale dei reperti, e che c'erano lì armi addirittura dal 1974. Perché la consuetudine evidentemente non era quella di distruggere le prove. E qui il mistero delle manine impunite che al Tribunale di Como fanno apparire e sparire prove, droga, gioielli e armi, si intreccia con i misteri della Strage di Erba e di alcune prove contenenti Dna degli assassini che secondo i legali avrebbero potuto scagionare la coppia condannata all'ergastolo. Già, perché dopo la visita degli 007 di Bonafede l'allora presidente del tribunale chiese ai funzionari di distruggere «esclusivamente» i reperti dei procedimenti dell'ex Pretura e di catalogare tutti gli altri. Invece a finire distrutti, come sappiamo, sono state prove che due tribunali avevano chiesto di preservare perché la difesa ne aveva chiesto un'analisi. Coincidenze? Difficile pensarlo. «La richiesta di archiviazione è affrettata, specie se si considera la mancanza di completi atti di indagine volti a definire i contorni di una vicenda dalle gravi implicazioni - sottolinea con amarezza il legale della coppia Fabio Schembri, che si è opposto al provvedimento di archiviazione - Non possiamo dimenticarci che in carcere ci sono due persone che si proclamano innocenti e che da cinque anni aspettano di poter analizzare dei reperti che invece sono andati distrutti».

Strage di Erba: nuove prove che si credevano distrutte e mai analizzate? Le Iene News il 23 giugno 2020. Torniamo a parlare della strage di Erba con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Con l’incredibile ritrovamento di uno scatolone che si credeva distrutto e che forse potrebbe scagionare Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a occuparsi della strage di Erba, una vicenda che più analizziamo e più sembrerebbe avere i requisiti di un errore giudiziario che ha portato all’ergastolo due persone, Olindo Romano e Rosa Bazzi, che con il massacro del dicembre 2006 potrebbero non avere niente a che fare. Quello che vi raccontiamo ha dell’incredibile: a distanza di un anno si scopre che presso l’ufficio corpi di reato del Tribunale di Como sarebbe riaffiorato un nuovo scatolone. Uno scatolone contenente alcuni abiti dell’unico sopravvissuto alla strage, Mario Frigerio, e del piccolo Youssef Marzouk, travolto dalla furia omicida quella sera a due anni appena. Reperti mai analizzati e che potrebbero essere fondamentali per rintracciare il dna di Rosa e Olindo mai ritrovato sulla scena del crimine oppure quello di estranei, ipotesi che farebbe pensare a dei killer sconosciuti e che farebbe riaprire clamorosamente il caso. Antonino Monteleone va a parlare con Francesco Tucci, l’ex responsabile proprio di quell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Como, dove i reperti vengono distrutti nonostante ordini contrari dei tribunali e che poi ricompaiono misteriosamente. Gli chiediamo spiegazioni del mistero di questi scatoloni ufficialmente distrutti e poi riapparsi nell’ufficio corpi di reato dove negli stessi anni sarebbero spariti anche armi, droga e oggetti di valore. E soprattutto perché lui e il cancelliere, che materialmente distrusse i reperti nonostante un ordine contrario, raccontino storie opposte e contradditorie.

Strage di Erba: nuovo colpo di scena. Le Iene News il 23 giugno 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sui troppi misteri ancora irrisolti della Strage di Erba dove nel dicembre 2006 furono massacrate 4 persone tra cui un bimbo di appena due anni. Ora, tra le tante cose che non tornano nelle indagini, un nuovo colpo di scena: dall’ufficio corpi di reato del Tribunale di Como salta fuori un nuovo scatolone con gli abiti dell’unico superstite Mario Frigerio e del piccolo Youssef Marzouk. Ma non erano stati tutti distrutti due anni fa? E se su di essi si trovasse ancora del dna che non appartiene ai due condannati all’ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano? E perché il Ministro Bonafede non risponde sugli incarichi dati dalla Procura nel campo delle intercettazioni a una società che non sappiamo fino in fondo di chi è perché si scherma in parte dietro una fiduciaria svizzera? Da oltre due anni con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci occupiamo della strage di Erba, il quadruplice efferato omicidio avvenuto a Erba l’11 dicembre 2006. Più andiamo avanti ad analizzare questa vicenda, più abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un gravissimo errore giudiziario che ha portato in carcere all’ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano, che con la morte di quelle 4 persone, tra cui un bimbo di appena 2 anni, potrebbero non c’entrare assolutamente nulla. Oggi vi raccontiamo ancora un’altra clamorosa novità, che sembrerebbe aggiungere  ulteriori dubbi a tutti quelli di cui vi abbiamo puntualmente raccontato, a partire dal nostro Speciale “Rosa e Olindo: due innocenti all'ergastolo?”, che potete rivedere cliccando qui (gli altri servizi e aggiornamenti li trovate in fondo all'articolo). L’avvocato Schembri, legale dei coniugi Romano, racconta al nostro Antonino Monteleone: “È stato rinvenuto un ulteriore scatolone che risultava almeno da verbale essere andato distrutto. Sembrerebbero esserci degli indumenti di Frigerio, piuttosto che del piccolo Youssef”. Ecco la clamorosa novità: un anno fa nell’ufficio corpi di reato del tribunale di Como è stato ritrovato uno scatolone contenente alcuni reperti rinvenuti sulla scena del crimine, mai analizzati prima d’ora e che lo stesso ufficio sosteneva fossero stati distrutti due anni fa. Un ritrovamento davvero incredibile e importante, se fosse confermato che dentro la scatola riapparsa ci sarebbero, come ci ha detto l’avvocato Schembri, gli indumenti del piccolo Youssef, che fu massacrato insieme alla mamma Raffaella Castagna e alla nonna Paola Galli. Sempre nella stessa scatola, a quanto pare, sarebbero stati rinvenuti anche i vestiti di Mario Frigerio, il supertestimone, unico sopravvissuto al massacro, trovato ferito alla gola sul pianerottolo di casa Castagna, mentre al piano di sopra moriva sua moglie, Valeria Cherubini. Proprio per parlare di questo importante ritrovamento e di altre anomalie saltate fuori negli ultimi anni siamo stati dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il ministro, da quando ci occupiamo di questa storia, ha dovuto mandare i suoi ispettori per tre volte a Como, per capire cosa stesse succedendo in quegli uffici. Un “caos” di cui ci parla anche il giornalista investigativo Edoardo Montolli: "Quegli indumenti risultavano già distrutti e questa è una cosa che veramente mi stupisce, e mi stupisce tutto quello che succede all’interno dell’ufficio corpi di reato del tribunale di Como”. Ma facciamo un brevissimo passo indietro, per ricostruire i punti chiave di questa tragedia che presenta ancora tantissimi punti oscuri. Per quasi tutta Italia e per i 26 giudici che si sono pronunciati in tre gradi di giudizio i responsabili di quella carneficina sono i vicini di casa nella corte di via Diaz, Rosa Bazzi e Olindo Romano. Sono loro, la donna delle pulizie e il netturbino di Erba, a essere condannati all’ergastolo per quella strage. Ma Azouz Marzouk, il tunisino con precedenti penali padre e marito di due delle vittime, non è affatto convinto delle conclusioni a cui è giunta la giustizia italiana. E, tornato con la nostra Iena nella Corte di Via Diaz dopo tanti anni, ci aveva raccontato: "Qua ho perso mia moglie, ho perso mio figlio, ho perso mia suocera, ho perso una vicina, ho perso delle persone che sono state ammazzate”. Azouz è talmente convinto che  Olindo e Rosa si sarebbero auto accusati di delitti mai commessi, che l’ha messo nero su bianco in un esposto, ma questo suo esposto ha fatto sì che, nei suoi confronti, partisse un processo. “Tu adesso sarai processato per aver calunniato Rosa e Olindo”, gli aveva ricordato Antonino Monteleone. “Secondo me sarà un bene perché dovrò portare elementi che dimostrano che non ho detto una falsità, quindi io se sarò assolto per gli elementi che depositerò serviranno poi per riaprire il processo di Erba”, aveva risposto Azouz Marzouk. Azouz è così convinto dell’innocenza di Rosa Olindo da rischiare una condanna a 6 anni di reclusione, convinto anche per via di tutte le anomalie nelle indagini di cui ci siamo occupati negli ultimi due anni. A partire dal testimone chiave Mario Frigerio che ha cambiato ricordo su chi fosse il proprio aggressore dopo un lungo colloquio con i carabinieri in ospedale. Ci sono poi le confessioni rilasciate dagli arrestati che fino a quel momento si proclamavano innocenti, confessioni rilasciate con davanti le foto delle strage e nonostante ciò piene zeppe di errori e imprecisioni. Olindo Romano, intervistato in esclusiva in carcere da Antonino Monteleone, ci aveva detto: "Praticamente ci hanno detto che eravamo messi male, che in poche parole ci hanno prospettato come una via d’uscita..”. “Confessare sarebbe stato il minore dei mali…”, interviene Monteleone. “Sì, una cosa così", continua Olindo Romano. "Come dire, ci aveva prospettato se io confesso 4-5 anni son fuori, tua moglie va a casa… quelli che ti dicono 'se non confessi non vedi più tua moglie'... anche quello ha influito sul su quel fatto lì eh... se volevo vedere mia moglie, in cambio dovevo dirgli qualche cosa... praticamente han fatto leva sui nostri sentimenti, han fatto leva. E lì come dire, è saltata fuori tutta la storia…””. Ci sono poi anche le decine di giorni di intercettazioni ambientali sparite nel nulla e il Ris di Parma che non trova tracce di Rosa e Olindo sulla scena del delitto. E l’unica traccia di sangue che legherebbe Olindo alla scena del crimine, rinvenuta sul battitacco della sua auto, che non è visibile in foto, sarebbe potuta essere portata lì per contaminazione da chi ha perquisito l’auto dopo essere stato nella casa della strage, che era piena di sangue. Una contaminazione possibile anche per la stessa persona che quelle foto le ha scattate. E infine, altro enorme mistero in tutta questa vicenda piena zeppa di misteri e di contraddizioni, le decine di reperti mai analizzati che vengono distrutti proprio la mattina in cui la Cassazione, dopo 5 anni di rimbalzi di competenze, aveva deciso che finalmente la difesa di Rosa e Olindo avrebbe potuto analizzarli a proprie spese. L’avvocato Schembri aggiunge: "Che un cancelliere si possa svegliare, io dico, senza altri alle spalle, una mattina prendere una macchina, andare all’inceneritore e distruggere tutti i reperti della strage di Erba guarda caso la stessa giornata nella quale la Corte di Cassazione si deve pronunciare ha veramente dell’incredibile, del bizzarro, ed è estremamente preoccupante”. Dopo la nostra visita proprio in quell’ufficio  e dopo quella degli ispettori del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a febbraio e a maggio del 2019, saltano fuori due scatole piene di reperti che si pensava fossero andati distrutti, con dentro, tra le altre cose, un mazzo di chiavi e un cellulare. Reperti che gli inquirenti, prima delle ripetute richieste di analisi della difesa di Rosa e Olindo negli ultimi sei anni, non avevano mai preso in considerazione. Edoardo Montolli racconta una circostanza che ha dell’incredibile: sulla scena del crimine è stato trovato un accendino che potrebbe essere l’accendino con cui è stato appiccato l’incendio. Un accendino che però, incredibilmente, “non è stato analizzato”. Oggi, colpo di scena, scopriamo che un anno fa vi sarebbe stato un terzo inaspettato ritrovamento. “È riaffiorato", spiega l’avvocato Schembri, "un nuovo scatolone. Anche questo scatolone risultava distrutto dal verbale di distruzione, ritrovato sempre presso l’ufficio corpi di reato. Questo scatolone per esempio conteneva degli abiti del signor Frigerio e qualche indumento del piccolo Youssef”.  Parliamo di reperti, inaspettatamente ritrovati, che potrebbe essere fondamentale analizzare, perché sia il piccolo Youssef, che il testimone Frigerio, sono necessariamente entrati in contatto con gli aggressori, e quest’ultimo addirittura con un drammatico corpo a corpo da cui uscì in fin di vita. Indumenti sui quali, se i due fossero davvero colpevoli, potrebbero trovarsi i dna di  Rosa e Olindo, mai ritrovati  sulla scena del crimine. O magari quello di estranei, che potrebbe far pensare a dei killer sconosciuti, e in questa eventualità riaprire il caso. Ma resta comunque il mistero: già è strano che si brucino dei reperti nonostante un ordine chiaro di non farlo, ma è ancora più strano che per tre volte saltino fuori scatoloni con reperti che si credevano distrutti. In questi anni, presso l’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Como sarebbe successo anche altro e ad accorgersi che qualcosa non andava è stata la funzionaria Paola Valsecchi, la nuova responsabile dell’ufficio corpi di reato chiamata a sostituire il dottor Fusaro, il cancelliere responsabile della distruzione dei reperti della strage di Erba, che la difesa di Rosa e Olindo aveva chiesto di analizzare. Spiega ancora il giornalista Edoardo Montolli: "La dottoressa Paola Valsecchi fa una prima ricognizione all’interno dell’ufficio corpi di reato e fa presente che mancavano dei reperti inerenti droga. Addirittura dice che su una scrivania aveva trovato una Smith & Wesson che poi non troverà più e quando chiederà spiegazioni al dottor Fusaro, il dottor Fusaro dirà non lo so. La stessa cosa accade con tre orologi, che non saranno più ritrovati e in quel contempo trova i famosi scatoloni inerenti i reperti sulla strage di Erba con il plico in cui c’era un cellulare con i sigilli violati. Nel marzo successivo arrivano gli ispettori da Roma, questa volta per indagare sulla vicenda della distruzione dei reperti della strage di Erba e quest’ispezione trova una situazione devastante: ci sono involucri con reperti di valori aperti, reperti di valore mischiati ad altri, mancano droga, mancano 19 armi, centinaia di proiettili...”. A quanto ci racconta Montolli dunque la nuova responsabile dell’ufficio corpi di reato e gli ispettori mandati dal ministro Bonafede scoprono la sparizione dentro al Tribunale di Como di armi, proiettili, droga e oggetti di valore. Rispetto al caso della distruzione dei reperti che la Cassazione ha  autorizzato ad analizzare, vengono fatte alcune analisi. Oltre al cancelliere Fusaro e alla dottoressa Valsecchi, viene preso in considerazione anche l’operato del dottor Tucci, il dirigente responsabile dell’ufficio, capo del cancelliere Fusaro, prima che arrivasse la dottoressa Valsecchi. L’avocato Schembri spiega: "Fusaro dice di non aver saputo del provvedimento che sospendeva la distruzione, mentre Tucci dice l’esatto contrario ossia di aver comunicato al Fusaro che esisteva un provvedimento di sospensione e quindi i reperti non dovevano essere distrutti”. Il responsabile dell’ufficio Tucci dichiara che aveva segnalato al cancelliere Fusaro che l'ordine di distruggere i reperti era stato sospeso. Spiega ancora Schembri: ”In realtà c’è di più perché dalle indagini emerge che dirà Fusaro che Tucci gli avrebbe indicato di non inserire queste circostanza, cioè che c’era un provvedimento di sospensione, nella relazione”. E così con Antonino Monteleone andiamo da Tucci, responsabile dell’ufficio corpi di reato tribunale di Como. “Ha dichiarato Fusaro che lei avrebbe detto di non riportare l’ordine di sospendere la distruzione”, gli dice Antonino Monteleone. “No, lo sta dicendo lei”, ribatte l’uomo. “No, lo dice Fusaro in un verbale di sommarie informazioni”, spiega ancora la Iena. “No, ma ognuno può dire quello che gli pare”. L’avvocato Schembri aggiunge: "La Procura di Como ha chiesto l’archiviazione perché siccome ci sono delle contraddizioni tra le versioni fornite dall’uno e la versione fornita dall’altro, allora non si riuscirebbe a capire secondo la Procura chi ha ragione o chi ha torto insomma”. Insomma i due pubblici ufficiali indagati per la distruzione dei reperti raccontano due versioni che cozzano l’una con l’altra e i pm di Como non riescono a capire di chi sia la responsabilità per l’illecita distruzione di questi reperti. Per questi motivi per Tucci e Fusaro è stata chiesta l’archiviazione delle accuse. Raccontiamo ad Azouz Marzouk, durante una chiamata Skype, proprio delle novità relative al nuovo ritrovamento dello scatolone. “C’è qualcosa che non va…", dice. "Avevano detto che tutto è stato bruciato, che non ci sono più reperti né niente, prima che la Cassazione si pronunciava due anni fa e quindi c’è qualcuno che sta cercando di impedire a noi e alla giustizia di trovare i veri colpevoli e di fare chiarezza su questa strage… sono certo che c’è qualcosa che non va veramente, e che non sono andate le cose come è stato scritto nella sentenza”. La Iena gli chiede: "Tu però vuoi mettere le mani su questi vestiti di Youssef, li vuoi rivedere, ritoccare?”. “Sicuramente”. “Secondo te c’è qualcuno che sa come è andata veramente e che potrebbe parlare e che ancora non l’ha fatto?”. Azouz non ha alcun dubbio: “Secondo me sì, esiste qualcuno, e spero che in questi ultimi mesi la sua coscienza diciamo sia svegliata e prima o poi se verrà ammesso come teste dirà ciò di cui abbiamo bisogno”. Intanto, nonostante l’ottimismo di Azouz, al processo che lo vede imputato per calunnia nei confronti di Rosa e Olindo non è stato ammesso nessuno dei testimoni da lui indicati e sono state ammesse solo prove documentali, cioè le sentenze, le deposizioni e le testimonianze raccolte durante le indagini e i tre gradi di giudizio. La prossima udienza, intanto, è fissata per il 25 novembre. La detenuta Rosa Bazzi, un anno fa, dal carcere di Bollate, commentava così la vicenda dei reperti distrutti e mai analizzati: “Non hanno svolto bene il lavoro che hanno fatto… Se lo facevano bene, cioè come mai spariscono le cose adesso che potevano andare a controllarli allora… Perché devono sparire reperti che non hai niente da tenere nascosto, lasciali, così se c’è la mia impronta avete da dire bon, siete stati voi basta, chiudiamo il discorso, chiudiamo tutto, basta… Voglio che la verità viene fuori. però… ci mettono sempre i bastoni tra le ruote. Faccio un po’ fatica a credere nella giustizia. Cioè i reperti sono andati a bruciarli. Sono 12 anni che sto facendo questa condanna… Come mai sono venuti fuori dopo 12 anni gli scatoloni con dentro dei coltelli, con dentro dei telefoni, con dentro delle prove?”. Oltre ai reperti ritrovati sulla scena del crimine e mai analizzati c’è ancora un’altra questione cruciale rimasta irrisolta: quella delle tante intercettazioni telefoniche ed ambientali che non si trovano più e che la difesa non ha mai potuto ascoltare. Parliamo di quelle fatte in casa di Olindo e Rosa i primi 4 giorni dopo la strage, di quelle in ospedale nella stanza del super testimone Mario Frigerio e intere giornate di registrazioni telefoniche nei confronti del fratello di Raffaella Pietro Castagna, che ha cambiato più volte versione su cosa facesse esattamente la sera della strage. Che tutte queste intercettazioni siano sparite nel nulla è una cosa grave e a oggi né la Procura di Como né il Ministero hanno saputo dare una spiegazione credibile sul perché manchino tutte queste registrazioni. Ora il problema è che una delle società incaricate dalla Procura di Como di occuparsi delle intercettazioni apparteneva anche ad una società fiduciaria svizzera. Perché, ci chiediamo, la magistratura di Como ha conferito un incarico così delicato a una società che non puoi sapere fino in fondo a chi appartenga? Pensate per assurdo: e se dietro ci fosse stato qualcuno che ha degli interessi connessi alla strage di Erba? Sicuramente non è così, ma perché non si può sapere chi c’era dietro quella società fino in fondo? Chi si nasconde dietro la fiduciaria? Una persona che sa chi c’è dietro questa società è il suo fiduciario, il commercialista Renato Bullani, dal quale eravamo andati a chiedere spiegazioni, ma che si era rifiutato di dirci chi ci fosse dietro la società: “Questo è salvaguardato dal diritto svizzero, non le rispondo”. Che non si sappia chi siano le persone dietro Bullani è cosa inopportuna e a quanto ci risulta anche vietata dalla legge, se a darle un incarico è una pubblica amministrazione come la Procura della Repubblica di Como. Noi de Le Iene lo abbiamo chiesto per iscritto  al Ministro della Giustizia Bonafede ormai 4 mesi fa e non avendo ricevuta risposta siamo andati a chiedergli spiegazioni di persona. “Ministro, le abbiamo scritto l’8 febbraio per sapere se la Procura di Como poteva affidare appalti a una società che ha una fiduciaria tra i suoi soci ancora non c’avete risposto...”. “Non mi ricordavo di questa richiesta però posso dire quando vado al ministero approfondisco...”, replica Bonafede. “Abbiamo letto la relazione dei suoi ispettori sull’ufficio corpi di reato di Como, un disastro totale c’è, in quel tribunale però nessuno colpevole...”. Bonafede risponde così: ”Guardi non è che mi metto a parlare di queste cose così al volo per strada eh, le dico, lei lo sa quando c’è da valutare e da verificare qualcosa lo facciamo sempre”. Il ministro ci dice di prendere accordi con il suo ufficio stampa ma ad oggi non abbiamo ricevuto ancora una risposta. E visto che il ministro Bonafede ancora oggi non ci ha dato una risposta chiara, ci siamo rivolti all’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, che il giorno dopo ci ha subito risposto confermando tutti i nostri dubbi. E ha scritto: “Una Procura non può dare alcun incarico a una società che si scherma dietro una fiduciaria a meno che Il Ministero competente non abbia appositamente autorizzato la società stessa che deve comunque, anche in quel caso, comunicare l’identità dei soci nascosti”. E allora non ci resta che ripetere la domanda già fatta 4 mesi fa: "Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è possibile che la procura di Como durante le indagini sulla strage di Erba abbia dato un incarico così delicato violando la legge? Si può sapere chi ci stava dietro questa società che si è occupata delle intercettazioni, su cui tanti dubbi sono stati sollevati e che ancora non trovano risposta?”. Attendiamo la risposta del Ministro della Giustizia.

Anticipazione da “Oggi” il 28 maggio 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, rivela una lettera che Olindo Romano ha scritto al conduttore della trasmissione «Iceberg» su Telelombardia Marco Oliva. «Sicuramente rilascerò dichiarazioni e chissà che possa emergere la verità di quanto accaduto durante tutta la fase che va dal nostro arresto fino alla condanna, ovviamente con la speranza che possa emergere la nostra innocenza», scrive l’uomo, condannato all’ergastolo insieme con la moglie per la strage di Erba. E il suo legale, Fabio Schembri, in merito al processo per calunnia di cui deve rispondere Azouz Marzouk, spiega: «Olindo spiegherà una volta per tutte perché ha confessato il falso. A mio parere questo processo potrebbe essere un antipasto della nostra revisione». E sulla sua condizione personale, in epoca di coronavirus, Olindo rivela: «Io personalmente sono in cella da solo e quindi  il pericolo è minore. Anche in cucina, che è grande, rispettiamo le distanze… La mia vita non è tanto cambiata con il coronavirus, continuo a lavorare e si può andare all’aria aperta... L’aspetto negativo è che a tutti i detenuti manca il contatto con i propri cari. Amo ancora Rosa? Continuo a volerle bene come sempre».

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2020. Sono passati quasi quattordici anni da quel 16 dicembre del 2006 in cui nella corte di una casa di via Diaz ad Erba si consumò una dei più efferati delitti di questo nuovo millennio. Quattro furono i morti la giovane mamma Raffaella Castagna, la sua mamma Paola e il suo piccolo Youssef, un bambino di soli due anni figlio di Raffaella e di Azouz Marzouk. Altra vittima fu Valeria Cherubini, vicina di casa e moglie dell' unico superstite Mario Frigerio. Di quel delitto, così tremendo ed efferato, furono accusati e ritenuti colpevoli i coniugi Rosa ed Olindo Romano: movente una litigiosità aspra tra condomini. La sentenza è passata in giudicato ed ha condannato all' ergastolo in via definitiva Rosa e Olindo ma un nuovo colpo di scena ha movimentato in questi ultimi tempi la vicenda giudiziaria. Azouz ha dichiarato che Rosa e Olindo sono innocenti, così facendo "calunniandoli" ed è stato per questo rinviato a giudizio. Per non andare in galera per calunnia Azouz si dovrà difendere portando le prove della innocenza dei due coniugi. Qualora venissero accolte queste nuove prove capaci di assolvere il giovane tunisino per logica significherebbe Rosa e Olindo non sono più colpevoli?

Azouz, sono passati quasi 14 anni dalla strage che le portò via sua moglie Raffaella e suo figlio. Che significato ha per lei combattere per arrivare alla verità?

«Devo dire che non ho mai smesso di cercare la verità. Purtroppo per anni, anche a causa dello shock che ho subìto da quanto accaduto, non ho avuto modo di leggere con attenzione le carte processuali. Già al tempo della Cassazione mi ero fatto un' idea precisa, tanto è che ho rinunciato alla costituzione di parte civile, con il mio nuovo avvocato Solange Marchignoli ho cominciato questa battaglia di verità».

Esiste però una sentenza passata in giudicato e definitiva...

«Mi rendo conto perfettamente che c' è una sentenza passata in giudicato e dunque la storia sarebbe chiusa ma ho realmente fiducia che, dopo anni, qualcosa possa cambiare. La giustizia italiana prevede la revisione e penso proprio che un giorno potrà esserci una verità diversa da quella a cui è giunto il processo.

Ricordo ancora il giudizio di primo e secondo grado quando la difesa di Rosa e Olindo combatteva per l' innocenza dei due accusati e sembrava impossibile la loro assoluzione. All' epoca non sapevo se quella difesa avesse pienamente ragione e forse, dal punto di vista psicologico, mi faceva "comodo" quella realtà. Ma il mio giudizio era altalenante. Dopo aver studiato veramente gli atti processuali posso dire che sono certo che, prima o poi, potrò regalare alle vittime una verità vera».

Che anni sono stati questi per lei?

«Sono stati anni difficili, anzi difficilissimi. Non potete immaginare il dolore struggente che toglie il fiato e, proprio quel dolore, ti fa accettare ogni ricostruzione, anche quella su cui avevi dubbi. Ma quei dubbi devono essere cancellati dal cervello perché chi ha perso tutto ha bisogno di un' ancora di salvezza e quell' ancora è la sentenza di condanna, qualunque essa sia. Ma quando sono arrivato in Cassazione non ho voluto mettere la "mia firma" su quella sentenza. Ho ritenuto giusto fare un gesto, anche il più ingenuo, per dire a me stesso che non potevo assecondare un risultato a cui non riuscivo a credere fino in fondo. Da allora ho trovato una nuova forza».

Cosa è accaduto esattamente?

«Il mio avvocato mi ha spiegato che, come vittima, avrei potuto sollecitare la Procura Generale di Milano, l' unico organo deputato a decidere se intentare una revisione alla Corte di Appello di Brescia. Allora mi sono deciso di ricostruire tutti i dubbi e stilare un atto che non richiedeva direttamente una revisione ma solamente chiedeva di raccogliere diciassette prove, tutte legate ai vari dubbi che ho illustrato nell' atto. Il magistrato che ha ricevuto la mia richiesta ha ritenuto che io avessi calunniato Rosa e Olindo, sostenendo che costoro non erano gli assassini».

Quali sono gli elementi che secondo lei non tornano nei processi che hanno condannato Rosa e Olindo?

«Gli elementi maggiormente dubbiosi sono le tre grandi prove e cioè le confessioni, il DNA e il riconoscimento della vittima sopravvissuta, cioè Mario Frigerio. Sulle confessioni non aggiungo altro perché sarà il tema centrale del mio processo per calunnia. Sul DNA basta dire che quella macchiolina è l' unica trovata nonostante ci sia stata una vera e propria mattanza e sembra inverosimile che Olindo non abbia lasciato nessuna traccia se non quella. C' è poi da dire che il processo ha evidenziato forti dubbi sulla possibilità che sia il frutto di una contaminazione involontaria. Quanto al riconoscimento del povero Frigerio voglio ricordare come costui per giorni abbia raccontato di un soggetto sconosciuto il cui identikit era radicalmente diverso da quello di Olindo. Solamente a seguito dell' incontro coi carabinieri la vittima farà il nome di Olindo e dunque mi sono posto il dubbio se potesse essere stato suggestionato. La sua condizione era precaria e gli psicologi che lo hanno visitato mostrano come fosse in uno stato di totale confusione. Voglio sottolineare che questa cosa non la dico io ma è certificata dai video che tutti hanno potuto vedere in televisione. Credo che queste tre prove, se certe, siano una pietra tombale su ogni processo ma, se lasciano dubbi, non sia possibile dichiarare finita la vicenda giudiziaria».

Che rapporto c' era tra la sua famiglia e Rosa e Olindo?

«Erano normali rapporti di vicinato in cui si evidenziavano le differenze di vita: certamente io e Raffaella amavamo avere amici e spesso facevamo delle feste. Rosa e Olindo vivevano soli, senza vedere nessuno, praticamente reclusi nella loro vita. È chiaro che questo ha portato a dei litigi e delle incomprensioni. Qualche volta anche forti tensioni. Ma nego tutte le costruzioni che sono state fatte a posteriori su questo. È stato cercato il movente della strage nelle nostre litigate ma credo che questa sia stata realmente una fantasia. Per non parlare dell' ipotesi che io avrei abusato di Rosa. È pura fantasia e neppure la magistratura ci ha mai creduto».

E tra sua moglie ed i fratelli?

«La mia storia con la famiglia Castagna è stata spesso difficile, è inutile negarlo. La famiglia faceva fatica ad accettarmi e questo posso capirlo ma debbo anche dire che ognuno di loro è stato diverso nei miei confronti. La mamma Paola è stata sempre vicina alla figlia Raffaella e dunque alla nostra coppia. Con Carlo Castagna le cose sono andate male in alcuni periodi e bene in altri. Nei suoi confronti ho però avuto sempre grande rispetto perché è stata una persona buona. L' ho capito con certezza dopo la strage, quando è venuto in Tunisia ai funerali di mia moglie, sua figlia e del mio bimbo Youssef, suo nipote. Certamente con Beppe e Pietro è sempre stato più difficile. Ciò che mi ha colpito però non è stata l' antipatia prima della strage ma il fatto di avermi dato la sensazione di essere una vittima di "serie b", mentre loro erano le vere vittime. Credo che questo non sia giusto. Loro hanno perso la mamma e la sorella e io ho perso la moglie e il mio bimbo. Non posso immaginare che ritenere che i colpevoli non siano Rosa e Olindo possa diventare una sorta di battaglia contro di me. Abbiamo idee diverse ma credo di poterle esprimere».

Quali sono le cose che non tornano?

«Le cose che non tornano nel processo le ho già illustrate: le confessioni, il DNA e il riconoscimento di Frigerio. Ma forse non torna neppure il motivo per cui io debba essere processato quasi senza potermi difendere. Mi verrebbe da dire, delle due l' una: se devo essere processato voglio difendermi e se sono processato perché ho detto che Rosa e Olindo si sono falsamente autoaccusati devo poter provare perché ritengo che questa non sia una mia follia. Diversamente non potrei neppure essere processato. Ecco, oggi non mi torna questo paradosso».

Del suo passato, arrestato due volte per droga , si pente di qualche cosa?

«Mi pento di aver patteggiato. Ritengo che il processo avrebbe potuto dimostrare che non ho mai spacciato e probabilmente gli atti avrebbero potuto darmi ragione. Ma fa parte di quel momento incredibile in cui ero realmente confuso».

Si è mai chiesto "se ci fossi stato io in casa con mia moglie e mio figlio non sarebbe successo nulla "?

«Ci ho pensato molto e oggi devo dire che tutto quello che è successo è stato organizzato proprio perché ero assente».

La sua amicizia con Mora e Corona ed il suo passato pensa che potranno influire sulla corte?

«Su questa domanda mi sento di dare una sola risposta. In quel momento non avevo nessuno e loro mi hanno aiutato. Posso aver sbagliato ed esagerato nei comportamenti ma, oggi, coloro che mi accusano di quelle frequentazioni e che mi frequentavano allora, perché non sono venuti in mio soccorso? Di loro ho un buon ricordo e se sono sopravvissuto lo devo a loro».

Lei si è rifatto una famiglia in Tunisia: cosa dice sua moglie di questo suo impegno per scoprire la verità?

«Mia moglie Micaela è una spalla fondamentale: capisce perfettamente il mio bisogno di verità. Quanto alle mie figlie invece non voglio trasmettere loro tanto male coi racconti di quella tragedia ma, se ci sarà una nuova verità, potrò dire loro che hanno un fratellino di nome Youssef che è vicino a loro».

Lei crede che la giustizia possa darle ragione e il processo verrà riaperto?

«Ogni processo è un mistero. Ho fiducia nel giudice e nel tandem di legali che mi supporta. Ho anche fiducia nel pubblico ministero che, davanti alle prove richieste, possa rendersi conto di quale incredibile vicenda ho vissuto».

Strage di Erba: Azouz ritorna nella corte di via Diaz. Le Iene News il 6 marzo 2020.  “Sto malissimo, mi ritorna tutto in mente”. Azouz Marzouk torna, assieme a Antonino Monteleone, per la prima volta a distanza di 13 anni dalla strage di Erba, nella corte di via Diaz. Pronto ad affrontare un nuovo processo per calunnia per aver detto che Rosa e Olindo hanno confessato il falso: “Se sarò assolto, ci saranno elementi per riaprire il processo”. Azouz Marzouk torna per la prima volta nella corte di Via Diaz, a 13 anni dalla strage di Erba, dove hanno trovato la morte la moglie Raffaella Castagna, il figlio di due anni Youssef,  la nonna del piccolo, Paola Galli, e la vicina del piano di sopra, Valeria Cherubini. Lo fa assieme al nostro Antonino Monteleone, che con Marco Occhipinti torna a occuparsi di una strage dai molti misteri che sembrano ancora irrisolti, come vi abbiamo raccontato in numerosi servizi e nello Speciale che potete rivedere in fondo all’articolo. “Bruttissimo… non pensavo di… di stare così, ti dico la verità”, esordisce Azouz, mentre arriviamo in auto alla corte di Via Diaz. “Sto malissimo, mi è ritornato tutto”. “Riusciresti a entrare nella casa?”, gli chiede Antonino Monteleone. Nessuna esitazione: “No no, ma non lo farei mai… Non riuscirei a entrare ti dico la verità, se è solo dal di fuori mi sono sentito così figurati se devo entrare… ehhhh… non riuscirei…“. Azouz, finito in carcere prima e dopo la strage per reati di droga, 10 anni fa è stato espulso dall’Italia ed è tornato in Tunisia. Lì si è rifatto una vita con una nuova moglie italiana, con cui ha avuto tre figlie femmine. E adesso, a dieci anni dall’espulsione, ha deciso di tornare in Italia. Per la prima volta da quando è qui ha accettato di parlare e di tornare, assieme a Le Iene, nella corte di via Diaz. Una sfida emotiva molto forte per lui, che ha affrontato in virtù della sua unica certezza: “Rosa Bazzi e Olindo Romano sono in carcere, all’ergastolo, da innocenti”. Azouz è talmente convinto che i due siano innocenti, che a dieci anni di distanza della loro condanna ha chiesto di riaprire quel processo, ma la procura generale di Milano ha respinto la sua istanza di revisione. Una richiesta che ha avuto una conseguenza immediata: adesso Azouz è a processo perché accusato di calunnia. Dichiarando che Rosa e Olindo sarebbero innocenti, li avrebbe calunniati, dicendo implicitamente che si erano autocalunniati durante le loro confessioni (poi ritrattate)...Un processo di cui Azouz dice: “Secondo me sarà un bene perché alla fine chiedendo il giudizio immediato, dovrò difendermi che non ho detto una falsità nei confronti di Rosa e Olindo che si sono auto accusati del fatto, Quindi dovrò portare elementi che dimostrano che non ho detto una falsità: se sarò assolto per gli elementi che depositerò, serviranno poi per riaprire il processo di Erba…”. Azouz, se condannato per calunnia, rischia l’espulsione e il ritorno in carcere: “Io sto rischiando dai due ai sei anni… Io andrei avanti, sapevo già dall’inizio che c’era questo rischio qua, per ottenere giustizia, per tutte le persone che sono state massacrate quell’11 dicembre del 2006. Io farei due anni di carcere se necessario. Alla fine è questo lo scopo, che potrà essere riaperto il processo, però va bene. Il rischio c’è ma va bene, lo faccio con tanta ma tanta serenità perché di fiducia nella giustizia ne ho ancora… Quindi ci spero ancora che sia fatta giustizia sulla strage di Erba”. Affrontiamo con lui, ancora una volta, la ricostruzione della fuga di Rosa e Olindo, quella raccontata ai giudici e che ha portato alla loro condanna. Un racconto che sembra pieno di aspetti che non tornerebbero. Secondo le sentenze i coniugi Romano sarebbero scappati via dalle scale, sarebbero usciti dal portoncino di ingresso della palazzina della strage, avrebbero attraversato la corte e poi sarebbero andati a cambiarsi a casa loro. Ma, a parte il fatto che il Ris di Parma non ha mai trovato tracce di Rosa e Olindo sulla scena del crimine né tracce di sangue a casa loro, una domanda emerge forte: come facevano a scappare dal portone di ingresso della palazzina se sul posto erano già arrivati i primi soccorritori?

Edoardo Montolli, giornalista e scrittore, ricorda: “Valeria Cherubini, la moglie di Mario Frigerio viene trovata morta sotto la tenda della mansarda con le mani come a protezione del capo, come se qualcuno l’avesse colpita. Quando i soccorritori entrano all’interno del palazzo salgono le scale e trovano sul pianerottolo di Raffaella Castagna, Mario Frigerio. Sia Frigerio che i soccorritori, sentono Valeria Cherubini che dalla mansarda chiede aiuto, loro provano a salire ma non ci riescono, devono desistere e devono tornare indietro". "C’è la tenda, ci sono delle macchie da schizzo, l’ipotesi è che lei sia stata uccisa lì, dopo che ha gridato aiuto. C’è la tenda, ci sono delle macchie da schizzo, che il sangue da schizzo sia il sangue da proiezione della donna. Il problema quando nasce? Nasce dal fatto che se lei è stata uccisa lì, gli assassini non potevano più scendere facendo lo stesso percorso, perché sotto c’erano i soccorritori... La cosa più logica è che dopo che lei ha gridato aiuto qualcuno le ha tagliato la gola e le ha tagliato la lingua, tanto che sulla tenda della finestra vengono rilevate delle macchie da schizzo. E chi dice che quelle macchie sono da schizzo? Il comandante dei Ris Garofano e lo dice in aula, più volte". Ma da dove sarebbero scappati gli autori della strage? In passato la difesa di Rosa e Olindo ha ipotizzato che gli assassini possano essere scappati dal balcone di casa di Raffaella e Azouz e lo hanno fatto basandosi sulla testimonianza di una persona, che abita in un palazzo dalle cui finestre si vede bene la via su cui affaccia il terrazzino della casa della strage.

Una testimonianza messa nero su bianco, raccolta dall'avvocato Schembri: “Alle 20.20 proprio in via Diaz si era affacciato tale Manzeni Fabrizio, dirà di aver visto sotto il suo balcone due soggetti verosimilmente extracomunitari andare da via Diaz verso piazza del Mercato più un terzo soggetto provenire proprio sempre da via Diaz verso gli altri due soggetti sempre direzione piazza del Mercato, più o meno all’altezza individuato del terrazzino di casa Castagna". Anche dando per buona questa testimonianza, è difficile credere che quelle persone si fossero calate giù dal balconcino di Azouz. E lo stesso Azouz dice: “Non credo dal balconcino di casa mia perché c’erano i soccorritori, i soccorritori hanno tentato di entrare a casa e non si poteva". Quindi, data la presenza dei soccorritori,  che avrebbero sentito gridare aiuto da Valeria Cherubini dal piano di sopra, è impossibile che gli assassini siano riscesi passati davanti a loro, per rientrare in casa Castagna, e poi calarsi giù dal balconcino. Un balconcino che peraltro presentava una pianta che ostruiva il passaggio, e che non è stata trovata spostata né con tracce del passaggio di qualcuno…". E allora usando logica e il buon senso per gli assassini c’è solo una via di fuga, che appare realisticamente praticabile: dal tetto, usando casa Frigerio-Cherubini. Un'ipotesi che non è mai stata presa in seria considerazione dal maresciallo Gallorini, comandante della stazione di Erba, l'uomo che svolse le indagini sulla strage e l’unico che salì sul tetto per verificare se tutto fosse in ordine ed escluse questa possibilità. Spiega Edoardo Montolli: “Dall’altra parte c’è la mansarda di Mario Frigerio e Valeria Cherubini, la cui porta-finestra è aperta in tutte le fotografie, in tutti i video che sono stati fatti. Gli assassini avrebbero potuto anche scappare dai tetti ma i carabinieri di Erba lo esclusero a occhio, dicendo che a occhio si vedeva che non c’era del sangue suoi tetti". Una valutazione, quella degli inquirenti, che però non convince Azouz. Su una ricostruzione alternativa delle vie di fuga aveva lavorato anche, come consulente della difesa, l’investigatore privato Oscar Candian. “Se sono colpevoli devono dirmi come hanno fatto, perché le descrizioni e le ricostruzioni che hanno fatto non combaciano con la scena del crimine. Mi dispiace, non combaciano. Tutte quelle confessioni fatte, rifatte, messe apposto, aggiustate…”. L’investigatore torna sulla questione, cruciale, della morte di Valeria Cherubini: “La signora Cherubini che gridava aiuto, non poteva gridare aiuto perché aveva la lingua recisa, quindi è stata finita purtroppo al piano di sopra! Non poteva essere stata colpita sotto, perché se veniva colpita, sotto colpita a morte o anche recisa la lingua fai un due giri di scale e vai al piano di sopra e gridi nonostante aiuto… In una condizione del genere avrebbe inghiottito tanto sangue, cosa che non è stata trovata, tutto il sangue… o almeno respirato, cosa che non è stata trovata. Quindi non è compatibile… Quando mi sono trovato i rilievi che hanno fatto i carabinieri sono andato in zona ho visto che effettivamente c’era la possibilità di uscire da altre parti, ad esempio da qua, dall’appartamento di Frigerio-Cherubini, da qui si può uscire tranquillamente, vi erano difatti delle tegole smosse… Sono state sostituite… andavano portate in un laboratorio scientifico e analizzate, almeno provarci… io non ho potuto farlo, le hanno buttate via, nessuno sa niente basta, va bene basta”.

E sul punto di uscita degli assassini, aggiunge: “Il terrazzino, punto di attraversamento e inciampo, dove ci possono essere le tegole mosse, attenzione, lì ci sono degli appigli, dei sostegni… uno si può muovere tranquillamente. L’unico dato che è certo che potremmo dire è che da lì sono andati via, perché non hanno trovato nessuno. Da dove sono usciti ci sono duemila possibilità, anche confondersi in mezzo alla folla e nessuno li ha visti. È successo duemila volte, in tanti casi, non ci può essere una certezza. Fermo restando che se fossero Rosa e Olindo che camminano in mezzo alla folla, li avrebbero visti perché li conoscono, un estraneo davvero non si nota tanto…”. E da quel tetto si aprono altre strade: “Uno arriva sempre dritto fino lì, tranquillamente, punto inizio della discesa del tetto. Da qui uno può iniziare a scendere, arriva dall’altra parte, il punto di discesa, zona appiglio, sono un metro e mezzo neanche. Si arriva fino al secondo punto di discesa, circa un metro e 52: a quel punto lì si scende su un’altra tettoia, c’è una rete aperta, tagliata”. E un buco da cui si può uscire in parcheggio e prendere le macchina, e poi andare da qualsiasi parte… Insomma sembrerebbero davvero troppe le cose che non tornano in questa strage, come stiamo continuando a raccontarvi con le inchieste esclusive di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti.

Riuscirà la difesa di Rosa e Olindo a far analizzare le prove rimaste fuori dal processo? Le Iene News il 27 gennaio 2020. Gli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo per la Strage di Erba, chiedono di analizzare reperti e intercettazioni mai entrati nei processi. Il 3 febbraio è attesa la risposta dei giudici. Fino ad allora noi vi proporremo ogni giorno una delle intercettazioni, ritenute irrilevanti dai giudici e che invece sembrano mostrare la coppia molto serena durante le indagini. Prima delle rivelazioni clamorose dei prossimi servizi che andranno in onda con il ritorno in tv de Le Iene. Il 3 febbraio gli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo per l’omicidio di 4 vicini di casa avvenuto l’11 dicembre 2006 a Erba, si troveranno di nuovo di fronte ai giudici della Corte d’Assise di Como per chiedere ancora una volta l’analisi dei pochi reperti rimasti, sopravvissuti alla misteriosa distruzione, ancora tutta da chiarire, avvenuta per mano del cancelliere dell’Ufficio corpi di reato del Tribunale di Como il 12 luglio 2018. È dalla fine del 2014 che i legali ne chiedono l’esame, la loro istanza è stata rifiutata due volte dalla Corte d’Assise di Como e tre volte dalla Corte d’Appello di Brescia, nonostante la Cassazione abbia stabilito che la difesa avrebbe potuto fare le analisi così come aveva chiesto fin dall’inizio. Ora, di nuovo, per la sesta volta chiedono che siano esaminati i reperti superstiti, alcuni dei quali mai toccati; tra gli altri un’impronta palmare sconosciuta ritrovata sulle scale che conducono al pianerottolo della casa della strage, le unghie del piccolo Youssef, ciocche di capelli rinvenute sulla felpa del bambino. Insieme all’analisi, gli avvocati chiedono anche l’accesso al server della procura della Repubblica per rintracciare alcune intercettazioni che non sono mai riusciti ad ascoltare. Alcune di queste sono state effettuate, così come riportano i verbali, ma non sono state allegate ai fascicoli del processo e quindi non sono mai state a disposizione della difesa. Altre sembrano proprio sparite nel nulla e non si capisce perché manchino, dal momento che dalle carte ufficiali le cimici degli inquirenti risultavano in funzione. Dei veri e propri buchi, di giorni e giorni, scoperti per la prima volta dal giornalista d'inchiesta Edoardo Montolli, che ne dà conto anche nella versione aggiornata del suo libro "Il grande abbaglio". Di Rosa e Olindo non si trovano le intercettazioni ambientali fatte in casa dal 12 al 16 dicembre 2006, proprio a ridosso della strage avvenuta l’11. Si pensi che uno dei motivi che ha convinto della loro colpevolezza i giudici di primo grado è che i due fossero gli unici abitanti della corte di Erba a non parlare dei fatti; dell’unico testimone superstite, il vicino di casa Mario Frigerio, mancano 38 minuti di intercettazioni mentre si trovava ricoverato in ospedale il 25 dicembre, esattamente nel lasso di tempo in cui riceveva una visita dei carabinieri. Il giorno seguente, per la prima volta, avrebbe detto ai pubblici ministeri che il suo aggressore era Olindo Romano, mentre fino ad allora aveva parlato di un uomo a lui sconosciuto, estraneo a Erba, di carnagione olivastra; sempre di Frigerio mancano le intercettazioni dal 28 dicembre al 3 gennaio, giorni in cui era a colloquio con lo psichiatra per cercare di capire cosa ricordasse della strage, e dal 6 gennaio al 12 gennaio, giorni successivi all’arresto di Rosa e Olindo in cui si sarebbe potuto sentire la sua reazione alla cattura della coppia. La difesa chiede ai giudici di Como di poter accedere al server per rintracciare e ascoltare tutte le intercettazioni mancanti e colmare i buchi di una vicenda già lacunosa. Di questo caso ci occuperemo ancora con nuovi servizi e rivelazioni clamorose con il ritorno in onda a febbraio de Le Iene. Nel frattempo, in attesa dell’udienza, a partire da oggi, pubblicheremo un’intercettazione al giorno (la prima la trovate qui sopra). Alcune di queste intercettazioni sono assolutamente inedite. Tutte sono state allegate ma il giudice non le ha volute acquisire agli atti perché non le ha ritenute rilevanti, nonostante il giudice stesso non ne conoscesse il contenuto e nonostante la difesa l’avesse richiesto. Sono momenti che danno un’idea più precisa del contesto in cui Rosa e Olindo si muovevano, delle loro percezioni, della relazione tenera tra i due e con le persone a loro vicine. Mai, in nessuna di queste intercettazioni, durante momenti di intimità - in casa, da soli, in auto, al telefono - Rosa e Olindo parlano come se fossero gli autori del delitto. Anzi, più volte, tra di loro e con altri, dicono di essere innocenti, di non avere nulla da temere, di avere piena fiducia in chi indaga e nelle forze dell’ordine. La prima che vi facciamo ascoltare qui sopra cade nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 2006, 16 giorni dopo la strage. I coniugi passano la serata di Santo Stefano a casa di un’amica, Nanda. Non hanno i telefoni cellulari, perché quando sono insieme non li portano mai. Olindo lo tiene con sé solo durante le ore di lavoro, nel caso Rosa avesse bisogno di lui. Quando rientrano, sotto la porta di casa trovano i carabinieri, che li invitano a seguirli. Vengono separati e portati a Como, per ripercorrere gli spostamenti della sera del delitto. Ciascuno di loro, da solo e individualmente, mostra il percorso che hanno fatto insieme a piedi nella sera dell’11 dicembre, la passeggiata davanti alle vetrine del centro e poi la cena da McDonald’s. Anche da separati, il loro racconto coincide. Poi, i carabinieri li portano in caserma e sempre separatamente prendono loro delle tracce di dna. Mentre passano tutta l’auto di Olindo con il luminol, Rosa aspetta in una stanza, senza sapere dove sia suo marito e cosa stia facendo. Una volta in auto, diretti verso casa, i due si confrontano su quello che è successo. Olindo si lamenta perché gli hanno fatto fare tardi, lui che la mattina deve andare al lavoro alle 5, Rosa risponde “facciamogli fare il loro lavoro”, “non abbiamo da temere proprio niente”. Olindo racconta alla moglie che gli hanno offerto caffè e sigaretta e si sofferma sulla bontà del primo e sul fatto che la seconda non gli piacesse perché troppo leggera – però pareva brutto rifiutarla - senza nemmeno rendersi conto che in quel modo gli hanno preso tracce di dna. Si dicono contenti che Frigerio si sia ripreso perché “è un brav’uomo” e Olindo aggiunge: “Mi hanno detto che per la fine dell’anno riescono a prendere chi è stato, e gli ho detto: bene!”. Dall’intercettazione, a soli 16 giorni dalla strage, nonostante fossero stati appena sottoposti a un atto di indagine del tutto inaspettato e di una certa invadenza - il trasporto di notte, la separazione, il luminol all’auto, il prelievo di dna - traspare tra di loro un’estrema tranquillità, una fiducia incrollabile nelle forze dell’ordine e un’assoluta incoscienza di quello che sarebbe successo da lì a un paio di settimane.

(Adnkronos il 14 febbraio 2020) - Le IENE tornano ad appellarsi al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per nuove incongruenze nel procedimento sulla strage di Erba, durante la quale, l'11 dicembre 2006, vennero assassinati a colpi di spranga e coltello tre donne e un bambino: Raffaella Castagna e suo figlio di due anni Youssef, la nonna del bambino Paola Galli e la vicina del piano di sopra Valeria Cherubini. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti hanno infatti scoperto che, a "occuparsi per la Procura delle intercettazioni date alla difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano per la strage di Erba, c'è una società il cui 40% è costituito da una società anonima svizzera: una circostanza che sarebbe assolutamente vietata dalla legge". Tra l'altro, secondo le IENE, "a pesare ancora di più su tutta questa vicenda è l'assenza di un gran numero di intercettazioni". "Un anno fa - ricordano - eravamo stati dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, portandogli i brogliacci che attestavano le mancanza di numerosi giorni di intercettazioni. Il ministro, esaminate le carte, aveva subito inviato gli ispettori alla Procura di Como". Ma "le risposte date dagli ispettori al ministro non spiegano tutte le anomalie riscontrate in quelle intercettazioni, soprattutto quando si trovano dei brogliacci a cui corrispondono delle intercettazioni, cioè dei files audio che non si trovano più". E poi "c'è un'altra questione che fa sorgere sospetti sulle intercettazioni mancanti di Rosa e Olindo: chi si è occupato, per conto della Procura di Como, di assemblare quelle intercettazioni in un cd da dare alla difesa in visto del processo?". Da qui il nuovo appello a Bonafede: "Ministro perché una Procura si è avvalsa di una società che non sappiamo fino in fondo a chi appartiene nonostante sia vietato dalla legge? è possibile scoprire chi c'è dietro a quella società? era autorizzata ad operare nonostante il divieto di intestazione fiduciaria? Ma soprattutto che fine hanno fatto e cosa c'è su tutte quelle intercettazioni che ancora, nonostante l'ispezione del suo ministero, non si trovano?".

Strage di Erba: chi c'è dietro la società che ha fornito alla difesa le intercettazioni piene di buchi? Le Iene News il 13 febbraio 2020. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul delitto di Erba. Abbiamo scoperto una cosa che ha dell’incredibile, e che sarebbe vietata dalla legge: dietro la società a cui la Procura di Como ha affidato parte delle indagini c’è un socio straniero occulto. Olindo Romano e Rosa Bazzi sono gli unici due accusati e condannati all’ergastolo per il quadruplice omicidio di Erba, dove l’11 dicembre 2006 sono state massacrate quattro persone, tra cui un bimbo di poco più di 2 anni. Un delitto che chi li ha fatti condannare ha definito “la più atroce impresa criminale della storia della Repubblica”, e di cui Antonino Monteleone e Marco Occhipinti si sono a lungo occupati, anche con lo Speciale che potete rivedere qui. Ora però, siamo in grado di rivelare una circostanza che farebbe sorgere seri sospetti su tutta una serie di anomalie nelle indagini, che ancora oggi non trovano risposta. Abbiamo infatti scoperto che per le sue indagini sul delitto, la Procura di Como si è servita di una società che ancora oggi non si sa, del tutto, a chi appartenga. Una società detenuta al 40% da un anonimo socio straniero, cosa che si aggiunge al fatto che i cd consegnati da questa società alla difesa di Rosa e Olindo mancano intere settimane di intercettazioni. Una circostanza, quella dell’assetto proprietario anonimo a chi riceve appalti pubblici, assolutamente vietata dalla legge. Perché la procura di Como se ne avvalsa?

Strage di Erba: il mistero delle intercettazioni di Rosa e Olindo. Le Iene News il 14 febbraio 2020. A occuparsi per la Procura delle intercettazioni date alla difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano per la strage di Erba, c’è una società il cui 40% è costituito da una società anonima svizzera: una circostanza che sarebbe assolutamente vietata dalla legge. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti vanno a chiedere spiegazioni ai titolari delle aziende coinvolte in quell’incarico, sentendo il ministro Bonafede sulle troppe intercettazioni mancanti. L’11 dicembre 2006 a Erba vengono assassinati a colpi di spranga e coltello tre donne e un bambino: Raffaella Castagna e suo figlio di due anni Youssef, la nonna del bambino Paola Galli e la vicina del piano di sopra Valeria Cherubini. Ventisei giudici e tre gradi di giudizio non hanno avuto alcun dubbio: a commettere quella che è stato definito dal pm “la più atroce impresa criminale della storia della Repubblica” sono stati i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, oggi all’ergastolo. Una vicenda di cui sin dall’inizio vi abbiamo raccontato tutti i dubbi e che è stata oggetto dello Speciale di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, che potete rivedere a questo link. Ora vi facciamo una rivelazione che farebbe nascere seri sospetti su tutta una serie di anomalie nelle indagini che ancora non trovano risposta: per fare alcune indagini e per digitalizzare le intercettazioni nei cd consegnati alla difesa di Rosa e Olindo, la Procura di Como si è servita di una società che ad oggi non si sa ancora a chi appartenga: un vero mistero, oltre che una cosa grave perché vietata dalla legge. A guardare bene da vicino, i tre pilastri su cui si basa la condanna all’ergastolo per Rosa e Olindo presenterebbero crepe da tutte le parti. Per almeno tre ragioni.

La prima: si è sempre detto che il testimone superstite Frigerio avesse riconosciuto sin da subito il vicino Olindo come l’aggressore. Se però ascoltiamo bene le intercettazioni ambientali in ospedale si scopre che invece il primo ricordo di Frigerio era di “un killer dalla carnagione olivastra, che non era del posto e che non aveva mai visto prima”.  Frigerio poi cambierà ricordo dopo un colloquio con il maresciallo Gallorini nella sua stanza d’ospedale, che per nove volte gli suggerirà il nome di Olindo Romano.

Il secondo punto è questo: c’è solo una prova scientifica che collegherebbe Olindo alla scena del crimine, ovvero la macchia di sangue sul battitacco della sua auto. Una macchia che per ammissione dello stesso carabiniere che la trovò, potrebbe essere frutto di contaminazione ambientale, cioè portata dalle scarpe degli stessi carabinieri che prima di perquisire l'auto fecero il sopralluogo sulla scena del delitto. Le confessioni di Rosa e Olindo, infine, sono state ritrattate prima del processo e al contrario di come è stato sempre raccontato sono piene di imprecisioni e contraddizioni, nonostante siano state rese avendo le foto della strage davanti agli occhi. A pesare ancora di più su tutta questa vicenda è l’assenza di un gran numero di intercettazioni. All’appello infatti mancano addirittura sei giorni interi di intercettazioni, che vanno dal 28 dicembre 2006 al 3 gennaio 2007. Sono proprio i giorni in cui Frigerio riceve la visita del neurologo che deve testare la bontà del suo ricordo della strage. “Perché spariscono le intercettazioni di Frigerio sempre nei momenti cruciali?”, si chiede il giornalista Edoardo Montolli? Che prosegue: “Ci sono anche le intercettazioni di Olindo Romano e Rosa Bazzi che hanno fatto portare nella sentenza di primo grado una leggenda metropolitana. Nella sentenza di primo grado, che cosa scrivono i giudici? Scrivono che era molto sospetto il fatto che Olindo Romano e Rosa Bazzi nei momenti successivi alla strage non parlassero mai della strage. Se i giurati avessero fatto quello che ho fatto io, se fossero andati a vedere il registro delle intercettazioni, si sarebbero accorti che dal 12 dicembre del 2006 al 16 dicembre del 2006 non è allegata alcuna intercettazione. Ecco perché non si sentono parlare della strage Olindo Romano e Rosa Bazzi, tant’è che quando riprendono le intercettazioni il giorno 16, loro parlano e abbondantemente della strage e abbondantemente delle vittime e abbondantemente con pietà”. Un anno fa eravamo stati dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, portandogli i brogliacci che attestavano le mancanza di numerosi giorni di intercettazioni. Il ministro, esaminate le carte, aveva subito inviato gli ispettori alla Procura di Como. Siamo tornati da lui, qualche mese dopo, per capire quali sono le spiegazioni che gli ispettori hanno dato al ministro su tutto ciò che manca, un volta sentita la società Sio di Cantù. “Queste intercettazioni sono veramente sparite?”, gli chiede Antonino Monteleone. E il ministro ha risposto: “Il fatto che siano mancate intercettazioni per un numero di giorni no? Nei vari luoghi eccetera… Il punto è questo, che quando c’è il progressivo… questo vuol dire che c’è stata una continuità. L’intercettazione ambientale, cioè per farla capire la microspia, trasmette direttamente alla procura e non è manipolabile da terzi. La progressione mi dice che non c’è stata nessuna interruzione in funzionamento, nel caso per esempio dell’ospedale ci possono essere stati anche degli spostamenti del signor Frigerio da una stanza all’altra dell’ospedale…. Dai dati che risultano non c’è nessuna anomalia”.  E ribadisce il concetto: “Deve farci stare tranquilli il fatto che l’intercettazione ambientale che manda il dato direttamente alla procura non è manipolabile dall’esterno…” Antonino Monteleone allora lo incalza: “Qua stiamo parlando di nove giorni… ora, capisco i limiti tecnici dell’ambientale… cioè io da cittadino italiano... mi posso fidare… del modo in cui vengono effettuati questi accertamenti tecnici?” Ma il ministro Alfonso Bonafede lo tranquillizza: “Sì, e io le devo dire è giusto che voi facciate le domande, però qui dobbiamo prendere in considerazione il fatto che due imputati che hanno avuto la valutazione di 26 magistrati in tre gradi di giudizio con possibilità di fare ulteriori istanze che sono state rigettate, sono due imputati che hanno ricevuto un processo come si deve, questo io lo devo dire, dopodiché…” “Ministro, ha mai chiesto al vostro staff, agli uffici, quante revisioni dei processi definitivi abbiamo fatto in Italia negli ultimi vent’anni?”. “Eh no, questo dato… io ho tutti i dati a disposizione… Aspetti però, perché il processo di revisione si attiva sulla base di elementi di novità…” “Per questo servivano i reperti ministro”, gli fa eco la Iena. “Io per quello che ho potuto valutare non ho motivo per andare ulteriormente avanti”, conclude Bonafede. Le risposte date dagli ispettori al ministro non spiegano tutte le anomalie riscontrate in quelle intercettazioni, soprattutto quando si trovano dei brogliacci a cui corrispondono delle intercettazioni, cioè dei files audio che non si trovano più. Incomprensibile anche la "sparizione" di giorni e giorni di intercettazioni telefoniche nei confronti di Pietro Castagna, fratello della vittima Raffaella Castagna. C'è un'altra questione che fa sorgere sospetti sulle intercettazioni mancanti di Rosa e Olindo: chi si è occupato, per conto della Procura di Como, di assemblare quelle intercettazioni in un cd da dare alla difesa in visto del processo? Sempre il giornalista Edoardo Montolli, su questo punto, si chiede: “Com’è possibile che una procura affidi incarichi una società il cui 40% è costituito da una società anonima svizzera, ovvero della quale nessuno sa chi siano i proprietari… Questo è un problema dirimente, com’è possibile? Se una società deve svolgere un’attività delicata come le intercettazioni devo sapere chi sono i proprietari, perché in una società svizzera può nascondersi chiunque”.

Antonino Monteleone prova allora a capire chi c’è dietro quella società, andando dal commercialista della fiduciaria, la  Fenefin. “Dottor Bullani buongiorno, sto venendo da lei perché ci stiamo occupando di una società che si chiama Waylog, che è una società italiana che svolge attività di intercettazioni telefoniche per le procure, e abbiamo scoperto che l’altro 40% è in mano a una fiduciaria svizzera che si chiama Fenefin di cui lei risulta amministratore”. E il commercialista risponde: “È un problema che non le concerne”. E aggiunge: “Presiede uno stato di diritto svizzero che ha una sua regolamentazione, ha una sua normativa alla quale si attiene… è salvaguardato dal diritto svizzero, non le rispondo”. Niente da fare, il commercialista che amministra la fiduciaria legata alle intercettazioni usate dalla procura di Como non intende rispondere alle nostre domande! Proviamo allora a chiedere spiegazioni al dott. Ganzetti, l’altro proprietario della Waylog. “Noi abbiamo fatto le intercettazioni normali e tutto ha funzionato”, risponde. Quando gli chiediamo per quale motivo mancano settimane intere, l’uomo aggiunge: “Questo non glielo so dire io… dovete chiederlo alla procura”. “Le posso chiedere chi sono i suoi soci della Fenefin?”, lo incalza la Iena. “Guardi no, preferisco non rispondere grazie”. Ma aggiunge: “È tutto fatto regolarmente quelle intercettazioni lì, mi lasci andare”. Quando gli diciamo che ci sono delle intercettazioni trascritte nei brogliacci delle quali poi mancano i file originali, spiega:” Quelle non le abbiamo fatte neanche noi perché le ha fatte anche la Sio…” E allora andiamo anche dalla Sio di Cantù, la società che ha fornito le apparecchiature e il server per le intercettazioni della strage di Erba. “Siamo venuti da lei perché ci stiamo occupando di una questione che riguarda la strage di Erba, capitolo intercettazioni”, spiega Antonino Monteleone. Ma il dott. Cattaneo si rifiuta di chiarire: “Non c’è nessuno sbaglio, comunque io non posso rilasciare nessuna intervista, grazie”. E aggiunge: “Questa è Sio spa, Waylog è un’altra società, non ha nulla a che fare con la nostra società. C’è la procura della Repubblica, si rivolga a loro. Se mi autorizzano a parlare con voi e me lo sottoscrivono… Se fosse svolto male la Procura della Repubblica avrebbe indagato noi, avrebbe fatto qualcosa, non l’ha fatto probabilmente il lavoro lo abbiamo svolto bene”. Le società di intercettazioni che hanno partecipato alle indagini sulla strage di Erba riguardo a possibili mancanze dicono di rivolgersi alla procura di Como. E allora proprio a lei ci rivolgiamo: come spiegate tutte le anomalie che sono presenti nelle intercettazioni che riguardano il testimone Mario Frigerio, gli indagati Olindo Romano e Rosa Bazzi e Pietro Castagna, fratello della vittima Raffaella Castagna? Perché se tutto è stato fatto a regola d’arte vi opponete al fatto che la difesa possa accedere direttamente al server in procura per vedere se si trova tutto ciò che manca sui dischetti che gli avete fornito per preparare la difesa di Rosa e Olindo? E infine perché coinvolgere nelle attività di indagine una società di cui non possiamo sapere esattamente che ci sia dietro, cosa che è vietata dalla legge? L'affidamento a quella società posseduta in parte da una fiduciaria anonima era autorizzato?

Il divieto previsto dalla legge ha una spiegazione semplice: è proprio per evitare che le indagini possano essere inquinate o non essere più al di sopra di ogni sospetto. Questo perché dietro una fiduciaria anonima ci può essere  potenzialmente chiunque. Per assurdo, anche qualcuno che ha avuto guai con la giustizia, qualcuno che in passato ha avuto dei problemi con chi è indagato, oppure sempre per assurdo ci potrebbe essere qualcuno che è legato alle vittime del delitto, o a chi è indagato o anche chi indaga. Ci appelliamo dunque anche allo stesso Ministro della Giustizia Bonafede, che sicuramente ha a cuore la trasparenza del sistema giustizia, ma anche i diritti di ogni detenuto: ministro Bonafede, perché una Procura si è avvalsa di una società che non sappiamo di chi è, anche se vietato dalla legge? È possibile scoprire chi ci sta dietro a quella società? E che fine hanno fatto e cosa c’è su tutte quelle intercettazioni che ancora, nonostante l’ispezione del suo ministero, non si trovano?

Strage di Erba, i pm: “risibili” i dubbi sulla società che si è occupata delle intercettazioni. Monteleone: “Non basta una scrollata di spalle”. Le Iene News il 15 febbraio 2020. Ecco tutte le perplessità sull’azienda che ha preparato i cd con le intercettazioni consegnate per conto della procura alla difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati all’ergastolo per la strage di Erba. All’epoca questa società era costituita al 20% da una società anonima svizzera, circostanza questa che è vietata dalla legge e che si aggiunge ai numerosi buchi e anomalie da noi riscontrati nelle intercettazioni. Per i pm sembra che questo non sia un problema. Antonino Monteleone: “Un cittadino potrebbe rispondere così a chiunque mettesse in dubbio la legalità di un suo comportamento in un’aula di giustizia?” “Risibile”. Così i pm della Procura di Como hanno definito, nella memoria per l’udienza del 3 febbraio scorso, l’osservazione della difesa di Rosa e Olindo sulla mancanza di trasparenza della proprietà della società Waylog, che si occupò tra le altre cose di consegnare alla difesa in dei cd le intercettazioni ambientali legate al processo sulla strage di Erba. Questa memoria della procura è stata presentata di fronte alla Corte d’Assise di Como, chiamata a decidere il 3 febbraio 2020 se concedere o meno alla difesa dei due condannati l’accesso diretto ai server della procura devo sono custodite le intercettazioni originarie e se consentire l’analisi di alcuni reperti mai analizzati prima. Per la sesta volta, la Corte ha respinto questa richiesta della difesa (clicca sul link per sapere tutto sull’ultima decisione dei giudici di Como, sulle richieste della difesa di Rosa e Olindo e sul perché sono state presentate). “Anche se la Procura di Como definisce ‘risibile’ il fatto che non si riesca a risalire a quali siano tutti i proprietari della società a cui ha affidato delicati incarichi, ci saremmo aspettati una parola in più sul divieto, imposto dalla legge, di intestazione fiduciaria delle società che operano per conto dello Stato”, insiste anche oggi Antonino Monteleone. “Sarebbe una circostanza secondaria se tutto fosse stato fatto a regola d’arte, ma qui ci troviamo di fronte a giorni e giorni di intercettazioni mancanti ed è lecito aspettarsi qualcosa di più di una semplice scrollata di spalle. I pubblici ministeri non erano al corrente della legge in vigore in materia di appalti, forniture e servizi? Ma soprattutto da quando il concetto di ‘risibile’ è diventato una categoria giuridica? È consentito a un cittadino di rispondere così a chiunque mettesse in dubbio la legalità di un suo comportamento in un’aula di giustizia?”.

IL CASO WAYLOG. Ma andiamo con ordine, punto per punto. Nell’ultimo servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti che è andato in onda giovedì sera e che potete vedere qui sopra, vi abbiamo raccontato questo nuovo e forse inquietante dettaglio sulle indagini sulla strage di Erba: per tutta una serie di indagini e fornitura di servizi tecnici, la Procura di Como si è servita appunto di una società che a oggi non si sa ancora a chi appartenga. Un vero mistero, oltre che una cosa grave, perché sarebbe vietata dalla legge. Risulta infatti che l’azienda in questione, che si chiama Waylog, all’epoca dei fatti fosse costituita al 20% (con una quota salita successivamente al 40%) da una società anonima svizzera, di cui cioè nessuno sa chi sia il o i proprietari. Questa circostanza è vietata dalla legge. E questa azienda si è occupata, come detto, di una serie di attività particolarmente importanti, in fase di indagine e durante il processo sulla strage di Erba. Nel nostro servizio abbiamo cercato di capire di più su questa società e su come abbia operato in quel determinato contesto.

I DUBBI SULLE CONDANNE DI ROSA E OLINDO. L’11 dicembre 2006 a Erba sono stati assassinati a colpi di spranga e coltello tre donne e un bambino: Raffaella Castagna e suo figlio di due anni Youssef, la nonna del bambino Paola Galli e la vicina del piano di sopra Valeria Cherubini. Ventisei giudici e tre gradi di giudizio non hanno avuto alcun dubbio: a commettere quella che è stato definito da chi indagava come “la più atroce impresa criminale della storia della Repubblica” sono stati i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, oggi all’ergastolo. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti vi abbiamo raccontato tutti i numerosi dubbi sulla loro colpevolezza in numerosi servizi che trovate in fondo a questo articolo e nello Speciale Le Iene, che potete rivedere cliccando su questo link. A ben guardare infatti i tre pilastri su cui si basa la condanna all’ergastolo per Rosa e Olindo presenterebbero crepe da tutte le parti. Per almeno tre ragioni.

La prima: si è sempre detto che il testimone superstite Frigerio avesse riconosciuto sin da subito il vicino Olindo come l’aggressore. Se però ascoltiamo bene le intercettazioni ambientali in ospedale si scopre che invece il primo ricordo di Frigerio era di “un killer dalla carnagione olivastra, che non era del posto e che non aveva mai visto prima”.  Frigerio poi cambierà ricordo dopo un colloquio con il maresciallo Gallorini nella sua stanza d’ospedale, che per nove volte gli suggerirà il nome di Olindo Romano.

Il secondo punto è questo: c’è solo una prova scientifica che collegherebbe Olindo alla scena del crimine, ovvero la macchia di sangue sul battitacco della sua auto. Una macchia che per ammissione dello stesso carabiniere che la trovò, potrebbe essere frutto di contaminazione ambientale, cioè portata dalle scarpe degli stessi carabinieri che prima di perquisire l'auto fecero il sopralluogo sulla scena del delitto. Le confessioni di Rosa e Olindo, infine, sono state ritrattate prima del processo e al contrario di come è stato sempre raccontato sono piene di imprecisioni e contraddizioni, nonostante siano state rese avendo le foto della strage davanti agli occhi.

LE INTERCETTAZIONI. C’è poi l’assenza di un gran numero di intercettazioni, in giorni cruciali. Per questo vale la pena di concentrarsi sul “caso Waylog”. In primo luogo resta il fatto che la legge vieta appunto che a occuparsi delle intercettazioni sia una società partecipata da una fiduciaria estera di cui non si conosce nemmeno il proprietario. E una violazione della legge resterebbe intatta, e non una questione “risibile”, anche se la società è partecipata solo al 20%. Tanto più per la delicatezza di indagini su una strage come quella di Erba. Non solo, qui sembrerebbe che non tutto sia stato fatto comunque “a regola d’arte” visto, appunto, che “ci troviamo di fronte a giorni e giorni di intercettazioni mancanti ed è lecito aspettarsi qualcosa di più di una semplice scrollata di spalle”. Questi “buchi” nelle intercettazioni, di giorni e giorni, sono stati scoperti per la prima volta dal giornalista d'inchiesta Edoardo Montolli, che ne dà conto anche nella versione aggiornata del suo libro "Il grande abbaglio". Di Rosa e Olindo non si trovano le intercettazioni ambientali fatte in casa dal 12 al 16 dicembre 2006, proprio a ridosso della strage avvenuta l’11. Si pensi che uno dei motivi che ha convinto della loro colpevolezza i giudici di primo grado è che i due fossero gli unici abitanti della corte di Erba a non parlare dei fatti. Dell’unico testimone superstite, il vicino di casa Mario Frigerio, mancano 38 minuti di intercettazioni mentre si trovava ricoverato in ospedale il 25 dicembre, esattamente nel lasso di tempo in cui riceveva una visita dei carabinieri. Il giorno seguente, per la prima volta, avrebbe detto ai pubblici ministeri che il suo aggressore era Olindo Romano, mentre fino ad allora aveva parlato di un uomo a lui sconosciuto, estraneo a Erba, di carnagione olivastra. Sempre di Frigerio mancano le intercettazioni dal 28 dicembre al 3 gennaio, giorni in cui era a colloquio con lo psichiatra per cercare di capire cosa ricordasse della strage, e dal 6 gennaio al 12 gennaio, giorni successivi all’arresto di Rosa e Olindo in cui si sarebbe potuto sentire la sua reazione alla cattura della coppia. Mancano anche giorni e giorni di intercettazioni telefoniche nei confronti di Pietro Castagna, fratello della defunta Raffaella, circostanza che non trova alcuna spiegazione plausibile. Stessa cosa pare per le decine e decine di intercettazioni per le quali sono stati ritrovati i brogliacci senza che però si ritrovino i corrispondenti file audio. Come potete ben capire, dunque, il nodo delle intercettazioni è cruciale per comprendere fino in fondo questa storia. La difesa di Rosa e Olindo aveva chiesto l’accesso al server della Procura, da cui la Waylog ha estratto i cd consegnati agli avvocati, per verificare se all’interno si possono ritrovare ancora le intercettazioni mancanti. Questo accesso è stato negato però nuovamente dai giudici di Como. Perché?

LE NOSTRE DOMANDE. Alla fine del nostro servizio ci siamo rivolti così alla procura di Como: come spiegate tutte le anomalie che sono presenti nelle intercettazioni che riguardano il testimone Mario Frigerio, gli indagati Olindo Romano e Rosa Bazzi e Pietro Castagna, fratello della vittima Raffaella Castagna?

Se tutto è a regola d’arte, perché vi opponete al fatto che la difesa possa accedere direttamente al server in procura per vedere se si trova tutto ciò che manca sui dischetti che gli avete fornito per preparare la difesa di Rosa e Olindo? E infine perché coinvolgere nelle attività di indagine una società di cui non possiamo sapere esattamente che ci sia dietro, cosa che è vietata dalla legge?

L'affidamento a quella società posseduta in parte da una fiduciaria anonima era autorizzato? Il divieto previsto dalla legge ha una spiegazione semplice: è proprio per evitare che le indagini possano essere inquinate o non essere più al di sopra di ogni sospetto. Questo perché dietro una fiduciaria anonima ci può essere potenzialmente chiunque. Per assurdo, anche qualcuno che ha avuto guai con la giustizia, qualcuno che in passato ha avuto dei problemi con chi è indagato, oppure sempre per assurdo ci potrebbe essere qualcuno che è legato alle vittime del delitto, o a chi è indagato o anche chi indaga. Ci appelliamo dunque anche allo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che sicuramente ha a cuore la trasparenza del sistema giustizia, ma anche i diritti di ogni detenuto: ministro Bonafede, perché una Procura si è avvalsa di una società che non sappiamo di chi è, anche se vietato dalla legge? È possibile scoprire chi ci sta dietro a quella società? E che fine hanno fatto e cosa c’è su tutte quelle intercettazioni che ancora, nonostante l’ispezione del suo ministero, non si trovano?

Nella memoria di cui vi abbiamo parlato all’inizio di questo articolo, i pm scrivono: “Appare francamente risibile la sottolineatura contenuta nella memoria difensiva in merito a una presunta possibile poca limpidezza della società Waylog srl per il fatto di avere la stessa una partecipazione societaria di una società di diritto svizzero, partecipazione che in realtà all’epoca del processo e delle indagini era nella misura del 20% del capitale (sin dal 27.06.2000) poi incrementata al 40% il 13.03.2012 per l’uscita di un socio le cui quote sono state rilevate. L’argomento, oltre che essere del tutto irrilevante ai fini della valutazione dal punto di vista probatorio (non si comprende davvero la funzione di tale argomentazione se non quella di creare delle suggestioni) appare confuso e volutamente offerto a corollario delle censure alle interruzioni avvertire all’ascolto dei nastri. Quasi a voler insinuare il dubbio di manipolazioni volontarie, della presenza di soci occulti in qualche modo interessati all’esito del processo, e quindi la possibilità di novità clamorose. Evidentemente la circostanza di aver avuto ‘tra le mani’ tutte le intercettazioni in forma integrale sin dai tempi dell’udienza preliminare, nella quale le difese chiesero addirittura la produzione di tutto il fascicolo del pubblico ministero al giudice del dibattimento, non è stata sfruttata - in oltre dieci anni - adeguatamente”. A nostro modesto avviso neanche la memoria dei pubblici ministeri risponde ai dubbi sollevati dalla difesa adeguatamente. Anche al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede il rispetto della legge da parte di una procura della repubblica pare una questione “risibile”?

 “Non abbiamo niente da temere”. Rosa e Olindo prima dell'arresto. Le Iene News il 28 gennaio 2020. Strage di Erba: nuovo appuntamento con le intercettazioni esclusive che pubblicheremo ogni giorno fino all’udienza del 3 febbraio in cui i giudici dovranno decidere della richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di poter esaminare reperti e intercettazioni mai analizzate nel processo. Ecco Rosa che parla con un’amica e il marito con un avvocato il giorno prima del loro arresto

“Non abbiamo fatto niente di male”, “Non abbiamo nulla da temere”. Ecco le voci di Rosa Bazzi e Olindo Romano, al telefono con un’amica e con un avvocato, il giorno prima di essere arrestati con l’accusa di essere gli autori della Strage di Erba del 12 dicembre 2006 per cui verranno poi condannati all’ergastolo. La coppia sembra serena, preoccupata di essere finita in tv ma soprattutto dall’idea di doversi pagare un legale. Dopo le prime intercettazioni esclusive di ieri dei due in auto, continuiamo a proporvene una al giorno, in attesa dell’udienza del 3 febbraio in cui i giudici dovranno decidere della richiesta degli avvocati di Rosa e Olindo di poter esaminare reperti e intercettazioni mai analizzate nel processo. Di questo caso ci occuperemo ancora con nuovi servizi e rivelazioni clamorose con il ritorno in onda a febbraio de Le Iene. Oggi vi proponiamo altre due intercettazioni che, come le altre, sono state allegate al fascicolo ma non sono state acquisite agli atti dal giudice di primo grado, e così non sono mai state valutate nel dibattimento in aula. Sono due intercettazioni telefoniche del 7 gennaio 2007. Nella prima, Rosa Bazzi e Olindo Romano sono barricati in casa, assediati dai giornalisti. La notizia che gli inquirenti stanno indagando su alcuni vicini di casa è già di pubblico dominio. Rosa chiama l’amica Nanda per avere conforto e qualche rassicurazione. Al telefono con Nanda, Rosa è in uno stato di evidente apprensione, tanto da accusare malesseri fisici. I due sanno che si parla di un vicino di casa, ma non immaginano di essere proprio loro finché Nanda non dice a Rosa che al Tg5 hanno fatto vedere la foto delle loro facce: “Mi ha telefonato mio fratello che stavo facendo la doccia alle dodici e mezzo e ha detto che su Canale 5 han fatto vedere la tua foto e quella di Olindo, capito?”. Vengono così a sapere dalla televisione di essere i principali sospettati della strage. Rosa non se ne capacita: “Noi non abbiamo fatto niente di male”. Ripete più volte a Nanda di aver dato la massima collaborazione a chi indaga e di voler continuare a farlo, perché lei e Olindo non hanno proprio niente da temere. Non sapendo nulla di come funzionano queste cose, non si spiega come i carabinieri, che riempiono la corte di via Diaz e che in quel momento si trovano proprio fuori dalla loro porta, non li abbiano informati. Rosa si sente protetta e pensa che possano in qualche modo aiutarla: “Eh, ma Nanda allora senti, ma quelle cose qua, cosa abbiamo da fare adesso? Chiedere ai carabinieri cosa possono... cioè... cioè possono farci, aiutarci a fare qualche cosa?”. Nanda suggerisce che forse dovrebbero cominciare a pensare di prendersi un avvocato, la proposta agita moltissimo Rosa: “Prendere un avvocato no… Nanda… io sono sicura che non abbiamo niente da temere, ohhh stai scherzando?”, “Vogliono fare le foto? Che le facciano, vogliono anche che ci sbattono sui giornali? Che ci sbattano, a noi non ci interessa, io non ho proprio voglia di prendere, cioè non abbiamo neanche la possibilità eh…”, “Non abbiamo la possibilità, cioè Nanda… cioè, abbiamo di mezzo il camper, abbiamo fatto questo… cioè non abbiamo possibilità, Nanda... e poi ha ragione l’Olindo, non ci accusano di niente… possono essere solo…”, “Devono essere i carabinieri a venirmi a dire: guardate signori, prendete un avvocato che c’è un’accusa così così… cioè, poi staremo a vedere perché io di sicuro di sopra non ci sono mai andata da quando sono qua, ecco…”. Poi, dopo essersi un po’ calmata, prova a spiegare meglio a Nanda quello che pensa: “Io ragiono così. Se c’è qualche cosa, penso che mi vengono, mi suonano il campanello i carabinieri e mi dicono: guardi, venga su in caserma perché c’è questo questo questo… io prendo subito, vado dal carabiniere, punto e basta… penso, nella mia ignoranza”. È tranquilla, non la preoccupa il fatto di poter essere considerata responsabile della strage perché è un’ipotesi per lei impensabile, la preoccupa invece il fatto di doversi prendere un avvocato con il conseguente esborso, che lei e Olindo non si possono permettere. Dopo aver salutato Nanda, riferisce a Olindo quello che Nanda le ha detto a proposito delle loro foto in televisione. Olindo è incredulo, in un primo momento pensa che li abbiano mostrati come alcuni tra i tanti vicini di casa.

R: “Nanda ha detto: il vicino di casa, e hanno fatto vedere la foto tua, la mia”.

O: “Come vicini di casa?”

R: “No, no, come indagati".

Poi tranquillizza Rosa, anche lui immagina che se fosse così avrebbero ricevuto un avviso dai carabinieri: “Però il discorso è questo… chi è indagato... cioè, i carabinieri ce lo dicevano, anzi: non si muova anche di casa”. Pensa che sia stato montato tutto dai giornalisti: “Lì ha fatto tutto la televisione”, “Perché sennò dovevano essere loro a venire qua: ‘guardi lei è indagato... così così e così... e invece noi stiamo qui'”. Anche per Olindo è impossibile che si profili una reale accusa contro di loro e si concentra sul pagamento della parcella per un eventuale avvocato: “Eh allora, cioè noi non è che c’abbiamo soldi da dare, regalare agli avvocati”, “Poi se eravamo indagati arrivavano i carabinieri… i carabinieri sarebbero venuti a dirci: guardi lei è iscritto nel registro degli indagati”. Da qui si passa alla seconda intercettazione tra l’avvocato Rocchetti e Olindo Romano, avvenuta più tardi sempre nella stessa giornata, il 7 gennaio, che potete sentire qui sotto. Rocchetti è il legale da cui sono stati seguiti Olindo e Rosa per la controversia civile con Raffaella Castagna, una delle vittime della Strage di Erba. È proprio lui a chiamare Olindo quella sera per dirgli di essere stato contattato da diversi giornalisti e testate televisive, tra cui Porta a Porta. Vuole rassicurare Olindo sul contenuto delle sue dichiarazioni alla stampa, ha detto loro che: “L’unica cosa che posso dire secondo il mio punto di vista, per come ho parlato col signor Olindo… mi sembra assolutamente inverosimile l’accusa perché il giorno dopo ho parlato… ed era assolutamente sereno e distaccato, non freddo, quindi non ho avuto il minimo sospetto che fosse lui”. Olindo coglie l’occasione per chiarire il dubbio suo e di Rosa: se siamo iscritti nel “libro degli indagati” non dovrebbe venire qualcuno a dircelo? Rocchetti gli dice che non è necessariamente così e ribadisce di nuovo la sua incredulità: “E poi ho detto scusi, un uomo di una certa corporatura… a me sembra che lei fosse un pizzichino più alto di me”, “adesso insomma io non sono una bestia…”, “io mi sono sorpreso che uno come lei avesse potuto fare, abbia potuto fare una… quei gesti, eh insomma… con quegli esiti… capisce? ma minimo minimo doveva essere un troll, scusi eh?”. Né Nanda né l’Avvocato Rocchetti danno un minimo credito alla pista che conduce ai coniugi Romano. Il giorno seguente, l’8 gennaio 2007, Rosa e Olindo saranno arrestati.

Rosa e Olindo il giorno dell'arresto: “Non abbiamo fatto mai una cosa del genere!” Le Iene News il 29 gennaio 2020. Terzo appuntamento con le intercettazioni esclusive che pubblicheremo fino al 3 febbraio quando i giudici dovranno decidere della richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di poter esaminare reperti e intercettazioni mai analizzate nel processo. È il giorno dell’arresto: ascoltate la coppia con i carabinieri, Rosa che avverte i datori di lavoro che non potrà venire e marito e moglie che parlano tra loro. “Perché avete detto che siamo noi? Ma non abbiamo fatto mai una cosa del genere!”. Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati poi all’ergastolo per la Strage di Erba, parlano con i carabinieri che li stanno arrestando. Qui sopra potete ascoltare le loro parole, tra incredulità e incredibili ingenuità. Potete sentire poi Rosa che avverte i datori di lavoro che non potrà venire e marito e moglie che parlano tra loro. Per il terzo giorno consecutivo vi facciamo sentire le parole della coppia, dopo la conversazione in auto e due telefonate, con un’amica e con un avvocato, il giorno prima di finire in manette. Continuiamo a proporvi quotidianamente queste intercettazioni esclusive in attesa dell’udienza del 3 febbraio in cui i giudici dovranno decidere della richiesta degli avvocati di Rosa e Olindo di poter esaminare reperti e intercettazioni mai analizzate nel processo. Di tutto questo caso ci occuperemo poi con nuovi servizi e rivelazioni clamorose con il ritorno in onda a febbraio de Le Iene. Torniamo all’8 gennaio 2007, il giorno in cui i carabinieri vanno a casa Romano per prelevare i coniugi e portarli al Bassone, il carcere di Como. La notizia dell’arresto è già trapelata e la corte di via Diaz scoppia di giornalisti, abbarbicati dappertutto. Sono le 13.12. Rosa e Olindo sono trincerati in casa, Rosa è sconvolta perché ha subito l’assalto di un giornalista che l’ha quasi fatta cadere a terra. Pensano che i carabinieri siano arrivati per portarli in salvo, un militare dice loro: “Siamo qui noi per difendervi”. Rosa è disperata, scoppia in lacrime. “Perché avete detto che siamo noi? Ma non abbiamo fatto mai una cosa del genere!”, dice a un militare, pensando che l’emergenza sia la presenza dei giornalisti non l’imminente arresto. Lui le risponde: “La capisco, adesso noi siamo qui apposta per proteggervi”. Olindo, vedendo Rosa in quello stato, si arrabbia e il carabiniere cerca di calmarlo con le parole e di riportare i due alla tranquillità. Rosa è sempre più agitata, non capisce perché si accaniscano e ribadisce la loro totale disponibilità a contribuire alle indagini: “Ci avete sempre chiamato, avete qualche cosa?”. “Volete il dna, non so che cos’è, prendetevelo! Volete disfarci la casa, prendete la casa! Vi apro ancora i cassetti!”. In quel momento i carabinieri non rivelano ai coniugi che sono lì per arrestarli, cercano di gestire la situazione con i giornalisti e di contenere l’agitazione dilagante, alimentando in Olindo e Rosa la convinzione che siano venuti in loro soccorso. Poco dopo Rosa chiama la sua datrice di lavoro comunicandole di non poter andare da lei nel pomeriggio, perché “non possiamo più uscire di casa”. Piange al telefono. Quando chiude la chiamata, Olindo le dice che avrebbe potuto accompagnarla lui, lei risponde: “M’hanno saltato addosso, m’hanno. Se non c’erano i carabinieri ero per terra”. Nessuno dei due ha ancora capito che stanno per essere prelevati da casa, per passare dalla caserma e poi dritti in carcere. Tanto che Olindo al processo dichiarerà di essersi ritrovato all’improvviso al Bassone senza aver capito niente. Ricorda solo che, una volta arrivati, quando i carabinieri li hanno fatti uscire dall’auto il comandante Gallorini li ha guardati e ha detto: “Buona fortuna”.

Rosa e Olindo: quelle confessioni per salvare l'altro dal carcere. Le Iene News il 30 gennaio 2020. Con il quarto appuntamento con le intercettazioni esclusive di Rosa Bazzi e Olindo Romano arriviamo al cuore del caso della Strage di Erba per la quale sono stati condannati all’ergastolo. Ognuno dei due avrebbe confessato per far uscire l’altro dal carcere, pensando di tornare in libertà entro pochi anni "tra attenuanti e rito abbreviato". “Se sono innocenti, perché hanno confessato?”: è questa l’obiezione più forte a chi solleva dubbi sulla colpevolezza di Rosa e Olindo. Le intercettazioni esclusive che potete ascoltare qui sopra e più in basso offrono una spiegazione: l’hanno fatto ognuno per far uscire l’altro dal carcere, pensando di tornare in libertà entro pochi anni "tra attenuanti e rito abbreviato". Con il quarto appuntamento con le intercettazioni esclusive di Rosa Bazzi e Olindo Romano, arriviamo al cuore del caso della Strage di Erba per la quale la coppia è stata condannata all’ergastolo: le confessioni, che verranno poi ritrattate. Nei giorni precedenti vi abbiamo fatto sentire altre intercettazioni esclusive della coppia, in auto, in due telefonate, con un’amica e con un avvocato, il giorno prima di finire in manette e il giorno dell’arresto (cliccando su ciascun link potete ascoltarle o riascoltarle). Continuiamo a proporvele in attesa dell’udienza del 3 febbraio in cui i giudici dovranno decidere della richiesta degli avvocati di Rosa e Olindo di poter esaminare reperti e intercettazioni mai analizzate nel processo. Di tutto questo caso ci occuperemo poi con nuovi servizi e rivelazioni clamorose con il ritorno in onda a febbraio de Le Iene. L’8 gennaio 2007 Rosa Bazzi e Olindo Romano vengono arrestati e portati di fronte ai pubblici ministeri con l’accusa di essere gli autori dei 4 omicidi dei vicini della Strage di Erba dell’11 dicembre 2006. Si dichiarano innocenti e ripetono per l’ennesima volta quello che hanno sempre raccontato dall’inizio delle indagini, che non c’entrano niente, che non sono gli autori della strage, che non sarebbero mai capaci di un gesto del genere. Secondo la legge, sarebbe dovuta finire lì: i pubblici ministeri hanno raccolto le loro dichiarazioni ufficiali e, come prevede la norma, ora sono a disposizione del giudice per le indagini preliminari. Invece, due giorni dopo, il 10 gennaio i coniugi sono di nuovo davanti ai magistrati, questa volta per dichiararsi colpevoli. Com’è possibile che siano finiti a parlare ancora coi pubblici ministeri? La risposta sta nelle intercettazioni che vi facciamo sentire qui sopra. La mattina del 10 gennaio due carabinieri vanno a prendere le impronte digitali a Olindo Romano. Dicono di essersi fermati solo un paio di minuti. Qualche ora più tardi Olindo chiede di essere ascoltato dai magistrati e si dichiara colpevole. Cosa è successo di così cruciale da aver fatto cambiare idea a Olindo? Il dibattimento in aula permette di illuminare questa zona d’ombra. I carabinieri all’inizio della loro deposizione dicono di essersi fermati, il 10 gennaio, qualche minuto, giusto il tempo per prendere le impronte. Successivamente, a domande incalzanti, i due minuti si dilatano a 20, poi a 30 fino a diventare 4 ore. Olindo Romano ha passato l’intera mattinata insieme ai due carabinieri di Como. Uno dei due, Finocchiaro, dice che l’unica preoccupazione di Olindo Romano era Rosa: continuava a ripetere che sua moglie non c’entrava assolutamente nulla, chiedeva che la mandassero a casa. Finocchiaro gli ha detto che se voleva che la moglie andasse a casa, bastava che tornasse dai magistrati e dicesse loro che era estranea ai fatti: “Se sua moglie non c’entra nulla, allora lei Romano qualcosa avrà visto e fatto”. Gli hanno suggerito di chiamare i pubblici ministeri e dire quello che sapeva per scagionare Rosa. Poi, con le attenuanti generiche e il rito abbreviato, lui l’avrebbe raggiunta nel giro di quattro o cinque anni. Fatte queste premesse, si capisce il senso delle due intercettazioni che vi facciamo ascoltare. La prima, che vi proponiamo sopra, è del 10 gennaio alle ore 14.30. Dopo la mattinata passata insieme, i carabinieri accompagnano Olindo da Rosa, prima che lei arrivi, lui si rivolge a uno dei due: “Il suo collega mi diceva che si può anche lavorare (in carcere) e percepire uno stipendio”. Fa riferimento probabilmente a una conversazione avuta nelle ore precedenti in cui si valutava l’eventualità di una confessione e le sue conseguenze penali. Quali siano queste conseguenze è chiarito dallo stesso Romano nel successivo scambio concitato con la moglie:

Olindo: “(il magistrato) Mi ha spiegato e mi ha detto che… loro ci tengono qui perché devono fare ancora delle indagini…”.

Rosa: “Sì”.

Olindo: “Se per disgrazia trovano qualcosa, ti processano e ti danno l’ergastolo. Se invece confessi, hai le attenuanti e il rito abbreviato. Dici la verità che la moglie non c’entra niente ti ha fatto solo l’alibi ecc ecc… e non becchi niente!”.

Rosa: “Ma non è vero, Olli!”.

Olindo: “E io becco le attenuanti e finisce tutta la storia”.

Romano nomina le attenuanti e il rito abbreviato. È difficile immaginare che possa sapere di cosa sta parlando, dato che dall’intercettazione del 7 gennaio con l’avvocato Rocchetti appare del tutto inesperto di questioni legali. Sembrano informazioni che ripete e che ha sentito pronunciare da qualcuno.

A questo punto la situazione prende la svolta brusca e inaspettata che cambierà tutto il corso della loro vicenda processuale.

Rosa: “Come stai tu?”.

Olindo: “Io ti dico la verità. Lì dentro non ce… non ne posso più. Sono in isolamento”.

Rosa: “Anche io”.

Olindo: “E non so. O se continuare così, lasciare fare quello che devono fare e dopo prendere poi quello che si prende. E se non si dice… si fa la confessione…”.

Rosa: “Ma che cosa c’è da confessare? Non siamo stati noi!”.

Olindo: “Lo so, aspetta, per tagliare le gambe al toro, metti che sono stato io…”.

Rosa: “Ma quando sei andato su?”.

Olindo: “Non lo so”.

Rosa: “Dimmi, quando sei andato su?”.

Olindo: “Lo so, Rosa, ma è per far finire questa storia qui”.

Rosa: “Ma perché devi dire quello che non è? Non è vero niente Olli. Sai che non è vero niente tutta questa cosa… ancora adesso io lo dico… E torno sempre a ripetere… ti pesa così tanto?”.

Olindo: “Stare dentro sì”.

Rosa: “Cosa vuoi fare?”.

Olindo: “Non lo so. Se facciamo così prendiamo anche dei benefici e ce ne andiamo a casa”.

Rosa: “Ma cosa vado a fare Olli? Vuoi che esco di qua e mi butto sotto un treno?”

Olindo: “No, quello no, ciccia”.

Sono schiacciati dalla pressione esercitata dall’isolamento in carcere, dallo stare separati per la prima volta dopo vent’anni di vita insieme, dalla fatica di comprendere la situazione in cui si trovano. È in questo contesto che nascono le famigerate confessioni.

La situazione precipita ulteriormente nella seconda intercettazione che vi facciamo sentire: stesso giorno, 10 gennaio alle 15.22, a un’ora scarsa dall’audio precedente.

Rosa resta da sola con un’agente.

Rosa: “Gli deve dire (a Olindo)…”

Agente: “Che cosa?”.

Rosa: “Le cose che sta succedendo, non si deve prendere la colpa, lui si sta prendendo la colpa… ti prego mi aiuti? non deve farlo… gli puoi chiedere solamente se può venire mezzo secondo?”.

E poco dopo:

Rosa: “Lei dà… una notizia a mio marito?”.

Agente: “Ma cosa devo dirgli?”.

Rosa: “Che mi prendo tutto io, di non preoccuparsi che non mi fa paura stare qui dentro. Diglielo ti prego”.

Agente: “Questa cosa non gliela posso dire, questa è una cosa che deve dire al magistrato. Non tocca a me dirglielo”. 

Poco dopo questa conversazione, presa dalla foga di salvare il marito, Rosa rilascia la sua prima confessione ai magistrati, anticipando di fatto quella di Olindo.

Lei dirà: ho fatto tutto io, lui dirà: ho fatto tutto io. Inizia in questo modo la gara a chi si assume per primo la responsabilità della strage.

Strage di Erba, la confessione piena di errori di Rosa Bazzi. Le Iene News il 31 gennaio 2020. Quinto audio sul caso della Strage di Erba dopo le intercettazioni di Rosa Bazzi e Olindo Romano dei giorni scorsi. Questa volta è solo la donna che parla, davanti ai pm: vuole prendersi tutte le colpe per salvare il marito. E nella ricostruzione del massacro accumula tantissimi errori. “Vi prego, non fate del male a Olindo”. Rosa Bazzi va dai magistrati, dice di volersi prendere tutte le colpe della Strage di Erba. Ha in mente solo questo: vuole salvare dal carcere il marito che le ha appena detto di voler confessare a sua volta per farla uscire di prigione. Ma Rosa fa un sacco di errori cercando di ricostruire davanti ai pm come avrebbe compiuto la Strage di Erba. Qui sopra potete ascoltare direttamente le sue parole. È il quinto audio che vi proponiamo dopo le intercettazioni di Rosa e Olindo in auto, in due telefonate con un’amica e con un avvocato, il giorno dell’arresto e prima della loro doppia confessione (cliccando su ciascun link potete ascoltarle o riascoltarle). Ve li abbiamo proposti in attesa dell’udienza del 3 febbraio in cui i giudici dovranno decidere della richiesta degli avvocati della coppia, condannata all’ergastolo per la Strage di Erba, di poter esaminare reperti e intercettazioni mai analizzate nel processo. Di tutto questo caso ci occuperemo poi con nuovi servizi e rivelazioni clamorose con il ritorno in onda a febbraio de Le Iene. Questo ultimo audio che vi proponiamo è dunque un estratto dell’interrogatorio in cui per la prima volta Rosa Bazzi confessa la strage, l’unico acquisito agli atti del processo e che è stato quindi oggetto di dibattimento. È il 10 gennaio 2007, quello che sentite avviene alle 15.25, immediatamente dopo il breve scambio tra Rosa e un’agente di custodia, che vi abbiamo fatto ascoltare ieri. Quando Olindo le comunica di voler confessare "per far finire questa storia" e fare in modo che almeno lei possa andare a casa, Rosa cade in uno stato di grande agitazione. È convinta che il marito non sia in grado di sopportare l’isolamento e il regime carcerario, decide così di “prendersi tutta la colpa lei”, come dice all’agente che l’ha in custodia. Chiede di essere ascoltata dai magistrati Astori, Fadda, Nalesso, Pizzotti, e, all’insaputa del marito, confessa la strage. Quello che le preme di più è liberare Olindo da ogni responsabilità. Rosa Bazzi: “Sono stata io perché non ce la facevo più a sopportarla”. (…)

Pm Astori: “E suo marito dov’era?”.

Rosa Bazzi: “Era da basso e lui non voleva”.

Pm Astori: “Era da basso dove?”

Rosa Bazzi: “Da basso in casa lui, non voleva lui”.

La confessione è piena zeppa di errori e imprecisioni, ricostruzioni al limite del fantasioso, tanto che più volte i magistrati le fanno notare che quello che sta raccontando è fortemente incongruente: “Pensi bene a quello che ha detto perché c’è una bella parte delle cose che ha detto che non sta proprio in piedi”, le dice a un certo punto il pubblico ministero Astori. Per esempio, Rosa dice di aver staccato la corrente dell’appartamento di Raffaella Castagna alle 19.30, mentre secondo il rapporto dell’Enel la corrente è stata tolta alle 17.40. Nel suo racconto, Rosa dice che la prima a scendere dalle scale è stata Valeria Cherubini, moglie di Frigerio, che è arrivato solo dopo aver sentito le urla di lei. Invece Frigerio dice di essere sceso insieme alla moglie, precedendola sulle scale, e di essere stato colpito per primo. Rosa poi afferma di aver visto bene Frigerio in faccia e che lui ha visto bene lei, mentre Frigerio dice di non aver mai visto la Bazzi quella sera, anzi si stupisce molto del suo arresto. Rosa dice di non essere mai salita nell’appartamento di Frigerio e della Cherubini, e di aver ucciso la Cherubini lì sul pianerottolo. La sua versione non coincide con le risultanze dei Ris, in base a cui la Cherubini dopo l’aggressione ha avuto il tempo di fare due rampe di scale e risalire nel suo appartamento, dove poi è stata uccisa con 43 coltellate alla testa, all’addome e alla schiena. Quello che sostiene Rosa è illogico e privo di riscontri. È da ricordare anche che i Ris non hanno trovato dna dei due coniugi né nell’appartamento di Raffaella Castagna, né in quello della coppia Frigerio-Cherubini. Rosa dice di aver appiccato l’incendio con un accendino arancione, ritrovato sulla scena del delitto, ma su quell’accendino le uniche impronte sono quelle di Valeria Cherubini. Nella stessa sessione di interrogatorio si contraddice più volte, per esempio dice di essere stata lei ad appiccare l’incendio, quando venti minuti prima aveva detto che era stato Olindo e quando il magistrato glielo fa notare, lei risponde così: “Ho acceso in cameretta e lui ha acceso in camera matrimoniale”. Sul letto dove è stato appiccato il fuoco è stata rintracciata la presenza di liquido infiammabile, mentre Rosa nega di aver usato un accelerante. Gli stessi magistrati le fanno notare in diverse occasioni che sta mentendo, che quello che sta dicendo non è la verità, non è in grado di descrivere le armi del delitto e la dinamica delle aggressioni che racconta non coincide con le autopsie. In chiusura di interrogatorio Rosa dice che, terminata la strage, lei e Olindo si sono cambiati e sono andati in auto a Como. I soccorritori sono arrivati 5 minuti dopo aver visto il fumo salire dall’appartamento, quindi la coppia, per uscire in auto senza essere vista da nessuno, avrebbe dovuto impiegare 3, 4 minuti al massimo, senza lasciare alcuna traccia di sangue nel loro appartamento, dal momento che i Ris non hanno trovato assolutamente niente in casa, nelle condutture dell’appartamento e nella lavanderia. E se Rosa e Olindo non si sono lavati, come hanno fatto a non sporcare di sangue l’auto su maniglie, volante e cruscotto?

Tutto quello che interessa a Rosa è che i magistrati non facciano del male a Olindo. “Non torturate Olindo, vi prego”, chiede.

Pm Astori: “Non raggiunge il suo scopo così, si fa solo del male a lei e fa solo del male anche a suo marito, e così crea una gran confusione in cui tutti siete sulla stessa barca, come si suol dire. Non pensi che così lei riesce a salvare suo marito e… io mi rendo conto che lei è legata a suo marito”.

Rosa Bazzi: “Da morire”.

Pm Astori. “Che siete molto legati, però…”.

Rosa Bazzi: “Lui non ce la fa a stare qui dentro. Io sono sicura che fa qualche cosa”.

Pm Fadda: “Ma no signora…”

Rosa Bazzi: “Dopo lo perdo per sempre”.

Pm Astori: “Senta signora, nessuno che la fa a stare qua dentro, e tutti quelli che entrano qua dentro in qualche modo sono persi, ma lei è già persa dopo quello che ha fatto, capisce? Deve solo trovare un modo, un modo…”

Rosa Bazzi: “Per prendere io la colpa”.

Pm Astori: “No!”.

Pm Fadda: “No!”.

Rosa Nalesso: “No!”.

L’interrogatorio finisce con Rosa disperata che chiede clemenza per il marito. “Vi prego, non fate del male a Olindo”, “lasciatelo andare” implora in lacrime.

Strage di Erba, negata a Rosa e Olindo l'analisi dei reperti mai esaminati. Le Iene News 4 febbraio 2020. La Corte di Assise di Como ha rigettato per la sesta volta la richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di poter effettuare analisi dei reperti mai esaminati della Strage di Erba, per la quale la coppia è stata condannata all'ergastolo. Potranno avere invece una copia delle intercettazioni. Per la sesta volta la Corte di Assise di Como ha appena rigettato la richiesta degli avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano di poter esaminare i reperti mai analizzati della Strage di Erba, per la quale la coppia è stata condannata all’ergastolo in via definitiva. L’ordinanza è stata emessa dopo l’udienza che ha visto tornare Olindo nella stessa aula dove dodici anni fa è stato condannato in primo grado con la moglie dopo 11 mesi di processo per l’omicidio di 4 vicini di casa l’11 dicembre 2006. L’unica possibilità concessa è quella di avere una copia dei file originali delle intercettazioni ambientali esistenti. Qui sopra potete sentire le intercettazioni di Olindo che dice di voler confessare per salvare Rosa, cliccando qui, quelle della moglie pronta a fare, come farà poco dopo, altrettanto. I legali dei coniugi aveva chiesto ancora una volta l’analisi dei pochi reperti sopravvissuti alla loro distruzione avvenuta per mano del cancelliere dell’Ufficio corpi di reato del Tribunale di Como il 12 luglio 2018. È dalla fine del 2014 che i legali ne chiedono l’esame, la loro istanza era stata già rifiutata due volte dalla Corte d’Assise di Como e tre volte dalla Corte d’Appello di Brescia, nonostante la Cassazione abbia stabilito che la difesa avrebbe potuto fare le analisi così come aveva chiesto fin dall’inizio. Tra i reperti “superstiti”, alcuni dei quali mai toccati, ci sono un’impronta palmare sconosciuta ritrovata sulle scale che conducono al pianerottolo della casa della strage, le unghie del piccolo Youssef, 2 anni, ucciso nella strage, e alcune ciocche di capelli rinvenute sulla sua felpa. Insieme all’analisi, gli avvocati avevano chiesto anche l’accesso al server della procura per rintracciare alcune intercettazioni che i legali dichiarano di non essere mai riusciti ad ascoltare. Alcune di queste sono state effettuate, così come riportano i verbali, ma non sarebbero state allegate ai fascicoli del processo e quindi non sarebbero mai state a disposizione della difesa. Altre sembrano proprio sparite nel nulla e non si capisce perché manchino, dal momento che dalle carte ufficiali le cimici degli inquirenti risultavano in funzione. Questi “buchi”, di giorni e giorni, sono stati scoperti per la prima volta dal giornalista d'inchiesta Edoardo Montolli, che ne dà conto anche nella versione aggiornata del suo libro "Il grande abbaglio". Di Rosa e Olindo non si trovano le intercettazioni ambientali fatte in casa dal 12 al 16 dicembre 2006, proprio a ridosso della strage avvenuta l’11. Si pensi che uno dei motivi che ha convinto della loro colpevolezza i giudici di primo grado è che i due fossero gli unici abitanti della corte di Erba a non parlare dei fatti. Dell’unico testimone superstite, il vicino di casa Mario Frigerio, mancano 38 minuti di intercettazioni mentre si trovava ricoverato in ospedale il 25 dicembre, esattamente nel lasso di tempo in cui riceveva una visita dei carabinieri. Il giorno seguente, per la prima volta, avrebbe detto ai pubblici ministeri che il suo aggressore era Olindo Romano, mentre fino ad allora aveva parlato di un uomo a lui sconosciuto, estraneo a Erba, di carnagione olivastra. Sempre di Frigerio mancano le intercettazioni dal 28 dicembre al 3 gennaio, giorni in cui era a colloquio con lo psichiatra per cercare di capire cosa ricordasse della strage, e dal 6 gennaio al 12 gennaio, giorni successivi all’arresto di Rosa e Olindo in cui si sarebbe potuto sentire la sua reazione alla cattura della coppia. La difesa ha chiesto ai giudici di Como di poter accedere al server per rintracciare e ascoltare tutte le intercettazioni mancanti e colmare i buchi di una vicenda già lacunosa. I giudici hanno negato l’accesso ai server, ma hanno autorizzato gli avvocati  ad avere una copia delle intercettazioni. Di questo caso ci occuperemo ancora con nuovi servizi e rivelazioni clamorose con il ritorno in onda a febbraio de Le Iene. Nei giorni scorsi vi abbiamo fatto sentire 5 audio esclusivi, che potete ritrovare qui sotto assieme a tutti gli articoli e i servizi che abbiamo dedicato alla Strage di Erba. Vi abbiamo fatto sentire le intercettazioni esclusive della coppia, in auto, in due telefonate, con un’amica e con un avvocato, il giorno prima di finire in manette e il giorno dell’arresto e subito prima delle confessioni poi ritrattate (entrambi dicono di volersi prendere tutte le colpe per voler salvare l'altro dal carcere) e alcuni estratti della confessione piena di errori di Rosa.

Rosa e Olindo, lei perde il nuovo amore ucciso durante un permesso premio. Intanto il caso torna in Tribunale. Libero Quotidiano il 10 Gennaio 2020. Rosa Bazzi dopo la separazione forzata da Olindo Romano perde anche il suo nuovo amore in carcere, ucciso durante un permesso premio, come rivela Settimanale Giallo, e intanto il caso di Erba torna in Tribunale a Como. Lunedì 3 febbraio, a più di 13 anni dalla strage dell'11 dicembre 2006, la Corte d'Assise dovrà infatti decidere sull'atto di opposizione della difesa di Olindo e Rosa - che potrebbero essere presenti in aula - contro il "no" della stessa Corte a nuove analisi su alcuni reperti mai esaminati. Nel mese di aprile scorso, ricorda il corrieredicomo.it, la Corte d'Assise ha bocciato la richiesta della difesa di nuove analisi. I legali Fabio Schembri e Luisa Bordeaux si sono rivolti alla Cassazione, che ha richiamato in causa il Tribunale di Como. L'udienza sarà a porte chiuse. Al termine i giudici si riuniranno in camera di consiglio e dovranno poi depositare la loro decisione. I reperti che la difesa chiede di analizzare sono alcuni campioni biologici conservati al Ris di Parma, e un telefono cellulare che era stato ritrovato in uno scatolone all'interno dell'ufficio corpi di reato del Tribunale di Como. La difesa spera di poter arrivare a presentare una istanza di revisione del processo che si è concluso con la condanna definitiva all'ergastolo dei responsabili dell'uccisione di Raffaella Castagna, del figlio Youssef, della mamma Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini, oltre che del ferimento di Mario Frigerio, poi scomparso nel settembre del 2014.

Marco Della Corte per il Giornale il 9 gennaio 2020. Rosa Bazzi ha lanciato un grido di dolore per la morte del detenuto Marco Alberti, l'ergastolano di cui era innamorata. Ricordiamo che la 56enne sta scontando la pena dell'ergastolo presso il carcere di Bollate in quanto autrice (assieme al marito Olindo Romano) della famigerata strage di Erba. La donna, una volta venuta a conoscenza dell'uccisione di Alberti, è sprofondata nella disperazione più totale. Rosa aveva riposto in Marco quell'amore di donna che nei riguardi di Olindo era oramai svanito. Il 60enne è morto lo scorso 16 dicembre, sembra che avesse fatto tornare il sorriso sul volto di Bazzi dopo tanto tempo. Il settimanale Giallo parla di una voglia di vivere ritrovata, tanto da spingere Rosa a chiedere al tribunale di sorveglianza la semilibertà per motivi di lavoro. In realtà, i giudici non si sono ancora espressi sulla richiesta della donna, ma questo elemento è divenuto di secondaria importanza dopo la notizia del decesso di Alberti. Marco Alberti, detto Mirko, originario di Verona, era stato condannato all'ergastolo per un omicidio compiuto nel 1998. L'uomo, che si trovava in semilibertà, è stato travolto ed ucciso da un'autovettura a Corsico, nell'hinterland milanese. Al momento dell'uccisione, Alberti stava percorrendo a piedi la statale 494. Il suo investitore è un ragazzo di 30 anni che, dopo l'incidente, si era fermato a soccorrere l'uomo, ma il suo intervento è stato del tutto inutile. Il 60enne è morto in ospedale a causa delle gravi ferite procurategli dall'impatto con l'auto. Marco Alberti poteva uscire durante il giorno, con l'obbligo di rientro in carcere in orario serale. Aveva fatto perdere la testa a Rosa Bazzi. I due si erano conosciuti quando Rosa aveva iniziato a lavorare come volontaria presso il laboratorio del cuio della sezione maschile del carcere di Bollate. Marco Alberti fu ritenuto colpevole dell'uccisione del pregiudicato trentino Antonio Panazzo, freddato con tre colpi di pistola nell'aprile del 1998. Dopo l'omicidio, Alberti ne bruciò il cadavere, occultandone i miseri resti in una discarica sita sotto un cavalcavia in provincia di Verona. Il criminale venne incastrato dagli inquirenti dopo un'indagine durata 2 anni, quando venne identificato il corpo senza vita di Panozzo. Marco, una volta arrestato, chiese uno sconto di pena divenendo collaboratore di giustizia. Nonostante ciò, i giudici della cassazione confermarono ad Alberti la condanna al carcere a vita. Tuttavia, nell'estate del 2019 era riuscito ad ottenere la semi-libertà grazie alla buona condotta.

Rosa Bazzi: "Innamorata di un altro carcerato? Falso, è un depistaggio". La donna è condannata all'ergastolo, insieme al marito Olindo Romano, per la strage di Erba. Al settimanale Oggi rivela: "Sono solo stupidate". Francesca Bernasconi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Rosa Bazzi innamorata di un altro carcerato? La notizia era circolata nei giorni scorsi, ma ora dalla diretta interessata arriva la smentita, secondo le rivelazioni fatte dal suo legale al settimanale Oggi. La donna si trova all'ergastolo, perché considerata colpevole, insieme al marito, della strage di Erba, quando, l'11 dicembre del 2006, in un appartamento del centro furono uccisi il piccolo Youssef Marzouk, Raffaella Castagna, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Nella strage rimase ferito anche il marito della vicina, Mario Frigerio: colpito alla gola dagli assassini e creduto morto, l'uomo si salvò solamente grazie a una malformazione della carotide. Secondo alcune indiscrezioni dei giorni scorsi, in carcere, Rosa Bazzi si sarebbe innamorata di un altro detenuto nell'istituto penitenziario di Bollate, Marco Alberti. L'uomo, morto qualche poco tempo fa, dopo essere stato investito sulle strisce pedonali a Corsico(era in stato di semilibertà), era il titolare di una cooperativa all'interno del carcere, nella quale era impiegata anche Rosa. Ma ora, da Rosa arriva la smentita. Al settimanale Oggi, la donna, tramite uno dei suoi avvocari, ha rivelato: "È una stupidata. Io vorrei sapere chi mette in giro queste bugie che servono solo a far male alle persone". E sul suo impiego nella coperativa di Alberti, suo presunto amore, Rosa Bazzi specifica: "Il lavoro che facevo l'ho scelto perché me lo ha proposto il carcere, non certo per amore". Ma le rivelazioni dei legali della donna non si fermano qui. E uno degli avvocati aggiunge un sospetto: "Non vorrei che questi pettegolezzi, peraltro falsi, servissero a sviare l'attenzione da fatti ben più importanti, resi pubblici proprio nelle stesse date". Il difensore della donna si riferisce alla notizia dell'udienza in Corte d'Assise a Como fissata per il 3 febbraio, che servirà a "stabilire l’analisi dei reperti rimasti dopo l’illecita distruzione avvenuta a opera di un cancelliere del tribunale e l’accesso ai server delle intercettazioni, in modo che si possa capire che fine abbiano fatto quelle scomparse della coppia e soprattutto dell’unico testimone Mario Frigerio".

Edoardo Montolli per frontedelblog.it il 18 gennaio 2020. Cosa succederebbe se domani Olindo e Rosa si lasciassero? Se venisse meno quel legame che li ha tenuti uniti e vivi pur con il marchio di mostri cucito addosso? Avrebbero ancora la forza di combattere e di protestare la propria innocenza come fanno ormai da dodici anni, sperando un giorno di ritrovarsi fuori? Forse no. Se sei innocente, sopravvivi ad un diluvio del genere solo se sai che qualcuno ancora ti aspetta. Altrimenti diventa perfino inutile combattere. La premessa è da tenere bene in conto, perché mai come oggi il caso della strage di Erba presenta aspetti inquietanti: ci sono intercettazioni misteriosamente scomparse nonostante le quali viene rifiutato l’accesso ai server originali alla difesa; ci sono reperti apparsi all’improvviso dopo anni, mai analizzati ma bruciati illecitamente poche ore prima che la Cassazione ne decidesse il destino; ci sono plichi contenenti reperti (un telefonino) ritrovati, ma aperti non si sa da chi né quando perché privi del relativo verbale. C’è ancora che la società che ha consegnato i dvd delle intercettazioni alla difesa risulta composta per il 40% da una società anonima svizzera, di cui in sostanza si ignorano buona parte dei proprietari. C’è, pure, il padre, marito e genero di tre delle vittime, Azouz Marozuk, che chiede lui di farsi processare pur di sostenere che i coniugi siano innocenti. Ci sono infine le sentenze della Suprema Corte che indicano alla Corte d’Assise di Como di tenere un’udienza per stabilire cosa fare con i reperti rimasti e per l’accesso ai server: udienza fissata per il 3 febbraio. La difesa ha chiesto un’udienza pubblica, forte di una decisione inequivocabile della Corte Costituzionale. Ma a Como hanno deciso che sarà in Camera di Consiglio. Materiale su cui scrivere ce n’è, insomma, davvero parecchio. Senonché, a dicembre, muore a Corsico un detenuto ergastolano in semilibertà, Marco Alberti, investito sulle strisce. Nessuno ne sa nulla per una ventina di giorni. Poi, ecco il boato della settimana scorsa: diventa virale la notizia che Alberti era l’amante di Rosa, la quale avrebbe nientemeno che mollato Olindo per amore suo. Sui giornali, dove si stracciano le vesti per le ridicole battaglie contro le fake news, la notizia viene subito presa per buona, dimostrando ancora una volta quanto sia pericolosa e grottesca la loro presa di posizione: Alberti, in questa fake news certificata dalla stampa nazionale, diventa addirittura il “nuovo compagno” per cui Rosa aveva perso la testa. Solo che si tratta di una balla. Un’invenzione bell’e buona. Mero veleno. Lo conferma la stessa Rosa a Oggi: «È una stupidata. Io vorrei sapere chi mette in giro queste bugie che servono solo a far male alle persone». Già, perché non c’è mai stato alcun amante. Rosa e Olindo non si sono mai lasciati. E peraltro la bufala non è nemmeno nuova: l’avevano già servita la scorsa primavera. Ma al contrario: all’epoca fu scritto infatti che era Alberti, e non Rosa, ad aver perso la testa per la vicina di Erba, tanto da rifiutare la semilibertà per quella ragione. A smentirla fu prima il carcere, poi il diretto interessato, che peraltro, una compagna l’aveva. Il giorno prima che un quotidiano comasco la diffondesse, però, Rosa aveva rilasciato un’intervista fiume a Le Iene, in cui raccontava con violentissime accuse presunti retroscena delle sue confessioni. Scrissero sul sito gli autori della trasmissione: «Noi ci permettiamo di osservare la strana coincidenza temporale di questa notizia, arrivata proprio il giorno dopo la nostra lunga intervista a Rosa Bazzi». Infatti si parlò poco o nulla delle rivelazioni della donna e molto della notizia inventata, quella dell’amante. La stessa, cavalcata oggi, al contrario. Perché tanto Alberti è morto e non può smentire più. E Rosa nessuno si prende la briga di sentirla, perché c’è fake news e fake news. Quelle sulla coppia vanno sempre bene, ne hanno prodotte a quintali. Olindo per sua fortuna è abituato ai veleni. Sopporta da dodici anni il carcere e il marchio da mostro che dice di non essere. Un altro, al posto suo, di fronte ad una notizia del genere, una notizia letteralmente inventata, avrebbe agito d’istinto e si sarebbe ammazzato. Niente più battaglie per gridare la propria innocenza. Niente più ricorsi. Niente di niente. Il sipario sulla strage di Erba sarebbe calato per sempre.

Da Oggi - oggi.it il 15 gennaio 2020. «È una stupidata. Io vorrei sapere chi mette in giro queste bugie che servono solo a far male alle persone». Così ha riferito Rosa Bazzi, condannata all’ergastolo insieme al marito per la strage di Erba, a uno dei suoi avvocati, Diego Soddu. Il legale ha rivelato a OGGI la smentita della sua assistita sul presunto amore che avrebbe avuto nel carcere di Bollate per Marco Alberti, detenuto in semilibertà investito sulle strisce pedonali a Corsico qualche settimana fa. Alberti, condannato per omicidio, era il titolare di una cooperativa che lavora il cuoio all’interno della casa circondariale, nella quale sono impiegate quattro o cinque persone, tra cui Rosa: «Ma il lavoro che facevo l’ho scelto perché me lo ha proposto il carcere, non certo per amore», ha detto la donna al legale. E il collega Fabio Schembri aggiunge: «Non vorrei che questi pettegolezzi, peraltro falsi servissero a sviare l’attenzione da fatti ben più importanti, resi pubblici proprio nelle stesse date. Ovvero, per il 3 febbraio è stata finalmente fissata l’udienza in Corte d’Assise a Como per stabilire l’analisi dei reperti rimasti dopo l’illecita distruzione avvenuta ad opera di un cancelliere del tribunale e l’accesso ai server delle intercettazioni, in modo che si possa capire che fine abbiano fatto quelle scomparse della coppia e soprattutto dell’unico testimone Mario Frigerio».

Da corrieredicomo.it il 10 gennaio 2020.  Lunedì 3 febbraio, a più di 13 anni dal massacro dell’11 dicembre 2006, in Tribunale a Como si tornerà a parlare della strage di Erba. La Corte d’Assise dovrà infatti decidere sull’atto di opposizione della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi contro il “no” della stessa Corte a nuove analisi su alcuni reperti mai esaminati. I coniugi responsabili del massacro e condannati in via definitiva potrebbero essere in aula. Nel mese di aprile scorso, la Corte d’Assise ha bocciato la richiesta della difesa di nuove analisi. I legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux si sono rivolti alla Cassazione, che ha richiamato in causa il Tribunale di Como. I giudici romani infatti hanno qualificato l’azione della difesa come un reclamo e hanno dunque indicato proprio la Corte d’Assise come collegio competente a decidere. L’udienza è stata dunque fissata per il 3 febbraio prossimo alle 11.30 e sarà a porte chiuse. Saranno presenti i promotori del ricorso, quindi la difesa dei coniugi responsabili della strage e l’accusa, che sarà rappresentata da uno dei magistrati che nel 2006 hanno coordinato l’inchiesta sul massacro di Erba. Olindo Romano e Rosa Bazzi, come detto, hanno la possibilità di partecipare e potrebbero dunque tornare nella loro città. Al termine i giudici si riuniranno in camera di consiglio e dovranno poi depositare la loro decisione. Non ci sarà una lettura pubblica. I reperti che la difesa chiede di analizzare sono alcuni campioni biologici conservati al Ris di Parma, e un telefono cellulare che era stato ritrovato in uno scatolone all’interno dell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Como. La difesa spera di poter arrivare a presentare un’istanza di revisione del processo che si è concluso con la condanna definitiva all’ergastolo dei responsabili dell’uccisione di Raffaella Castagna, del figlio Youssef, della mamma Paola Galli e della vicina Valeria Cherubini, oltre che del ferimento di Mario Frigerio, poi scomparso nel settembre del 2014.

·         Nascita di un processo mediatico.

“Le notizie non sono solo quelle che passano i Pm…”, parla il presidente dei giornalisti campani Ottavio Lucarelli. Viviana Lanza su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Indagati e arrestati finiscono sulle prime pagine di giornali e telegiornali, assolti e scarcerati invece difficilmente fanno notizia mentre i processi durano anni nei tribunali e pochi clic sul web dove quasi sempre si risolvono con una condanna senza appello da parte del “popolo dei like”. Chi si ritrova a essere vittima di errori giudiziari spesso è stato anche una vittima della cosiddetta gogna mediatica. E se sul piano giudiziario, per ridurre il più possibile i margini di errore del sistema, si propone di intervenire sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla depenalizzazione, quali proposte potrebbero essere valutate nel campo dei media? Ne parliamo con Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Campania. «Premesso che non amo il termine gogna mediatica, sono d’accordo con l’inchiesta che sta portando avanti il Riformista nel senso che ci sono sicuramente alcuni fattori, anche esterni al mondo dell’informazione, che creano situazioni a danno di persone assolte dopo essere state per molti anni sotto processo».

Quali sono questi fattori?

«Un primo fattore è la lunghezza delle inchieste e dei processi. Questo determina che, quando una persona viene indagata o arrestata, si fanno grandi titoli, aperture di pagina e la vicenda viene seguita per alcuni giorni. Poi, però, si passa ad altre cose. I processi si concludono in tempi troppo lunghi e all’interno delle redazioni non ci sono le forze per seguirli per anni e anni. Perciò accade che la notizia dell’assoluzione a distanza di tanto tempo dall’arresto, quando magari la persona non ricopre nemmeno più un ruolo pubblico o istituzionale, è una notizia a cui non viene dato lo stesso risalto dato anni prima alla notizia dell’inchiesta o dell’arresto. Può inoltre accadere che, negli anni, il collega della giudiziaria cambi e anche sotto questo aspetto la lunghezza dell’iter giudiziario non aiuta. Ciò non vale come giustificazione, ma è uno dei fattori che va considerato. Poi bisogna tener conto che al vertice di un giornale c’è un direttore, è lui che decide».

Volendo, quindi, valutare il modo con cui un giornale sceglie di trattare una notizia di cronaca giudiziaria, cosa si potrebbe fare per bilanciare i diritti di tutti?

«Si dovrebbe dare spazio alla difesa come lo si dà all’accusa. In questo senso rivolgo un invito ai direttori a dare più spazio alla difesa. E questo sempre. Gli avvocati hanno tutte le carte per dare informazioni ai cronisti. Quindi, va bene dare le notizie senza nascondere nulla, anche quando ci sono persone arrestate, ma è altrettanto giusto dare spazio alle tesi difensive, anche nella titolazione. Se si fa un titolo su un arresto o su un’inchiesta, bisogna che ci sia un occhiello o un sommario in cui si dà spazio alla difesa. Spesso, infatti, le lamentele riguardano proprio la titolazione».

E sui social?

«Qui ci si incammina su un terreno minato e l’appello che lanciamo come Ordine è rivolto ai giornalisti: sui social c’è di tutto e non bisogna prendere per buone tutte le notizie se non arrivano da fonti dirette e qualificate. Non è possibile fare il copia-incolla per poi scoprire che la notizia non è vera, è gonfiata o distorta. È necessario rispettare le regole e la nostra deontologia professionale».

È una questione di etica, dunque, di professionalità, ma anche di formazione…

«Certamente. Ed è fondamentale l’uso della terminologia. Bisogna utilizzare una terminologia corretta, è un principio che vale per tutti i settori dell’informazione ma ha un peso particolare nella cronaca giudiziaria».

Su questi temi ci sono iniziative da parte dell’Ordine dei giornalisti?

«Abbiamo avviato un dialogo con alcune Procure della Campania ed è nostra intenzione creare una Commissione presso l’Ordine che segua i contatti con le Procure per tenere un filo diretto su tutti i rapporti tra autorità giudiziaria e giornalisti».

Le vittime della gogna mediatica vanno risarcite subito. Fiammetta Modena su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Ragionando di riforma della Giustizia e del processo penale, è necessario normare e regolamentare il fenomeno molto grave che vede instaurarsi, in un binario parallelo a quello del processo, un vero e proprio “processo circense”. Preferisco la definizione di processo circense a quella più comune di “processo mediatico”, perchè è lo spettacolo “solenne” che in epoca romana si dava al circo. Di questo infatti si tratta: si dà in pasto alla pubblica opinione un nome, con la solennità di pezzi di indagini, di intercettazioni, di conferenze stampa della polizia giudiziaria. Un circo, appunto, “solenne”. Il “processo circense“ avviene fuori dal perimetro delle aule giudiziarie, dai suoi princìpi e dalle sue regole: si delinea la figura del colpevole e si consegna l’accertamento delle responsabilità all’opinione pubblica. In tal modo la società emette giudizi che prescindono dal processo reale, una sentenza senza appello, senza difesa, indelebile nella memoria collettiva e nei motori di ricerca della rete. Le “sentenze circensi” sono inscalfibili, irreversibili e incontrovertibili, per lo più quando in sede giudiziaria emerge poi con evidenza l’innocenza di chi viene processato. Chi è innocente e viene coinvolto nel processo subisce due forme di vittimizzazione: una legata alla sofferenza dovuta alla vicenda processuale, l’altra causata dal processo circense. Chi è colpevole subisce una doppia pena, quella inflitta dallo Stato e quella del processo circense e con lui i familiari, gli amici che restano (pochi). È tempo che le vittime del processo circense siano risarcite con forme di compensazione, siano esse riconosciute innocenti o colpevoli in sede di giudizio. Va riconosciuta la sofferenza da processo. A tale scopo la comunità giuridica e il Parlamento, in sede di riforma del processo penale, devono individuare una definizione di processo circense ampia e articolata, comprendente la rappresentazione della realtà che opera un parallelo accertamento delle responsabilità fuori dalla sede naturale del processo, coinvolgendo il giudizio dell’opinione pubblica e arrecando un irreversibile pregiudizio al soggetto del suddetto processo. Come emerge con chiarezza dal Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, a cura dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali, “quando il processo giunge al dibattimento, le paginate di notizie scompaiono e l’informazione sulla singola vicenda giudiziaria si immerge nel silenzio (sospeso solo saltuariamente se viene ascoltato qualche teste eccellente, possibilmente a sostegno dell’accusa)”. Tutta la comunità giuridica conosce il ragionamento propositivo svolto dal professor Vittorio Manes in un articolo pubblicato sulla rivista Diritto Penale Contemporaneo, dal titolo La vittima del processo mediatico: misure di carattere rimediale. Quando vengono violati diritti fondamentali come il rispetto della vita privata e familiare (articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo), o la presunzione di innocenza e il diritto all’equo processo (articolo 6), lo Stato deve agire da garante non solo predisponendo meccanismi volti a limitare le fughe di notizie e le violazioni del segreto istruttorio, ma anche attuando misure che permettano un’adeguata forma di riparazione delle vittime. Lo Stato deve pertanto farsi garante di queste istanze poiché la Convenzione europea dei diritti dell’uomo lo obbliga a garantire diritti e libertà fondamentali con tutti i mezzi. Alla luce di tutto ciò, trovare dei rimedi alla “sentenza circense”, fatta di sensazionalismo, colpevolizzazione preventiva, non è più procrastinabile. I rimedi possono essere, come suggerito da Manes, la possibilità per il giudice, in sede di determinazione della pena, e su istanza di parte, di considerare la sottoposizione a processo mediatico circostanza attenuante generica e la previsione di un rimedio a carattere indennitario, sul modello della “Pinto”. I danni del processo mediatico devono essere altresì valutati quando coinvolgono una intera comunità, che deve essere legittimata a chiedere una riparazione. L’esempio più recente è quello della mia città, Perugia, e delle sue università che hanno ricevuto un danno irreversibile, a livello internazionale, dalla notizia del calciatore Suarez e del suo esame. Un danno non comparabile alla gravità dei reati ipotizzati, tale da far titolare a Repubblica La caduta a precipizio. Chi risarcirà coloro che vivono della presenza degli studenti, stranieri e non, in una città che vive di questo come gli affittuari, i negozi, i ristoranti, le attività turistiche, scientifiche, culturali? Le proposte del Governo sulle riforme oggi all’esame del Parlamento sono una risposta debole, insufficiente anche nelle previsioni della responsabilità disciplinare, inadeguata alla gravità del processo circense e delle sue conseguenze sui singoli. Se non si vuole rispettare la Costituzione, quanto meno si tenga conto della Corte europea dei diritti umani e si metta fine allo scempio della vita privata e familiare di chi “capita sotto la ruota”. Perchè può capitare a tutti.

La fame di verità nell’Italia delle trame. I colpevoli scoperti, il grande desiderio di un popolo con la giustizia meno giusta. Roberto Marino su Il Quotidiano del Sud l'11 ottobre 2020. Tutti a indagare, a investigare, a caccia di colpevoli e di verità. Quanti segugi del crimine gli italiani hanno visto sfilare sullo schermo di Mamma Rai e non solo. Dal mitico tenente Sheridan, sigaretta e impermeabile sempre dietro, al vicequestore Schiavone, poliziotto atipico con la passione delle canne in un’Aosta gelida e piena di intrighi. E poi Ingravallo, Montalbano, il maresciallo Rocca, Nero Wolfe. Una lista infinita, la passione per il mistero, le trame oscure, i malvagi e l’ossessione del lieto fine. Tranne qualche epilogo a sorpresa del commissario di Vigata, i cattivi vengono acciuffati e puniti, la giustizia arriva rapida e puntuale, fino a farci cambiare canale rilassati e felici. E quando non sono bastati i nostri, sono arrivati gli altri, la signora in giallo, l’ispettore Derrick. Senza contare le serie tratte da storie vere come quella del Capitano Ultimo, di scena su altre emittenti. I delitti, la paura e le nefandezze dell’umanità raccontate e identificate con i colori: giallo, nero, quasi un’etichetta per non fare confusione con le altre storie della vita. Un esercito di poliziotti, carabinieri, detective privati a caccia del bene più prezioso e raro di un popolo: la verità. Le loro vicende assorbite come un placebo per curare l’ansia e la voglia che tutto sia sempre chiaro, giusto, con i cattivi nel posto che meritano e i buoni protetti, tranquilli, in salvo. L’effetto rassicurante, come fiabe per adulti, dove ogni sfregio o strappo viene rimesso a posto e torna come prima. Dall’indignazione e l’angoscia per il fattaccio iniziale alla conclusione rassicurante. Il sacrilegio accomodato con la giustizia che mette ordine a ogni cosa. Ogni comunità ha i suoi eroi al servizio della verità e paladini dello status quo. Noi italiani abbiamo forse un motivo in più per tuffarci nelle giornate piene di Sheridan o di Montalbano. Abbiamo una fame di verità maggiore, dopo mezzo secolo di stragi, strategie della tensione, misteri ingloriosi. Siamo ancora qui che aspettiamo l’esito finale, senza ombre e dubbi, su Piazza Fontana, Ustica, la stazione di Bologna. Non sappiamo nulla della scomparsa di due ragazze vicine agli ambienti del Vaticano, non si trovano neanche i resti del giornalista De Mauro. Sono talmente tanti i nostri misteri che alla fine da qualche parte dobbiamo avere una consolazione che ci faccia ancora sperare e avere fiducia. E poi volete mettere: in una puntata di 90 minuti si arriva alla conclusione, senza i decenni degli iter giudiziari, i passaggi nei vari gradi di giudizio. Le eccezioni, i cavilli, le prescrizioni. E senza gli errori o l’innocente che finisce dentro. La verità, solo la verità, niente altro che la verità. La Rai ha messo in campo il meglio, con attori, registi, sceneggiatori che hanno reso veri, indimenticabili i personaggi delle storie del crimine, creando figure epiche (si pensi alla Piovra) impegnate nella lotta alle grandi mafie, un altro dei nostri prodotti tipici. Successo scontato e garantito: il Paese che ancora dà la caccia agli assassini di Giulio Cesare ha trovato il modo di evadere dalla realtà. La verità, la verità, la verità. Il vero patrimonio nascosto di un popolo sfiduciato che non vuole arrendersi.

Da Mani Pulite a oggi. Sentenza anticipata, lo strumento nato con Tangentopoli e utilizzato ancora oggi (che ha distrutto Cosentino e colpito Renzi e Salvini). Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'11 Ottobre 2020. Caro direttore, il suo è stato l’unico quotidiano che ha dato risalto nei titoli, nelle foto, negli articoli all’assoluzione di Nicola Cosentino. I grandi quotidiani hanno relegato la notizia in uno spazio che era visibile solo per chi la conosceva già e l’andava a cercare. Il Fatto Quotidiano ha balbettato. Saviano non pervenuto. Guai, però, se trattiamo questi episodi e altri (la richiesta di condanna a 8 anni per Nunzia De Girolamo e anche i guai giudiziari di Renzi e di Salvini) come una serie di singoli episodi. No, essi e molti altri rientrano nel fatto che dal 1992-1994 i Pm e il circo mediatico ad essi collegato hanno conquistato il potere in questo paese. Ciò è derivato da una serie di operazioni concatenate che hanno portato al quasi totale cambiamento del sistema politico, dei soggetti politici, dei leaders del nostro paese. Questa operazione, non per banalizzarne lo spessore che è profondo, ma per cogliere lo strumento “attuativo” che è stato adottato dal 1992 in poi, avendo come retroterra la congiunzione fra l’iniziativa giudiziaria e l’impatto mediatico (che è fondamentale) ha preso il nome di “sentenza anticipata”. Il termine è stato brillantemente spiegato dal “cervello” di Mani Pulite che è stato il procuratore Borrelli. In un libro intervista Borrelli ha spiegato cosa si intende per “sentenza anticipata”. Noi la traduciamo in pillole. «Se io Pm invio a te uomo politico, che come tale hai un fondamentale problema di prestigio nei confronti della pubblica opinione e di consenso nei confronti dei cittadini elettori, un avviso di garanzia (il massimo degli effetti sarebbe una bella custodia cautelare) sparato dai maggiori quotidiani, dal quotidiano locale e da alcune televisioni il gioco è fatto: tu sei azzerato come personalità politica sia sul terreno del prestigio che del consenso e a quel punto la sentenza è stata data. Se poi dopo sette anni tu sei assolto con sentenza definitiva dalla magistratura giudicante ciò vale per la tua biografia personale, ma è insufficiente sul piano politico: da tempo prestigio e consenso sono evaporati. Se un’operazione siffatta poi non colpisce solo il “leader maximo” di un partito, ma viene estesa a 1.000-2.000 dirigenti nazionali e locali come negli anni ’92-’94 avvenne per la DC e per il PSI (per il PRI, il partito degli onesti secondo Giorgio La Malfa, il PLI, il PSDI bastò colpire i segretari) ecco che il centro-destra della DC (la sinistra DC venne risparmiata) e l’intero PSI sono stati azzerati. Allora prima di parlare di Nicola Cosentino, e anche di Nunzia De Girolamo, non si può non fare un passo indietro e tornare da dove tutto è partito, cioè da Mani Pulite. Ora, quale fu l’operazione eversivo-rivoluzionaria messa in atto da Mani Pulite? Una cosa semplicissima. Da sempre, dalla fondazione della repubblica tutti i partiti si sono finanziati in modo irregolare. La DC e i partiti di governo erano finanziati dalla FIAT, dall’Assolombarda, dalla Montecatini, poi dalle industrie a partecipazioni statali, addirittura l’ENI con Enrico Mattei e Albertino Marcora tenne a battesimo la sinistra di Base che ha svolto un ruolo politico fondamentale nella DC. A sua volta il PCI ha avuto fino agli anni ’80 enormi finanziamenti dal KGB, poi dalle cooperative rosse, ma anche da privati, una rete di società import-export per privati italiani e per paesi comunisti dell’Est e ha goduto di una permanente rendita petrolifera proveniente dall’ENI di cui ha parlato diffusamente Gianni Cervetti nel suo libro L’oro di Mosca. Il PSI fino all’avvento di Craxi è stato finanziato dal maggiore partito alleato, ai tempi del frontismo attraverso il PCI, dal KGB e dalle cooperative rosse, ai tempi del centro-sinistra attraverso la DC, da aziende dell’Iri e dall’ENI, più imprenditori privati, qualche amico personale di Pietro Nenni, come il vecchio Rizzoli. Gli uni sapevano degli altri. Cossiga ha ricordato che il ministero dell’Interno seguiva gli “scambisti” che traducevano in lire i rubli e i dollari che provenivano dall’URSS al PCI. Parliamoci chiaro: se il metodo e le scelte del pool di Mani Pulite fosse stato adottato nella prima fase della Prima Repubblica De Gasperi, Fanfani, Andreotti, Saragat, Malagodi, La Malfa, Nenni, Morandi, Togliatti, Secchia, Amendola avrebbero avuto guai giudiziari assai seri. Poi quando andò avanti la politica di unità nazionale (’76-’79) e comunque diminuì la tensione fra gli USA e l’URSS, si arrivò anche a operazioni di finanziamento comuni: ad esempio in Italstat venivano gestiti gli appalti per le grandi opere pubbliche: le grandi imprese private e pubbliche dell’edilizia gestivano di comune intesa a rotazione l’assegnazione degli appalti. Da un certo momento in poi alle cooperative rosse fu riservata una quota oscillante fra il 20 e il 30%. Bene, ad un certo punto, specie dopo la sottoscrizione del trattato di Maastricht che imponeva mercato e libera concorrenza, il sistema di Tangentopoli risultò antieconomico. In più con il crollo del muro di Berlino (1989) e la fine del PCUS (1991) i grandi gruppi privati italiani riconobbero sempre meno il ruolo dei partiti, in primis della DC e del PSI. Allora, in uno Stato normale si sarebbe dovuto fare una grande operazione consociativa, magari anche con un’amnistia, nella quale tutto il sistema del finanziamento irregolare veniva smontato, casomai rafforzando il finanziamento pubblico e realizzando una rigorosa regolamentazione dei partiti (art. 49 della Costituzione) per assicurare la democrazia interna. Avvenne tutto il contrario. Un’amnistia ci fu, nel 1989, ma essa servì a preservare il PCI da azioni giudiziarie derivanti dall’enorme finanziamento del KGB di cui aveva goduto. Dopodiché c’è stato il più assoluto arbitrio, due pesi e due misure. Il nucleo originario del circo mediatico-giudiziario che ha dato vita a Mani Pulite è stato costituito dal pool dei Pm di Milano, con gip annesso, dai quattro principali quotidiani (Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità) i cui direttori o loro incaricati si sentivano ogni sera alle 19 per concordare titoli e aperture sulla base degli input provenienti dal pool dei Pm, il Tg3 (Sandro Curzi già direttore di Radio Praga), Samarcanda (Santoro), le reti Mediaset che Berlusconi aveva messo a disposizione del pool per evitare i guai giudiziari che stavano colpendo gli imprenditori amici di Craxi (arresto di Salvatore Ligresti). Al suo decollo il circo mediatico-giudiziario non aveva rapporti politici preferenziali neanche con il PCI: quello che voleva era smontare il ruolo e l’influenza dei partiti. Sono stato personalmente testimone della preoccupazione, anzi dell’angoscia di qualcuno dei massimi dirigenti del PDS che sapeva benissimo che il loro partito faceva parte del sistema del finanziamento irregolare. Non a caso al centro delle preoccupazioni era specialmente il PDS di Milano: poco dopo fu arrestato Cappellini, segretario della federazione, berlingueriano di stretta osservanza, non migliorista. Adesso è emerso che Cuccia interpellò Craxi perché lanciasse un’operazione di leadership personale di stampo gollista: Craxi rifiutò perché si sentiva di appartenere al sistema dei partiti e così segnò la sua rovina, in breve tempo divenne “il cinghialone”, colui che impersonava quel sistema politico-partitico che doveva essere smontato con le buone o con le cattive. Per una fase specialmente Borrelli – il più colto e aristocratico del pool – accarezzò il disegno che ad un certo punto Scalfaro chiamasse un nucleo di magistrati a svolgere un ruolo di supplenza politica nella guida dello Stato. Scalfaro non se la sentì e a quel punto ebbe buon gioco il vice di Borrelli Gerardo D’Ambrosio, da sempre esplicitamente comunista, a spingere il pool ad un’alleanza con il PDS, visto che già nel passato il partito era stato alleato della magistratura sul terrorismo e nella lotta alla mafia. Così avvenne (e, dopo essere andato in pensione, D’Ambrosio per 3 legislature è stato eletto parlamentare del PDS). Quindi da un certo momento in poi scattò l’alleanza fra il pool e il PDS. L’alleanza non escludeva che esponenti locali o dirigenti delle cooperative fossero perseguiti. Essa però escludeva che venissero colpiti i massimi dirigenti nazionali: Craxi e Forlani non potevano non sapere, Occhetto e D’Alema potevano non sapere. L’operazione fu smaccata nel caso Enimont. Malgrado che è risultato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure portando una valigetta con un miliardo e che Sama e Cusani che avevano partecipato all’operazione sono stati condannati come corruttori, invece nessun corrotto è stato perseguito. «E che mandavo l’avviso di garanzia al signor PCI?», si è domandato quel garantista del Pm Antonio Di Pietro. Successivamente – registriamo la concomitanza solo in termini oggettivi – egli fu eletto dal PDS nel Mugello e poi il suo partito, Italia dei Valori, fu l’unica formazione politica ammessa da Veltroni in alleanza alla lista del PD. Allora, partendo da questa scelta, in Italia si è verificata una cosa unica in Europa: ben cinque partiti rappresentati da sempre in parlamento sono stati eliminati non dal voto degli elettori, ma dal circo mediatico-giudiziario. Altre forze politiche, pur facendo anch’esse parte del sistema del finanziamento irregolare, cioè il PDS e la sinistra democristiana, non sono state perseguite. C’era il problema dei grandi gruppi imprenditoriali che del sistema di Tangentopoli erano stati parti fondamentali: Valletta fu insieme a Enrico Mattei uno dei fondatori del sistema di Tangentopoli. La questione fu risolta attraverso il ricorso inusitato nella procedura penale con le lettere di Romiti per la FIAT, di Carlo De Benedetti per la CIR che confessavano una serie di tangenti presentandosi come dei poveri concussi prevaricati e costretti dai politici, quei terribili concussori. Se Curzio Malaparte potesse scrivere una nuova edizione del suo libro Tecnica di un colpo di Stato, dovrebbe aggiornarlo: senza un carro armato, senza spari in Italia negli anni ’92-’94 è stata attuata un’autentica rivoluzione (o eversione), perché il sistema del finanziamento irregolare riguardava tutti i partiti, senza eccezione alcuna, e tutti i grandi gruppi privati e pubblici, e il pool di Mani Pulite, invece, ha colpito alcuni e salvato altri, acquisendo però per sé e per tutta la categoria un potere enorme. Le cose non si sono fermate lì. Fino a quando Berlusconi ha fatto l’imprenditore e ha messo le sue televisioni a disposizione del pool non è stato nemmeno sfiorato da un avviso di garanzia. Invece quando è sceso in politica è iniziato un autentico bombardamento giudiziario, già nel 1994 e continuato fino al 2013, con la sua estromissione dal Senato. Purtroppo, in quegli anni non funzionava il trojan: se avesse funzionato, sarebbe risultato che Palamara è un untorello, che si occupava di promozioni e spostamenti e per parte sua ha solo sfiorato verbalmente Salvini. I suoi predecessori hanno fatto ben altro, hanno sconquassato governi (il governo Berlusconi nel 1994, involontariamente, per colpire Mastella, quello di Prodi nel 2008), ministri, parlamentari. Ovviamente i colpi non hanno riguardato solo Berlusconi, ma sono scesi “per li rami”. Cosentino aveva la gravissima colpa di aver fatto fare a Forza Italia in Campania passi da gigante sul terreno dei consensi. Per questo è entrato nel mirino e oramai, fra abuso in atti d’ufficio, concorso esterno in associazione mafiosa, traffico d’influenze illecito è facilissimo, specie nel Sud, da parte dei Pm più aggressivi e faziosi azzerare un uomo politico. Per di più, genialmente il governo Letta ha eliminato il finanziamento pubblico, ma, come ha dimostrato il trattamento riservato ad alcuni dei finanziatori della fondazione di Renzi, è facilissimo affermare che un contributo privato deriva da precisi interessi economici perché una (determinata) operazione economica viene gestita o influenzata dalla personalità politica a cui quella fondazione fa riferimento. Nunzia De Girolamo è la vittima di una “coda” del bombardamento su chiunque facesse parte del mondo berlusconiano. Un sistema così perverso non poteva non produrre una distruzione della politica intesa nella sua dimensione “alta” e per ciò che riguardava la qualità della classe politica. I grillini sono il prodotto finale di questa distruzione della politica e della qualità della classe politica. Il paradosso è che ciò sta avvenendo quando l’Italia deve affrontare la più grave crisi della sua storia dal 1945, una pandemia finora senza vaccino che sta provocando migliaia di morti (finora 36.000 morti, di cui 180 medici: queste cifre se le devono mettere bene in testa i grotteschi negazionisti che fra luglio e agosto hanno fatto danni a non finire anche fornendo ai giovani pessimi esempi) e una gravissima recessione. Quindi oggi l’Italia affronta recessione e pandemia con la più mediocre classe politica della sua storia. Ciò riguarda sia la maggioranza (con qualche eccezione individuale nel PD e in Italia Viva), sia l’opposizione (anche in questo caso con una serie di eccezioni individuali).

«I social paiono tribunali: ma la gogna mediatica ti uccideva anche prima». Orlando Trinchi su Il Dubbio il 23 settembre 2020. Intervista allo scrittore e avvocato Michele Navarra che parla del suo ultimo libro: “Solo Dio è innocente”. «Si chiese, per l’ennesima volta in vita sua, che senso avesse continuare a esibirsi su quello sgangherato e traballante palco- osceno che era ormai diventata la sua professione, che senso avesse il processo penale, in cosa consistesse la giustizia e quali fossero le differenze – perché ce n’erano, eccome – con la legge, che senso avesse la stessa esistenza dell’uomo e quale significato potesse essere attribuito a certi fatti, a certi comportamenti, a certe tragedie, alla morte di un ragazzino, alla vita di un assassino, chiunque fosse e qualunque fosse il motivo che ne aveva armato la mano». Riflette, Alessandro Gordiani, senza riuscire a frenare quel rovello interiore che da sempre lo tormenta. Protagonista del nuovo romanzo di Michele Navarra, Solo Dio è innocente ( Fazi Editore), l’avvocato romano viene chiamato nella Sardegna profonda a difendere Mario Serra, una lunga scia di sangue e vendetta alle spalle, principale sospettato dell’omicidio a sangue freddo di un quindicenne. Scrittore e avvocato penalista dal 1992 – nel corso della sua lunga carriera ha potuto seguire alcuni tra i casi più controversi della storia italiana, dalla strage di Ustica alla banda della Uno bianca: «Il processo penale italiano è assolutamente avvincente e anche spettacolare, basta essere capaci di rappresentare, con il giusto grado di tensione narrativa, ciò che avviene nelle aule giudiziarie».

Lei e il protagonista del suo nuovo romanzo, Alessandro Gordiani, siete accomunati dalla medesima professione, ovvero quella di avvocato. Condivide i dubbi e le considerazioni che esprime il suo personaggio?

«Quando – una decina di anni fa – ho cominciato a scrivere, era molto più facile imprimere sulla carta i sentimenti e le sensazioni del personaggio: mi basavo su quello che provavo in prima persona. Mi sono tuttavia reso conto che, con il tempo e con il procedere della scrittura – questo è il mio sesto romanzo –, il personaggio si affrancava, diventando qualcosa di diverso da me, o, meglio, un me aspirazionale: non era più tanto Alessandro Gordiani che mi somigliava quanto io che avrei voluto somigliare a lui. Condivido molti dei dubbi di Alessandro; si tratta di un avvocato di carta, ed è quindi molto più facile per lui prendere decisioni che nella pratica quotidiana, ci vengono impedite. I modi di pensare possono essere coincidenti o leggermente divergenti, ma nella sostanza Alessandro Gordiani non penserà mai qualcosa di diametralmente opposto rispetto a me».

Altra grande protagonista del libro è la Sardegna. Sono presenti anche riferimenti al codice barbaricino…

«A mio avviso, oggi il codice barbaricino non esiste più. Le regole su cui si fonda sono tramandate oralmente di generazione in generazione; negli anni Cinquanta un grande giurista e filosofo come Antonio Pigliaru ha provato a metterle per iscritto, dopo importanti ricerche a carattere socio- antropologico effettuate sul campo. Si tratta, volendo riassumere in maniera superficiale, di una sorta di legge del taglione, pur con normespecifiche. All’inizio della mia attività professionale mi sono imbattuto in episodi di questo tipo. In quanto alla Sardegna, devo confessare che la conosco molto bene.. Sono stato accudito fin da piccolo da – per usare una parola ormai desueta – una tata sarda, per la quale provo un affetto smisurato, mentre mia suocera è di Fonni, che fa da cornice al racconto. Ho potuto visitare di persona i luoghi, i murales, i ristoranti. La Sardegna, contrapposta a Roma, così strutturata e al contempo caotica, emana un fascino intenso, selvaggio».

«Dicevano tutti così gli imputati: sempre innocenti a dar retta a loro» : quanto può essere determinante il pregiudizio in casi del genere?

«Dipende dalla sensibilità individuale. Per l’imputato, l’avvocato rappresenta sempre il primo banco di prova per testare la propria versione. Non sappiamo mai se la persona che abbiamo davanti sia colpevole o innocente, non ci viene mai detto, ad eccezione di casi eclatanti. Per esperienza so che molte volte gli assistiti mentono. Ciò nonostante, si cerca sempre di tarare la veridicità di quanto ci viene detto, anche per impostare una difesa efficace. A volte diventa necessario convincere l’imputato a seguire una linea difensiva piuttosto che un’altra. Si ha nelle mani la vita di una persona, e non si può sapere a priori se la strategia che si sta intraprendendo sia vincente. Il pregiudizio c’è e ci deve essere: se non ci si ponesse in maniera critica di fronte al proprio assistito si diventerebbe semplicemente i suoi portavoce. Bisogna quindi sempre valutarne le parole; dopo, ogni avvocato segue una propria linea. È indubbio che, in un ordinamento civile e democratico, tutti abbiano diritto a una difesa, poi sta alla sensibilità individuale come affrontare i diversi casi».

Cosa ne pensa del fenomeno del naming and shaming?

«È qualcosa che, anche se in altro modo, è sempre esistito, fin dai tempi del Dopoguerra, quando la gente si assiepava fuori dalle Corti d’Assise per assistere ai processi ed emettere già un giudizio di colpevolezza, anche senza bisogno dei social. Ancora oggi, a Roma, se qualcuno osserva in una certa maniera una ragazzina, circola la battuta: «Ma chi sei, Girolimoni?», citando un uomo ingiustamente accusato di essere un pedofilo assassino, autore di cinque omicidi irrisolti, e, in seguito, completamente assolto. A distanza di tanti anni ricordiamo a sproposito il cognome di una persona innocente per indicare un mostro. Si potrebbe fare l’esempio del portiere Pietrino Vanacore, in riferimento al delitto di Via Poma, come anche tanti altri. Oggi, con l’amplificazione dei social media e dai programmi televisivi, si emettono continuamente giudizi sui processi in corso».

Nel romanzo Alessandro esprime la sua perplessità circa la coincidenza tra legge e giustizia. Condivide?

«La differenza tra legge e giustizia servirebbe proprio a mitigare i giudizi sommari frequentemente espressi. Ogni caso, in realtà, non è, come tutti vorremmo credere, solo in bianco e nero, presenta varie tonalità di grigio. Se facessimo l’esempio classico della legittima difesa – un ladro entra in una casa e il proprietario, spaventato e armato, lo uccide – c’è chi giudicherebbe eccessiva la sua reazione e chi converrebbe sulla necessità di difendersi anche commettendo un omicidio. Un giudice, che si trova a dover interpretare la legge, può emettere una sentenza di assoluzione o di condanna – quindi due esiti diametralmente opposti – sulla stessa base di elementi giuridicamente corretti. Applicare in maniera corretta la legge, quindi, non significa necessariamente aver fatto giustizia. Esiste sempre un minimo spazio di interpretazione: la legge è sempre scritta da uomini e non può mai essere perfettamente coincidente con la giustizia».

Una certa ambiguità di fondo costituisce proprio l’humus su cui si fondano generi letterari come il noir o il legal thriller…

«Parafrasando il titolo del mio libro, solo Dio è innocente. E forse nemmeno lui».

 Sbattuto in prima pagina, ora tutti ignorano l’assoluzione di una persona perbene. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 22 Luglio 2020. So che non è elegante, che non si dovrebbe scrivere dei processi che si seguono in tribunale quando si pubblica su di un giornale, come accade a me col Riformista, però stavolta me ne fotto e metto i piedi nel piatto, per chiedere come mai dell’assoluzione di Francesco Tagliaferri, avvocato romano prestigioso, ex presidente della camera penale di Roma, mio assistito (… e amico mio fraterno anche se comprendo che l’argomento è un po’ da libro cuore), accusato di essere favoreggiatore di una banda dai spacciatori e assolto dal Tribunale di Tivoli lunedì, non si trova parola sulla stampa locale e nazionale? E sì che avevo fatto anche un breve, brevissimo, comunicato stampa, mandato a tutte le agenzie ed alle testate, prime fra tutte quelle romane, dove due anni fa il nome, e il viso, di Francesco erano comparsi incorniciati dalla notizia della perquisizione subita a studio e dell’accusa, infamante per una persona perbene ma micidiale per un avvocato perbene, di essere una di quelle toghe sporche che vendendo l’anima per soldi si prestano a difendere per conto e nell’interesse non del proprio assistito ma di qualcun altro. Un favoreggiatore, appunto, non un avvocato, così come, per la verità, in cuor loro molti pm vedono gli avvocati, a prescindere. Una cosa indegna per un uomo perbene come Francesco, che aveva assistito alla perquisizione del suo studio, che poi è lo studio dove assieme esercitiamo, con l’aria incredula e ferita che spesso vediamo sul viso dei nostri assistiti. Aveva visto, assieme a me che ero accorso subito, gli agenti entrare nelle stanze, toccare i fascicoli, profanare quelle carte e quegli spazi, che ci illudiamo ancora essere oggetto di tutela perché custodiscono i segreti di una professione che sulla fiducia assoluta, e sull’assoluto riserbo, poggia le sue basi secolari. Aveva vissuto Francesco, quel giorno e nei mesi seguenti, assieme al grande abbraccio collettivo che tanti penalisti italiani gli avevano subito dato – consci di quanto può essere grande l’umiliazione che subisce un avvocato portato ingiustamente in Tribunale, cioè nel luogo ove svolge il suo lavoro – anche tutto ciò che per un professionista una accusa del genere comporta: dalla rinuncia ad alcuni mandati per questioni di opportunità, alla ostentata freddezza di magistrati conosciuti da anni, al cannibalismo dei colleghi pronto a proporsi ai tuoi clienti, alle manifestazioni di ipocrita solidarietà smentita dalle battute dietro le spalle. L’aveva vissuto, ma senza ostentare il dispiacere, perché è un uomo schivo, che semmai delle miserie sorride, e gli unici commenti che aveva fatto, con me e con pochi altri, erano che una cosa del genere per un avvocato ormai affermato come lui era tremenda ma fosse capitata ad un giovane sarebbe stato un dramma da cui rischiava di non riprendersi. Un processo fa male, noi penalisti lo sappiamo, fa male a tutti, colpevoli o innocenti che siano, perché senti che la tua vita è nelle mani di chi ti giudica, ti senti una cosa, e non è mai una bella sensazione. Però quando sai di non aver fatto nulla, quando capisci che l’accusa è il frutto di pregiudizio poggiato sugli empiti moralisteggianti di chi prima di tutto non sa come lavorano gli avvocati, e magari sei un bravo avvocato che sa altrettanto bene quanto vago sia il destino nelle aule di giustizia, il processo è un tormento. Per questo avrei voluto che il nome del mio assistito, del mio amico Francesco, ieri comparisse sui giornali che l’avevano sbattuto sulle pagine della cronaca due anni fa per dire come era finita, per raccontare che persino il pm aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste; per ridargli l’onore che, pure senza riuscire a togliergli, avevano calpestato. Ma come al solito non è avvenuto, neanche una riga sui giornali, a parte un trafiletto sul giornale del Cnf ed uno sul Messaggero, perché la stampa italiana è abituata a mangiare alla greppia delle Procure e non cambia mai. Questa infamia prima o poi dovrà finire e se non sarà la rarefatta morale e la sottile deontologia del italico giornalismo giudiziario a provvedere si dovrà fare una legge che, in questi casi, obblighi i megafoni delle Procure a pubblicare, con le stesse strilla e la stessa enfasi, anche le sentenze di assoluzione. Per tutti però, non solo per i potenti, anche per i galantuomini schivi come il mio amico.

Quell’arresto spettacolo che indigna i penalisti di Trapani. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 luglio 2020. Una emittente locale siciliana ha pubblicato qualche giorno fa le immagini dell’arresto – per una accusa di corruzione – di Giuseppe Pagoto, che proprio ieri ha consegnato la sua lettera di dimissioni da primo cittadino di Favignana. “Sebbene nel video non sia in manette – scrive il direttivo della Camera penale di Trapani – l’uomo è ritratto mentre esce dal palazzo comunale scortato dai finanzieri. Una emittente locale siciliana ha pubblicato qualche giorno fa le immagini dell’arresto – per una accusa di corruzione – di Giuseppe Pagoto, che proprio ieri ha consegnato la sua lettera di dimissioni da primo cittadino di Favignana. “Sebbene nel video non sia in manette – scrive il direttivo della Camera penale di Trapani – l’uomo è ritratto mentre esce dal palazzo comunale scortato dai finanzieri. Lo si vede mentre viene fatto accomodare sui sedili posteriori della Fiat Brava in stato di custodia”. Come raccontato più volte da queste pagine, non è di certo il primo episodio di questo genere, anzi ogni settimana in qualche trasmissione tv assistiamo alla ripetuta messa in onda dell’arresto di qualcuno. Ne abbiamo parlato proprio con il presidente dei penalisti trapanesi, l’avvocato Salvatore Alagna: «Il problema non è se una persona sia colpevole oppure no, ma il rispetto dell’indagato come persona. Anche colui che è accusato dei delitti più aberranti deve essere trattato con umanità, seconda norma». Come ricordano, infatti, sulla loro pagina Facebook i penalisti di Trapani, esiste l’articolo 114 del cpp che vieta la pubblicazione dell’immagine della persone privata della libertà personale: «Chi viene arrestato – prosegue Alagna – ha diritto per legge a non essere ripreso a meno che non presti il consenso. Si tratta di un momento particolare della vita di una persona: sebbene il sindaco non fosse ammanettato era tra due agenti di polizia giudiziaria che lo hanno posto comunque in uno stato di soggezione materiale e psicologica dal quale non ci si può sottrarre. Avere o no le manette fa poco differenza quando l’obiettivo è la tutela della dignità della persona». E poi c’è un altro fattore da considerare, che è il difetto della maggior parte della stampa che si occupa di cronaca giudiziaria: «Sarebbe auspicabile che la stessa attenzione mediatica venisse riservata alla persona qualora risultasse poi innocente. Purtroppo a questo Paese giustizialista importa solo ciò che sostiene l’accusa. Essere destinatari di una ordinanza di custodia cautelare significa per molti già essere automaticamente colpevoli. Come penalisti crediamo fortemente che invece ognuno debba essere giudicato secondo le garanzie previste dall’articolo 111 della Costituzione». Sarebbe altresì importante sensibilizzare i giornalisti su questi aspetti: «Il diritto di cronaca è sacrosanto – conclude Alagna – ma non bisogna alimentare la morbosità del pubblico; al contrario è necessario rispettare la cultura delle garanzie e dello Stato di diritto».

Quanto è difficile dimostrare la verità quando si è colpevoli prima di essere processati. Argia Di Donato su Il Riformista il 14 Giugno 2020. Sembra inverosimile, ma nell’epoca dei media e dell’informazione, della cultura e del sapere a “portata di tutti”, la maggior parte dei membri della collettività resta assopita, fuorviata e – per certi aspetti – manipolata. E ciò appare ancora più evidente quando si parla di giustizia, dell’importanza e della funzione del processo, dei tempi e del ruolo delle parti processuali: giudici, avvocati, imputati e testimoni, protagonisti della vicenda giudiziaria improntata alla ricerca della verità dei fatti. Lo spazio sacro del processo, la sua celebrazione in determinate forme, il ruolo ben definito di ogni parte, assolve alla funzione principale della tutela delle garanzie fondamentali che fanno di un sistema sociale la visione puntuale e razionale della prima esigenza collettiva: “definire” il cerchio e riparare ai torti subiti, “consegnando consolazione” per chi ha subito una perdita e “rieducando” il reo affinché possa reintegrarsi nel sistema. Eppure, ad oggi, la funzione del processo e con essa le garanzie che tutela, sono messe seriamente in pericolo da un legislatore miope che tenta di “chiudere il cerchio” attraverso pratiche grossolane e incomprensibili. La delicata questione delle intercettazioni, per esempio, e l’udienza penale da remoto rappresentano angolazioni di visioni distorte di chi vuole eliminare ogni forma di tutela a garanzia dell’imputato, paradossalmente colpevole ancora prima di essere processato. Chi non conosce la celebre pratica del capro espiatorio sul quale scaricare tutte le colpe della collettività? Ai giorni nostri questa pratica risponde all’esigenza di scaricare semplicemente aggressività e rabbia sull’altro. Sembra che la sete di una falsa giustizia sia la vera protagonista indiscussa al centro del dibattito politico che risente a sua volta di un’opinione pubblica spietata, figlia di una comunicazione “orientata”. La spettacolarizzazione del processo penale – alimentata da una deriva giustizialista – portando al centro della scena mediatica l’imputato quale reo ancor prima della sentenza di condanna, ha per molti aspetti minato le garanzie a tutela dei diritti fondamentali, esasperando il conflitto tra diritti contrapposti: le istanze di imparzialità del giudizio oscillano tra il diritto di cronaca giudiziaria e l’insieme di altrettanti diritti di pari se non superiore dignità (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza). Assistiamo quindi a un processo penale sdoppiato che procede su binari affiancati: da un lato quello celebrato nei tribunali, improntato sulla ricerca della verità, e dall’altro quello “esposto” attraverso i media, svolto nei talk-show e sui social alla ricerca del colpevole a tutti i costi. La presunzione di innocenza, su cui si fonda il sistema processuale delle moderne democrazie, è un diritto fondamentale e un principio irrinunciabile che va protetto ad ogni costo. E sarebbe appena il caso di riflettere seriamente sulla possibilità di una previsione compensatoria o risarcitoria tanto per l’innocente quanto per il reo, entrambi vittime della spettacolarizzazione della propria vicenda processuale, lesiva di qualsivoglia diritto in ragione di un giudizio parallelo svincolato dall’esigenza di accertamento processuale.

Tutti i cittadini sono uguali, ma i magistrati sono più uguali degli altri. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 14 Aprile 2020. Il giornalismo che offre tanto spazio agli influencer della magistratura militante è doppiamente responsabile del clima di svacco che ha contaminato ormai irrimediabilmente il dibattito pubblico italiano: perché non solo lascia che quegli apostoli della giustizia piombata si abbandonino alla loro ciarla nella rigorosa assenza di qualsiasi contraddittorio, ma ancora consente che facciano lezione sopra ogni argomento del vivere civile e della vicenda politica. Non gli offrono la scena affinché spieghino qualcosa che vagamente appartenga alle loro improbabili competenze: tipo cos’è una prova, come funziona un processo, o magari per cimentarsi nel coraggioso tentativo di chiarire al Dj in parentesi ministeriale la differenza tra colpa e dolo. Macché. Li piazzano davanti alle telecamere o gli riservano ettari di interviste e quelli giù a far dottrina sulla legge elettorale, sulla politica dei redditi, sulle tossicodipendenze, sul sistema tributario e via di questo passo, naturalmente con puntuale siparietto sulla necessità di impreziosire il territorio trasformandolo in una fungaia di nuove carceri visto che quelle esistenti non bastano a contenere tutti gli innocenti in attesa di giudizio. Dice: ma anche i magistrati sono cittadini, e hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero. No, bello mio. Innanzitutto perché i magistrati non sono cittadini come gli altri, visto che hanno il potere di ficcarti in galera, e poi perché se tu li metti in quel modo sulla tribuna non lo fai per far sapere quel che loro pensano (che tra parentesi chissenefrega), ma per insegnare quel che bisogna pensare: che fuor di parentesi vorremmo deciderlo per conto nostro. Perché fino a prova contraria un funzionario incaricato di fare indagini e processi non ha titoli speciali per impartire insegnamenti su come si dovrebbe gestire la faccenda pubblica: nemmeno in campo giudiziario e anzi tanto meno in quel campo, salvo credere che sia importante uniformarsi al parere del boia quando si discute di pena di morte. Questa pratica è più violentemente disinibita presso certi organi dell’informazione italianona, tipo Telecinquestelle (ovvero La7), o prevedibilmente sul giornale di Marco Travaglio, dove gli amici magistrati del direttore si affrettano a illustrare all’uditorio più reazionario del Paese la magnificenza delle riforme del ministro Bonafede sotto la lungimirante guida dell’avvocato del popolo, l’unico che non considerano un mascalzone colluso coi delinquenti che la fanno franca grazie ai suoi trucchetti. Ma è una pratica ben insinuata anche altrove, e di fatto non c’è sede della stampa cartacea o televisiva in cui non trovi spazio l’intemerata magistratesca su qualsiasi questione dell’attualità politica, coi giornalisti professionalissimi nella consegna del silenzio davanti ai più discutibili spropositi sgranati dal togato di turno. A esser clementi bisognerebbe dire che questi poveretti non si accorgono di legittimare in tal modo il movimento in direzione decisamente autoritaria di questo andazzo balordo. Non sospettano nemmeno vagamente che una ragione di cautela pubblica, di saggezza comunitaria, di ordine democratico vuole che chi rappresenta un potere sia pur legittimamente repressivo (un militare, un giudice) se ne spogli prima di prendere parte attiva nella vicenda civile: perché se non lo fa le sue idee tendono ad accreditarsi in forza della capacità intimidatrice di quel potere. E non sanno dunque che dare ai rappresentanti di quel potere la panca del comizio significa lasciare che il loro ruolo si perverta nel tentativo di fare stato sulla società che quel potere ha sì attribuito, ma a condizione che fosse subordinato alla legge. La società dell’ordinamento democratico, almeno. Ma sono appunto cavillose minuzie, comprensibilmente estranee al panorama di cognizione civile del giornalismo procuratorio.

Il procuratore Greco chiede ai sostituti di rispettare la legge…Tiziana Maiolo de Il Riformista il 13 Aprile 2020. Sarà il fatto che in Lombardia l’attenzione di tutti è molto concentrata sul Coronavirus. Sarà il fatto che anche al Palazzo di giustizia di Milano già due magistrati si sono ammalati. Sarà il fatto che di questi tempi va tutto un po’ a singhiozzo anche nei tribunali. Fatto sta che la circolare con la quale il Procuratore capo Francesco Greco pochi giorni fa ha ingiunto (ne ha il potere) ai suoi sostituti di andarci piano, con le richieste di custodia cautelare, e di concentrare la propria attenzione solo sui reati più gravi, non pare aver suscitato particolari reazioni di protesta. Anche se aveva un retrogusto di rimprovero, quasi come se alcuni pubblici ministeri avessero abusato del tintinnar di manette. Nel sollecitare al Gip l’adozione di misure cautelari, aveva scritto il capo dell’ufficio, limitatevi ai “reati con modalità violente” o “di eccezionale gravità o di codice rosso”, e aveva ricordato la situazione di particolare pericolo in cui si trovano le carceri italiane, eternamente sovraffollate e particolarmente esposte alla possibilità di contagio da virus. Non risultano particolari prese di posizione al riguardo da parte dei sessanta sostituti procuratori del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Eppure, poco più di tre mesi fa, nel dicembre del 2019, era scoppiata una mezza rivoluzione, quando il dottor Greco, sempre con la formula della circolare, aveva presentato i “criteri organizzativi” per gli uffici per il triennio 2019-2921. Principi che erano stati considerati dalla quasi totalità (con l’esclusione degli otto vice del procuratore capo) dei sostituti come “limitative dell’autonomia dei singoli pm in rapporto ai procuratori aggiunti”, che avrebbero dovuto essere interpellati prima che ciascun pm assumesse iniziative come le iscrizioni nel registro degli indagati, le intercettazioni e gli atti investigativi. Era stato un richiamo alle gerarchie e un tentativo di mettere un confine all’autonomia del singolo sostituto difficilmente accettabile, nella situazione ormai degenerata del nostro ordinamento. L’iniziativa del procuratore Greco e la rivolta che ne era seguita sono lo specchio dell’anomalia italiana, che si rispecchia non solo nel potere enorme e incontrollato che hanno i Pubblici ministeri (soggetti burocratici privi di legittimazione popolare) nel nostro ordinamento, caso unico al mondo, ma addirittura nella rivendicazione di assoluta autonomia da parte di ogni singolo “sostituto”. Come se il termine medesimo non stesse a indicare qualcuno che agisce “al posto di”, qualcun altro, cioè il titolare unico dell’iniziativa, il procuratore capo. È persino singolare che Francesco Greco debba oggi ricordare ai suoi collaboratori quel che prevede la legge, e cioè che il ricorso alla custodia cautelare in carcere debba essere solo “l’extrema ratio”, quando le misure coercitive o interdittive, anche applicate cumulativamente, risultino inadeguate. L’iniziativa pare quasi un rimprovero rispetto a quanto accade ogni giorno alla Procura della repubblica di Milano. Forse fino a ora qualche pm ha abusato del proprio potere e ha sventolato le manette per intimidire (come già venticinque anni fa) e ha contribuito a riempire le carceri anche quando l’arresto non era un atto dovuto? La domanda è retorica perché gli esempi si sprecano, e non solo a Milano. Basta contestare un reato associativo, anche senza la presenza di fatti delittuosi specifici, per far scattare le manette e avere la possibilità di disporre intercettazioni, attraverso le quali poi poter costruire un castello accusatorio anche in presenza di labili indizi. L’anomalia, e le successive cattive interpretazioni, nascono dall’articolo 112 della Costituzione: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Lapidario. Un principio nato come un compromesso, dopo il ventennio con la soggezione di fatto della pubblica accusa al regime. Si concede l’autonomia al rappresentante dell’accusa, ma lo si vincola con l’obbligatorietà. Il risultato è stato tragico a paradossale nei risultati. Prima di tutto per l’assoluta irrealizzabilità del principio: nessuno riuscirà mai a perseguire tutti i reati, soprattutto se non ci sono dei criteri di priorità. Criteri che furono suggeriti, fin dal 1993, dai membri della Commissione Conso, che erano tutti magistrati, e rappresentavano tutte le componenti, anche politiche e correntizie, della categoria. Il secondo paradosso del principio dell’obbligatorietà è il totale arbitrio e le palesi distorsioni che ne sono derivate, per cui troppo spesso addirittura il singolo sostituto finisce con il decidere a quali reati e a quali fatti dare priorità. Creando tra l’altro, disparità tra i cittadini, in violazione di un sacro principio costituzionale, quello dell’uguaglianza. Se a questo si aggiunge il fatto che il pubblico ministero italiano, veramente unico al mondo, finisce con l’avere un potere politico privo di bilanciamento, poiché non è eletto come negli Stati Uniti né dipende dal Guardasigilli come in Francia, si capisce perché, dopo i fallimenti riformistici delle Bicamerali, tanti capi dei singoli uffici giudiziari tentino di suggerire qualche criterio, almeno organizzativo. Come ha tentato a Milano Francesco Greco. Non è stato il primo. Ma la strada è ancora lunga, a partire dalla circolare Zagrebelsky del 1990, che indicò vere corsie preferenziali per alcune ben individuate tipologie di reato, fino a quella del procuratore della repubblica di Torino Maddalena nel 2007 e del presidente della corte d’appello di Milano del 2008. È una vera attività paralegislativa, quella messa in campo da alcuni procuratori, che trova moltissime difficoltà nella stessa casta dei togati. E anche nell’incapacità del Parlamento e dei governi di diverse parti politiche, di modificare il maledetto articolo 112 della Costituzione.

Gratteri: “Bisogna fare pulizia anche tra i magistrati e tra certi giornalisti”. Il Corriere del Giorno il 5 Agosto 2018. Il procuratore capo di Catanzaro ha discusso di giustizia ed informazione insieme ai giornalisti Nuzzi e Belpietro, sottolineando: “Tra alcuni avvocati e alcuni clienti l’ampiezza della scrivania si è ridotta. Permettere questo è molto pericoloso”. Aggiugendo “nella mia categoria bisogna fare pulizia. Così come va fatta pulizia negli organi di stampa”. Giustizia ed informazione sono due lati della stessa medaglia. Ad affrontare queste due tematiche delicate, ed allo stesso tempo scottanti,  ne ha discusso nel chiostro Sant’Agostino  a Paola nel ricordo di Enzo Lo Giudice (avvocato di Bettino Craxi durante la stagione di “Tangentopoli”)  Nicola Gratteri, il procuratore capo e della DDA di Catanzaro, da sempre in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta,  pungolato dalla presenza due giornalisti: Gianluigi Nuzzi e Maurizio Belpietro. Sin dalle prime battute si è capito che non era il solito convegno intriso di parole e discorsi da salotto,  anche perchè quando parla  Gratteri finisce la diplomazia. Il magistrato  rispondendo ad una domanda di Nuzzi sul ruolo degli avvocati, ha sostenuto che “tra alcuni avvocati e alcuni clienti l’ampiezza della scrivania si è ridotta. Permettere questo, soprattutto in ambito penale, è molto pericoloso. Ma è pericoloso non tanto per i rapporti che si creano con i clienti ma con i colleghi avvocati. Francamente, ce ne sono troppi, e troppe sono anche le cause che non dovrebbero stare in tribunale”. Ai più giovani che intraprendono la carriera di avvocato, Nicola Gratteri si è sentito di dare loro un consiglio. “Non cercate scorciatoie, non servono, fate in modo che con i vostri clienti la scrivania abbia un margine ampio”. Lo Giudice legale di Bettino Craxi nel processo “Mani Pulite”, nato a Paola, era di formazione comunista, ma soprattutto “garantista puro” come ricorda il suo prima praticante, ora avvocato, Francesco Scrivano. Difendere il leader socialista nel tornado giudiziario messo in piedi dal pool di “Mani Pulite” dei tre magistrati Davigo-Di Pietro-Colombo, per Lo Giudice significò  confrontarsi anche con il primo episodio vero in Italia di quello che oggi si definisce “processo mediatico”. Infatti da allora molte cose sono cambiate. Sulle colonne dei giornali persino un avviso di garanzia si trasformò in udienza, se non qualche volta persino in una condanna annunciata.  “I direttori delle testate italiane più importanti – ha detto l’ Avv. Scrivano – si chiamavano per mettersi d’accordo sul titolo da dare il giorno dopo“. E dice la verità. Così l’avvocato Lo Giudice scrisse parlando di “Mani Pulite”: “C’era la grossa aggressione propagandistica determinata dalla sinergia tra la stampa la televisione e le manette per demonizzare il nemico. Badi bene, coloro che erano indagati non erano visti come inquisiti ma come nemici dopo di che si aveva la condanna pubblica e generalizzata nel Paese prima ancora del processo. Questa condanna pubblica diventava talmente forte che nessun giudice avrebbe avuto il coraggio di scardinarla. Così il cerchio si chiudeva e l’accanimento giudiziario era concluso“. “Era una grande inchiesta quella, e la cavalcammo”. “ È innegabile, sapevamo tutto il giorno prima – ha confessato il giornalista  Belpietro  – e molti dei nostri colleghi chiamavano a casa dei destinatari di misure cautelari domandando “scusi hanno già arrestato suo marito?”. Belpietro non difende la categoria a cui appartiene,  e si assume le proprie responsabilità con grande onestà intellettuale: “Imprenditori e politici, al solo pensiero di finire sul giornale in quegli anni si tolsero la vita. Il processo si consumava ancor prima che venisse fatto l’interrogatorio di garanzia. E su questo sono d’accordo con l’avvocato Lo Giudice, si tratta di una violazione del diritto“. Gratteri invece preferisce rimarcare il binario etica-morale: “Una volta ricevere un avviso di garanzia era una vergogna. Adesso neanche ci si bada,  e se le intercettazioni vengono pubblicate è anche perché il livello di educazione dei lettori è basso. Ci si interessa più del pettegolezzo che delle contingenze del reato“. Il network delle notizie giudiziarie ha 3 punti di riferimento: la magistratura, l’ avvocatura e la polizia giudiziaria. In mezzo ci stanno i giornalisti . La necessità di nuove regole e pulizia è condivisa anche Belpietro che però mette i magistrati davanti al fatto compiuto: “Se un magistrato commette un errore nell’esercizio delle sue funzioni, non può essere semplicemente spostato, deve essere sospeso“. Ed aggiunge: “Negli altri Paesi c’è la regola dell’intralcio alla giustizia, solo da noi non si riesce a trovare un giusto equilibrio su cosa raccontare nella fase di indagine”. Gratteri, non ha riservato sconti neanche ai suoi colleghi e bacchetta quei giornalisti “pregiudicati” che continuano a scrivere e a screditare. “Nella mia categoria – ha detto il procuratore capo di Catanzaro – bisogna fare pulizia. Così come va fatta pulizia negli organi di stampa. Ci sono cronisti con una pagina e mezzo di reati giudicati che continuano a esercitare la professione, così come quelli che scrivono per screditarmi. Ho disposto 169 arresti, il Riesame ne libera 5 e alcuni giornali dicono che l’operazione sia stata un ‘flop’”. Gratteri ha dimenticato quei giornalisti che si salvano con la prescrizione, o con i soldi pagati dall’editore alle parti lese pur di non andare a processo. Alla domanda di Belpietro, il magistrato  Gratteri sorride :”Io ministro della giustizia? Bisognerebbe chiederlo a Napolitano – continua – anche se quelli che mi vogliono bene mi dicono sempre che mi sono salvato”. Il procuratore capo della Dda di Catanzaro ha quindi ricordato quando gli chiesero aiuto per la riforma della giustizia, come dei 250 articoli scritti passò solo quello del processo a distanza. Il governo nel frattempo ha messo in archivio la legge sulle intercettazioni, quindi tutto rimane com’è. “Finché le cose stanno così – ha concluso  Belpietro – anche io continuerò a pubblicare, ma se le cose dovessero cambiare non ne faccio un dramma. Si può tranquillamente continuare a fare il nostro lavoro“. E noi la pensiamo una volta come lui.

Buzzi, “Vi racconto la mia sfida contro il mostro mediatico-giudiziario”. Il Dubbio il 26 febbraio 2020. L’uomo simbolo di Mafia Capitale presenta il suo libro: “Mi sentivo come un calciatore del Frosinone che affronta il Real Madrid”. «In televisione ascoltavo lo sdegno dei tanti che avevano scoperto all’improvviso che c’era una grossa associazione mafiosa a Roma e non se n’erano accorti prima e ringraziavano tanto Pignatone che li aveva liberati. Ecco, mi dicevo, di fronte a questa accusa, chi mi conosce da anni prenderà le mie difese e pensavo ai tanti esponenti del Pd o di Sel che avevano condiviso la crescita della cooperativa. Solo silenzio. A provare a difendermi dalle accuse di mafia solo Alemanno e Sgarbi per i politici e per i commentatori Giuliano Ferrara, Massimo Bordin, Paolo Liguori ed il grande Antonio Pennacchi. Tutti gli altri schieratissimi con la tesi della Procura, mentre gli esponenti politici a me vicini, tutti afonì», è uno dei un passaggio del libro di Salvatore Buzzi,  dal titolo «Se questa è mafia», edito da Mincione Editore e curato dal giornalista Stefano Liburdi, verrà presentato l’8 marzo presso la sede del partito Radicale a Roma, principale imputato con Massimo Carminati di Mafia capitale. Il libro dal titolo verrà presentato l’8 marzo presso la sede del partito Radicale a Roma. E nell’anteprima Buzzi racconta: «L’equiparazione della corruzione alla mafia, avvenuta con la legge 3 del 2019 portata avanti dal Movimento Cinque Stelle. Così dal 9 gennaio 2019 per i condannati per i reati contro la pubblica amministrazione non c’è più la possibilità di ottenere benefici penitenziari (prima vittima illustre è stato Formigoni, con lui in carcere, a 72 anni, l’Italia è stata più sicura?) e saranno permesse intercettazioni sempre più invasive e la competenza per i reati passa alla Procura distrettuale. Quindi processualmente la corruzione è stata equiparata alla mafia, noi siamo stati i laboratori in vitro dove è stato tentato questo esperimento, alla faccia del principio cardine del diritto: nessuna pena senza legge», spiega Buzzi nel suo libro. Buzzi racconta così le fasi iniziali del processo: «Il mio avvocato mi ha dissuaso dai propositi e mi ha invitato a studiare a fondo il processo e tutto il materiale probatorio, perché secondo lui riusciremo a smontare un’accusa costruita sul nulla e per questo portata avanti con molta forza sui media. Mi sento come un calciatore del Frosinone o del Latina (per restare nel Lazio) che va a Madrid ad affrontare il Real Madrid in una partita decisiva, con una cornice di pubblico ostile (i media), contro una squadra che dispone di un budget straordinario, con mezzi quasi illimitati (pm)». E ancora: «I tuoi pochissimi supporter sono quasi afoni, nessuno li sente mentre, ovviamente, il pubblico del Real plaude sempre e comunque la sua squadra, di certo non contesta l’arbitro che fischia sempre a suo favore. Questa è la mia situazione e lo è sempre stata – spiega Buzzi – affrontare il processo in una condizione di manifesta inferiorità, con le regole procedurali sistematicamente calpestate. Ma come dice il mio avvocato, andiamo avanti contro qualunque logica e faccio mio il motto di San Paolo, sperare contro ogni speranza».

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2020. «Mi aspettavo una medaglia per quel che avevo fatto e tutto pensavo tranne che di essere accusato di questo». Lo sostiene nel libro «Se questa è mafia» (Mincione Editore) Salvatore Buzzi, capo riconosciuto di una delle due associazioni a delinquere che costituivano il cosidetto «Mondo di Mezzo» e condannato in via definitiva per una serie di reati collegati anche se la sua pena a 18 anni e 4 mesi di carcere va riconteggiata per il venir meno dell' aggravante mafiosa. Buzzi, oggi ai domiciliari ma con un ricorso pendente della procura generale per rimandarlo in carcere perché ancora «socialmente pericoloso», racconta i suoi oltre 5 anni passati da detenuto. A proposito del processo, racconta: «Mi sento come un calciatore del Frosinone che va a Madrid ad affrontare il Real in una partita decisiva, con una cornice di pubblico ostile (i media), contro una squadra che dispone di un budget straordinario, con mezzi quasi illimitati (pm)». E ancora: «I tuoi pochissimi supporter sono quasi afoni, nessuno li sente e l' arbitro fischia sempre a tuo sfavore. Questa è la mia situazione e lo è sempre stata: affrontare il processo in una condizione di manifesta inferiorità, con le regole procedurali sistematicamente calpestate». Un ruolo da vittima giudiziaria che Buzzi ha già sostenuto in passato e che continua ad accreditare. Nel libro si lancia anche in valutazioni extra giuridiche: «Per l' equiparazione della corruzione alla mafia, avvenuta con la legge portata avanti da M5S non c' è più la possibilità di ottenere benefici penitenziari. Processualmente siamo stati il laboratorio in vitro dove è si è tentato questo esperimento». Poi c' è la parte sull' amarezza personale nel sentirsi tradito: «In tv ascoltavo lo sdegno dei tanti che avevano scoperto all' improvviso che c' era una grossa associazione mafiosa e non se n' erano accorti prima e ringraziavano tanto Pignatone che li aveva liberati. Ecco, mi dicevo, di fronte a questa accusa, chi mi conosce da anni prenderà le mie difese e pensavo ai tanti esponenti del Pd o di Sel che avevano condiviso la crescita della cooperativa. Solo silenzio». Proprio il Partito democratico è al centro delle sue valutazioni negative: «Un quadro desolante quello del Pd che addirittura si è costituito, con una faccia di bronzo, parte civile contro me e i collaboratori di 29 Giugno iscritti al partito. Forse perché a volte ho pagato gli stipendi degli impiegati della federazione romana? Ho sponsorizzato la campagna elettorale di decine di candidati? O perché ho assunto centinaia di persone segnalate? O perché ho fatto votare alle primarie per eleggere il segretario cittadino, nell' ottobre 2013 ben 220 persone?. Tra i tanti luoghi comuni che l' inchiesta mi ha cucito addosso c' è quello che Buzzi e Carminati abbiano speculato sulla pelle dei poveri nomadi. Niente di più falso».

INTRODUZIONE DEL LIBRO “SE QUESTA E’ MAFIA” (A CURA DI STEFANO LIBURDI).

2 dicembre 2014 - 22 ottobre 2019. Quasi cinque anni sono trascorsi tra il giorno in cui sono state arrestate 37 persone nell'operazione denominata “Mondo di Mezzo” (e altre 44 arrestate nel giugno 2015) e la sentenza della Corte suprema di Cassazione che ha annullato l'aggravante mafiosa a carico degli imputati, riconoscendo due distinte associazioni “semplici”: quella riconducibile a Massimo Carminati e quella riferita a Salvatore Buzzi. Nel mezzo 1.784 giorni da recluso in regime di Alta Sicurezza, il carcere duro al quale e stato sottoposto il presunto “mafioso” Buzzi. Il creatore della cooperativa 29 Giugno, ha finito di scrivere queste pagine alla fine di settembre 2019, cioè pochi giorni prima della sentenza che avrebbe messo la parola fine allo scandalo “Mafia Capitale”. Il libro e rimasto cosi com'era, senza alcuna modifica, anche dopo che la Cassazione ha ribaltato la sentenza d'Appello, escludendo il reato di mafia. Questo perchè il fine di questo lavoro cosi intimo (sfoglia pagine di vita) e difficile (perchè non e una cosa agevole scrivere e comunicare con l'esterno, quando si e rinchiusi in una cella di Alta Sicurezza), non era quello di scaricarsi dalle responsabilità, che ci sono state eccome. L'obiettivo era e rimane quello di raccontare una vicenda italiana, e romana in particolare, sollevando tutta una serie di riflessioni e fornendo nel contempo qualche utile risposta. Buzzi urla la sua non colpevolezza riguardo l'associazione mafiosa. Lui, che fino a due giorni prima dell'arresto aveva ricevuto richieste di ogni tipo da politici e finti amici per poi ritrovarsi da solo quando e scoppiato lo scandalo, le tangenti le ha pagate e nel libro spiega i motivi che lo hanno portato a farlo, ma non ha mai minacciato o intimidito alcuno, ne tantomeno lo hanno fatto i suoi compagni di lavoro. Appare dunque bizzarra, e scorrendo le pagine e svelato nel dettaglio il perchè, l'accusa di mafia a persone che altro non hanno fatto che commettere l’errore di adeguarsi a un sistema corruttivo nato molto prima di loro e che e continuato a persistere ben oltre i loro arresti, come i recenti fatti di cronaca hanno raccontato. Quello di “Mafia Capitale” e stato un processo celebrato sugli schermi televisivi e sulle pagine dei giornali ancora prima che nelle aule del Tribunale. Romanzi, film, serie tv, articoli e libri hanno sbandierato la colpevolezza degli imputati prima delle sentenze dei giudici. Hanno mitizzato personaggi, estrapolato frasi ad effetto dalle intercettazioni riuscendo a confezionare una “verità” nell'immaginario collettivo, difficilmente smontabile anche nella sede unica dove si sarebbe dovuto tenere il dibattito: il Tribunale. Dicevamo delle riflessioni da fare su questa vicenda che questo libro ci stimola, a cominciare dal processo mediatico e dalla pericolosa fuga di notizie dalla Procura.  

Ecco un primo aspetto sul quale vale la pena di soffermarsi: come e possibile la stesura di articoli e addirittura libri e poi film, che prendono spunto, per non dire fedeli trascrizioni in alcuni casi, da inchieste ancora in corso, con atti che dovrebbero rimanere segreti? E poi, e qui mi rivolgo ad alcuni giornalisti, le notizie non andrebbero verificate? O ancora prima almeno lette, se si tratta di documenti? Si perchè paradossalmente, la prova migliore dell'assurdità dell'accusa di mafia in questa vicenda, si ricava proprio dalla teoria accusatoria. Basta leggere le carte per capirlo. Chi ha pubblicato libri sulla vicenda (piccoli “bignami” delle carte dei Pm), lo ha fatto senza svolgere alcuna attività di inchiesta giornalistica, limitandosi a riprodurre l'accusa cosi com'era, piena di controsensi e lacune. Un'inchiesta, e qui una seconda riflessione, che si basa quasi esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche e ambientali usate ad arte per spettacolarizzare l'intera vicenda. Una frase rubata a una conversazione può fornire una prova certa, in assenza di altri riscontri? Il lavoro di chi ha investigato può avere solide fondamenta solo con le intercettazioni? E poi il solito dilemma sul limite che una società civile dovrebbe avere all'uso di simili strumenti limitativi della libertà individuale. Salvatore Buzzi ha scontato cinque anni e 18 giorni in Alta Sicurezza prima della pronuncia di una sentenza definitiva. E ammissibile questo o c'è stato un abuso nell'uso della carcerazione preventiva? Spedire un presunto colpevole al confine con l'Austria in condizioni di duro restringimento, ha reso la società in cui viviamo più sicura? Per non parlare del caso personale e dei suoi affetti più cari, tra cui una bambina, che si ritrovano da innocenti a scontare anch'essi una pena cosi pesante. “Se questa e mafia” e un'utile lettura anche per chi guarda a queste vicende con occhio distaccato. Quello accaduto e raccontato potrebbe in qualche modo capitare a chiunque. Un racconto che avvicina al mondo della cooperazione sociale, praticamente azzerata dopo “Mafia Capitale” vittima della demonizzazione messa in atto da chi ignora, o ha voluto ignorare, quanto di buono fatto in tanti anni da questo tipo di cooperative verso soggetti svantaggiati. Un libro dunque da leggere senza pregiudizi, liberi da condizionamenti che invece hanno indirizzato, fino alla sentenza finale, tutta questa inchiesta. Infine, a conclusione di questo lungo e faticoso lavoro, il mio pensiero e la mia dedica sono per Davide: sarebbe stato bello discutere di questo libro con lui.

Spada e Casamonica alla gogna, quando va in onda il “giornalismo antimafia”. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Il giornalista che fa il suo servizio davanti al portone della famiglia “mafiosa”, in collegamento con il conduttore che lo istiga a farci vedere le automobili di lusso, le piscine, le ricchezze illecite del “clan”, a me non sembra affatto diverso rispetto al parlamentare che si attacca al citofono del tunisino per domandargli se spaccia. Anzi è peggio. Perché almeno per ora la nostra Costituzione dice che la responsabilità penale è personale, e in uno Stato di diritto quel principio è contraddetto ogni qual volta un gruppo di persone, una famiglia, un clan sono indiscriminatamente esposti a quelle attenzioni. Chi ha dato ai giornalisti il diritto di andare con microfoni e telecamere sotto casa della gente a fare simili “inchieste”? Si piantano davanti ai cancelli e inquadrano le finestre: «Guardate, lì vive Tizio: il fratello è in prigione per mafia!»; «Ecco, vedete? Lì pare che i rubinetti siano tutti d’oro!». Se poi uno mette il naso fuori, allora il cronista s’infoia: «Eccolo, eccolo!», e via col giornalismo antimafia: «Senta, qui si dice che controllate appalti e prostituzione: lei che ne pensa?». E avanti di questo passo, con il video in digressione verso la donna intervistata sui carichi pendenti del marito: «Quanto gli hanno dato, signora? Ma che era? Droga? Usura? E i bambini lo sanno?». Questa schifezza la fanno e ce la propinano pressoché quotidianamente, e ne menano pure vanto nella retorica dell’“impegno”, del giornalismo tosto, “sulla strada”, naturalmente in favore del pubblico che “ha il diritto di sapere”: e che vuoi farci se, venendo così a sapere, la brava gente reclama il giusto e cioè ruspa e galera. Si noti poi come questo bel giornalismo si incattivisca in modo particolare nel caso di alcuni. Io tanti reportage, maratone, speciali, presunti documentari, quanti ne hanno dedicati ai Casamonica o agli Spada non ne ho mai visti. E guarda un po’ sono zingari. C’è da giurare che il giornalista democratico respingerebbe con indignazione l’addebito, ma è lo stesso che appunto non si accorge della pericolosa inciviltà del suo lavoro, di come esso violenti una regola elementare della convivenza democratica sostituendola con un canone letteralmente tribale. Non se ne accorge e anzi rivendica quel suo modo di fare giornalismo, che è pura e semplice attività di molestia ai danni di chi ha la colpa di appartenere a una famiglia piuttosto che a un’altra. E figurarsi dunque se è sfiorato anche solo dal sospetto che tra i motivi che inducono tanta concentrazione informativa (chiamiamola così) possa esserci anche questo, e cioè che si tratta di zingari. Pure, sotto casa degli altri non ci vanno, o non con tanta insistenza. E vorrà dire qualcosa. Piuttosto che gli illeciti commessi da alcuni di loro, a spiegare l’attenzione pubblica e la demagogia anticriminalista verso loro tutti è il fatto che sono zingari: una specie di premessa incriminatoria, per quanto non dichiarabile. E non serve dargli di zingaracci, per rendersi responsabili di questo razzismo inconfessato e, forse anche più temibilmente, inconsapevole. Basta la gogna travestita da servizio pubblico. Che poi sia nella versione progressista del giornalismo antimafia o in quella plebea della tivù “che sta tra la gente” importa molto poco: la matrice, ripugnante, è la stessa ed è doppiamente insultante. Innanzitutto perché tira a una giustizia compartimentata, con interi gruppi di persone messi alla berlina. E poi perché la compartimentazione è su base razziale.

Caso Spada: come posso dare una capocciata senza che sia mafiosa? Piero Sansonetti de Il Riformista il 15 Novembre 2019. Non credo che a me capiterà mai di dare una capocciata a qualcuno. Capocciata, a Roma, vuol dire un colpo con la testa sulla faccia altrui. Non mi è mai successo quando ero giovane è improbabile che mi capiti ora. Però da ieri c’è una domanda che mi frulla in testa: ma se dovesse capitarmi, come potrei fare per evitare che questa capocciata sia data con modalità mafiosa? Naturalmente mi riferisco al caso Spada. L’altra sera la Cassazione ha confermato la condanna a sette anni di carcere a Roberto Spada, pregiudicato di Ostia, per la famosa testata sul volto del nostro giovane collega Daniele Piervincenzi che cercava di intervistarlo e che subì, mi pare, la frattura del naso. Spada era stato condannato già in primo e in secondo grado, sempre con questa aggravante della mafia. Nel frattempo è stato condannato anche per altri reati, più gravi, si è beccato l’ergastolo e dunque questi sette anni non cambieranno molto la sua vita. Ma non è di questo che vorrei discutere, e nessuno vuole difendere i comportamenti di Roberto Spada, vorremmo solo che si riuscisse una volta per tutte a distinguere tra legge e propaganda. Non esiste nessuna persona al mondo che possa ragionevolmente ritenere che una capocciata possa essere mafiosa. Oltretutto abbiamo visto tutti quel video. Il giornalista col cameraman sull’uscio di casa Spada, i due che parlottano, poi Spada che all’improvviso, preso, sembra, da uno scatto d’ira, vibra la famosa testata, e poi insegue Piervincenzi e lo colpisce ancora con un bastone. Difficile sostenere che l’aggressione fosse premeditata. Come può essere mafioso uno scatto d’ira? E perché mai questa della mafiosità dovrebbe essere una aggravante di un delitto che comunque c’è, ed è grave? La Corte di Cassazione ha sostenuto che la prova della mafiosità – cioè dell’esibizione di un potere sul territorio – è dimostrato dal fatto che nessuno è intervenuto per difendere Piervincenzi. Ora dovete sapere che questo Roberto Spada è un cristone alto più di un metro e ottanta, novanta chili, muscolosissimo, pugile professionista: quanti di voi avrebbero deciso di frapporsi tra lui è Piervincenzi? Mi chiedo, possono essere considerate mafiose, ad esempio, le varie aggressioni, anche sessuali, esercitate a suo tempo da Michael Tyson, negli Stati Uniti? Si può scherzare su questa sentenza. Oppure prenderla sul serio. E se la si prende sul serio bisogna prendere atto almeno di due cose. La prima è che sempre più spesso le sentenze rispondono a delle esigenze, per così dire, politiche. Attorno a quella testata (anche perché fu rifilata a un giornalista) ci fu molto rumore e molta mobilitazione dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica, e i giornali, e le Tv, pretendevano una condanna esemplare. E un comportamento esemplare della polizia e della magistratura. Succede molto spesso, forse tutti i giorni, in qualche città d’Italia che qualcuno, in genere in una lite di traffico, tiri un pugno in faccia o una testata. Viene, in genere, denunciato, non arrestato. Quel giorno invece era urgente arrestare Spada, perché giornali e opinione pubblica premevano. Per arrestarlo occorreva l’aggravante mafiosa. Così è nata questa idea balzana. È molto rischioso il comportamento giudiziario che viene determinato dalla pressione dell’opinione pubblica e dei giornali. Purtroppo, però, ormai, è molto diffuso. Anche – soprattutto – per colpa dei giornali. Non sono moltissimi i magistrati che riescono a resistere a queste pressioni. Per fortuna ci sono questi magistrati, ma sono una minoranza. La seconda cosa di cui bisogna prendere atto è che ormai l’uso dell’aggettivo mafioso è diventato quasi un’abitudine. Tutto il processo sulla corruzione a Roma – Mondo di mezzo – si è fondato sull’ipotesi che la corruzione avvenisse sotto la direzione di una organizzazione mafiosa. Non era così, e infatti alla fine la Cassazione ha smontato il teorema. Però l’accusa di mafiosità aveva permesso un metodo di indagine molto repressivo che non sarebbe stato consentito in assenza di aggravante mafiosa, aveva permesso la segregazione di alcuni imputati al 41 bis e lunghe carcerazioni, e inviti pressanti al pentitismo. Tutto questo ha stravolto il normale funzionamento del diritto. Ed è esattamente ciò che avviene sempre più frequentemente. Non solo in questo modo si riducono le garanzie per gli imputati. Ma si rischia di cancellare, o almeno di offuscare il concetto di mafia. Mi ricordo che Giovanni Falcone ci mise anni per spiegare che Cosa Nostra è Cosa nostra e non è una forma qualsiasi di criminalità. Affermare che qualunque attività criminosa che prevede una associazione sia mafia, equivale a sostenere che niente è mafia. Cioè a tornare alle teorie negazioniste degli anni Sessanta, quando gran parte della politica e dei giornali negavano l’esistenza della mafia, in Sicilia, e sostenevano che i delitti siciliani erano normali delitti della mala. Ecco, rovesciando tutto, oggi, si sta compiendo la stessa operazione. Immaginare che Spada e Riina abbiamo fatto più o meno lo stesso mestiere, credetemi, è un grande regalo a Cosa Nostra.

Magistrati siano sobri, basta giustizia spettacolo (capito Gratteri?) Giovanni Altoprati de Il Riformista il 1 Febbraio 2020. Le toghe non devono andare in televisione a illustrare le incriminazioni contenute nelle loro indagini. Il rischio è quello dell’effetto “sentenza anticipata”, una pratica molto in voga nell’ultimo periodo.

L’intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario del neo procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, si è incentrato sul richiamo alla sobrietà comunicativa dei magistrati. Pur senza aver citato espressamente nessuno, tutti i presenti nell’aula magna della Cassazione hanno capito chi fosse il magistrato destinatario della “raccomandazione”. Un pm. «È ricorrente la polemica – ha precisato infatti Salvi – circa le dichiarazioni rese da magistrati del pubblico ministero. La moderazione nelle dichiarazioni, resa necessaria dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio, è manifestazione della professionalità del capo dell’Ufficio». «La comunicazione, nei toni misurati e consapevoli, deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso», ha aggiunto il pg della Cassazione, secondo cui «questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero». «L’informazione non è resa nell’interesse del magistrato o della Procura; è un dovere di ufficio e il pm deve attenersi ai doveri di riservatezza e correttezza, come manifestazione e riflesso della imparzialità e della indipendenza. Ne consegue che toni enfatici, tali da generare nell’opinione pubblica la convinzione della definitività dell’accertamento, sono professionalmente inadeguati e lesivi dei diritti degli indagati», ha quindi concluso il pg. Da parte di Salvi un richiamo alle garanzie e un ritorno allo Stato di diritto dopo anni di una narrazione che ha portato a considerare gli innocenti nei processi solo come dei colpevoli che l’hanno fatta franca. Ma oltre allo stop al processo mediatico, Salvi ha avvisato le toghe che sbagliano, per loro nessuno sconto. «Il danno che il mercimonio della funzione determina all’amministrazione della giustizia è incalcolabile: queste condotte devono trovare adeguata sanzione disciplinare». Poi Salvi si è occupato di molti altri temi. Anche dell’immigrazione. ha criticato i decreti sicurezza e una politica dell’immigrazione che da anni non si applica alla necessità di aumentare le regolarizzazioni, creando in questo modo zone della società dove è facile l’ingresso per la malavita. Salvi ha anche detto che è una pessima idea quella di «affidare esclusivamente al diritto penale i valori della società», ha detto che questa impostazione porta a rischi rilevanti. Così come sono rilevanti i rischi di pensare che sia una buona cosa il governo della paura, cioè l’uso della paura come strumento di governo. Il procuratore generale ha anche criticato la tendenza di alcuni magistrati a «proporsi come inquirente senza macchia e senza paura…» alimentando una cultura eroica della magistratura e quella di una sua presunta superiorità morale».

 Gratteri dà show in Tv e sfida il collega Salvi, nessuno lo contraddice. Piero Sansonetti de Il Rifomista il 6 Febbraio 2020. Il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, venerdì scorso, all’apertura dell’anno giudiziario, ha chiesto ai Pm di frenare il loro protagonismo. Ha fatto notare che la “comunicazione” di un Pm non può essere regolata dalle norme dello spettacolo, ma deve essere regolata dalle norme del diritto. E dunque non può prevaricare i diritti degli indagati e in alcun modo deve mettere in discussione la presunzione di innocenza. Salvi ha detto che un Pm deve “comunicare” per informare, e non per dare risalto ai propri meriti. Sono stati pochi gli osservatori che non hanno pensato che il Procuratore generale si riferisse a vari Pm chiacchieroni, ma in modo del tutto particolare a Nicola Gratteri, che recentemente aveva trasformato in un vero e proprio spot la conferenza stampa nella quale aveva annunciato 330 arresti e circa 450 avvisi di garanzia in un’inchiesta che si chiama “Rinascita Scott” e che – aveva spiegato – è stata una tappa importante della sua azione per smontare la Calabria come un trenino Lego. Gratteri si era paragonato a Falcone ed era stato però criticato da diversi suoi colleghi o ex colleghi. In modo durissimo da un monumento della magistratura inquirente come Agostino Spataro. Dal discorso di Salvi sono passati solo quattro giorni e, se non si conta il weekend solo due giorni. Gratteri, al primo talk show disponibile su la7 (“Di martedì”, condotto dal Giovanni Floris) si è subito presentato davanti alle telecamere, facendosi precedere dall’annuncio di un suo libro il libreria, e ha dato vita a un nuovo show. È assolutamente impossibile che nel gesto del procuratore di Catanzaro non ci sia stata intenzionalità, e cioè la scelta di sfidare apertamente e con spavalderia il Procuratore generale della Cassazione. Tu mi dici che non devo dare spettacolo? Io me ne infischio. Per fare bene il mio lavoro, che è quello di moralizzatore della Calabria, io devo dare spettacolo. Non mi ridurrò mai a un burocrate. Non vi nascondo che mi è difficile parlare e scrivere del dottor Gratteri nascondendo un pregiudizio negativo. E so bene che questo è un limite: un giornalista non deve avere pregiudizi. Mi sforzerò di essere olimpicamente oggettivo e imparziale. Però devo dirvi che ascoltare Gratteri e i giornalisti che lo hanno interrogato mi ha dato un grande dolore. Ho avuto l’impressione che nonostante le sagge parole ascoltate in molti discorsi pronunciati all’apertura dell’anno giudiziario, viviamo ormai in un clima di opinione pubblica assolutamente assuefatto a uno spirito di devastante giustizialismo. E che ormai sta prevalendo l’idea di una società sottoposta all’etica e all’autoritarismo. Gratteri si è limitato a raccontare il suo punto di vista. Quello di un combattente, non di un magistrato. Impegnato in una terra dove la ‘ndrangheta controlla persino il battito del cuore dei cittadini. Ha detto così. E nella quale non si può essere garantisti come a Milano. Ha detto di essere disinteressato all’appoggio dei partiti e di volere l’appoggio della gente. Ha esaltato una manifestazione che si è tenuta a Catanzaro qualche giorno fa sotto il suo ufficio, per sostenere la sua battaglia e deprecare le critiche che erano state sollevate dal procuratore generale Lupacchini (successivamente stangato dal Csm che ha ritenuto illegittime le critiche a Gratteri). Gratteri ha spiegato che il suo compito è quello di “liberare la Calabria”. Lui è così, pensa questo. Ha sempre considerato come un fastidio burocratico il ruolo che in realtà gli è stato assegnato dalla legge, che è quello di non liberare proprio nessuno ma di perseguire i reati, con gli indizi, le prove, e riscontri, i testimoni e tutto il resto. Gratteri è una persona limpida: non ha mai e poi mai nascosto o camuffato il suo pensiero e le sue intenzioni. Il problema è che durante i trenta o quaranta minuti di intervista, condotta da ben cinque giornalisti, Gratteri ha avuto via libera. Ogni sua affermazione è stata sommersa dagli appalusi del pubblico. Neanche un sussurro di dissenso. Nessuno lo ha preso di petto, come avrebbe fatto con un ministro, o un deputato o persino con un assessore, se questi avessero sostenuto tesi e opinioni così evidentemente in contrasto con le regole della democrazia e con la Costituzione. Nessuno ha provato a spiegargli che lo Stato di diritto è un’altra cosa. Che il magistrato non è uno sceriffo, e non è Garibaldi, è un funzionario dello Stato. Che i diritti degli imputati sono sacri. Che arrestare un innocente è una cosa molto grave, per l’innocente e per la società. Che non è vero che il fine giustifica i mezzi. Niente di tutto ciò. È stato chiesto a Gratteri: cos’è la cultura manettara? Ha risposto che non esiste e che il problema sono i politici impuniti. Gli hanno chiesto cos’è la cultura del sospetto. Ha risposto che è quella cultura che non si fida dei magistrati. Gli hanno chiesto se 1000 arresti di innocenti all’anno non sono un fatto grave. Ha risposto che è un fatto fisiologico. Ma tutte queste cose sono state dette nella più assoluto clima di normalità. L’idea è che Gratteri stesse solo spiegando il punto di vista della giustizia. Nessuno gli ha chiesto se è una cosa normale che in poche settimane il tribunale del riesame abbia trovato errori e annullato o modificato 140 misure cautelari su circa 250 esaminate, nessuno gli ha chiesto come mai recentemente la Corte di Cassazione ha indicato in un suo cattivo pregiudizio (suo di Gratteri)  la misura che ha azzoppato l’allora presidente della Regione Mario Oliverio, escludendolo dalla campagna elettorale, nessuno gli ha chiesto come andò quella volta che fece arrestare 200 persone, in una notte, in un paesino di 2000 anime, e poi 192 risultano non colpevoli, nessuno gli ha chiesto se è vero che solo per avere gli atti dell’inchiesta Rinascita Scott (decine di migliaia dii pagine) un povero imputato deve pagare più di 30 mila euro di carte da bollo. E quando lui ha chiesto ai giornalisti di fargli un caso di magistrati che avevano usato la loro attività professionale per passare alla politica, e il direttore di Libero gli ha fatto i nomi di De Magistris e di Emiliano, lui ha risposto: “solo due”. Per fortuna Da Milano – si proprio il mite Da Milano – gli ha fatto notare che veramente, se non fosse stato per il no secco di Napolitano, lui sarebbe passato direttamente da un posto di Pm a ministro della Giustizia. Voi dite: niente di nuovo. Gratteri è Gratteri. Vero. La novità – immagino – sta nello scontro che si è aperto nella magistratura. Gratteri, insieme a Davigo, a Di Matteo, a Travaglio (pm aggiunto) rappresenta un settore della magistratura convinto e arciconvinto che l’Italia si salva solo se i magistrati riescono a rimpiazzare la politica. A purificarla e in parte a sostituirla. Finora questa componente (che noi chiamiamo il PPM, partito dei Pm)  ha avuto l’esclusiva della rappresentanza della magistratura. E la stessa Anm, e anche il Csm, sono andati al seguito. L’apertura dell’anno giudiziario quest’anno è stato come uno squillo di tromba imprevisto. I magistrati non solo tutti gratteriani. E la reazione è stata immediata. La forza del PPM sta nella capacità di colonizzare i mezzi di informazione. La forza dei suoi avversari sta nel diritto. C’è da essere ottimisti? Beh, no.

Salvi, l’incorruttibile che ama la legge. Troppo. Piero Sansonetti de Il Riformista il 15 Novembre 2019. Giovanni Salvi è il nuovo procuratore generale della Cassazione. Cioè, più o meno, è il capo della magistratura. Lo ha votato e proclamato il Csm, riunito sotto la presidenza di Sergio Mattarella. Succede a Riccardo Fuzio che ha dovuto lasciare l’incarico, questa estate, perché è finito nella trappola delle intercettazioni nel caso Palamara. Giovanni Salvi è un esponente di Magistratura democratica, la corrente di sinistra dei Pm. Però ha ottenuto consensi trasversali: 12 voti, compresi quelli della destra di Davigo e Di Matteo. Luigi Riello, il suo principale competitor, procuratore generale a Napoli, ha preso solo 4 voti e altri 3 voti li ha presi Marcello Matera, avvocato generale della Cassazione. Salvi è un magistrato molto serio e molto stimato, che nella sua lunga carriera ha attraversato tutta la storia degli ultimi 40 anni della Repubblica. Ha 67 anni, è pugliese di Lecce, ha studiato a Roma. È in magistratura dal 1979. Suo padre era un grande avvocato salentino, e anche sua sorella è avvocato a Lecce. Suo fratello invece, Cesare, di qualche anno più anziano di lui, ha insegnato in varie università, sempre Diritto, ma soprattutto ha dedicato gran parte della sua vita alla politica, nel Pci, prima, ai tempi di Berlinguer, e poi nel Pds e nei Ds. Non ha mai aderito al Pd, invece, si è dissociato da posizioni di sinistra e poi si è ritirato dalla politica. Ho conosciuto bene Giovanni Salvi quando eravamo ragazzi. Militavamo insieme nel Pci e precisamente nella sezione universitaria. Sto parlando dei primi anni Settanta. Io ero il segretario della sezione, lui il segretario della cellula di Legge (allora dicevamo così: Legge, non dicevamo giurisprudenza). Noi della sezione universitaria, in generale, eravamo ragazzi scapestrati e un po’ sovversivi. Lui, devo dire, non lo era. Come tutti noi non aveva una lira in tasca, era uno studente fuorisede e viveva in un appartamentino scalcinato a San Lorenzo, insieme ad altri due studenti comunisti, uno si chiamava Amato Mattia, e poi diventò amministratore dell’Unità, l’altra si chiamava Pina Monaco, erano tutti e tre studenti di Legge e tiravano avanti col presalario Pina, il guadagno di Amato che scaricava i pacchi di giornali dai camion, e qualche lira che i genitori mandavano a Giovanni. Si mangiava alla mensa della Casa dello Studente, pranzo e cena in tutto a 400 lire. Qualche volta noi ci autoriducevamo il prezzo di pranzo e cena e pagavamo solo 100 lire, per supposte ragioni politiche. Giovanni non mi pare che abbia mai aderito a queste proteste. Era serissimo, studiosissimo, molto berlingueriano, favorevole al compromesso storico, mentre noi studiavamo poco, sempre presi dalle assemblee, dai cortei, dalle riunioni, dai volantini, eravamo anche critici con Berlinguer o perché eravamo stalinisti oppure perché eravamo ingraiani. Giovanni amava i cani e la natura, ma siccome San Lorenzo non era molto verde, spesso se ne andava a studiare tra gli alberi del Verano, cioè al cimitero. Sapeva sfruttare al massimo le poche virtù della città. Poi l’estate tornava giù in Puglia, e tornava anche ad essere ricco, perché i suoi avevano una villa bellissima a picco sul mare, sopra la grotta della Zinzulusa, a Castro. Io ho lasciato l’Università nel 1975, e credo anche lui. Dopo aver combattuto e stravinto le prime elezioni universitarie che permettevano agli studenti di entrare negli organi di governo degli atenei. Io andai a fare il giornalista, lui l’avvocato e poi il magistrato. Ci siamo persi di vista, ma da lontano ho seguito la sua carriera. È stata una carriera notevole, da Pm a Roma e a Catania, da membro del Csm, da magistrato impegnatissimo. Per diventare Procuratore a Catania dovette combattere con Giovanni Tinebra che voleva quell’incarico e sosteneva che Salvi di mafia non sapesse niente. Tinebra ne sapeva? Era quello che quando indagò sull’uccisione di Borsellino credette (nel migliore dei casi, diciamo, credette) al pentito falso Scarantino e finì per nascondere per sempre la verità. Per fortuna la corsa a Procuratore di Catania la vinse Salvi. Salvi non ha mai amato la pubblicità, i giornalisti, tantomeno le fughe di notizie. Eppure è stato protagonista di processi importantissimi. È lui che nell’82 riaprì il processo per la morte del banchiere Calvi, che era stata archiviata come suicidio (sto parlando del tragicissimo scandalo del Banco Ambrosiano). È lui che ha indagato su Ustica (l’aereo dell’Itavia abbattuto non si sa da chi, forse dai libici, forse dai francesi, forse dagli americani), sull’omicidio Pecorelli e soprattutto su Pippo Calò, il cassiere della mafia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Indagò anche sulla banda della Magliana e poi si mise in testa di inseguire un certo Contreras Sepulveda che era stato il capo della polizia politica di Pinochet, in Cile, e aveva fatto ammazzare un sacco di gente, anche di Italiani. Riuscì a farlo condannare. Salvi è un magistrato molto molto esperto. Gran parte delle sue inchieste – non tutte, naturalmente – sono state coronate da successo. Dico non tutte perché, per esempio, Andreotti fu pienamente assolto per l’omicidio Pecorelli. È una persona che ama davvero la legge e il diritto. Molto, anzi troppo. Come tantissimi altri magistrati ha un’idea della legge quasi religiosa. Non solo della legge, anche della macchina della giustizia. La considera la cosa più importante che c’è, in una società moderna. La mette al di sopra di tutto, di tutti gli altri valori e di tutti gli altri meccanismi sociali. Per Salvi una società moderna e giusta è una società dove tutti i colpevoli vengono scovati e puniti e dove scovare i colpevoli è un dovere assoluto, una missione, sovraordinata a ogni altra missione e a ogni altra attività. Al vertice della civiltà Salvi vede il Tribunale. Lo dico anche con affetto, perché non riesco a non avere affetto per il vecchio amico e per una personalità seria e specchiata. Però anche con un po’ di paura. La paura di sempre: che quelli come lui abbiano in mente il sogno dello Stato etico…

Il populismo giudiziario ha un nuovo nemico: il procuratore Salvi. Stefano Anastasia de Il Rifomista il 5 Febbraio 2020. Dobbiamo essere grati ai vertici della magistratura, al Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, al Procuratore generale Salvi, a molti presidenti e procuratori generali di Corte d’appello, per le parole di verità che hanno pronunciato sulle difficoltà della giustizia italiana, sui rischi di politiche scriteriate, sugli effetti che esse comportano nel delicato sistema dell’esecuzione penale, sovraccarico di misure detentive impossibili da eseguire in condizioni di dignità e sicurezza, per i detenuti e per gli operatori. Una volta tanto il confronto parlamentare sull’inaugurazione dell’anno giudiziario andrebbe fatto dopo: dopo aver ascoltato analisi e riflessioni che dovrebbero far cambiare agenda e prospettive all’azione di governo e ai lavori parlamentari, a partire dalla soluzione della stortura generata dal processo infinito, vero e proprio abuso contro i diritti degli imputati e le norme costituzionali e sovranazionali che li proteggono. Purtroppo, però, il Parlamento è ostaggio di diverse forme di populismo penale, maturate in un trentennio di abusi del diritto e della giustizia e ormai equamente annidate al governo come all’opposizione. Difficile, dunque, che se ne esca in tempi brevi, ma le parole delle supreme magistrature e, in particolare, quelle del Procuratore generale Salvi meritano di essere riprese perché individuano efficacemente gli elementi costitutivi degli usi populisti del diritto e della giustizia penale e i danni che ne possono venire all’esercizio della giurisdizione, alle responsabilità della politica, alle aspettative della società civile. In questo quadro due mi sembrano i passaggi decisivi del discorso del Procuratore generale che meritano di essere estrapolati dalla contingenza e posti a base di una riflessione di più lungo periodo e, speriamo, di qualche prospettiva: quello relativo alla diffusività dell’intervento penale e quello sulla responsabilità dei magistrati del Pubblico ministero nella comunicazione pubblica del proprio lavoro. «Mentre sono ormai condivisi, nella pratica della giurisdizione, i principi costituzionali, non sembra pienamente affermato – dice Salvi – il tratto distintivo di un diritto penale quale delineato dalla Carta, che è – innanzitutto – la sua eccezionalità e sussidiarietà; la sua natura di ultima ratio». Quando si parla di panpenalismo si intende esattamente questo: una involuzione della politica che non sa immaginare per sé altro ruolo e altra funzione che quella di indicare a una società legittimamente sofferente e timorosa del futuro la prospettiva di una responsabilità penale e del suo capro espiatorio, lo «spostare le politiche pubbliche dal fenomeno e dalla sua complessità ai suoi soli risvolti punitivi». È questo uno degli elementi costitutivi dell’uso populista del diritto e della giustizia penale da tempo individuati dalla migliore letteratura scientifica internazionale, a partire dagli scritti di quel Jonathan Simon citato da Salvi nella traduzione italiana (il “governo della paura”) della sua opera magistrale su come la “guerra al crimine” ha trasformato la democrazia americana: governing through crime, governare attraverso (oserei dire: per mezzo) della criminalità (e del suo uso politico, ovviamente). I fenomeni devianti non sono affrontati nelle loro cause e nei loro presupposti, ma sono agitati a fini di consenso da una politica impotente o incapace. «La tentazione del “governo della paura” – dice ancora il Procuratore generale – ha riflessi anche sul pubblico ministero. Dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo». E siamo così ai rischi di un populismo giudiziario. Abbiamo detto dei molti usi populisti del diritto e della giustizia penale: tra di essi ce ne sono “di destra” e “di sinistra”, sedicenti “progressisti” o velatamente conservatori, portati avanti da partiti rappresentati nelle istituzioni o da movimenti sociali che confondono legittimi obiettivi politici con la punizione dei propri avversari. Tutti hanno in comune la ricerca di consenso attraverso l’abuso del diritto penale. Ma tra di essi possono esserci anche attori istituzionali, che abusano del loro ruolo per costruire o rafforzare il proprio consenso nella sfera pubblica. Così è stato per l’ex-ministro dell’Interno, così può ben essere da parte di magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, come rilevato da tempo da parte di un acuto osservatore come Giovanni Fiandaca. La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, che deve essere moderata «dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio», dice ancora Salvi, «deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. Questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero» che, aggiungo io, sarebbe inevitabilmente attratto nell’orbita dei poteri elettivi, con i relativi oneri e le relative responsabilità. Questa, dunque, la rilevanza del contributo offerto dal Procuratore Salvi a una riflessione non occasionale sul rapporto tra politica e giustizia. Speriamo che se ne faccia tesoro per il futuro.

Nicola Gratteri, pm delle "rivoluzioni" in favore di telecamera. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 30 Gennaio 2020. Mettiamo in fila i fatti e poi ciascuno si fa l’idea che vuole. Qualche settimana fa il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, organizza una conferenza stampa. Davanti a una foresta di microfoni e telecamere, illustra i tratti dell’operazione di rastrellamento che ha condotto all’arresto di trecentotrenta persone. Spiega che si tratta del compimento di una “rivoluzione” alla quale pensa dal momento in cui ha preso posto in quel suo ufficio, una rivoluzione intesa a «smontare la Calabria come un trenino Lego, e poi rimontarla pian piano». Qualche giorno dopo, su Twitter, scrive: «‘Ndrangheta, la maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali: niente su Stampa e Repubblica, un box sul Corriere». Gli dispiaceva dunque che i giornali, quelli “grandi”, non avessero nella dovuta maniera divulgato la notizia della “rivoluzione”. Non gli dispiaceva invece che i giornali riferissero che lui «sta ripulendo la Calabria», e allegava l’articolo in cui si spiegava che la politica in quella regione è «una montagna di merda». Ora ci pare che questi messaggi non appaiano più nel profilo Twitter del dottor Gratteri, ma siamo certi del fatto che non negherà di averli pubblicati. I fatti proseguono con il dottor Otello Lupacchini, sino a qualche giorno fa procuratore generale di Catanzaro, che, in merito alla “rivoluzione” e ai modi con cui il dottor Gratteri ne fa promozione, dice in buona sostanza due cose. La prima: che non gli piace troppo la spettacolarità di certe operazioni, le quali, a suo giudizio, si rivelano spesso evanescenti e improduttive di risultati. E la seconda: che le informazioni su queste faccende, sempre a suo giudizio, dovrebbero essere condivise tra gli uffici piuttosto che affidate a giornali e televisioni. E i fatti finiscono (siamo a questi giorni) con il dottor Lupacchini degradato e trasferito a Torino. Se abbiamo ben capito (non siamo del ramo…) a eccitare il procedimento che ha portato a questa misura disciplinare è stato il concerto delle istanze del ministro della Giustizia, l’avvocato Bonafede, e del procuratore generale della Cassazione, dottor Salvi, istanze poi accolte dal Csm il quale appunto ha rimosso dal vertice del distretto di Catanzaro Lupacchini e lo ha spedito, in rango subordinato, all’ufficio piemontese. Che dirne? Il difensore di Lupacchini ne dice peste e corna. Su alcune si sarebbe spinti a dargli credito alla cieca, per esempio quando denuncia che la richiesta del ministro Bonafede era “disseminata di errori perfino grammaticali”. Per il resto, com’è suo diritto, lamenta che il suo assistito è vittima di un provvedimento ingiusto, politicamente orientato e che ha fatto sacrificio del diritto del dottor Lupacchini a una compiuta difesa. Non abbiamo elementi né la competenza sufficiente per esprimere un giudizio in proposito. Ma quel che da profani si può osservare è che si tratta di una giustizia molto mal bilanciata: sbilenca proprio, diremmo. Perché da un lato c’è quello che arresta centinaia di persone e fa (e pretende dai giornali) l’elogio del suo lavoro, quando poi fioccano i provvedimenti che liberano una quantità di quei detenuti perché la misura cautelare si rivela ingiustificata. E dall’altro lato c’è quello che esprime, magari anche in modo appuntito, perplessità sulle maniere di quel modo di procedere: e perciò viene punito pur davanti alla riprova che forse non andavano arrestati tutti e che, in ogni caso, la concione dell’”uomo immagine” che spiega ai giornalisti i suoi sogni di una Calabria ribaltata non costituisce il profilo inevitabile di un ufficio giudiziario. È bene intendersi, dunque. Il magistrato avvezzo alla ribalta meglio farebbe a dismettere l’abitudine. Ma non è che lo censuriamo anziché celebrarlo se si azzarda a criticare l’amministrazione della giustizia piuttosto che cantarne le gesta eroiche. Dopo di che potrà anche essere che la presenza in Catanzaro del dottor Lupacchini, per aver egli usato parole inopportune, sia da giudicarsi incompatibile. Qualcuno tuttavia avrà pure il diritto di pensare che certe rivoluzioni in favore di telecamera si segnalano per incompatibilità anche più gravi, che mettono in sofferenza beni più importanti: la civiltà del Paese, lo Stato di diritto.

Lo showman Gratteri sale in cattedra per una lezione sul rischio di autoreferenzialità…Giovanni Altoprati de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. “La comunicazione degli uffici giudiziari: sostanza e forma”. Relatore, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Non è uno scherzo ma il titolo della tavola rotonda in programma domani mattina a Roma all’hotel Parco dei Principi nell’ambito di un convegno organizzato da Magistratura indipendente, la corrente di “destra” dell’Anm e di cui Gratteri è simpatizzante. Come si legge nella nota di presentazione dell’incontro, al quale sono attesi magistrati da tutta Italia, «sulla comunicazione si gioca la legittimazione sociale della Magistratura (con la M maiuscola, ndr) per evitare il rischio di una sterile autoreferenzialità». L’incontro, va precisato, era stato fissato all’indomani della maxi-retata anti ‘ndrangheta voluta da Gratteri e, quindi, prima che esplodesse la “polemica” a distanza con il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. La scorsa settimana, nel suo intervento durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, Salvi aveva chiesto ai pm di moderare il loro protagonismo. «E’ ricorrente la polemica – aveva precisato Salvi – circa le dichiarazioni rese da magistrati del “pubblico ministero”. La moderazione nelle dichiarazioni, resa necessaria dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio, è manifestazione della professionalità del capo dell’Ufficio». «La comunicazione, nei toni misurati e consapevoli, deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso», aveva aggiunto il pg della Cassazione, secondo cui «questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero». In molti avevano letto nelle parole del pg della Cassazione un richiamo alla conferenza stampa, durata circa due ore, di Gratteri per l’indagine Rinascita-Scott. «Per me – aveva detto il procuratore calabrese per illustrare i 330 arresti – era importante realizzare un sogno, fare la rivoluzione, quella di smontare la Calabria come un treno dei Lego e rimontarla piano piano».  Conferenza stampa che, fra l’altro, aveva costretto il pg di Catanzaro Otello Lupacchini a lasciare la Calabria: per aver criticato l’esposizione mediatica di Gratteri, il Csm lo aveva trasferito a Torino come semplice sostituto.

Se i magistrati parlassero meno, l’Italia sarebbe più libera.  Iuri Maria Prado su Il Riformista il 4 Febbraio 2020. In italiano aulico si direbbe chiagni e fotti. Qui, in modo corrente, diciamo che lascia almeno perplessi la tesi secondo cui i magistrati sarebbero a rischio di mordacchia. Pure, la tesi che sfila è ormai questa. Giusto l’altro giorno – mentre, come ogni giorno, tutti i quotidiani e le televisioni d’Italia erano impegnati nel riporto di qualsiasi sbuffo togato – un noto collaboratore de Il Fatto Quotidiano, Gian Carlo Caselli, ha scritto che «le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio». E spiega: «Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare». Il che, per il collaboratore del giornale di Marco Travaglio, sarebbe assurdo: come se si pretendesse il silenzio dei medici quando si discute di sanità o quello dei giornalisti quando si parla di informazione. Che dire? Un paio di cose. La prima: che davanti alla scena di un dibattito pubblico dove la parola della magistratura corporata non è propriamente inibita, queste considerazioni di Gian Carlo Caselli si profilano in modo abbastanza incongruo. Forse assistiamo a uno spettacolo diverso, ma a noi francamente non sembra che nella temperie italiana il diritto di parola del magistrato incontri gravi impedimenti di esercizio. Ma una seconda osservazione bisogna fare a proposito di quel che scrive: e cioè che paragonare i magistrati agli esponenti di altri mestieri non si può, perché il mestiere di magistrato non è un mestiere come un altro. Se si discute pubblicamente di dare questo o quel potere alle forze armate, a me suona un po’ male che un colonnello a capo del suo reggimento partecipi al convegno pretendendo di “dire la sua”. Perché magari lui non lo vuole, ma c’è almeno il sospetto che le cose che dice possano affermarsi grazie al timore incusso dalle armi che la società gli ha dato il potere di maneggiare. Ed è un potere che al militare è stato attribuito per proteggere la società dalla sopraffazione della violenza illegale: non per partecipare alla vicenda civile e politica del Paese. E nel caso dei magistrati è tanto diverso? Non è tanto diverso e anzi è proprio lo stesso. Perché anche il magistrato è un uomo armato: è armato del potere di giudicare e imprigionare le persone, e questo potere non è meno offensivo giusto perché punta contro i cittadini la minaccia del carcere anziché la bocca di un fucile. Probabilmente nemmeno lui, nemmeno il magistrato che, armato del suo potere, pretende di dire la sua al modo del colonnello in parata, vuole davvero che le sue parole, i suoi propositi di riforma, le sue istanze di governo della giustizia, rischino di imporsi in forza della capacità intimidatoria dei pericolosi strumenti di lavoro che la società gli ha messo in mano. Ma io discuto molto mal volentieri se il mio interlocutore ha una pistola, e non è che sono più tranquillo se anziché metterla sul tavolo la tiene nella fondina. Pare che la questione neppure vagamente impensierisca i magistrati che rivendicano il diritto di occupare ogni luogo del dibattito pubblico in tema di giustizia. E visto che non li impensierisce i casi sono due: o non si rendono conto di quanto sia pericoloso che il loro intervento si imponga sulla scena di una società intimorita dal loro potere, e allora si tratta di una improbabile buona fede che sarebbe anche facile perdonare; oppure se ne rendono conto benissimo e cioè sanno perfettamente che il loro eloquio è invigorito dal potere di cui dispongono, vale a dire il potere di rinchiudere in una cella la vita di una persona: e allora quella buona fede è irriconoscibile, ed è imperdonabile la loro pretesa d’aver voce in capitolo. Vorremmo magistrati inchinati davanti al potere di cui dispongono, cioè timorosi e saggi nell’esercitare il potere immenso che gli abbiamo attribuito. Invece spesso vediamo una magistratura impettita, che ci intima di inchinarci davanti alla sua pretesa di dire e fare tutto ciò che vuole.

Nascita di un processo mediatico. Valentina Stella il 21 gennaio 2020 su Il Dubbio. L’incontro dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’UCPI insieme alle Camere penali di Milano, Roma e Napoli, per ragionare sulla nascita del processo mediatico. ‘Il processo mediatico tra diritto di cronaca e presunzione di innocenza’ è il titolo del convegno organizzato dall’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’UCPI insieme alle Camere penali di Milano, Roma e Napoli, e moderato dal giornalista Alessandro Barbano. Se il contesto istituzionale dell’evento è la decisione di qualche mese fa del Procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo e del suo omologo di Milano, Francesco Greco, di permettere ai giornalisti di avere parte degli atti giudiziari “di rilievo pubblico” – espressione alquanto contestata perché arbitraria -, tali però da non danneggiare il segreto istruttorio, il contesto più popolare lo ricorda l’avvocato Cesare Placanica, presidente dei penalisti romani: nel caso Meredith Kercher “il ribaltamento dalla sentenza di condanna di primo grado aveva provocato quasi dei tumulti popolari;  le pietre e gli insulti non li indirizzavano agli imputati né agli avvocati ma ai giudici, cioè si ribellavano alla mancata conferma nella sede propria del giudizio popolare”, spesso alimentato dalle distorsioni mediatiche della narrativa processuale. La genesi del processo mediatico è caratterizzata da due elementi: la pubblicazione dell’ordinanza cautelare, in cui, come sottolinea Melillo avviene quello ‘scambio morale’ in cui la magistratura “o gli avvocati di parte civile passano le carte confidando in una rappresentazione dei fatti” a loro favorevole; e la conferenza stampa di procure e forze dell’ordine verso cui lo stesso Melillo ha manifestato la sua “idiosincrasia perché si rischia di scivolare in una eccessiva enfasi”, accompagnata dalla “convinzione che l’ufficio del pubblico ministero debba fare un passo indietro sul  versante della visibilità mediatica” anche “per tessere le fila di un nuovo rapporto con l’avvocatura fondato sulla condivisione di alcuni principi”. Per Greco invece “il problema non è se dare l’informazione ma come darla” e polemizza con le Camere Penali: “da parte vostra non è mai arrivata in tal senso una proposta, a meno che non sia quella del silenzio assoluto che sarebbe ridicola”. Inoltre per il Procuratore “il processo mediatico sfugge al dominio del pubblico ministero o degli avvocati perché è un problema che riguarda le logiche dell’informazione”. Se fosse così, ma non lo è, potremmo sperare in una coscienza istituzionale dei giornalisti – obietta Barbano ad Enrico Mentana – “per cui non la quantità di notizie né la concorrenza rappresentino i nostri valori bensì la capacità di indipendenza”? Per il direttore del TG La 7, “se in un mondo etico decidiamo ad esempio di non fare il nome del politico interessato da un provvedimento giudiziario poi però non possiamo garantirci che altri non lo facciano”. E a Mentana, che ha paragonato la stampa ad un lavandino dove arrivano dai rubinetti le notizie, ha risposto il professor Luca Marafioti: “il perverso rapporto tra il lavandino e la magistratura, ossia il rubinetto, ha dimostrato che il lavandino, trasformando e ripetendo le notizie che dal rubinetto arrivano, ha alimentato una sorta di fastidio verso i ritmi del processo, verso la nozione di prova, ha confuso la la notizia investigativa con il giudizio”. Una risposta è giunta anche dal professor Ennio Amodio: nella rappresentazione di Mentana “è come se il giornalista fosse vittima di questa esondazione di notizie e non potesse fare niente; ma noi sappiamo che non è così, noi sappiamo che la notizia è lavorata, che la notizia può essere presentate in mille modi, sappiamo che c’è una saldatura molto netta tra ciò che fa la Procura e ciò che pubblica il giornale”. Invece per Carlo Verna, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che ha ricordato il nuovo protocollo sottoscritto con il CNF, “quando arriva una notizia dobbiamo capire se ha una rilevanza sociale; non c’è solo l’ azione penale obbligatoria, c’è anche la pubblicazione obbligatoria di notizie che hanno rilevanza pubblica e noi dobbiamo rispondere a questa logica: questa è la nostra via maestra. I nostri paletti sono il rispetto della verità e il rispetto della persona e in questo vado incontro alle esigenze del professor Amodio”. Giusto, tuttavia, come ha sintetizzato il presidente dei penalisti milanesi, l’avvocato Andrea Soliani, “secondo uno studio dell’osservatorio informazione, tutti i contributi della stampa che attengono alla fase dell’indagine sono nella quasi totalità contributi colpevolisti. E ciò potrebbe andare ad influenzare i giudici del dibattimento e i testimoni”. Sempre sul versante delle molteplici conseguenze del processo parallelo a quello dell’aula giudiziaria si è espresso l’avvocato Giorgio Varano: “il processo mediatico costante contro i condannati” è una delle cause “della mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario nel 2018”, così come “la vicenda terribile della strage di Viareggio ha comportato una tale terribile enfatizzazione da mettere in discussione il tema della prescrizione. È partito tutto da quando i reati di lesione e incendio colposi sono stati prescritti”. Ci vorrebbero però delle risposte culturali ha detto l’avvocato Ermanno Carnevale, presidente dei penalisti napoletani: “il vero antidoto non è solo normativo – rispondendo a chi proponeva un intervento del legislatore o dei consigli disciplinari  – ma è culturale; occorre costruire una cultura del linguaggio condivisa perché non ci sono leggi che possono risolvere il problema della descrizione di una vicenda giudiziaria; l’obiettivo, salvo il diritto dovere di informare, dovrebbe essere quello di utilizzare un linguaggio che non leda la dignità delle persone, a prescindere dal ruolo che si ricopre”. Ma la questione è anche politica come evidenziato dall’avvocato Luca Brezigar per cui “ per molti politici, dinanzi al giudice arriva per forza un colpevole, non avendo loro né conoscenza delle regole processuali né cultura delle garanzie”. A concludere l’incontro l’avvocato Paola Savio, il cui intervento breve ma pungente potrebbe rappresentare la chiave di lettura di un prossimo incontro sul tema, dove la prudenza lasci il posto alla reale raffigurazione della situazione e definisca seriamente le responsabilità di un fenomeno dilagante –quello della gogna mediatica – dato sfortunatamente per scontato: “ciascuna figura chiamata in causa ha il suo ordine, è vero che cane non mangia cane ma finiamola con questa farsa. Laddove ci sono delle regole, queste potrebbero essere implementate a livello ordinistico. Non dobbiamo dimenticare quei profili disciplinari che probabilmente potrebbero colpire di più, in più breve tempo e molto meglio quelle sciagurate occasioni in cui il diritto di difesa e soprattutto il principio di innocenza viene vituperato: i talk show imperversano, ogni venerdì  (riferendosi ad una nota trasmissione televisiva che si occupa di cronaca nera, ndr) – siamo assolutamente profanati nella nostra intelligenza nel vedere determinate ricostruzioni”.

Albamonte: «Pm e giornalisti, ora basta con le notizie a mercato nero». Giulia Merlo il 28 Febbraio 2018 su Il Dubbio. L’allarme del presidente dell’Associazione nazionale magistrati: «C’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria». Lo ha definito «il mercato nero delle fonti», il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte. Un “mercato nero” in cui «l’informazione è costretta a stabilire un rapporto preferenziale con una o con l’altra parte del processo per avere notizie e documenti» è sintomo di un giornalismo che «potrebbe essere forzato verso una posizione piuttosto che sull’altra, mentre deve essere neutrale». Mai il sindacato delle toghe si era espresso in maniera tanto esplicita, prendendo posizione nella battaglia contro la spettacolarizzazione delle inchieste anche a spregio dei limiti di legge, che da tempo viene portata avanti anche dall’avvocatura. «Con il giornalismo spettacolo c’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria», ha continuato il leader di Anm, che ha parlato davanti a una platea più che interessata: i giornalisti che hanno preso parte al seminario sulla libertà di stampa, organizzato dall’Associazione Stampa Romana. Il magistrato ha poi evidenziato i rischi della mediatizzazione dei processi nei talk show: «può provocare effetti distorsivi, producendo un’opinione sfalsata rispetto al procedimento giudiziario in corso». Albamonte non ha risparmiato critiche a un giornalismo «borderline», dove «si fa credere di fare informazione e invece si fa intrattenimento, che è cosa ben diversa dal giornalismo “orientato”, che invece fa parte della tradizione italiana». E, siccome la giustizia non deve essere in alcun modo confondibile con l’intrattenimento, la cronaca giudiziaria avrebbe bisogno di un maggiore approfondimento. Sul fronte della magistratura, il leader di Anm ha rilevato come serva una «migliore comunicazione» tra toghe e giornalisti, perchè la distorsione delle notizie nasce da una mancata comprensione: «La giustizia italiana si dovrebbe dotare di uffici stampa, composti da professionisti dell’informazione e da magistrati, per diramare note esplicative sulle decisioni adottate e far capire il percorso seguito nel processo». E, a prescindere da questo intervento sugli uffici, «i magistrati devono lavorare sul linguaggio da utilizzare nei loro atti, che non deve essere criptico». Capitolo dolente in materia di giustizia, Albamonte ha affrontato anche la questione delle intercettazioni, riconoscendo alla riforma Orlando di essersi mossa nella giusta direzione: «Le intercettazioni strumenti molto forti sia dal punto di vista dell’indagine giudiziaria sia dal punto di vista dell’informazione all’opinione pubblica. Negli anni abbiamo assistito al tentativo di ridurre le intercettazioni o la loro pubblicazione, ora la legge cerca di raggiungere un punto di equilibrio». Infine, il presidente dell’Anm non ha risparmiato un’ulteriore critica alla stampa italiana: la mancanza di vero giornalismo d’inchiesta. «Siamo un Paese con una forte tradizione e una volta i capi delle Procure avevano fin troppi articoli di giornale sulla loro scrivania, oggi è il contrario». Forse anche questo un effetto del rapporto privilegiato della stampa con una sola parte del processo, rinunciando alla neutralità e dunque all’autonoma ricerca di notizie. L’intervento si è chiuso con un monito, rivolto non solo ai giornalisti: «L’informazione sulla giustizia è una scelta strategica: è indispensabile per la giustizia e per spiegarne le dinamiche ai cittadini».

Processo mediatico e prova scientifica: il mix micidiale. Perché il caso di Massimo Bossetti è emblematico della deriva giudiziaria italiana. Angela Azzaro il 19 luglio 2017 su Il Dubbio. È come se con l’assassinio di Yara Gambirasio e il conseguente processo a Massimo Bossetti fossimo entrati direttamente nella serie tv Csi – la scena del crimine. A scaraventarci in quel clima che pensavamo possibile solo nei telefilm americani ci ha pensato tutta la vicenda legata al Dna.

IGNOTO 1. Per anni la procura di Bergamo ha cercato di trovare a chi appartenesse il materiale organico recuperato sui leggins di Yara, di trovare cioè quel famoso Ignoto 1, che secondo ormai due sentenze sarebbe Massimo Bossetti. Siamo davanti a un’intricata vicenda dal punto di vista genetico e processuale, ma proprio per questo è interessante capire cosa sia davvero accaduto e quale sia stato l’atteggiamento prima della procura, poi dei giudici davanti alla “prova scientifica” entrata così prepotentemente in scena. Molti esperti – avvocati, criminologi, genetisti – in questi anni stanno ragionando su come la prova scientifica proprio per quel valore oggettivo che si dà alla scienza – possa condizionare fortemente gli esiti dei processi al di là del diritto alla difesa. Il caso di Bossetti da questo punto di vista è esemplare. Nonostante il Dna sia considerato la prova regina, quella che schiaccia davvero il muratore di Mapello, non solo non è stato possibile ripetere l’esame, ma questo la prima volta che è stato effettuato – non è avvenuto nel contraddittorio delle parti.

SCIENZA E VERITÀ. La prova scientifica è come se avesse sostituito tutti gli altri elementi come la dinamica omicidaria e il movente. Il rischio che si intravede è quello di fare diventare gli indizi “scientifici” prove certe, dogmi, che nessuno può mettere in discussione a discapito del diritto alla difesa. Problema non da poco in un’epoca in cui la scienza e la tecnica diventano strumenti di indagine decisivi. Non è un caso che per Bossetti sia stato proprio il Dna il perno su cui sono ruotati sia il processo di primo grado sia l’Appello. Ed è sempre per questo che anche chi è convinto della sua colpevolezza, sperava che venisse accolta la richiesta di una super perizia che avrebbe fugato ogni dubbio.

GIORNALI E TV. Se la prova scientifica sta acquistando questo connotato di “verità” assoluta è grazie al connubio con quanto di meno scientifico esiste: il processo mediatico. Nel processo a Bossetti questi due elementi si sono sposati in maniera perfetta: da una parte il dogma indiscutibile del Dna ( come se anche un esame non possa essere più o meno effettuato correttamente) dall’altra un processo che è avvenuto ancora prima che nelle aule del tribunale, su giornali e tv. Da subito Bossetti è sembrato “l’assassino perfetto”: più la sua immagine appariva lontana dall’efferatezza del terribile omicidio compiuto ai danni della giovane Yara, più la sua immagine è diventata manipolabile da parte dei media. È per questo che il processo a Bossetti è diventato emblematico di quanto e come giornali e tv possano condizionare fortemente il dibattimento. Non si tratta quindi di essere più o meno innocentisti: il problema che alcuni si pongono – è se effettivamente l’imputato abbia sì o no goduto di un giusto processo e di un pieno diritto alla difesa.

IL FURGONE. Quasi quanto il Dna, nella storia processuale ha pesato il video del furgone che passa e ripassa davanti alla palestra da dove è uscita Yara prima di sparire. Quel video per molti è la prova della colpevolezza di Bossetti. Ma quel video non è mai stato messo agli atti dalla procura nel processo di primo grado. Era stato fatto, per ammissione degli stessi inquirenti, per “esigenze di comunicazione”. Non era stato messo agli atti perché si trattava sempre della stessa immagine montata per far credere che il furgone passasse e ripassasse, per dare cioè l’idea che Bossetti fosse ossessionato da Yara. Ma non è questo il punto. Questo riguarda il processo, non noi. A noi interessa riflettere sul fatto che una procura abbia “esigenze di comunicazione”. E’ l’ammissione che il processo mediatico è una realtà di fatto. E non è – qualsiasi cosa si pensi di Bossetti – una bella realtà.

·         Processo Eni e Consip. Dove osano i manettari.

L’assalto del Fatto Quotidiano ai giudici del caso Consip. Redazione su Il Riformista il 17 Ottobre 2020. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti parla, in un videoeditoriale, del caso Consip. Sansonetti dice: “Alfredo Romeo, che è il mio editore, è coinvolto in questa inchiesta. La conosco bene. Romeo è stato arrestato due volte e in entrambi i casi scarcerato dalla Cassazione che ha detto ‘Qui non c’è niente’. La mia idea è che non lo mollano poiché non fallisce. Quando un imprenditore viene preso dalla giustizia e da diverse procure che lo vogliono stritolare deve fallire e se non lo fa è un ribelle per cui va punito“. Sansonetti poi sottolinea: “In particolare va punito non solo con le armi della giustizia ma soprattutto con quelle mediatiche. Infatti c’è un pezzo della magistratura italiana, unico caso al mondo, che ha un proprio organo di stampa: Il Fatto Quotidiano. Il direttore, Marco Travaglio, è un magistrato onorario che può fare sia il pm che il giudice, ma di questo ne parleremo un’altra volta…“. “Tra qualche giorno – prosegue Sansonetti – una giudice dovrà decidere se sono o no utilizzabili alcune intercettazioni che sono alla base di alcuni processi Consip. La Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che sono intercettazioni a strascico e quindi non sono utilizzabili“. “Il Fatto Quotidiano è stato incaricato di iniziare una campagna di pressione sulla magistratura che dovrà prendere questa decisione pubblicando un gigantesco articolo che sembra la requisitoria fatta dal Pm in sede di dibattimento come spesso fa il Fatto…“. Sansonetti sottolinea che nell’articolo “C’è un attacco molto forte alle Sezioni Unite della Cassazione. Una richiesta di violare le decisioni della Cassazione. Vediamo come andrà a finire…”.

La ricostruzione del caso Consip. Processo Consip, parla Alfredo Romeo e fa i nomi: ecco chi condizionava le gare. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Novembre 2020. C’è stato un colpo di scena al processo Consip. (Cioè: al troncone del processo Consip che ha come unici imputati Alfredo Romeo e le sue aziende). Ieri era convocata l’udienza con all’ordine del giorno la requisitoria del Pm Mario Palazzi. Invece, prima che Palazzi prendesse la parola, ha chiesto di parlare l’imputato. È un suo diritto. Raramente gli imputati decidono di esporsi con una deposizione spontanea, in genere gli avvocati sconsigliano. Romeo ha rotto il rituale, ha parlato per quasi due ore, ha ricostruito in modo dettagliatissimo tutto il caso Consip, la sua lunga vicenda giudiziaria, e anche la sua storia pluridecennale di imprenditore, ha squadernato tutti gli argomenti che dimostrano la sua innocenza, ha chiesto alla Corte di tenerne conto. Ripeto: Romeo non ha preteso – come si fa solitamente nei processi – che qualcuno portasse le prove della sua colpevolezza. Queste prove non ci sono. Ha presentato lui le prove della propria non colpevolezza. Alfredo Romeo, come sapete, è il mio editore. Può darsi che io sia vittima di un pregiudizio positivo nei suoi confronti, anche perché siamo amici. Però in questo articolo che scrivo ora, e negli articoli che pubblicherò nei prossimi giorni, cercherò di esporre semplicemente e in modo freddo i fatti. Non le opinioni di Romeo, ma solo le cose che ha potuto dimostrare nel suo discorso, basandosi sulle carte delle inchieste (questa sulla quale si fonda il processo, e le varie inchieste parallele sulle quali si svolgono altri processi). Nei giorni scorsi Romeo mi aveva accennato a questa sua decisione di parlare in aula, e me ne aveva spiegato le ragioni. Mi aveva detto che dopo anni trascorsi nella sua veste di “oggetto giudiziario”, sballottato dalle Procure e dai giornali, voleva finalmente andare lui in prima linea e spiegare come sono andate le cose. Così ha fatto, sparigliando un po’ la dinamica del processo. In questo articolo che sto scrivendo cercherò di spiegare quale è la versione di Romeo sui condizionamenti delle gare Consip. Prima però un breve riassunto delle puntate precedenti. In questo processo Romeo è accusato di avere pagato un certo Gasparri, funzionario Consip, evidentemente per farsi aiutare a vincere le gare. Gasparri ha sostenuto di essere stato pagato da lui, non ha saputo dire esattamente né quanto, né quando, né con quale mezzo, né per quali gare, né da dove venissero i soldi, né dove siano finiti, né cosa in cambio di quei soldi gli avesse chiesto Romeo, né cosa lui abbia fatto per aiutare Romeo. Il processo è tutto qui. A carico di Romeo ci sono solo le dichiarazioni di Gasparri e tonnellate di intercettazioni. Romeo ieri, nella sua deposizione, ha fatto notare ai giudici che in nessuna di queste intercettazioni, moltissime delle quali si riferiscono a tutti i colloqui che lui ha avuto con Gasparri, in nessuna, si parla di soldi né di favori da ricevere o da fare. Le intercettazioni dimostrano solo che Romeo conosceva Gasparri. (Ma della questione Gasparri, della quale ieri Romeo ha molto parlato, ci occuperemo in un successivo articolo. Così come ci occuperemo delle intercettazioni, che sono moltissime: Romeo è intercettato in modo costante dal 2008, ed è curioso che in questi 20 anni di Grande Fratello o di Truman Show, nei quali ogni suo palpito è stato registrato e trascritto, non si sia trovato mai un accenno o un progetto di reato. Ne parliamo meglio domani). Ora concentriamoci sulla ricostruzione del caso Consip vero e proprio. Cioè su come sono andate le gare per gli appalti e se ci sono state – e da parte di chi, e a favore di chi – tentativi di addomesticarle e di preordinarne gli esiti. Romeo ha fatto notare che l’attività delle sue aziende va avanti da molti anni. Il suo gruppo lavora con moltissime pubbliche amministrazioni. Circa 300. Dispone di 14 dirigenti, 60 quadri, 2.500 dipendenti più 15.000 persone impiegate nell’indotto. Dal 2014 al 2017 ha gestito 30mila transazioni per un valore di un miliardo di euro. Bene, volete sapere quante gare Consip ha vinto la Romeo Gestioni dal 2011? Non ci crederete: zero. Per la verità tre le aveva vinte ma gliele hanno annullate. Eppure la Romeo gestioni è considerata da tutti l’azienda numero 1 nel settore. Per esperienza, per efficienza, per funzionalità. Possibile che una azienda così solida ed esperta perda tutte le gare a favore di aziende molto meno affidabili? Nonostante questi dati, l’accusa ha parlato di “un sistema Romeo”. Il Pm, in un recente intervento, ha descritto Romeo come di un “corruttore seriale”. E io credo che sia stata proprio questa affermazione a far scattare la decisione di Alfredo Romeo di chiedere la parola in aula. Per difendersi faccia a faccia. Corruttore seriale? «Sono incensurato – ha detto Romeo – sono stato inquisito per 50 capi di imputazione in questi anni, sono stato arrestato tre volte, ho trascorso molti mesi in prigione e ai domiciliari, sono stato sempre stato assolto da tutto, in 15 processi. Sono stato intercettato per dodici anni consecutivi, giorno e notte, con mezzi ingenti; durante questi 12 anni ho interloquito con oltre 300 amministrazioni senza che gli inquirenti trovassero mai niente di irregolare. Sapete spiegarmi dove sta la serialità della mia corruzione? Se mettessimo dentro un computer con un software specializzato tutti questi dati e chiedessimo al freddo computer di definire questa mia situazione, il computer risponderebbe: persecuzione seriale». Poi Romeo ha concluso il suo lungo discorso (che è stato anche interrotto dal Pm, sulla questione intercettazioni: e di questo riferiremo domani) citando Giovanni Falcone. Ha ricordato che Falcone è stato il magistrato che più di tutti gli altri si è servito dei pentiti nel suo lavoro. E grazie ad un uso molto oculato dei pentiti ha sferrato dei colpi micidiali che hanno tramortito Cosa Nostra. Però – ha ricordato – Falcone non credeva a scatola chiusa a quel che gli dicevano i pentiti. Studiava il pentito e studiava l’accusato. Poi decideva se il pentito fosse o no credibile. Il riferimento di Romeo è soprattutto al caso famoso del pentito Pellegriti, che accusava Salvo Lima (braccio destro di Andreotti) di aver fatto uccidere il fratello di Sergio Mattarella. Falcone studiò il caso, non credette a Pellegriti e lo incriminò per calunnia. Cosa c’entra questo con il processo Romeo? C’entra perché l’impressione è che la Procura non abbia usato altrettanta attenzione nel caso del pentito Gasparri. La seconda citazione riservata a Falcone riguarda una sua frase celeberrima: «Seguite i soldi se volete trovare il colpevole». Dove portano i soldi, cioè gli appalti assegnati da Consip? Gli appalti non sono stati assegnati al gruppo Romeo. Ad altri gruppi. Quali? Omnia Servitia, raccomandata da Tiziano Renzi e da tal Russo. Poi Cofely, raccomandata da Luigi Marroni (amministratore delegato di Consip) e da Denis Verdini. Poi Team Service, raccomandata sempre da Marroni e da Gasparri. Qualcuno di questi “raccomandatori” è stato arrestato o è stato arrestato qualche amministratore di quei gruppi? No, è stato arrestato solo e unicamente Alfredo Romeo, considerato il Dominus dell’unica azienda danneggiata dal sistema Consip. È curioso, no? P.S. Sono tutte accertate queste accuse di Romeo? Cioè, ci sono le prove di quel che dice? Ieri sera gliel’ho chiesto. Mi ha confermato che è tutto scritto negli atti dell’inchiesta. E anzi mi ha aggiunto che nella sua deposizione si è dimenticato la quarta azienda raccomandata: Manutencoop, che era raccomandata dall’allora tesoriere del Pd Francesco Bonifazi.

La ricostruzione del caso Consip. Processo Consip. Palazzi blocca Romeo: “Le intercettazioni la scagionano? Non può usarle…” Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Ieri ho scritto sulla sostanza della deposizione spontanea resa da Alfredo Romeo al processo Consip (uno dei processi Consip) in corso a Roma. Ho raccontato come Romeo ha ricostruito tutta la vicenda, anzi due distinte vicende: la prima è la storia della sua azienda, che da molti anni è la numero 1 nel campo di quella attività di servizi che si chiama “facility management”; e la seconda è la storia dei vari procedimenti giudiziari sugli appalti Consip, che da anni finiscono a tutti i concorrenti di Romeo, che pure hanno molta meno esperienza e titoli, ed escludono l’azienda di Romeo. Procedimenti giudiziari che, curiosamente, hanno finora portato solo all’arresto della vittima, accusato di avere dato dei soldi a un funzionario Consip (non si sa né quanti, né quando, né dove, né come e soprattutto si ignora il perché). Vi ho detto di come Alfredo Romeo abbia contestato le accuse che gli vengono mosse, cercando non di ripararsi dietro una evidente assenza di prove, ma presentando lui le prove della propria innocenza. Romeo ha descritto molto bene la dinamica di un sistema di raccomandazioni, e di piaceri, e di influenze politiche, che ha portato ad escludere la Romeo Gestioni da tutti gli appalti (da dieci anni è fuori da tutti gli appalti Consip) e ad assegnare invece ricchi appalti alle aziende concorrenti che erano “sponsorizzate”. Anche oggi, come ogni volta che scrivo di queste cose, vi ricordo che Alfredo Romeo è il mio editore, e che è un mio amico, e dunque voi potreste sospettare che io sia fazioso. Ma così come ho fatto ieri, anche oggi mi limiterò a riportare solo cose certe e documentate. In particolare trascrivo in questo articolo uno scambio di battute avvenuto durante la deposizione di Romeo in seguito a un’interruzione del Pubblico Ministero Mario Palazzi. Le trascrivo esattamente nei termini in cui questo scambio è avvenuto, e poi provo a darvi dei chiarimenti sul retroscena di queste battute. Siamo quasi alla fine della lunga deposizione di Romeo, che è durata più di un’ora e mezzo. Romeo sta parlando dei suoi rapporti con Marco Gasparri, cioè il funzionario Consip che lo accusa di averlo pagato, anche se non sa precisare quanto e come. Romeo spiega che Gasparri non aveva nessun peso sulle gare Consip e che non solo lui non lo ha mai pagato (forse lo hanno pagato altri…), né Gasparri gli ha mai chiesto nulla, ma che non avrebbe avuto nessun senso pagarlo. Dice Romeo che nell’esito delle gare Consip ci sono solo due persone che possono avere un peso: il presidente della commissione giudicante, Francesco Licci, e l’amministratore delegato Luigi Marroni.

Dice Romeo, testualmente:

ROMEO: È su queste due persone che c’erano le pressioni. Vogliamo andare a vedere quali e quando? Beh, certo non è andato Romeo a pranzo con Luigi Marroni. Ci sono andati Denis Verdini e Bigotti. E vogliamo ascoltare le conversazioni nelle quali Marroni diceva a Licci: “aggiudicare gli appalti alla Romeo sarebbe una tragedia”? E Marroni che dice di avere incontrato Bigotti portato da Gasparri? E Gasparri che nega di avere mai incontrato Bigotti e Marroni? E Marroni che dice a Licci: “facciamo entrare Cofely e facciamo uscire Romeo..”? …

MARIO PALAZZI (Pm): … Scusi, lo so che… ma le devo fare un’eccezione…

GIAN DOMENICO CAIAZZA: (avvocato difensore)… Non si può interloquire sulle dichiarazioni spontanee di un imputato…

PALAZZI: ..Le dichiarazioni spontanee in cui si parla di atti di indagine che non sono entrati in questo processo…non penso che sia rituale, comunque…era solo, diciamo…

CAIAZZA: Quali atti che non sono in questo processo?

PALAZZI: Quelli ai quali ha fatto riferimento ora l’avvocato Romeo…

CAIAZZA: Noi vogliamo proprio questo: che il tribunale si renda conto di quello che non è entrato in questo processo, dottor Palazzi…

PALAZZI: Non è previsto dall’ordinamento che l’imputato faccia dichiarazioni su atti di indagine… cioè…allora a sto punto l’imputato può prendere il fascicolo del Pubblico ministero e leggere…

CAIAZZA: Ma le faccia in discussione queste osservazioni… Capisco che questo le dia fastidio…

PALAZZI: Non mi da nessun fastidio…

CAIAZZA: Lo vedremo con le nostre richieste…

PRESIDENTE ROIA: Quando poi credete, lo facciamo finire l’avvocato Romeo?

PALAZZI: Chiedo scusa, avvocato Romeo, non era niente di personale era solo un fatto processuale…

ROMEO: Sì, sono atti processuali, ma li abbiamo letti anche sui giornali…

PALAZZI: Eh, lo so…

ROMEO: Comunque, proseguo: Licci, che è il presidente della commissione giudicante, dice a Marroni: “Fai vendere le quote a tuo figlio…” e si riferisce alle quote di partecipazione ad una azienda che appartiene al figlio di Marroni e al figlio di Verdini…

PALAZZI: … non il figlio, il figliastro…

ROMEO: appare evidente che si è agito ai danni della Romeo gestioni e certamente con la complicità di Marroni e di Gasparri.

Fine della trascrizione. Breve spiegazione: esistono abbondanti intercettazioni e testi di interrogatori nel troncone principale del processo Consip (questo processo in corso, che è un processo al solo Romeo, è uno stralcio del processo principale) dalle quali risultano evidentissimi gli interventi politici che tendevano a condizionare le gare Consip, a favore di varie aziende e tutti a danno delle aziende di Romeo.  Tutto questo materiale, che dimostra in modo lampante non solo l’innocenza di Romeo ma il suo essere vittima, e dimostrano l’assoluta inattendibilità dell’unico teste a carico (e cioè questo Gasparri) è stato tenuto fuori dal processo a Romeo.  È ragionevole che vengano tenute fuori da un processo tutte le prove dell’innocenza dell’imputato, prove delle quali l’accusa dispone? Dopodiché c’è l’affare Gasparri. Chi era questo Marco Gasparri, unico uncino al quale si aggrappa l’accusa? Ecco, di questo Romeo ha parlato abbondantemente e ve ne riferiremo domani.

La ricostruzione del caso Consip. Chi è Marco Gasparri, il testimone di cartone del processo Consip. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Novembre 2020. Chi è Marco Gasparri? Diciamo che questa, a occhio, potrebbe non essere considerata una domanda essenziale per coloro che si interrogano sui valori della modernità, o sul senso della vita, o sui destini della politica. Già. Non è una persona molto famosa, Gasparri, né possiede una biografia particolarmente significativa. Però è l’uomo chiave del processo ad Alfredo Romeo che si sta svolgendo a Roma e del quale vi abbiamo parlato già due volte in questi giorni. Rompendo tutte le regole giornalistiche: di solito i giornali, quando si occupano di un processo, riferiscono le argomentazioni dell’accusa. La difesa non conta. Anche perché per i giornali un processo che si rispetti deve portare a una condanna. Se esce una assoluzione è una sconfitta della giustizia. Come può la giustizia esprimersi assolvendo? La giustizia è condanna, punizione…. Invece qui vi sto riferendo di tutti gli argomenti usati dalla difesa per smontare il “sistema Palazzi”, cioè lo schema che vuole dimostrare la colpevolezza di Alfredo Romeo, corruttore di professione. Palazzi – Mario Palazzi – è il Pm di questo processo. Non è la prima volta che su questo giornale anziché dar spazio all’accusa diamo spazio alla difesa. Lo facciamo per varie ragioni e per moltissimi imputati, ricchi e poveri, politici, imprenditori, no tav, poveri cristi. Una delle nostre ragioni risiede in un articolo del codice penale, quello che dice che non si può condannare nessuno se la colpa non è accertata “oltre ogni ragionevole dubbio”. La giustizia dei teoremi, e dei giornali, ritiene il contrario: non si può assolvere nessuno se la non colpevolezza non è accertata ogni ragionevole dubbio. A volte però la magistratura non rispetta neppure questo principio e nega l’assoluzione anche chi è innocente in modo provato. In questo caso, certo, la nostra attenzione è superiore al solito perché l’imputato è un amico di chi scrive: anzi ne è l’editore. E magari potreste sospettare che questo mi spinga ad essere indulgente. Provo a non esserlo e resto ai fatti. I fatti sono quelli raccontati con molti dettagli da Alfredo Romeo nella deposizione spontanea pronunciata due giorni fa nell’aula del tribunale. Premetto che Marco Gasparri è l’unico appiglio per l’accusa. I fatti sono semplici: Gasparri, ex funzionario Consip, sostiene di avere ricevuto dei soldi da Romeo per consulenze. Non sa dire quanti, non sa dire quando, non sa dire in che forma, non sa dire perché, non sa dire dove li ha messi. Gli inquirenti, per accertare la veridicità delle accuse di Gasparri, hanno esaminato tonnellate di intercettazioni. Alfredo Romeo è intercettato da circa 12 anni, giorno e notte. Nessuna sua azione, nessun suo movimento e soprattutto nessuna sua parola può restare segreta. Nel corso di vari incontri con Gasparri, dicono le intercettazioni, Romeo non ha mai parlato di compensi o di soldi e mai Gasparri ne ha chiesti. Mai. Basta per archiviare tutto? No. Questi i fatti dai quali si parte. Vediamo chi è Gasparri. Entra da ragazzo (30 anni) assolutamente inesperto in Consip, dopo una breve esperienza nell’ufficio tecnico di Santa Marinella. Non sa nulla di “facility management”. Cos’è il facility management? È il terreno di tutte queste battaglie giudiziarie. Un sistema integrato di gestione dei servizi agli immobili del patrimonio pubblico, inventato e sperimentato in Italia per prima proprio dalla Romeo Gestioni, diversi anni fa, presso la sede del ministero dell’Economia (un immobile di oltre 200 mila metri quadrati), e poi diventato “bene comune” per la Pubblica amministrazione e per lo Stato. Ha prodotto enormi risparmi alle casse pubbliche. La Romeo Gestioni è la numero 1 in Italia ed una delle prime in Europa, per unanime riconoscimento, in questo campo. E in questa veste, dopo la nascita della Consip (che gestisce burocraticamente in modo centralizzato i bandi della Pubblica Amministrazione – senza detenere alcun know how tecnico dei servizi che pone a bando, che è tutto delle Pubbliche amministrazioni committenti e dei fornitori – e che nasce anche grazie alle consulenze di Romeo) partecipa a molte gare per gli appalti e, curiosamente, dal 2011 in poi non ottiene neppure un appalto. (Forse il vero caso Consip è questo: come, e perché, e da chi, fu orchestrato un piano per escludere la Romeo dal mercato?). Dunque Gasparri entra giovinetto in Consip e si occupa del settore dei servizi agli immobili. I suoi compiti sono essenzialmente di monitoraggio esecutivo delle Convenzioni dopo che queste sono state stipulate. Dunque non si occupa di gare e di appalti. Non detiene alcun know how in questo campo. Ha un ruolo strettamente burocratico prevalentemente di promozione e marketing verso i diversi Enti Pubblici potenziali committenti dei servizi, finalizzato a convincerli, nell’interesse dell’obiettivo assegnato a Consip di razionalizzazione della spesa pubblica, ad aderire alle Convenzioni Consip, stipulando i relativi contratti esecutivi con i fornitori.

Cosa può dare Gasparri a Romeo? Niente sul piano tecnico (anzi, è lui che chiede a Romeo, che tra l’altro è Presidente del capitolo italiano dell’IFMA, l’associazione internazionale dei Facility Managers di trasferirgli una parte delle sue conoscenze) e niente, ovviamente, per avvantaggiarlo nelle gare. Gasparri non ha voce in capitolo sulle gare che Consip periodicamente ogni 2-3 anni ripete sempre con il medesimo schema capitolare sotto il controllo dell’Anac e di AGCM. Insomma, Romeo non aveva nessuna ragione per pagarlo. Non c’è da meravigliarsi se di questi pagamenti non c’è traccia, né documentale né nelle intercettazioni. Romeo, al processo, ha raccontato di averlo conosciuto perché glielo aveva raccomandato un caro amico, Donato Bruno, nei primi anni duemila, e di averlo aiutato a capire il mondo economico nel quale entrava. Poi lo perse di vista nel 2008, infine lo incontrò di nuovo nel 2015 perché Gasparri era stato mandato da Luigi Marroni (amministratore delegato di Consip) a seguire un convegno organizzato da un’associazione promossa da Romeo. Dopodiché succede che Marroni chiede a Gasparri di andare varie volte a trovare Romeo per ricevere informazioni su un sistema particolare di manutenzione delle strade che Romeo aveva già sperimentato a Roma. Niente di strano. A un certo punto però le richieste di incontri diventano più insistenti. Quando? Dopo che la Romeo ha presentato un esposto nel quale paventa la possibilità che i suoi concorrenti facciano cartello e concorrenza sleale. Dice Romeo. “Ho sempre avuto il sospetto che Gasparri volesse questi incontri per conto di Consip, che di fatto sembrava tollerare i cartelli degli avversari di Romeo, mi sembrava che lui volesse capire quali fossero le nostre strategie dopo la denuncia che avevamo presentato, anche perché probabilmente in Consip c’era una certa preoccupazione per la nostra denuncia. Io ero quasi certo (anche per vari rumors captati nell’ambiente) che Gasparri fosse in combutta con la concorrenza oltre che essere uno che partecipava alla malagestione di Consip. Perciò lo ascoltavo e lo provocavo“. Fatto sta che a un certo punto Gasparri denuncia Romeo. Sulla base di questa denuncia, senza riscontri, Romeo viene arrestato. E la vittoria della Romeo Gestioni in una delle gare di appalto viene annullata, e l’appalto assegnato all’azienda seconda classificata. Più tardi si è saputo che Gasparri lavora per questa azienda che ha ottenuto l’appalto grazie alla denuncia dello stesso Gasparri. Mi fermo qui. Credo che le cose siano abbastanza chiare. È in corso il processo a un signore che viene considerato il dominus di una azienda che è stata pesantemente danneggiata dalla Consip in modo illegale. Nel corso del processo sono state portare tutte le prove della sua innocenza e nessuna prova della sua colpevolezza. Le intercettazioni dimostrano che Romeo si incontrava con Gasparri ma dimostrano anche che non si è mai parlato di soldi.

Solo un aneddoto per finire: fino al settecento, in Francia, la tortura era uno strumento giudiziario legale. Funzionava così: il Pm (chiamiamolo così per semplicità) chiedeva di poter torturare l’imputato. Il Gip (chiamiamolo così) accettava la richiesta e stabiliva i tempi e i modi della tortura (e poi non si potevano chiedere proroghe e proroghe e proroghe…). Se l’imputato confessava durante la tortura la confessione valeva come “mezza prova”, cioè non bastava: occorreva un riscontro. Se non confessava il processo era finito e l’imputato definitivamente assolto comunque. Ora dico: se tu intercetti per dieci anni, per dodici anni, tutti i giorni, a tutte le ore, e non trovi niente di niente, non sarebbe logico far valere almeno quei labili principi settecenteschi? O erano troppo garantisti?

Le carte del processo. Consip, erano tutti raccomandati tranne Romeo: perché è stato arrestato e processato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2020. C’è una svolta nel caso Consip. Personalmente la guardo con grande interesse perché riguarda l’editore di questo giornale, cioè Alfredo Romeo. Sono state depositate tutte le carte relative al supplemento di inchiesta svolto dalla procura di Roma su richiesta del Gip Sturzo. Ci sono le trascrizioni di varie intercettazioni e di numerose deposizioni. Beh, da queste carte risultano alcune cose in modo assolutamente indiscutibile. Due cose. La prima è che nessuno, proprio nessuno, ha mai raccomandato ai capi di Consip “Romeo Gestioni” perché fosse favorita nelle gare d’appalto. La seconda è che invece furono favorite diverse altre aziende concorrenti, e che questi favori, ragionevolmente, danneggiarono la Romeo. Provo a essere più chiaro. Le inchieste Consip sono essenzialmente due: una riguarda solo il Gruppo Romeo, che è giunta a processo – anzi, il processo sta per concludersi – e di questa parleremo meglio tra qualche riga. L’altra riguarda moltissime altre persone, tra le quali i personaggi eccellenti della politica – quelli che piacciono sempre molto ai Pm che sperano di poter ottenere fama dai loro nomi – tra i quali il papà di Matteo Renzi e il suo amico ed ex ministro Luca Lotti. Le carte delle quali ora vi parliamo si riferiscono a questa seconda inchiesta. I Pm avevano chiesto l’archiviazione, ma l’archiviazione era stata respinta dal Gip Gaspare Sturzo che aveva sollecitato nuove indagini. Le nuove carte sono i risultati di queste nuove indagini. Cosa dicono? Rivelano scenari che interessano molto l’altra inchiesta, cioè il processo in corso. In questo processo Alfredo Romeo è accusato di avere pagato un certo Marco Gasparri, che era un dipendente Consip, perché lo aiutasse a vincere le gare. Romeo gli avrebbe dato una cifra imprecisata, in date imprecisate, in forme imprecisate, in luoghi imprecisati. Imprecisati per la semplice ragione che non è stato trovato nessun riscontro, niente, neppure con le intercettazioni (Romeo è stato intercettato costantemente per circa dodici anni), neppure coi bigliettini cercati nella spazzatura dal maggiore Scafarto, neppure con i pedinamenti e gli appostamenti sotto l’ufficio (Ma se uno lo intercettano per dodici anni e non trovano niente, sicuri che va arrestato?). Ora dalle carte risulta una novità molto importante: l’ad di Consip, Luigi Marroni, e il capo della commissione giudicante sui concorsi di appalto, Francesco Licci, sostengono di avere ricevuto varie pressioni per favorire questa o quella ditta che partecipava alle gare d’appalto, ma mai nessuna pressione a favore di Romeo. Le ditte in questione sono la Cofely, sponsorizzata da Denis Verdini, la Manutencoop, sostenuta dal Pd, la Omnia Service, sostenuta da un certo Russo, a quanto pare per conto del papà di Renzi, e la Team Service sostenuta appunto da quel Marco Gasparri che è un po’ la chiave di volta di questa vicenda. Gasparri ha sostenuto di avere incontrato molte volte Romeo e di avere ricevuto da lui una certa somma. Prima ha detto 100mila, poi ha detto meno, non sa in che forma né esattamente quando. Si è poi saputo che Gasparri lavora per una delle società concorrenti di Romeo, ed esattamente per la società che dopo l’arresto di Romeo dovuto alle dichiarazioni di Gasparri, era subentrata nella vittoria di un appalto che spettava a Romeo ma che gli era stato sottratto proprio per le dichiarazioni di Gasparri. In uno dei verbali dell’interrogatorio di Marroni (ripeto: ad di Consip) si legge testualmente: «Al riguardo mi preme osservare che all’epoca dell’incontro con Russo, Romeo era un soggetto neutro. Adesso non è più neutro, anche perché mi ha citato per danni con una richiesta di risarcimento di un miliardo e mezzo. Tuttavia ribadisco che la società che Russo mi chiese di aiutare non era certamente la sua». Russo, secondo l’accusa, premeva su Consip a nome del papà di Renzi. Il concetto è ripetuto varie volte anche da Licci. Dagli interrogatori di Licci risulta che Gasparri e Russo cercarono di favorire le società concorrenti di Romeo e mai Romeo. In nessuna pagina di tutte queste carte si legge che qualcuno abbia sentito Gasparri parlare della Romeo gestioni. Mai. Poi c’è un ultimo elemento, che i magistrati conoscono: dal 2008 la Romeo Gestioni ha partecipato a una decina di gare Consip e le ha perse tutte. L’ultima che ha vinto è di 12 anni fa. Strano tipo di corruttore questo signore che compra, compra e non porta mai a casa niente…Chiaro il quadro? Beh, però la Procura non demorde. Non vuole perdere la partita. In queste ore al processo in corso a Romeo si dovrà prendere una decisione importante: se dichiarare utilizzabili o inutilizzabili le intercettazioni portate dall’accusa. Sono le cosiddette intercettazioni a strascico, ordinate dalla magistratura per un reato diverso e non collegato a quello che è oggetto del processo in corso. Vengono usate, in genere, quando si vuole prendere di mira qualcuno. Si trova un reato pretesto per intercettarlo e poi lo si spia per mesi finché non si trova un qualche reato. Cioè, non si indaga su un reato ma su una persona. Violando così la legalità. E infatti recentemente la Cassazione, a sezioni unite, ha dichiarato inutilizzabili le intercettazioni a strascico. Il Pm del processo Romeo però ha chiesto alla giudice di non tenere conto della sentenza della Cassazione – diciamo così: di violarla – e di ammettere le intercettazioni. Peraltro in queste intercettazioni – che io ho letto – non c’è scritto mai e poi mai che Romeo ha pagato Gasparri. C’è scritto solo che Romeo ha incontrato varie volte Gasparri, e non gli ha chiesto nessun favore, nessun consiglio, nessuna raccomandazione. Però sono l’unico appiglio per la Procura. Se dovessero cadere il processo diventa una fontanella senza acqua. Per evitare questa possibilità la Procura ha messo in moto la sua potenza di fuoco mediatico. Non indifferente. Il suo giornale (Il Fatto di Travaglio) è impegnato allo spasimo per cannoneggiare la sentenza della Cassazione. E anche per trovare nuove accuse contro Romeo. L’ultima, alla quale ha dato molto spazio, è la prova provata che una volta quel Russo, del quale abbiamo già parlato molto, ha fornito a una funzionaria di Palazzo Chigi il numero di telefono fisso della segretaria di Romeo. Non si sa se poi questa funzionaria gli abbia telefonato. Il Fatto però dice che non si può escludere che la telefonata ci sia stata, e che la segretaria gli abbia passato Romeo, e che magari a quel punto sia intervenuto anche Renzi – come fai ad escluderlo? – e che i due potrebbero avere organizzato un delittaccio brutto. Non scherzo mica: loro ragionano così. E se tu ti permetti di ridere, dicono che sei complice della mafia…

P.S. Romeo è un cittadino italiano del tutto incensurato. Finora ha subito circa 15 processi con almeno una trentina di capi di imputazione. È stato sempre assolto o archiviato, e una volta – una sola volta – prescritto. È stato arrestato tre volte. Io non so esattamente quando scatti la possibilità di usare la parola “perseguitato”. Forse devo aspettare ancora un po’… Ma intanto mi chiedo: perché lo hanno preso di mira? C’è una ipotesi possibile? La ragione – se ho capito bene – è semplice: sono furiosi perché nonostante dodici anni di inchieste, arresti, avvisi di garanzia, processi, interdizioni, appalti cancellati, la sua azienda non è ancora fallita. Il partito dei Pm ritiene che se una azienda finisce sotto processo deve fallire. Sennò a che serve la magistratura? Se non fallisci sei un ribelle e vai stroncato. Del resto l’Italia, quando iniziò 25 anni fa l’offensiva dei Pm, era la quarta potenza industriale. Poi ci hanno pensato loro…

Caso Consip, solo Marco Travaglio può farci capire come andarono le cose. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Agosto 2020. Il Fatto Quotidiano domenica ha celebrato il quarto anniversario del caso-Consip, dedicandogli due pagine intere, curate da Marco Lillo. C’erano i ritratti di tutti (quasi tutti) i protagonisti e c’era la ricostruzione dettagliatissima delle accuse. Mancava solo il ritratto dei giornalisti che hanno avuto una parte importante in questa vicenda. Si sa che i giornalisti spesso sono timidi e si schermiscono. Anche nella ricostruzione mancano alcuni piccoli dettagli. Che però hanno una loro rilevanza. Ne cito solo tre, senza il minimo intento polemico, ma solo per sollecitare la collaborazione dei miei colleghi all’accertamento della verità. Finora i miei colleghi si sono tirati indietro. Son stati un pochino reticenti.  I tre dettagli che mancano sono questi:

primo, la notizia che il Gup che ha deciso di rinviare a giudizio Lotti, nonostante il parere contrario dell’accusa, è un Gup un po’ speciale: è un ex assessore, uno che coi vertici del partito democratico (dei quali Lotti faceva parte) aveva avuto a che fare, a volte in modo pacifico a volte in modo conflittuale. Il particolare può avere un suo interesse soprattutto di carattere storico, perché il nostro è attualmente l’unico paese del mondo, credo, dove gli assessori possono rinviare a giudizio un deputato (o qualunque altro comune cittadino).

Secondo dettaglio mancante, la notizia che il caso Consip, che evidentemente interessò i massimi vertici di Consip, lasciò sul terreno molte vittime ma non la più scontata: l’amministratore delegato di Consip, e cioè Luigi Marroni, che è tra tutti l’unico che non è stato indagato.

Terzo dettaglio – il più importante data la situazione – la notizia che lo stesso Marroni, in quei giorni nei quali freneticamente operava per escludere dalle gare alcuni concorrenti (tra un po’ vi diciamo quali) invitava il suo collaboratore Francesco Licci (capo delle relazioni esterne della Consip e anche presidente della Commissione che doveva decidere a chi e come assegnare le gare) a “fare una strategia per il Fatto Quotidiano”. Sarebbe molto interessante scoprire che effetti ebbe quell’invito. Questa strategia fu messa a punto? In che termini? Qual era lo scopo di questa strategia? Ad occhio lo scopo era quello di teleguidare il caso Consip, spingerlo in una direzione anziché in un’ altra. Tenendo conto del fatto che l’aspetto mediatico del caso Consip (che aveva come obiettivo principale la figura di Matteo Renzi, almeno all’inizio) fu rilevantissimo. E anche che l’impressione diffusa è che i giornali, e in particolare i giornali come Il Fatto, hanno un certo potere di indirizzare alcune indagini.

Quando uscì fuori questa notizia dell’interessamento dei vertici Consip per Il Fatto – cioè quando le intercettazioni furono rese pubbliche e non erano più, dunque, a disposizione solo del Fatto Quotidiano e di qualche altro giornale – noi, sul Riformista, in modo molto educato, rivolgemmo proprio a Marco Travaglio questa domanda. Ma lui non ci ha mai risposto. Non ci ha risposto perché la circostanza che l’amministratore delegato di Consip auspicasse una “strategia con Il Fatto” non vuol dire automaticamente che questa strategia si realizzò? Certo che è così, per chiunque consideri le intercettazioni uno strumento di indagine molto generico. Ma sicuramente questo non è il caso di Travaglio che invece ha sempre considerato le intercettazioni (anche quelle non dirette ma di terzi) oro colato. Per questo avrebbe dovuto rispondere, anche eventualmente dichiarando la sua completa estraneità a quelle vicende, ma comunque dichiarando qualcosa. Invece non lo ha mai fatto. Ha finto di ignorare l’esistenza di quelle intercettazioni.

Perché è importante la testimonianza di Travaglio? Per capire meglio la posizione di Marroni e Licci. E capire chi c’era dietro Marroni e Licci. Facciamo un passo indietro per inquadrare bene le cose. In queste intercettazioni delle quali vi parliamo, Licci e Marroni discutono delle gare vinte da Alfredo Romeo. Alfredo Romeo, come immagino sappiate, è l’imprenditore che fu arrestato (e poi scarcerato dalla Cassazione) per il caso Consip ed è anche l’editore di questo giornale (per questo, forse, ho un interesse speciale a questa vicenda: un po’ per amicizia verso Romeo un po’ perché in questi mesi l’ho seguita e, ve lo dico francamente, mi ha abbastanza indignato). Dunque Licci e Marroni nelle intercettazioni dicono che Romeo ha vinto legittimamente le gare ma “Ci sono i segnali che nonostante tu sei in torto e nonostante quello che è, se dai tre lotti a Romeo è una tragedia”. Che vuol dire? Che i vertici Consip, sebbene Romeo avesse vinto legittimamente tra gare, decisero di sottrargliele provocandogli un enorme danno economico e favorendo altri. Su ordine di chi? Del resto, lo stesso Marroni, interrogato da Pignatone, per tre volte negò che Romeo avesse chiesto dei favori, e spiegò che furono altri a chiedere favori. Chi? Su mandato di chi?

Diciamo che è accertato che Romeo nella vicenda Consip è parte lesa. Consip si diede da fare per danneggiarlo a favore dei concorrenti. Pensate che nell’ordine d’arresto di Romeo c’è scritto esattamente questa frase (l’ho vista coi miei occhi): “legittima difesa criminale”. Un monumento all’ossimoro, ma anche l’ammissione che l’arrestato era vittima di una aggressione. Ora qual è il punto. Se Travaglio ci spiegasse se e quali rapporti ha avuto con Luigi Marroni e se e quale strategia sia stata messa a punto (o comunque tentata) in quell’occasione, forse diventerebbe più facile trovare il bandolo di tutta la vicenda Consip. E cercare i mandanti. Chiunque capisce che la vicenda Consip è una vicenda di puro e semplice scontro tra potentissimi poteri politici ed economici. Che hanno fatto strame della libera concorrenza e hanno trasformato l’iniziativa della magistratura e della stampa (perfettamente sinergiche) in una clamorosa messa in scena. Vorremmo capire qualcosa di più di quali siano stati i veri protagonisti.

La Procura di Milano a gamba tesa su Eni: chiesti 8 anni per Descalzi e Scaroni. Redazione su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Mano pesantissima della procura di Milano sul caso Eni. Il procuratore aggiunto Fabio De pasquale ha chiesto una condanna a 8 anni di reclusione per l’ad di Eni Claudio Descalzi per il ruolo che l’allora numero due del Cane a Sei Zampe avrebbe avuto nell’acquisto del maxi giacimento Opl 245 in Nigeria, per ottenere il quale Eni e Shell avrebbero pagato una maxi tangente da 1,3 miliardi di dollari arrivati a personaggi di spicco del governo nigeriano. Stessa pena è stata sollecitata anche per l’ex ad Paolo Scaroni.

GLI ALTRI MANAGER – Il procuratore aggiunto De Pasquale ha anche chiesto di condannare tre ex manager Eni: Vincenzo Armanna e Ciro Antonio Pagano a 6 anni e 8 mesi e Roberto Casula a 7 anni e 4 mesi.

BISIGNANI E GLI INTERMEDIARI – De Pasquale, titolare dell’accusa insieme al pm Sergio Spadaro, al termine della sua requisitoria ha chiesto inoltre condannare Luigi Bisignani a 6 anni e 8 mesi per il ruolo di mediatore che, secondo la Procura, avrebbe avuto nell’acquisto del giacimento Opl 245 in Nigeria da parte di Eni e Shell in cambio, sempre nell’ipotesi della Procura, di una maxi tangente di 1,3 miliardi di dollari.

LA MAXI CONFISCA – De Pascale, al termine della sua requisitoria, ha chiesto di confiscare a Eni e Shell 1 miliardo 92 milioni e 400mila dollari alle due società, definite “il prezzo del profitto” ottenuto dai due colossi del petrolio dall’acquisto del giacimento Opl 245. Risultato ottenuto pagando, nell’ipotesi dell’accusa, una maxi tangente da 1,3 miliardi di dollari. La stessa cifra è stata chiesta a tutti gli imputati in solido tra loro.

ENI: “RICHIESTE PRIVE DI FONDAMENTO” – In una nota diffusa dalla società, Eni sottolinea di considerare “prive di qualsiasi fondamento” le richieste di condanna avanzate da De Pasquale e Spadaro. “Nel corso della requisitoria – ha aggiunto Eni – il pm, in assenza di qualsivoglia prova o richiamo concreto ai contenuti della istruttoria dibattimentale, ha ribadito la stessa narrativa della fase di indagini, basata su suggestioni e deduzioni, ignorando che sia i testimoni, sia la documentazione emersa hanno smentito, in due anni di processo e oltre quaranta udienze, le tesi accusatorie”. “Le Difese – si legge ancora – dimostreranno al Tribunale che Eni e il suo management operarono in modo assolutamente corretto nell’ambito dell’operazione Opl245. Si ricorda che Eni e Shell corrisposero per la licenza un prezzo d’acquisto congruo e ragionevole direttamente al Governo nigeriano, come contrattualmente previsto attraverso modalità chiare, lineari e trasparenti; Eni, inoltre, non conosceva, né era tenuta a conoscere, l’eventuale destinazione dei fondi successivamente versati a Malabu dal Governo nigeriano, pagamento che peraltro avvenne dopo un’istruttoria dell’Autorità Anticorruzione della Gran Bretagna (SOCA). Non esistono quindi tangenti Eni in Nigeria e non esiste uno scandalo Eni – conclude la società -. Eni ricorda i provvedimenti del Dipartimento di Giustizia e dalla Sec americani, che hanno chiuso le proprie indagini senza intraprendere alcuna azione nei confronti della società. Le molteplici indagini interne affidate a soggetti terzi internazionali da parte degli organi di controllo della società avevano già da tempo evidenziato l’assenza di condotte illecite . Eni confida che la verità potrà finalmente essere ristabilita ad esito delle argomentazioni difensive che saranno svolte alla fine di settembre in attesa della sentenza del Tribunale”.

Eni e l'autolesionismo della nostra magistratura. È un paradosso tutto italiano e va in scena nelle aule del Tribunale di Milano. Gian Micalessin, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. È un paradosso tutto italiano e va in scena nelle aule del Tribunale di Milano. La richiesta di condanna a 8 anni dell'ad di Eni Claudio Descalzi per le presunte tangenti pagate da Eni e Shell in Nigeria risponde sicuramente al desiderio di giustizia del magistrato inquirente, ma è anche un'icona dell'autolesionismo nazionale. A beneficiare di quella giustizia non sarebbero l'Italia e i suoi cittadini, ma nazioni e compagnie petrolifere che considerano l'Eni un temibile concorrente e l'Italia un immeritato protagonista del settore energetico. In quel settore Descalzi, come il suo predecessore Paolo Scaroni indagato nella stessa vicenda, è un protagonista e un alfiere dei successi dell'Eni. Scaroni in Libia ci salvò quando, caduto Gheddafi , sembravamo condannati a cedere gas e petrolio a Qatar e Francia. Descalzi, grazie alla sua esperienza tecnica assicura all'azienda un ruolo di eccellenza nella ricerca e nella diversificazione geografica ed ha all'attivo la scoperta del maxi giacimento egiziano Zohr. Questi meriti travalicano il campo energetico ed economico. Oltre a contribuire in maniera significativa al nostro disgraziato Pil i traguardi dell'Eni conferiscono all'Italia uno spessore e una visibilità internazionale assai superiori a quelli, assai più modesti, garantitegli invece dall'attuale classe politica. Non a caso molti insinuano che la nostra politica estera venga decisa non soltanto a Roma, ma anche a San Donato Milanese. Insinuazioni fattesi più insistenti da quando alla Farnesina c'è Luigi Di Maio. Ma altre voci sussurrano che l'arrivo degli amici dei 5 Stelle nel CdA Eni, patteggiato in cambio della riconferma dell'odiato Descalzi, garantiscano nuove fonti disposte ad avvalorare, non si sa se in buona fede, le tesi accusatorie destinate a togliere di mezzo l'attuale Ad. Sia come sia varrà la pena ricordare che le inchieste sulla stessa vicenda sono già state archiviate mesi fa sia dai giudici di Londra, sia dalla dalla Sec, il rigoroso ente di vigilanza della borsa Usa. Anche perché condannare un amministratore per un presunta tangente pagata in un paese che occupa il 146mo posto nello sprofondo della corruzione internazionale rappresenta un paradosso giuridico ed economico. Un paradosso che cozza contro gli interessi nazionali. Un paradosso che rende assai arduo comprendere se il vero contesto criminale si annidi ai vertici della nostra compagnia petrolifera o nel cuore di paesi in cui è indispensabile operare per garantire al nostro paese le forniture di petrolio e gas.

Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 15 ottobre 2020. Babbo Natale magari ancora no, ma la Befana (o giù di lì intorno al 9 gennaio) è già più probabile rechi in dono al processo Eni-Nigeria, dopo 2 anni di udienze, la sentenza di primo grado sul miliardo e 92 milioni di dollari pagati nel 2011 da Eni e Shell al governo della Nigeria per la concessione petrolifera «Opl-245» detenuta in concreto dall' ex ministro del Petrolio Dan Etete dietro lo schermo-prestanome della società Malabu. Alla fine ieri di 5 ore di arringa di Paola Severino, difensore dell' allora direttore generale e attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, che i pm chiedono di condannare a 8 anni per corruzione internazionale, il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada, informa gli avvocati (non autogestitisi nel calendario delle arringhe) che non intende continuare a dedicare un' udienza a testa per ogni legale: «Tanto più che ad esempio già il difensore di oggi, come inevitabile che accada man mano che si svolgano le discussioni, ha affrontato temi che erano stati trattati da precedenti arringhe. Il Tribunale non ha solo questo processo», aggiunge Tremolada, stilando un calendario che concluderebbe le 12 rimanenti arringhe fra il 28 ottobre e il 9 dicembre, poi con repliche forse dal 16 e sentenza alla ripresa a gennaio. Covid permettendo, con udienze che proprio per il distanziamento da ieri si tengono in un padiglione della Fiera di Milano. «Il dibattimento ha fatto crollare una ad una le suggestioni dell' accusa senza che la Procura nemmeno cercasse di tenere il punto dopo ogni crollo, peraltro mantenendo per tutto il processo una certa ritrosia a indicare tempi e modi delle tangenti, e persino chi, con chi, dove e quando avrebbe pattuito l' accordo correttivo», prospetta la professoressa Severino, che premette di scegliere comunque una (per quanto noiosa) cronologica disamina di tutte le tappe della vicenda. Alla Procura che valorizza le mail sequestrate in Olanda ai manager Shell, e da esse ricava elementi di consapevolezza in capo a Eni delle sottostanti tangenti a politici nigeriani, l' ex ministro della Giustizia obietta che in esse vi sarebbe al più «la rappresentazione unilaterale di Shell che non è detto corrispondesse alla percezione di Eni»: e «visto che i pm definiscono le mail di Shell "lo specchio olandese", ricordo allora che nella pittura fiamminga lo specchio olandese era appunto lo specchio deformante». A proposito di Emeka Obi, cioè del mediatore coimputato nigeriano che nel 2018 scelse di essere giudicato con rito abbreviato e fu condannato in primo grado a 4 anni, Severino sostiene che, «non essendoci prova di dazioni a pubblici ufficiali, capisco che la presenza di Obi come intermediario di Eni nella corruzione sia necessaria all' accusa: ma questa tesi è smentita sia da Agaev (che ha detto di essere stato lui a introdurre Obi come consulente tra fine 2008 e inizio 2009), sia dalla cronologia sequestrata a Obi, il quale ha sempre cercato di giocare una partita in proprio. Mai Eni è stata succube delle richieste di Obi mandatario della società venditrice Malabu già da dicembre 2009», propone Severino, e «mai le decisioni riferibili a Descalzi sono state dettate da ragioni che non fossero lecite logiche di mercato nell' interesse di Eni».

Fabio De Pasquale, nel mirino del pm che condannò Berlusconi ci finisce Paolo Scaroni: l'ultima inchiesta. Cristiana Lodi su Libero Quotidiano il 26 luglio 2020. È sempre lì dentro l'aula coi soliti baffi e la toga consunta a chiedere la condanna. Alla pena di o ad anni tot. È così da quando nel 1991, poco prima di Mani Pulite, arriva alla Procura di Milano da sostituto procuratore. Francesco Saverio Borrelli, seppure in un secondo momento, all'epoca lo aggiunge al pool dei reati contro la Repubblica. E lui, subito, litiga con Antonio Di Pietro. «Dobbiamo decidere su cosa indago io e su cosa indaghi tu», gli dice Tonino. Ma la toga coi baffi che già aveva messo sotto inchiesta Bettino Craxi per le tangenti pagate dalla Sai di Salvatore Ligresti per un contratto Eni, Tonino da Montenero di Bisaccia lo batte sul tempo mandando a giudizio l'allora segretario del Psi. Ottenendone poi la prima condanna. Così come quella del banchiere di Mani Pulite, Pierfrancesco Pacini Battaglia, «l'italosvizzero appena un gradino sotto di Dio» scampato invece ad altre indagini. Messinese, 63 anni l'8 settembre, ventinove dei quali trascorsi alla Procura di Milano. E soltanto lì. All'anagrafe è Fabio De Pasquale, per Silvio Berlusconi si chiama invece «il Famigerato». Ossia la toga che dopo avere avviato (nel 2001) le indagini sulla compravendita dei diritti tv Mediaset, ottiene la prima e unica condanna definitiva per l'uomo di Arcore. Segnando così la storia del Paese visto che Berlusconi viene estromesso dal Parlamento, dalla carica di senatore (cancellata come un colpo di spugna) e dalla vita politica attiva dopo 19 anni in Parlamento, due volte premier. Comprensibile che Fabio De Pasquale sia la toga più invisa al Cav, nonché il «persecutore» (per usare la parole di B.) nel processo più odiato fra i 34 procedimenti e oltre imbastiti a suo carico. Ovvio che Fabio De Pasquale, piaccia o no, abbia dovuto fare il callo alle scomuniche e alle censure berlusconiane. Tanto che a distanza di 25 anni dalla morte dell'allora presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, in una cella di San Vittore (era il 20 luglio 1993), tornano in mente le tesi di Silvio Berlusconi, che addebita al pm il suicidio del detenuto per Tangentopoli come «reazione a una promessa di scarcerazione» che nell'estate del 1993 il magistrato si sarebbe «rimangiato prima di partire per le ferie». Cose stranote. Ridette e infinite volte giudicate, senza arrivare a una prova. Vale la pena ricordare che all'epoca la prima ispezione ministeriale non ravvisò illeciti disciplinari a carico di De Pasquale e l'allora Guardasigilli, Giovanni Conso, non mosse contestazioni. Nessuna azione disciplinare neanche da parte del procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi. 

LE ACCUSE DI SGARBI. Solo nel 1995 il ministro di Grazia e Giustizia, Filippo Mancuso, riversò le carte sul piano penale, denunciando De Pasquale per abuso d'ufficio e morte (il suicidio di Cagliari) come conseguenza di altro reato. Ossia l'abuso del pm. Ma Brescia archiviò l'uno (come inesistente) e l'altra (come non configurabile nel nesso di causa con il suicidio). Il caso venne successivamente richiamato nella prima causa «Craxi contro l'Italia» davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ma neanche Strasburgo ha censurato il pm. Ci si era messo anche Vittorio Sgarbi. A Domenica In, da parlamentare, disse che Fabio De Pasquale era «un assassino». Diffamazione: 2 mesi di cella e 100 milioni di lire da risarcire al pm. In Cassazione usufruisce però dell'insindacabilità del parlamentare. E sulla base di un parere nel quale la Giunta della Camera (relatore Gaetano Pecorella) ritiene che «l'epiteto dell'opinionista tv-Sgarbi, pur se insinuante e astrattamente diffamatorio», rientri però «in una battaglia politica del deputato-Sgarbi». Tutti assolti. Faccenda chiusa con buona pace del suicida. Oggi De Pasquale, sempre a Milano ovviamente, è procuratore aggiunto della Repubblica, con delega alle delicate indagini sui delitti economici transnazionali. Una promozione arrivata (in senso cronologico, scriviamo a scanso di querela) dopo la condanna definitiva di Silvio Berlusconi. 

CHIODO FISSO. Fabio De Pasquale, la presa sull'Eni, non l'ha certo mollata. E dal 2013 indaga come un ossesso contro il colosso del Cane a sei zampe, per presunte storie di tangenti in Africa: prima in Algeria e poi in Nigeria. Vicende intricate, con tanti soldi in ballo. Ma che al cittadino di buon senso e di buona memoria fanno venire in mente più che i reati il nome di Enrico Mattei, l'uomo che l'Eni la inventò e la trasformò in un impero, sfidando le più grande compagnie petrolifere del mondo, le "Sette Sorelle", giganti statunitensi, inglesi e francesi a cui Mattei rifiutò di sottomettersi facendo dell'Eni il colosso che oggi conosciamo. Alla guida è poi arrivato il manager Paolo Scaroni (ex amministratore delegato). Sotto la sua direzione, prima l'Enel (inizio duemila) e poco dopo l'Eni, hanno toccato risultati eccellenti. E se il nostro è un paese ricco, in qualche modo lo dobbiamo anche al manager Scaroni. Ovviamente antipatico ai magistrati, che gli danno la caccia da lustri. Già da Tangentopoli. Oggi continua a perseguirlo Fabio De Pasquale. Il 15 gennaio scorso, nel cosiddetto processo Eni Algeria, imbastito proprio da Fabio De Pasquale, Paolo Scaroni è stato assolto. Due volte. Primo e secondo grado. Assolto lui e tutti i dirigenti dell'Eni e di Saipem. Corruzione internazionale, l'accusa. Pesanti le richieste di condanne cadute nel vuoto: si andava dai 4 ai 9 anni. Per Scaroni più di sei anni. Se la condanna fosse stata accolta avrebbe dovuto sperare nella Cassazione per non finire in carcere, a 74 anni. Un buco nell'acqua per Fabio De Pasquale. Che però non si dà pace. Tre giorni fa, nel processo Eni Nigeria, è andato giù ancora più pesante: 8 anni di cella sia per Paolo Scaroni e sia per l'attuale ad, Claudio Descalzi. Come finirà, si saprà. Al momento restano le richieste di condanna, secondo l'Eni «del tutto svincolate da qualsiasi prova contro Eni e i suoi funzionari».

Il magistrato De Pasquale e la sua ossessione per l’Eni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Luglio 2020. È casuale, ma è anche da brividi, sentire nell’aula il pubblico ministero Fabio De Pasquale chiedere condanne per i dirigenti dell’Eni proprio nell’anniversario, il 20 luglio 1993, del giorno in cui si suicidò nel carcere di San Vittore il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Anche allora il pm era De Pasquale, che aveva interrogato cinque giorni prima il detenuto, lasciando intendere di essere disponibile alla sua scarcerazione, ma poi cambiando idea. Come è finita, fa parte della storia più tragica del nostro Paese. Sono passati 27 anni e ritroviamo il dottor De Pasquale ancora pubblico accusatore in un processo che riguarda Eni, ancora a dissertare di tangenti, ancora a sospettare fatti di corruzione. E a sparare (verbo quanto mai appropriato, vista l’entità degli anni di carcere richiesti) te di pena che forse lui stesso mai avrebbe ipotizzato se avesse trovato sul banco degli imputati un paio di rapinatori. Tanti anni di galera e tanto denaro da confiscare. Le manette, prima di tutto. Otto anni di carcere per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e per il suo predecessore Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan. Pene leggermente inferiori per intermediari e funzionari, dieci anni per colui che, qualora processato e condannato, mai li sconterà, cioè l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. E’ una storia di petrolio, per l’appunto, quella che aveva consentito nel 2011 a Eni e Shell di aggiudicarsi il diritto di esplorazione sul più grande giacimento nigeriano, l’OPl 245, con un pagamento di un miliardo e 92 milioni di dollari. Un contratto? No, una maxitangente, dice la procura. Il denaro era stato versato su un conto londinese del governo nigeriano. Di quel che successe in seguito, Eni e Shell dicono di essersi disinteressati, non era certo un loro problema andare a seguire il flusso del denaro fino all’ultimo rivolo. Ma rivoli ci furono, a quanto pare. Con un primo passaggio dal conto del governo nigeriano (che si è costituito parte civile nel processo) a una società riferibile all’ex ministro Etete, e poi giù giù per li rami, fino a (forse, ma non pare ci siano prove) rimbalzare in parte in Italia. Se quel miliardo e rotti era una maxitangente, è il ragionamento della procura di Milano, la punizione deve essere esemplare non solo con il carcere delle persone fisiche che in questi anni hanno diretto Eni e Shell, ma anche con un consistente spolpamento economico delle due società, sanzionate con la richiesta di versamento di 900.000 euro a testa. Inoltre, un gesto anche simbolico, quasi con il sapore della vendetta: confisca per equivalente dell’intera cifra del versamento, un miliardo e 92 milioni di dollari. Richieste sconcertanti quelle del pubblico ministero De Pasquale. Ma ormai il clima, negli ambienti giudiziari come in quelli governativi, è quello che è. E ricorda molto quello dei primi anni novanta. Sempre di più si ha la sensazione che un certo moralismo influenzi le istituzioni, tanto da aver indotto il ministro della giustizia a definire “spazzacorrotti” una legge che inasprisce le pene per i reati contro la Pubblica Amministrazione. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco, e non tutta la magistratura è composta di pubblici ministeri. C’è ancora qualche giudice che decide in autonomia. Infatti proprio a Milano, e proprio quest’anno, nel mese di gennaio, la corte d’appello ha mandato assolti proprio Paolo Scaroni e la compagnia petrolifera italiana nel caso Saipem-Algeria su una presunta maxitangente algerina da 197 milioni di dollari. Maxitangente che non c’è mai stata, hanno stabilito i giudici, non c’è stato passaggio di denaro, né mazzette a pubblici funzionari algerini né alcuna mancia da parte di Saipem nel 2008 al ministro algerino dell’energia. Così in secondo grado sono stati assolti anche i dirigenti di Saipem che, al contrario di Scaroni e degli uomini Eni che erano già stati scagionati, avevano subito una condanna nel primo processo. Tutto ribaltato dalla seconda corte d’appello, che aveva anche respinto il ricorso del pm sull’assoluzione di Eni. Ogni tanto c’è un giudice non solo a Berlino, ma persino a Milano. Quel che ci si domanda però è se per avere giustizia si deve sempre aspettare il dibattimento, spesso in secondo grado o addirittura in cassazione, in questo tipo di processi con ipotesi accusatorie accompagnate, come dice oggi un comunicato della dirigenza Eni, da “suggestioni e deduzioni” che, aggiungono, spesso prevalgono su prove documentali e testimoniali. Non sarebbe ora che i gip ricordassero di essere giudici e non succursali dei pubblici ministeri? Senza avere la sfera di cristallo, ma solo un po’ di esperienza di aule giudiziarie, possiamo prevedere che anche per la “maxitangente” nigeriana si arriverà prima o poi a una sentenza simile a quella algerina. Ma il problema sono anche i tempi. In settembre parleranno le parti civili, poi le difese degli imputati. Poi si vedrà. In fondo sono solo passati nove anni.

Luigi Ferrarella per Corriere.it il 23 luglio 2020. La prova delle tangenti Eni in Nigeria nel 2011? Per la Procura molto sta nello «specchio olandese», e parecchio poi anche nel «tentativo di eliminare le prove a carico che è indice di reità». Arrivare cioè alla condanna di Eni (a 1 miliardo e 92 milioni di dollari di confisca, più 900.000 euro di sanzione pecuniaria) e del suo attuale amministratore delegato Claudio Descalzi (a 8 anni) partendo dalle mail sequestrate nel 2016 a Shell in Olanda, e, laddove manchi ancora un pezzo alla ricostruzione di una corruzione internazionale in Nigeria, colmarlo con le accuse a Descalzi del coimputato manager Eni Vincenzo Armanna, ritenute credibili alla luce delle successive ritrattazioni lette dalla Procura come effetto del «tentativo di inquinare il processo ad opera di Descalzi nel 2016 e della società Eni nel suo complesso nel 2017»: è questa la strategia che ieri ha innervato tutta la seconda giornata di requisitoria del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale al processo Eni-Nigeria sul miliardo e 92 milioni di dollari pagati nel 2011 da Eni e Shell al governo della Nigeria, su un conto ufficiale, per acquistare la concessione petrolifera «Opl-245» (una delle più ricche d’Africa), detenuta in concreto dall’ex ministro del Petrolio Dan Etete che anni prima se la era autoattribuita dietro lo schermo-prestanome della società Malabu. Requisitoria al cui termine, nell’aula bunker davanti al carcere di San Vittore, i pm De Pasquale e Sergio Spadaro hanno chiesto anche 8 anni di condanna al predecessore di Descalzi al vertice Eni, Paolo Scaroni, attuale presidente del Milan e vicepresidente di Rothschild in Italia;

6 anni e 8 mesi al lobbista Luigi Bisignani, di nuovo alla ribalta da imputato dopo i 2 anni e mezzo incassati negli anni ‘90 per l’affare Enimont in Mani Pulite, e i 19 mesi patteggiati nel 2011 a Napoli per associazione e delinquere, favoreggiamento e rivelazione di segreto nel processo sulla «P4»;

7 anni e 4 mesi all’ex numero tre della multinazionale olandese Shell, Malcolm Brinded (mentre anche per Shell è proposta la confisca di 1 miliardo e 92 milioni); 10 anni all’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete; 7 anni e 4 mesi all’allora capo delle esplorazioni Eni, Roberto Casula; 6 anni e 8 mesi a Ciro Pagano, ex managing director di «Nae» (società del gruppo Eni),

e all’ex dirigente nell’area del Sahara, Vincenzo Armanna, per metà imputato e per metà autore di dichiarazioni accusatorie nei confronti di Descalzi; 6 anni all’imprenditore Gianfranco Falcioni, già vice console onorario in Nigeria, e a Ednan Agaev, ex ambasciatore russo in Colombia, mediatore per Shell; 6 anni e 8 mesi ai dirigenti di Shell, Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone.

«La linea difensiva accreditata da Eni, e cioé non aver mai utilizzato intermediari, è una cosa che contrasta con la realtà, e che - affonda il pm - è anche un po’ intollerabile perché ripetuta innumerevoli volte non solo sui media ma pure in contesti istituzionali, e mi riferisco a una audizione in Commissione Industria dell’allora vertice di Eni». Per parlare con Etete, ricostruisce il pm, «Eni e Shell hanno dovuto scegliere come intermediari l’una il nigeriano Emeka Obi e l’altra l’azero Agaev, cioè in entrambi i casi due consulenti di Etete». Ma soprattutto l’indagine della Procura, avviata nell’estate 2014, ritiene di aver ricostruito che l’apparentemente lineare forma di pagamento di Eni direttamente al governo nigeriano (che poi girò alla società proprietaria Malabu i soldi che, rimbalzando su improbabili conti svizzeri e libanesi, tornarono infine in Nigeria non al popolo, ma al portafoglio tangentizio di ministri e politici per almeno 523 milioni), sia però stata non un reale modo per fare trasparenza nel turbolento ambiente nigeriano e nell’annoso contenzioso civile accesosi in Nigeria attorno alla controversa proprietà della concessione, ma solo l’accorta copertura formale (il «preservativo», secondo l’originale definizione di Agaev) per replicare e in concreto attuare l’iniziale (e poi abbandonato) schema d’affare. Schema nel quale Shell ed Eni si stavano orientando a pagare Malabu (cioè il ministro Etete) attraverso appunto intermediari come Agaev e Obi, quest’ultimo suggerito a Scaroni (e da questi all’allora direttore generale Eni Descalzi) da Bisignani, il quale (a sua volta in affari con il socio Gianluca Di Nardo) contava su un ritorno economico dall’affare. Un lembo della vicenda affiorò curiosamente in Tribunale a Londra nel 2013 quando Obi, accusando Etete di non avergli corrisposto la mediazione pattuita nella prima fase di trattativa, in società forense con Di Nardo fece causa all’ex ministro nigeriano del Petrolio, vinse e ottenne 140 milioni spostati in Svizzera e pro-quota girati appunto al partner in affari di Bisignani, Di Nardo. Ma nel 2014 arrivarono i pm milanesi a chiedere il blocco di questi soldi, ritenuti segmenti del prezzo-tangente a monte: e confiscati nel settembre 2018 dalla sentenza milanese di primo grado della giudice Giusi Barbara, che nello stralcio in rito abbreviato scelto da Obi e Di Nardo condannò a 4 anni questi due coimputati degli odierni imputati di corruzione internazionale. «Io non sono un patito delle intercettazioni, perché lì c’è spesso il gergo, le frasi lasciate a metà o incomprensibili, e poi la storia che “sì l’ho detto ma in realtà scherzavo...”. Invece i documenti non sono scalfibili», premette De Pasquale, che valorizza alcuni rapporti documentali tra Shell ed Eni: come il riassunto che Brinded fa di quanto dettogli da Descalzi dopo l’incontro (negato invece durante le indagini da Descalzi e Eni) tra Descalzi e il presidente nigeriano Jonathan; e come le mail scambiate dentro Shell tra i dirigenti Robinson, Colgate e Coplestone, questi ultimi due pescati da Shell nel servizio segreto estero britannico MI6», di cui erano stati capicentro ad Abuja (in Nigeria) e a Hong Kong, e che assieme ad Agaev per il pm costituiscono «un asse delle spie che attraversa questa vicenda».

Le mail di Shell - riassume il pm - «potremmo chiamarle “lo specchio olandese” di Eni, dove cioè Eni si specchia nel conoscere che i soldi vanno in tangenti. Eni non lo ha mai messo per iscritto; Shell invece (forse perché nella sua storia non aveva mai subito una perquisizione e dunque non pensava mai di potervi essere sottoposta) lo ha fatto». E sono proprio le mail sequestrate nella perquisizione del 2016 al quartier generale di Shell in Olanda, e di cui non a caso si preoccupavano gli allora vertici di Shell in alcune intercettazioni, a fornire al pm munizioni sull’esistenza e consapevolezza di un «pay off», cioé di «compensi (a fronte di qualcosa di disonesto») tra «i tanti squali che giravano intorno all’affare» (altra espressione usata nelle mail). Per il pm da queste mail si potrebbe trarre addirittura «la formula delle tangenti: i soldi di Eni, più i soldi di Shell, uguale la tangente». Una verità che per il pm forse stava già persino in un rapporto investigativo interno a Shell, ma sul quale Shell ha però sinora calato «la cortina fumogena del supposto segreto professionale legale» sui propri standard di controllo.

«Quando Eni dice di aver sempre trattato solo e direttamente con il governo», contesta il pm, «certo con il governo..., ma il governo è fatto di persone fisiche, e in questa vicenda le persone fisiche sono queste, sono i ministri della Giustizia che telefonano a Etete e dicono “dai i soldi” agli intermediari, senza i quali si sarebbe bloccata l’operazione e i quali poi avrebbero dovuto distribuire il denaro». I soldi del prezzo ufficiale pagato al governo da Eni e Shell, monetizzati in contanti presso cambiavalute locali per oltre mezzo miliardo di dollari smistati poi da Abubaker Aliyu, tesoriere dei corrotti locali, sarebbero andati (per le poche parti tracciabili ad avviso dell’accusa) a politici nigeriani quali l’allora presidente Jonathan Goodluck, i ministri della Giustizia Adoke Bello e Bajo Oyo, del Petrolio Diezani Alison Madueke, e della Difesa Aliyu Gusau. Tra le molte anomalie che viziarono il travagliato iter dell’affare, il pm addita peraltro la sottovalutazione dentro Eni della biografia del detentore della concessione, l’ex ministro Etete, all’epoca giá condannato in Francia per riciclaggio (prima a pena detentiva e poi invece al pagamento di 8 milioni di sanzione);

l’apparente superficialitá con la quale Eni interloquí da subito con il mediatore Obi benché questi a lungo non avesse ancora alcun formale mandato a trattare da parte di Malabu-Etete; l’affidamento della concessione senza gara, procedura che in Nigeria era stata abbandonata dai tempi della dittatura anni ‘80;

e il fatto che l’affare abbia scavalcato l’”indigenous policy”, la pratica per cui era previsto un occhio di favore per le aziende locali, qui bypassata dalla scappatoia del “sole risk”, cioé dall’assegnazione in via eccezionale solo a stranieri, come non era accaduto da molto anni.

Nella parte finale il pm De Pasquale ha affrontato l’atteso tema della credibilità o meno di Armanna, il project-leader di Opl-245 che prima rese nel 2014 una «dichiarazione spontanea» ai pm, poi «dialogò» a mezzo stampa (per interposte interviste) con Descalzi, e in tre interrogatori lo accusò di sapere che l’affare nigeriano avrebbe dovuto comportare tangenti a politici locali; poi però il 27 maggio 2016 in una memoria minimizzò o edulcorò il ruolo di Descalzi, salvo non fare del tutto marcia indietro in un confronto nel luglio 2016 con Descalzi (dai toni inconsuetamente felpati e rispettosi tra i due).

Poi fece anche finta di inoltrare per errore una propria mail al difensore catanese di uno degli dichiaranti siciliani del cosiddetto «complotto anti-Descalzi» (quello che si scoprirà attivato dal legale esterno Eni Piero Amara presso il sodale pm siracusano Giancarlo Longo, che per corruzione patteggerà 5 anni): mail nella quale Armanna accreditava pressioni dei pm milanesi in combutta con il suo difensore Luca Santamaria per parlare delle tangenti Eni ai nigeriani in cambio di un trattamento giudiziario di favore, e mail singolarmente finita in mano a Eni, i cui legali di Carlo Federico Grosso e Nerio Diodá il 6 maggio 2017 la consegnarono in Procura a Milano, specificando di non sapere se fosse autentica.

Vicende altalenanti delle quali Armanna al processo in aula nel luglio 2019 ha dato una nuova spiegazione, affermando che tre punti della propria memoria edulcorante nel 2016 il ruolo di Descalzi gli erano stati scritti e consegnati direttamente dal numero tre Eni Claudio Granata per conto di Descalzi; e che l’apparente inoltro per sbaglio della propria mail avrebbe fatto parte di un accordo con Eni per minare la credibilità delle proprie iniziali dichiarazioni accusatorie, in cambio della promessa di rientrare in Eni dopo un licenziamento su questioni di note spese. Ma Armanna dice il vero? Il pm De Pasquale se lo chiede, e ricorda che nello scorso febbraio «voi giudici avete ritenuto di non ascoltare i testimoni» chiesti dall’accusa per corroborare la richiesta di asserita prova sopraggiunta e assolutamente indispensabile per la decisione: «Ma a nostro avviso - dice il pm - già il tenore letterale della memoria di Armanna, e della mail inoltrata in apparenza per errore, provano la verità di quello che dice Armanna, tanto trasudano di falsità e imbeccate»; e mostrano che «Descalzi nel caso della memoria, e la societá Eni nel suo complesso nel caso delle mail, hanno cercato di inquinare questo processo».

Strenua è la difesa che il pm opera dell’attendibilità di Armanna, ad avviso di De Pasquale non intaccata dal video registrato a sua insaputa da alcuni imprenditori e valorizzato ora dalla difesa perché (precedente di poco alla sua presentazione spontanea in Procura ) per Eni lo mostrerebbe intenzionato a tirare artificiosamente in ballo alcuni manager Eni per aprirei affari propri in Nigeria: «Un video registrato in maniera non legale e fatto per provare a incastrarlo», dice il pm, per il quale Armanna «poi comunque non ha invece calunniato nessuno». Nemmeno sarebbe intaccata dallo 007 dell’Aise, Castelletti, che ha negato quanto Armanna affermava a conoscenzan di entrambi. E la credibilità di Armanna nemmeno sarebbe intaccata dalla telenovela di “Victor”, il mitologico 007 nigeriano che per Armanna avrebbe potuto confermare la storia dei 50 milioni in contanti trasportati in aereo in un trolley a casa di Casula: teste prima identificato in un poliziotto rivelatosi in realtá la persona sbagliata, poi in apparenza fattosi vivo con una lettera in cui sembrava pronto a confermare Armanna, e infine però venuto in aula a Milano a deporre invece di non aver mai detto o saputo le cose attribuitegli da Armanna. «Quando si parla di servizi segreti si fa sempre fatica ad afferrare le situazioni...», accenna il pm, che per sicurezza cerca comunque di arretrare la trincea più indietro, e cioé (in base a una sentenza di Cassazione del 2019) sulla possibilità per i giudici di valutare ugualmente le dichiarazioni del teste diretto (qui Armanna che è pure imputato) anche quando sia stato smentito dal suo teste di riferimento (qui «Victor»), «tanto più se la smentita è strana». Se mai, fa capire il pm, è Armanna stesso ad aver intaccato se stesso quando ha dato una versione implausibile sul milione di dollari che incassò e che ha provato a giustificare con un improbabile misto tra questioni ereditarie e futuri affari nel settore dell’oro. È sufficiente per dire che, almeno a livello di «riscontro logico», tutti (come Armanna sostiene) sapevano delle tangenti ai politici nigeriani, «quantomeno Descalzi e Casula»? Il pm sembra anticipare la domanda quando, rivolto al Tribunale, quasi invoca: «Non chiedeteci una prova diabolica, non siamo in un film dove c’è la pistola fumante: vi chiediamo di valutare le prove come le intendono le convenzioni internazionali, quindi anche gli indizi nel loro complesso, quindi anche i pezzi della pistola fumante quando li si trova in giro». La corruzione internazionale «é un reato molto grave, é un danno alla democrazia, è un’appropriazione di risorse dei popoli e dunque un danno all’economia, è un’emergenza come il riscaldamento globale: ma se ne afferra ancora poco il disvalore, è un tema su cui c’è molto “chiacchere e distintivo”».

Il 9 settembre prenderà la parola l’avvocato Lucio Lucia, che con la collega Valentina Alberta rappresenta gli interessi patrimoniali e morali (lesi dall’ipotizzata corruzione) della Nigeria, il cui governo si è costituito parte civile contro gli imputati. Poi, dopo toccherà alle arringhe dei difensori. Il verdetto - che dovrá affrontare anche i medesimi profili giuridici sfociati sinora sia in Tribunale sia in Appello nell’assoluzione di Eni e dell’allora a.d. Scaroni nel processo sulle contestate tangenti di Saipem in Algeria, dove pure erano stati chiesti 6 anni e 4 mesi di condanna per Scaroni, e dove Descalzi era stato solo testimone - è possibile venga emesso entro fine anno dai giudici Tremolada-Gallina-Carboni.

Eni fa sapere di «considerare prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna avanzate dal pm», il quale nella requisitoria, «in assenza di qualsivoglia prova o richiamo concreto ai contenuti della istruttoria dibattimentale», avrebbe «ribadito la stessa narrativa della fase di indagini, basata su suggestioni e deduzioni, ignorando che sia i testimoni, sia la documentazione emersa hanno smentito, in due anni di processo e oltre quaranta udienze, le tesi accusatorie». Eni ritiene che «le difese dimostreranno al Tribunale che Eni e il suo management operarono in modo assolutamente corretto nell’ambito dell’operazione Opl245», perché «Eni e Shell corrisposero per la licenza un prezzo d’acquisto congruo e ragionevole direttamente al governo nigeriano, come contrattualmente previsto attraverso modalità chiare, lineari e trasparenti; Eni, inoltre, non conosceva, né era tenuta a conoscere, l’eventuale destinazione dei fondi successivamente versati a Malabu dal governo nigeriano, pagamento che peraltro avvenne dopo un’istruttoria dell’Autorità Anticorruzione della Gran Bretagna (SOCA)». Per il colosso energetico, dunque, «non esistono tangenti Eni in Nigeria e non esiste uno scandalo Eni», anzi «i provvedimenti del Dipartimento di Giustizia e dalla Sec americani hanno chiuso le proprie indagini senza intraprendere alcuna azione nei confronti della società. Le molteplici indagini interne affidate a soggetti terzi internazionali da parte degli organi di controllo della società avevano già da tempo evidenziato l’assenza di condotte illecite».

Processo d’appello Saipem-Algeria Tutti assolti, anche Eni e Scaroni. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. La tangente da 197 milioni in Algeria non è mai esistita per la Corte d’appello di Milano che, ribaltando il verdetto di primo grado, assolve non solo gli imputati già assolti in Tribunale nel 2018 (Eni e il suo ex n.1 Paolo Scaroni), ma anche quelli che erano stati condannati in primo grado per quella corruzione internazionale che ora i giudici Ondei/Boselli-Veronelli nella formula “il fatto non sussiste” escludono con il richiamo al secondo comma sulla prova insufficiente o contraddittoria. Per Saipem, difesa dal professor Angelo Giarda, la sentenza vale peraltro anche la revoca della confisca di 197 milioni come prezzo dell’ipotizzata corruzione ora esclusa. Ed esulta anche il mediatore franco-algerino Farid Bedjaoui, al quale vengono revocati sia la confisca come profitto di reato dei suoi 165 milioni sotto sequestro da anni su conti esteri di mezzo mondo, sia il mandato di cattura internazionale che ne inseguiva la latitanza. Non è rimasto in piedi nulla, dunque, dell’ipotesi accusatoria che a Saipem del pool dell’aggiunto Fabio De Pasquale, società di ingegneristica quotata in Borsa che ha Eni come primo azionista al 30%, contestava di aver tra il 2008 e l’inizio 2011 corrotto politici algerini dietro lo schermo di una intermediazione commerciale di 197 milioni versati alla società di Hong Kong di (finte) consulenze «Pearl Partners Limited» di Bedjaoui, sapendolo legatissimo all’allora ministro dell’Energia Chekib Khelil (sposato con una sorella del leader palestinese Arafat), e di aver in questo modo ottenuto dal governo algerino e dall’ente petrolifero statale Sonatrach una protezione globale in 8 contratti del valore di 11 miliardi di dollari. Sono quindi state cancellate le condanne di primo grado della persona giuridica Saipem alla sanzione pecuniaria di 400.000 euro in base alla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa dell’ente per i reati commessi dai propri dirigenti apicali, del suo ex amministratore delegato Pietro Tali a 4 anni e 9 mesi, dell’ex direttore finanziario (che lo fu poi pure di Eni) Alessandro Bernini a 4 anni e 1 mese, e dell’ex direttore operativo Pietro Varone a 4 anni e 9 mesi, mentre 5 anni e 5 mesi sono stati tolti a Bedjaoui, 4 anni e 1 mese al suo braccio destro Samyr Ouraied e all’altro intermediario Omar Habour. «Per non aver commesso il fatto» è stata confermata l’assoluzione già in primo grado della persona giuridica Eni, del suo ex a.d. Scaroni (oggi vicepresidente della banca d’affari Rothschild, consigliere di Generali e Fondazione Teatro alla Scala, uomo in Italia del fondo americano di investimenti Elliott e neopresidente del Milan dopo la meteora cinese Yonghong Li), e dell’allora responsabile Eni in Nord Africa, Antonio Vella, pochi giorni fa uscito dal gruppo del cane a sei zampe. A Scaroni resta giudiziariamente da attendere l’esito dell’altro processo milanese in cui in primo grado è coimputato dell’attuale amministratore delegato Eni Claudio Descalzi sull’ipotizzata corruzione internazionale Eni in Nigeria nel 2011, vicino alla conclusione dell’istruttoria a fine mese; Vella è indagato sempre a Milano, in un filone collaterale al processo Eni-Nigeria, per l’ipotesi di corruzione tra privati insieme all’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna e all’ex avvocato di processi ambientali Eni Piero Amara.

Processo Saipem, tutti assolti per le presunte tangenti in Algeria. Redazione de Il Riformista il 15 Gennaio 2020. I giudici della seconda Corte d’Appello di Milano hanno confermato l’assoluzione per Paolo Scaroni ed Eni nell’ambito del processo sulla presunta maxi tangente versata dal gruppo in Algeria. I giudici hanno anche assolto tutti gli altri imputati “perché il fatto non sussiste”. Revocata, infine, la confisca da 198 milioni di dollari, considerati il prezzo della corruzione. TUTTI ASSOLTI – In particolare, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano hanno respinto in toto il ricorso presentato dai pubblici ministeri e hanno deciso di assolvere dall’accusa di corruzione “perché il fatto non sussiste” il manager del Cane a Sei Zampe Antonio Vella, Pietro Tali e Pietro Varone, rispettivamente ex presidente e amministratore delegato di Saipem ed ex direttore operativo in Algeria e 4 anni e 1 mese per l’ex direttore finanziario prima di Saipem e poi di Eni Alessandro Bernini. Assolti anche gli algerini Farid Bedjaoui e Omar Habour, ritenuto il presunto riciclatore della maxi tangente che per l’accusa sarebbe stata versata dal ‘Cane a Sei Zampe’ a funzionari del governo algerino in cambio di concessioni petrolifere per la controllata Saipem. I giudici, inoltre, hanno anche revocato la confisca di 1980 milioni di dollari a carico di Eni e Saipem, somma pari alla presunta maxi tangente versata in Algeria.

RICORSO INAMMISSIBILE – I giudici della Seconda Corte d’Appello di Milano hanno ritenuto “inammissibile” il ricorso presentato dal sostituto procuratore generale Massimo Gaballo e dal pm Isidoro Palma nei confronti di Eni. I giudici hanno così confermato di fatto la sentenza di assoluzione per la società, che era finita a processo per la presunta violazione della legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti.

LA SODDISFAZIONE DI SCARONI – La conferma dell’assoluzione di Scaroni ha ovviamente trovato soddisfatto l’avvocato Enrico De Castiglioni, legale di Paolo Scaroni: “E’ una sentenza che ha fatto giustizia per il mio assistito, già assolto dal gup e dal tribunale in primo grado. Credo che si possa mettere la parola definitiva fine a questa vicenda”.

UNA SENTENZA STORICA – Enrico Giarda, legale che assiste Saipem, imputata per la legge 231 del 2001 sulla responsabilità degli enti, ha definito la vicenda come “una sentenza storica. Non ce lo aspettavamo ma lo speravamo, perché sono 7 anni che ribadiamo la assoluta estraneità di Saipem”. “Ora Saipem non dovrà più mettere a bilancio accantonamenti dovuti all’ipotetico rischio”, ha aggiunto l’avvocato.

Procura di Milano, raffica di perquisizioni per il falso complotto Eni. La Finanza negli uffici della società: è un altro capitolo dell'inchiesta sui presunti depistaggi nel caso Nigeria. Gdf anche da Denis Verdini ma non è indagato. La Repubblica il 23 gennaio 2020. La Finanza negli uffici dell'Eni per un altro capitolo del presunto "complotto" per depistare l'inchiesta sul caso Eni-Nigeria. Una serie di perquisizioni tra Milano, Catania e Roma, è stata fatta oggi nell'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal pm Paolo Storari della procura di Milano. Indagine nella quale risultava già indagata anche la stessa società. Una vicenda complicata. Un caso per il quale di recente è stata chiesta la proroga delle indagini e che ha tra i "protagonisti" Piero Amara, ex legale esterno di Eni già arrestato nel 2018 in un'inchiesta congiunta Roma-Messina e che ha patteggiato tre anni per vicende collegate. "Eni è certa che gli accertamenti della magistratura inquirente, nella cui attività la società ripone assoluta ed incondizionata fiducia, consentiranno di ulteriormente chiarire l'estraneità della società alle ipotesi investigative avanzate. Per quanto riguarda l'ipotesi relativa al cosiddetto "depistaggio", Eni ribadisce la fermissima convinzione di essere parte lesa". Così la società ha commentato la serie di perquisizioni e acquisizioni di documenti della Gdf. Che hanno coinvolto anche l'ex parlamentare di Forza Italia Denis Verdini, in qualità di terzo non indagato. Tra le persone oggetto delle acquisizioni e perquisizioni, figurano, da quanto si è appreso, pure Alfio Rapisarda, capo security Eni, e un avvocato-collaboratore di Amara, Alessandra Geraci. Nell'operazione di oggi, sviluppo di una più ampia indagine in corso da mesi, sono stati contestati in un decreto di una trentina di pagine, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, "induzione a non rendere dichiarazione o rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria" e corruzione tra privati. Sullo sfondo dell'inchiesta, l'ipotesi di un presunto depistaggio per condizionare l'inchiesta sul caso Eni-Nigeria, attraverso anche le denunce a Trani e Siracusa di un complotto inesistente contro l'ad Claudio Descalzi. L'operazione di oggi riguarderebbe, in particolare, presunte "utilità" all'ex avvocato esterno di Eni Piero Amara e all'ex manager (licenziato nel 2013) Vincenzo Armanna, imputato nel processo Eni-Nigeria assieme, tra gli altri, all'ad Descalzi. Utilità affinché tacessero sulla sospetta partecipazione all'ipotizzato falso complotto da parte, tra gli altri, di Claudio Granata, capo del personale Eni, e dell'avvocato Michele Bianco.

"Verdini mi diceva chi accusare". Le nuove rivelazioni dell’avvocato Amara sui depistaggi Eni. I pm: “Un complotto per salvare Descalzi dai processi”. L’azienda replica: “Attacchi da pregiudicati, siamo parte lesa”. La Repubblica il 24 gennaio 2020. "Denis Verdini mi scrive le dichiarazioni che avrei dovuto rendere nel processo a suo carico a Messina per finanziamenti illeciti". Sono le prime dichiarazioni che trapelano dai nuovi verbali di Pietro Amara, l'avvocato al centro di una ragnatela di potere che ha avvolto tutta Italia. Nello scorso dicembre Amara - già arrestato nel 2018, patteggiando una pena a tre anni - ha fatto altre rivelazioni davanti ai pm di Milano, da cui giovedì è scaturita una serie di perquisizioni. Al centro i depistaggi nei processi relativi all'Eni e in particolare a Claudio Descalzi, attuale numero uno del colosso petrolifero. Ma il legale delle trame ha parlato anche di interventi illeciti per pilotare inchieste, processi e incarichi statali. Amara ha consegnato ai magistrati un "appunto manoscritto in originale redatto" da Verdini, circostanza citata nei provvedimenti di perquisizione. E ha spiegato: "Nell'attività di depistaggio è stata strumentalizzata anche l'attività parlamentare". Secondo l'avvocato, "molto di recente, attraverso Denis Verdini, gli è stato nuovamente proposto di scaricare la responsabilità del finto complotto su Massimo Mantovani (ex capo dell'ufficio legale di Eni) e Antonio Vella (ex numero due della società)". Amara ha affermato che Verdini gli avrebbe ribadito "che qualora avessi parlato della vicenda Eni avrei dovuto sostanzialmente dire che Vella e Mantovani volevano salvare Descalzi ed erano i reali ispiratori della manovre". L'operazione prevedeva pure un intervento in Parlamento: "Ho incaricato un senatore di Ala, Lucio Barani, presidente del gruppo di Ala, a depositare un'interrogazione parlamentare diretta a costituire una commissione di inchiesta per far luce sul complotto ai danni dei vertici Eni. Ribadisco che l'interrogazione parlamentare era funzionale a far istituire una commissione di inchiesta che si occupasse delle vicende di Milano e di Siracusa". La portata di questo depistaggio secondo la procura milanese era altissima. E mirava al controllo dell'Eni. Secondo i pm, gli indagati erano "tutti interessati a vario titolo a proteggere Descalzi  dalle indagini per corruzione internazionale". Amara sostiene che "Claudio Granata, capo del personale del gruppo, in accordo con Descalzi era stato l'ispiratore della richiesta" a Vincenzo Armanna, ex manager della società, "di ritrattare le dichiarazioni nel procedimento sul caso Nigeria e di avvalersi nel processo della facoltà di non rispondere in cambio della promessa di riassunzione in Eni e di guadagni che Eni gli avrebbe veicolato". Nei documenti la procura fornisce una ricostruzione della trama, indicando numerosi personaggi coinvolti. Lo stesso Amara "ha ricevuto denaro al fine di serbare il silenzio sul coinvolgimento di Granata nelle iniziative giudiziarie". E gli sarebbero stati promessi "compensi professionali non inferiori ai 150.000 euro all'anno". Scrivono i pm: "Sono emersi elementi gravi e concreti che consentono di ritenere che un gruppo di persone unite tra loro da stretti legami personali e/o di affari, tra cui dirigenti e avvocati interni ed esterni della società Eni abbia dato vita ad una associazione a delinquere per intralciare l'attività giudiziaria, depistare e delegittimare, attraverso false denunce e la costruzione ad hoc di un complotto sorretto da missive anonime e documenti falsi" le inchieste milanesi. Procedimenti "che vedono coinvolta, fra gli altri, l'Eni, Descalzi e l'ex ad Scaroni, con il particolare intento di far risultare falsamente che quanto emerso fosse il frutto di una macchinazione ai loro danni". Immediata la replica dell'azienda: "Eni, in merito ai provvedimenti emessi giovedì dalla Procura di Milano, desidera confermare la propria stima nei confronti degli attuali dirigenti interessati". La società ribadisce "la fermissima convinzione di essere parte lesa". E "tiene a evidenziare con grande sconcerto che le accuse alla base dei provvedimenti sono state formulate dai signori Piero Amara e Giuseppe Calafiore, soggetti pluripregiudicati e Vincenzo Armanna indagato sia nel procedimento relativo alla Nigeria, sia in quello relativo al cosiddetto depistaggio". Nella sua nota Eni ricorda "come, a luglio dello scorso anno, nell'ambito del procedimento Nigeria, sia stato  depositato dal difensore di uno degli imputati un documento della Polizia giudiziaria di Torino in cui Armanna, in una conversazione con Amara, al fine di volere estromettere alcuni manager di Eni dalla gestione delle attività nigeriane, rispetto alle quali nutriva interessi economici personali, prometteva di adoperarsi per causare l'emissione di avvisi di garanzia a loro carico da parte della Procura di Milano". E conclude: "Eni è certa che gli accertamenti della magistratura inquirente, nella cui attività la società ripone assoluta ed incondizionata fiducia, consentiranno di chiarire ulteriormente l'estraneità della società e degli attuali manager interessati dal provvedimento alle ipotesi investigative".  

Da ilfattoquotidiano.it il 24 gennaio 2020. Anche l’ex parlamentare di Forza Italia Denis Verdini è stato oggetto, in qualità di terzo non indagato, delle attività di acquisizione e perquisizione del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Milano nell’inchiesta su presunte attività di depistaggio per condizionare l’inchiesta sul caso Eni-Nigeria, attraverso anche le denunce a Trani e Siracusa di un complotto inesistente contro l’ad Claudio Descalzi. L’operazione di riguarderebbe, in particolare, presunte “utilità” all’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara e all’ex manager (licenziato nel 2013) Vincenzo Armanna, imputato nel processo Eni-Nigeria assieme, tra gli altri, all’ad Descalzi. Utilità affinché tacessero sulla sospetta partecipazione all’ipotizzato falso complotto da parte, tra gli altri, di Claudio Granata, capo del personale Eni, e dell’avvocato Michele Bianco. Questi ultimi due tirati in ballo dallo stesso Armanna anche nel corso del processo con al centro la presunta maxi tangente sul giacimento petrolifero Opl-245 in Nigeria, con dichiarazioni in aula che hanno provocato, tra l’altro, la dura reazione dello stesso Bianco, che si è lamentato ad alta voce, smentendo. Tra le persone oggetto delle acquisizioni e perquisizioni, oltre anche a Granata e Bianco, figurano, da quanto si è appreso, pure Alfio Rapisarda, capo security Eni, e un avvocato-collaboratore di Amara, Alessandra Geraci. Nell’operazione, sviluppo di una più ampia indagine in corso da mesi, sono stati contestati in un decreto di una trentina di pagine, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, “induzione a non rendere dichiarazione o rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria” e corruzione tra privati. Il procuratore aggiunto Laura Pedio e il pm Paolo Storari nelle scorse settimane hanno chiesto e ottenuto la proroga della complessa indagine, strettamente collegata con altri filoni aperti dalle Procure di Roma e Messina. Proroga da cui è risultato indagato, tra gli altri, per corruzione tra privati anche l’ex numero due di Eni Antonio Vella. Già nei mesi scorsi, tra l’altro, sempre a seguito di un’altra perquisizione delle Fiamme gialle era emerso che, secondo i pm, attraverso una delle società del gruppo Eni, la ‘Ets trading &shipping’, sarebbero arrivati all’avvocato Amara 25 milioni di euro affinché tacesse sul coinvolgimento di manager Eni nelle attività di “inquinamento probatorio“, attuate dallo stesso Amara tra il 2015 e il 2016. Soldi arrivati, in particolare, secondo le indagini, alla società Napag, riconducibile ad Amara. Era indicato già mesi fa, poi, negli atti dell’indagine che sarebbe stato, secondo l’accusa, l’ex capo dell’ufficio legale e dirigente Eni, Massimo Mantovani, a dare “le indicazioni necessarie” all’avvocato Amara “per l’organizzazione dell’attività di depistaggio” attraverso “i fatti denunciati sia a Trani che a Siracusa“, che “venivano costruiti ad hoc al fine di delegittimare le indagini milanesi” su Eni-Nigeria, con imputato l’ad Claudio Descalzi, “e di ostacolare lo svolgimento”. Tra l’altro, nel complicato intreccio di indagini tra Milano, Roma e la Sicilia, l’ex parlamentare Verdini è accusato dalla Procura di Messina di aver ricevuto come, lui stesso già coinvolto nell’inchiesta sul cosiddetto Sistema Siracusa con l’avvocato Giuseppe Calafiore e con al centro indagini e fascicoli pilotati.

Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 25 gennaio 2020. Soldi Eni per far tacere i testimoni che accusano di corruzione i vertici della compagnia petrolifera. È questa l' ultima accusa che la Procura di Milano rivolge ai manager del Cane a sei zampe. Innanzitutto a Claudio Granata, l' uomo più vicino all' amministratore delegato Claudio Descalzi, nonché candidato alla sua successione. Ma anche a Michele Bianco, vicepresidente esecutivo degli Affari legali, e ad Alfio Rapisarda, responsabile della security. I tre manager sono accusati di associazione a delinquere. Granata e Bianco anche di induzione a rendere dichiarazioni false all' autorità giudiziaria. Due giorni fa sono stati perquisiti i loro uffici e le loro abitazioni, come quelle di un avvocato di Catania, Alessandra Geraci, accusata di corruzione fra privati. Perquisizioni anche per l' ex parlamentare Denis Verdini. La storia è quella del "complotto" avviato nel 2015 dall' avvocato siciliano Piero Amara, allora legale esterno dell' Eni, che presenta prima alla Procura di Trani, poi a quella di Siracusa, false prove di una macchinazione ai danni di Descalzi. L' obiettivo è quello di intorbidare le acque e danneggiare le inchieste che Fabio De Pasquale della Procura di Milano stava svolgendo su ipotesi di corruzioni internazionali in Nigeria e in Algeria. Amara viene arrestato nel 2018 dalla Procura di Messina e patteggia 3 anni, per altre vicende di corruzione. Sulle storie che coinvolgono Eni, sostiene in un primo momento di aver fatto tutto da solo, per ottenere crediti presso la compagnia. Negli ultimi mesi, interrogato più volte a Milano dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal sostituto Paolo Storari, racconta invece di aver avuto un mandato dai vertici Eni - Granata e Bianco - per far ritrattare a Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni, le accuse che questi aveva rivolto a Descalzi, coinvolgendolo nel pagamento della mega-tangente da oltre 1 miliardo di dollari che la compagnia avrebbe pagato per ottenere in Nigeria il campo petrolifero Opl 245. Scatta il cosiddetto "patto della Rinascente", siglato nel marzo 2016 dopo un incontro al grande magazzino romano di piazza Fiume. Amara lo racconta in un suo memoriale: "Le dichiarazioni di Armanna scossero il mondo Eni che temeva che la Procura di Milano potesse emettere delle richieste di custodia cautelare nei confronti dello stesso Descalzi". Così, continua Amara, Granata lo incarica di "gestire Armanna": gli viene promessa la sua riassunzione in Eni dopo la sentenza di primo grado sul caso Nigeria; e un pagamento di 1,5 milioni all' anno (finora almeno 5/6 milioni di euro) che la compagnia ha versato alla azienda nigeriana Fenog che a sua volta li ha girati ad Armanna come pagamento di consulenze. In cambio Armanna ha ritrattato le sue accuse a Eni e a Descalzi, inserendo in una memoria consegnata alla Procura di Milano il 23 maggio 2016 tre punti indicati in una annotazione preparata proprio da Granata. Amara ha raccontato ai magistrati milanesi che anche la fase del "complotto" a Trani e a Siracusa è stata da lui gestita insieme agli uomini Eni, l' avvocato Bianco e, per Siracusa, anche Granata. Per imbastire questa trama, i rapporti riservati tra Granata e Amara - secondo le dichiarazioni di quest' ultimo - sono stati tenuti dal capo della security aziendale, Rapisarda. Per compensare questo lavoro, Eni ha pagato consulenze legali all' avvocato Geraci, che poi ha versato una parte dei soldi a una società di servizi dietro cui c' è Amara. L' avvocato Bianco - sempre secondo Amara - aveva chiesto ad Armanna di lasciar cadere le accuse a Descalzi e Granata, scaricandole semmai su due manager licenziati dalla compagnia, l' ex capo degli Affari legali Massimo Mantovani e l' ex capo della divisione Exploration & Production Antonio Vella. La stessa richiesta sarebbe arrivata ad Amara, su un foglietto, anche da Verdini. L' avvocato Bianco è accusato anche di aver chiesto ad Amara di retrocedergli in contanti una parte delle somme pagate da Eni.

Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 30 gennaio 2020. Una delle udienze più pirotecniche mai viste a Milano, con una buona dose di servizi segreti, nigeriani e italiani. Così il processo Eni-Nigeria s'avvia verso la conclusione. Due testimoni picconano gli argomenti dell' accusa: uno, il poliziotto nigeriano Isaac Eke, smentisce se stesso; l' altro, l' agente segreto dell' Aise Salvatore Castilletti, sconfessa Vincenzo Armanna, imputato nel processo ma anche grande accusatore della compagnia petrolifera italiana. A questo punto, la storia della mega-tangente (1 miliardo e 92 milioni di dollari) che Eni avrebbe pagato nel 2011 per ottenere, insieme a Shell, l' immenso campo petrolifero nigeriano Opl 245, o è una grande bufala messa in scena dall' ex manager Eni Vincenzo Armanna, oppure è una colossale vicenda di corruzione (anche giudiziaria). Intanto gioiscono le difese degli imputati (le società Eni e Shell, l' amministratore delegato Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, i manager Roberto Casula e Ciro Pagano, gli intermediari Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni, l' ex ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete e altri). Isaac Eke - alto dirigente della polizia ora in pensione e collaboratore, a quanto è dato di sapere, dei servizi segreti della Nigeria - è comparso ieri come testimone davanti al Tribunale presieduto da Marco Tremolada. Armanna aveva raccontato ai pm, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che un certo Victor Nawfor, addetto alla sicurezza della residenza dell' allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan, gli aveva riferito che 50 milioni di dollari della supertangente erano stati consegnati nel 2011 a Casula, responsabile Eni in Nigeria. Nel gennaio 2019, Victor Nawfor era stato ascoltato come testimone, ma aveva smentito Armanna, dicendo che neppure lo conosceva. Era il Victor sbagliato, aveva replicato Armanna, che aveva poi indicato il vero Victor in Isaac Eke, il quale il 12 novembre 2019 ha firmato una lettera, certificata da un notaio, in cui dice di aver conosciuto Armanna "durante una cena nel 2009", di essergli stato presentato come Victor Nawfor e di essere "pronto a testimoniare a Milano". In aula, smentisce se stesso. Nega di conoscere Armanna, che ammette di aver incontrato fugacemente solo un paio di volte nel 2014 e nel 2015, all' Hilton Hotel e in un ristorante di Abuja (Armanna è stato in Nigeria dal 2009 al 2014 e dopo non è più entrato in quel Paese). Nega di aver scritto la lettera, firmata soltanto per fare un piacere a un suo amico, Tymi Aya. Alla domanda finale del pm, se sia stato contattato da qualcuno in Nigeria prima di venire a testimoniare in Italia, Eke risponde di essersi incontrato con il generale Mohammed Monguno, attualmente consigliere della sicurezza nazionale nigeriana, ovvero il "capo dei servizi segreti". A questo punto, in Nigeria come in ogni Paese di Common Law, per Eke sarebbero scattati gli arresti immediati per aver mentito al giudice (o nella lettera acquisita dal Tribunale, o nella testimonianza in aula). In Italia invece il testimone lascia l' aula e, se i pm lo vorranno incriminare per falsa testimonianza, l' accusa lo raggiungerà quando sarà tornato nel suo Paese. Il giudice non accetta neppure la richiesta di confronto immediato in aula tra Eke e Armanna, come prevede il codice italiano per due testimoni che si contraddicono. La parola passa a Castilletti, nel 2011 rappresentante dell' Aise (il servizio segreto italiano per l' estero) ad Abuja. Armanna aveva dichiarato che Castilletti avrebbe potuto confermare la versione di Victor sui milioni che giravano per i manager italiani in Nigeria. È accolto in aula con tutte le precauzioni dovute a un alto funzionario dell' Aise: l'aula è sgomberata al momento del suo ingresso e il testimone risponde alle domande nascosto da un paravento. Naturalmente nega di essersi mai occupato di contratti petroliferi, dice di conoscere Opl 245 solo "per aver letto i giornali"; di aver svolto soltanto il suo compito istituzionale, la sicurezza degli italiani in Nigeria; di aver avuto contatti nel Paese africano solamente con Casula, rappresentante Eni in Nigeria, e di aver incontrato Armanna solo un paio di volte; di non ricordare un viaggio di Scaroni e Descalzi in Nigeria per partecipare a un evento elettorale del presidente Goodluck e di non essersene occupato (benché a un evento elettorale simile ci fossero stati 15 morti). L' udienza si è conclusa con la decisione di far entrare nel processo i documenti provenienti da una rogatoria negli Usa su denaro pagato da Dan Etete a manager Shell; e di sentire come testimone Piero Amara, ex legale esterno di Eni diventato un grande accusatore della compagnia che - racconta - paga i testimoni per far loro ritrattare le accuse.

(ANSA il 5 febbraio 2020) - Nel processo milanese sul caso Eni/Shell e la presunta corruzione in Nigeria non entra la vicenda attigua e ancora in fase di indagine sul complotto-depistaggio e, in particolare, il capitolo che riguarda la ipotizzata "grave e continua interferenza" che sarebbe stata condotta dalla compagnia petrolifera per "alterare la genuinità" delle dichiarazioni rese durante il dibattimento dal'ex manager Vincenzo Armanna, imputato e ora grande accusatore della società di San Donato e dell'ad Claudio Descalzi. Il Tribunale di Milano ha infatti respinto, ritenendola "non decisiva", la richiesta di prove aggiuntive formulata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e da pm Sergio Spadaro e cioè di convocare in aula l'ex avvocato esterno al gruppo Piero Amara e Leonardo Marchese. Il primo, come ha detto il procuratore aggiunto, addirittura "seppe di interferenze delle difese di Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati degli uffici giudiziari milanesi con riferimento al processo Olp245". La requisitoria dei pm è attesa per il 27 marzo.

Luigi Ferrarella per il ''Corriere della Sera'' il 5 febbraio 2020. Appena poche ore dopo aver deposto mercoledì scorso nel processo milanese sulle tangenti Eni in Nigeria in maniera difforme dalle aspettative dei pm, a mezzanotte la Procura ha perquisito nella sua stanza di hotel e indagato per falsa testimonianza il nigeriano Isaac Eke, teste dell' accusa e dell' ex manager Eni Vincenzo Armanna. Questi, coimputato ma anche accusatore del n.1 Eni Claudio Descalzi, individuava in Eke il vero 007 «Victor» (dopo che quello con questo nome aveva testimoniato un anno fa di nemmeno conoscere Armanna): cioè il «Victor» in grado di riscontrare l' attendibilità di Armanna sui 50 milioni in contanti a suo dire consegnati a casa del coimputato manager Eni Roberto Casula. In aula Eke aveva però detto tutto il contrario di quanto risultava aver firmato settimane fa in una lettera ad Armanna valorizzata dall' accusa, asserendo d' averla sottoscritta solo perché ciò gli era stato chiesto da un nigeriano amico di Armanna, Tymi Aya. I pm De Pasquale e Spadaro hanno dunque ritenuto di qualificare questo contrasto come «falsa testimonianza», e mandato la Finanza a perquisire Eke in albergo con l' assistenza di un legale d' ufficio fattosi sostituire da Barbara Belloni, in passato collega del difensore di un ex manager Eni (Varone) assolto in appello nel processo per le tangenti Eni Algeria. I pm hanno sequestrato a Eke una copia spiegazzata della lettera e quattro cellulari (restituiti dopo la copia forense). L' indomani pomeriggio, giovedì 30 gennaio, la Procura ha convocato Eke nell' ufficio del pm Spadaro: ma l' indagato a quel punto si è avvalso della facoltà di non rispondere. E venerdì è ripartito per la Nigeria.

Tangenti Nigeria, i pm al Tribunale: «Interferenze di Eni su voi giudici». Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Colpo di scena in aula a Milano: la Procura chiede al collegio di convocare l’ex avvocato Eni Piero Amara, che sta rendendo dichiarazioni sulle «attività di Eni e Descalzi volte a eliminare le prove a carico». Richiesta respinta. Colpo di scena al processo sulle tangenti Eni in Nigeria nel 2009-2011. Non soltanto «una attività di grave e continua interferenza», sulla genuinità delle dichiarazioni di Vincenzo Armanna condotta «a favore di Eni e in particolare dell’imputato Claudio Descalzi», ma addirittura «interferenze delle difese di Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati milanesi con riferimento al processo Olp245» sulle tangenti Eni in Nigeria. È quanto i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro gettano sul tavolo del processo milanese chiedendo al Tribunale (cioè al collegio giudicante sul quale vengono evocate le «interferenze» di Eni) di convocare in aula la persona che sta riferendo di questi «depistaggi processuali», l’ex avvocato dei processi ambientali Eni Piero Amara (coindagato in procedimenti connessi) quale sopravvenuta prova indispensabile e assolutamente necessaria alla decisione sulla corruzione internazionale in Nigeria imputata a Eni, Descalzi e altri coimputati quali Armanna. I pm motivano la richiesta con la necessità di svolgere un «compiuto accertamento di quanto riferito da Amara» nelle sue «gravi affermazioni» rese da novembre 2019 a gennaio 2020 nel parallelo fascicolo segreto, istruito dai pm Laura Pedio e Paolo Storari, sulle «attività di Eni e Descalzi volte a eliminare le prove a carico, comportamento gravemente indiziario» per le loro posizioni nel dibattimento Eni-Nigeria. In particolare Amara ha riferito di incontri nel 2016 nei quali il numero tre Eni, Claudio Granata, avrebbe consegnato ad Armanna una bozza di memoria affinché Armanna la trasfondesse in una memoria ai pm in chiave di ritrattazione di alcune delle proprie iniziali dichiarazioni più accusatorie nei confronti di Descalzi. Sempre a detta di Amara, il referente degli avvocati penalisti in seno all’ufficio legale Eni, Michele Bianco, avrebbe concordato con Amara l’invio da parte di Amara di un esposto anonimo alla Procura di Trani per «far fuori» persone ritenute scomode da Eni quali il consigliere Luigi Zingales. Amara afferma anche di aver saputo da Granata che la security di Eni avrebbe raccolto informazioni sui pm milanesi anche con pedinamenti e intercettazioni ambientali in luoghi come bar e ristoranti. I giudici Tremolada-Gallina-Carbini sono entrati in camera di consiglio per decidere.

Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2020. Il Tribunale che a Milano sta giudicando Eni, accusata di corruzione internazionale in Nigeria, ha detto l' ultimo no ai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Chiedevano di sentire in aula due avvocati: Piero Amara, per anni legale esterno dell' Eni, da cui ha ricevuto compensi per 13,5 milioni di euro e che poi, dopo essere stato arrestato nel 2018, ha patteggiato 3 anni di pena per altre vicende di corruzione; e Leopoldo Marchese, in grado di confermare le dichiarazioni di Amara. La testimonianza dei due legali è stata ritenuta superflua e non decisiva, ha risposto il presidente Marco Tremolada, che ha dichiarato la fine della fase processuale in cui si acquisiscono le prove. Il 25 marzo inizierà la requisitoria dell' accusa. Per i pm le due testimonianze erano invece essenziali. Perché mentre alla luce del sole si svolgeva questo processo, sotterraneamente è successa una cosa mai vista: la più grande e strategica delle aziende italiane, l' Eni, ha messo in azione una gigantesca macchina per inquinare le prove, depistare le indagini, comprare i testimoni d' accusa, perfino dossierare, pedinare e intercettare i pm. Questa almeno è la convinzione della Procura di Milano, confermata dalle dichiarazioni di Amara, che dopo essere stato arrestato e poi "scaricato" dall' Eni ha deciso di raccontare il suo ruolo nella grande macchina dell' inquinamento probatorio del processo Eni Nigeria, attivata - dice - dai vertici della compagnia petrolifera: l' ad Claudio Descalzi e il suo numero due, Claudio Granata. Le dichiarazioni di Amara non attengono a questo processo e alle accuse di corruzione internazionale, ma al processo che i pm Laura Pedio e Paolo Storari stanno preparando sul "complotto" Eni, hanno obiettato le difese guidate da Nerio Diodà (legale di Eni) e Paola Severino (legale di Descalzi). Non c' è stato del resto alcun inquinamento in questo processo - continuano le difese - perché il grande accusatore su cui sarebbero state fatte pressioni, Vincenzo Armanna, ha mantenuto in aula le sue accuse ai vertici Eni. Secondo i pm, la compagnia avrebbe pagato nel 2011 una mega-tangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere in Nigeria, insieme a Shell, l' immenso campo petrolifero Opl 245. L' accusa aveva presentato 14 punti per sostenere la richiesta di sentire Amara, quattro per Marchese. Per dimostrare "la grave e continua interferenza" di Eni nel processo sulla presunta corruzione internazionale per far ritrattare al teste Armanna le accuse all' amministratore delegato Descalzi e per eliminare prove a carico dei vertici della compagnia. Le dichiarazioni di Amara sono "assolutamente necessarie" in questo processo, secondo il pm De Pasquale, che chiede di acquisirle solo ora perché Amara ha cominciato a collaborare nel novembre 2019, con dichiarazioni che soltanto ora sono disponibili e che non potevano essere prodotte prima. In questo processo: perché è in questo processo che la società Eni è accusata, in forza della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società, di non aver predisposto modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati come quello di corruzione internazionale. E perché è in questo processo che sono state tentate manovre d' inquinamento delle prove che dimostrano - se provate - che gli imputati avevano qualcosa da nascondere: l' imputato innocente non ha alcun interesse a inquinare il processo, comprare testimoni, pedinare i pm. I 14 punti presentati da De Pasquale e Spadaro per tentare di convincere - invano - il Tribunale a sentire Amara sono pesantissimi. Riguardano 14 fatti che riscrivono la storia dell' inchiesta su Olp 245. Tra questi: Granata nel 2014 fornì ad Amara un cellulare per le telefonate "riservate", gli chiese di registrate il testimone Armanna "per ricattarlo" e "comprarlo"; e partirono "interferenze della difesa Eni e di taluni imputati nei confronti dei magistrati degli uffici giudiziari milanesi con riferimenti al processo Opl 245".

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2020. Al processo per le tangenti Eni in Nigeria niente tempi supplementari invocati dai pm per portare in aula in extremis l' ex avvocato esterno Eni Pietro Amara a parlare, a istruttoria chiusa, non solo di «attività (a favore di Eni e dell' imputato a.d. Claudio Descalzi) di grave e continua interferenza» sulle dichiarazioni del coimputato ex manager Eni Vincenzo Armanna, ma persino delle «interferenze delle difese di Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati degli uffici giudiziari milanesi con riferimento a questo processo». I giudici Tremolada-Gallina-Carboni hanno infatti respinto l' integrazione, ravvisandola non indispensabile per la sentenza in estate dopo requisitoria dal 25 marzo e arringhe dal 27 maggio. Erano 14, per i pm, i temi delle «gravi affermazioni» rese da Amara da novembre 2019 nella parallela indagine segreta dei pm Laura Pedio e Paolo Storari sulle «attività di Eni e Descalzi volte a eliminare le prove a carico, comportamento gravemente indiziario» per loro nel processo. Amara - 11 milioni di parcelle da Eni, 3 anni di pena a Roma per corruzione di giudici, indagato a Messina e Milano - parla di incontri nel 2016 nei quali il n.3 Eni Claudio Granata avrebbe consegnato ad Armanna i contenuti da riversare in una memoria in Procura per ritrattare le iniziali accuse a Descalzi; sostiene che il referente degli avvocati penalisti in seno all' ufficio legale Eni, Michele Bianco, avrebbe concordato con Amara l' invio di un esposto anonimo a Trani per «far fuori» persone scomode per Eni; e dice d' aver saputo da Granata che Eni avrebbe raccolto notizie sui pm milanesi pure con pedinamenti e intercettazioni in bar e ristoranti. Tutti racconti affiorati giorni fa sotto i pochi omissis disvelati alle parti, eccetto quell' accenno a «interferenze» sui giudici: «In che punto degli atti sta?», chiede l' avvocato Eni Nerio Diodà al pm De Pasquale. «Mi dispiace, ma non posso risponderle».

 (ANSA l'11 febbraio 2020) - L'avvocato Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni indagato anche nell'ultima indagine della procura di Milano su presunte attività di depistaggio per condizionare l'inchiesta sul caso Eni-Nigeria, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza. Amara deve scontare un cumulo pena di 3 anni e 8 mesi per le condanne inflittegli nei procedimenti relativi alle sentenze pilotate al Consiglio di Stato e al Sistema Siracusa, indagine che ha scoperchiato una sorta di accordo tra pm e avvocati per pilotare indagini e fascicoli.  L'arresto è scattato dopo che la Cassazione lo scorso 4 febbraio ha dichiarato inammissibile il ricorso di Amara, che aveva patteggiato una condanna davanti al Gup di Messina ad un anno e due mesi per l'inchiesta sul Sistema Siracusa. A giugno del 2019 era invece diventata definitiva la condanna a 3 anni emessa dal Gup del tribunale di Roma e arrivata anche questa con un patteggiamento, per le sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Avendo però trascorso già 5 mesi e 20 giorni in custodia cautelare, ad Amara restano da scontare, appunto, 3 anni, 8 mesi e 10 giorni. Il giorno dopo la sentenza della Cassazione i suoi legali hanno chiesto di sospendere l'esecuzione della pena, almeno fino alla pronuncia della Corte Costituzionale sulla Spazzacorrotti, e di consentire ad Amara di chiedere da libero di usufruire delle misure alternative al carcere. Una richiesta che è stata respinta proprio in virtù dell'entrata in vigore della nuova legge. "Se l'ordine di esecuzione è stato emesso dopo l'entrata in vigore della legge - scrivono i pm nel provvedimento di esecuzione della pena - il condannato, per eccepirne l'incostituzionalità, deve entrare in carcere e rimanerci fino alla decisione della Consulta".

Stefano Zurlo per “il Giornale”l'11 febbraio 2020. L'Eni contro la presunta gola profonda. Il colosso guidato dall' ad Piero Descalzi presenta il conto e chiede 30 milioni di euro per danni reputazionali all' avvocato Piero Amara, un tempo utilizzato dall' azienda nelle sue controversie e poi diventato grande accusatore di Descalzi & company. Ora parte la controffensiva: i racconti del legale sarebbero una sorta di fiction, in un intreccio di menzogne, tangenti e trame spionistiche. «Nel corso del 2015 - si legge nell' atto depositato al tribunale di Terni - l' avvocato Amara ha elaborato prima una serie di esposti anonimi alla Procura di Trani e poi una denuncia alla procura di Siracusa», dove aveva una amica, «nei quali veniva denunciato un preteso complotto asseritamente finalizzato a destabilizzare i vertici di Eni». Tutto falso, secondo gli avvocati Sara Biglieri e Luca De Benedetto, e di questo Amara dovrà rispondere in sede civile. Da tempo Amara disegna e racconta le presunte manovre del ponte di comando dell' Eni fino a cercare di screditare la procura di Milano che contesta ai vertici dell' azienda petrolifera il pagamento di ingenti mazzette per i giacimenti africani. Il primo processo, per le stecche in Algeria, si è chiuso con un flop, ora pure il secondo, relativo ai presunti versamenti in Nigeria, perde colpi, per le autorevoli smentite alla tesi dell' accusa arrivate inaspettatamente in aula. Non solo: la procura si è aggrappata alle rivelazioni di Amara per salvare il salvabile e ha chiesto che fosse sentito su ben 14 punti, in cui c' è di tutto e di più come in un romanzo d' appendice dai troppi colpi di scena: incontri riservati, esposti anonimi, telefonini criptati e tanto altro. «Amara - secondo la procura - seppe che l' Eni ha svolto un' attività di raccolta di informazioni nei confronti dei pubblici ministeri di Milano titolari delle indagini su Eni-Algeria e Opl 245 volta ad acquisire notizie utili a screditare anche attraverso pedinamenti ed intercettazioni ambientali in luoghi d' incontro». Insomma, Amara continua a rilanciare e ad aggiornare il proprio verbo e neppure l' apertura del nuovo fronte, in sede civile, sembra aver frenato le sue minuziose ricostruzioni. Ma la risposta del tribunale alle sollecitazioni del pm Fabio De Pasquale è stata gelida: il 5 febbraio scorso il presidente del collegio Marco Tremolada legge un' ordinanza con cui boccia il nuovo interrogatorio di Agrama e l' acquisizione di nuove prove. Ritenute «non decisive». Il processo è lanciato verso la conclusione e il tribunale pare stufo di dover fare il giro del mondo per raccogliere nuove suggestioni tutte da dimostrare. Si attende il finale del secondo filone, il primo intanto è finito nel nulla. Ma i costi sostenuti dall' Eni, e in parte ricaduti sulle spalle del contribuente, sono astronomici e sfiorano i cento milioni. Fra perizie, parcelle e audit.

Le tangenti non ci sono. Il processo flop all'Eni è già costato 100 milioni. Sono le spese affrontate dall'ente per la difesa sui casi delle presunte mazzette in Africa. Luca Fazzo, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Se si chiede alla Procura di Milano quanto è costato imbastire il processo Eni-Nigeria, la risposta è che un bilancio complessivo dell'inchiesta non c'è, «ma comunque non abbiamo speso molto»: una sola consulenza, qualche traduzione, e poco altro. Se invece lo si chiede all'Eni, che dalle accuse di corruzione internazionale mossa a lei e ai suoi manager ha dovuto difendersi, i conti che in qualche modo si riesce ad avere sono piuttosto precisi: 54 milioni di euro fra parcelle, perizie, audit, consulenze e quant'altro. Un budget che anch'esso, come quello della Procura di Milano, pesa in parte sulle spalle dei contribuenti in termini di minore redditività. E che fa il paio con l'altro salasso subito dall'ente energetico di Stato per il processo-gemello per le presunte tangenti in Algeria: 47 milioni di euro, compresi gli astronomici onorari agli avvocati americani per difendersi nel fronte di indagine Oltreoceano. Conto totale, oltre cento milioni. Si dirà: l'Eni può permetterselo. E poi sono i costi della giustizia, l'investimento che la collettività è chiamata a fare in nome della legalità e della trasparenza. Giusto. Il problema è che ad aleggiare su questa montagna di quattrini è un dubbio che udienza dopo udienza si rafforza, come uno spettro che inevitabilmente porta a leggere tutto in un'altra luce. Quello che il processo non stia in piedi. Che le tangenti che il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale è convinto di avere scoperto esistano in realtà, come sostiene l'Eni, solo nei racconti coloriti di personaggi improbabili. E che insomma né l'ex amministratore delegato Paolo Scaroni né il suo successore Claudio Descalzi abbiano mai ordinato di pagare a colpi di mazzette il diritto di sfruttare i giacimenti africani. Per quanto riguarda le mazzette in Algeria, a dire il vero, il dubbio si è già abbondantemente concretizzato: assolta l'Eni, assolto Scaroni, assolta in appello anche la controllata Saipem. Adesso tocca alla Nigeria. L'altro ieri, in udienza, gli ultimi due testimoni dell'accusa, le ultime due carte di De Pasquale per convincere i giudici si sono trasformati in altrettanti boomerang: sia il poliziotto nigeriano Isaac Eke sia il capocentro dei servizi segreti italiani in Nigeria hanno smentito su tutta la linea la «gola profonda» della Procura, l'ex funzionario Eni Vincenzo Armanna. Mai visti trolley con i quattrini, mai saputo niente dell'andirivieni di tangenti e di creste. In aula il coup de théãtre è tale che persino gli avvocati difensori sembrano colti alla sprovvista e si scambiano il 5 come giocatori di pallavolo dopo un colpo vincente. Che anche qua tutto finisca con un'assoluzione generale, è a questo punto una possibilità concreta. E questa ipotesi invece di svelenire il clima lo peggiora, lo incupisce ulteriormente. Perché da un lato la Procura della Repubblica appare convinta che se tutto si sgretola è solo perché qualcuno ha comprato i testimoni, riapparsi in scena ribaltando confessioni precise ed accuse dettagliate in lunghe sequenze di «non so» e «non ricordo». Dal lato opposto si accusa la Procura di essere ormai alla caccia di un risultato purchessia: se non la condanna almeno la destituzione di Descalzi, la cui carica è al vaglio delle prossime nomine, ma fin quando non viene assolto è a rischio poltrona. E i quaranta giorni che De Pasquale ha chiesto per preparare la sua requisitoria potrebbero mettere il manager in difficoltà nel valzer delle nomine.

Eni, 30 anni di attacchi dal Pm che nessuno riesce a fermare. Piero Sansonetti il 17 Gennaio 2020 su Il Riformista. Paolo Scaroni è stato assolto. Un’altra volta. E sono stati assolti tutti i dirigenti dell’Eni e della Saipem che erano finiti alla sbarra per corruzione internazionale, e avevano ricevuto condanne, o richieste di condanne, piuttosto pesanti, dai quattro ai nove anni. Anche per Scaroni – che era stato assolto già in primo grado –  la richiesta dei Pm dell’appello era pesantissima: più di sei anni. Se fosse stata accolta avrebbe dovuto sperare nella Cassazione per non finire in carcere, a 74 anni. Chi è Paolo Scaroni si sa. Un manager di primissima fila, uno di quelli che hanno fatto la storia economica del nostro Paese. Non è mai stato tanto simpatico ai Pm, questo è certo. Gli danno la caccia da un quarto di secolo. Il suo nome, in modo un po’ sacrilego, potrebbe essere persino accostato a quello di Enrico Mattei, ma di Mattei parliamo tra poco. Sotto la direzione di Scaroni, prima l’Enel, nei primi anni duemila, e poco dopo l’Eni, hanno raggiunto dei risultati straordinari. E se l’Italia è un paese potente, e ricco, in qualche misura lo dobbiamo anche a lui. I capi dell’Eni (Scaroni è stato amministratore delegato tra il 2005 e il 2013, e in quegli anni, come anche adesso, il vero comandante era l’amministratore delegato) nella storia d’Italia hanno sempre svolto un compito delicatissimo non solo in economia, ma anche in politica estera. Scaroni, negli anni dell’Eni, è stato quasi un ministro degli esteri. E poi… E poi la vita di Paolo Scaroni si è divisa in due: l’impegno del manager e l’impegno a difendersi nei processi. Scaroni, all’epoca dei suoi quarant’anni, manager considerato vicino al partito socialista, non scampò a Tangentopoli. Nel 1993 lo catturarono i Pm del pool e lo fecero sbattere in galera. Se la cavò bene, si rialzò, tornò ai vertici delle aziende pubbliche e private, perché le sue capacità sono sempre state indiscusse, ma sempre – sempre – con i Pm alle calcagna. E nel 2013, quando l’Eni volava e il successo di Scaroni era all’apice, lo attaccarono di nuovo: avviso di garanzia per corruzione internazionale, arrestati alcuni dei suoi uomini, azzoppato. In seguito a quell’avviso di garanzia, Scaroni deve lasciare l’Eni e il vertice dell’ente viene smontato come un trenino lego, direbbe Gratteri. La carriera di Scaroni più o meno finisce lì, anche se riceve nuovi incarichi e addirittura assume la presidenza del Milan, succedendo a Berlusconi, e la vicepresidenza della Rothschild. Contemporaneamente l’Eni subisce un colpo molto serio. Anche se riesce a riassorbirlo, e si riprende. L’impressione è però che la magistratura abbia provato a radere al suolo l’Eni e di essere andata vicino all’obiettivo. Quale accusa si muoveva a Scaroni? Di avere pagato una tangente per vincere la concorrenza dei francesi e assicurare all’Eni un appalto miliardario in Algeria, nonostante l’ostilità del governo algerino. Certo, non è una accusa infamante, ma nel clima italiano di questi anni – grillino, anticastista, moralista, giacobino – lo è sùbito diventata e Scaroni ha pagato caro. I suoi manager ancora più caro. È qui che viene in mente Enrico Mattei. Qualcuno si ricorda di Mattei? L’uomo che inventò l’Eni, ne fece un colosso, sfidò a viso aperto i giganti americani, e francesi e inglesi, quelle che si chiavano le “Sette Sorelle” cioè le sette più grandi compagnie petrolifere del mondo, le affrontò, si rifiutò di sottomettersi e le mise con le spalle al muro. Pagando tangenti, forse? Finanziando partiti? O qualche giornale? Sì proprio così: Mattei, che veniva dalla Dc ma era molto laico e che era stato uno dei grandi leader della Resistenza, pagava tangenti tutti i giorni, in patria e all’estero, finanziava i partiti e i giornali e se ne vantava. Lui, per esempio, diceva che i partiti sono come dei taxi: uno ne prende uno, lo usa, paga la tariffa e scende. Mica deve sposarsi il taxista, ha un rapporto commerciale col tassista. A me viene la pelle d’oca se penso a dove sarebbe oggi Mattei, se vivesse ai giorni nostri e con la magistratura di oggi e con la classe politica codarda di oggi: in prigione. Si sarebbe beccato almeno una trentina d’anni. In prigione dove è stato Scaroni e dove è stato un altro grande presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, anche lui era un uomo onesto che si occupava di economia e di politica, e fece molto per il suo paese. Lo gettarono in cella, nel 1993, restò lì per diversi mesi; il Pm, alla vigilia di agosto, lo interrogò ma non ricevette una confessione e sostenne che solo una confessione poteva giustificare la concessione della libertà provvisoria. Allora (come oggi) si usava così: ti metto in carcere finché non confessi. Il Pm diede parere non favorevole alla scarcerazione. La decisione spettava al Gip, ma il Gip non si decideva. Cagliari stava male e si vide senza futuro, prese un sacchetto di plastica, se lo calò dalla testa e poi lo strinse sul collo. Morì così, soffocato proprio di fronte a una finestrella con le sbarre. Il Pm che chiese la non scarcerazione di Cagliari oggi è procuratore generale aggiunto a Milano ed è lui che dirige il pool che ha fatto appello contro l’assoluzione in primo grado di Scaroni. Sapete come si chiama? Fabio de Pasquale. La Corte ha definito inammissibile il suo appello. E ha assolto tutti, ma proprio tutti: ha detto che non è stata pagata nessuna tangente. Ora, di fronte a queste sentenze – così nette, così chiare: la tangente non c’è stata, il ricorso in appello dall’accusa era inammissibile, la condanna di primo grado di diversi dirigenti infondata – non viene solo da ragionare sulla forza della sopraffazione della macchina della giustizia sui singoli. ma anche sull’enorme potere che la nostra società consegna nelle mani di alcuni magistrati (pensate a questo magistrato che decise di non scarcerare Cagliari e dopo 25 anni cerca di mettere in prigione Scaroni, e pensate come nessuno, proprio nessuno sia in grado di fermarlo, di limitare la sua strapotenza) .

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2020. Succede sempre così nelle grandi imprese, le volte in cui salta fuori un pagamento estero su estero che gli inquirenti ricolleghino a una tangente: succede che i grandi manager del gruppo si meravigliano e spiegano d' essere troppo alle prese con le grandi strategie per potersi avvedere che in qualche periferia del proprio mondo societario un qualche manager troppo disinvolto si è reso «autonomo» al punto da decidere in proprio di usare le scorciatoie. Che sia giustificazione realistica o favoletta buona solo a non pagare pegno lo deciderà, nel caso della famiglia Rocca, un processo per «corruzione internazionale» in Brasile: quello al quale dal 14 maggio il gup Valerio Natale ha rinviato a giudizio Gianfelice Rocca (presidente anche del gruppo ospedaliero Humanitas, ex presidente di Assolombarda, già vicepresidente di Confindustria in quel periodo, componente del cda della Bocconi), il fratello Paolo e il cugino Roberto Bonatti quali amministratori e soci di San Faustin sa, holding (della multinazionale di ingegneristica Techint) pure imputata per responsabilità amministrativa dell' ente in base alla legge 231 del 2001. Oggetto del processo sarà la contestata tangente dello 0,5% per far aggiudicare a Confab (controllata da San Faustin attraverso la Tenaris dei Rocca, n.1 al mondo nei tubi d' acciaio) 22 contratti di fornitura di tubi del valore di 1,4 miliardi di euro: 6,5 milioni in mazzette che i pm Donata Costa e Isidoro Palma ricostruiscono pagate in Brasile nel 2009-2013 dall' uruguagio Hector Alberto Zabaleta, allora dirigente locale di Techint, al direttore (Renato Duque) della società pubblica carioca Petrobras, con soldi arrivati dai conti di società uruguayane alimentati dagli utili prodotti da San Faustin, la «cassaforte» lussemburghese della famiglia Rocca accreditata di un patrimonio personale di 6 miliardi di dollari. La difesa afferma che non sarebbe realistico attendersi consapevolezza di un volume eventuale di tangenti per 6,6 milioni che, seppure rilevante in assoluto, perderebbe visibilità nel mare magno dei «90 miliardi di dollari di fatturato delle 450 società consolidate nella holding San Faustin durante il periodo investigato nei 45 Paesi con 80.000 lavoratori». La società San Faustin sostiene peraltro di «aver agito sempre in conformità ai principi etici e alle leggi» dei vari Paesi; rimarca l' esito per essa rassicurante della «verifica indipendente affidata a Kpmg su 1,7 milioni di email e 104 milioni di registrazioni contabili di 157 società»; e punta a capitalizzare il fatto che Petrobras in Brasile, all' esito di un audit interno su richiesta dei magistrati locali, abbia ritenuto di concludere che «non c' è stato un beneficio fraudolento o colpevole a favore di Confab».

Luca Fazzo per il Giornale il 23 febbraio 2020. Prima domanda. Può un manager di Eni avere una moglie che controlla una società che fa affari con Eni? Ovviamente no, non può. Seconda domanda. Può un giornale affidare l' attacco allo stesso manager di Eni a un giornalista che è a libro paga del principale oppositore di quel manager? La risposta, si direbbe, è altrettanto scontata. Eppure su questi due conflitti di interessi si gioca la singolar tenzone che da mesi sta accompagnando la partita per il rinnovo dei vertici delle aziende pubbliche, a partire dalla più ambita e strategica di tutte: quella, per l' appunto, di Eni. L' amministratore delegato, Claudio Descalzi - glabro e chiuso quanto il suo predecessore, Paolo Scaroni, era chiomuto ed estroverso - punta ad un nuovo mandato. Il fronte trasversale che inizialmente aveva lavorato contro la riconferma di Descalzi si è via via assottigliato sotto il lavorio del manager e del suo potente apparato di relazioni e comunicazione. Alla fine a tuonare contro il Descalzi-bis è rimasto da solo un giornale: il Fatto Quotidiano, che questa settimana ha scaraventato sull' ad del cane a sei zampe una tempesta di fuoco con l' obiettivo esplicito di spodestarlo dalla guida del gruppo. Il problema, per il quotidiano di Travaglio, è che da ultimo si è sfilato dalla battaglia anche il partito di riferimento, quel Movimento 5 stelle che in passato aveva sposato apertamente la crociata antidescalziana. Invece Descalzi riesce a farsi ricevere dal plenipotenziario grillino sulle nomine, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro: un incontro che sa di investitura. Anche perché viene seguito da una dichiarazione alla agenzia Reuters in cui i 5 Stelle rendono omaggio alle capacità del manager con il cranio glabro. Il timore di Travaglio&C. è che la battaglia sia persa. E così arriva quella che nelle intenzioni dovrebbe essere l' arma finale: una doppia pagina in cui si elencano punto per punto i dieci motivi che renderebbero impraticabile l' ipotesi di un Descalzi-bis. Tutto normale, tutto lecito. A cosa servono i giornali se non a fare le pulci al potere? E che quello di Eni sia un Potere con la maiuscola, più forzuto e più efficiente di molti apparati dello Stato, è un dato di fatto. Certo, ci sarebbe da discutere sull' approccio del decalogo: che viene stilato secondo i dettami classici del Travaglio-pensiero, sottolineando gli elementi di accusa e minimizzando o omettendo del tutto i fatti a discarico. Non una riga per dire che tutte le volte che le accuse della Procura di Milano sulle presunte mazzette di Eni sono arrivate al vaglio di un tribunale ne sono uscite a pezzi. Non un accenno all' andamento non proprio lusinghiero per l' accusa del processo in corso contro Descalzi per le tangenti in Nigeria, con il pm De Pasquale che all' ultima udienza secondo il Corriere della sera esce «tramortito» da una testimonianza. E, soprattutto, neanche in una parentesi si dice che il grande accusatore sul complotto che l' Eni di Descalzi avrebbe ordito ai danni della Procura di Milano, l' avvocato Pietro Amara, è un signore condannato per corruzione in via definitiva, portato in carcere pochi giorni fa e uscito solo grazie alla sentenza della Corte Costituzionale sullo spazzacorrotti (la stessa sentenza che ha indignato il Fatto per altri miracolati). Una sola, delle dieci accuse lanciate dal Fatto, è un dato certo: le società della signora Descalzi. Infatti Eni, nella sua replica, non ne fa cenno. Ma il tema del conflitto di interessi è a doppio taglio. Gli articoli più ficcanti contro Descalzi portano la firma di Stefano Feltri, ex vicedirettore del Fatto, che dal 2019 lavora alla Chicago University presso lo Stigler Center, di cui dirige il blog ProMarket. Chi è il capo dello Stigler? Luigi Zingales, ex consigliere di amministrazione di Eni, il grande accusatore di Descalzi che i contestatori vorrebbero al posto del supermanager. Per la Procura di Milano Zingales è la vittima del complotto di Eni, il suo dipendente Feltri tiene a galla mediatamente l' accusa, il cerchio si chiude. Tutto normale? E gli amici americani di Feltri sono gli stessi che gli hanno aperto le porte dell' odiata Bilderberg, il club dei banchieri e degli economisti «reazionari», sollevando lo stupore dei collaboratori del Fatto?

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 24 febbraio 2020. Il Giornale ha scoperto il conflitto d' interessi, e questa è una buona notizia. Purtroppo l' ha scoperto in casa del Fatto che, secondo Luca Fazzo, non dovrebbe criticare l' eventuale conferma di Claudio Descalzi all' Eni perchè Stefano Feltri sarebbe "a libro paga" di Luigi Zingales (per la verità lavora per la Chicago University dove Zingales insegna), "principale oppositore" di Descalzi e "aspirante ad" dell' Eni. Ora, Zingales fu consigliere indipendente dell' Eni, da cui fu costretto a dimettersi dopo una serie di losche manovre per farlo addirittura indagare perché faceva il suo dovere: denunciava gli scandali dell' Eni. Che aspiri a succedere a Descalzi non risulta da nessuna parte, essendo un economista, non un manager. Quanto al nostro Feltri, scrive ciò che ha sempre scritto tutto il Fatto - dal sottoscritto direttore a Barbacetto, Di Foggia, Feltri, Lillo, Massari, Meletti, Milosa e Tecce - da quando Descalzi è sotto processo per corruzione internazionale (reato già accertato per l' affaire Nigeria dalle sentenze in abbreviato su due mediatori nel 2018). Intanto, mentre noi raccontavamo a colpi di scoop le inchieste sull' Eni e i tentativi di depistaggio, il Giornale pubblicava soffietti tipo "Eni fa squadra sull' energia del mare" o "Eni fa un blitz negli Emirati e si rafforza in vista del piano". Dunque è per noi un grande successo che ora, sia pure per attaccarci, il Giornale sia costretto a scrivere in prima pagina che certo, è un po' imbarazzante che la moglie di Descalzi "controlli una società che fa affari con Eni" (300 milioni di dollari di appalti, per la precisione). Come noi abbiamo sempre raccontato e il Giornale mai. Ora, per completare l' opera sui conflitti d' interessi, Fazzo potrebbe narrare ai suoi lettori come mai lasciò Repubblica quando si scoprì che spiava i suoi colleghi per conto di Marco Mancini, funzionario dell' opera pia Sismi-Pollari-Pompa.

Da ansa.it il 18 gennaio 2020. Il Garante per la privacy ha applicato a Eni Gas e Luce (Egl) due sanzioni, per complessivi 11,5 milioni di euro, riguardanti rispettivamente trattamenti illeciti di dati personali nell'ambito di attività promozionali e attivazione di contratti non richiesti. Le sanzioni sono state determinate tenendo conto dei parametri indicati nel Regolamento Ue, tra i quali figurano l'ampia platea dei soggetti coinvolti, la pervasività delle condotte, la durata della violazione, le condizioni economiche di Egl. La prima sanzione di 8,5 milioni di euro riguarda trattamenti illeciti nelle attività di telemarketing e teleselling. La seconda sanzione di 3 milioni di euro riguarda violazioni nella conclusione di contratti non richiesti nel mercato libero della fornitura di energia e gas.

Francesco Spini per “la Stampa” il 16 gennaio 2020. Si fa presto a dire "green". In un momento in cui i cambiamenti climatici rendono la tutela dell' ambiente una priorità per tutte le aziende, il colosso petrolifero Eni inciampa sul carburante verde. La pubblicità che ne esalta le doti di ecosostenibilità e ne sottolinea l' efficacia nelle riduzione dei consumi finisce nel mirino dell' Antitrust che la boccia in quanto giudicata «ingannevole»: il gruppo del cane a sei zampe dovrà pagare una multa da 5 milioni, il massimo previsto dal Codice del Consumo. Solo un pizzicotto, forse, per chi fattura ogni anno nell' ordine dei 77 miliardi di euro, ma a San Donato sono decisi a dare battaglia, presentando ricorso al Tar del Lazio. Il prodotto in questione si chiama «Eni Diesel+». Secondo gli spot assicurerebbe «fino al 40%» di riduzione delle emissioni gassose e in media del 5% di anidride carbonica, oltre a una riduzione dei consumi «fino al 4%», aggiungendo frasi come «green/componente green», «rinnovabile» e «aiuta l' ambiente». Questo perché tale carburante è ottenuto miscelando un 85% di gasolio minerale (il cosiddetto petrodiesel) e un 15% di gasolio di origine vegetale, un biodiesel chiamato da Eni, appunto, «green diesel». Si tratta di un carburante ottenuto da olio di palma (per lo più) e da olii esausti lavorati da grassi vegetali attraverso un processo di idrogenazione eseguito nelle raffinerie di Venezia e di Gela. Secondo l' Antitrust la qualificazione del prodotto finale come «green» viene utilizzata «in maniera suggestiva» per «evocare il minore o ridotto impatto ambientale del prodotti». Invece i messaggi «riguardano un gasolio per autotrazione, ovvero un carburante che per sua natura è un prodotto altamente inquinante e che, evidentemente, non può essere considerato "green" né tantomeno attraverso il suo utilizzo è possibile prendersi cura dell' ambiente». Ciò vale anche per la sola componente di biodiesel. Nelle sue risultanze istruttorie l' authority guidata da Roberto Rustichelli non conferma «in quanto parziali» e «non adeguatamente contestualizzate» nemmeno i numeri relativi alla riduzioni di emissioni gassose e ai consumi. Eni ricorrerà al Tar del Lazio. La società esprime «grande sorpresa» per la decisione. Fa notare che l' autorità non mette in discussione le «performance ambientali migliori rispetto ai carburanti tradizionali» ma «si contestano le modalità espressive», in specie «la parola "green"». Argomentazioni «semantiche» che Eni «non ritiene condivisibili» e che finiranno dritte al Tar.

Travaglio prende pieni poteri, Lucia Calvosa alla presidenza dell’Eni. Piero Sansonetti de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Il Fatto Quotidiano ieri è tornato ad attaccare a testa bassa Claudio Descalzi. Cioè l’amministratore delegato dell’Eni. Ormai però il gioco è scoperto: l’attacco del Fatto non nasce, come tutti immaginano, dalla solita furia giustizialista (Descalzi è indagato) ma stavolta nasce da una più prosaica furia di potere. Il Fatto vuole l’Eni per sé. Ha candidato alla presidenza della più importante potenza economica italiana una donna del proprio staff, Lucia Calvosa, cioè addirittura un membro del consiglio di amministrazione del giornale. Il bombardamento su Descalzi è un diversivo. Il Fatto (che ormai tratta direttamente con il Pd, senza più la mediazione di Di Maio) bastona Descalzi per aumentare la propria forza nella trattativa. Alla fine è disposto a cedere su Descalzi purché gli si permetta di mettere le mani sulla Presidenza con una pedina che è controllata direttamente da Travaglio. La Calvosa è la persona giusta. Non era mai successa una cosa del genere. L’Italia è un paese dove spesso si parla di conflitto di interessi, in particolare da quando Berlusconi è in politica. Lo schieramento populista-giustizialista, che da tempo ormai ha trovato in Travaglio e nel suo giornale la guida politica e morale (una specie di Maotsetung) ha sempre avuto due chiodi fissi: la guerra al conflitto di interessi e la guerra alla lottizzazione. Beh, ora le parti si sono rovesciate. La richiesta da parte di un giornale di avere per sé la Presidenza dell’Eni non si era mai vista. Né nella lunga storia delle lottizzazioni politiche né nella storia dei conflitti di interesse. Fino ad oggi le misure per regolare i conflitti di interesse si erano sempre concentrate sui limiti da imporre alle grandi aziende nel possesso dei giornali e delle Tv. È dagli anni novanta, dalla famosa legge Mammì, che va avanti questa battaglia. Nessuno però aveva avuto la fantasia di immaginare una situazione opposta. E cioè la scalata di un giornale alla principale azienda italiana. Per questa ragione non è mai stata studiata una misura per frenare la concentrazione di potere nelle mani dei direttori e/o proprietari di giornali. Controllare il vertice dell’Eni dà un potere enorme. Il vertice dell’Eni è in grado di condizionare, o addirittura di dirigere, l’economia italiana, la politica, l’editoria. Diciamo quasi tutto. Quasi tutte le leve del potere sono lì. L’Eni, dai tempi di Mattei, ha sempre condizionato la politica, l’economia e la stampa. O in modo diretto o in modo indiretto. Ora le parti si rovesciano. È la stampa a controllare l’Eni. Non proprio la stampa: un singolo giornale. Che una volta conquistata l’Eni non solo avrà ben pochi problemi economici ma potrà, attraverso l’Eni, condizionare e tenere a bada la concorrenza. In parte questo Il Fatto già lo fa attraverso la magistratura. Il Fatto è il giornale dei Pm, o più precisamente di quel settore più aggressivo dei Pm che generalmente viene chiamato “il partito delle Procure”. E questo legame strettissimo con le Procure più aggressive conferisce al Fatto una grande potere. Sulla politica e sugli altri giornali. Tutti temono Il Fatto. Naturalmente questo potere si moltiplicherà per dieci e per cento se Il Fatto aggiungerà nella cassetta dei suoi attrezzi di potere anche l’Eni. Ci troveremo di fronte a un giornale che è espressione del governo, della magistratura e dell’Eni. Non c’è male. Un gigante. Poi non so come farà a denunciare i “poteri forti”. Ma lo farà lo stesso, vedrete, lo farà…

Lucia Calvosa, la consigliera del Fatto alla presidenza dell'Eni. L’accademica, che fa parte del Cda del quotidiano di Marco Travaglio, è stata nominata alla presidenza dell’Ente Nazionale Idrocarburi. Alberto Giorgi, Martedì 21/04/2020 su Il Giornale. L’ufficialità è arrivata questa mattina, quando il ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Mise ha depositato la lista per il rinnovo del consiglio di amministrazione di Eni: Lucia Calvosa è la nuova presidente, mentre Claudio Descalzi è stato confermato amministratore delegato. Nel board dell’Ente Nazionale Idrocarburi, oltre a Calvosa e Descalzi, anche i nomi e i cognomi di Ada Lucia De Cesaris, Nathalie Tocci, Emanuele Piccinno e Filippo Giansante. Ma la nomina di Lucia Calvosa alla poltrona più ambita della partecipata dal Mef e dunque dallo Stato non può certo passare inosservata, dal momento che l’accademica è membro del Cda de Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. La tornata di nomine pubbliche è stato l’ennesimo terreno di scontro e di battaglia tra le forze giallorosse di questa traballante maggioranza e la nomina che ha creato più problemi – soprattutto all’intero del M5s, vista anche la sparata non certo conciliante e conciliatoria di Alessandro di Battista – è stata quella relativa all’Eni, il cui board era da rinnovare. Nonostante le tante polemiche e i processi, è arrivata la conferma nel ruolo di ceo per Descalzi, mentre alla presidenza ecco arrivare, via Fatto Quotidiano, la Calvosa. Già, perché non può passare sottotraccia il fatto che l’attuale numero uno del cosiddetto "Cane a sei zampe", sedeva nel consiglio di amministrazione della società che manda in edicola il Fatto, che peraltro nelle ultime settimane – ma anche mesi e anni – ha più volte messo sotto torchio lo stesso Descalzi con l’obiettivo di allontanarlo – senza successo – dall’Eni. Il profilo della Calvosa, peraltro, ha fatto litigare a distanza lo stesso direttore Travaglio con il collega Piero Sansonetti de Il Riformista, che ha accusato Travaglio di "aver messo le mani sull’Eni", ottenendo in risposta la seguente considerazione: "miserabili vermi annidiati nei soliti giornalacci". Un insulto al quale Sansonetti ha replicato così: "Squadrista fascista, peggio di Farinacci". Ma la Calvosa non è l’unica in orbita M5s che entra a far parte della partecipata. Piccinno, infatti, è stato consulente a Montecitorio per i pentastellati ed è braccio destro dell’ex sottosegretario al Mise Davide Crippa.

Chi è Lucia Calvosa. Lucia Calvosa, nata a Roma nel 1961, prende il posto di Emma Marcegaglia alla presidenza di Eni. È professore ordinario di diritto commerciale all'Università di Pisa, dove in passato ha ricoperto anche gli insegnamenti di Diritto Fallimentare, di Diritto Privato e di Diritto Bancario. Ha svolto studi e ricerche per numerosi anni presso l'Institut fur auslandisches und internationales Privat-und Wirtschaftsrecht dell'Università di Heidelberg. Esperta di diritto commerciale, ha pubblicato su primarie riviste giuridiche e opere collettive, e scritto tre monografie: La clausola di riscatto nella società per azioni, Milano, 1995; La partecipazione eccedente e i limiti al diritto di voto, Milano, 1999; Fondo patrimoniale e fallimento, Milano, 2003. È iscritta all'albo degli avvocati di Pisa dal 1987 e a quello dei Cassazionisti dal 1999 ed esercita la professione forense da oltre venticinque anni, occupandosi di questioni specialistiche, giudiziali e stragiudiziali, soprattutto in materia societaria e fallimentare. Calvosa è stata componente dei consigli di amministrazione della Fondazione Teatro di Pisa, della Fondazione Arpa, della Camera di Commercio di Pisa e della Fondazione Pisa. Dal 2008 al 2011 è stata presidente della Cassa di Risparmio di San Miniato, rivestendo ulteriori cariche, quali quelle di membro del Comitato delle Società Bancarie e di Consigliere di Amministrazione dell'Associazione Bancaria Italiana. Dall'agosto 2011 al maggio 2018 ha ricoperto il ruolo di consigliere di amministrazione indipendente e membro del Comitato Controllo e Rischi di Telecom Italia (fino a maggio 2017) nonché presidente dello stesso (da aprile 2014 a maggio 2017). Dal novembre 2014 è consigliere di amministrazione indipendente della Editoriale Il Fatto spa. Dall'aprile 2015 a dicembre 2017 è stata consigliere di amministrazione indipendente della Banca Monte dei Paschi di Siena spa. Sono numerosi i riconoscimenti ricevuti da Calvosa: nel 2005 è stata insignita dell'Ordine del Cherubino. Nel febbraio 2010 ha ricevuto la medaglia Unesco. Il 2 giugno 2012 è stata insignita dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, su proposta dell'Abi, dell'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine "Al Merito della Repubblica Italiana". A giugno 2015 ha ottenuto il premio "Ambrogio Lorenzetti".

Fra Travaglio e Sansonetti finisce in rissa: "Miserabile verme", "Squadrista". Il Tempo il 18 aprile 2020. Volano gli stracci tra Piero Sansonetti, direttore del Riformista, e Marco Travaglio che guida Il Fatto Quotidiano. Alla base dello scontro, dai toni altissimi, c'è l'articolo con il quale il Riformista accusa Travaglio e il suo giornale di aver messo le mani sull'Eni: "Ha candidato alla presidenza della più importante potenza economica italiana una donna del proprio staff, Lucia Calvosa, cioè addirittura un membro del consiglio di amministrazione del giornale. Il bombardamento su Descalzi (amministratore delegato dell'Eni che il Movimento 5 Stelle spinge per non confermare, ndr) è un diversivo". Nell'editoriale di oggi sul Fatto Travaglio parte alla carica e, senza citare Sansonetti ma con esplicito riferimento alla vicenda, accusa "qualche miserabile verme annidiato nei soliti giornalacci". La controreplica di Sansonetti arriva con un video su Facebook in cui il giornalista definisce Travaglio uno "squadrista fascista, peggio di Farinacci", gerarca e giornalista mussoliniano. "Dopo il potere politico dei 5Stelle, e quello giudiziario del partito dei pm il ragazzo ha pure il potere economico", attacca Sansonetti. Cosa risponderà Travaglio?

Il video-editoriale di Sansonetti. Travaglio batte Berlusconi sul conflitto d’interessi e prende l’Eni: Calvosa presidente. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. Come anticipato dal Riformista Lucia Calvosa è stata designata alla presidenza dell’Eni, la più importante azienda italiana sia dal punto di vista politico che economico. E’ un ente che ha un fortissimo controllo anche sull’editoria e Lucia Calvosa è un membro del consiglio d’amministrazione del Fatto Quotidiano. E questa è una novità assoluta sia nella storia dei conflitti d’interesse che nelle lottizzazioni. Nessuno era mai arrivato ad ipotizzare questo. Anche nelle leggi sui conflitti d’interesse, si è sempre pensato a impedire che delle aziende avessero troppi giornali, mai che i giornali controllassero le aziende. Questa è la novità: un personaggio importante del giornale di Travaglio è stato sistemato alla presidenza dell’Eni. La violazione dei principi del conflitto d’interesse è impressionante però non viene violata nessuna legge perché nessuno mai aveva pensato di poter fare una legge che impedisse questo. Certo, impallidisce il passato: Travaglio in confronto a Berlusconi è molto più bravo, dare la scalata all’Eni è una cosa complessa.

L’editoriale di Sabato 18 aprile: Il Fatto Quotidiano ieri è tornato ad attaccare a testa bassa Claudio Descalzi. Cioè l’amministratore delegato dell’Eni. Ormai però il gioco è scoperto: l’attacco del Fatto non nasce, come tutti immaginano, dalla solita furia giustizialista (Descalzi è indagato) ma stavolta nasce da una più prosaica furia di potere. Il Fatto vuole l’Eni per sé. Ha candidato alla presidenza della più importante potenza economica italiana una donna del proprio staff, Lucia Calvosa, cioè addirittura un membro del consiglio di amministrazione del giornale. Il bombardamento su Descalzi è un diversivo. Il Fatto (che ormai tratta direttamente con il Pd, senza più la mediazione di Di Maio) bastona Descalzi per aumentare la propria forza nella trattativa. Alla fine è disposto a cedere su Descalzi purché gli si permetta di mettere le mani sulla Presidenza con una pedina che è controllata direttamente da Travaglio. La Calvosa è la persona giusta. Non era mai successa una cosa del genere. L’Italia è un paese dove spesso si parla di conflitto di interessi, in particolare da quando Berlusconi è in politica. Lo schieramento populista-giustizialista, che da tempo ormai ha trovato in Travaglio e nel suo giornale la guida politica e morale (una specie di Maotsetung) ha sempre avuto due chiodi fissi: la guerra al conflitto di interessi e la guerra alla lottizzazione. Beh, ora le parti si sono rovesciate. La richiesta da parte di un giornale di avere per sé la Presidenza dell’Eni non si era mai vista. Né nella lunga storia delle lottizzazioni politiche né nella storia dei conflitti di interesse. Fino ad oggi le misure per regolare i conflitti di interesse si erano sempre concentrate sui limiti da imporre alle grandi aziende nel possesso dei giornali e delle Tv. È dagli anni novanta, dalla famosa legge Mammì, che va avanti questa battaglia. Nessuno però aveva avuto la fantasia di immaginare una situazione opposta. E cioè la scalata di un giornale alla principale azienda italiana. Per questa ragione non è mai stata studiata una misura per frenare la concentrazione di potere nelle mani dei direttori e/o proprietari di giornali. Controllare il vertice dell’Eni dà un potere enorme. Il vertice dell’Eni è in grado di condizionare, o addirittura di dirigere, l’economia italiana, la politica, l’editoria. Diciamo quasi tutto. Quasi tutte le leve del potere sono lì. L’Eni, dai tempi di Mattei, ha sempre condizionato la politica, l’economia e la stampa. O in modo diretto o in modo indiretto. Ora le parti si rovesciano. È la stampa a controllare l’Eni. Non proprio la stampa: un singolo giornale. Che una volta conquistata l’Eni non solo avrà ben pochi problemi economici ma potrà, attraverso l’Eni, condizionare e tenere a bada la concorrenza. In parte questo Il Fatto già lo fa attraverso la magistratura. Il Fatto è il giornale dei Pm, o più precisamente di quel settore più aggressivo dei Pm che generalmente viene chiamato “il partito delle Procure”. E questo legame strettissimo con le Procure più aggressive conferisce al Fatto una grande potere. Sulla politica e sugli altri giornali. Tutti temono Il Fatto. Naturalmente questo potere si moltiplicherà per dieci e per cento se Il Fatto aggiungerà nella cassetta dei suoi attrezzi di potere anche l’Eni. Ci troveremo di fronte a un giornale che è espressione del governo, della magistratura e dell’Eni. Non c’è male. Un gigante. Poi non so come farà a denunciare i “poteri forti”. Ma lo farà lo stesso, vedrete, lo farà…

Da nextquotidiano.it il 20 aprile 2020. In tempi di nomine pubblica una che balla di più è quella di Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI che il MoVimento 5 Stelle vuole silurare anche durante l’emergenza Coronavirus. E Marco Travaglio sul Fatto elenca  i cinque motivi che dovrebbero indurre Conte, Gualtieri, 5 Stelle, Pd, Iv, Sinistra e (se è interessato) Mattarella ad accompagnarlo alla porta.

1 – Descalzi è imputato a Milano di corruzione internazionale per la più grande tangente della storia italiana (1,1 miliardi), pagata da Eni nel 2011 per ottenere un giacimento in Nigeria e finita sui conti di politici, mediatori, faccendieri, manager.

2 – L’Eni è indagato anche per le accuse di Piero Amara, suo avvocato esterno, arrestato nel 2018. Amara racconta di aver ricevuto mandato e denaro dai vertici Eni per orchestrare nel 2015 un “complotto” per depistare le indagini milanesi sulle corruzioni Eni in Nigeria e in Algeria, salvando Descalzi dalle accuse. Non solo: nel marzo 2016 incontrò a Roma Claudio Granata (braccio destro di Descalzi) e l’ex manager Vincenzo Armanna per organizzare un depistaggio sul depistaggio: Armanna, in cambio di denaro, avrebbe dovuto ritrattare le accuse contro Descalzi e scaricare tutto su due manager licenziati.

3 – Secondo Amara, la security Eni avrebbe dossierato, pedinato e intercettato Zingales, la Litvack, il giornalista Claudio Gatti (che indagava su Eni) e i pm milanesi De Pasquale, Spadaro e Storari.

4 – L’Eni è sotto inchiesta a Milano anche per una corruzione internazionale in Congo: avrebbe girato quote dei suoi giacimenti alle società Aogc (legata al presidente Denis Sassou Nguesso)e Wnr (legata a “persone vicine a Eni e al suo management”). Anche quella, per la Procura, era una tangente per politici congolesi e manager italiani.

5 – La moglie congolese di Descalzi, Marie Madeleine Ingoba, controllava –secondo ipm, tramite schermi esteri –5 società denominate “Petro Service” che han prestato servizi all’Eni del marito in cambio di circa 300 milioni di dollari tra il 2007 e il 2018. La signora Descalzi controllò quelle società direttamente dal 2009 al 2014. Poi,l’8 aprile 2014, sei giorni prima che Renzi indicasse Descalzi come Ad Eni, la Ingoba vendette la lussemburghese Cardon Investments che controlla le 5 Petro Services ad Alexander Haly, ritenuto dai pm un socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba. 

Carlo Tecce per il “Fatto quotidiano” il 22 aprile 2020. Agli inizi di febbraio, a poche settimane dalle nomine, Davide Casaleggio ha incontrato Claudio Descalzi, l' amministratore delegato di Eni, considerato dai Cinque Stelle una sorta di impresentabile, finché (quasi) all' unisono non s' è deciso di rinnovargli il mandato alla guida della multinazionale del petrolio, il terzo in carriera. Eni colloca l' appuntamento a "ridosso" dell' evento aziendale di presentazione del supercomputer Hpc5, tenutasi il 6 febbraio scorso a Ferrara Erbognone in provincia di Pavia, un' occasione per "condividere le caratteristiche e le potenzialità del nuovo sistema di calcolo". È curioso che l' ad di una società a controllo pubblico, che fattura 70 miliardi di euro e si occupa principalmente di estrazione, lavorazione, esportazione di idrocarburi, all' improvviso trovi il tempo e abbia l' esigenza di riflettere sul supercomputer industriale con il titolare della Casaleggio Associati, una Srl che offre consulenze per le strategie in Rete e dichiara 2 milioni di ricavi. Però Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto, è anche il capo dell' associazione Rousseau, la piattaforma che gestisce le finanze e le politiche del Movimento, il partito che ha vinto le ultime elezioni, che dispone del maggior numero di deputati e senatori in Parlamento, che da azionista di maggioranza del governo ha maneggiato, senza arrecarne danno, il destino professionale di Descalzi. Negli anni all' opposizione, per le sue vicende giudiziarie, i Cinque Stelle hanno spesso invocato le dimissioni dell' ad di Eni o un intervento degli allora governi di centrosinistra. A un certo punto hanno smesso, ma la posizione di Descalzi, secondo i canoni pentastellati, s' è aggravata: imputato per corruzione internazionale nel processo per le tangenti da oltre un miliardo di dollari pagate in Nigeria; inquisito per gli affari della moglie in conflitto di interessi proprio con l'Eni; vertice di un' azienda finita in inquietanti trame e finti complotti per fermare i magistrati di Milano. Il contatto di febbraio non era il primo, tra Descalzi e Casaleggio, riferiscono qualificate fonti, c' è un rapporto che dura almeno da un paio di anni, dalla vigilia del voto del 4 marzo 2018 alla vigilia delle nomine di Stato, e ha attraversato la formazione del governo gialloverde e poi del successivo giallorosa. Eni sostiene di non aver rintracciato altri appuntamenti in agenda, Casaleggio non commenta né il più recente né il resto. Il colloquio di febbraio precede la visita di Descalzi, avvenuta a metà del mese negli uffici di Palazzo Chigi, al sottosegretario Riccardo Fraccaro, uomo di fiducia di Luigi Di Maio e assoluto protagonista della tornata di nomine di Stato. Chigi concede una cornice istituzionale che Casaleggio non può rivendicare. Il sottosegretario Fraccaro, in quella precisa circostanza, in qualche modo ha persuaso Descalzi della bontà delle scelte dei Cinque Stelle. Coloro che lo volevano sulla forca non rappresentavano più un pericolo. I duri e puri del Movimento, in rivolta contro Descalzi, capitanati da Alessandro Di Battista, hanno protestato con estremo ritardo. Quando hanno iniziato a farsi sentire, cinque giorni fa, era già tutto stabilito e consumato. Inclusa la pantomima. I Cinque Stelle non hanno avanzato mai agli alleati di governo una proposta alternativa a Descalzi né l' argomento è stato sollevato mai nelle feroci riunioni per spartirsi ogni singola poltrona di ogni singolo cda. Fraccaro ha apposto un sigillo, a partita finita, con la copertura interna di Di Maio, del reggente Vito Crimi e della lunga filiera di pentastellati, per esempio il viceministro Stefano Buffagni, che al governo ha stretto legami con l' Eni. Come è accaduto a Casaleggio. Il supercomputer di Eni svolge 52 milioni di miliardi di operazioni matematiche in un secondo. Più o meno la stessa velocità con cui il Movimento ha cambiato opinione su Descalzi.

Il caso Consip spiegato bene: nessun reato, solo una guerra tra magistrati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Maggio 2020. C’è un mio amico ingegnere che mi chiede sempre: «Ma in cosa consiste questo caso Consip?». E poi ride con una risata tipicamente romana. Ride anche perché io non so rispondere. Nessuno sa rispondere. Consip è lo scandalo politico che ha fatto più rumore negli ultimi cinque o sei anni, in Italia, ha tenuto le prime pagine di tutti i giornali, guidati da Travaglio, ha fatto tremare politici e imprenditori. Mari di intercettazioni, belle toste anche se tutte – tutte – irrilevanti. Ma in cosa consiste? Se vai a vedere le carte non capisci niente: ci furono della gare Consip, furono più o meno svolte tutte in modo regolare tranne alcune nelle quali fu vistosamente e volontariamente danneggiato un imprenditore napoletano (Alfredo Romeo), c’è qualche intercettazione che conferma che c’era l’ordine di danneggiare questo imprenditore (il fatto che sia il mio editore non cambia niente nella assoluta oggettività di questo articolo) e poi ci furono, forse, delle fughe di notizie sul fatto che stava partendo un’inchiesta, ma questa inchiesta nessuno sa bene cosa dovesse accertare. E non si sa bene neanche come andarono le fughe di notizie, visto che gli indiziati sono esponenti politici ma – a occhio e croce – la fuga di notizie deve essere partita dalle Procure. Poi, dietro – o davanti, o al centro – dello scandalo c’è il nome di Matteo Renzi, perché, forse, l’inchiesta era volta a colpire Renzi. Almeno all’inizio. Da un certo momento in poi pare che le cose cambiarono, e l’inchiesta sembrò volta a salvare Renzi. Cosa era successo nel frattempo? Una cosa semplice, una guerra lampo – una guerra vera e propria – tra bande di magistrati. I napoletani, che puntavano probabilmente a colpire Renzi furono scippati dai romani con un colpo di mano (l’arresto di Alfredo Romeo, che solo dopo qualche mese la Cassazione giudicherà assolutamente illegittimo), e i romani da quel momento lavorarono in direzione opposta. È un gran pasticcio, no? Per cercare di fare luce su questo pasticcio basta cambiare gli occhiali con i quali si guarda a questa vicenda. Se la chiami Inchiesta-Consip, sbagli. Se la chiami Manovra-Consip forse riesci a capire qualcosa. Manovra politica. La verità è questa qui, e le intercettazioni ce la mostrano. La parte “vincente” della magistratura lavorava esattamente come un semplice e potentissimo gruppo di potere. Era un gruppo diviso in fazioni tra loro in guerra. Ma in guerra su un unico terreno: il terreno del potere. Nessuna di queste fazioni era interessata ad affermare o sconfiggere una certa idea di giustizia, o di diritto, o di funzionamento della giurisdizione. Ciascuna era interessata solamente ad aumentare il proprio potere sul territorio e il proprio potere di condizionamento e di ricatto del mondo politico. Il mondo politico a sua volta era interessato ad interfacciarsi con i gruppi di potere della magistratura, sia per proteggersi dagli assalti giudiziari (che sono diventati da una trentina d’anni lo scenario principale degli scontri politici) sia per avere a propria volta un controllo sulla stessa magistratura e sulle sue dinamiche di guerra. Sul nostro giornale abbiamo pubblicato le notizie che abbiamo raccolto sul modo nel quale fu fatto fuori il procuratore Viola, che avrebbe dovuto diventare procuratore di Roma. Perché fu scartato? Perché non era ricattabile, dice in una telefonata un consigliere potente del Csm a Palamara. Anzi: è l’unico che non era ricattabile. Tutti gli altri erano sottotiro. E dunque se fosse diventato procuratore nella Procura più importante d’Italia poi non sarebbe stato più controllabile. Niet. Ecco, il gioco era quello: ricatti, promesse, raccomandazioni, scambi, accordi. A nessuno mai è venuto in mente di decidere una nomina usando un criterio di merito o di competenze. Non solo, ma a quanto pare alcuni processi andavano in un modo o in un altro a seconda dei desideri di una corrente, o di una banda, o di un gruppo, o di uno scambio tra loro. Poteva anche succedere che si scambiasse una condanna o un’assoluzione con la nomina di un Procuratore o di un aggiunto. E l’imputato? Merce. E nessuno era in grado (nessuno è in grado) di opporsi. Del resto anche nel caso Consip questo appare evidentissimo. L’arresto di Romeo è il prezzo che Roma paga a Napoli. E né Roma né Napoli si preoccupano del fatto che l’arresto sia illegittimo. Non è quello il punto. La legittimità o meno di un atto giudiziario è un aspetto del tutto marginale della battaglia, o della manovra politica che si sta svolgendo. Le cose stanno così. Cos’è il caso Consip? Ieri ho telefonato al mio amico ingegnere e gliel’ho detto. Gli ho detto: è il paradigma di un colpo di stato, lungo trent’anni, che ha cancellato dal nostro Paese il diritto del diritto. L’aspetto più sconvolgente della Repubblica Giudiziaria che ha sostituito la Repubblica democratica, non è tanto la delegittimazione della politica, che pure è un fatto gravissimo e sconvolgente, ma è la sostituzione del diritto con lo strapotere e l’abitudine alla sopraffazione della magistratura. Ecco qua, ingegnere, ora lo sai cos’è il caso Consip.

Ecco tutte le accuse a Romeo, un giro di affari di quasi 1.000 euro. Piero Sansonetti de Il Riformista il 30 Ottobre 2019. Stamattina le agenzie di stampa hanno battuto la notizia della richiesta di rinvio a giudizio (non del rinvio a giudizio: della richiesta di rinvio) per Alfredo Romeo e altre 54 persone. La notizia per la verità non è nuovissima: è del 7 ottobre. Succede che ogni tanto l’informazione arrivi un po’ in ritardo su alcune notizie. Stavolta lo spostamento dei tempi ha determinato la coincidenza tra la notizia su Romeo e l’uscita del Riformista, del quale Romeo è editore. Ma questo, è chiaro, è solo un caso. A voler dire tutta la verità, la notizia non è nemmeno del 7 ottobre scorso, ma è del febbraio del 2018. Cioè ha un anno e nove mesi. L’età in cui molti bambini parlano. “Non c’è nulla di più inedito dell’edito”, scriveva Montanelli. Stavolta, forse, il ritardo è un po’ esagerato. Fu appunto nel febbraio del 2018 che Romeo fu mandato a giudizio per svariati reati (una decina) che avevano già provocato il suo arresto e circa sei mesi di detenzione a Regina Coeli. In quell’occasione il Gip aveva però escluso il reato più grave, e cioè l’associazione a delinquere. La Procura di Napoli allora è tornata alla carica e ha preparato un nuovo rinvio a giudizio, che per la verità riguarda quasi esclusivamente i presunti corrotti, e non il corruttore. E al corruttore (che per i reati di corruzione verrà giudicato in un altro processo già in corso) ha aggiunto solo l’associazione a delinquere, infischiandosene un po’ del fatto che un Gip l’aveva esclusa. Ora il paradosso è che si svolgeranno due processi paralleli. Uno contro il presunto corruttore (Romeo) l’altro contro i presunti corrotti (i 54). Potrebbe anche succedere che Romeo venga condannato per aver corrotto i 54 e i 54 assolti per non essere stati corrotti da Romeo. O viceversa che i 54 vengano condannati per essere stati corrotti da Romeo e Romeo assolto per non averli corrotti. Ieri Il Fatto Quotidiano ha dedicato per molte ore l’apertura della pagina del suo sito online al caso-Romeo. Col seguente titolo: “Sistema Romeo, corruzione e appalti truccati: chiesto il processo per 55 persone. L’imprenditore e l’ex an Bocchino accusati di associazione a delinquere”. Il titolo ha qualcosa che non va. A parte il ritardo di 23 giorni, o forse di 19 mesi – ma un po’ di ritardo può capitare a tutti – c’è il fatto che Romeo non è stato accusato da nessuno di avere truccato appalti (ora vedremo una per una le accuse).

Da nessuno. L’accusa di ’associazione a delinquere invece – sebbene respinta dal Gip – c’è. L’accusa si fonda su una intercettazione telefonica che è stata trascritta così: “Parlane con l’addetto al crimine”. Frase compromettente, effettivamente. Poi però, una volta riascoltata l’intercettazione, si è scoperto che la frase esatta era un po’ diversa. Era questa: “Parlane con l’addetto al cleaning”. Cleaning in inglese vuol dire pulizia: in una impresa di pulizie è abbastanza logico che ci sia un responsabile pulizie. Casomai il reato (o comunque il peccato) sta nell’uso inutile di parole inglesi. Detto tutto ciò è giusto descrivere uno ad uno i reati per i quali Alfredo Romeo è accusato. Romeo, lo sapete, è il mio editore, e lui ieri ha provato a convincermi di essere del tutto innocente e che tutte le accuse sono infondate. Io però gli ho detto che questo si vedrà al processo, e questa volta voglio attenermi al principio di presunta colpevolezza e oggi voglio soltanto elencare le accuse dei giudici. Eccole qui. Le ho riassunte in sei punti.

Il mirtillocactus. Non so esattamente cosa sia un mirtillocactus, ma mi dicono che sia una pianta di un certo valore. Circa 100 euro. E’ stata regalata dal direttore di un albergo che appartiene a Romeo (il Romeo Hotel di Napoli) a un funzionario della Regione che aveva confermato l’assegnazione della qualifica “L”, cioè lusso, alle 5 stelle dell’hotel. La qualifica “L” c’era già da tempo, ma andava confermata e fu confermata. Il voucher. Anzi un doppio voucher. Uno con lo sconto del 50 per cento e l’altro del 100 per cento per l’ingresso alla spa dell’hotel. Sono stati regalati a una vigilessa sempre dal direttore dell’hotel. Avevano un valore di 65 euro. L’accusa dei giudici si riferisce al fatto che la vigilessa aveva multato alcuni motorini in divieto di sosta proprio di fronte al Romeo. I motorini erano effettivamente in divieto di sosta ma il Pm sospetta una specie di “multa di scambio”.

La vetrata. L’architetto Russo aveva chiesto al Comune l’uso del marciapiede per la pulizia dei vetri dell’Hotel di Romeo. E aveva pagato 700 euro per una settimana di occupazione del suolo. Poi piovve e una settimana non bastò. Ne servirono due. I magistrati sostengono che Russo – a nome di Romeo – non pagò la seconda rata.

Annunziata. E’ il nome di un funzionario del Comune di Napoli al quale Romeo avrebbe fatto un piacere: confermare l’assunzione presso la sua azienda di un amico di Annunziata. In realtà questo amico di Annunziata era assunto da diverso tempo, all’epoca di fatti, ma aveva il contratto in scadenza. Fu rinnovato. In cambio l’Annunziata avrebbe dovuto favorire l’assegnazione delle strisce pedonali davanti all’albergo (ma le strisce non furono fatte), lo spostamento di un distributore di benzina (in esecuzione di una disposizione del Comune che proibisce i distributori in centro, e l’albergo è in pieno centro), la sollecitazione alla consegna dei bidoni della spazzatura (per i quali il Romeo Hotel paga circa 200.000 euro all’anno), più la firma di alcuni certificati, che però effettivamente spettavano a Romeo.

Cardarelli. Cioè l’ospedale nel quale Romeo ha l’appalto per le pulizie. Risulta che un giorno l’azienda di Romeo usò, per fare i bucati, non le lavatrici (e quindi l’energia elettrica) del Cardarelli ma quelle del vicino Tribunale. Il danno è stato quantificato in quasi dieci euro. Inoltre la Romeo è accusata di aver fornito delle macchine pulitrici diverse da quelle che erano state previste nel contratto di appalto (danno qui più ingente: probabilmente alcune centinaia di euro).

Bocchino. L’ex parlamentare di An, che è amico di Romeo, avrebbe avvicinato l’allora presidente della regione Caldoro per chiedergli un contatto con il direttore sanitario del Federico II, al quale far notare che la gara per un certo appalto non poteva essere gestita direttamente dall’ospedale ma doveva far parte degli appalti Consip. Così diceva la legge. Così fu fatto. Romeo non partecipò a quella gara. Vogliamo adesso sommare e calcolare i costi e i benefici? Se le accuse saranno provate possiamo dire che Romeo ha pagato tangenti per diverse decine di euro ricevendo un beneficio di quasi mille euro. La Procura di Napoli, per provare questo malaffare, ha messo su un processo con 55 imputati, 101 avvocati e costi ingenti. E’ praticamente scontato che tutto finirà con la prescrizione. Dimenticavo un dettaglio: il Pm che ha organizzato tutto questo ha un nome straniero: John Henry Woodcock. Ma questo è solo un dettaglio…

Ritirata la censura. Il Csm ritira la censura a Woodcock, erano solo peccati veniali…Paolo Comi su Il Riformista il 19 Giugno 2020. «Condotta irrilevante». Finisce dunque con questa motivazione il procedimento disciplinare iniziato nel febbraio del 2018 a carico di Henry John Woodcock. La Cassazione ha messo ieri un pietra tombale anche sull’ultima accusa al pm napoletano, quella relativa all’intervista al quotidiano La Repubblica nel 2018. A Woodcock, titolare di uno dei filoni dell’inchiesta “Consip”, erano state inizialmente contestate le modalità dell’interrogatorio di Filippo Vannoni, il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua. Vannoni venne indicato dall’ex ad di Consip, Luigi Marroni, come uno dei soggetti che lo informarono di una indagine in corso a suo carico. Il manager toscano, a sua volta, chiamò in causa l’allora sottosegretario Luca Lotti e i vertici dell’Arma dei carabinieri, i generali Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia. Alla vigilia di Natale del 2016 Woodcock e la collega Celestina Carrano decisero di sentire Vannoni come persona informata dei fatti, cioè come testimone, senza quindi l’assistenza di un difensore. Secondo la Procura generale della Cassazione che poi esercitò l’azione disciplinare c’erano, però, già allora gli elementi per iscriverlo nel registro degli indagati, cosa che poi fecero i pm romani quando il fascicolo venne trasmesso nella Capitale per competenza territoriale. Averlo sentito come testimone senza il legale di fiducia avrebbe “leso le sue garanzie difensive”. Fu un interrogatorio “molto duro”, disse Vannoni: domande “pressanti” concentrate soprattutto sui «rapporti con Matteo Renzi» e una frase, «vuole fare una vacanza a Poggioreale», che gli sarebbe stata rivolta da Woodcock e di fronte alla quale rimase «colpito e intimidito». A verbalizzare l’interrogatorio fu il maggiore Giampaolo Scafarto, all’epoca capitano del Noe, proseguì Vannoni. Ed era proprio Scafarto l’interlocutore principale, con domande ma anche pressioni: «Risponda, risponda, risponda». E ancora: «Confessi», o «Chi te l’ha detto?». «Feci il nome di Lotti per levarmi dall’impaccio, me ne volevo andare. A un certo punto chiesero di posare lo sguardo verso la porta: c’erano dei fili e dissero che erano delle microspie. Scafarto disse che avevano messo microspie ovunque e che sapevano tutto. Il verbale non l’ho riletto, l’ho firmato e me ne sono andato senza salutare», concluse Vannoni. Interrogato dai pm romani Vannoni raccontò queste “pressioni” e smentì di aver saputo da Lotti dell’indagine Consip. Tutt’altro scenario, invece, per Scafarto. Secondo l’ufficiale Vannoni «fece i nomi di Matteo Renzi e Luca Lotti spontaneamente». «Vannoni – disse Scafarto – era visibilmente non a suo agio. Era particolarmente nervoso ed iniziò a sudare. Venne invitato a ricordare chi gli avesse detto qualcosa su Consip». «L’esame venne condotto quasi esclusivamente da Woodcock», aggiunse Scafarto, escludendo di aver posto domande al teste. Scafarto, al riguardo, smentì le accuse di pressioni esercitate da Woodcock su Vannoni, come quella di mostrargli dalla finestra il carcere di Poggioreale e di chiedergli «se vi volesse fare una vacanza» e di fargli vedere dei fili, spacciandoli per microspie. A contattare Vannoni per l’interrogatorio fu lo stesso Scafarto: il 20 dicembre, «andammo in Consip per acquisire atti, poi acquisimmo le dichiarazioni di Marroni. I pm di Napoli ci raggiunsero presso la sede del Noe a Roma, dove fu sentito Ferrara, l’ex presidente di Consip, e di nuovo Marroni. Contattai personalmente Vannoni per chiedergli di raggiungerci per essere sentito, lui non poteva e disse che sarebbe stato meglio il giorno dopo a Napoli e anche i pm convennero». «Non ricordo – spiegò Scafarto – se ci ponemmo il problema di sentirlo come persona informata sui fatti o come indagato». La sera del 20 dicembre, aggiunse, «Woodcock contattò il dottor Ielo (titolare del fascicolo Consip trasmesso nella Capitale, ndr), non so cosa si siano detti». Il procuratore aggiunto di Roma «ci raggiunse verso le 22, gli furono dati i verbali di Marroni e credo anche quello di Ferrara. Li lesse tutti quanti». Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini parlò «testimonianze largamente divergenti» ma poi dispose l’archiviazione. L’altra accusa a carico di Woodcok, quella relativa al colloquio riportato il 13 aprile 2018 dal quotidiano La Repubblica, era stata inizialmente definita con la censura. In dettaglio, con la giornalista Liana Milella il magistrato si sarebbe lasciato andare a giudizi di valore sui colleghi romani. Milella, ascoltata dalla sezione disciplinare, si assunse però la responsabilità dell’accaduto. Woodcook, riferì la giornalista, era “terrorizzato” che lo scambio di opinioni fra i due potesse essere, come poi accaduto, pubblicato. Sul fronte delle indagini condotte da Woodcock vale la pena a questo punto ricordare il numero incredibile di assoluzioni e proscioglimenti. Fra i casi più eclatanti, il cosiddetto “Vipgate”: un’inchiesta partita nel 2003 che coinvolse a vario titolo 78 persone. Le accuse vennero archiviate dal Tribunale di Roma, a cui l’inchiesta era stata trasferita per competenza. Poi “Iene 2”, “Savoiagate”, “Vallettopoli”, l’inchiesta sulla P4, la massoneria lucana, ecc. ecc.

Travaglio non risponde, Consip e Pm: ecco chi giocava sporco. Piero Sansonetti de Il Riformista il 4 Marzo 2020. Tanti mi chiedono: «Ti ha risposto?». No, non mi ha risposto. Dico Marco Travaglio, al quale da più di dieci giorni, quasi tutte le mattine, dalle colonne di questo giornale chiedo: ma i capi di Consip – intercettati mentre decidevano di “ammorbidire” in qualche modo Il Fatto, o comunque di indirizzarlo – poi ti hanno contattato? In che modo? Cosa ti hanno chiesto? Cosa ti hanno proposto? Marco lo conosco da tanti anni. È un tipo al quale piace molto porre le domande, ed è inflessibile quando lo fa. Piace molto meno riceverle, e in genere non risponde. Vabbé, siamo uomini di mondo. Io non tanto, veramente, però faccio il giornalista da 45 anni e so come funziona il mondo della stampa. Mi adeguo. In fondo non credo che Travaglio abbia commesso chissà quali delitti, e poi mi interessa relativamente poco il suo modo di fare giornalismo. Mi sono un po’ divertito a prenderlo di punta perché è divertente sfruculiare sulla base di una intercettazione il re delle intercettazioni. Tutto qui. Chiuso. Però in quel foglietto nel quale è riportata l’intercettazione imbarazzante per Travaglio – e che fa parte delle carte depositate dal Gip Sturzo per chiedere ai Pm di proseguire l’indagine Consip che i Pm pensavano di archiviare – vengono trascritte anche altre intercettazioni interessanti. In particolare quella nella quale Marroni e Licci si scambiano un parere sugli appalti Consip vinti da Alfredo Romeo. Spieghiamo chi sono i tre personaggi. Luigi Marroni era all’epoca dei fatti – parliamo del 2016-2017 – l’amministratore delegato di Consip (Consip è la società che assegna tutti gli appalti pubblici). Francesco Licci era il presidente della commissione Consip che decise sugli appalti della grande gara FM4 al centro dello scandalo Consip. Alfredo Romeo è un imprenditore napoletano che aveva partecipato ad alcune gare di questo appalto FM4, vincendone tre e perdendone una, e che poi fu escluso da tutto su decisione di Marroni, incalzato, forse, dalla magistratura. Fu escluso perché indagato dalla Procura di Roma per una presunta corruzione. Alfredo Romeo è anche l’editore di questo giornale e proprio per questa ragione ho parlato a lungo con lui e ho anche raccolto il suo stupore per tutta la vicenda. Torniamo alle intercettazioni del colloquio tra Marroni e Licci. Trascrivo un piccolo brano di una intercettazione riportata nel documento del Gip Sturzo: Marroni: “Pongono il caso su quello che stiamo ponendo noi da sei mesi: cosa facciamo di questa maledetta gara?” Licci: “Infatti, questo è il punto, Luigi. C’è ben poco da fare. Ci sono i segnali che nonostante tu sei in torto e nonostante quello che è, se dai tre lotti a Romeo è una tragedia”. Proviamo a interpretare questo brano. Al momento dell’intercettazione (19 febbraio 2017) Romeo aveva vinto tre lotti. Uno in Lombardia, uno in Campania e un lotto “accessorio” (tecnicamente si chiama così). Aveva invece perso la gara per Roma, battuto da un’altra ditta, la Cofely, sponsorizzata da Denis Verdini. Licci dice a Marroni che sebbene Romeo abbia vinto regolarmente queste gare, e sebbene sarebbe stato sbagliato (“in torto”) toglierle, esistono “segnali” che in qualche modo questi lotti vadano tolti a Romeo (come poi è successo). Perché? Non lo sappiamo, Licci dice che ci sono dei segnali che vanno in questa direzione, non dice di più. Probabilmente ordini superiori. Non sappiamo di chi. Ci piacerebbe saperlo. In un interrogatorio precedente Marroni spiegava di essere stato ricattato da tal Carlo Russo. Anche qui trascrivo: “Mi chiedete di spiegare espressamente in che senso ho definito le richieste del Russo Carlo ricattatorie; vi rispondo che …mi disse chiaramente che in relazione all’intervento che lui pretendeva facessi sulla commissione di gara per agevolare la predetta società (di cui mi riservo di farvi avere il nome) vi erano aspettative ben precise dell’on. Verdini e di Tiziano Renzi, dicendomi chiaramente che erano persone da cui dipendeva il mio futuro lavorativo perché avevano determinato la mia nomina e avrebbero potuto determinare la mia revoca”. Subito dopo Marroni racconta di un incontro con Tiziano Renzi nel quale Tiziano Renzi gli chiede di accontentare Russo. In un successivo interrogatorio Marroni per tre volte esclude che la società che gli fu chiesto di favorire fosse quella di Romeo. E aggiungiamo che sempre nell’interrogatorio del quale abbiamo appena riferito, Marroni racconta anche della visita ricevuta da parte del deputato di Ala Ignazio Abrignani, che definisce amico di Verdini, e che gli raccomanda per gli appalti la società Cofely. Poi aggiunge: “Al riguardo io mi limitai ad informarmi, presso la commissione che stava svolgendo i lavori, sull’andamento della gara”. Devo fare un riassunto? Diciamo che, in soldoni, da queste carte risulta che le cose andarono così. Marroni ricevette pressioni ricattatorie da parte di Russo, a nome di Verdini e Tiziano Renzi, e poi da parte di Abrignani sempre a nome di Verdini per favorire la Cofely e un’altra società di cui non ricorda il nome ma che esclude che sia quella di Romeo. Marroni non denuncia il ricatto alla magistratura e ammette di essere intervenuto, seppur con discrezione, presso la commissione giudicante, cosa che non poteva fare. Quindi di avere in parte almeno ceduto al ricatto. Il risultato sicuramente fu che la Cofely vinse a Roma dove era prevista la vittoria della Romeo. E che poi, sulla base dell’inchiesta della magistratura, a Romeo, che era stato danneggiato vistosamente dagli interventi esterni e dai ricatti, furono tolti tutti gli appalti. Ora naturalmente voi potrete dire: ma tu scrivi tutto questo solo perché Romeo è l’editore del Riformista. Può anche darsi che la simpatia e l’impresa comune mi faccia velo. Però dovreste dirmi dove sbaglio. C’è qualcosa che non funziona nel ragionamento che sto facendo? E che voi sappiate, Marroni è mai andato a pranzo o a cena con Romeo? A me risulta di no. E invece Marroni stesso è andato mai a cena con Verdini, con l’avvocato Amara e con l’imprenditore Bigotti, concorrente di Romeo e socio nella gara della Cofely? A me risulta di sì. Più di una volta. Ma allora, come mai Marroni, in tutta questa vicenda, è l’unico a non essere stato neppure indagato? E come mai non ci si decide ad annullare tutte le gare (erano 18) che evidentemente si svolsero in un clima di pressioni e di ricatti, e si lascia invece che le società che non vinsero gli appalti, ma arrivarono seconde, perché avevano fatto offerte meno convenienti, ne ricevano un evidente e illegittimo vantaggio? Visto che Travaglio alle mie domande (quelle a lui non sono queste) non risponde, cambio interlocutori. Chiedo ai nuovi amministratori di Consip, e ai magistrati che indagano, e a Marroni e a Licci: avete qualche risposta ragionevole da darmi? Io sono pronto a convincermi che avete ragione voi, ma qualche argomento dovete offrirmelo.

Travaglio ama tutte le intercettazioni tranne quelle in cui è coinvolto…Iuri Maria Prado de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Caro direttore, magari a questo punto Marco Travaglio ti risponde (nel caso, vedremo come e vedremo che cosa), ma non ci si può stupire se almeno fino a oggi ha svicolato. Non è abituato a rendere conto delle cose che dice. Meno ancora a dare spiegazioni su quelle che non dice e sul perché non le dice. Vedi in televisione, per esempio. Quando pure lo fanno (perché solitamente è lasciato in solitudine monologante) gli mettono davanti dei tontoloni che lui fa a pezzi, oppure alcuni magari anche bravi che però mandano tutto in vacca, come Sgarbi che lo chiama “pezzo di merda” e si becca una querela o Giuliano Ferrara che gli dice “sei l’uomo più sputtanato d’Italia dopo Berlusconi” e poi si alza e se ne va. E in quel canaio trionfa lui in ogni caso. Quando però si tratta di contraddire in scomodità, in occasioni in cui non fronteggia lo sprovveduto mandato al macello o un istrione che fa volare i piatti, allora il giornalismo di Marco Travaglio si porta in latitanza. E’ probabile che rosichi, perché lo infastidisce assai essere preso in castagna, ma sa bene di poter contare su un sistema che l’ha messo dove l’ha messo, a dividersi il palco con i magistrati a cui dà del tu in faccia a una platea costituita dalla parte più impassibile dell’opinione pubblica, quella in orgasmo quando lui strilla che vuole vedere i condannati in catene. E quindi come se niente fosse passa al giorno dopo: insulta il prossimo che non gli va a genio, per esempio chi osa respingere la proposta di Nobel per la letteratura a Di Maio o il magistrato che ha la colpa di non fare le vacanze con lui e si permette di non inchinarsi davanti all’eccellenza delle riforme del Dj finito alla Giustizia, e tanti saluti. Anziché rispondere, pubblica l’ennesimo articolo scritto da un magistrato in ritiro che ci spiega la bontà della Spazzacorrotti e che chi la critica è un garantista tarocco, e ciao. Resta che del cosiddetto caso Consip, e delle strategie che alcuni avrebbero immaginato per implicarvi Il Fatto, noi abbiamo saputo (capendoci veramente poco) grazie a quel che ne ha scritto questo giornale, sulla base di non so più quale intercettazione. Ed è veramente significativo che la faccenda non ecciti il desiderio di intervento di Marco Travaglio e semmai ne determini la contumacia. Significativo ma, appunto, non sorprendente. Perché per alcuni le intercettazioni sono cattive tutte, mentre per altri ci sono quelle meritevoli e quelle no. Un po’ come le collaborazioni di giustizia, buone finché calzano sulle ipotesi d’accusa impasticciate dal compagno di ombrellone e poi, quando non filano più, arrivederci in Guatemala.  Che ti aspetti, dunque?

Scandalo Consip-Fatto, Travaglio colpevole di concorso esterno. Piero Sansonetti de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Il Fatto Quotidiano non risponde alle nostre domande sull’affare Consip-Travaglio. Cioè sul rapporto che – secondo alcune intercettazioni – ci sarebbe stato tra i vertici della Consip e Il Fatto Quotidiano, nel 2017, e che potrebbe esser servito per indirizzare lo scandalo Consip in modo da far male a qualcuno e non ad altri. A prescindere dalla distinzione tra colpevoli e innocenti. Però ieri Il Fatto ha pubblicato una nota firmata da Gianluca Comin. Chi è Comin? A occhio, dal tipo di impaginazione, sembra che sia un giornalista del Fatto. Non lo è. È un uomo d’affari, serio e prestigioso, ed è colui che in una intercettazione (depositata dal Gip che ha in mano il caso Consip) viene indicato dai massimi dirigenti della Consip come l’uomo che dovrà occuparsi di realizzare “una strategia col Fatto Quotidiano”. Che vuol dire “strategia”? Ammorbidire il giornale? Indirizzare il giornale? Guidare il giornale? Non lo sappiamo, per questo continuiamo a tempestare – inutilmente – di domande l’unico che può saperlo: Travaglio. Lui risponde col silenzio. Comin ieri, in una lettera al nostro giornale, ha dichiarato di avere avuto effettivamente un incontro con i dirigenti di Consip (Luigi Marroni, che era il numero 1 di Consip, e Francesco Licci che era il capo delle relazioni esterne) ma che poi non se ne fece niente, e quindi lui non ebbe l’incarico di realizzare questa famosa strategia. Noi gli abbiamo creduto, e infatti ieri abbiamo chiesto a Travaglio di dirci quale altra società ebbe poi l’incarico di occuparsi del Fatto, se non era quella di Comin, e se questa famosa strategia fu poi messa a punto, e qual era, e se e in che modo condizionò la campagna Consip del Fatto. Ieri – dicevamo – abbiamo creduto a Comin, oggi però siamo rimasti stupiti che la lettera a noi – e della quale abbiamo riferito ampiamente sul giornale di ieri – sia stata pubblicata in forma di articolo firmato da Comin sulle pagine del Fatto. È stato Comin a fornire la lettera al Fatto? Cioè esiste un rapporto speciale tra Comin e il Fatto? O gli è stata carpita subdolamente? E poi – ma questo è un affare che non ci riguarda – cosa poteva pensare un lettore del Fatto a leggere una lettera che cominciava con questa parole: «in riferimento agli articoli sul caso Consip…»? Quali articoli? E dove sono usciti? Sono usciti sul Riformista, ma Il Fatto non ne ha mai parlato e dunque potevano conoscerli solo i lettori che oltre a leggere il Fatto leggono anche Il Riformista, che forse non sono moltissimi…Ora naturalmente non è un problema nostro come fa il giornale Travaglio. Però personalmente sono convinto che lui a fare il giornale sia piuttosto bravo. Come dimostrano i risultati. E allora, se fa un errore marchiano come quello di pubblicare una lettera che in teoria non dovrebbe avere e lo fa senza nemmeno spiegare a cosa questa lettera si riferisce, beh, il dubbio che tutto questo sia dovuto non ad imperizia ma ad eccezionale imbarazzo a me viene. Direi anzi che è più di un dubbio. Se fossi Travaglio direi subito: se uno fa così, se è così reticente, se si chiude in un incomprensibile silenzio e pubblica di straforo le lettere di Comin, c’è una sola ragione: è colpevole. Ma io non sono Travaglio e continuo a ostinarmi a credere che sia innocente e che nei prossimi giorni, dopo aver studiato bene la situazione, saprà darci una spiegazione almeno un po’ credibile. Dopo aver rimuginato tra me e me questi ragionamenti, ho dato un’occhiata al Fatto online. Ho trovato un articolo che riguardava l’ondata di arresti compiuta pochi giorni fa dalla Procura di Reggio Calabria, nella quale è incappato anche un consigliere di Fratelli d’Italia, un certo Mimmo Creazzo. Nell’articolo si fa vasto uso di intercettazioni che dimostrerebbero che Creazzo è colpevole – colpevole di commercio di voti mafiosi -, non solo, che è colpevole anche Peppe Scopelliti. Scopelliti in realtà è detenuto da un paio d’anni e non si capisce come avrebbe potuto procurare voti mafiosi a Creazzo. L’unica intercettazione che lo riguarda è una intercettazione al fratello di Creazzo, il quale parla di spostamento di ex scopellitiani verso Creazzo. Non ho capito bene di che reato si tratti. Credo di concorso esterno in scopelliteria. Tutte le intercettazioni usate per incastrare Creazzo e rendere evidente che ha preso voti mafiosi sono intercettazioni di frasi sparse e piuttosto innocue pronunciate da suo fratello. In nessuna intercettazione c’è una affermazione compromettente di Creazzo consigliere. E allora – dite voi – cosa c’entra tutto questo con Consip e Travaglio? C’entra, perché se devo utilizzare questo metodo di interpretazione delle intercettazioni, allora le intercettazioni nelle quali Marroni e Licci dicono di voler attuare una strategia per Il Fatto Quotidiano sono strasufficienti non per sospettare ma per decretare in primo secondo e terzo grado (e anche alla Corte Europea) la colpevolezza di Travaglio. Colpevole di quale reato? Quantomeno concorso esterno in Consip.

Scandalo Consip-Fatto: Travaglio Tace, il lobbista no. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Avete presente la storia dell’intercettazione dei due dirigenti Consip che decidono di incaricare un’agenzia specializzata di realizzare una “strategia” per Il Fatto Quotidiano? Stiamo scrivendo su questo da una settimana, perché vorremmo una risposta da Travaglio. Vorremmo sapere se lui sa in cosa doveva consistere questa strategia, e se poi fu attuata, e se Il Fatto Quotidiano attenuò o no i suoi attacchi ai due dirigenti (Luigi Marroni e Francesco Licci) che avevano deciso di organizzare questa strategia. Niente, Travaglio non risponde. Forse ci sta pensando, forse non è convinto del tutto che la trasparenza sia la bibbia del suo giornalismo, forse non gli piace questo nostro comportamento un po’ troppo insistente e un po’, persino, travaglista. Travaglio, probabilmente, non ama i Travagli. E su questo non possiamo dargli torto. Ieri però ci ha scritto Gianluca Comin, professionista molto conosciuto, e che – nell’intercettazione – era indicato come l’uomo che avrebbe dovuto mettere a punto questa strategia. Ci dice che di questo affare non sa niente. Che effettivamente fu contattato da un dirigente Consip (probabilmente Francesco Licci, dice Comin) e che effettivamente ebbe un incontro con Luigi Marroni (evidentemente successivo alla intercettazione, perché nell’intercettazione Marroni si limita ad indicare la necessità di questa strategia e sembra non conoscere Comin). Dice però Comin che poi non se ne fece niente, e quindi lui non parlò mai né con Travaglio né con nessun altro giornalista del Fatto. Se dovessimo applicare il famoso codice Travaglio (del quale abbiamo parlato ieri, in questa che sta diventando una telenovela) dovremmo ignorare la precisazione di Comin. Il codice Travaglio stabilisce che una intercettazione è legge, e se due persone dicono una cosa quando sono intercettate dicono il vero e chi ci finisce in mezzo è fregato. Siccome nella intercettazione Licci dice a Marroni che Comin è stato incaricato e ha ricevuto tutto l’incartamento (mentre Comin nella lettera che ci ha scritto nega di aver ricevuto incartamento alcuno) il codice Travaglio prevede la cassazione della precisazione di Comin. Ma noi continuiamo ad ostinarci a non voler applicare il codice Travaglio, e quindi a prendere per buona la dichiarazione di Comin, che oltretutto conosciamo e sappiamo essere una persona assolutamente perbene. Però a questo punto dobbiamo immaginare che Licci avesse detto una piccola bugia. Aveva sì contattato Comin ma non gli aveva ancora dato l’incartamento. Il problema di fondo resta, anzi diventa più complicato: se Licci e Marroni avevano deciso di realizzare questa strategia con il Fatto, e se Comin disse loro che lui non se ne poteva occupare, chi si occupò poi di realizzare questa strategia? E in che consisteva questa strategia? E in che modo permise a Licci e Marroni di evitare la gran parte degli strali con i quali Il Fatto dardeggiò (e ancora dardeggia) tutti i protagonisti o i presunti protagonisti del caso Consip? E c’è un qualche collegamento – seppure indiretto – tra tutto ciò e il fatto che Marroni riuscì a tenersi fuori sia dalla campagna giornalistica sia dall’inchiesta giudiziaria? È su questo che ci aspetteremo una serena spiegazione di Travaglio. Anche perché sappiamo molto bene (e lo sanno tutti i lettori sia del Riformista che del Fatto), che Travaglio non sottovaluta mai le intercettazioni. Non le considera, per principio, equivoche o poco significative. E infatti siamo abbastanza stupiti che avendo Il Fatto pubblicato paginate e paginate di intercettazioni, e avendo alcuni suoi giornalisti scritto persino dei libri, nessuno poi si sia preoccupato di pubblicare, e spiegare, proprio quella intercettazione che riguardava loro. Possibile che gli fosse sfuggita? Non mi sembra ragionevole. Così come non mi spiego il motivo per il quale non hanno pubblicato neppure un bel pacchetto di intercettazioni che scagionano uno degli attori principali di questa vicenda, che è l’imprenditore Alfredo Romeo, il quale mi sta abbastanza a cuore anche perché è l’editore di questo giornale, e forse proprio per questo motivo non sta tanto a cuore a Travaglio. Comunque, dopo la lettera di Comin, siamo più tranquilli. Siamo certi che alla fine Travaglio si deciderà a parlare. Oltretutto ha avuto tutto il tempo necessario per preparare bene una versione sua dei fatti. E poi lui è bravo a fornire versioni dei fatti. Siamo curiosissimi di quel che ci dirà.

Chiesto supplemento di indagine. Caso Consip, Sturzo il Gip al quale piaceva perder tempo e voleva lo scalpo di Renzi. Piero Sansonetti de Il Riformista il 18 Febbraio 2020. Quindi sono gli avvocati che cercano di rallentare le indagini, e poi i processi, e poi intasano tutto con i loro ricorsi e i controricorsi, e lo fanno per ottenere la prescrizione. L’avete sentita dire cento volte questa cosa, no? Anche in Tv, l’avete letta sui giornali, sui social. E a forza di ripeterla, ripeterla, una cosa è come se diventasse vera. Se chiedete a cento persone se è così, almeno un’ottantina vi risponderanno: sì, sì, è così, tutta colpa degli avvocati. Allora seguitemi un attimo, attenti alle date. C’è un’ipotesi di reato che risale al 2016. Una inchiesta che parte proprio nel 2016 e si conclude due anni dopo con una richiesta da parte del Pm di archiviazione. I Pm non hanno trovato reati. Il Gip però non è d’accordo, respinge la richiesta di archiviazione e chiede un po’ di tempo per pensare a cosa fare. Pensa, pensa, pensa, un mese, due, tre, quattro: quindici mesi. Dopo 15 mesi di pensieri, sebbene l’inchiesta dei Pm dimostri che non c’è uno straccio di prova di colpevolezza, il Gip ha la bella idea di chiedere un supplemento di indagini. Gli è servito quasi un anno e mezzo di meditazione per chiedere un supplemento di indagini. Ha detto al Pm – che aveva chiesto l’archiviazione – di cercare ancora per 90 giorni. Poi, se il Pm gli ripeterà che non ha trovato nulla, forse sarà lui stesso a decidere l’imputazione coatta, e probabilmente, per fare questo, gli saranno necessari ancora 15 o 16 mesi. Non è un caso ipotetico, quello che ho raccontato. È il caso di una delle inchieste Consip. Il Pm in questione è il Pm romano Mario Palazzi, un magistrato piuttosto noto e molto esperto. Il Gip che gli ha rimandato indietro la richiesta di archiviazione è Gaspare Sturzo, magistrato dal nome celebre, in Italia, perché è il nipote del fondatore del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana. Sturzo, lunedì sera, ha respinto la richiesta di archiviazioni di Palazzi avanzata nell’autunno del 2018 e ha preteso nuove indagini sugli indiziati (tra gli altri il padre di Renzi, Luca Lotti e Alfredo Romeo) e anche su Denis Verdini e un gruppetto di suoi amici che indiziati non erano. Gli avvocati degli imputati in questa vicenda hanno potuto fare ben poco. Chi si è impegnato a fondo per intralciare la velocità della giustizia è stato solo ed esclusivamente il Gip. Bisognerà che l’Anm, o i magistrati eccellenti, come Davigo, o i legislatori dei 5 Stelle, tengano conto di questa vicenda. Ora il Pm Palazzi dovrà comunque, quasi un anno e mezzo dopo aver chiuso la sua indagine, ricominciare daccapo, riprendere in mano le carte, forse interrogare nuovi testimoni, e probabilmente dovrà lasciare per strada altre inchieste alle quali stava lavorando. Che magari cadranno in prescrizione…Come si spiega questo corto circuito e questo simil-suicidio della stessa magistratura, che poi protesta e chiede che sia bloccata la prescrizione per impedire agli avvocati di ritardare i processi? Forse si spiega con una sola e brevissima parolina magica: Renzi. Il bersaglio è quello, e quel bersaglio spiega tante cose. Tra le vittime di questa inchiesta dai tempi infiniti, diciamolo subito, c’è il nostro editore, Alfredo Romeo. Che da diversi anni è stato coinvolto nei vari rivoli dell’inchiesta Consip. E ha anche scontato diversi mesi di detenzione. Quando poi tutto sarà finito potremmo forse fare un calcolo approssimativo dei danni provocati da queste inchieste alle sue aziende. E l’entità dei danni sarà tanto maggiore quanto più sarà lunga la durata delle inchieste. Proviamo a prendere il caso Romeo e a moltiplicarlo – ad esempio – per dieci o per cento, quanti sono gli imprenditori che finiscono in una inchiesta giudiziaria simile e che poi si concluderà nel nulla: otterremo un risultato pari a diversi miliardi di danni. Forse uno o due punti di Pil. Non ci credete? È così, una delle ragioni della stagnazione o della recessione dell’economia italiana sta lì: nella burocrazia giudiziaria, nella macchina del sospetto che si è alimentata in tutti questi anni di politica, di populismo, di giustizialismo. Ora ve la racconto la storia delle indagini su Alfredo Romeo, come risulta dalle carte che il Gip Gaspare Sturzo ha potuto esaminare. L’accusa del Gip – che qui ha assunto una funzione di vero e proprio pubblico ministero aggiunto – è la seguente. L’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, avrebbe ricevuto pressioni da due diverse persone in nome di due diverse aziende che partecipavano a una delle gare d’appalto della Consip. Anno 2016, mese aprile. Una di queste persone è l’ex parlamentare Ignazio Abrignani, il quale avrebbe sostenuto l’azienda Cofely, legata – si dice – a Denis Verdini. L’altra persona è Carlo Russo, presunto amico di Tiziano Renzi e che avrebbe sostenuto l’azienda di Romeo. Su che base il Gip-Pm sostiene questa tesi? Sulla base di alcune dichiarazioni rilasciate da Luigi Marroni durante alcuni interrogatori. In una prima dichiarazione Marroni dice di avere ricevuto pressioni a favore della Cofely dall’ex parlamentare Abrignani, e pressioni da Russo a favore di un’altra azienda della quale non ricordava il nome. In un successivo interrogatorio Marroni sostiene ancora di non ricordare il nome dell’azienda raccomandata da Russo, ma esclude che fosse quello dell’imprenditore Romeo. Su questa base si è deciso di indiziare di reato Romeo e ora anche Verdini e gli altri. Non però Marroni. Ora, francamente, questa è una circostanza difficilissima da spiegare dal punto di vista della logica formale. Se uno sostiene che si è svolta una gara, che questa gara l’ha vinta Romeo, che per vincerla ha influenzato o corrotto l’amministratore delegato della Consip, cioè Marroni, e se si decide, su questa base – e sulla base di un teorema privo di uno straccio di indizio – di procedere contro Romeo che ha corrotto Marroni, ma come diavolo si fa a non procedere anche contro Marroni e la Consip? Dopodiché, naturalmente, si possono raccontare anche tante altre cose che non stanno nell’inchiesta. Per esempio si potrebbe fare questa domanda: è vero che il figliastro di Marroni gestisce insieme al figlio di Verdini un ristorante di gran successo a Roma? Voi – giustamente, direte: e cosa c’entra questo con il caso Consip? Niente, amici, proprio niente. Per questo l’ho scritto. Per continuare a seguire la logica del Gip Sturzo. Fondata sul sospetto, sul sospetto, sul sospetto. Posso avere un sospetto anch’io?Ho il sospetto che tutto questo ambaradam privo di senso, e che serve solo a intasare la macchina della giustizia e la Procura romana, abbia un unico obiettivo, e vi ho già detto qual è. Il padre di Renzi, e poi Renzi. È politica: tutto qui. La giustizia c’entra zero. Però – devo dire, così, senza nessun riferimento ai fatti – sia De Gasperi che don Sturzo, quando dicevano “politica” intendevano una cosa molto più seria.

Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 19 febbraio 2020. Nei giorni caldi di Consip, con il fascicolo approdato da Napoli a Roma, il Bullo se ne andava in giro per trasmissioni tv a propagandare che si trattava di un complottone. Un' inchiesta farsa che mirava a colpire il presidente del Consiglio. Ora, però, a leggere le 191 pagine dell' ordinanza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma Gaspare Sturzo, con le quali viene rigettata la richiesta di archiviazione della Procura e vengono disposte nuove indagini, sembra che di sviste sul Giglio magico in quel fascicolo ce ne sia più d' una. E lui, Matteo Renzi, da vittima del complotto sembra raffigurato dal gip quasi come un convitato di pietra. Il suo nome filtra pagina dopo pagina e, in un crescendo, arriva a ripetersi per ben 34 volte. Ma non è l' unico che desta attenzione. Al giudice, per esempio, è apparso strano che nei cellulari sequestrati «non sembra si sia effettuata alcuna ricerca con le chiavi Lotti, Verdini, Denis, Bigotti, Abrignani, Bocchino». E tante altre. «Tutti temi», sentenzia il gip, «che oltre all' esame delle memorie dei telefoni andrebbero sviluppati sui supporti informatici e che rendono la ricerca allo stato insufficiente rispetto allo sviluppo delle indagini». Non si sarebbe andato a fondo neanche «sui soggetti non meglio individuati che operavano possibili funzioni pubbliche da Palazzo Chigi, o meglio dalla sede della presidenza del Consiglio del governo italiano». Nelle telefonate intercettate, infatti, si fa riferimento a un «grande capo» che chiama da «Palazzo Chigi». Un personaggio misterioso che, per ora, resta nell' ombra. È attorno a Luigi Marroni, in quel momento amministratore delegato di Consip, che ruotano tutti i personaggi al centro dell' inchiesta. Ma anche buona parte del Giglio magico. C' è un gruppo, chiamato dal dirigente di Consip Francesco Licci «la corrente», che il gip individua come collegato a Luca Lotti e a Filippo Vannoni, numero uno di Publiacqua ed ex consigliere di Renzi a Palazzo Chigi. Ed è in questo contesto che salta fuori il nome dell' avvocato Alberto Bianchi, in quel momento presidente della Fondazione Open ma anche consulente legale di Consip. «Quanto alla vicenda Bianchi», annota il giudice, «il richiamo alla chiamata da Palazzo Chigi è un dato tutto aperto e ancora interamente da spiegare anche quanto alle decisioni successive su gare di appalto Consip ancora aperte». Il gip valuta: «Il fatto che Bianchi sia legato a Renzi e a Luca Lotti e a Maria Elena Boschi, appare ricostruito dai carabinieri in atti, che fanno cenno anche alla Fondazione Open. Ebbene, da questo punto di vista si deve comprendere come mai [...] il Marroni di volta in volta sembra cancellare qualsiasi riferimento che possa spostare le indagini in corso, e così già gravemente compromesse dalle fughe di notizie che la Procura ritiene aver individuato attorno ai soggetti per cui ha proceduto, quando si arrivi nelle vicinanze di questa forza di governo, che pure lo aveva nominato, o verso gli alleati della stessa». E perfino su un messaggio inviato da Carlo Russo a Francesco Bonifazi, il tesoriere del Pd che guidava anche la fondazione Eyu, «nessun accertamento», sottolinea il giudice, «sembra sia stato fatto». Il messaggio evidenzia che Russo voleva essere considerato quale «unico interlocutore di qualcuno con cui debba avere rapporti privilegiati», scrive il giudice, «soprattutto «senza che venga fuori il nome di "T"». Secondo la toga «non si fa fatica a collegare il messaggio nella dinamica Tiziano Renzi-Carlo Russo-Alfredo Romeo». In questa ottica il gip ritiene «rafforzato» il coinvolgimento di babbo Renzi ma, aggiunge, «con la congiunta necessità di verificare il ruolo stesso di Bonifazi, altro deputato Pd notoriamente vicino all' epoca dei fatti a Matteo Renzi». Rimettere a posto tutti i tasselli, però, non sarà facile. Anche perché a Marroni, per esempio, la Procura non ha chiesto conto neppure del fatto che non ricordasse, «dopo ben sette incontri con Carlo Russo», il nome della società per cui era stato chiesto l' intervento. Sul «facilitatore» Russo, compagno d' avventure imprenditoriali di babbo Renzi, il gip ritiene che «troppo frettolosamente sia stato formato l' assunto del pm» sul «millantatore» di cui sarebbero rimasti vittime «astutissimi e avvedutissimi imprenditori, consulenti, amministratori di stazioni appaltanti, alti burocrati, politici e loro parenti». E allora rende più preciso il suo ruolo: «In sostanza Russo, quale faccendiere di un certo spessore, era certamente in grado di agire per facilitare scorciatoie relazionali a vicende imprenditoriali e politiche interconnesse tra loro. In tali operazioni, evidentemente, era in grado di vendere cose vere, verosimili, possibili, probabili e secondo le esigenze, raccontare cose false per raggiungere le sue finalità». Quali? «Trafficare influenze in modo illecito, ricevendo la promessa o la consegna di corrispettivi in denaro o altre utilità, quale prezzo per la sua mediazione presso il pubblico ufficiale». Per sgombrare il campo da ogni dubbio, aggiunge: «Il traffico illecito di influenze in concorso tra Alfredo Romeo e Italo Bocchino, Carlo Russo e Tiziano Renzi presso il pubblico ufficiale Marroni si deve intendere effettivamente realizzato». Poi fa una lezioncina di diritto ai colleghi: «L' illecita proposta ha realmente raggiunto il Marroni, in relazione alla richiesta del compimento di un atto contrario all' ufficio di amministratore delegato della Consip quale la turbativa d' asta della gara Fm4». Altro che millanterie. Sulla posizione di Russo il gip deve aver ritenuto l' azione della Procura un po' blanda, visto che, nello spiegare come andava configurata l' accusa, sottolinea: «In sostanza, la valutazione di questo giudice sulla continenza e correttezza del complessivo operato del pm sulla riqualificazione della posizione del traffico illecito di influenze in millantato credito, allo stato degli atti, [...] ha avuto esito negativo».

Caso Consip, ecco l’interrogatorio che inchioda Romeo! Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Febbraio 2020. Luigi Marroni, ex amministratore delegato di Consip. Il Gip Gaspare Sturzo si è rifiutato di accogliere la richiesta dei Pm romani di archiviare l’inchiesta Consip. Ha imposto ai Pm di indagare ancora, di cercare ancora, di scandagliare bene e di vedere se non si trova qualcosa a carico degli indiziati. Qual è l’obiettivo? A occhio, Renzi. Il gip Sturzo naturalmente è un magistrato, non è un politico – anche se in passato ha partecipato come candidato ad una consultazione elettorale, ma queste son cose che succedono – e tuttavia l’impressione netta è che in questa vicenda dell’inchiesta Consip, avviata e sostenuta soprattutto dal Fatto di Travaglio e poi proseguita dalla magistratura, la politica c’entri molto e il diritto pochino pochino. Siccome personalmente conosco un solo imputato, e cioè Alfredo Romeo, che è l’editore di questo giornale, ho dato un’occhiata alle carte con le quali il dottor Sturzo ha motivato la sua richiesta di nuove indagini, e ha rifiutato l’archiviazione, cercando soprattutto i passaggi riferiti ad Alfredo Romeo. E pur non essendo io un avvocato, sono rimasto basito dal litigio tra giurisprudenza e logica. Penso che persino Travaglio, se desse un’occhiata alle carte, né resterebbe stupito, e magari darebbe l’ordine di archiviare…Ora trascrivo qui di seguito alcune righe dell’interrogatorio dell’ex amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni. E’ una trascrizione letterale. Prima spiego un attimo la situazione, per chi leggesse per la prima volta. L’inchiesta si fonda tutta sul fatto che Luigi Marroni sostiene di avere ricevuto delle pressioni illecite per favorire due aziende che concorrevano ad alcune gare indette da Consip per ottenere robusti appalti. Marroni avrebbe ricevuto queste pressioni da Carlo Russo, persona che sosteneva di essere amica di Tiziano Renzi (e per il quale i Pm hanno chiesto rinvio a giudizio per millantato credito). Le gare in questione erano 18. Alfredo Romeo ha partecipato a quattro di queste 18 gare e ne ha vinte tre. Tre appalti con un fatturato molto alto: circa 800 milioni. Dopo l’apertura dell’inchiesta questi appalti gli sono stati revocati e la azienda di Romeo ha subìto un danno economico che potete calcolare da soli. Danno meritato, si capisce, se davvero Alfredo Romeo ha truccato gli appalti facendo pressioni su Marroni attraverso Carlo Russo o altri. Altrimenti siamo di fronte a una clamorosa ingiustizia e ad una violazione gigantesca della libera economia. Ecco, a questo punto vediamo quali sono le prove di accusa contro Romeo. Diciamo che la prova di accusa è la deposizione di Marroni, perché è lui che sarebbe stato costretto a favorire le due aziende. Una di queste aziende, viene detto in diversi passaggi dell’interrogatorio, è la Cofely, legata Denis Verdini, e a favore della quale, secondo Marroni, sarebbe intervenuto, a nome di Verdini, l’ex deputato Ignazio Abrignani. Marroni racconta anche di conoscere bene Verdini perché il figlio di Verdini e il figlio della compagna di Marroni gestiscono insieme un ristorante. Ma se una delle due aziende è la Cofely, e questo è accertato, perchè Sturzo immagina che l’altra sia quella di Romeo? Per via della deposizione di Marroni, spiega nella richiesta di ulteriori indagini. E allora leggiamo la trascrizione delle domande dei Pm Mario Palazzi e Giuseppe Pignatone (sì, proprio lui, il Procuratore di Roma in persona) a Marroni su Romeo.

Dottor Palazzi: qual è il nome di questa seconda azienda (oltre la Cofely, ndr)?

Marroni: non lo ricordo.

Dottor Palazzi: Russo fece mai riferimento a Romeo, alle società di Romeo?

Marroni: no.

Dottor Palazzi: cioè, nessuna conversazione con Russo viene associata in qualche modo a un ricordo di una discussione con Romeo?

Marroni: a meno che Romeo non fosse in quella famosa società che lei…

Dottor Pignatone: la società di Romeo si chiama Romeo Gestioni.

Dottor Palazzi: Romeo Gestioni?

Marroni: no, non mi disse delle aziende di Romeo.

Dottor Palazzi: comunque lì non associa nessun…

Marroni: non fu associata.

Dottor Pignatone: immagino che lei sapesse che esiste un gruppo Romeo.

Marroni: Lo sapevo.

Dottor Palazzi: allora durante gli incontri con Carlo Russo non si fece mai il nome di Romeo. Le parlava solo di quella società di cui non ricorda il nome. E’ così?

Marroni: sì.

Avete letto bene? Ecco, anche Sturzo deve aver letto, perché ha allegato questi atti alla richiesta ai Pm di proseguire le indagini sul conto di Romeo. Sturzo, leggendo le dichiarazioni di Maroni che dice Romeo non c’entra niente, ha capito che Romeo c’entra.

Esisteva una volta la logica formale. Ed esisteva la giurisprudenza. In alcuni palazzi di giustizia queste due categorie dello spirito sono considerate incompatibili…

P.S. Una domanda anche al ministro Gualtieri. Ma a questo punto, alla luce del quadro che fa il dottor Sturzo, di gigantesca turbativa delle gare Consip (turbativa che oltretutto fu denunciata proprio da Romeo in due esposti dell’aprile 2016) non sarebbe il caso quantomeno di annullare le diciotto gare Consip incriminate, e magari di rifarle, assicurandosi che nessuno sia raccomandato? Del resto è proprio questa la richiesta che fu avanzata un anno fa in una interrogazione parlamentare dell’on Margiotta, del partito democratico. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 20 febbraio 2020. Come finirà l' inchiesta Consip? Fanno bene a tirare un sospiro di sollievo le difese che temevano l' imputazione coatta dei loro assistiti? Secondo noi, no. L' ordinanza con cui il gip Gaspare Sturzo ha disposto tre mesi di nuove investigazioni, l' iscrizione di altri indagati (tra cui Denis Verdini) e l' avvio di ulteriori filoni d' inchiesta non è un accoglimento delle tesi difensive. Nell' ordinanza si legge: «Il traffico illecito di influenze in concorso tra Alfredo Romeo e Italo Bocchino, Carlo Russo e Tiziano Renzi presso il pubblico ufficiale Luigi Marroni si deve intendere effettivamente realizzato». Considerate le sue certezze, Sturzo non poteva spedire gli imputati alla sbarra senza attendere 90 giorni?  

Probabilmente no. E vi spieghiamo perché. Il gip ha ordinato alla Procura di iscrivere sul registro degli indagati Verdini, Ignazio Abrignani e l' imprenditore Ezio Bigotti per concussione e turbativa d' asta. Senza iscrizioni, niente rinvio a giudizio. È probabilmente per questo che non ci sono state le imputazioni coatte. Se le avesse fatte, avrebbe ulteriormente spezzettato il procedimento. Ma il giudice è stato chiaro: «Allo stato non è possibile immaginare ulteriori frazionamenti della presente indagine (due filoni sono già a processo, ndr), al di là dell' oggettivo potere del pm di operare degli stralci, in quanto - secondo questo giudice - sussiste una strettissima connessione soggettiva e oggettiva tra tutti gli eventi sopra analizzati». Ecco perché tra 90 giorni difficilmente Renzi senior e i suoi coindagati verranno archiviati. Quando ha letto sui giornali le novità di Consip, al maggiore Gianpaolo Scafarto si è aperto il cuore: «Fa piacere leggere un' ordinanza che sostanzialmente dice le stesse cose che noi carabinieri del Noe avevamo scritto nelle nostre informative più di tre anni fa. Comunque non era scontato che un gip leggesse con tanta attenzione le carte», ha commentato nello studio del suo avvocato, Giovanni Annunziata. E pensare che nel 2017 Sturzo aveva emesso un' ordinanza interdittiva proprio contro Scafarto, poi bocciata da Riesame e Cassazione. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Per esempio il gup Clementina Forleo aveva scagionato Scafarto nell' ottobre scorso, con una sentenza che smentiva l' ipotesi dell' accusa, e Sturzo si è probabilmente accorto che nel lavoro del Noe c' erano molti indizi trascurati dalla Procura. Scafarto e i suoi avevano più volte chiesto di intercettare gli indagati e di acquisire il cellulare di Tiziano Renzi. Ma, visti i risultati del sequestro del telefonino di Carlo Russo, il «faccendiere professionista» amico del babbo dell' ex premier, c' è da pensare che sarebbe stata una fatica inutile. Nell' ordinanza il gip pare sbigottito dal lavoro effettuato sullo smartphone di Russo: «Gli argomenti qui trattati sono stati individuati in quel che resta del cellulare sequestrato al Russo, a prescindere da quelli non rinvenuti o da quelli che non sono stati sottoposti a controllo tecnico, per cui questo giudice chiede espresso chiarimento dalla Procura, non essendo ben chiaro lo stato di tale ultima questione». Il gip si dedica anche alle fughe di notizie. Pare sconcertato per il comportamento del generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia, ex comandante della regione Toscana considerato molto vicino a Matteo Renzi. Il militare nel marzo del 2017 si recò a casa di un suo caro amico, legato al fu Rottamatore e testimone delle fughe di notizie a favore di Tiziano Renzi, per avvisarlo che il giorno successivo «sarebbero arrivati probabilmente degli investigatori». Effettivamente i pm arrivarono e il gip trasecola: «È un fatto che questo giudice ritiene eccezionalmente grave, quanto a un possibile inquinamento probatorio su una persona che doveva essere assunta a sommarie informazioni, di cui non è chiaro da chi e come avesse avuto notizie Saltalamacchia». È sempre più evidente che a Firenze tutto quello che riguardava l' inchiesta Consip fosse un segreto di Pulcinella. Sturzo ha anche respinto la richiesta di archiviazione per rivelazione di segreto nei confronti dello stesso Saltalmacchia e dell' ex ministro Luca Lotti (a processo per favoreggiamento per gli stessi fatti). Gli inquirenti avevano chiesto di non procedere perché i due non avrebbero appreso le notizie «in forza della loro qualità». Per il gip quella della Procura è «una complessa ricostruzione giuridica» che non condivide. E per ribaltare le conclusioni dell' accusa cita, un po' perfidamente, il processo penale contro l' ex governatore siciliano Totò Cuffaro, che venne condannato per rivelazione di segreto investigativo, pur essendo un politico, su richiesta, tra gli altri, di quel Giuseppe Pignatone che, da procuratore di Roma, aveva, invece, firmato la richiesta di archiviazione per Saltalamacchia e Lotti. Nell' inchiesta compare anche l' avvocato Piero Amara, che ha già patteggiato due condanne per corruzione in atti giudiziari ed è il sedicente organizzatore del finto complotto ai danni dell' ad di Eni, Claudio Descalzi. Il legale è stato in contatto (persino socio) con diversi renziani eccellenti, e in passato si sarebbe interessato di mettere in relazione un giudice della Corte dei conti con il Giglio magico quando esplose il caso del volo di Stato a Courmayeur di Renzi. Amara e Verdini sponsorizzavano con Marroni l' imprenditore Ezio Bigotti. Contemporaneamente la squadretta presentava ricorsi davanti al Consiglio di Stato, dove Amara aveva addentellati. L' arma del ricorso giudiziario serviva «per bloccare l' aggiudicazione e, magari, consentire di permanere nella gestione prorogata dei servizi per numerosi anni». È in questo quadro che il gip inserisce un dato investigativo non approfondito: l' 1 marzo 2017 i carabinieri hanno trovato a casa di Russo una sentenza del Consiglio di Stato del febbraio 2016 che riguardava Consip e un ricorso di Romeo gestioni contro un' aggiudicazione della centrale acquisti della Pa. Lamenta Sturzo: «La presenza di questa copia di sentenza attinente alla cosiddetta guerra dei ricorsi, non appare essere stata minimamente presa in considerazione dalle indagini». Per il gip non è stato fatto nessun accertamento «per comprendere la relazione tra le pressioni di Verdini su Marroni a favore di Bigotti, la presenza di Amara» e i presunti «ricatti» di Russo. Secondo Sturzo urge un' integrazione d' indagine sui documenti rinvenuti a casa di Russo: per scoprire «chi glieli avesse dati, quando e per farne cosa». Una pista che potrebbe aprire scenari sorprendenti sui rapporti tra magistratura e Giglio magico.

Giuseppe China per “la Verità” il 21 febbraio 2020. La caccia alle talpe dell' inchiesta Consip non è finita. Il gip Gaspare Sturzo, nella sua ordinanza, punta molto anche sulle fughe di notizie e su chi le ha causate e non è stato scoperto. Una serie di spifferi che hanno permesso a Tiziano Renzi di essere informato su quello che stava accadendo alla Procura di Napoli e di staccare la spina ai suoi rapporti con Carlo Russo, ma che in qualche passaggio non hanno funzionato. Infatti Renzi senior ha parlato troppo di quello che aveva saputo e per esempio convocò quello che all' epoca era un grande amico: il sindaco di Rignano, Daniele Lorenzini. Per comunicargli che temeva di «essere arrestato». La notizia arrivò alle nostre orecchie e la scrivemmo il 6 novembre 2016. Per questo i pm decisero di convocare come testimone il primo cittadino, e di intercettarlo. La scelta di quest' ultimo di collaborare con le forze dell' ordine non venne presa bene da Tiziano. Ne nacque una faida: il Pd di Renzi senior da una parte e la lista civica del sindaco dall' altra che, dopo tre mesi, trionfò alle elezioni. Ma prima Lorenzini avrebbe subito «un' indiretta pressione». Rivelata da un' intercettazione del 7 marzo 2017, quattro giorni dopo la prima testimonianza. Lorenzini si lamenta con un suo stretto collaboratore: «Tiziano pur di far fuori me». Gli risponde Adriano: «Il problema che lui c' ha qual è è che tu sei andato dai carabinieri». Lorenzini: «È tutto lì il problema». Poi aggiunge: «Mi dovrebbe chiedere scusa che mi sono rotto i coglioni due giorni (per la testimonianza, ndr) per la sua superficialità []» per «le sue cazzate con il Russo». Il collaboratore gli fa notare che Tiziano avrà già letto la sua deposizione: «E s' è incazzato [] forse pensava che tu stessi zitto come qualcun». Lorenzini si indigna: «Io sto zitto [] sto parlando da sindaco [] mi fanno delle domande io sto zitto come il servo sciocco che gli fa la telefonata che non sapeva a chi telefonava». Il riferimento sembra a Roberto Bargilli che nel dicembre 2016 chiamò Russo per dirgli di non contattare più Tiziano Renzi. Il gip continua a riportare le parole di Lorenzini: «Dice che il Paese lo appoggia e che non dirà mai una bugia ai carabinieri e [] che il fatto che una persona va in chiesa (Renzi senior, ndr) non significa che è uno "buono" [] dice che a lui (a Tiziano) non gliene frega un cazzo del partito...». Lorenzini è lo stesso che aveva raccontato di una grigliata a casa di Tiziano nell' ottobre 2016, a cui avrebbe partecipato anche il generale Emanuele Saltalamacchia, il quale avrebbe consigliato al babbo di non parlare al telefono. Il gip nota che altri testimoni hanno tentato di far slittare la data della cena con Saltalamacchia a casa Renzi a fine novembre e «non troppo velato pare il tentativo [] di spostarla in funzione dell' articolo del 6 novembre 2016 pubblicato dalla Verità». Creandosi così un alibi. Nella parte finale dell' ordinanza, Sturzo non solo sostiene che l' ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti e il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia, all' epoca a capo della Regione Toscana, avrebbero ricevuto notizie coperte da segreto, ma anche che i loro complici «hanno ritenuto di recargliele, violando il segreto, in relazione, evidentemente, ai loro ruoli istituzionali e alla loro vicinanza alle persone che erano interessate o potevano essere interessate alle indagini». Non è difficile immaginare che in questo mazzo di persone il gip inserisca anche la famiglia Renzi. Per il giudice le fughe di notizie sono servite soprattutto a non consentire l' individuazione di penali responsabilità non solo quanto alle continue turbative in Consip, ma anche del ruolo di Marroni Luigi e delle pressioni che questi stava subendo a opera di diversi soggetti, tra cui Carlo Russo e Tiziano Renzi, come da Denis Verdini e Ignazio Abrignani».... Nell' ordinanza di Sturzo a parlarne è Francesco Licci, manager di Consip indagato per turbativa d' asta e all' epoca presidente della commissione che avrebbe dovuto assegnare la gara da 2,7 miliardi di euro Fm4. Licci è colui che aveva fatto pressioni su Marroni affinché adottasse una nuova linea maggiormente difensiva della cosiddetta Corrente, quella parte del Pd collegata a Matteo Renzi.

Scandalo Consip, anche Travaglio coinvolto nelle intercettazioni. Piero Sansonetti de Il Riformista il 21 Febbraio 2020. Che cosa è successo tra i vertici di Consip e Il Fatto Quotidiano nell’inverno 2017? Non lo so, e non sono neanche in grado di fare delle ipotesi. Però vorrei che qualcuno me lo dicesse, perché mi sono capitate per le mani le trascrizioni di alcune intercettazioni che a me sembrano inquietanti. Qualcosa dev’essere successo. Riparto dall’inizio. Siccome il Gip Gaspare Sturzo – che ha respinto la richiesta dei Pm di archiviazione, per mancanza di indizi, dell’inchiesta Consip che coinvolge tra gli altri Tiziano Renzi, Luca Lotti e anche il mio editore Alfredo Romeo – ha depositato un malloppo di carte, che contengono anche diverse intercettazioni e diversi verbali di interrogatori, mi sono messo, per curiosità professionale, a leggere un po’ di queste carte. Lavoro faticoso, perché io non ho nessun Pm che mi fornisce le carte già selezionate e sottolineate con l’evidenziatore, come succede in genere a molti miei colleghi più fortunati di me, e così devo scarpinare. L’altro giorno mi è capitato sotto gli occhi l’interrogatorio dell’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, il quale escludeva di avere ricevuto alcuna pressione per favorire Romeo nelle gare per gli appalti. E ho fatto osservare che forse c’è un certo salto logico tra la certezza che Romeo non fu favorito, e la decisione del Gip di farlo inquisire perché fu favorito. Possibile che il Gip, nel gran casino delle intercettazioni e degli interrogatori, non abbia letto le carte? Boh. Ieri invece mi è capitato per le mani il verbale che riporta una breve intercettazione, sempre assai confusa come quasi tutte le intercettazioni, e di difficile interpretazione, come tutte le intercettazioni. In genere i Pm, quando si trovano di fronte a una intercettazione di difficile interpretazione fanno una cosa molto semplice: la interpretano come una prova d’accusa e procedono contro il sospettato. Io, siccome sono un garantista, non faccio così, e siccome non sono un Pm non firmo nemmeno un avviso di garanzia. Però faccio qualche domanda. Chissà se qualcuno mi risponderà. Allora, trascrivo il testo del verbale di intercettazione. È il 19 febbraio del 2017. L’intercettato è il dottor Francesco Licci, capo delle relazioni esterne di Consip e capo della commissione che doveva decidere sulle 18 gare di appalto che sono l’oggetto della inchiesta (capo della Commissione giudicatrice FM4 ndr). Sta parlando con l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni. Dice, testualmente, il verbale: «Licci Francesco chiama Marroni Luigi e gli dice: “Oggi il Fatto ce n’ha per tutti…”. I due commentano un articolo del Fatto che attacca la Panozzo (dirigente anticorruzione di Consip), nell’articolo c’è scritto: “Sta lì a far niente”. Commenta Marroni: “Sempre che ci siano corrotti”. Licci: “I giornalisti danno sempre per scontato che i corrotti ci siano”. Marroni si pone la questione se conviene “fare una strategia con il Fatto”. Licci dice che ha già contattato una società “che fa questo di mestiere e gli ha passato tutto l’incartamento”. Dice di aver “contattato un amico che lavora a Roma ed è molto bravo: Gianluca Comin”». Fine del verbale che riporta questa intercettazione. Domanda. In cosa doveva consistere questa strategia “col Fatto”? Seconda domanda: questa strategia poi si è concretizzata? Terza, quarta e quinta domanda: Il Fatto ha avuto un ruolo attivo o solamente passivo? Il Fatto era partecipe o vittima? Ne ha tratto vantaggi o svantaggi? Voi capite che le domande sono importanti. Perché in tutta la vicenda Consip Il Fatto ha avuto un ruolo importantissimo. È stato, forse, il primo protagonista. E poi sono importanti anche per un’altra ragione. L’inchiesta Consip parte con alcuni depistaggi e alcune contraffazioni (volontarie o involontarie) dei verbali dei carabinieri. Per questo è giusto stare molto attenti alle intercettazioni vere. Poi che sia giusto o no fare queste intercettazioni è un’altra questione. La mia risposta è semplice e breve: no. Però so per certo che se per caso fosse stato intercettato qualcuno che diceva – per ipotesi – bisogna fare una strategia con Romeo, beh non c’era nemmeno bisogno di un processo, Romeo era già bello che condannato. Non è così? A proposito di Romeo, nello stesso foglietto che contiene questa intercettazione che riguarda Il Fatto, e nel corso dello stesso colloquio tra Licci e Marroni, si parla anche di Romeo. Di nuovo trascrivo testuale:  «Marroni: “Pongono il caso su quello che si stiamo ponendo noi da sei mesi, che facciamo di questa maledetta gara?”. Licci: “Infatti, questo è il punto. Infatti lì, Luigi, c’è ben poco da fare, eh… ci sono i segnali che nonostante tu sei in torto e nonostante quello che è, se dai tre lotti a Romeo è una tragedia”». Oh bella. Romeo aveva vinto tre dei 18 lotti in gara. In modo assolutamente regolare. Risulta dagli interrogatori di Marroni che abbiamo pubblicato ieri che non c’era stata nessunissima pressione a suo favore ma che le pressioni erano state a favore dei suoi concorrenti. E dunque che lui aveva vinto seppure partendo da una condizione svantaggiata dalle interferenze illegittime. Oggi scopriamo che invece, evidentemente, c’erano anche pressioni per impedire che queste tre gare fossero assegnate a lui. E infatti, quattro mesi dopo queste conversazioni, le assegnazioni a Romeo furono ritirate. Su pressioni di chi? Del resto Romeo mi ha raccontato che lui si era accorto che intorno alle gare Consip c’era qualcosa che non andava. E aveva presentato due esposti. Da tutto questo risulta evidentissimo che era parte lesa. Perché i magistrati decisero, sapendo che era parte lesa (se avevano letto le intercettazioni e l’esposto) di incriminarlo e di arrestarlo? Serviva un capro espiatorio? Serviva un anello per arrivare a Renzi e si è pensato che l’anello migliore fosse Romeo? Vedete, oggi ho solo domande da gettare lì sul tavolo. Chissà se qualcuno ha voglia di rispondermi. Temo di no. Questa è una storia, ho paura, un po’ troppo sporca perché alle domande semplici corrispondano delle risposte.  È una storia dove molti “puri” magari erano impuri e viceversa… 

Caso Consip, cosa volevano i manager dal Fatto? Travaglio spieghi. Piero Sansonetti de Il Riformista il 24 Febbraio 2020. Abbiamo pubblicato sull’edizione di venerdì del Riformista un articolo che  riferiva di alcune intercettazioni telefoniche inquietanti, dalle quali risulta che i massimi dirigenti di Consip, all’inizio del  2017, stavano studiando una “strategia” (così loro la definivano nella conversazione) per il Fatto Quotidiano, e che avevano incaricato una ditta specializzata di occuparsi di tutta la questione. Noi, naturalmente, non siamo in grado di dire, sulla base di quella intercettazione, di cosa si trattasse. Né tantomeno quale fosse questa strategia, né se poi sia stata o no attuata. È vero che in altre occasioni per una intercettazione di questo genere il malcapitato e inconsapevole soggetto del colloquio tra gli intercettati è finito in tutti i guai del mondo, ed è stato linciato da molti giornali come sicuro colpevole di orride malefatte. Ma voi sapete che questo è un giornale garantista, che oltretutto è addirittura contrario alle intercettazioni, e quindi ci guardiamo bene dal considerare Travaglio colpevole di alcuna bricconata. Però, dal momento che le intercettazioni ci sono, sono depositate, dal momento che il mestiere principale dei giornalisti del Fatto è quello di spulciare nelle intercettazioni, e sicuramente lo hanno fatto anche in questo caso (visto che si tratta dell’affare Consip, al quale sono sempre stati interessatissimi), possiamo immaginare che gli amici del Fatto, e Travaglio, conoscono perfettamente questa intercettazione (tra l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, e il dottor Francesco Licci che all’epoca era il capo della commissione che doveva assegnare gli appalti). Per questo ci permettiamo di chiedere al direttore del Fatto che ci spieghi bene la cosa. Del resto lui ha sempre dichiarato che la politica informativa del suo giornale è semplice: trasparenza, trasparenza, trasparenza. È solo per questa ragione che ci permettiamo di chiedere un chiarimento. Per la trasparenza. Naturalmente io sono certo che Marroni e Licci, attraverso l’intermediario che avevano incaricato, non riuscirono in nessun modo a condizionare il Fatto. Anche perché conosco un po’  Travaglio, penso di lui tutto il peggio che si possa pensare perché so che è manettaro e forcaiolo come nessun altro in Italia, ma penso anche che sia un tipo al quale piace molto influenzare, e condizionare, e intimidire gli altri, ma che difficilmente si fa condizionare. A maggior ragione vorrei sapere cosa gli hanno detto Marroni e Licci e cosa volevano da lui e in che modo volevano orientare l’atteggiamento del Fatto sull’affare Consip. Anche perché il Fatto, sull’affare Consip, ha avuto un ruolo di guida, non solo per gli altri giornali ma anche per le Procure. Quindi è molto importante, per capire cosa è successo in quell’inchiesta, sapere cosa volevano, da Travaglio, Marroni e Licci. P.S. Voi direte: ma magari Travaglio non ha letto il Riformista quel giorno. No, lo ha letto, e infatti già due volte ci ha preso in giro per un titolo nel quale si metteva il nome di Renzi vicino a quello di De Gaulle. Ecco, a questo proposito vorremmo spiegare una cosa: Marco, noi possediamo una categoria dello spirito, forse non notissima ai giornalisti, che si chiama “ironia”. Nel paragone tra Renzi e De Gaulle c’era questo: ironia. Infatti, non so se l’ha vista, abbiamo pubblicato una foto di Renzi minuscolo che dal basso in alto guardava un gigantesco De Gaulle. E poi do a Marco un’altra informazione. A una parte consistente della politica, dell’intellettualità e del giornalismo italiano, De Gaulle non è mai piaciuto. Per me, ad esempio, il termine gollismo è sempre stato vicino al termine fascismo. Ma lui, per sua fortuna, è troppo giovane per sapere queste cose.  

Caro Travaglio, che c’è stato tra te e Consip? Che cosa nascondi con il silenzio? Redazione de Il Riformista il  25 Febbraio 2020. Dobbiamo ripeterci ma a volte – si sa – repetita juvant. Trascriviamo un’altra volta il testo del verbale di intercettazione di cui abbiamo parlato sul Riformista del 21 febbraio scorso. Sono verbali connessi alle indagini sul cosiddetto scandalo Consip, richiamati dal GIP Gaspare Sturzo. È il 19 febbraio del 2017. L’intercettato è il dottor Francesco Licci, capo delle relazioni esterne di Consip e capo della commissione che doveva decidere sulle 18 gare di appalto che sono l’oggetto della inchiesta (capo della Commissione giudicatrice FM4 ndr). Sta parlando con l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni. Dice, testualmente, il verbale: «Licci Francesco chiama Marroni Luigi e gli dice: “Oggi il Fatto ce n’ha per tutti…”. I due commentano un articolo del Fatto che attacca la Panozzo (dirigente anticorruzione di Consip), nell’articolo c’è scritto: “Sta lì a far niente”. Commenta Marroni: “Sempre che ci siano corrotti”. Licci: “I giornalisti danno sempre per scontato che i corrotti ci siano”. Marroni si pone la questione se conviene “fare una strategia con il Fatto”. Licci dice che ha già contattato una società “che fa questo di mestiere e gli ha passato tutto l’incartamento”. Dice di aver “contattato un amico che lavora a Roma ed è molto bravo: Gianluca Comin”». Il 21 febbraio abbiamo posto le seguenti domande dirette e indirette al Fatto Quotidiano e al suo direttore Marco Travaglio. Domanda. In cosa doveva consistere questa strategia “col Fatto”? Seconda domanda: questa strategia poi si è concretizzata? Terza, quarta e quinta domanda: Il Fatto ha avuto un ruolo attivo o solamente passivo? Il Fatto era partecipe o vittima? Ne ha tratto vantaggi o svantaggi? Voi capite che le domande sono importanti. Perché in tutta la vicenda Consip Il Fatto ha avuto un ruolo importantissimo. È stato, forse, il primo protagonista. E poi sono importanti anche per un’altra ragione. L’inchiesta Consip parte con alcuni depistaggi e alcune contraffazioni (volontarie o involontarie) dei verbali dei carabinieri. Per questo è giusto stare molto attenti alle intercettazioni vere. Poi che sia giusto o no fare queste intercettazioni è un’altra questione. Ma il fatto vero, e non è un gioco di parole, è che a tutt’oggi, nonostante nuove sollecitazioni fatte anche oggi dal Riformista, il Fatto non risponde. E non risponde il suo direttore Marco Travaglio. Il che ci costringe quasi a far buona la tesi andreottiana (mai amata perché poco garantista, ma di sicuro molto “pragmatista”) che a “pensar male si fa peccato ma ci si indovina”, e a concludere che il silenzio reiterato di Travaglio e del suo giornale possa avere il solo obiettivo di non far da grancassa a una notizia, secondo il vecchio adagio che la replica a una notizia altro non è che il raddoppio della notizia stessa. Teorema orribile (settore in cui Travaglio è abilissimo maestro), che però può significare solo che allora davvero il Fatto quotidiano sia stato allertato e contattato dai lobbisti amici di Marroni e Licci. E che quindi anche il Fatto ha a che fare con lo scandalo Consip. O no? Il silenzio è d’oro, si sa. Ma applicato a un fine dicitore, mai silenzioso, come Travaglio, sembra grigio e cupo come il piombo. Però noi rifacciamo la domanda, una, che vale per tutte le altre: caro Travaglio, nello scandalo Consip, stai nascondendo qualcosa sul ruolo del tuo giornale?

Travaglio, ci racconti cosa ti hanno chiesto Marroni e Licci? Piero Sansonetti de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Marco Travaglio ha sempre dichiarato che la politica informativa del suo giornale è semplice: trasparenza, trasparenza, trasparenza. È solo per questa ragione che ci permettiamo di chiedere un chiarimento. Per la trasparenza. Naturalmente io sono certo che Marroni e Licci, attraverso l’intermediario che avevano incaricato, non riuscirono in nessun modo a condizionare il Fatto. Anche perché conosco un po’  Travaglio, penso di lui tutto il peggio che si possa pensare perché so che è manettaro e forcaiolo come nessun altro in Italia, ma penso anche che sia un tipo al quale piace molto influenzare, e condizionare, e intimidire gli altri, ma che difficilmente si fa condizionare. A maggior ragione vorrei sapere cosa gli hanno detto Marroni e Licci e cosa volevano da lui e in che modo volevano orientare l’atteggiamento del Fatto sull’affare Consip. Anche perché il Fatto, sull’affare Consip, ha avuto un ruolo di guida, non solo per gli altri giornali ma anche per le Procure. Quindi è molto importante, per capire cosa è successo in quell’inchiesta, sapere cosa volevano, da Travaglio, Marroni e Licci.

Scandalo Consip: Travaglio, ma allora devo pensar male? Piero Sansonetti de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Caro Travaglio, fin qui tutti i miei appelli a raccontare quel che sai sul caso Consip sono andati a vuoto. Ci conosciamo da tanti anni. So che non sei un tipo distratto e che difficilmente ti sfugge qualche informazione che riguarda il tuo lavoro. Mi ricordo un viaggio di un quarto di secolo fa in Israele, eravamo cinque giornalisti, e tu, anche se eri un ragazzino, eri di gran lunga il più informato di tutti noi più anziani. Una volta, col pulmino del governo sul quale viaggiavamo, entrammo nella città di Ness Ziona, e noi non sapevamo neppure dove ci trovassimo: tu ci spiegasti che si trattava di una antica città della parte centrale del paese, che contava 28 mila abitanti e che era governata dai laburisti. Il bello è che era vero. Dunque non credo che ti possano essere sfuggite le intercettazioni sul caso Consip che riguardano Il Fatto: riferiscono di un colloquio tra due altissimi dirigenti della Consip i quali dicono che occorre mettere a punto una strategia per il Fatto Quotidiano, e poi precisano che di questa strategia si sta già occupando una società specializzata. Sono giorni che ti chiedo se ci dici cosa sai di questa strategia, se fu messa a punto, in cosa consisteva, se avvantaggiò o danneggiò il tuo giornale, se condizionò o no la tua linea sullo scandalo Consip. Nessuna risposta. Tu mi dirai: ma scusa, a te che ti frega? Un po’ mi frega. Per due ragioni. La prima è che l’editore del mio giornale (al quale tengo, diciamo un po’ come tu tieni a Davigo) è stato coinvolto nel caso Consip, accusato di aver brigato per avere degli appalti, mentre da quella intercettazione di cui stiamo parlando risulta che, al contrario, i vertici Consip ebbero l’ordine di togliergli gli appalti che aveva legittimamente vinto. E questo è uno dei motivi per i quali vorrei sapere bene cosa si dissero, e magari cosa dissero a voi del Fatto, quei due dirigenti. Poi c’è un secondo motivo. Ne ho già accennato: la trasparenza. Tu spesso ci hai spiegato che la bussola del tuo giornalismo è quella: la trasparenza. Benissimo. Una intercettazione come quella che abbiamo riportato giorni fa sul Riformista richiede trasparenza. Per me è molto difficile pensare che ci sia qualcosa di men che limpido nella tua condotta e nel modo di comportarsi del tuo giornale (che è il più forcaiolo d’Europa ma non è certo torbido) di fronte alle pressioni dei vertici Consip. Però, sai com’è, alla fine uno viene preso dai dubbi. Perché non risponde? – mi chiedo: devo pensar male?

Scandalo Consip: per il Codice Travaglio il Fatto è colpevole, Marco rompi il silenzio! Piero Sansonetti de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Esistono, in Italia, tre codici di giustizia. Il codice penale, il codice di procedura penale e il Codice Travaglio. I primi due riguardano un numero ridotto di processi. Quelli che si svolgono nelle aule dei tribunali. Pochi. Spesso poi si concludono con le assoluzioni, e questo, da una parte consistente del giornalismo e dell’opinione pubblica italiana, è considerato un fatto non positivo. Il Codice Travaglio invece riguarda la maggior parte dei processi, quelli che vengono originati da un avviso di garanzia o da un semplice articolo di giornale, e che si svolgono in forma mediatica e si concludono con la condanna. Il Codice Travaglio non prevede assoluzioni, né tantomeno prescrizioni. Anzi, la particolarità di questo processo è che può giungere molto rapidamente alla condanna (in genere questo avviene in poche ore) e poi comunque continuare anche per molti anni, con un numero indefinito di successive condanne. Voi conoscete quel cervellotico principio del diritto romano (e di tutti i successivi “diritti”) che stabilisce il cosiddetto ne bis in idem? Vuol dire che non si può processare la stessa persona due volte per uno stesso reato. Nel Codice Travaglio esiste il principio opposto: se una persona viene processata una volta è giusto processarla ancora tre, quattro, cinque, “enne volte”. E condannarla, naturalmente. Nel Codice Travaglio non esiste la necessità di esibire delle prove per condannare qualcuno. Le prove sono considerate una “azzeccagarbugliata” inventata dagli avvocati per buttare tutto in caciara. Il Codice Travaglio prevede la sacralità del sospetto. Il sospetto, secondo il Codice Travaglio, assai raramente porta fuori strada. Se sei indotto a sospettare di qualcuno ci sarà pure una buona ragione, altrimenti non sospetteresti di lui. E se c’è una buona ragione è altissima la possibilità che questa persona sia colpevole. La possibilità dell’errore nel sospetto esiste sempre, ma in quel caso si chiama “errore fisiologico” (è un concetto ripreso dal Codice Davigo) e l’errore fisiologico è un non errore, una percezione parzialmente inesatta della verità. Ora, voi sapete che da qualche giorno noi poniamo una domanda all’autore del Codice Travaglio, che poi sarebbe Marco Travaglio. E gliela poniamo, gliela abbiamo sempre posta, utilizzando il buon senso e non uno dei codici dei quali abbiamo parlato fin qui. E cioè gli chiediamo di darci una spiegazione sul significato di una intercettazione, della quale abbiamo già pubblicato il verbale, e che riguarda il suo giornale e il caso Consip. Per comodità dei lettori trascriviamo nuovamente questa intercettazione. È il 19 febbraio del 2017. L’intercettato è il dottor Francesco Licci, capo delle relazioni esterne di Consip e capo della commissione che doveva decidere sulle 18 gare di appalto che sono l’oggetto della inchiesta. Sta parlando con l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni. Dice, testualmente, il verbale: «Licci Francesco chiama Marroni Luigi e gli dice: “Oggi il Fatto ce n’ha per tutti…”. I due commentano un articolo de Il Fatto che attacca la Panozzo (dirigente anticorruzione di Consip), nell’articolo c’è scritto: “Sta lì a far niente”. Commenta Marroni: “Sempre che ci siano corrotti”. Licci: “I giornalisti danno sempre per scontato che i corrotti ci siano”. Marroni si pone la questione se conviene “fare una strategia con il Fatto”. Licci dice che ha già contattato una società “che fa questo di mestiere e gli ha passato tutto l’incartamento”. Dice di aver “contattato un amico che lavora a Roma ed è molto bravo: Gianluca Comin”». Letta questa intercettazione, che è stata depositata dal Gip Gaspare Sturzo, ci siamo chiesti cosa sia successo dopo questa conversazione. Comin ha parlato con Il Fatto? Cosa ha detto? Cosa ha chiesto? Cosa ha offerto? Cosa ha proposto? Come è stato accolto? Ci aspettavamo una garbata risposta, garbata ed esauriente da parte del direttore de Il Fatto. Invece niente, silenzio. A questo punto bisogna decidere quale codice usare. Perché è chiaro che se uno usasse il Codice Travaglio sarebbero guai. Travaglio stesso sarebbe immediatamente condannato per traffico di influenze e intelligenza col nemico. Voi dite: ma chi vi garantisce che poi Comin sia andato da Travaglio? Nel Codice Travaglio questa domanda non è ammessa: decine di politici sono stati incastrati perché qualcuno diceva qualcosa di loro. Senza nessun bisogno di riscontri. Per la stessa ragione il Codice Travaglio rifiuterebbe l’obiezione di chi volesse avanzare l’ipotesi che Il Fatto possa aver rifiutato una proposta di Comin. O addirittura che Comin volesse solo – e inutilmente – intimidire Il Fatto. È triste, ma è così. Il Codice Travaglio, in presenza di quella intercettazione, condanna senza appello e avvia anche la teoria delle successive condanne a ripetizione. Noi però – per fortuna – siamo garantisti e non applichiamo il Codice Travaglio. Presumiamo la sua innocenza. Però vorremmo che lui ci dicesse cosa gli è stato proposto, o detto, o comunque cosa è successo tra lui e i massimi dirigenti della Consip. E vorremmo saperlo non per condannare – non ci pensiamo nemmeno – ma per capire se la campagna de Il Fatto sul caso Consip fu perfettamente libera o fu in qualche modo condizionata, e dunque deviata, dall’intervento di alcuni dirigenti della Consip. Tutto qui. Ma perché Travaglio non ce lo vuole dire, e non vuole dirlo ai suoi lettori? Questo ci addolora. Però, capetoste, continueremo a chiederglielo, sicuri che prima o poi ce lo dirà.